11-dellimmaginario-popolare

Page 1





Castelli, Raffaele <1838-1919> Dell’immaginario popolare: scritti vari (1882-1906) / Raffaele Castelli; a cura di Antonino Cusumano - Mazara del Vallo: Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, 2010. 1. Sicilia – Usi e costumi. 2. Folclore – Sicilia. I. Cusumano, Antonino 390.09458 CDD-21 SBN Pal0222942 CIP – Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Fondazione Ignazio Buttitta

Questo volume è stato stampato con il contributo dell’Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana. Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana.

© 2010 Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, Mazara del Vallo. Raffaele Castelli, Dell’immaginario popolare. Scritti Vari (1882-1906)


INDICE

Nota introduttiva di Antonino Cusumano Nota del curatore Di un mito moderno. Vincenzo Catinella. Salta le viti Il giuoco fanciullesco ‘a la tortula’ nella provincia di Trapani Altri giuochi Formule sanatorie e orazioncelle diverse in Mazzara Modi di dire e consuetudini religiose del popolo Leggende d’impronte maravigliose Leggende bibliche e religiose di Sicilia Leggende evangeliche e divote

pag.

7

»

32

»

33

»

41

»

45

»

61

»

65

»

83

»

85

»

105

»

113

APPENDICE Anonimo, Massime e proverbii morali Tip. Luigi Ajello Mazara 1854.


RINGRAZIAMENTI L’Istituto Euro Arabo esprime la sua gratitudine alla Fondazione Buttitta e al suo Presidente, Ignazio E. Buttitta, per aver contribuito in modo determinante alla stampa di questo volume.


Nota introduttiva Pitrè e l’antropologia sono stati a lungo in Sicilia, ma non solo in Sicilia, una cosa sola. Tra i fondatori più illustri degli studi italiani di tradizioni popolari, Pitrè ha dato un formidabile e decisivo contributo alla definizione statutaria di quella “demopsicologia” da cui muove la storia del folklore. Nessuno prima di lui – e, in verità, nessuno dopo di lui – è riuscito a dare testimonianza così ampia e sistematica al patrimonio demologico raccolto. Pochi studiosi possono vantare come Pitrè il privilegio di essere identificati come “padri fondatori” della disciplina cui hanno dedicato l’impegno intellettuale di una vita intera. Atlante straordinario dell’universo culturale e folklorico della tradizione siciliana, l’opera monumentale di Giuseppe Pitrè attraversa tutto il complesso delle espressioni e delle manifestazioni della vita popolare e rappresenta una grande e inimitabile impresa scientifica, un ineludibile e fondamentale modello di riferimento per tutti gli studiosi ma anche per i dilettanti che si sono nel tempo cimentati in questo campo destinato ad essere fecondo di frutti e di sviluppi teorici e metodologici. Quanto, prima di Pitrè, veniva rubricato come curiosità, erudizione, idealità sentimentale e vago interesse romantico diventa nei venticinque volumi della sua ciclopica Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane progetto organico e consapevole, autonomo e unitario oggetto di indagine. È appena il caso di ricordare che all’immenso archivio dei materiali e dei documenti etnografici pazientemente


8 recuperati dal medico palermitano hanno attinto numerosissime generazioni di demologi o di semplici illustratori del folklore locale. La Sicilia ha conosciuto un vero profluvio di “nipotini del Pitrè”: corrispondenti periferici che hanno intrattenuto proficui rapporti di collaborazione con lui; allievi che hanno raccolto, approfondito e sviluppato la difficile e ingombrante eredità delle sue ricerche; epigoni che hanno adottato e replicato i suoi schemi di rilevazione e le sue categorie di classificazione, con esiti che variano dalla buona divulgazione alla sterile ed estenuata imitazione. Lungo le direttive tracciate dall’opera pitreana si è formata un’amplissima e originale letteratura specialistica, una solida tradizione scientifica di studi demologici, ma anche una “folkloristica locale e diffusa” che, pur nei limiti delle debolezze speculative e nella frammentarietà del generale impianto teorico, ha tuttavia avuto il merito, se non altro, di produrre un vasto patrimonio documentario e di far da efficace contrappunto a certe storie patrie retoriche ed enfatiche. I vari e diseguali contributi che sono stati elaborati in nome e all’ombra del Pitrè, soprattutto nella prima metà del XX secolo, hanno costituito i mille piccoli tasselli necessari per ricomporre il complessivo mosaico della conoscenza antropologica della Sicilia tradizionale. A guardar bene, sono riconducibili a Pitrè almeno due precisi e, per certi aspetti, opposti orientamenti scientifici, indirizzi di studio ma anche atteggiamenti ideologici ovvero semplici disposizioni intellettuali. Dialetticamente compresenti nelle diverse opere dello stesso etnografo palermitano, queste due anime culturali nell’oltrepassare l’orizzonte ottocentesco percorreranno buona parte delle vicende storiche della demologia siciliana, giungendo fino al nostro tempo attraverso segrete diramazioni carsiche o in forme solo apparentemente nuove. Da un lato, l’idea del folklore rimasta romanticamente associata al “senso comune” delle radici identitarie sembra risalire a quel popolari-


9 smo sentimentale, nutrito di geloso e orgoglioso regionalismo, che ha prodotto e riprodotto all’infinito, con innumerevoli varianti, il mito di un popolo depositario di antiche saggezze e di virtù superiori. A questo filone appartiene una eterogenea e sterminata letteratura tanto più caduca quanto più largamente inficiata dai cliché dell’idoleggiamento sicilianista e dagli schemi di una rappresentazione prevalentemente morale ed estetica del mondo folklorico. Dall’altro lato, la cultura tradizionale può essere identificata come arcaismo, sopravvivenza, in un’ottica sostanzialmente neoevoluzionistica o neostoricistica, qualcosa a cui continuare a guardare con gli strumenti e i modelli di classificazione di matrice positivista o con le sperimentate tecniche del comparativismo spaziale e temporale. Il popolo in questa versione è ancora “volgo” irredimibile, conservatore e superstizioso, chiuso entro una dimensione sociale immobile ed esente da conflitti. Nell’una come nell’altra linea di ricerca demologica la materia popolare oggetto di studio è quasi sempre stata la stessa: le tradizioni orali cantate e non, le testimonianze letterarie, le credenze e gli usi consuetudinari che meglio si prestavano alla rappresentazione di una certa Sicilia da celebrare, di una certa immagine mitica da ribadire. Su questi temi ed entro questi repertori si sono adoperati con onesti e rigorosi lavori di scavo e di ricognizione frequentatori non occasionali del folklore, studiosi seri e metodologicamente scaltriti, acuti e originali intellettuali delle province più remote, nonché una larga massa di raccoglitori più o meno improvvisati, di scrupolosi o generici compilatori, di collezionisti di bizzarrie ovvero semplici dilettanti, «manovali onesti e attenti anche se valorosi»1. La verità è che le tradizioni popolari sono state − e per alcuni versi sono ancora stimate − disci1

G. Cocchiara, Storia del folklore in Italia, (1947), n. ed. con una nota di A. Cusumano, Sellerio Palermo 1981, p. 174.


10 pline marginali, tutto sommato “periferiche” nel panorama delle scienze umane, e per questo aperte al contributo di quanti, pur sprovvisti di specifici saperi critici, mostrano comunque un qualche interesse o una certa sensibilità per il mondo che indagano e descrivono. Nel novero dei collaboratori di Giuseppe Pitrè, corrispondente e suo amico personale, il mazarese Raffaele Castelli (1838-1919) fu significativa figura di intellettuale, folklorista tra i più rappresentativi e avvertiti nel panorama degli studiosi della disciplina e del tempo in cui visse. Non un “nipotino”, dunque, di Pitrè, ma un suo contemporaneo, un fedele estimatore, un umanista stimato e appartato che tuttavia ha dialogato con gli ambienti culturali nazionali ed europei più avanzati e prestigiosi. Con Pitrè ha intrattenuto un lungo e assiduo rapporto epistolare2, che dal 1876 si protrasse con qualche interruzione fino al 1910. Sotto la guida del padre fondatore della demologia italiana, Castelli ebbe modo di collaborare fin dal primo numero con quel glorioso Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, che poteva vantare le prestigiose firme di Sebillot e Muller tra gli stranieri, e di Michele Barbi e Benedetto Croce tra gli italiani, rappresentando in Europa la terza grande iniziativa editoriale, dopo la francese Mèlusine e l’inglese Folk-Lore Record, nati rispettivamente nel 1877 e nel 1879. La rivista fu, in verità, nei suoi ventisette anni di vita (fino al 1909), palestra e scuola per i folkloristi del tempo, e Pitrè fu per loro il maestro autorevole e indiscusso, il sicuro punto di riferimento, il modello teorico e metodologico a cui ispirarsi, 2

L’epistolario Castelli-Pitrè si conserva presso la Biblioteca del Museo Pitrè di Palermo, ai segni P-A-3, consta di 91 lettere, la maggior parte delle quali risale al periodo 1876-1883. Sono depositate soltanto le lettere autografe dello scrittore mazarese, essendo andate disperse le risposte che Pitrè gli inviò. Sulle Lettere di Raffaele Castelli a Giuseppe Pitrè cfr. la tesi di laurea di M. G. Costa, (rel. G. Bonomo), Università di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1969-1970.


11 l’anello di congiunzione con le istituzioni culturali e con le industrie di stampa. «Nell’Archivio si formò una coscienza scientifica, mediante la quale fu possibile arricchire le cognizioni regionali portandole ad un livello comune: il più alto concesso dalle conoscenze di quegli anni»3. In un’epoca e in una regione in cui i mezzi d’informazione e di trasporto erano lenti e precari, i folkloristi siciliani crearono una solida rete di relazioni reciproche, un efficace sistema di comunicazione e di aggregazione mediante il quale, in collegamento con la cultura nazionale ed europea, finirono in molti casi con il superare le angustie, le inerzie e le resistenze della provincia, sperimentando le prime organiche forme di coordinamento e di indirizzo per una più vigile e qualificante attività di ricerca delle tradizioni culturali locali. Se non ci fosse stato un intellettuale instancabile e dinamico della tempra del Pitrè, una mente organizzatrice e animatrice come la sua, «l’architetto che sa costruire, pietra su pietra, il suo mirabile edificio»4, sarebbe probabilmente andato disperso o sarebbe rimasto inespresso un formidabile patrimonio di energie intellettive e di risorse investigative, non sarebbe stato possibile mobilitare quel fervore di ricerche e di studi che coinvolse decine di letterati, di filologi, di dialettologi, di storici o più semplicemente di uomini colti della provincia che si trasformarono in demologi o comunque informatori e collaboratori periferici del medico palermitano. D’altra parte, l’opera pitreana non sarebbe stata quel grande compendio delle tradizioni popolari siciliane, quello straordinario e mirabile caleidoscopio di materiali e documenti folklorici dispiegato nelle pagine della sua sterminata produzione, se il suo autore non avesse potuto contare su una fitta e capillare trama di corrispondenti locali: arcipreti di parroc3 4

G. Cocchiara, op. cit., p.159. Idem, p. 174.


12 chia, insegnanti, piccoli e medi borghesi, eruditi, baroni nostalgici o illuministi, appassionati e volenterosi dilettanti, ma anche acuti e attenti ricercatori. A tutti Pitrè diede pubblica testimonianza della sua gratitudine, riconoscendo il debito contratto con ciascuno, per tutti fu prodigo di consigli, suggerimenti, informazioni, aiuti. Come molti intellettuali del tempo, agli interessi demologici Raffaele Castelli pervenne per le antiche e sperimentate vie della letteratura. Latinista colto e raffinato, esperto di traduzioni e profondo conoscitore dei testi del mondo classico5, egli guardava alle tradizioni popolari con l’ottica evoluzionista di chi vi ritrovava reminiscenze del passato, elementi di un sostrato culturale irriducibile e persistente. Non il popolo romanticamente inteso era oggetto delle sue indagini, quanto piuttosto il volgo con le sue «ubbìe e superstizioni» da documentare come patrimonio collettivo di umanità e di memoria storica. I limiti teorico-metodologici di Castelli erano in fondo quegli stessi entro i quali si muoveva Pitrè: «Troppo spesso – scriverà Ernesto De Martino – l’orientamento della ricerca fu disturbato da un comparativismo senza prospettiva, a caccia di “analogie” nel folklore europeo, nel mondo classico o nel mondo primitivo, senza il controllo di

5

Professore per più di quarant’anni presso il locale Ginnasio e Preside dello stesso dal 1887 al 1911, Raffaele Castelli è stato autore delle traduzioni in versi sciolti dei Fasti e del primo Libro delle Tristezze di Ovidio. Per un profilo biografico e bibliografico cfr. A. Cusumano, Raffaele Castelli, un intellettuale periferico, in “Libera Università Trapani”, anno X n. 28, luglio 1991, pp. 27-51; Idem, Raffaele Castelli, in A. Cusumano e R. Lentini (a cura), Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, Sigma Palermo 2004, pp. 363-67. Pagine dedicate ai contributi demologici di Castelli si trovano anche nel saggio di F. Giallombardo, Il Trapanese nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, in A. Calcara (a cura), Demologia e dinamica culturale, ENAL Trapani 1976, pp. 76-92.


13 un ben definito problema storico-religioso»6. Ma pur dentro questi limiti, da studiosi come Raffaele Castelli abbiamo ereditato quella significativa mole di documentazione che ha consentito di preparare la strada alla conoscenza antropologica del mondo popolare siciliano, in un tempo e in una società che negava non solo l’importanza ma perfino l’esistenza della cultura folklorica. Dalle lettere inviate a Pitrè si ricava la consapevolezza delle condizioni di isolamento in cui l’intellettuale mazarese si trovava, in una città che definisce più volte «un deserto», priva com’era di una biblioteca e della strada ferrata, afflitta dall’epidemia del vaiolo prima, e dal dilagare del colera dopo, che infestò anche «la bella e infelice Palermo»7. L’epistolario, se lascia in ombra gli echi delle tensioni sociali di cui si era fatto interprete il movimento dei Fasci dei Lavoratori, getta luce sul percorso umano e culturale di Castelli, che si giovò dell’amicizia con l’insigne maestro palermitano per uscire dalle secche del provincialismo e per maturare una più acuta sensibilità filologica e critica. Dallo spoglio del carteggio apprendiamo le laboriose vicende editoriali, i progetti di ricerca, le assidue forme di collaborazione tra gli studiosi, unitamente alle preoccupazioni familiari, ai crucci e alle soddisfazioni personali. In assenza di altri dati informativi, non essendoci pervenuta alcuna documentazione dall’archivio privato andato disperso, le novantuno lettere conservate presso il Museo Pitrè restano l’unica fonte conoscitiva di cui disponiamo intorno alla vita e alle opere di Raffaele Castelli. Ne esce il ritratto di una personalità che mostra estrema deferenza nei confronti dell’illustre interlocutore, non esita a considerare i suoi scritti «tenui lavori», «scartafacci», «coserelle», «modeste spigolature», «meschini contributi alla sua vasta ope-

6 7

E. De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore Milano 1961, p. 26. Lettera del 16 ottobre 1885.


14 ra», di cui «potrà fare bella e buona cenere da ranno, ma non valgono nemmeno tanto»8. Pitrè mostra invece di apprezzare i materiali di documentazione raccolti dall’amico mazarese, a tal punto da riconoscerne l’interesse scientifico e da utilizzarli pienamente nei suoi testi. Proverbi, indovinelli, giochi popolari attestati da Castelli a Mazara li ritroviamo nei diversi volumi dell’opera enciclopedica del folklorista palermitano che nelle pagine introduttive ricorda con gratitudine i suoi preziosi contributi. Lo stesso Pitrè promuove la stampa su Nuove Effemeridi Siciliane delle Credenze e usi popolari e poi sull’Archivio dei diversi saggi e articoli che Castelli via via andava scrivendo dietro l’incoraggiamento del maestro. Tra i due studiosi si stabilì un solido rapporto di amicizia, anche se quasi sicuramente non ebbero mai modo di incontrarsi. Quando apprende che Pitrè è malato, Castelli si preoccupa della sua salute e lo invita a Mazara: «Non posso tacerle che se vuol mutar aria, la mia povera casa è sempre aperta per Lei»9. Parole di stima e di affetto nei confronti di Pitrè ricorrono nelle lettere di Castelli che s’interessa con sollecitudine fraterna degli eventi familiari e personali dell’amico: la malattia della madre, il suo matrimonio, la nascita della prima figlia, la polemica con Leonardo Vigo10. La corrispondenza si fa più rada a partire dal 1884 fino a cessare del tutto nel 1910. Non conosciamo le ragioni di questa interruzione. Nell’ultima lettera, datata 11 aprile 1910, Castelli lamentava il ritardo con il quale attendeva di ricevere le copie 8

Lettera del 27 aprile 1878. In un’altra, datata 28 marzo 1880, Castelli informa Pitrè di avergli spedito in pari data un suo breve lavoro e rispettosamente aggiunge: «Lo stampi se crede; se no lo consegni al suo camino, che mi ringrazierà di avergli fatto fare un’eccellente fiamma letteraria». 9 Lettera del 3 agosto 1879. 10 «Ho trovato in Lei in quattro anni che La conosco un ottimo cuore ed altre invidiabili qualità» (Lettera dell’11 febbraio 1880); «Io la stimo più che un fratello e con Lei non avrei segreti» (Lettera del 22 dicembre 1880).


15 stampate dei suoi Racconti religiosi. In una missiva risalente a quattro anni prima, si rammaricava dei tagli che il suo manoscritto sulle leggende evangeliche e divote aveva subìto e dichiarava il proposito di pubblicare racconti storici e modi di dire religiosi. La rottura nei rapporti epistolari coincise con la cessazione delle pubblicazioni dell’Archivio e ne è questa probabilmente la causa. Qualcosa nelle relazioni tra i due studiosi si era forse incrinato, e gli ultimi scritti di Castelli non videro mai la luce, andando definitivamente dispersi. Presso la Biblioteca e l’Archivio del Museo Pitrè la ricerca che abbiamo condotto tra le carte e gli appunti del folklorista palermitano non ha prodotto alcun esito. Le pagine di questo volume raccolgono i saggi editi d’interesse folklorico di Raffaele Castelli, ad eccezione delle Credenze ed usi popolari siciliani, tra i suoi testi quello più corposo e quello che ha conosciuto più ristampe, anche recentemente. Si tratta di articoli e contributi pubblicati su riviste, tra il 1882 e il 1906, da allora non più ristampati, e che stimiamo oggi preziosi non solo per la loro rarità. Vi abbiamo aggregato alcune pagine, tra le più significative, stralciate dalle opere di Giuseppe Pitrè, attribuite dallo stesso studioso palermitano all’autore mazarese. Sotto il titolo Dell’immaginario popolare, l’antologia che proponiamo mette insieme gli scritti su miti, preghiere, modi di dire, giochi e leggende, raccolti a Mazara alla fine del secolo XIX: un ricco patrimonio di materiali orali riconducibile all’orizzonte simbolico della cultura popolare. È noto che le forme di rappresentazione agiscono nel fondo di quella memoria collettiva per la quale gli avvenimenti reali contano spesso assai meno delle realtà costruite dall’immaginazione. Del mondo, del suo ordine naturale e di quello etico-sociale, delle sue architetture visibili e ancor più di quelle invisibili, i racconti, siano essi apologhi o affabulazioni, tutte le parole comunque legate alla tradizione orale concorrono a tracciare una straor-


16 dinaria mappa ideale e ideologica. Il narrare abita in verità nello statuto dell’uomo, alle origini dell’umanità. Gli studiosi della mente hanno dimostrato che il racconto è la prima forma del conoscere, che tra noi e il mondo, a fondamento dell’evoluzione e della storia umana, non ci sono che le parole del raccontare. Abbiamo imparato e impariamo a parlare raccontando. «Raccontare e ascoltare racconti – ha scritto Umberto Eco – è una funzione biologica. Non ci si sottrae facilmente al fascino degli intrecci al loro stato puro (…). Ogni discorso ha una struttura profonda che è narrativa o che può essere sviluppata in termini narrativi»11. In principio, dunque, fu il racconto. Se leggiamo i racconti, le leggende, i miti che Raffaele Castelli ha documentato, vi ritroviamo nelle loro articolazioni interne e nella loro intima orditura la natura eminentemente orale dell’arte del narrare, quei modi popolari di organizzare le scansioni temporali e di teatralizzare i fatti con dialoghi, iterazioni, formule recitative. La vita e il mondo che vi sono rappresentati diventano intelligibili proprio perché narrabili. Paradossalmente non siamo noi a raccontare le storie, ma sono le storie a raccontare di noi, delle nostre paure, delle nostre speranze, dei sogni e dei bisogni, del nostro modo di stare nel mondo. Così la narrativa di tradizione orale, all’interno della quale è, a volte, difficile determinare le linee di demarcazione tra i diversi generi (mito, leggenda, fiaba, racconto), rinvia a forme diverse di un unico immaginario sociale, ad un patrimonio simbolico di rappresentazioni collettive che ci informano su quello che gli uomini pensano, dicono, temono, desiderano, immaginano. Sicuramente non del tutto veri nella realtà oggettiva, i fatti narrati lo sono nella realtà costruita, elaborata, concretamente agita e vissuta. «I miti – ha scritto Antonino Buttitta – come opera umana sono altrettanto

11

U. Eco, Sulla letteratura, Bompiani Milano 2002, p. 264.


17 veri quanto gli avvenimenti storici. Gli uni e gli altri sono prodotti storici e alla storia appartengono»12. La storia del bandito mazarese Sata li viti è in questo senso esemplare. Come davvero originale e moderna è la lettura che di questo racconto Raffaele Castelli proponeva più di un secolo fa. Vincenzo Antonio Catinella (1675-1706) fu il classico brigante dell’epoca: astuto e violento, agile e audace. Costretto, dopo una lunga serie di furti, a nascondersi per sfuggire alla giustizia, divenne in breve il capo di una feroce banda di fuorilegge, un bandito abbastanza famoso e temuto tra quelli che infestavano in quel tempo le campagne e le città della Sicilia occidentale. Prima di Castelli avevano scritto delle sue imprese Giuseppe Merati13, Giovanni Evangelista Di Blasi14, Antonino Mongitore15 e infine Salvatore Salomone Marino che, nelle Storie popolari in poesia siciliana16, riprodusse il poemetto di origine letteraria sulla storia del bandito, stampato nei primi anni del secolo XVIII. Lo stesso Pitrè17 aveva pubblicato alcuni frammenti di un racconto in versi con protagonista Sata li viti. Vi si narra di una spavalda ruberia compiuta nel 1704 ai danni di un ricco barbiere palermitano del piano di Lattarini, dove fu catturato uno dei suoi uomini più fidati, tale Francesco Vizzini che finì sulla forca il 23 agosto di quel-

12

A. Buttitta, Storia mitica e miti storici, in Mito storia società, Atti del III Congresso di studi antropologici (1982), Palermo 1986, p. 39. 13 Vita del servo di Dio mons. Bartolomeo Castelli, vescovo di Mazara, Venezia 1738, pp. 119-124. 14 Storia cronologica dei Vicerè, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, p. 453. 15 Diari di Palermo, Palermo 1871, tomo II, p. 208. 16 Palermo 1875, n. XI, pp. 115-143; e poi in “Nuove Effemeridi Siciliane”, s. III, 1876, p. 326. 17 Canti popolari siciliani, Luigi Pedone Lauriel Palermo 1871, vol. II, pp. 114-117.


18 lo stesso anno18. Ad altri assalti e rapine, consumati nel Palermitano ma anche nell’Agrigentino, si fa cenno nella storia popolare raccolta da Pitrè: ne furono vittime, tra gli altri, una vedova usuraia di Prizzi e l’arciprete di Ravanusa, che fu depredato di ogni avere e poi fatto letteralmente a pezzi19. La fama di Catinella era, dunque, attestata in diverse province della Sicilia, unitamente alla sua straordinaria agilità di spostamenti, che gli fece guadagnare il titolo del popolare soprannome20. Castelli riferisce soprattutto delle imprese del bandito nella sua città natale, descrive il rocambolesco assalto al monastero di S. Michele, dà spazio alle testimonianze delle fonti orali, vive ancora negli anni in cui scriveva. Nel trapassare dalla storia al mito, il malfattore, «più o meno ordinario», è diventato paladino dei deboli e giustiziere dei potenti, «vindice di torti», «protettore di oppressi», al pari del leggendario campione medioevale delle ballate inglesi: Robin Hood. Nella credenza popolare la sua figura è nobilitata da significative azioni di generosità e solidarietà verso gli indigenti, da una sete di giustizia contro ogni abuso e privilegio. Vittima più che autore delle violenze e delle prepotenze, Sata li viti assume nella dimensione folklorica il ruolo di tutore dell’onore femminile, avendo intrapreso la sua carriera di 18

L’ottava così recita: «La prima arrubbatina fu on varberi / vicinu di Sant’Anna e Lattarini, / tirannu scupittati a cantuneri, / ppi fari ‘ntimuriri a li vicini: / si lamintau la ceca mugghieri, / a cui arrubbaru l’oru e li zicchini; / Sata li viti satò comu un livreri, / e Vizzini fu ‘mpisu a Lattarini». 19 cfr. S. Lo Presti, Briganti in Sicilia, Gelka Palermo 1996, p. 23. 20 «Mentri lu circavanu a Palermu, Sataliviti cuddava a Missina. Lu nomu Sataliviti facia trimari a tutti, né c’era nuddu chi si putia guardari, pirchì ‘nta lu megghiu si lu truvavanu dintra, ca avia trasutu parti di la finestra, parti di li canali, parti di la porta stacanciatu, e macari di jornu e jornu»: così si legge in un racconto documentato da S. Salomone Marino, Sauta li viti, in “Nuove effemeridi Siciliane”, s. III 1876, p. 326, ora in Il paese del giudizio, Il Vespro Palermo 1977, p. 68.


19 rapinatore dopo aver ucciso chi aveva sedotto sua sorella e aver così restaurato la dignità e il prestigio del nome familiare. Non è certamente inusuale che nella tradizione orale le storie dei briganti diventino materia di leggende e narrazioni epiche. Si pensi ai banditi Musolino e Giuliano, le cui gesta sono state interpretate a livello popolare come dirette a sovvertire l’ingiusto ordine sociale ed economico. Allo stesso Sata li viti, così fortemente mitizzato, si attribuivano poteri soprannaturali. La leggenda del bandito eroe e redentore si riconnette tradizionalmente al culto delle grotte ove si crede si nascondino tesori incantati. Gli ori e le ricchezze da lui accumulati sono dunque da ricercare in una cavità scavata in una montagna di Castellammare del Golfo. Un’altra trovatura è segnalata presso la contrada San Miceli, nei pressi del fiume Mazaro, poco lontano dal punto denominato «malupassu», dal luogo cioè in cui la banda si appostava per sorprendere convogli e passeggeri. Raffaele Castelli non ha stranamente approfondito i vari aspetti di questa tradizione plutonica locale, che doveva essere diffusa a quell’epoca se è vero che ne è stato vivo il ricordo fino a qualche anno fa21. È certo che il nome di Sata li viti «rimase nei modi proverbiali del nostro popolo per denotare una persona agile, irrequieta e audace»22, qualcuno in grado di compiere azioni per altri impossibili (E chi è Sata li viti?), qualcuno da invocare contro i soprusi e le angherie (Ci vulissi Sata li viti! ). Il saggio di Castelli, dal taglio essenziale e moderno, ha il merito di aver individuato nel racconto popolare le costanti storicoculturali all’origine della fondazione del mito, di aver tentato in qualche modo l’analisi morfologica del sistema narrativo. Egli 21

cfr. G. Norrito, Il vero bandito mazarese e i tesori nascosti, Trapani 1972, p. 18 e ss. 22 F. Napoli, Storia della città di Mazara, Stab. Tip. Hopps Mazara 1932, pp. 171-72.


20 ricostruisce i fatti elaborati dalla memoria e dall’immaginario collettivo, rende conto dei materiali mutuati dalla tradizione, rivendica la verità storica dei miti, fino a chiedersi: «Quanta storia non si nasconde ne’ miti dei popoli antichi e quanta luce non ne acquisterebbero i fatti storici ed i fatti dello spirito umano, se noi potessimo indovinarli con certezza?». A guardar bene, lo studioso mazarese chiama «fatti dello spirito umano» quei modelli ideologici e ideali che muovono a livello profondo le strutture mitiche del pensiero e le azioni pratiche degli uomini, quella forza dei simboli che converte e risolve sul piano utopistico e salvifico le dicotomie inconciliabili della vita quotidiana. Il senso vero del mito, di tutti i miti, sta proprio in questa tensione epica, nella ricerca culturale di dare un orizzonte di speranze alle irriducibili attese, di inventare un nuovo ordine contro il disordine del mondo, di risarcire delle sconfitte della realtà e riscattare le ingiustizie della storia. In questo senso, Castelli accosta opportunamente la figura del bandito Catinella a quella carismatica di Garibaldi, l’eroe che ritiene ancora sul versante dell’immaginario popolare, nonostante le indicazioni contrarie della storiografia, quel po’ di fuorilegge o di sovversivo che lo possono far assimilare ad un bandito, venerato perfino come «un santo che guarisce i bambini, ed ispira tanta riverenza a’ banditi medesimi, da costringerli a risparmiare una vittima, perché trovano in petto dell’infelice un medaglione col ritratto del Generale». Tanto puntuale e originale era la ricognizione critica condotta dallo studioso mazarese che Giuseppe Pitrè ne intuì il valore e si affrettò a far stampare il manoscritto sul primo numero dell’Archivio. Avrebbe dovuto essere pubblicato, in verità, assieme ad un altro articolo dello stesso Castelli su un tale Francesco Frusteri, un contadino che il 5 novembre del 1817 fu giustiziato con la pena della decapitazione per aver ucciso la propria madre a difesa della moglie. A questo personaggio era connessa la pratica di uno speciale culto, attestato a Paceco,


21 che consisteva in un lungo viaggio penitenziale in onore del decollato e in una viva devozione per la sua anima. Quando Castelli inviò il testo della sua ricerca al maestro palermitano, quest’ultimo sollevò alcune obiezioni e consigliò l’amico di apportare qualche non meglio definita modifica23. Ignoriamo le ragioni che spinsero Pitrè a non dare più alle stampe questo scritto. Ciò che conosciamo intorno al Frusteri e alla leggenda popolare che ne celebra i prodigi è attinto dalle pagine degli Usi e costumi24, in cui però l’autore, in questa circostanza, omette di citare la fonte delle sue informazioni. Un’attenta ricognizione condotta presso l’Archivio del Museo Pitrè non ha prodotto purtroppo alcun risultato25. Resta vero tuttavia che se Mazara è fra tutte le città della provincia quella che risulta più largamente e più compiutamente rappresentata nella Biblioteca pitreana, questo lo si deve grazie ai numerosi contributi di Raffaele Castelli. Mentre l’Archivio accolse il prezioso saggio su Il giuoco fanciullesco a la tortula, straordinario studio che incrocia con sorprendente consapevolezza teorico-metodologica dati linguistici e materiali etnografici, nel volume Giuochi fanciulleschi siciliani 26, su un totale di 233 giochi elencati e descritti da Pitrè ben 53 sono quelli che sono 23

«Non so quali modificazioni – rispose Castelli, in una lettera del 12 novembre 1881 – possa io fare alla seconda parte dell’articolo, perché né me le indica V. S. né il sig. Salomone. Io seguirò interamente il parer loro, se pure non istimate Voialtri di farvi que’ mutamenti che vi paiono necessari». 24 G. Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, L. Pedone Lauriel Palermo 1888, vol. IV, pp. 8-9. Sul personaggio di Paceco ha scritto recentemente un breve articolo G. Culcasi, Frusteri tra realtà e leggenda, in “Paceco”, n. 5, aprile 2001, pp. 49-52. 25 Colgo l’occasione per ringraziare Ida Zammarano Tedesco e Patrizia D’Amico, archivisti presso il museo Pitrè, per la collaborazione e la disponibilità offerta. 26 G. Pitrè, Giuochi fanciulleschi siciliani, L. Pedone Lauriel Palermo 1883.


22 stati raccolti a Mazara, esplicitamente attribuiti all’opera di Castelli; alcuni di essi li abbiamo inseriti in questa antologia non solo per restituire all’autore la paternità dei suoi scritti ma anche per attestarne il valore storico-documentario. La lettura di questi giochi di cento anni fa ci offre uno scorcio della grande ricchezza e versatilità della fantasia ludica, costruita sull’assenza o sull’estrema povertà dei giocattoli allora disponibili. A leggere la struttura logica che li sostiene è possibile cogliere le regole interne dei sistemi socioeconomici che li hanno prodotti, l’ordine dei significati e le gerarchie normative che la comunità locale, ancora prevalentemente rurale, veicolava attraverso le dinamiche dei giochi. Riuniti sotto il titolo Formule sanatorie e orazioncelle diverse in Mazzara, gli scongiuri raccolti da Castelli, ancorché di numero limitato, hanno rappresentato materiale di studio e di riferimento d’importanza non trascurabile, tant’è che questi dati sono stati interamente ripresi e riportati da Pitrè27 e da altri dopo di lui28. Si tratta di formule magico-terapeutiche, di invocazioni divinatorie, di historiole che presuppongono spazi, tempi e modalità di recitazione altamente formalizzati. Le parole hanno in queste giaculatorie una tale potenza simbolica da esercitare una fascinazione coercitiva di per sé terapeutica. Agiscono sul mondo invisibile che sfugge al controllo razionale dell’uomo, su quell’insieme di presenze misteriose, di ombre e di fantasmi che abitano l’universo delle nostre paure e delle nostre attese. Innalzano argini e difese contro i mali più oscuri che insorgono nei momenti di maggiore precarietà esistenziale: quando la malattia 27

G. Pitrè, Proverbi, motti e scongiuri del popolo siciliano, L. Pedone Lauriel Palermo 1910, p. 389 e ss. 28 cfr. G. Cocchiara, Scongiuri e orazioni, in Problemi di poesia siciliana, Palermo 1939, p. 21 e ss; G. Bonomo, Scongiuri del popolo siciliano, Palumbo Palermo 1953.


23 si fa beffe della scienza e alla sfera magica o metafisica resta affidata l’unica speranza di guarigione o di liberazione. La complessa dimensione della religiosità popolare ha trovato in Raffaele Castelli un attento osservatore. Lo studioso mazarese ne ha indagato non pochi aspetti, sul piano delle credenze e su quello delle pratiche consuetudinarie. Nel declinare il Calendario popolare la vita quotidiana appare permeata di un intenso sentimento di devozione per i santi protettori, che articolano le scansioni del tempo, vigilano sui lavori nei campi e ne propiziano i frutti. Come gli astri e le costellazioni del cielo, essi orientano i comportamenti degli individui, assicurano il succedersi ordinato delle stagioni, secondano la fecondità della terra e la riproduzione della vita. «Il popolo – scrive Castelli – non sa pensare che colle idee religiose», nella misura in cui l’esigenza del sacro muove dalla necessità di esercitare una qualche forma di controllo sullo spazio e sul tempo. Da qui il calendario delle tradizioni orali e degli usi rituali strutturato secondo le ricorrenze festive e le attività agricole dell’anno. Attraverso un puntale spoglio dei mesi l’autore passa in rassegna i modi di fare e di dire connessi al culto dei santi e al ciclo stagionale delle opere rurali. Apprendiamo dunque quando si seminano le piante e quando si raccolgono i frutti, quando si macellano i suini e quando si fanno coprire gli ovini, quando si tagliano le api e quando si apre la pesca del tonno. Siamo infine informati sulle abitudini venatorie mazaresi, sulle fiere tradizionali locali, sulle usanze alimentari legate a determinate occasioni festive. Ma le pagine più interessanti scritte da Castelli sono probabilmente quelle relative alle leggende di argomento religioso, quasi tutte opportunamente e integralmente riportate in dialetto. Nulla sappiamo sulla metodologia e sulle tecniche di rilevamento dei testi e dobbiamo, in tutta evidenza, supporre che lo studioso mazarese abbia, in mancanza di mezzi meccanici di registrazione, trascritto, e quindi rielaborato, quanto era originariamente


24 nella forma orale. I testi raccolti sulle pagine non sono, dunque, il prodotto di trascrizioni ortofoniche, ma se mai la loro trasposizione mediata da e in altro codice, quello della scrittura, con la quale le leggende tra tutte le produzioni popolari restano quelle più strettamente imparentate e contaminate. Esse sono, del resto, per loro natura narrate in occasioni e contingenze particolari, in contesti nei quali l’informatore è stimolato dal raccoglitore. La loro stessa fonte orale non assicura neppure, come ha notato Cirese, «l’appartenenza a quel mondo che genericamente diciamo popolare (…). Anche in caso di tradizione esclusivamente orale e di fonte assolutamente popolana o popolare, l’oralità della fonte non esclude che i testi abbiano antecedenti extra-folklorici»29. Ciò vale soprattutto per le leggende di carattere religioso, con protagonisti Gesù, la Madonna, san Pietro e altri apostoli, nonché personaggi della Bibbia e santi patroni. In questi racconti è più evidente l’influsso della letteratura colta, è più facile cogliere le contaminazioni tra le fonti scritte e quelle orali, i percorsi, i nessi e i passaggi dall’agiografia maturata in ambienti ecclesiastici alle forme tradizionali della novellistica. Tra le Sacre Scritture e le leggende religiose ci stanno i fogli volanti, le Vite dei santi, gli almanacchi e le stampe popolari, gli opuscoli di pietà, i libretti da pochi soldi della letteratura di colportage, tutte quelle opere di divulgazione delle pagine del Vecchio e del Nuovo Testamento diffuse tra gli strati semicolti dei devoti. A questa copiosa produzione di testi scritti “per il popolo” e destinati a circolare presso gli ambienti da alfabetizzare vanno, dunque, ricondotti i racconti raccolti a Mazara da Castelli, che per la loro brevità hanno i caratteri dell’exemplum, della parabola con intenti didascalici, di ammaestramento etico, a suffragio di una verità morale. Così vanno lette le leggende bibliche e reli29

A. M. Cirese, Introduzione, in D. A. Conci (a cura), Da spazi e tempi lontani. La fiaba nelle tradizioni etniche, Guida Napoli 1991, pp.7-8.


25 giose e quelle evangeliche e divote, che costituiscono varianti locali di un amplissimo repertorio di materiali di affabulazione informati a questi temi di religiosità popolare. Vi si dispiega la visione di un mondo in cui colpe e pene sono governate dall’imperscrutabile volontà della giustizia divina, la cui logica, apparentemente incomprensibile, colpisce indiscriminatamente colpevoli e innocenti, e si giustifica nell’orizzonte dei misteriosi e superiori disegni (l’arcani di Diu), provvidenzialmente ignoti ai mortali. Le leggende mazaresi sono molto lontane da quel sentimento popolare di rovesciamento della morale cristiana che ha ispirato Le parità di Guastella30, non c’è nulla di eretico né tanto meno assimilabile a quell’antivangelo, di cui a proposito di questa opera ha scritto Sciascia31. Traspare piuttosto quella ingenua e mite «confidenza coi celesti» che muove dalla volgarizzazione e rielaborazione dei vangeli apocrifi e spinge ad umanizzare i santi, ad approssimarli alla terra, alle debolezze e agli umori degli uomini. Si scende dalla lettera canonica e solenne delle Sacre Scritture al pianoterra della domesticità del quotidiano, nell’intima frequentazione del Gesù bambino e adulto, dei santi capricciosi e peccatori. Ambientate nel tempo in cui lu Patri Maistru caminava cu l’Apostuli per le strade del mondo, le storie raccontano, infatti, di Gesù e della sua infanzia, della golosità di san Pietro e delle ripetute vedovanze della sorella. Mutuano i temi narrativi della Sacra Famiglia, della Natività e della Fuga in Egitto, della Passione di Cristo e della ricerca del Figlio da parte di Maria. Nella declinazione folklorica le sollecitudini pedagogiche e i motivi edificanti e devozionali si stemperano nelle argu-

30

S. A. Guastella, Le parità e le storie morali dei nostri villani, Introduzione di I. Calvino, Ed. Regione Siciliana Palermo 1969. 31 cfr.L. Sciascia, Feste religiose in Sicilia, Leonardo da Vinci ed. Bari 1965, p. 24.


26 zie degli apostoli itineranti che peccano ora d’ingenuità, ora di spregiudicatezza. Di particolare interesse è il racconto che narra del culto per un crocifisso conservato in un imprecisato convento. Lu Signuri di Lùttisi rinvia forse ad un antico e dimenticato toponimo o è piuttosto più ragionevole ipotizzare un refuso tipografico che sta per Lu Signuri di Lucchisi, con riferimento ad una devozione popolare legata ad un crocifisso ligneo conservato a Lucca Sicula (in prov. di Agrigento), la cui leggenda raccolta da Giuseppe Pitrè32 presenta alcune varianti e non poche analogie strutturali con quella documentata da Castelli. Nel comune orizzonte miticoreligioso, si dipana una storia eminentemente simbolica che sviluppa il motivo archetipico del riscatto e della giustizia egualitaria, attraverso la ricomposizione dell’ordine sociale e degli equilibri esistenziali, non meno che un’opera di risarcimento morale e materiale. Il lungo viaggio del devoto pellegrino, che alla sua condizione di povertà aveva strappato un grano per offrirlo al Cristo, si risolve in una restituzione moltiplicata della somma donata pari a 400 onze, secondo la rigorosa logica del dono votivo che si regge sull’implicita promessa della grazia ovvero del contraccambio. Entro lo stesso paradigma della reciprocità sembrano trovare soluzione le preghiere di quanti avevano affidato al viandante i propri problemi: il principe che cercava un partito per la figlia da sposare lo troverà quando avrà imparato a praticare l’elemosina; il giardiniere vedrà fruttificare i suoi alberi se abbatterà il muro di recinzione così da “rinfrescare la bocca” ai passanti; l’ortolano infine sconfiggerà la moria degli animali se cesserà di bestemmiare. Chiarito con Lévi-Strauss che «nello scam-

32

G. Pitrè, Fiabe e leggende popolari siciliane, L. Pedone Lauriel Palermo 1888, pp. 215-20. La leggenda raccontata da Angela Puleo è stata raccolta a Bagheria.


27 bio c’è molto di più che non le cose scambiate»33, la leggenda ritiene i suoi significati nella dimensione non solo etica ma anche sociale. La nitida ed essenziale trama del racconto presenta come destinatario del culto il Signore crocifisso, il quale come una sorta di singolare oracolo dispensa responsi e amministra severo la giustizia tra gli uomini, ma appare nel rapporto con il povero devoto figura amica e confidenziale, tanto da accogliere le sue richieste, scendere dalla croce e banchettare con lui. È noto che l’umanizzazione della divinità è dato caratterizzante delle narrazioni popolari volte a rappresentare la trascendenza nelle forme esperite dagli uomini nelle vicissitudini degli accadimenti quotidiani. Ecco perché le leggende non sono mai invenzioni gratuite e arbitrarie ma attraverso l’apparente non senso delle storie immaginate illuminano il senso profondo della vita reale. Tra le opere dell’immaginario popolare le leggende di argomento religioso sono senz’altro quelle che Castelli curò con maggiore predilezione, anche perché l’attento studioso del mondo antico riconnetteva questo patrimonio di novellistica alle origini della civiltà greca e latina. Il filologo umanista vi leggeva i nessi e le ascendenze culturali che dal livello popolare risalgono alla grande letteratura classica. Il demologo vi riconosceva le permanenze di certe credenze ed usanze mediterranee34. Alle leggende edite sull’Archivio e all’interno del volume di Pitrè, qui ripubblicate, altre, secondo le intenzioni di Castelli, ne dovevano seguire di carattere storico, come si desume da una lettera del 5 maggio 1906: «Se l’Archivio continuerà, vorrei pubblicare due o tre raccontini che io chiamo storici, e un buon numero di modi di 33

C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, trad. it., Feltrinelli Milano 1984, p. 109. 34 In una lettera indirizzata a Pitrè il 22 dicembre 1880 Castelli, in ossequio a orientamenti evoluzionisti, confessa: «Io vedo in ogni costume moderno qualche reminiscenza dell’antichità».


28 dire religiosi. È mio intendimento, o piuttosto sarebbe, di occuparmi di certi costumi antichi di Mazara, come fece lei per Palermo». Purtroppo nulla sappiamo intorno alle ragioni che gli impedirono di realizzare i suoi proponimenti. È probabile che siano stati motivi di salute, in particolare una fastidiosa malattia agli occhi di cui a lungo soffrì, a farlo desistere dalla faticosa ricerca d’archivio. Di certo sappiamo che negli ultimi anni della sua vita Raffaele Castelli tornò a coltivare gli amori della sua gioventù: il latino, che aveva insegnato a più generazioni di studenti del liceo, e la poesia che costituì il primo cimento del suo impegno di umanista. I Versi latini, stampati nel 1914 dalla gloriosa tipografia Luigi Ajello e Figli, concludono la sua produzione e ne rappresentano una sorta di testamento letterario che riassume le antiche passioni ideali dello scrittore per il culto degli affetti familiari e del mito dei classici. Castelli si spegnerà cinque anni dopo la pubblicazione di questi versi. Editi dalla stessa tipografia Ajello nel 1854 sono le Massime e proverbii morali che abbiamo voluto allegare in Appendice. Non sono documenti raccolti da Raffaele Castelli e tuttavia passarono sicuramente tra le mani dello studioso mazarese, come del resto furono studiati e utilizzati da Pitrè per la sua opera in quattro volumi sui Proverbi siciliani: si tratta di 735 massime, divise in 29 capitoli, secondo categorie tematiche che saranno convenzionalmente formalizzate e riprese da altri raccoglitori. Anonimo risulta in copertina l’autore ma l’opera può essere ragionevolmente attribuita allo stesso stampatore, che si riprometteva di preparare una successiva edizione che non venne tuttavia mai realizzata. Questi proverbi mazaresi di metà Ottocento costituirono, dunque, un’importante fonte di riferimento documentario per i folkloristi del secolo XIX. Per chi voglia indagare sui modelli culturali e sui sistemi di valore diffusi nella Sicilia di quell’epoca, questi materiali sono straordinari strumenti di conoscenza della


29 realtà e della sua rappresentazione popolare. Densi paradigmi dell’universo ideologico, forme sincopate di ragionamenti ellittici e allusivi, i modi di dire sono, in tutta evidenza, modi di pensare e di essere. Nel sapere empirico compendiato in quelle formule apodittiche spesso contraddittorie si dispiega il profilo di una società, si suggeriscono pedagogie assolute e memorie atemporali. Ma soprattutto quei grumi di accenti e precetti sono ritmi, assonanze, scansioni metriche, sono folgoranti invenzioni linguistiche e retoriche, argute ed icastiche locuzioni di una impareggiabile espressività. Contengono le iperboli e le ironie dell’oralità, le diverse modulazioni e stratificazioni del parlato, la verve delle voci popolari, il gusto del metaforizzare, del tradurre le parole in figure. A guardar bene, ogni massima ha una sua radice narrativa, un suo intimo legame a miti e racconti non scritti che narrano di consuetudini, moralità, fobie e idiosincrasie. Per questo, anche questi documenti orali appartengono alla grande letteratura dell’immaginario popolare. Per antonomasia i proverbi sono codici che celebrano la parola, atti verbali in cui non contano tanto i significati quanto la forza d’urto dei significanti, immagini che seducono, persuadono, ammaestrano. Nel giuoco delle antitesi e delle allitterazioni, nella loro cifra simbolica si concentra quella potenza semantica che oggi, nelle approssimative forme del nostro comunicare, abbiamo in gran parte consumato. Rileggere a distanza di più di un secolo e mezzo questi proverbi è come tentare di far risalire alla linfa delle sorgenti le voci di una lingua che appare sempre più estenuata ed esangue. È come voler recuperare l’energia vitale di quel dialetto che unn’avi ossu e rrumpi l’ossu, come recita uno dei tanti proverbi raccolti in questa antologia. Antonino Cusumano



Dell’immaginario popolare Scritti vari (1882-1906) di

Raffaele Castelli


Nota del curatore Pur nella consapevolezza di alcune approssimazioni e incoerenze nelle trascrizioni dialettali, si precisa che sui testi originali non sono stati operati interventi di modifica, se non quelli puramente formali relativi a evidenti refusi tipografici. Riguardo alle note si fa presente che solo quelle tra parentesi quadre sono da attribuire al curatore, che ha ritenuto opportuno segnalare le fonti bibliografiche e integrare le informazioni a chiarimento di alcuni passaggi lessicali.


Di un mito moderno. Vincenzo Catinella. Salta le viti 1 La spiegazione de’ miti è un’opera tanto difficile quanto utile alla storia ed alla civiltà, e le lunghe indagini de’ dotti che da secoli si sono occupati di questo argomento, è una prova abbastanza chiara dell’una e dell’altra cosa nel tempo medesimo. Quanta storia non si nasconde ne’ miti de’ popoli antichi, e quanta luce non ne acquisterebbero i fatti storici ed i fatti dello spirito umano, se noi potessimo indovinarli con certezza? Nella spiegazione adunque de’ miti, antichi o moderni che sieno, non può in generale uscirsi dal campo della probabilità, eccetto il solo caso che si conoscano i fatti storici, da cui ebbero origine i miti; poiché non resta allora che spiegare la trasformazione de’ primi, ovvero il passaggio che si fece dagli uni agli altri, comprendere in altri termini la via che tenne lo spirito umano nella formazione del mito. La qual cosa se non è difficile, non è perciò meno utile, perché ci guida a conoscere le leggi ideali che presiedono alla formazione de’ miti, ed a spiegarne altri consimili. Egli è perciò che mi sono proposto di spiegare brevemente in questo articolo la leggenda che corre intorno a Salta-le-viti da Mazzara. Vincenzo Antonio Catinella, soprannominato Salta-le-viti, nato in Mazzara a’ 4 aprile 1675 e morto il giorno 11 maggio 1706, nel suo non lungo spazio di vita divenne così famoso tra i tanti banditi che infestavano in quel tempo le campagne, che è ancora 1

[da “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, Palermo 1882, vol. I, pp. 258-264].


34 proverbiale in Sicilia, e meritò di essere ricordato nelle storie del Mongitore, nella Vita di Monsignor D. Bartolomeo Castelli scritta dal P. D. Giuseppe Merati e ne’ versi in dialetto di un poeta siciliano, riprodotti e conservatici dal mio chiarissimo amico Dr. Salvatore Salomone-Marino2. Ma il Salta-le-viti quale ci è descritto dallo storico e dal poeta è molto diverso da quello che ci è ritratto dalla tradizione popolare sopravvissuta in Mazzara sino a’ nostri giorni. Nella storia non è alla fin fine che un malfattore più o meno ordinario, più o meno famoso, laddove dalla fantasia popolare acquistò qualità favolose ed eroiche. Queste tradizioni nella lunga serie degli anni corsi dal giorno della sua morte in qua si sono andate scemando; ma quel poco che rimane ancora basterà forse a mostrare il concetto che si formò di lui il popolo. A quel che narra il Merati concordemente alla tradizione popolare, egli non era che un semplice manovale, ma fu dalla natura dotato di tanta astuzia, agilità e robustezza d’animo e di corpo, che i bassi natali ed i tempi ne fecero un malfattore, e la cultura ed una più felice occasione ne avrebbero potuto fare qualche cosa di meglio, per non dire un grand’uomo. Come una prova della sua forza si narra, che essendo necessario il gesso nella costruzione del campanile di S. Francesco in Mazzara, o altro edifizio che fosse, dove lavorava anch’egli, e giungendo in quel punto alcuni asini che ne erano carichi, ne prese addosso uno, e lo portò in alto con tutta la soma. Non istarò qui a ripetere altre particolarità che provano la sua forza e la sua agilità straordinaria, poiché chi ha desiderio di conoscerne un pochino di più, potrà leggere l’opera sopra detta del Merati. Il suo primo delitto narrasi in vario modo.

Storie popolari in poesia siciliana – tip. Fava e Garagnani Bologna 1877, pag. 115. 2


35 Dicesi che commettesse un lievissimo furto, e che il padre l’inseguisse per punirlo; dicesi anche che uccidesse un prepotente che ne aveva sedotto la sorella: tradizione quest’ultima più conforme all’idea che di lui si formò il popolo. Ma qualunque siasi il primo de’ suoi delitti, dicesi che per sfuggire prestamente alle mani del padre o della giustizia, abbia spiccato un gran salto dalle mura occidentali della città (tradizione che il buon Merati accoglie nel suo racconto in gran parte), e che sia caduto senza farsi alcun male sulla riva opposta del fiume Mazaro, che lambisce le mura della città a ponente. Quindi la sua vita da malfattore e la serie numerosa de’ suoi furti. Mentre una volta commetteva uno di questi in Palermo entro la città, essendo scoperto scappò pe’ tetti, e per sfuggire più facilmente a coloro che l’inseguivano passò con un salto la grande via Toledo, cadendo sul tetto delle case opposte, con miglior fortuna d’un suo compagno, che sebbene agilissimo anch’esso cadde sul cornicione della casa, ed indi a terra, dove rimase sfracellato e morto. Raggiunto, circondato e preso, con la sua forza e con la sua agilità straordinaria riuscì sempre a liberarsi, e corse per più anni impunemente le campagne di Mazzara e di tutta Sicilia. Essendo presso una volta ad essere raggiunto, e non avendo miglior via di scampo, bendò gli occhi al giumento che egli cavalcava, e passò a cavallo la via offertagli dalle arcate che sostengono l’acquidotto e congiungono le due rive del Mazaro a non molta distanza dalla città; via però così angusta che appena può passarsi da un uomo a piedi. Uno de’ fatti più memorabili di lui è il furto commesso nel Monastero di S. Michele in Mazzara, che nella tradizione popolare divenne un’impresa meravigliosa, impossibile. Sia che tornasse di Roma, dove egli erasi rifugiato, come narra il poeta siciliano di sopra detto, ed una tradizione conservataci dal Dr. Salomone-Marino3, sia che perseguitasse un ricco signore, e che non 3

Nuove Effemeridi Siciliane, serie terza, vol. IV, anno 1876, pag. 326.


36 essendogli mai riuscito di prenderlo, facesse il disegno di rapirne il deposito, che sapeva aver quegli fatto nel Monastero, a detta del Merati entrò furtivamente in città, aprì per forza le porte del duomo, ne trasse le lunghe scale che vi si trovavano, e salito con esse alla finestra sulla porta principale della chiesa del Monastero, ne ruppe le grate di ferro, ed entrò per questa via insieme coi suoi compagni. A questi comandò severamente che alle monache non torcessero nemmeno un capello. Raccolto in fretta quant’oro e denaro potè, accortosi della moltitudine che agli schiamazzi ed allo strepito che avevano fatto le monache accorreva, ne uscì sano e salvo abbattendo le porte del Parlatorio. Questo in breve è quanto narra il Merati, ma l’immaginazione popolare non contenta dell’audacia del fatto, lo fa salire pel campanile coll’ajuto di due pugnali che alternativamente piantava nel muro di mano in mano che ascendeva. E poiché la cosa non è concepibile, la tradizione credendo di spiegarla aggiunge che il campanile in quel tempo era ancora in costruzione, e non aveva perciò l’altezza presente. Il rispetto poi usato alle monache si fa giungere a tale, che non fece nemmeno alzarne una, che la badessa aveva in fretta fatto coricare, come se fosse ammalata, sopra una grande cassa contenente il tesoro. Egli inoltre non era un ladro volgare. Una volta, andato dietro la porta della casa della Duchessa Sansone in Mazzara, imitò così bene il miagolio del gatto domestico, che la cameriera andò ad aprire. Entrato chiese rispettosamente alla Duchessa non so quanta somma, dicendo di volerla dividere co’ poveri, come veramente fece uscito di là. Un’altra volta incontrossi con alcune donne che piangevano, dolendosi di essere state spogliate de’ loro orecchini da Salta-le-viti, ed indicavano alcuni uomini, che si erano per buon tratto allontanati. Salta-le-viti corse, raggiunse i ladri, e punitili dell’audacia di avere preso il suo nome e di avere commesso un vilissimo furto a danno de’ poveri, si fece consegnare i mal tolti orecchini, che restituì a quelle a cui appartene-


37 vano. Lo stesso Mongitore riferisce che «andava in traccia di persone facoltose e avare, e faceva gran bene a persone povere, che non solo non molestava ma provvedeva». A questo che in parte dev’essere storico, la tradizione popolare aggiunge che egli non usava mai la violenza, se non quando gli era negato quanto chiedeva; proteggeva le vedove ed i pupilli; vendicava i torti che i prepotenti, in quel tempo, facevano di leggieri ai deboli; esercitava insomma quella giustizia privata, che in certi tempi la debolezza delle leggi giustifica e rende quasi quasi necessaria. Degna di ricordo è anche la sua fine. Dopo il furto del Monastero rifugiatosi prima in Genova ed indi in Livorno, quivi a richiesta del Vicerè di Sicilia fu fatto prendere dal Granduca di Toscana. Non osandosi però di afferrarlo apertamente per timore che resistesse, fu corrotto un barbiere, nella cui bottega andava a farsi la barba, e da costui fatto sedere in una sedia a molle, scattate le quali rimase impedito in modo da non poter fare alcun movimento. La tradizione non trascurò di circondare di favole anche la grotta da lui abitata in uno de’ monti di Castellammare. Ogni notte vi si vede una chioccia andar attorno co’ suoi pulcini, che sguizzano di mano, se pure si riesce a prenderli. Queste misteriose apparizioni sono segno che ivi giacciono incantati i tesori nascostivi da Salta-le-viti. Dalle scarsissime tradizioni che sono sopravvissute insino a noi, e che fanno parte forse d’una serie di fatti e d’una storia più lunga, che si è perduta nel corso degli anni, si può conchiudere, che un malfattore straordinario e famoso è stato dal popolo trasformato in un personaggio favoloso, in un eroe cui, più che malvagia natura, l’odio de’ prepotenti e delle ingiustizie, che assai più spesseggiavano in quel tempo, spinse a menare una vita condannata dalle leggi, ad esercitare una giustizia, che agli occhi di lui e degli oppressi era una privata sua santa giustizia.


38 Non è difficile spiegare come Antonino Catinella sia diventato un personaggio favoloso, considerando che l’immaginazione colpita da cose e da fatti straordinari li ingrandisce alla sua volta a poco a poco a tal segno, da renderli incredibili. La distanza de’ luoghi e de’ tempi togliendo alle cose ed a’ fatti i limiti loro sensibili permette all’immaginazione di rifarseli a sua posta più liberamente, e di partecipar loro quel colore che è ben diverso dalla realtà. Quelle medesime esagerazioni e quelle maniere iperboliche, a cui la mente umana naturalmente ricorre per esprimere la grandezza d’una cosa, divengono per l’uomo del popolo una schietta realtà, poiché esso a somiglianza d’un fanciullo stordito dalla grandezza non comune d’un fatto, non sa distinguere quanto in una tradizione vi sia di vero o di falso, di credibile o d’incredibile. Noi vediamo gli storici medesimi, mentre non è ancora comparsa la critica, accogliere tutte le favole, tutte le leggende popolari senza la menoma ombra di dubbio. Nelle scienze stesse la fede, direi, e la raccolta de’ fatti puramente sperimentali, precede l’analisi scientifica. Quello che de’ fatti non comuni o stragrandi rimane è la sensazione che l’animo riceve; e quando se ne ignorano le particolarità o si sono obliate per la distanza de’ tempi l’immaginazione se le finge, e più che a suo modo, secondo la vivissima sensazione che ne è rimasta nell’animo. Ove poi a tutto questo si aggiunga, che il popolo sin da’ suoi primi anni è involto in tanti errori e misteri, ed è abituato a credere a spiriti, a fate, a geni, ad esseri soprannaturali, si comprenderà facilmente come a’ fatti straordinari attribuisca un carattere soprannaturale. Così la forza, l’agilità, la rapidità di correre, d’arrampicarsi, di saltare si trasformano facilmente in una virtù di spiccare un salto incredibile, rimanendo illeso, di rompere legami indissolubili e di scappare in mezzo ad un gran numero di custodi. L’audacia d’entrare in una città, d’introdursi in un monastero d’alte e solide mura, con solide porte, con aperture custodite da grate di ferro, la sola sensazione che rimane profondamente impressa nella me-


39 moria de’ posteri, in un uomo già divenuto straordinario, non ispiegasi più co’ mezzi ordinari, ma con mezzi convenienti e conformi al concetto che di quell’uomo è rimasto nella tradizione. A’ dì nostri medesimi, in un’età che non sembra mitica, Napoleone III in Francia è visitato ogni notte da un piccolo uomo canuto, dal diavolo in persona o da uno spirito familiare, da cui riceve consigli. Garibaldi in Italia diviene un santo, che guarisce i fanciulli, ed ispira tanta riverenza a’ banditi medesimi, da costringerli a risparmiare una vittima, perché trovano in petto dell’infelice un medaglione col ritratto del Generale. Egli è visitato nel campo da una donna bianco-vestita, dallo spettro di sua madre che viene a deliberare insieme con lui. In Aspromonte, a somiglianza di Mosè, con un colpo di cannone fa da una rupe scaturire una sorgente d’acqua fresca a dissetare le truppe tormentate dal calore e dalla sete, e tra gli Arabi, quando si seppe il suo sbarco in Sicilia, egli divenne un Djian, uno spirito malvagio, o un mostro d’orribile aspetto, che metteva in rotta precipitosa i nemici al suo primo apparire4. Né sembra anche difficile spiegare come un malfattore sia stato trasformato in un uomo benefico, in un vindice di torti, in un protettore di oppressi, considerando che un uomo straordinario, divenuto famoso per tutta Sicilia, di tanto superiore al gran numero de’ compagni che infestavano il paese, non poteva confondersi con questi. Alle altre qualità non comuni di lui, che non potevano mettersi in dubbio, il popolo aggiunse qualità morali che valevano a distinguerlo dalla turba de’ malfattori, e che ebbero probabilmente origine da qualche sua opera benefica, che dalla storia non è taciuta. I tempi inoltre in cui visse furono tempi di grandi disuguaglianze di fortuna e di stato: pochi privilegiati da un canto, a cui tutto per così dire era lecito; molti sofferenti ed oppressi dall’altro. La setta de’ Beati Paoli, per ignota e misterio4

Mannhardt, Formation des Mithes dans les temps modernes. Vedi Mèlusine.


40 sa che sia, anche il popolo sa che vendicava le angherie che si facevano da’ magistrati e da’ baroni del regno, come scorgesi da un racconto conservatoci dalla diligenza del Dr. SalomoneMarino. Al popolo parve che Salta-le-viti fosse un uomo, che per usare un’espressione del Manzoni faceva stare i prepotenti, e l’odio che verso questi si nutriva, fece perdonarne e dimenticarne i malfatti, ed attribuirgli la qualità di protettore de’ deboli, di benefattore de’ poveri, tanto più che egli usciva dalle file medesime degli oppressi e del popolo. Ove noi conoscessimo più minutamente la sua vita, e sapessimo con certezza che il suo primo delitto fosse stato quello di uccidere un prepotente seduttore della sorella, questa opinione diventerebbe incontrastabile. Di Mazzara del Vallo, a’ 30 ottobre 1881


Il giuoco fanciullesco a la tortula nella provincia di Trapani 5 La trottola è per ordinario un piccolo cono di legno con un ferruzzo in cima, che dicesi spuntuni. Termina il cono in una base lievemente convessa, la quale nel centro si allunga in una coda, direi, che chiamasi piringhiddru, e in Santa Ninfa chirchiriddru. La funicella che le si avvolge intorno dicesi lazzu o rumaneddru in Mazzara, filazzota a Santa Ninfa, sfilazzata a Calatafimi. La trottola è abballarina in Mazzara, sauta trippìa a Calatafimi, va cchiè-cchiè a Santa Ninfa, quando saltella mentre gira; è arrobbanisi, se porta seco peli o altro che incontra; è scrivana in Mazzara e porta-littri a Santa Ninfa, quando imita coi suoi giri in certo modo la mano che scrive; va zzo-zzo in Mazzara e pansa pansa in Santa Ninfa, quando non gira sul ferruzzo, ma rotola per terra; scoffa, quando il laccio, essendo asciutto, si svolge senza spingerla in giro; si addrummisci, quando i suoi giri sono così rapidi, che l’occhio non li distingue; si astuta, quando finisce di girare; è valenti, quando gira sul lato destro dell’unghia del pollice destro; fa duci, quando colpisce col ferruzzo un’altra trottola posta in terra; a Santa Ninfa tessi, quando fatto un piccolo buco dove cade, batte girando ora all’uno ora all’altro lato, e si 5

[da “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, Palermo 1883, vol. II, pp. 113-115].


42 ammaràggia, quando cade entro molta polvere e fa pochi giri. Il suo girare dicesi durari a Mazzara e a Santa Ninfa, anninnari a Calatafimi. I Latini avevano il turbo ricordato da Virgilio nel libro 7°, v. 378, che facevano girare con una sferza, ed i Greci lo στρόµβος, da cui può essere derivata la voce strùmmula, che è una trottola molto più grande, e messa in giro in altro modo. Questo giuoco si fa in due modi, a lu turneddru, ovvero a passari. Nel primo, descritto un cerchio in terra, un ragazzo dice: Chi cc’è ’ntra lu fucularu? E gli altri rispondono: Focu. Quegli di nuovo: Chi cc’è ’nta la ’utti? E gli altri rispondono: Vinu! Viva viva Sant’Antuninu! A Calatafimi dicono: Chi mancia lu cavaddru? – Oriu! Viva viva San Caloriu! Dette queste parole ciascuno giuoca, ed è mastro colui la cui trottola gira più di quella di tutti gli altri; è sotto-mastro chi gli succede; va sotto colui la cui trottola gira meno di tutte, o non gira. A Calatafimi ed a Santa Ninfa fanno girare le trottole, le pongono nel cerchio, e va sotto quella che ne esce fuori, quando finisce di girare; e siccome bene spesso accade che ne escano più d’una, queste si fanno girare di nuovo, finché non ne esca che una sola. Chi va sotto pone la sua trottola nel centro del cerchio. Il mastro solo ha il diritto di giuocare prima di tutti, il sottomastro quello di giuocare immediatamente dopo il mastro, e di dare agli altri il permesso di giuocare. Quando il mastro dice: Tiramu tutti e sutta lu mastru, ciascuno con l’ordine che ho detto gitta la propria trottola, e tutta l’arte consiste nel colpire la paziente e farla uscire fuori del cerchio. A questo colpo la trottola paziente si libera dalla sua pena; chi lo fa diventa mastro, e va sotto colui che egli nomina, non escluso il mastro, con queste parole: Scula, scula, per es., Jacu! A Santa Ninfa ciascuno, prima di far girare la trottola, indica chi voglia che vada sotto, ove faccia uscire la paziente dal cerchio.


43 Nel corso del giuoco va sotto anche colui che giuoca prima del mastro o prima di aver ricevuto il permesso dal sotto-mastro, chi gitta o fa girare la trottola fuori del cerchio, e chi la fa cadere senza farla girare; ma chi va sotto in ciascuno di questi casi, non libera quella del compagno, sicché entro lo stesso cerchio se ne possono trovare più d’una. Non si va sotto, quando non si colpisce la paziente con la propria, purché questa cada entro il cerchio e giri. Quando giocasi nel secondo modo, cioè a passari, uno gitta uno sputo in terra, e tutti vi danno su lanciando la trottola. È mastro colui che si scosta meno dallo sputo; va sotto chi se ne scosta più; la gitta una seconda volta colui la cui trottola non gira dopo di essere lanciata. La trottola paziente si colloca sullo sputo, ed indi si porta una o più volte ad un punto stabilito, ovvero a due punti stabiliti, non compreso la prima volta lo spazio che passa dallo sputo ad uno di loro, secondo i patti. A tal uopo ciascuno urta e spinge la paziente con la sua, cui, mentre gira, prende in mano tra un dito e l’altro; e va sotto chi non la tocca, o chi la tocca quando la propria ha già cessato di girare. Si va sotto anche, quando si gitta la trottola e questa non gira, e quando non si gitta e non si fa girare entro lo spazio di una spanna dalla paziente, se questa si trova nel fango, nella polvere, o ha pietre o intoppi vicini. A Santa Ninfa bisogna sempre gittare la propria entro la distanza di poco più di una spanna dalla paziente. La trottola che va sotto libera quella che vi è stata, né deve percorrere altro spazio che quel tanto che rimane sino al punto stabilito, dove giunta si prende, e ciascuno la colpisce una o più volte, secondo i patti e la guasta col ferruzzo della propria (a spuntunati) o la mette in terra e la guasta ed anche la rompe, gittandovi sopra a tutta possa una volta o più una grossa pietra (a balatati). È permesso o vietato, secondo i patti, di dare la prima delle due pene alla paziente con una trottola fornita di un ferruz-


44 zo tagliente come uno scarpelletto, e quando non si conviene altrimenti deve mettersi sotto quella stessa con cui si giuoca, e se è un’altra, non può essere coverta né di latta né di chiodi. A Santa Ninfa si conviene che ciascuno, quando dà la prima delle due pene alla trottola paziente (li pizzunati), la lasci nel buco fatto in un muro dove dapprima si pianta, o ne l’estragga. Nel primo caso, che dicesi arruccari, dopo di esser colpita e guasta da ciascuno sempre nel medesimo posto, è il padrone medesimo che deve estrarnela; la qual cosa non gli riesce troppo agevole a fare: tanto conficcasi addentro. Nel secondo caso, che dicesi disruccari, l’uno dopo di averla colpita la estrae e la consegna all’altro; l’ultimo le dà la sua pena, la estrae finalmente e la consegna al padrone. A Calatafimi giuocasi anche tra due ragazzi per guadagno in questo modo, che dicevasi a passari lu granu, dal nome della più piccola delle antiche monete reali. Descrivono due linee parallele in terra ad una certa distanza, e sopra una di loro collocano una moneta. Indi fanno girare la trottola a vicenda, e ciascuno la prende in mano e dà sulla moneta, e la vince chi prima dell’altro la porta alla linea opposta. Chi nel gittare la trottola non fa due giri, perde la volta di giuocare.


Altri giuochi A Bancu apertu 6 Quando si fa questo giuoco, un fanciullo che tiene banco siede per terra, e tra le gambe distese ed aperte pone un certo numero di noci, mandorle, o nocciuole, in modo che si tocchino, ed una stia sopra tutte. A queste da una distanza che si conviene d’accordo tirano successivamente altri fanciulli con una noce o mandorla. Chi le investe e ne altera la disposizione, guadagna quelle che il banco promette in premio. Chi fa banco guadagna tutte le noci lanciate di mano in mano da’ giocatori che sbagliano.

A li Brigghia 7 Si fa con 9 cilindretti di legno (surdati), in Toscana rulli, rocchetti, rizzati a tre a tre a distanze eguali in quadrato: quel di mezzo, con scanalature circolari in punta, dicesi re (in Tosc. matto, in Piemonte bion). Il giuoco si fa tra due o quattro ragazzi. Si comincia ponendo in distanza il re e lanciando ciascuno contro di esso un rullo. Quello o quelli, il rullo de’ quali si è più accostato al re, son primi; i rimasti più indietro sono ultimi, e l’ultimo degli ultimi fissa il punto da cui deve tirarsi. Quando il giuoco è tra due, l’ultimo [in G. Pitrè, Giuochi fanciulleschi siciliani, L. Pedone Lauriel Palermo 1883, p.123]. 7 [ivi, pp. 135-6]. 6


46 tira dopo del primo, e così successivamente. Essendo tra quattro, comincia a tirare il primo dei primi; poi il primo de’ secondi; poi il secondo dei primi; poi l’ultimo degli ultimi, e così a vicenda sino alla fine; e tanto i primi quanto gli ultimi son separati compagni. Il giuoco ordinario consiste nel far cadere in più volte con una grossa palla di legno 24 rulli precisi: oltrepassando quel numero si tracolla (si va ’n palazzu, o si fa tracoddu); i punti fatti si accorciano a 18, ed è permesso tentar di nuovo la sorte per guadagnare gli otto mancanti, a meno che la parte contraria non giunga prima a compiere il numero. Lanciata la palla, sia che essa tocchi i rulli, sia che si fermi a distanza, è permesso lanciarla una seconda volta dal punto ove fermassi, ciò che dicesi ribàttiri. Chi riesce a far cadere esclusivamente il re al primo tiro, vince la partita.

A Zu Annìa 8 Si fa al tocco, e chi va sotto piega le spalle ed appoggia al muro la testa. Tutti gli altri che giuocano si partono, uno alla volta e di seguito, da una certa distanza, e saltando col sol piede destro, sospeso il sinistro, vanno da chi è sotto. Quando gli son presso, gli danno col ginocchio sinistro sul sedere quanti colpi vogliono dicendo: Zu Annìa Quantu è bellu lu fari accussìa! e tornano indietro, sempre sul piede destro, al punto donde son partiti. Chi nell’andata e nel ritorno posa il piede sinistro sospeso, va sotto per ordine di chi fa da mastro. 8

[ivi, pp. 149-50]


47

A Tumma e ricotta 9 Di due ragazzi uno si chiama Tumma e l’altro Ricotta. Entrambi calano le mani nel medesimo tempo ed aprono quante dita vogliono, ed uno di loro, contando tante volte quant’è il numero totale delle dita aperte dall’uno e dall’altro, dice: Tumma e ricotta, tumma e ricotta ecc. Vince colui che ha scelto tumma se il numero finisce con questa parola; vince l’altro, se finisce con la parola ricotta. È insomma un fare al tocco in un modo un poco diverso. Chi vince dà subito in testa al compagno; indi, calando le mani ed aprendo le dita, ma senza più contare come in principio e dire: tumma e ricotta, batte il compagno ogni volta, finché non avvenga che l’uno apra tante dita quante l’altro; ciò avvenuto, ricomincia il giuoco. Può farsi anche in tre, ed allora l’uno sceglie tumma, l’altro ricotta, ed il terzo cascavaddu friscu. Uno solo vince, e gli altri due perdono. Chi vince dà subito in testa a’ due che perdono; ed indi gioca prima coll’uno, finché costui non riesca nel modo che si è detto, e poi con l’altro. Quando si fa in quattro, uno sceglie zoppa, un altro zappella, il terzo ’ncunia, il quarto marteddu. Tra tutti, due vincono e due perdono, ed uno dei vincitori gioca con uno dei perditori nel modo di sopra descritto.

All’Occhi di cucca 10 Molti ragazzi si prendono per mano e fanno il giro tondo, chi sta nel mezzo bendato stende le mani ed acchiappa uno di loro, 9

[ivi, pp. 175-6]. [ivi, p. 196].

10


48 che deve riconoscere al tatto. I giocatori per non farsi riconoscere si scambiano gli abiti e si coprono anche con una pezzuola la testa, e si alzano e si abbassano e fanno mille movimenti per ingannare il bendato. Chi è riconosciuto va sotto invece dell’appuzzatu. Il titolo di questo giuoco è preso, senza dubbio, dalla proprietà della civetta (cucca) di vedere tra le tenebre.

A Cumpagnu, guàrdati sta botta! 11 Due si bendano in modo che non possano vedere, e posti dapprima a distanza, l’uno va battendo, e l’altro stringe in mano uno zimbello, nel quale talvolta si nasconde qualche pietruzza. Mentre quello girando in una stanza batte i ciottoli, questo lo insegue, e quando al suono crede di essergli vicino, dice: O cumpagnu, guàrdati sta botta! e cerca di colpirlo col suo zimbello. L’altro si guarda curvandosi, allontanandosi dal luogo dove si trova; e quando il colpo non va in fallo, l’uno consegna i ciottoli, e l’altro piglia il fazzoletto, ed il divertimento continua. Qualche volta il giuoco si fa così: Posta in mezzo d’una stanza una cesta capovolta, due ragazzi bendati vi appoggiano ai due lati opposti la sinistra, e con le ginocchia a terra, girano l’uno dietro l’altro appoggiando a terra la destra. Ciascuno di loro tiene in mano un laccio, a un capo del quale è legato un sacchetto, largo un paio di spanne circa, e lungo poco più, pieno di paglia, in cui talvolta è nascosto un sassolino. Di quando in quando l’uno grida e l’altro risponde: 11

Oh cumpagnu! Oh! Guàrdati sta botta!

[ivi, pp. 198-9].


49 E in Calatafimi: -

Oh Mircuriu! Oh! Guàrdati stu furiu!

Ciò dicendo, l’uno cerca di colpire il compagno col suo sacchetto, e l’altro si guarda se gli riesce. Così i colpi si alternano, ed il giuoco continua, finché non si sieno stancati e del percuotersi e del trascinarsi colle ginocchia per terra.

A l’Anìmulu 12 Vari ragazzi piuttosto robusti, poggiandosi e puntellandosi l’uno con l’altro in giro, si inginocchiano per far salire sopra di loro altri che, appoggiando un piede sull’omero dell’uno e un piede sull’omero dell’altro, facciano tutti insieme una specie di cerchio piramidale. Quando questi si sono acconciati e quelli si sono rizzati, la bara procede innanzi in mezzo agli applausi di altri fanciulli. Allora canta il Coro di sotto: A vuàutri chi siti supra, stati attenti e nun caditi; si caditi, una botta faciti: Santu Diu! Santu Diu! Coro di sopra: A vuàutri chi siti sutta, stati fermi e mantiniti; si caditi una botta faciti: Santu Diu! Santu Diu! 12

[ivi, pp. 215-7].


50 Il giuoco, come è facile vedere, è pericoloso, e si usa tra ragazzi audaci. In Palermo si fa sempre nella stagione estiva a’ bagni di mare: e dopo qualche passo i giocatori si lascian le braccia per rompere il cerchio e così attuffarsi tutti nell’acqua.

A Stivala cuzza e càlati la crozza 13 Vari ragazzi si contano e chi sorte va sotto piegandosi in avanti e portando le mani sulle ginocchia o sulle gambe. Gli altri dalla meta corrono verso lui e giunti ad una certa distanza stabilita, prima d’un piede da quello che sta sotto, poi, nel secondo giro, di due piedi, poi di tre, poi di quattro, poi di cinque, indi di sei e finalmente di sette, spiccano successivamente un salto allargando le gambe ed appoggiando le mani sul dosso del curvato, e passano dall’altra parte dicendo: Stivala cuzza, e càlati la crozza! La distanza del piede, de’ due piedi ecc. viene segnata da una striscia di polvere sparsa per traverso in terra, la quale deve rimanere intatta nello spiccare il salto. Chi la tocca, chi non riesce a saltare, chi non pronunzia le parole, va sotto: cosa molto facile in un giuoco così difficile, che perciò si fa di rado.

A Santa Catarina 14 Una ragazza che fa da mastro siede in capo ad una scala, nella quale ne siedono molte altre l’una più bassa dell’altra, di gradino in gradino, e si volgono le spalle. Un’altra che fa da sotto-mastra 13 14

[ivi, pp. 219-20]. [ivi, pp. 258-9]


51 non siede, ma stando a piè della scala batte le mani o due ciottoli, e domanda a quella che siede più giù di tutte: Dunni sta S. Catarina? E quella risponde: Appressu. La stessa domanda fa successivamente alle altre, e le medesime risposte ottiene, fino all’ultima seduta, la quale risponde: Susu susu, Maccarruni cu lu fusu. Indi tra mastra e sotto-mastra ha luogo il seguente dialogo: Mastra: Chi vuliti? Sotto-mastra: Lu re voli un gaddru e ’na gaddrina. Mastra: Va pigghiàtivi a chiddra pi la cuda. A queste parole la sotto-mastra tira per la gonnella la ragazza che siede nel primo scalino, e battendo le mani o i ciottoli se ne va con lei canterellando: Panicuteddru cu li minnulicchi A cu’ ridi va a lu ’nfernu. La ragazza la segue, e se ride, com’è molto facile, è condotta in un luogo che si finge essere l’inferno; se no, è condotta in un altro che si finge essere il paradiso. Così tutte le ragazze che stanno sedute sulla scala, eccetto l’ultima, sono di mano in mano condotte al paradiso, ovvero all’inferno, secondo che ridano o no. Quando ne rimane una sola, avviene tra la sotto-mastra e la mastra quest’altro dialogo: Sotto-mastra: Lu re voli la gaddrina. Mastra: Nun vi la pozzu dari. Sotto-mastra: E pirchì? Mastra: Nn’haju chista sula, e mi servi pi lavari.


52 Sotto-mastra: Ma lu re la voli. Mastra: E jeu nun vi la pozzu dari. Sotto-mastra: E pirchì? Mastra: Pirchì mi servi pi scupari. E così l’una a insistere e l’altra a ricusarsi per la medesima ragione de’ tanti servigi domestici, che non finiscono mai; finché la sotto-mastra, perduta la pazienza, si parte minacciando a nome del re, e dicendo che egli è padrone. Unitasi tosto alle altre ragazze da lei condotte al paradiso o all’inferno, vanno tutte contro la mastra, e la fanciulla con essa rimasta, facendo visacci e le corna con le dita sulla testa, come se fossero diavolesse, minacciano di picchiarle: onde le une a scappare e le altre ad inseguire, e picchiarsi tutte a vicenda. Con siffatto parapiglia termina il giuoco, che si fa da sole ragazze.

A tia vogghiu, a tia nun vogghiu 15 Molti ragazzi in numero pari, oltre il mastro, si prendono per mano e formano un cerchio. Il mastro, che unito agli altri forma un numero dispari, si posta nel mezzo, e additando or l’uno, or l’altro per ordine dice: A tia vogghiu, a tia nun vogghiu, finché poi si abbraccia con uno dicendo: A tia vogghiu! Tutti gli altri si abbracciano parimenti, eccetto un solo, il quale essendo dispari non trova compagno con cui abbracciarsi, ed oltre che a soffrir la burla di rimaner solo è obbligato a deporre un pegno. Ripetuto il giuoco e raccolti parecchi pegni, ne seguono le penitenze.

15

[ivi, p. 274].


53

A Guarda lu lumi! 16 Messo un lume acceso in mezzo d’una stanza, in terra, molti formano un cerchio intorno ad esso, tenendosi insieme con le mani in basso. Il mastro sta fuori, tenendo lo zimbello, e mentre gli altri girano, egli grida: Guarda lu lumi! per distrarre da sé la loro attenzione, e quando gli pare l’istante opportuno, consegna destramente il fazzoletto, senza farne accorgere agli altri. Chi riceve il fazzoletto, rimanendosi al suo posto, percuote il compagno di destra, il quale gira e torna al suo posto. Ripreso il fazzoletto, il mastro, mentre gli altri girano, grida: Guarda lu lumi! e lo consegna ad un altro, e ne avviene la medesima cosa che si è descritta. Così continua il giuoco, finché non siano stanchi di essere battuti.

A Signa malipatuta 17 Si fa tra vari ragazzi, uno de’ quali rappresenta da scimmia, la cui deformità gli altri scherniscono gridando con una certa cantilena: Signa mali patuta, Morta di fami e ghimmuruta! La scimmia, di queste beffe adirata, li perseguita, e quando li raggiunge o li incontra nelle sue giravolte, stride, e gittando le mani alla loro faccia fa le viste di graffiarli. Per questo giuoco i ragazzi scelgono qualche cosa intorno a cui possano girare. 16 17

[ivi, pp. 281-2]. [ivi, p. 291-2].


54

A lu cani e lu lupu 18 Molti ragazzi fanno cerchio tenendosi per mano e figurando da pecore, eccetto uno che fa da padrone. Altri due ragazzi stanno entro il cerchio per terra, più lontani tra loro che sia possibile, l’uno da cane e l’altro da lupo. Questo sta rannicchiato, silenzioso, guardingo; l’altro batte due ciottoli in segno della sua vigilanza. Di quando in quando il padrone gli domanda, e quello gli dice che ora è, e per comando del padrone esce fuori a spiare se si senta il lupo. Rientra nell’ovile, avvisa il padrone che non v’è timore del lupo e torna a battere i ciottoli, finché tra le medesime domande e le medesime risposte del cane, fattasi l’ora tarda fingono tutti di addormentarsi. Profittando il lupo della quiete che è nella mandra, porta via qualche pecora. Poco dopo svegliasi il cane, conta le pecore, e accorgendosi della rapina abbaia. Il padrone domanda che cosa sia, ed il cane l’avverte che manca una o due pecore. È garrito dal padrone; torna a battere i ciottoli, e dopo di avere nuovamente abbaiato a segno di vigilanza, non c’essendo sentore alcuno del lupo si riaddormenta. Ma il lupo ritorna e, non visto, porta via altre pecore. Così continua il giuoco tra il lupo che porta via le pecore, il cane che prima vigila e poi prende sonno e il padrone che lo garrisce; finché rimaste le due sole pecore che egli tiene per mano a destra e a sinistra, per comando di lui il cane insegue il lupo e lo ghermisce; e qui dàlli dàlli al lupo. Se non che nel parapiglia ne toccano anche al cane, al padrone, alle pecore ed a chiunque non abbia buone gambe.

18

[ivi, pp. 298-9].


55

A lu Judici 19 Uno che fa da giudice siede dinanzi ad un tinello, banco della giustizia, avanti al quale si stende, come una specie di tappeto, un zimmili. Ai manici di questo si lega una fune, la cui estremità svolgesi verso la parte più buia della stanza. La fune è coperta da altri zimmili per un buon tratto. Mentre si fanno questi apparecchi, tutti i giocatori che piglian parte al passatempo, si tengono in una stanza chiusa, in modo che non possano vedere. Terminati gli apparecchi, un villano che figura da sbirro fa venire uno di quelli che stanno chiusi, lo mena dinanzi al giudice a discolparsi di alcune imputazioni, e richiude la porta. Il giudice con quella burlesca severità che si può assumere in simigliante occasione lo fa collocare nel centro del tappeto, lo avverte a star con rispetto dinanzi alla Giustizia, ed a tal uopo gli fa tenere le mani giunte in basso, e finalmente gli ordina di dir le sue ragioni; delle quali resta mal soddisfatto, e gli fa una buona lavata di capo, lo minaccia di punirlo severamente, ove non confessi la verità, e comanda al birro che lo riconduca in prigione. Non appena è dato quest’ordine, che due de’ più robusti giocatori prendono in mano la fune e tirano ad un tratto l’insidioso tappeto, in modo che il povero accusato, quando meno se lo aspetta, si sente mancare il terreno sotto i piedi e fa un capitombolo. La medesima sorte è riserbata a tutti gli altri ragazzi, eccetto alcuni, che conoscendo il giuoco si guardano dalla insidia tenendo un piede fuori del tappeto e l’altro un pochino sospeso. È questo un giuoco villereccio, che si fa di sera, ed è usitatissimo nel tempo della vendemmia, della raccolta delle ulive o della estrazione dell’olio. Lo fanno per lo più gli adulti.

19

[ivi, pp. 316-7].


56

A lu Marinaru 20 Un ragazzo siede per terra, e sulle gambe distese e piegate tiene un bastone lungo quanto basti, con le mani e con le dita volte in su. A destra e a sinistra di lui siedono in terra altri due con le gambe sovrapposte al bastone, al quale si attengono con ambe le mani all’uno e all’altro lato. Colui che sta in mezzo, dicendo: Voca, voca lu marinaru; ajutàmuni, chi vennu li Turchi! piegasi indietro a guisa di chi rema, ed alza alquanto il bastone, e con esso le gambe dei suoi compagni. Ciò fatto più volte, alza ad un tratto e con forza il bastone in modo che i suoi compagni vadano in aria, quando meno se l’aspettano, a gambe levate, con le risa di tutti gli astanti.

A lu Vujaru 21 Molti si schierano in linea retta, con un fazzoletto in mano contorto e raddoppiato a guisa di fune (rumè). Ciascuno di essi ha il nome d’uno di coloro che sono adoperati a’ servigi d’una grande mandra: vaccaru, picuraru, craparu, garzuni, ecc. Presentasi il soprastante col suo fazzoletto e garrisce della trascuranza avuta uno di loro, che risponde e si scusa, e vedendo che il soprastante si muove per batterlo scappa e gira, mentre l’altro l’insegue, e se lo raggiunge lo batte finché l’inseguito occupa l’ultimo posto della linea. Dopo il primo, il soprastante garrisce di mano in mano tutti gli altri, che scappano: sono inseguiti e battuti nel medesimo modo, se non sono agili a correre e a schierarsi con gli altri di nuovo, occupando l’ultimo posto. Ma dopo 20 21

[ivi, p. 329]. [ivi, p. 332].


57 costoro viene la volta del soprastante, contro il quale si scagliano tutti per vendicarsi delle battiture ricevute, e mal per lui se non gli riesce di chiudersi prestamente in qualche stanza, o se non mettesi la via tra le gambe prima che termini il giuoco villereccio e villano ad un tempo.

A l’Ociddaru 22 Il mastro dà a ciascuno de’ vari giocatori il nome d’un uccello; tutti fanno cerchio e tengono con le mani il lembo d’un panno alquanto largo. L’uccellatore, che è il capo-giuoco, gira attorno a loro gridando: L’ociddaru cu l’ocieddu! Viene un altro di fuori e gli domanda se abbia questo o quell’altro uccello. Risponde l’uccellatore sì, e l’avventore prima di comperarlo desidera sentirne il canto. Chi ha il nome dell’uccello richiesto, lascia il panno, mettesi sotto di esso, e imita come può il canto da lui rappresentato. Il compratore non resta contento né di questo né di tutti gli altri che cantano di mano in mano, nel medesimo modo, finché desidera di sentire il corvo. Ma non appena il povero uccello si mette a crocidare sotto il panno, che tutti i compagni glielo lasciano cadere addosso, mal soffrendo la sua trista voce, e lo picchiano.

A li Patri 23 A molti fanciulli, maschi e femmine, vien dato un nome di patri unu, patri dui, patri tri, patri quattru e via via per ordine. Il 22 23

[ivi, p. 333]. [ivi, pp. 339-40].


58 capo-giuoco ordina ad uno di prendere un altro dicendo: patri dui (p. es.) pigghiassi a patri cincu. Quando quest’ordine viene esattamente eseguito, l’uno siede sul posto dell’altro, ma ciascuno conserva il suo numero. Quando però si sbaglia, e invece di prendere un padre se ne prende un altro, non solamente cambiano i posti, ma chi commette l’errore depone un pegno. Questo giuoco è facile in principio, ma diventa presto difficile quando, avendo tutti cambiato posto, i numeri si dimenticano e si confondono. Raccolti in questo modo vari pegni, ne seguono le penitenze di rito.

A Fabbricari la chiesa 24 Il capo-giuoco, che finge di dover fabbricare una chiesa, viene a dialogo con uno de’ giocatori, che finge di essersi obbligato a somministrargli materiali: o gesso, o calce, o pietra e via discorrendo. Durante il dialogo, nel quale il capo-giuoco si lagna, e l’interlocutore si scusa del ritardo, quando il primo siede, il secondo deve alzarsi, e quando il primo si alza, il secondo deve sedersi, e depone un pegno se cade in fallo. È cosa difficilissima il non imbrogliarsi per la prestezza con cui il capo-giuoco si alza e subito dopo si mette a sedere; ma se ciò avviene, il capo-giuoco, veduto dopo varie prove di non poter trarre in fallo il suo interlocutore, fa lo stesso dialogo con un altro, che deve somministrargli altri materiali. Raccolti parecchi pegni, ne seguono le solite penitenze.

24

[ivi, pp. 340-41].


59

A lu Firraru 25 Giocano due, l’uno dei quali fa da fabbro, e l’altro da garzone, e siedono a terra. Il fabbro prima di cominciare il giuoco, imbratta occultamente il suo berretto nero (o fazzoletto, o altro), della fuliggine d’una pentola. Dopo di che si alzano entrambi, e si mettono al lavoro, a simulare il quale battono con un pezzo di legno sopra una pietra, quasi col martello sull’incudine; il fabbro gitta il suo berretto al ragazzo, il quale dovendo imitarne tutti gli atti, gli gitta il suo. Il fabbro allora, come stanco della fatica, si asciuga il sudore della faccia col berretto del garzone, e questi fa il simigliante con quello del fabbro, il quale essendo, come si è detto, imbrattato, gl’imbratta la faccia, tra le risa e le beffe di tutti gli astanti.

A lu Tavuleri 26 Un villano siede e fa da notaro, ed un ragazzo, mettendo le ginocchia a terra, appoggia la testa sulle gambe di lui, facendogli delle sue spalle tavolo da studio. Vengono due villani per stipulare un contratto, e il notaro comincia a scrivere punzecchiando con uno stecchetto i fianchi del ragazzo come per intinger la penna nel calamaio. Ma nello stabilire i patti, i contraenti vengono tra loro in discordia, e si bisticciano. Non meno di loro va in collera il notaro, e se la piglia ora con l’uno ora con l’altro. Così montati tutti in bestia battono le mani sul tavolo, finché il mal capitato ragazzo non ne potendo più si svincola, brontolando, dalle gambe del capo-giuoco. 25 26

[ivi, p. 351]. [ivi, pp. 351-2].


60

A lu Tilannaru 27 A somiglianza dei venditori di panni, che portano addosso una buona soma di telerie, quando vanno attorno per la città, due villanzoni pigliano addosso e si legano ben bene a’ fianchi ciascuno un ragazzo, braccia contro braccia, gambe contro gambe, in modo da renderlo inoffensivo. Ciò fatto e preso un bastone per misura in mano si partono da due punti opposti l’uno incontro all’altro gridando alternativamente: Haiu tila fina, barracani a la moda, musulinetti di Francia, fazzuletti di tila! ecc. Quando sono vicini, si bisticciano e l’uno dice all’altro: Amicu, di ccà nun ci aviti a passari, pirchì ci sunnu li mei parrucciani; e ciò dicendo batte con la sua misura il ragazzo del suo rivale ne’ fianchi e nelle spalle. Indi si separano, si rimettono a gridare la roba loro, e tornano ad incontrarsi e a bisticciarsi. Qui tocca al secondo a battere il ragazzo del primo. Così va avanti il giuoco finché i ragazzi ben bene sonati non avranno più voglia di farsi attaccare al corpo de’ compagni.

27

[ivi, p. 352].


Formule sanatorie e orazioncelle diverse in Mazzara 28 I. Per guarire le puerpere da quel male delle mammelle che si chiama «pilu di minna», si pronunziano sommessamente le parole che seguono: Lu vecchiu Citranu pi lu munnu jia: Tri parma era longu, e tri parma di varva avìa. Pàssanu du’ cummari, Chi jìanu a lavari. Si nni rireru e si nni dirrireru, E gabbu si nni faceru. Iddru cci dici: - «Vi nni ririti, e vi nni dirririti, E gabbu vi nni faciti? (Pi) un pilu di la varva mia, Puzzati moriri vui e la criatura». - «Niatri ’un ni nni riremu, E mancu ni nni dirriremu, E mancu gabbu ni nni facemu». - «Giacchì un vi nni ririti, E ’un vi nni dirririti, E mancu gabbu vi nni faciti, Un pilu di la varva mia Pozza cunfurtari vui e la criatura». [da “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, vol. XXI, Palermo 1901, pp. 405-17].

28


62 Il potere salutare qui è attribuito ad un vecchio, che per essere straordinario, è basso di statura, una specie di nano barbuto, e si sa che i nani sono uomini che nell’infanzia furono cangiati da fate. Chi sia questo vecchio Citranu non so, né credo che possa essere un’alterazione della parola “Gitano”, quantunque gli zingari si prendano per istregoni. II. I vermi si uccidono colla formula seguente, che è una specie d’imprecazione e di preghiera nel tempo medesimo: Vermi di la virmaria, Vermi chi si mancia a tia, Vermi virdi, vermi farcuni, Va’ circannu ficatu e prumuni. Pi lu mè cumannamentu Vattinni a lu funnamentu. San Cosimu e Damianu, Siti medicu e siti suvranu: Fùstivu medicu di nostru Signuri: Allibirtati sta criatura. III. Per guarire dal mal della milza si dice: Sona santu o campana pia: Tagghia la miusa sinu alla cima, E tantu la pozza tagghiari, Chi nun putissi né crisciri e né mancu ammancari. IV. Contro il mal d’occhi, si dice: Lucia, Lucia Spiaggia spiaggia di mari jia:


63 La scuntrau Gesù e Maria, Ci dissi: - «Dunni va, Lucia?» - «E dunni hê jiri, Maria? Sugnu spersa e nun sacciu la via. Avi tri jorna e tri notti, Ch’haiu duluri ’nta l’occhi, Chi nun pozzu cuitari» - «Pirchì un vinivi unni mia?» - «E cu’ lu sapia, Maria?» - «Ti nni vai ’nta lu mè ortu, Cogghi birbena e finocchiu Cci lu passi ogni tri uri, Chi ti passa lu duluri Senza pinni e senza lizzu Tagghi purpa e pannarizzu». Nel dire queste parole, si fanno segni di croce sulle palpebre. V. Per guarire da lu mascuni, una malattia di stomaco, che non può, né intendersi, né definirsi, si fa un segno di croce, e mentre col pollice della mano destra si fanno segni di croce sullo stomaco dell’ammalato, si dicono le seguenti parole, apprese la notte di Natale in modo segretissimo: Virdi mascuni pi lu mari jia; Di virdi quasava e di virdi vistìa. Passa Gesù, e la vergini Maria: - «Chi fai, virdi mascuni?» - «Vaju ’nta casa a maschiari» - «No, virdi mascuni: patri e matri Nun fari chiànciri. La firmìcula è senza sangu,


64 Lu pisci è senza prumuni: Vattinni a mari, virdi mascuni». VI. Quando si vuole avere notizia di persona lontana, o sapere se si riceverà sua lettera, o se arriverà essa medesima, si dicono le seguenti parole: Sant’Antonu, re potenti, ’N manu tiniti focu ardenti: Iiti unni N.N. Ci abbruciati lu cori e la menti: Nun putissi né cuitari, né abbintari; Ssa fantasia di ’ntesta cci aviti a livari: S’è a l’addritta, un friscu d’oricchi; S’è assittatu,’na trantuliata. Chi fu? Chi t’abbinni? Pàrtiti e venitinni. Queste parole si recitano tre volte, ed in ognuna si recita un Pater Noster. È inutile il dire che il fuoco che si mette in mano a S. Antonio rappresenta le sollecitudini, le quali si vuole che S. Antonio susciti nell’animo della persona assente, per istimolarla a tornare. Invece della precedente orazione si può recitare tre volte quella che segue, anch’essa con tre Pater Noster: S. Giorgiu cavaleri Iia a cavaddu e jia a l’appedi. Pi la vostra santità Facìtimi sapiri la virità. Se dopo una di queste orazioni s’ode sonare la campana d’una chiesa o dell’orologio pubblico, è segno che si avrà tra breve la notizia.


Modi di dire e consuetudini religiose del popolo 29 Calendario popolare Che il popolo sia religioso ne’ suoi pensieri, e che fosse più ne’ tempi andati, vorrei dimostrare cogli atti più comuni e meno importanti della vita, anziché con le arti, con le lettere, con le grandi istituzioni. Chi entra in casa altrui, invece di chiedere permesso, si fa sentire dicendo: Dorazia, ossia Deo Gratias. Chi saluta, dice: Benedicite; Vossia mi benedica. Chi si mette a tavola, a letto, in barca, in carrozza, chi si leva di letto, recita una preghiera, o si fa almeno il segno della croce. Dopo desinare o dopo pranzo si bacia la tavola, toccandola con la mano destra, e portando poi questa alla bocca, e si aggiunge: Signuri, vi ringraziu. La tavola si considera come cosa sacra, a cui è presente Dio medesimo. Pertanto a tavola non si può pronunciare il nome del diavolo, anche cambiato in diascolu, senza aggiungere fora ccà di la tavula. Il pane è chiamato grazia di Diu. Epperò quando cade a terra, si prende e si bacia. Il pane medesimo e la pasta non possono sprezzarsi, ancorchè siano di cattivo genere; e se si sprezzano, ovvero si dice che siano di cattivo genere, una porcheria per esempio, si aggiunge subito: fora la grazia di Diu.

29

[da “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, vol. XXI, Palermo 1902, pp. 405-417].


66 Chi sente la sera suonare la squilla, recita un’Ave, e augura la buona notte alle persone, con cui si trova. Mentre sbadigliando si tiene la bocca aperta, si ha cura di fare innanzi alla bocca la croce, stropicciando il pollice coll’indice, per allontanare gli spiriti, che si teme che entrino per quel varco. Chi ricorda un pericolo scampato, una fortuna ricevuta, o esprime il sentimento del proprio benessere senza dire: grazie a Diu? Cristianu è sinonimo di uomo: un cristianu significa un uomo, qualunque siasi la sua religione, e come dicesi «il mio uomo» per dire «mio marito», così dicesi in Sicilia, e massime si diceva una volta: lu mè cristianu per significare mè maritu, anzi era questa ultima un’espressione poco pudica. Così Ebreu figuratamente significa spietato od ostinato, perché gli Ebrei, è facile il comprenderlo, furono tanto disumani verso G. Cristo ed ostinati a non credere alla sua divinità; e Turcu significa irragionevole, perché sono stati ostinati nella propria religione e ciechi, da non comprendere le imposture di Maometto. Le stesse esclamazioni sono tolte dalla religione: Gèsu! Gèsu! ovvero: Gesummaria! ovvero: Maria Santissima! Sono esclamazioni comunissime di meraviglia o di dolore. Arsu lu diavulu! È un’esclamazione di meraviglia. Arsu lu diavulu, si nni ’nzerti una! cioè se ne azzecchi, se ne indovini una. Giurare sul nome di Maria Santissima è un giuramento ordinario. I fanciulli, dopo di aver fatto alcuni patti tra loro, massime nel giuoco per obbligarsi ad osservarli, sovrappongono l’indice e il medio uniti della mano destra sull’indice e il medio uniti della mano sinistra, e viceversa, più volte, baciano ogni volta questo segno di croce improvvisato e giurano sopra d’essa dicendo: Vasamu lu Signuruzzu. I fanciulli, inoltre, invece di sollazzarsi co’ giocattoli, fanno altarini, li ornano di piccoli ceri e di moccoli, fanno la processione in casa e talvolta anche fuori di casa, con moccoli accesi e con una sacra immagine, che conducono per via o attorno ad un piano.


67 Quando si nomina il diavolo, si nominano anche Gesù e Maria, per mettere in fuga il primo, ed impedire che, chiamato, si presenti davvero, e noccia o almeno spaventi. Così, per esempio, nelle avversità si dice: Opra di lu diavulu è, Gesù ccà (e) Maria. Un uomo in genere, o un uomo insignito d’un ordine sacro non si può svillaneggiare senza aggiungere: livànnucci lu battisimu o livànnucci l’ordini sacri. Quando due donne, dopo d’aver a lungo parlato o anche sparlato senza offisa di Diu, si accomiatano, l’una dice: Raccumannàtimi a lu Signuri, e l’altra risponde: Ndignamenti l’unu cu l’autru comu cristiani. Chi si rassegna bene o male di buon animo o malgrado, dice: ’N penitenza di li mè piccati! Chissu voli lu Signuri! Chissa è la volontà di Diu! Lu Signuri l’havi cu mia. Sia fatta la sò volontà. Ogni cosa chi fa Diu, è santa e justa. Quando si vuole rinfacciare altrui che le sue sofferenze sono un effetto del suo malfare, gli si dice: Chissu lu Signuri fu, chi ti vosi castiari. Le difficoltà maggiori, i nemici più terribili, sono figurati nel mondo, nella carne e nel diavolo, ossia i piaceri sensuali, le voluttà veneree e le tentazioni diaboliche, la quintessenza cioè de’ pericoli della salute eterna. Hê cummàttiri cu lu munnu, la carni e lu diavulu, significa: Ho brighe grandissime a superare. Quando piove, massime dopo una sterilità più lunga del bisognevole, si grida o si fa gridare ai fanciulli: Signuri, lu panuzzu vulemu! Signuri, lu panuzzu vulemu! Di che si diletta il popolo, se non di feste religiose principalmente? Che cosa si rappresentava da’ dilettanti in teatro, eccetto il mortorio, a cui si accorreva in grandissima folla, anche da’ comuni vicini, sebbene il teatro non allettasse per nulla, poiché consisteva in un magazzino fornito di sedie, e rischiarato da lumicini di terra cotta ad olio (spicchia)? Ed anche a’ tempi nostri, che il fanatismo religioso è molto scemato, una compagnia di comici, volendo far quattrini, rappresenta il mortorio, ed è sicura d’un grandissimo concorso.


68 Un’altra prova di quanto ho detto sopra, è il calendario popolare. Chi ha letto l’opera magistrale de’ Proverbi siciliani del Dr. Giuseppe Pitrè, specialmente il volume I, cap. IV «Agricoltura» e il vol. III, cap. LV «Metereologia», si sarà senza dubbio accorto che il popolo ha il suo calendario, formato in gran parte di proverbi, e che questo calendario è fondato su’ giorni festivi dell’anno, sia perché riesce più facile al popolo il pensare alla tale o tal’altra festa, che il pensare al giorno astratto ed indeterminato, sia, ed è forse la ragione più vera, perché il popolo non sa pensare, se non colle idee religiose. È inutile avvertire che i giorni del calendario non sono fissi in modo assoluto, ma debbono prendersi in senso approssimativo. Per compilare questo calendario io non ho fatto altro che raccogliere i proverbi, che vi si riferiscono, dall’opera più innanzi citata del Dr. Pitrè, toltine quelli che hanno il medesimo significato, ed aggiungere quel poco che ho potuto del mio. GENNAJO Il 6 gennaro, dopo l’Epifania, comincia, ovvero cominciava il Carnevale e le maschere, poiché ora il Carnevale è ristretto quasi e senza quasi agli ultimi tre giorni. Quindi è nato il proverbio: Doppu li tre Re, olè! olè! Nel giorno 17 gennaro, ossia nel giorno festivo di S. Antonio si seminano i ceci; si benedice l’orzo nella chiesetta dedicata a quel Santo, e si continua a seminare ma non oltre, poiché tre giorni dopo, il 20, giorno festivo di S. Sebastiano, non è più tempo. Nel giorno medesimo di S. Antonio fa grandissimo freddo e in quello di S. Sebastiano neviga, come in quello di S. Lorenzo (10 agosto) fa grandissimo caldo. Tutte queste cose si traggono da’ seguenti proverbi:


69 Sant’Antonu, ancora è bonu. San Bastianu, lèvaci manu. Sant’Antonu, la gran friddura, San Lorenzu, la gran calura ( o codura); L’unu e l’autru pocu dura.

FEBBRAJO Il 2 febbrajo, il giorno cioè della Candelora, credesi che sia cessato il freddo, e la temperatura cominci ad intiepidirsi, tantochè le galline prendono a far uova, com’è dimostrato da’ seguenti proverbi: A la Cannilora lu friddu è fora. A la santa Cannilora si cci nèvica e cci chiova Quaranta jorna cci nn’è ancora. A la Cannilora ogni gaddina veni ad ova. Un altro proverbio però c’insegna che neviga nel giorno della Candelora: Quannu lu suli di la Cannilora vidi Tanti pinni copri di nivi. Questo proverbio non è, come pare, in contraddizione a’ precedenti, sia perché in uno dei precedenti si è detto che può ancor nevigare, sia perché gli uni sono nati, probabilmente in marina, dove la primavera precede, e l’ultimo in montagna, dove la primavera comincia più tardi. Così Ovidio nel vol. II de’ Fasti, v. 150 e segg., parlando del 9 febbrajo:


70 Quintus ab aequoreis nitidum iubar extulit undis Lucifer, et primi tempora veris erunt. Ne fallare tamen; restant tibi frigora, restant. Magnaque discedens signa reliquit hyems. Nel giorno di S. Biagio, il 3 febbrajo, si conservano le legne, che sino a quel giorno si sono tenute fuori: Lu jornu di S. Brasi Cu’ havi ligna fora, si li trasi. Secondo un altro proverbio in quel giorno cominciano i contadini a far merenda, cosa che non facevano prima per la troppo brevità della giornata: A S. Brasi la mirenna trasi. I contadini in Sicilia mangiano più volte in un giorno, sia perché ne sentono un certo bisogno, sia anche per riposare dalla lunga ed improba fatica quotidiana. In certe località, massime in montagna, nel tempo della mietitura, fanno sino a 7 pasti. Uno di questi è la merenda, che durante l’inverno si sospende. Secondo un altro proverbio, noto forse in altri luoghi, la temperatura comincia ad intiepidirsi il giorno di Sant’Agata, ossia il 5 febbrajo: Sant’Agati Lu suli ’ntra li strati. Secondo un altro proverbio le feste cessano dopo il giorno di S. Agata, e resta solo quella di S. Mattia, che ricorre il 24 febbrajo: Sant’Agati – lagnusi filati, Chi li festi su’ passati. Rispusi santu Mattia: Cc’è ancora la festa mia.


71 Un altro proverbio c’insegna che la primavera comincia non molto dopo il giorno di S. Valentino, ossia il 14 febbrajo, e ciò con maggior verità, perché è noto che la primavera nelle marine comincia prima che in montagna: S. Valentinu, La primavera è vicinu. MARZO Il giorno di S. Giuseppe, ossia il 19 marzo, è fissato per raccogliere la prima volta le fave verdi, anche in poca quantità, e dopo qualche giorno si zappano la seconda volta le viti. Le rondini appajono il giorno di S. Benedetto, cioè il 21 marzo, ossia comincia la primavera: Pria di S. Binidittu La rìnnina supra lu tettu. Dopo il giorno dell’Annunziata, 23 marzo, si seminano melloni, cocomeri e cotone; termina la seminagione del grano marzuolo (che in certi anni e in certi siti continua sino al 20 aprile); cominciano a farsi coprire le pecore, e secondo i seguenti proverbi l’erbe nascono e crescono: Lu jornu di la Nunziata Nesci lu scursuni di sutta la balata, ossia le serpi figurate sotto il nome d’un serpe speciale (scursuni), dopo d’essere state assiderate durante il freddo invernale, sentono il tepore della stagione, ed escono al sole a scaldarsi: Pri la Santa Nunziata Nesci l’erva ch’ ’un è nata.


72 In quel medesimo giorno la vigna dev’essere sarchiata: Pi la Santa Nunziata La vigna divi essiri arrusata. Nel venerdì o nel sabato santo, come mi è stato detto variamente, sia che ricorra in marzo, sia che ricorra in aprile, si salassano gli animali equini, che si sono ingrassati con la forrana. Il venerdì santo si castrano (si tòrcinu) i tori. Un proverbio, che il dr. Pitrè crede alterato, insegna che le lattughe finiscono, come le prediche, dopo Pasqua: Prèdichi e lattuchi Ddoppu Pasqua su’ finuti. Un altro insegna che a Pasqua le pollastre fanno uova, e che gli agnelli sono già ben formati: Ogni tinta puddastredda a Pasqua figghia. A Pasqua pari cu havi beddi agneddi. Un altro insegna che la Pasqua e il Natale possono festeggiarsi senza i propri parenti, ma il Carnevale o il giorno di S. Martino debbono festeggiarsi con loro: Pasqua e Natale cu cu’ vôi, Carnilivaru (o li sdirri) cu li toi. Pasqua e Natali fallu cu cu’ voi, Ma San Martinu cu li toi.

APRILE Il giorno di S. Marco, 25 aprile, passano gli uccelli di passo: San Marcu, passa rutta.


73 MAGGIO Il giorno dell’Ascensione si tosano le pecore, e si lavano nell’acque del mare, che in quel giorno diventano salutari.

GIUGNO I primi tredici giorni di giugno, cioè sino a quello di Sant’Antonino (detti tridicina di Sant’Antuninu) sono grandemente temuti, perché sogliono essere giorni di nebbia umida, che distrugge ogni anno le messi, eccetto il caso poco probabile che il cielo sia nuvoloso, o che il giorno sia ventilato. Credono i contadini di scongiurare il pericolo bruciando durante quel periodo strame e paglie. Passato quel giorno la nebbia non è più temuta, sebbene poi si creda che noccia al frumento, anche quando questo è mietuto, ed abbicato per giunta. Sant’Antonino inoltre nel suo giorno: Vota l’occhiu a lu tunnu, ossia fa prendere al tonno una direzione diversa da quella delle tonnare, le quali il 29 dello stesso mese si tagliano. Così la pesca finisce assolutamente alla fine di giugno. Il giorno di S. Giovanni, 24 giugno, si gittano a terra (scuzzulunari) i fichi d’India primaticci, per avere poi verso ottobre e novembre i tardivi (scuzzulati), che sono più graditi e migliori. La notte di quel giorno l’uva diventa agreste. Esso è il giorno più lungo di tutto l’anno. Lo stesso giorno si cessa di mungere le vacche e le pecore.


74 LUGLIO L’uva, secondo un proverbio, probabilmente di Palermo, si colorisce il giorno di Santa Rosalia, 15 luglio: Santa Rusulia La racina tacchìa. Ma secondo un altro che corre in Mazara comincia a colorirsi il giorno di Sant’Anna, ossia il 26 luglio. Epperò si dice: Passa Sant’Anna Cu lu pignateddu. Nel giorno di Sant’Anna, secondo un altro proverbio, nato probabilmente in siti più caldi, l’uva è matura così da potersi mandare in dono: Sant’Anna La racina si manna. Il giorno della Maddalena, ossia il 22 luglio, si tagliano le api, come si dice in Sicilia, ossia si scaricano le arnie del miele soverchio, e si porta la prole in altri alveari. Si toccano certe specie di fichi di seconda mano per affrettarne la maturità e venderli a prezzo più caro, ossia, come è costume in Sicilia, si toccano con uno stecchetto acuminato, unto di olio o di miele.

AGOSTO Il giorno del SS. Salvatore, 6 agosto, si seminano broccoli e torsoli mangerecci, e cominciano i fichi di seconda mano.


75 Il giorno di S. Gaetano, 7 agosto, cominciano le piogge: L’acqua di San Gaitanu, Arrucia (o arrifrisca) lu chianu. Un altro proverbio stabilisce acquazzoni pel giorno di Santa Chiara, 12 agosto: Santa Chiara Ogni stizza una quartara. Un altro proverbio però sembra che stabilisca le prime piogge per l’Assunzione, ossia pel 15 agosto: L’acqui di l’Assunzioni Piagghitilli, chi su’ boni. In quel medesimo giorno, si ardono le ristoppie, perché la trebbiatura è in generale finita; si lavano gli animali armentizii; le uve cominciano a maturare, e le ulive ad essere oleose: A mezzu austu, ogghiu e mustu. Oggi, si dice in quel giorno: Trasi l’ogghiu ’nta l’olivi. Questo medesimo giorno finalmente si raccolgono le mandorle, come in quello di San Bartolomeo, 24 agosto, si raccolgono le carrube, e quantunque in quest’ultimo giorno piova, nondimeno le piogge non sono copiose: San Bartulumeu nun jinchi jisterna.


76 SETTEMBRE

Il giorno della natività di Maria Vergine, ossia della Bambina, 8 settembre, si vendemmia nelle terre più sterili, dove le uve maturano più presto; la 3° domenica di settembre, il giorno cioè del nome di Maria, che volgarmente dicesi la tagghiata, festa e fiera a Castelvetrano, si vendemmia ne’ terreni sabbiosi, ma freschi, mentre l’ultima vendemmia nelle terre più acquidose è stabilita per S. Michele, il 26 settembre. Epperò un proverbio insegna: A S. Micheli La racina è duci comu lu meli. Lo stesso giorno del nome di Maria cominciano a macellarsi gli animali suini. Niuno di fatto torna dalla fiera di Castelvetrano senza avere gustato la salsiccia, che ivi si fa e si vende, e senza averne portato in famiglia. Il giorno della Santa Croce, 14 settembre, si raccolgono le noci e possono mangiarsi col pane: Pri Santa Cruci Pani e nuci. Il giorno di S. Michele, 29, le giornate cominciano ad essere tanto lunghe, da poter cominciare le veglie: A S. Micheli Si metti (o s’adduma) lu cannileri; e finalmente: La luna di S. Micheli cuverna se’ mesi, col quale proverbio credo che si accenni all’equinozio d’autunno.


77 OTTOBRE Il giorno di S. Francesco, 4 ottobre, comincia a farsi sentire il fresco, si semina il prezzemolo (pitrusinu) e si raccolgono le ulive ne’ terreni più sterili: Pri San Franciscu Nesci lu càudu e trasi lu friscu. Il giorno della Madonna del Rosario, 6 ottobre, comincia la seminazione dell’orzo, in quello di Santa Teresa passano le allodole: Santa Tresa Passa rutta. Il giorno di S. Luca, 18 ottobre, comincia la seminagione de’ grani, e cessa la merenda de’ contadini, già cominciata il giorno di S. Biagio, 5 febbrajo, come più innanti si è detto: S. Luca, semenza minuta; Si ’un è nata, è siminata; A S. Luca, la mirenna è pirduta. Il giorno di S. Crispino, 25 ottobre, si assaggia il vino nuovo: A S. Grispinu Si vivi lu vinu. Parlasi naturalmente del vino delle prime vendemmie, cioè di quelle della fine di agosto e principio di settembre, poiché, come vedremo appresso, il vino si assaggia in novembre. Lo stesso giorno, essendo le ulive mature e in istato di essere rubate, conviene che siano guardate:


78 Santi Grispinu e Grispinianu, Ogni pedi di oliva un guardianu. Il giorno de’ Santi Simone e Giuda, 28 ottobre, abbondano le piogge; cade la neve, si raccolgono le nespole, probabilmente nei luoghi più sterili: A S. Simuni Li nespoli a munzidduni E l’acqui a li vadduni, Pri S. Simuni, la nivi a li sirruni. Lo stesso giorno finalmente si tura in parte con un vaso di terra cotta bucato il cocchiume delle botti, che durante la fermentazione si è lasciato aperto: A San Simuni Si metti lu cupuni. Ovvero, se è già cessata la fermentazione, si tura del tutto: A S. Simuni Si attuppa lu cupuni (il cocchiume). Ovvero il mosto cessa di fermentare e divien vino: S. Simuni Acqua ’ntra li vadduni E vinu ’ntra li cupuni. NOVEMBRE Il giorno di Ognissanti, 1 novembre, neviga abbondantemente, e le mosche per eccesso del freddo diventano rare: Pri tutti li Santi la nivi a li canti. Pri tutti li Santi li muschi canti canti.


79 Un altro proverbio insegna che neviga abbondantemente il giorno della commemorazione de’ defunti, 2 novembre: Pri li morti La nivi darreri li porti. Il giorno di S. Martino, 11 novembre, taluni cominciano a spoppare gli agnelli, detto in Sicilia azzaccanari; si assaggia il vino della vendemmia più tarda, si seminano fave, lino e frumento: A S.Martino si vivi lu vinu. A S. Martinu favi e linu S’un su’ nati, su’ siminati. S. Martinu, lu furmentu Megghiu a lu campu Chi a lu macasenu. Il giorno della Madonna della Pace, 21 novembre, si raccolgono le nespole, che secondo il proverbio si considerano come l’ultimo frutto dell’estate, e che più innanzi abbiamo anche veduto che si raccolgono il 29 ottobre, cioè il giorno di S. Simone. Il giorno di Santa Caterina, 25 novembre, comincia ovvero cominciava la caccia degli uccelli acquatici, ora quasi scomparsi da’ laghetti vicini a Mazara, dove è noto probabilmente il proverbio che segue: Santa Caterina Caccia china. Lo stesso giorno le mosche son morte, le piogge abbondano, tramontano le Plejadi: Pri Santa Catarina,’na musca ’un camina. A Santa Catarina, la cisterna china E la puddara a la marina.


80 Il giorno di Sant’Andrea, 30 novembre, le melarance cominciano ad ingiallire e maturare: Sant’Annirìa L’aranciu giannìa. Lo stesso giorno, ovvero quello di Santa Lucia, 13 dicembre, cominciano le tempeste, ond’è prudenza che le navi non escano dal porto: Sant’Annirìa, Ogni navi ’n portu sia, E s’ ’un cc’è, si cci disìa.

DICEMBRE Il giorno di S. Niccolò, 6 dicembre, le vacche si tengono nelle stalle e i maiali si lasciano in campo aperto: Santu Nicola Vacchi dintra e porci fora. Il giorno dell’Immacolata, 8 dicembre, i tori che per ordinario vagano liberamente, si conducono in mezzo alle vacche per farle coprire: La ’Mmaculata Li tauri ’nta la pilata. Dal giorno dell’Immacolata, 8 dicembre, a quello di Santa Lucia, 13, i giorni sono tanto brevi, quanto un passo di allodola;


81 da quello di Santa Lucia a Natale diventano un poco più lunghi; da Natale al 1° gennaro diventano assai lunghi: Di la ’Mmaculata a Santa Lucia Quantu un passu di cucciuvìa, Di Santa Lucia a Natali Quantu un passu di cani, Di Natali a l’annu novu Quantu un passu d’omu. E senza traslati, si dice: Santa Lucia, La nuttata cchiù lunga chi cci sia. Santa Lucia, Lu jornu cchiù curtu chi cci sia. Il Pasqualigo prima e il Pitrè poi osservano qui, che questi proverbi nacquero prima della riforma gregoriana del calendario, quando cioè le giornate più brevi furono appunto quelle del 13 dicembre. Lo stesso giorno di Santa Lucia bisogna aver seminato: Pri Santa Lucia Ogni bonu lavuraturi siminatu avìa. Cu simina pri Santa Lucia, Nu nni porta frumentu pri la via. Un altro proverbio insegna che la fame comincia insieme col freddo dal Natale in poi: Avanti Natali né friddi né fami, Doppu Natali lu friddu e la fami.


82 Ma giova assaissimo se le giornate sono serene a Natale, o se la stagione invernale e piovosa si prolunga oltre Pasqua: Natali cu lu suli E Pasqua cu lu tizzuni, Chissa è la vera staciuni. Neviga abbondantemente il giorno di S. Silvestre, cioè il 31 dicembre: Pri S. Silvestru La nivi a li finestri.


Leggende d’impronte maravagliose 30 La scarpa di S. Vito in Mazzara La chiesa di Santa Teresa credesi che sia stata fabbricata sulla casa di S. Vito, di cui Mazzara si attribuisce l’onore della nascita. In un pozzo, cavato nella sacrestia della chiesa, e che, com’è naturale, credesi che sia lo stesso pozzo della casa di S. Vito, dicesi che si veda comparire una scarpa, che si attribuisce al Santo.

La croce della Madonna dell’Alto in Mazzara Sopra una piccola altura, alla distanza d’un pajo di chilometri da Mazzara, a nord est, sorge una chiesetta dedicata all’Assunzione: la quale, dal luogo dove la chiesa è fabbricata, chiamasi Madonna dell’Alto. Quivi trovasi la statua della Madonna, opera, se ben io so, del Castagnola. Dicesi che i buoi, che portavano il monumento, arrivati ad un masso vivo che rimane 30

[in “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, vol. XIII, Palermo 1894, pp. 68-70].


84 ancora, a piè dell’altura, si fossero inginocchiati, e non avessero voluto andar oltre. Nel masso vedevasi segnata una croce e leggevasi una data, che il tempo ha già cancellata.

Il pugno d’un frate nel refettorio del convento di S. Anna in Sciacca A Sciacca, come si dice, in una tavola del refettorio dei Minori Osservanti, vedesi impresso un segno che pare un colpo di mano. Dicesi che un fratello del convento abbia una sera veduto il refettorio illuminato, tutti i posti occupati da monaci, che stavano a cenare, mentre uno leggeva, com’era costume de’ frati. Riferita la cosa al Guardiano, dopo d’essersi costui accertato, dagli spiragli della porta, che il frate avesse il cervello a segno, corse tutto spaventato a convocare il Capitolo e chieder consigli e pareri. «Andate con la croce» – gli dissero in capitolo. Ma il Guardiano, che aveva la tremarella, non volle sentirne d’andar solo, non ostante la buona compagnia della croce, e volle piuttosto la compagnia degli altri. Andati adunque in processione con la croce innanti, con la stola e l’acqua benedetta, entrati nel refettorio, trovarono esser tutto vero. Il Guardiano, fattosi il segno della croce, e sparsa l’acqua benedetta, scongiurò i cenanti in nome di Dio a dire che cosa fossero. «Ubi nullus ordo, rispose uno di loro, sempiternus horror inhabitat. Noi siamo anime di frati morti: crapula, superbia et luxuria duxerunt nos ad æterna tortura (sic)». Così dicendo, chi parlava battè con la mano aperta sulla tavola, lasciandovi il segno del colpo, che si conserva ancora, o che si conservava almeno prima dell’abolizione degli ordini religiosi. Indi la visione sparve come fumo.


Leggende bibliche e religiose di Sicilia 31 Lu primu piccatu Lu Signuri ci dissi ad Adamu: – «Mancia tutti li frutti chi vôi di lu Paraddisu; ma chisti nun l’ha’ tuccari». Lu sirpenti tintau ad Eva, e ci dissi: – «Oh chi bellu pumu! Eva, pirchì nun ti lu manci?» – «No, rispusi Eva; non voli lu Patri Maistru» – «E sa’ pirchì nun voli?» dissi lu serpenti. «Pirchì poi aviti addiventari Diu com’ iddru». Eva ci dissi ad Adamu: – «Manciàmuni lu pumu». – «No, rispusi Adamu; non voli lu Patri Maistru». – «E sa’, ci dissi Eva, pirchì non voli? Pirchì poi addivintamu Diu com’iddru». Cugghieru lu pumu e si lu manciaru; ma lu pumu ci ristau ’mpintu ’nta lu cannarozzu. Adamu fici tanti figghi, e lu Signuri lu chiamau: – «Adamu! Adamu!». Adamu si vriugnava ch’avìa tanti figghi, e una pocu l’ammucciau. Lu Signuri binidissi chiddri chi vitti, e l’àutri addivintaru serpi, schirpiuna, ciaramuci ed àutri armalazzi.

Gesù Cristu Quannu la Madonna avìa a parturiri, trasiu ’nta un fùnnacu, e ci dissi a la funnacara: – «Pi carità, dàtimi un cantuzzu». – «E chi v’hè dari? ci dissi la funnacara: nun li viditi chi lu fùnnacu è chi31

[da “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, Palermo vol. XXI, 1903, pp. 218-222; vol. XXIII, 1906, pp. 211-223].


86 nu! Ddrà ci su’ jumenti, ddrà ci su’ muli e cavaddri, ddrà ci su’ omini: dunni v’hê mèttiri?» – «Un cantuzzu sulu», ci dissi la Madonna – «Va beni, mittìtivi ddrocu». Ma vidennu poi chi lu fùnnacu era chinu, la ributtau e ci dissi: – «Iitivinni, ’un haju chi vi fari». La Madonna si nni jiu e, circannu cu S. Giuseppi, truvau finarmenti la grutta di Betlemmi. S. Giuseppi la scupau beddra pulita; la Madonna parturiu, e Gesù Cristu nascìu ’nta lu friddu e ’nta la nivi. Quannu nascìu lu Bamminu, cumparìu la stiddra; e li tri Re, chi circavano a Gesù Cristu, jeru appressu la stiddra, e si firmaru dunni si firmau la stiddra. Traseru ’nta lu ’rutta, e unu ci purtau ’n cumprimentu ’ncensu, n’àutru ’na picuricchia, e n’àutru argentu, e lu bamminu ci fici lu miraculu, chi ad unu lu fici addivintari giùvini, a n’àutru di nìvuru lu fici addivintari biancu32. Ora Erodi sappi ch’era natu lu Bamminu, lu Re di lu munnu, e nun sapennu dunn’era, urdinau chi fussi tagghiata la testa a tutti li picciriddri. Li pigghiavanu p’un pedi33, e ci tagghiavanu la testa. La Madonna si pigghiau lu Bamminu e si lu misi ’nta lu falari, e si nni jiu cu S. Giuseppi. La scuntraru e ci dumannaru: – «Chi purtati, bona donna?» – «Rosi e ciuri», ci rispusi la Madonna, e ci fici a vìdiri lu falari, e si ni jiu cu S. Giuseppe ’n Egittu. La duminica di li parmi a Gesù Cristu lu purtaru di ccà e di ddrà cu li parmi, e lu ’nnumani: – «Crucifigiu! Crucifigiu!». E tutti gridavano: – «A morti lu vulemu, a morti lu vulemu!» – «Vuliti chi mori Barabba? – «No, Barabba sia sarvu, e Gesù Cristu sia ammazzatu!».

32

Da questo luogo si vede che nel popolo i tre Re Magi erano Turchi, e perciò neri di aspetto. 33 La narratrice prese questa circostanza da un quadro che trovasi nella chiesa di S. Michele in Mazara, in cui è dipinta la Strage degl’Innocenti, e i fanciulli son presi pei piedi.


87 Quannu pigghiaru a Gesù Cristu, San Petru si nni jiu a scafàrisi unni Sasanna, e stava cotu cotu, pirchì si scantava chi pigghiavanu a iddru puru. Sasanna ci dissi: – «Tu non si’ lu sociu di lu Patri Maistru?» – «No, ci rispusi San Petru, nun lu canusciu» – «Sì, tu si’ lu sociu di lu Patri Maistru». – «No, nun lu canusciu», repricau S. Petru. Allura lu gaddu cantau, e S. Petru dissi: – «Ah! chi fici!». Pigghiau ’na petra, e si sfunnau lu pettu; ma Gesù Cristu ci dissi: – «Basta, Petru». E lu pirdunau. Lu pigghiaru a Gesù Cristu e l’attaccaru a la culonna; ci mìsiru lu mantellu russu e la fascia russa. Ci mìsiru la curuna di spini ’n testa, e ci la chiantaru cu li mazzi, e una ci spuntau d’un occhiu, e n’àutra ci spuntau di l’àtru occhiu, e n’àutra d’un’oricchia, e n’àutra di l’àtra oricchia. La Madonna ci dissi: – «E chi vi fici mè figghiu?». E pi parlari ddra matri mischina, appi trecento e milli mufuluna34. E Gesù Cristu murìu, quannu ci dèttiru a bìviri cu la sponsa sali cu l’acitu: tannu abbannunau e murìu. La Madonna la purtaru ’n casa di S. Giuvanni, e nun vosi tastari nenti; tastau sulu un filu di nipiteddra, ch’era amarissimu.

Lu vastuni di San Giuseppi Un jornu si jittau un banniu: chiddru a cu’ ci ciurìa lu vastuni, avìa ad esseri lu patri di lu Signuri. Allura curreru tutti, viddrani e cavalieri, chiddru cu ’n vastuni e chiddru cu n’àutru. Tra l’àutri currìu S. Giuseppi cu un ramu di mènnula. Quannu vìttiru stu vicchiareddru scarsuliddru cu ’n truncuni di mènnula, si mìsiru a rìdiri. – «Ta! Ta! Ch’avi a ciuriri ddru pezzu d’arvulu!» dìssiru tutti. Quannu fu ura, aisaru tutti li vastuna, e S. Giuseppi aisau lo 34

Questi due versi senza dubbio facevano parte d’una lunga poesia della passione di Gesù Cristo, di cui la narratrice ricordava i due soli versi di sopra riportati.


88 sò, come l’àutri. Ma lu pezzu d’arvulu di S. Giuseppi ciuriu, e chiddru di l’àutri no, e S. Giuseppi fu lu patri di lu Signuri.

Lu Bamminu La Madonna era scarsuliddra, e filava pi manciari, e S. Giuseppi facìa lu mastru d’ascia. Un jornu la Madonna mannau lu sirvizzu cu lu Bamminu a una furnara, e la furnara ci dissi: – «Turiddru, ti vogghiu fari un cucciddrateddru, e ti lu vogghiu dari». Quannu lu cucciddrateddru lu misi ’nta lu furnu, addivintau grossu grossu. Lu Bamminu poi ci jiu e la furnara ci detti ddru gran cucciddratu. Quannu lu Bamminu lu purtau a la casa, la Madonna ci dissi: – «Ah! Chi beddru cucciddratu! Turiddru, cu’ ti lu detti?» – «La furnara» ci rispusi lu Bamminu. – «E tu chi cumprimentu ci fai?» – «Ci fazzu lu cumprimentu, ch’avi stari pi sett’anni ’nta lu lettu sempri supra un latu, cu dulura». – «Stu cumprimentu ci fai?» – «Chistu ci attocca». – «E jeu ci dugnu l’assistenza», dissi S. Giuseppi. – «E jeu ci dugnu la pacenza, dissi la Madonna, pi jirisinni ’nparaddisu». N’àutra vota la Madonna mannau cu lu Bamminu lu sirvizzu a n’àutra, e chista ci dissi: – «Turiddru, nun n’haiju nenti chi ti dari, nun n’haiju nenti chi ti dari». Comu turnau a la casa, la Madonna ci dissi: – «Turiddru, nenti ti detti?» – «Nenti», rispusi lu Bamminu. «E tu chi cumprimentu ci fai?» – «Ci fazzu lu cumprimentu, chi chissa simina furmentu, e n’havi a fari tantu, ch’avi a jinchiri li macaseni, e nun avènnulu chiù dunni mèttiri, l’havi a mèttiri ’nta lu curtigghiu. Poi havi a veniri un’acquarìa veru forti, iddra pi arriparari lu furmentu, si ci havi a jittari di supra, ci havi a scattari lu feli, e si nn’havi a jiri a lu ’nfernu».


89

La Madonna Un jornu di Vènniri la Madonna circava lu Bamminu. Vitti una fimmina chi si pittinava, e ci dumannau s’avìa vistu passari a sò figghiu. Chiddra ci rispusi: «Nun haiju vistu passari a nuddru». E la Madonna ci dissi: – «Tinta ddra trizza, chi di Vènniri si ’ntrizza». Chiù p’a jiri ddrà vitti n’àutra fimmina chi ’mpastava la farina pi fari lu pani, e la Madonna ci fici la stissa dumanna. La fimmina ci rispusi: – «Ora ora lu vitti passari, e pigghiari pi ddra strata». La Madonna allura ci dissi: – «Biniditta ddra pasta, chi di Vènniri si ’mpasta»35.

La gula di S. Petru Un jornu Gesù Cristu e l’apostuli eranu dijuna, e lu Signuri dissi a S. Petru di acchianari supra una montagna vicina, dunni c’era un picuraru, e di fàrisi dari di manciari pi carità. S. Petru ci jiu, e quannu lu picuraru ’ntisi chi lu Signuri vulìa manciari, pigghiau la pecora chiù grassa e megghiu ch’avìa e ci la detti. S. Petru chi nun la sapìa scurciari, si la fici scurciari di lu stissu picuraru, e quannu vitti lu fìcatu, ci vinni la gula, si lu fici arrùstiri, e si lu manciau ’nta quattru botti. Doppu si misi la pecora supra li spaddi, scinnìu di la montagna, e jiu unni Gesù Cristu e l’apostuli l’aspittavanu. Ma Gesù Cristu, quannu vitti la pecora senza fìcatu, ci dissi a S. Petru: – «Petru, e lu fìcatu?» – «Chi sacciu? ri-

Cfr. G. Pitrè, Fiabe e leggende popolari siciliane, n. XXXVII, Palermo 1888. Lo stesso, Usi e costumi, Palermo 1889 vol. IV, p. 259.

35


90 spusi S. Petru: sta pecora appi a nàsciri senza fìcatu». Ma lu Signuri chi sapìa tutti cosi, si misi a rìdiri.

La soru di S. Petru Quannu Gesù Cristu e S. Petru viaggiavanu ’nsèmmula, la soru di S. Petru ci dissi a sò frati chi si vulìa maritari. – «Sì, ci rispusi S. Petru; quantu ni parlu prima cu lu Maistru». Lu dissi a Gesù Cristu, e Gesù Cristu ci rispusi: – «Sì, Petru, maritàmula». Ma lu maritu ci murìu; e la soru di S. Petru, doppu ’na pocu di tempo ci dissi a so frati chi si vulìa maritari arreri. S. Petru ni parlau cu lu Signuri, e lu Signuri ci dissi: – «Marìtala». Morsi lu secunnu maritu, e la soru di S. Petru si vulìa maritari la terza vota. Ma quannu S. Petru ni parlau cu Gesù Cristu, Gesù Cristu ci dissi: – «Chi si maritassi»36.

Lu lagnusu Un jornu Gesù Cristu, S. Petru e l’Apostuli, caminannu, passaru davanti ’na ficara carrica di ficu beddri maturi, e vìttiru un omu curcatu sutta ddr’arvulu chi dicìa: «Oh chi fami chi haju! Oh chi fami chi haju!» «E pirchì, ci dìssiru, nun cogghi du’ ficu e ti li manci?» – «E po’ hê stenniri la manu?» ci rispusi ddr’omu lagnusu. Caminannu chiù p’a jiri ddrà, vìttiru ’na bella gìuvina chi lavava. – «Chi bella giuvina!» dissi S. Petru a Gesù Cristu. – «Sta gìuvina, ci rispusi Gesù Cristu, s’havi a spusari cu ddr’omu lagnusu, chi si contenta di mòriri di fami p’ ’un stènniri la manu a 36

Cfr. G. Pitrè, Fiabe e leggende, n. XLVI.


91 cògghiri du’ ficu» – «E chi diciti, Patri Maistru? dissi S. Petru, com’è possibili ’na cosa simili?» – «Jeu ti dicu, ripricau Gesù Cristu, chi ssa bedda gìuvina havi a spusari dru lagnusu, e cu lu sò travagghiu havi a manteniri a iddra stissa e a chiddru»37.

La gula di S. Petru38 Un jornu S. Petru, caminannu cu lu Signuri e cu l’Apostuli, vitti un gaddru chi, stannu a l’addritta, parìa ch’avìa un pedi sulu: – «Maistru, ci dissi a lu Signuri, viditi ddru gaddru, ch’avi un pedi sulu?» – «Facci sciù! – ci rispusi lu Signuri, e vidi quantu nn’havi». San Petri ci fici: sciù! e lu gaddru niscìu l’autru pedi. Un jornu doppu stu fattu, lu Signuri cu l’Apostuli cucìu un gaddru, e san Petru, ch’era lu chiù gargiutu, si ni manciau una cusciteddra. Quannu lu gaddru fu purtatu a tavula, lu Signuri, chi capìa tutti cosi, dumannau a S. Petru doppu chi si lu manciaru: – «Petru, lu gaddru avìa un pedi sulu: com’è sta cosa?» – «E vui chi ci facistivu: sciù!? – ci rispusi San Petru; si ci avìssivu fattu: sciù! avissi nisciutu l’autru pedi».

La Morti Un maritu avìa la mugghieri gràvita, e tutti vulianu esseri so’ cumpari. – «Nenti, iddru dissi; jeu vogghiu pi cumpari unu ch’havi ad esseri bonu e giustu». Quannu ci vulìa picca ch’avìa a parturiri, si ni jiu, e cuminciau a caminari pi trovari un cumpari, Questo raccontino ha stretta relazione col modo proverbiale: Ficu, càdimi ‘n mucca, che si usa per esprimere l’indolenza di coloro che sperano di ottenere una cosa senza alcuna opera propria. 38 Questo raccontino richiama la Novella 4a, giornata 6a, del Decamerone. 37


92 comu vulìa iddru. Camina e camina, si ’ncuntrau cu lu Signuri, chi jia caminannu cu l’Apostuli – «Cumpari, chi jiti facennu?» ci dissi lu Signori – «E chi hê jiri facennu? ci rispusi iddru. Mè mugghieri havi a parturiri, e vaju circannu un cumpari bonu e giustu». – «E cchiù giustu di mia, dunni l’aviti a truvari?» – «E vui cu’ siti?» – «Lu Signuri» – «E vui giustu siti? Comu? Ci su’ li ricchi e li scarsi, li malati e li boni, e siti giustu? Mai; nun vi vogghiu a vui», e si jiu. Doppu n’àutru pezzu, lu Signuri ci dissi a S. Petru: «Petru, vacci tu; po’ esseri ch’a tia ti voli». S. Petru si ci prisentau e ci dissi: «Cumpari, chi jiti facennu?» – «E chi hê jiri facennu?» ci rispusi lu viddranu – Mè mugghieri havi a parturiri, e vaju circannu un cumpari bonu e giustu». – «E a mia mi vuliti, ci dissi S. Petru, ch’aju li chiavi di lu Paraddisu?» – «E vui cu’ siti?» – «San Petru» – «E vui giustu siti? E comu? Ci su’ chiddri tignusi chi fannu un fetu di pesta, e nun si ponnu avvicinari a nuddru, e siti giustu? Va, jitivinni, chi nun vi vogghiu a vui pi cumpari» e si ni jiu. Quannu S. Petru turnau, lu Signuri ci dumannau: – «Chi ti dissi?» – «E chi m’avìa a diri? ci rispusi S. Petru, nun mi vosi, pirchì ci su’ li tignusi che fannu un fetu di pesta, e nun si ponnu avvicinari a nuddru». Caminu facennu, si ci prisintau finarmenti la Morti. – «Cumpari, chi jiti facennu?» – «Mè mugghieri havi a parturiri, e vaju circannu un cumpari bonu e giustu». – «E cchiù giustu di mia nun lu putiti truvari, pirchì jeu non guardu né a ricchi, né a poviri, né a granni né a picciriddi, né a boni, né a malati» – «E vui cu’ siti?»– «La Morti» – Iddru, sintennu ch’era la Morti, ci dissi di sì. Quannu so mugghieri parturìu, vinni la Morti, fici lu cumpari, ci fu la calia, li cunfetti, tutti cosi beddri puliti. Doppu, la Morti, prima di jirisinni, ci dissi: «Cumpari, vui lo sapiti, chi jeu non guardu a nuddru: dicìtimi quantu tempu vuliti?» – «Gnursì, cumpari: datimi n’àutri deci anni di vita». Quannu li deci anni s’avvicinaru, passau lu Signuri cu l’Apostuli e S. Petri, e S. Petru


93 ci dissi a lu viddranu: «Talìa; lu Signuri passa: dumànacci la grazia di l’arma». Lu viddranu si avvicinau a lu Signuri, e ci dissi: – «Signuri, una grazia vurrìa fatta» – «Ti sia cuncessa: chi grazia vôi?» ci rispusi lu Signuri– «Vurria, chi cu’ tocca l’aranciu, di st’arancia ristassi ’mpinnutu pi sempri». Lu Signuri ci lu cuncessi. Quannu finarmenti stavanu pi passari li deci anni, si prisintau la Morti, e ci dissi: – «Cumpari, va, jemuninni: li deci anni stannu passannu; priparativi» – «Comu, cumpari? Macari cu mia vi la tirati?» – «Nun haju chi vi fari; vu’ lu sapiti» – «Va beni dunca: manciamu prima, e poi ni ni jemu». Mentri chi stavanu pi manciari: – «Cumpari, dissi lu viddranu a la Morti, un aranciteddru ci starìa: vuliti jiri a cògghilu?». La Morti si susìu, e ci jiu; comu tuccau l’aranciu, ristau ’mpinnuta. Doppu bastanti tempu, lu Signuri, chi jia caminannu cu l’Apostuli, dissi a S. Petru: – «Sa chi fici chiddru chi circava lu cumpari? Fici ristari la Morti ’mpinnuta a l’aranciu, e ora nun mori chiù nuddru: jemu a farla scìnniri». Jeru, e ci dissiru: – «Va, ora è bastanti chi la Morti è impinnuta; falla scìnniri». – «La fazzu scinniri? Ora avemu a fari patticeddri novi» – «E quantu tempu di vita vôi ancora?». – «N’àutri deci anni». Lu cuntu nun havi tempu. Li deci anni stavanu pi passari, e la Morti si prisintau novamenti, e ci dissi: – «Cumpari, li deci anni stannu passannu; jemuninni; ora nun aviti chi fari». – «Cumpari, gnursì. Ma nun avemu a manciari, prima? Manciamu, vivemu, e poi ni ni jemu». Doppu chi manciaru, iddru dissi a la Morti: – «Cumpari, nun m’aviti dittu, chi passati cu dui matarazzi ’nta un funnu d’augghia? Se è veru, tantu chiù putiti tràsiri ’nta stu ciascu» (chi avìa lu ciascu ’n manu dunni avìa vivutu). – «E chissu è nenti», ci rispusi la Morti e subitu trasìu. Iddru ch’avia lu stuppagghiu ’n manu, ci lu misi subitu, chiudìu la Morti ddrà dintra lu ciascu, e lu ciascu si l’attaccau darreri li spaddri, e lu purtava sempri d’appressu.


94 Ma vidennu lu Signuri chi nun muria chiù nuddru, pirchì la Morti era nchiusa nta lu ciascu, ci passau cu S. Petru e cu l’Apostuli, e ci dissi: – «Va, bastau ora; fa nèsciri la Morti». La Morti, quannu ’ntisi la vuci di lu Signuri, cumincià a ballari dintra lu ciascu, e lu ciascu ci sbattìa a lu viddranu ’nta li spaddri. – «La fazzu nèsciri?– rispusi iddru. Prima m’havi a dari nàutru poco di tempu di vita». – «E sintemu, ci dissi la Morti: quantu anni di vita vôi ancora? – « N’àutri vint’anni». La Morti ci lu cuncessi, e niscìu. Ma quannu passaru li vint’anni, la Morti si prisintau arreri, si misi supra un muntarozzu e ci dissi: – «Cumpari, li vintanni passaru; ora nun mi cutuliati chiù; priparàtivi e jemuninni». Iddru, vistu chi nun avìa chi fari, si fici li santi sacramenti, e partiu cu la Morti pi l’eternità, e lu Signuri si lu portau ’nparaddisu.

Comu ’na picciotta si manciau un cori e nisciu gràvita Quannu lu Signuri caminava cu S. Petru e l’Apostuli, un jornu doppu di aviri fattu un pezzu di via, S. Petru ci dissi: – «Patri Maistru, fami haiu». – «E sempri tu hâ esseri lu primu a sèntiri la fami e la siti» ci rispusi lu Signuri. Doppu d’aviri fattu n’àutru pezzu di via a muntata, S. Petru ripricau: – «Patri Maistru, fami haiu». – «Ebbeni, ci dissi lu Signuri a l’Apostuli, pigghiàtivi una petra l’unu» – Tutti l’autri si pigghiaru una petra giustera; S. Petru si ni pigghiau una nica nica. Doppu chi lu Signuri vitti che l’Apostuli erano stanchi pi veru, ci dissi: «Ripusativi e manciati», e la petra ch’avìanu ’n manu ci addivintau a tutti pani, e manciaru. Ma S. Petru ristau chiù affamatu di prima, pirchì la so petra era nica nica. – «E jeu comu fazzu cu stu pizzuddru di pani?» dissi S. Petru. – «E tu pirchì sì fàusu, Petru?» ci rispusi Gesù Cristu. L’Apostuli, sintennu cumpassiuni, ci dissiru a lu Signuri: «Signuri si vuliti, ci ni damu un pizzuddru l’unu». – «Mai, rispusi lu Signuri; ognunu s’avi a manciari lu sò».


95 Doppu n’àutru bellu pezzu di via, S. Petru cuminciau da capu: – «Patri Maistru, jeu fami haiu. Patri Maistru, jè fami haiu». – «Ebbeni, ci dissi lu Signuri, pigghiativi una petra l’unu». S. Petru scannaliatu, sta vota si ni pigghiau una veru grossa, ch’appena la putìa purtari. Doppu n’autru pezzu di via, chi S. Petru nun ni putia chiù, lu Signuri li fici trattèniri pi manciari, e li petri addivintaru arrera pani; ma chiddra di San Petru ristau petra. «Patri Maistru, comu fazzu? La mia ristau petra pi com’era» – «Ti ci assetti di supra, ci rispusi lu Signuri; tu, Petru, nun ti vôi scannaliari». E S. Petru bisugnau fari lu setti a forza39 e ristari mortu di fami. Si misiru di novu a caminari, e vicinu la via c’era unu chi siminava, e tutti chiddri chi passavanu, ci dumannavanu: – «Cumpari, chi siminati?». – «Furmentu» rispunnìa iddru. – «E chi siminati?» «Furmentu». – Quannu passau lu Signuri cu l’Apustuli, S. Petru, ch’era curiusu, ci dumannau: – «Chi siminati?». – «Patati» ci rispusi iddru. – «E patati sianu» dissi S. Petru. Quannu iddru vitti nàsciri una pocu di patati, si maravigghiau. «Com’è? Siminu furmentu e nàscinu patati? Chissà appi a esseri la mè fasitudini40, pirchì a tutti rispusi chi siminava furmentu, e una vota dissi chi siminava patati, e chissu chi mi domannau vacci va appi ad essiri S. Petru, cu lu Signuri e l’Apostuli». A tempu di mètiri lu Signuri cu l’Apostuli si truvau a passari arrera di ddrà, e vìttiru a chiddru stissu, chi si mitìa lu siminatu di duminica; chi tuttu già non ci addiventau patati. – «Puvireddu! dissi S. Petru. Nun havi comu addruari l’omini, e si lu meti iddru a picca a picca. Patri Maistru, vuliti chi l’ajutamu nuatri?» – «No, ci rispusi lu Signuri; va, dicci chi ci duna focu, si voli». S. Petru, ci jiu, e ci dissi: – «Bon omu, chi faciti?». – «E ch’hê fari? Metu». – «E macari la duminica!» – «Nun pozzu addruari l’omini, e mi lu metu sulu, a picca a picca». – «Sapiti ch’aviti a 39 40

[fare qualcosa malvolentieri]. [stanchezza].


96 fari? Dàtici focu» – «Comu? Focu c’è dari? Si nun vi ni jiti, a furcunati vi pigghiu». S. Petru pi tantu di cuntanti, senza né chitibbi, né chitabbi41, ci detti focu iddru, e lu siminatu fici una vampuliata. S. Petru allura si misi a cùrriri, e si jiu unni lu Signuri, pirchì lu viddranu lu vulìa mèttiri a manu ed era veru ’nfuriatu. «Non c’è nenti, ci dissi lu Signuri: turnativinni e viditi chi lu siminatu nun è abbruciatu». – Lu viddranu turnau, e truvau tuttu lu siminatu a cavaddrugnu, comu si ’un avissi avutu mai una sbrizza di focu. Quannu lu furmentu fu bellu a timogna, successi chi lu Signuri passau arrera di ddrà, e San Petru ci dissi: «Patri Maistru, lu viditi a ddru viddranu chi mitìa di duminica? Ancora cca è» – «Sì, lu viju, ci rispusi lu Signuri: chissu havi un piccatu, chi nun si po’ sarvari». – «E nuddru rimeddiu c’è ?» – «Ci è lu rimeddiu: ma iddru lu fa? – «E videmu, si lu fa» – «Dunca va, dicci chi si mittissi dintra la timogna, ci dassi focu, e s’abbruciassi cu tutti li spichi». San Petru jiu, e – «Bon omu, ci dissi, vui aviti un piccatu, chi nun vi putiti sarvari» – «E nuddu rimeddiu c’è? » ci rispusi iddru. – «C’è lu rimeddiu, si lu vuliti fari: v’aviti a mettiri dintra la timogna, ci aviti a dari focu, e vi aviti a bruciari cu tutta la timogna». Lu viddranu senza perdiri tempu, pi l’amuri di sarvàrisi l’arma, allargau la timogna, si ci jiccau dintra, ci detti focu, e si abbruciau cu tutta la timogna. Doppu qualchi tempu passaru arrera di ddrà, e S. Petru ci dissi a lu Signuri: – « Patri Maistru, fami haiu» – «Sì, ci rispusi lu Signuri, va ddrà unni è la timogna abbruciata, e trovi ancora lu cori e lu porti ccà». – «E com’è possibili chi avissi a ristari lu cori tra tanti vampi?». – «Va, chi lu trovi». S. Petru jiu e lu truvau chi sbattìa ancora. – «Eccu ccà lu cori». – «Ora lu facemu còciri, e ni lu manciamu», ci dissi lu Signuri. Fìciru quattru passi, e vìttiru ’na tratturia. – Era sira e ci dumannaru: – «Faciti di manciari?» – 41

[alla chetichella].


97 «Chissu è lu nostru misteri» ci rispusi la patruna di la tratturia. – «Dunca tiniti stu cori, e ni lu cuciti: poi nuatri passamu e ni lu manciamu». Mentri si cucìa, facìa un oduri granniusu, tantu chi alla figghia di la patruna di la tratturia ci vinni la gula, e si ni manciau un pizzuddru, e poi n’àutru pizzuddru, e a picca a picca si lu manciau tutto. – «Jemuninni intantu, chi sta picciotta doppu che si mancià stu cori ’scìu gràvita». Ni vulistivu chiù di lu patri, comu la vitti prena? Cumincia a sunari vastunati; chiddri ch’un vô ti canciu; pirchì vulìa sapiri cu’avìa fattu lu dannu. – «Dìmmilu, chi megghiu è pi tia; o mi lu dici, o mi lu dici», ci dicìa lu patri, e cafuddrava. Ma chi ci avìa a diri ddra povira picciotta, si nun sapia nenti, ed era virgini comu Maria Santissima?– «Patruzzu mè, mi putiti ammazzari: ma jeu non haju chi vi diri; sulu vi dicu chi sugnu comu mi fici mè matri». Vinni l’ura finarmenti di parturiri e fici un beddru figghiu màsculu. Lu nannu, pinsannu chi lu picciriddu, si mali c’era, nun ci curpava pi nenti, si lu tinni, e lu vulìa beni come a sò niputi. A quattro anni stu picciriddu si misi a parlari, e ci dissi a sò nannu: – «Nannu, jeu ccà nun ci pozzu stari chiù, e vui aviti a vèniri cu mia». Lu nannu chi vitti chi stu picciriddu di quattr’anni dicìa sti cosi: «Chissa non è cosa giusta», e si ni jiu cu iddru. Arrivannu a un certu puntu, vìttiru un mortu chi si lu manciavanu li cani. – «Nannu, ridissi lu picciriddu, vi disidiràssivu come ssu mortu?» – «Ah birbanti! Ci rispusi lu nannu, sempri ha’ essiri chiddru chi sì. M’hê desiderari d’essiri manciatu di li cani?» – «Nun aviti bisognu di ’ncuitàrivi, né di vulìrimi vastuniari; je nun vi fici chi una dumanna ». Caminaru ancora, e vìttiru ’na carrozza lussusa cu la banna e cu granni accumpagnamentu. Lu picciriddru ci dumannà arrera a sò nannu: «Nannu, e comu ssu mortu vi ci disidiràssivu?» – «Comu chissu sì» ci rispusi lu nannu. – «Mittiti allura lu vostru pedi supra lu meu, e guardati». Lu nannu, sebbeni nun sapìa pirchì avia a fari sta cosa, misi lu so pedi supra lu pedi di lu picci-


98 riddru, e chi vidi? Vidi una gran frotta di diavuli chi si carricavanu l’arma di ddru mortu. Lu nannu allura si spavintau: «Turnamuninni a la casa», ci dissi lu picciriddru a lu nannu, e pigghiaru la stissa via ch’avìanu fattu. Quannu arrivaru dunni avìanu vistu lu mortu chi si lu manciavanu li cani: – «Nannu, ci dissi lu picciriddru, viditi; ancora ci sunnu l’ussiceddra di lu mortu chi si lu manciavanu li cani». – «Sì, lu viu» ci rispusi lu nannu. – «Ebbeni, mittiti lu vostru pedi supra lu meu e guardati». Lu nannu misi lu pedi supra chiddru di lu picciriddru, e vitti un gran splennuri e una gran quantità d’ànciuli chi si purtavanu l’arma di ddru mortu ’nparaddisu. Doppi chi ci fici a vìdiri sta cosa, ci dissi lu picciriddu a lu nannu: «Nannu, nuatri ccà n’avemu a spàrtiri, e ni videmu di novu, quannu lu mortu parla cu lu vivu» e squagghiau. Lu nannu, nun avennu chiù chi fari, e pirsuasu chi ddru picciriddru era una cosa straordinaria, si ni turnau a la casa. Comu tornau a casa, la matri ci dumannau: – «E mè figghiu?» – «E chi t’hê diri? – ci rispusi lu patri, tò figghiu scumparìu tuttu ’nsèmmula» e ci cuntau tuttu chiddru chi ci avìa successu. Nun passau multu tempu chi stu bon omu fu ’nfutatu d’ammazzatina, e fu misu carciratu, e avìa ad esseri cunnannatu. Ma lu niputi, ch’era un ànciulu, si prisintau ’n sonnu a un bonu avvucatu e ci dissi: – «Aviti a difènniri a chissu chi fu ’mputatu di ’na ammazzatina, pirchì è ’nnuccenti: aviti a jiri unni lu Pubbricu Ministeriu e ci aviti a diri: – Tannu ssu ’nfutatu avi a essiri cunnannatu, quannu lu mortu parla ca lu vivu: s’havi a jiri a lu campusantu, e s’havi a jiri a vìdiri a chiddru chi fu ammazzatu». – L’avvocatu ch’appi stu sonnu, lu ’nnumani àutra premura nun appi, chi prisintàrisi a lu Pubbricu Ministeriu e dìricci: «Ddru puvureddru chi mittìstivu carciratu è ’nnuccenti: s’ha ajiri a lu cimiteriu a parlari cu chiddru chi fu ammazzatu» – «E vuliti chi lu mortu parlassi?» ci rispusi lu Pubbricu Ministeriu – «Sì, lu mortu havi a parlari» – «Ebbeni facemu chiddru chi diciti».


99 Lu ’nnumani jeru a lu cimiteriu, e truvaru lu mortu a l’addritta. Tutti maravigghiati ci dumannaru: – «Cu’ fu chi t’ammazzau?» – «A mia, rispusi iddru, nun m’ammazzau chiddru ch’è carciaratu, ma n’àutru». Allura ddru puvureddru fu liberatu, e lu niputi si prisintau a lu nannu e ci dissi: – « Nannu, chissa è l’ultima vota chi ni videmu: jeu sugnu un ànciulu di lu Paraddisu, e sugnu chiddru chi vi libirau di lu càrciri»42.

Lu Rumitu C’era un santu rumitu, chi facìa sempri orazioni, e l’ànciulu ci scinnìa ogni jornu. Lu rumitu, vanagluriusu chi l’àncilu ogni jornu lu visitava, si vulìa sprofunnari ’nta li cosi di Diu, e ora dicìa all’ànciulu: «E chi si dici ’nta ddru munnu?» – «Beni» rispunnìa l’ànciulu. Ed ora ci dicìa: – «E comu si sta ’nta ddru munnu?» – «Si sta beni» rispunnìa l’ànciulu. Ed ora ci dicìa: – « E quali su’ l’arcani di Diu?» – «E chi ti pozzu diri di l’arcani di Diu?» ci rispunnìa l’ànciulu. Quannu l’ànciulu riturnava ’nparaddisu, lu Signuri ci dumannava: – «Chi dici lu rumitu?» – «E ch’havi a diri? Ora mi dumanna: Chi si dici ’nta ddru munnu? Ora: E comu si sta ’nta ddru munnu? Ora: E quali su’ l’arcani di Diu?» – «Senti ch’hâ’ fari, ci dissi lu Signuri: quannu ti dumanna quali sunnu l’arcani di Diu, tu ci ha diri: si vô sapiri l’arcani di Diu, hâ veniri cu mia». L’ànciulu scinnìu; e quannu lu rumitu ci dumannau: «Quali sunnu l’arcani di Diu?», l’ànciulu ci rispusi: – «Si vô sapiri l’arcani di Diu, hâ veniri cu mia» – «Ci vegnu», rispunnìu lu rumitu. Turnau l’ànciulu ’nparaddisu, e ci dissi a lu Signuri: – «Lu 42

La prima parte di questo racconto ne forma anche uno separato, che è stato raccolto dal dr. Pitrè, nelle Fiabe, Novelle e Racconti popolari siciliani [CXXIII].


100 rumitu ci veni cu mia a vìdiri l’arcani di Diu» – «Va beni, rispusi lu Signuri: dumani tu resta ccà, e ci scinnu jeu unni lu rumitu». Lu ’nnumani ci scinnìu lu Signuri ’nforma d’ànciulu. Si nni jeru; si misiru a caminari, e arrivaru ad un ciumi chi nun si putìa passari. ’Nta mentri arriva un bellu gìuvini, cu ’n armulu puseddru43, e l’ànciulu ci dissi: – «O bellu gìuvini, ni vuliti fari lu piaciri di passàrinni a ddra banni di lu ciumi? Semu a l’appedi e nun avemu comu fari» – «Patruni!» ci rispusi ddru gìuvini. – «Va, passa tu prima», ci dissi l’ànciulu a lu rumitu. – «No, passati vui». «No, tu hâ passari prima, jeu hê ristari». Lu rumitu nun parlau chiù, e passau. Poi passau l’ànciulu; ma quannu si truvaru ’n mezzu di lu ciumi, l’ànciulu tuttu ’nta un bottu pigghiau ddru gìuvini, lu jittau ’nta l’acqua, e lu fici anniari. Si maravigghiau lu rumitu, quannu passau, e ci dissi: «E chi facìstivu, o ànciulu di Diu? Ammazzastivu ddru gìuvini, doppu chi ni fici lu fauri di passarinni? E pirchì?» – «Eh!, rispusi l’ànciulu, si vô vidiri l’arcani di Diu, hâ veniri cu mia, hâ vidiri e nun hâ parlari». Si mìsiru arrera a caminari, e si ni vinni un’acqua stripitusa, e si vagnaru tutti di la testa sinu a li pedi. Pi fortuna c’era una casa vicina, e jeru ddrà a dumannari risettu e ad asciucarisi. ’Nta ddra casa c’eranu lu patri, la matri e la figghia, ch’era una bella gìuvina, ci apreru, li fìciru riscardari, ci dèttiru roba pi mutàrisi, e poi ci dèttiru la megghiu stanza ch’avìanu pi ripusari: ’n summa ci fìciru un trattamentu granni. La matina comu si suseru, ci dissi l’ànciulu a lu rumitu: « La vidisti ddra bedda gìuvina? Chissa nun passirà un’ura chi sarà morta». – «E pirchì?» ci rispusi lu rumitu. – «Eh! chissi sunnu l’arcani di Diu», ci dissi l’ànciulu. Doppu un pizzuddru, ringraziaru a chiddri chi l’avianu risittatu; si licinziaru e si ni jeru. Nun avianu fattu trenta passi, chi ’ntisiru vuci, chiantu, minnitta: – «Figghia! Figghia mia!» – «Lu senti, rumitu? ci dissi 43

[assai robusto].


101 l’ànciulu: la picciotta è morta» – «Ma comu? ci rispusi lu rumitu: doppu chi ni ficiru tantu beni, la facistivu moriri?» – «Si vô vidiri l’arcani di Diu, veni cu mia senza parlari». Continuaru a caminari, e ci pirnuttau. Eranu vicinu a una casa, ci jeru e ci dumannaru alloggiu. – «Pi carità, ni vuliti fari passari sta notti ccà dintra? Semu poviri viaggiaturi; ni supravvinni la notti, e avemu a dormiri a lu sirenu» – «E dunni v’hê fari dormiri? ci fu rispostu: lu viditi chi ci su’ li vestii? ’Nta li pedi di li vestii vi putiti jittari». – «Nun ci fa nenti, n’accomodamu, ci rispusi l’ànciulu. E ni vuliti dari un pezzu di pani, chi semu morti di fami? – «E chi v’hê dari? Ccà nun c’è nenti: nun lu viditi chi chista è massaria?». Custritti fôru ad adattarisi a la megghiu. L’ànciulu senza ’ncaricarisi di nenti, si jiccau ’n mezzu li pedi di li vestii; lu rumitu si misi ’nta una gnuniddra e passau la notti. La matina comu si suseru, l’ànciulu pigghiau un sacchiteddru di dinari, e ci dissi a lu rumitu: «Te’ ccà, mèttici sti dinari dunni iddru si curca». – «Comu? ci rispusi lu rumitu; ci dati dinari doppu chi ni fici dòrmiri ’n mezzu li pedi di li vesti, e nun ni vosi dari mancu un pezzu di pani?». – «Anzi sti dinari su’ picca, ci rispusi l’ànciulu: te’ ccà st’autru sacchiteddru, e metticcillu darrera la porta». Accussì fìciru e si in jeru. Ma lu rumitu era tuttu sturdutu, e non si putia pirsuadiri. «Comu? jia dicennu all’ànciulu: chiddri chi ni fìciru tantu beni, vui li facistivu mòriri; chistu chi pi miraculu ni fici tràsiri, ci facistivu tantu beni» – «Vô dunca, ci rispusi l’ànciulu, sapiri l’arcanu di Diu? Senti. Ammazzau ddru giuvini chi ni passau di lu ciumi, pirchì avìa a jiri ad ammazzari un patri di setti figghi, e li avìa a lassari ’n mezzu li strati. Fici mòriri ddra bella gìuvina, pirchì s’avìa a maritari cu un picciottu, chi avìa ad ammazzari la sòggira e lu sòggiru, e megghiu mòriri iddra, chi suffriri ’ngiustamenti lu patri e la matri. Detti denari ed arricchivi a chiddru chi ni fici dòrmiri ’n mezzu li pedi di li vestii, è veru: ma chissu è cunnannatu a lu ’nfernu». Comu ’ntisi


102 stu parlari, lu rumitu nun vosi chiù conusciri l’arcani di Diu, e turnau subitu subitu a lu sò rumitoriu44.

Lu Signuri di Lùttisi C’era lu Signuri di Lùttisi, chi quannu si ci dava un granu, dava quattrucentu unzi. Un puvureddru, mischinu! ci detti un granu, e un jornu poi ch’avìa veru fami cu tutta la famigghia, dissi: – «Jeu detti un jornu un granu a lu Signuri di Lùttisi: vogghiu jiri a fàrimi dari quattrucent’unzi». Si partiu e si ni jiu. Ci pirnuttau ’nta un paisi, e si prisintau a la casa d’un principi, ch’era veru riccuni ed avìa na figghia ch’un s’avìa pututu maritari, pirchì pi partitu nun ci mannava nuddru. Lu principi ci dissi: – «E vui chi jiti facennu?» – «Jeu detti, rispusi iddru, un granu a lu Signuri di Lùttisi, ed ora vaju a dumannàricci quattrucent’unzi» – «E tutta ssa via aviti a fari?» – «L’hê fari: ddra hê èssiri» – «Mi vuliti fari dunca un piaciri?» – «Patruni» – «Ci aviti a dumannari, pirchì mè figghia cu tutti li sò ricchizzi nun s’ha pututu maritari sin a st’ura, e nun ci veni nuddru pi partitu» – «Ci lu dicu». Si partiu lu ’nnumani matina di lu principi; si misi a caminari, e arrivau a un jardinu, e dumannau alloggiu pi ddra notti a lu jardinaru. – «E vui chi jiti facennu?» ci dissi lu jardinaru – «Detti un granu a lu Signuri di Lùttisi, e vaju pi li quattrucentu unzi chi m’havi a dari» – «Vih! Chi via lunga aviti a fari!» – «Nun haju chi fari: ddrà hê èssiri» – «E mi vuliti fari un piaciri?» – «Macari centu, si pozzu» – «Ci aviti a dumannari a lu Signuri di Lùttisi, pirchì lu mè jardinu prima carricava ed ora nun carrica chiù: e

44

Questo racconto è il poemetto di Parnell del medesimo titolo; ma è più antico di Parnell. Vedi Gemme straniere ecc., traduzione di G. Ghinassi, Alessandro Volpato editore Firenze, pag. 419.


103 nun mi resta chiù nenti di guadagnu» – «Oh! chissu è nenti: nun ci pinsati». Lu ’nnumani matinu si partiu e cuminciau a caminari, e arrivau a un ortu, e siccomu ci pirnuttau, dumannau pi carità alloggiu a l’urtulanu. – «E vui dunni jiti? » ci dissi l’urtulanu. – «Vaju, ci rispusi, unni lu Signuri di Lùttisi, pirchì jeu ci detti un granu, ed iddru m’havi a dari li quattrucenti unzi» – «Longa è la via; ma si vui ci jiti veramenti, m’aviti a fari un piaciri, e vi restu obbriatissimu» – «Diciti, jeu sugnu ccà» – «Ci aviti a dumannari a lu Signuri di Lùttisi, pirchì prima l’armali nun mi murianu». «Gnursì, nun ci pinsati, ci dumannu». Lu ’nnumani partiu, e finarmenti arrivau, e jiu unni lu Signuri di Lùttisi, che era misu ’ncruci. Iddru ci dumannau li quattrucentu unzi, e lu Signuri, ch’avìa una sànnula d’oru, aisau lu pedi, comu si ci avissi volutu dari la sànnula. «No, ci dissi iddru; jeu nun vogghiu la sànnula, vogghiu li quattrucentu unzi, pirchì vi detti lu granu». Lu Signuri allura ci detti li quattrucentu unzi. Li monaci (chi ddra c’era un cunventu) chi vìttiru sti finzioni, ristaru maravigghiati, e dìssiru: – «Chistu veru santu havi a essiri, chi parla cu lu Signuri!». Pigghiaru e ci purtaru un bellu piattu di maccarruni, la cucchiara e la furchetta. – «Una cucchiara e una furchetta mi purtati? Ci dissi iddru: dui mi ni aviti a purtari». E ci ni purtaru dui. Allura iddru dissi a lu Signuri: «Signuri, scinniti e manciamu». Lu Signuri scinnìu e manciaru. Doppu chi manciaru, iddu ci dissi: – «Signuri, v’hê dari una priera» – «Parla» – «M’aviti a diri pirchì lu principi tali, ch’è riccuni, nun ha pututu maritari a sò figghia» – «Cuminciassi a fari limosina, ci rispusi lu Signuri, e sò figghia si marita prestu» – «Ed ora n’àutra priera v’hê dari. Mi aviti a diri pirchì a lu jardinaru tali lu jardinu prima si carricava, ed ora nun ci carrica chiù» – «Pirchì prima muru a lu jardinu nun ci n’era, e ognunu chi passava si arrifriscava la vucca: ci livassi dunca lu muru, e lu jardinu ci carrica arrera». – «Signuri, st’autra priera sulu v’hê dari. Pirchì


104 a lu l’urtulanu tali prima l’armali nun ci murìanu, ed ora ci mòrinu tutti?» – «Pirchì prima nun bistimmiava mai, e ora bistemmia come un Turcu, chi fa arrizzari li carni». Doppu si ni jiu, e prima turnà unni l’urtulanu. – «Oh! vinistivu? ci dissi l’urtulanu. Chi vi dissi lu Signuri?» – «Mi dissi, chi vui bistimmiati di la matina sino a la sira, e di la sira sinu a la matina. Nun bistimmiati chiù e l’armali nun vi mòrinu chiù». L’urtulanu lu ringraziau, e ci detti un cumprimentu. Jiu poi unnu lu jardinaru. Lu jardinaru, quannu lu vitti, ci dissi: – «Ci jistivu unni lu Signuri di Lùttisi?» – «Ci jivi» – «E chi vi dissi?» – «Mi dissi chi prima lu vostru jardinu muru nu n’avia e ognunu chi passava si putìa arrifriscari la vucca. Sdirrupati dunca li mura, e lu jardinu vi càrrica arrera». Anchi lu jardinaru lu ringraziau e ci detti n’àutru cumprimentu. Finarmente jiu unni lu Principi e ci dissi: «Principi, lu Signuri di Lùttisi mi dici chi si fa limosina, sò figghia si marita prestu». Lu Principi lu ringraziau puru; e ci detti un bonissimu cumprimentu; fici limosina e sò figghia ’nta quattru botti si maritau.


Leggende evangeliche e divote 45 Li tri frati Mentri un jornu lu Signuri caminava cu tutti l’Apostuli, S. Petru vitti a tri frati chi carvacavanu tutti tri ’nta ’na vestia, e ci dissi a lu Signuri: – «Patri Maistru, li viditi a ddi tri frati chi carvacanu tutti tri ’nta ’na vestia?» – «Sì, rispusi lu Signuri, li viju, ed unu di chissi havi a divintari riccu e havi a campari ’nta li so càmmari, n’àutru havi a divintari un massariotu forti e n’àutru havi a campari a stentu cu la sò proprietà». – «E pirchì, Patri Maistru?» dissi S. Petru. – «Tu si’ troppu curiusu, ci rispusi lu Signuri, ’nta tutti li cosi ti vo’ sprufunnari: chisti sunnu l’arcani di Diu». Doppu tanti anni, mentri lu Signuri caminava arrè cu l’Apostuli, S. Petru vitti ’nna bella casa e ’nna bella pruprietà. – «Oh chi bella casa, Patri Maistru!» dissi S. Petru. – «Sì, rispusi lu Signuri, ora ci jemu, e videmu, si nni vonnu dari di manciari». Ci jeru e truvaru la sula pirsuna di serviziu. – «Pi carità, ni vuliti dari a manciari, chi semu morti di fami?» ci dissiru l’Apostuli – «E chi v’hê dari?, ci rispusi ddru viddranu; lu patruni nun c’è; ci sugnu jeu sulu; nun pozzu fari autru chi dàrivi a bìviri». Ci detti un pocu di vinu; vìppiru, salutaru e si ni jeru. Quannu si nni jeru, lu Signuri ci dissi a S. Petru: – «Petru, lu sai di cu’ è ssa casa e ssa pruprietà?» – «E comu l’hê sapiri, Patri [in G.Pitrè, Studi di leggende popolari in Sicilia, Clausen Palermo 1904, pp. 314-325]. 45


106 Maistru?» ci rispusi S. Petru. – «Chissa è di unu di li tri frati chi carvacavanu ’nna pocu d’anni ’narrera supra una vestia sula: nun ti lu dissi chi unu di chissi avìa a divintari riccu e campari ’nta li so’ càmmari?». Si misiru arrera a caminari; e lu Signuri li fici stari cincu jorna senza manciari, sina a cchi àppiru veru fami. S. Petru finarmenti dissi a lu Signuri: – «Patri Maistru: manciamu, veru fami haju» – «E sempri tu, ci dissi lu Signuri, hâ essiri lu primu a diri: Manciamu? Sì, ora c’è ’nna massaria ccà vicinu, e ci jemu a dumannari di manciari». Doppu un pizzuddru vìttiru casi, e ci jeru. C’era lu patruni chi stava facennu un poco di fruttu46. Li cani si ci abbintaru, e a cu’ ci sfardavanu li càusi, a cu’ ci affirravanu li gammi. – «Eh di lu bagghiu! Eh di lu bagghiu! Chiamàtivi sti cani, chi ni stannu manciannu!» grìdanu l’Apostuli. – «Lassati jiri» dissi a l’omini lu patruni. Finarmenti si susìu unu, si chiamau li cani. – «Te’ ccà, Baruni! te’ ccà, Diana!» e poi ci dumannau chi vulianu. L’Apostuli ci rispunneru: «Semu morti di la fami: vurrìamu pi carità un pocu di pani». Lu patruni, chi lu ’ntisi, ci dissi: – «Dicìtici chi nun ci è chi ci dari». L’omu allora ci dissi: – «Lu patruni è ccà, chi sta facennu un poco di fruttu; ma nun havi chi dàrivi; percu’ vi nni putiti jiri». L’Apostuli allura si ni jeru, e quannu fôru luntaneddru, lu Signuri ci dissi a S. Petru: – «Petru, sa’ di cu è ssa massaria, e cu’ era lu patruni chi facìa lu fruttu? Sta massaria è d’unu di li tri frati, e lu patruni ch’era ddra è iddru stissu; e chissu havi a divintari scarsu» – «E comu? ci dissi S. Petru; pirchì ni stava facennu manciari di li cani, e nun ni vosi dari a manciari, havi a divintari scarsu?» – «Sì, Petru, rispusi lu Signuri, pirchì non ni vosi dari a manciari, e ni stava facennu rusicari di li cani, havi a divintari scarsu. Tu nun parlari; veni cu mia e vidi». 46

[il formaggio].


107 San Petru intantu dicìa sempre: «Patri Maistru, jeu fami haju! Patri Maistru, jeu fami haju!», finu a chi arrivaru a ’nna casuzza e a un pagghiareddru. Traseru, e truvaru ’nna vicchiareddra e ci dissiru: – «Cummareddra, semu morti di fami: ni vuliti pi carità dari a manciari?» – «Gnursì, gnursì, ci rispusi iddra, haju du’ pani, siditi e manciati». Ci ’sciu ddri du’ pani, e si misiru a manciari. Mentri chi manciavanu, vinni lu maritu, li salutau e s’assittau. Lu Signuri comu vitti lu maritu, ci dissi: «Nuautri eramu morti di fami; vìnnimu ccà, e vostra mugghieri ni detti du’ pani, e ni stamu saziannu» – «Oh! Tantu piaciri, ci rispusi iddru. Manciati, anzi putiti scurari ccà, chi già pirnuttau» – «E comu è possibili? ci dissi lu Signuri: la casa è stritta, e nu’autri semu tanti. Vuàutri dunni vi ridduciti?» – «Oh! Chissu è nenti. Nuàutri n’adattamu ’nta lu pagghiaru». E accussì fìciru. La notti lu Signuri ci dissi a S. Petru: – «Petru, lu vidisti a chissu? Chissu è lu nicu di li tri frati, chi avìa ad essiri scarsu, ma chi havi a divintari riccu» – «E pirchì? ci dissi S. Petru, pirchì ni detti a manciari e n’alluggiaiu ’nta sta notti?» – «Sì, ci dissi lu Signuri, pi chissu». La matina si suseru, ringraziaru, e si mìsiru arrera a caminari. Doppu qualchi tempu S. Petru, ch’era curiusu, ci dissi a lu Signuri: – «Patri Maistru, vulemu passari unni ddri tri frati, e vidiri chiddru chi successi?» – «Sì, Petru, jamuninni». Si misiru a caminari, e arrivaru unni chiddru ch’avìa la massaria, e nun truvaru chiù massaria, ma truvaru ad unu cu tri picuriddri suli. – «Lu vidi, Petru? ci dissi lu Signuri: chi addivintau scarsu?». Passaru pri unni chiddru chi avia lu pagghiareddru, e lu Signuri pigghiau un saccu chinu di munita d’oru, e ci dissi a S. Petru: – «Te’ ccà, Petru, pòrtaci sti dinari, chissi su’ di chiddru ch’avìa la massaria: li so dinari passanu ora a sò frati». Arrivaru poi unni l’autru ch’era lu mizzanu, ed era riccu, e lu Signuri dissi a S. Petru: «Chissu, Petru, havi ad essiri ammazzatu di so figghiu, e poi si n’havi a jiri ’nparaddisu, pirchì havi un piccatu di quann’era giuvini, e


108 l’havi a scuttari pi jirisinni ’nparaddisu» – «E pirchì, Patri Maistru?» dissi S. Petru; e lu Signuri ci rispusi: – «Tu ti vôi sempri sprufunnari, Petru. Senti dunca: quann’era giuvini, iddru dissi a so patri: Chi vi pòzzanu ammazzari! Ora iddru havi un figghiu ch’è ’nnamuratu di ’nna giuvina, e so patri nun ci la voli dari. Pi ssa ragiuni lu figghiu l’havi a ’mmazzari: iddru scuttirà lu piccatu di quann’era giuvini, e si ni va ’nparaddisu». E accussì veramente successi, comu dissi lu Signuri.

Lu vicchiareddru Una sira un vicchiareddru trasìu ’nta una casa, dunni c’era un maritu e una mugghieri, e ci dissi: – «Pi carità, facìtimi risittari pi sta notti» – «Chi diciti? Chi risittari? ci rispusi la fimmina, un’haiu dunni mèttivi: jitivinni» – «E làssalu stari, ci dissi lu maritu, dùnaci ddrocu un cantuzzu». Ma siccomu la mugghieri nun ni vulìa sèntiri nenti: – «Trasiti, ci dissi lu maritu: mittìtivi ddrocu», e poi, vutànnusi cu la mugghieri ci dissi: – «Dùnaci tanticchia di pagghia». Iddra pigghiau la pagghia, ci jittau acqua di supra e ci la detti: – «Ddrocu, supra la pagghia vagnata, s’havi a curcari». Avìanu intantu accattatu li pisci, e lu maritu piagghiau un pizzuddru di pisci, e ci dissi a so mugghieri: – «Te’ ccà, dunaccillu a ssu mischinu». Iddra, la birbanti, ci livau la carni, e ci detti la sula resca. Lu vicchiareddru la pigghiau e la sarvau. Doppu chi manciaru, a la mugghieri ci vinni un gran duluri: – «Moru, moru, chi duluri chi haiu! Maria, moru, chi duluri chi haju!» Lu vicchiareddru sintia e nun parlava. Quannu fu versu mezzannotti si susìu, e ci dissi: – «Veru forti è stu duluri ch’aviti! Vi vogghiu diri l’orazioni, e videmu si v’abbatti»:


109 «Acqua rosa; Pagghia spasa; Risca di pisci; Punta d’ala; Stu mali comu vinni si ni vaja!». Lu duluri ci cuntinuava, e lu maritu ci dissi: – «Diciticilla ’nn’àutra vota»: «Acqua rosa; Pagghia spasa; Risca di pisci; Punta d’ala; Stu mali comu vinni si ni vaja!». – «M’abbatti, m’abbatti, dissi iddra: dicitimilla ’nn’àutra vota»: «Acqua rosa; Pagghia spasa; Risca di pisci; Punta d’ala; Stu mali comu vinni si ni vaja!». – «M’abbattìu, m’abbattìu, dissi iddra: nun mi sentu cchiù nenti». Comu però lu maritu ’ntisi l’orazioni, capìu tutti cosi, chi cci avìa datu la pagghia vagnata e la resca di lu pisci di la parti di l’ala senza carni, e ci dissi: – «Chissu facisti? Vera birbanti e traditura sì». Ora stu vicchiareddru cu’ era? Lu Signuri chi ci avìa jutu pi vìdiri e pruvari lu cori d’iddra.


110

Santa Maria Maddalena Matta47 e Maddalena erano soru, ma una era santa, l’autra era frùscula48. Lu Signuri jia a la casa di Matta, e ci dumannava: – «E Maddalena? Chi fa?» – «Maddalena, rispunnìa so soru, è pazza: comu hê fari, nun lu sacciu». Quannu poi Maddalena turnava a la casa, Matta ci dicìa: – «Maddalena, lu Signuri ti chiama». E lu Signuri tantu fici, chi Maddalena addivintau santa; e si truvau a li pedi di la Cruci di Gesù Cristu, e ci lavau li chiaj cu li so’ larmi.

Santa Tresa Santa Tresa avìa una bella grasta di basilicò, e lu vulia estremamenti beni. Ogni jornu, comu si susìa, prima di fàrisi la cruci, adacquava lu basilicò e dicìa: – «O chi bellu basilicò». Lu Signuri ci dicìa: – «O Tresa, o Tresa, tu ami chiù lu basilicò ch’a mia» – «No, Patri Maistru, ci rispunnìa iddra, lu basilicò è basilicò e vui siti Diu. Ieu vogghiu chiù a vui ch’a lu basilicò». Lu Signuri finarmenti pi pruvarla ci fici siccari lu basilicò. Quannu iddra jiu la matina pi adacquarlu e lu truvau siccu, s’ammazzà tutta. – «O Signuri, mi livàstivu la mè delizia» – «Ti lu dissi Tresa, ci dissi lu Signuri, chi tu vo’ pèrdiri l’arma pi lu basilicò?» – «Veru è, Signuri, ragiuni aviti; ma lu basilicò è sempre lu basilicò, e vui siti sempri lu Signuri».

47 48

[Marta]. [cattiva].


111

San Giuseppi Un omiceddru bonu cadìu malatu, e lu medicu ci dissi: – «Malu siti» – «Mi fazzu dunca, dissi iddru, lu viaticu, e poi fazzu tistamentu» – «E vui ch’aviti? Ch’aviti a lassari?», ci dissi la mugghieri – «Chi n’aviti a fari? Jeu vogghiu lu nutaru». Chiddri ch’eranu ddra si mìsiru a rìdiri; puru dìssiru: – «Giacchì voli lu nutaru, chiamaticillu» – Vinni lu nutaru: – «Jeu sugnu ccà, chi vuliti? Ch’àvemu a fari? Chi lassati?» – «Signur nutaru, vossia scrivi»: «L’arma la lassu a Giuseppi e Maria E a ssa figghia e a sta mugghieri mia Ci lassu a S. Giuseppi pi duturi49». Finarmenti lu Signuri ci fici la grazia e si lu purtau ’nparaddisu. La sira chi morsi, S. Giuseppe jiu: – «Tuppi! Tuppi!» – «Cu è?» – «Cummari, eu cumpari» – «E lu cumpari morsi» – «Chi ci fa? Apriti: si lu cumpari morsi, nun ci sugnu jeu?». Apriu, e S. Giuseppi ci dumannau: – «Vui àutri manciastivu?» – «Nun signuri» ci rispusi la cummari. – «Dunca manciati». Li fici manciari, e ogni jornu ci jia, li succurrìa, e poi finarmenti si li purtau ’nparaddisu.

49

tutore.




AVVIRTENZA DI LU STAMPATURI Si la prisenti edizioni ’ncontra lu gustu di lu pubblicu, ni farò n’àutra, stampanduci ’n frunti lu testu in latinu, pigghiatu da la sacra scrittura, cu la quali perfettamenti ’ngrucchetta.


Massime e proverbii morali di Anonimo

1

1

Raccolti ed ordinati da un uomo di garbu e dati a la luci da l’infrascrittu stampatori, Mazara pri Luigi Ajello e Figghi, 1854.



AMICIZJ ED INIMICIZJ 1. A càrzari, malatii, e nicissitati, si canusci lu cori di l’amici. 2. Mentri avemu, semu vuluti, quannu unn’avemu, addiu frati. 3. Vali cchiù un amicu in chiazza, ca centumila scuti ’n cascia. 4. L’amicu fidili vali un tesoru. 5. Amicu fintu, è veru tradituri. 6. Lu veru amicu, servi a li bisogni. 7. Pocu su l’amici veri. 8. Amicu cu tutti, e fidili cu nuddu. 9. Amistati cu tutti, e parzialitati cu nuddu. 10. Vogghi beni a tutti, e cunsìgghiati cu pochi. 11. L’amici pri lu cchiù, su ’ntirissati. 12. È amicu di gottu2. 13. È amicu pirchì mancia francu. 14. Quannu spèddinu li dinari, speddi l’amicizia. 15. Saluta l’amicu, pri n’àutra vota. 16. Lu veru amicu è chiddu chi nun ti sparra. 17. Cui è fidili, da tutti è benvulutu. 18. L’amicu chi nun è sempri amicu, si può fari nimicu. 19. Amici, e guàrdati. 20. Luntanu d’occhi, luntanu di cori. 21. Cui avi dinari, ed amicizia, nun timi la giustizia. 22. Si vàsanu a li voti ddi manu, chi si vurrianu vìdiri tagghiati. 23. Di lu nimicu, nun pigghiari cunsigghiu. 24. Cui ’mpresta dinari, ’mpresta nimicizia, e perdi li dinari, e l’amicizia. 2

[amico di bicchiere, non sincero]


118 25. Nun crìdiri a nimicu ricunciliatu. 26. Si pigghia la ’ncagna pri scusa3. 27. Cui fa aggravij, ristirà aggravatu. 28. A lu nimicu facci un ponti d’oru. 29. Semu carni, ed ugna. 30. Cui ama l’amicu, nun stima dinari. 31. Cui è veru amicu, nun guarda ’ntressu.

AMURI ED ODIU 1. 2. 3. 4.

Cui ti voli beni, ti fa chiànciri, e cui ti voli mali, ti fa rìdiri. Amuri, biddizza, e dinari, nun si ponnu no ammucciari. Zoccu si schifìa, veni lu tempu chi si disìa. La lingua va unni lu denti doli, chiddu chi s’ama, cchiù si ci pensa. 5. Avissi ed avirrìa, unu morsi ’mpisu, e l’àutru ntra la vicaria4. 6. Amuri ammuccia ogni difettu. 7. Cui ama nun senti fetu d’agghia. 8. Cui pati pri amuri, nun senti duluri. 9. Amuri quannu voli, trova locu. 10. A cavaddu jastimatu, ci luci lu pilu. 11. Amuri voli fatti, e no palori. 12. Amuri di mamma, nun t’inganna.

3 4

[Prendere pretesto da un dissapore] [I desideri velleitari conducono alla morte o al carcere]


119 BENI E MALI 1. Fa beni, a cui t’ha fattu mali. 2. Cui di mali torna beni, cu dui manu si lu teni. 3. Arvulu chi nun cummogghia a se stissu, nun pò cummigghiari ad àutru. 4. Cui nun è bonu pri iddu, mancu pri àutru. 5. Chiddu chi nun t’apparteni, né mali né beni. 6. Ogni beni, da Diu veni. 7. L’oziu è causa d’ogni mali. 8. La passioni, nun fa distìnguiri. 9. Cui fa beni, beni aspetta – Cui fa mali, mali aspetta. 10. Nun canusci né erva, né lavuri. 11. A li voti l’acquazzina, astuta lu focu quannu adduma. 12. Di lu mali, pri tri ghiorna si nni parla. 13. Nun vìnniri mali, pri mali.

CAMINARI E VIAGGIARI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Nun caminari senza spisa. Nun sapi caminari, e voli cùrriri. Cui nesci, arrinesci. Sciumi chi grida, pàssaci sicuru. Passa sicuru, a locu arrubbatu. Senza pilotu si perdi la navi. Si perdi la varca senza timuni. S’ha vistu ntra la stati chiòviri. L’omu penza, e Diu dispenza.


120 10. Cui cancia la via vecchia pri la nova, li guai chi va circannu, prestu li trova. 11. L’omu proponi, e Diu disponi. 12. Quannu lu pedi camina, lu cori sciala. 13. Unni ci su frabichi, e ruini, nun ci caminari. 14. Quannu nesci lu suli, nesci pri tutti. 15. Né di stati, né di ’nvernu, nun lasciari lu mantellu. 16. Jiu pri bàttiri, e fu battutu. 17. Jiu pri la decima, e ci appizzà lu saccu. 18. La gatta piscialora, fa li figghi orvi. 19. Sunnu comu tanti pecuri senza campana. 20. Quannu l’aria si ’nfusca, tu curri e t’mbusca. 21. Nun si pò contra ventu navigari. 22. Succedi a burdunara sgarrari la via. 23. Si è laidu lu nudu, è cchiù laidu lu sulu. 24. La cosa camina cu li soi pedi.

CARITÀ FRATERNA 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Ama lu prossimu to, comu te stissu. Chiddu chi nun voi pri tia, ad àutru nun fari. Cui va cu lu ngannu, ci veni lu malannu. Pri fari limosina, nun si mpuvirisci, cui fa limosina nun fallisci. Fa tu la limosina, e nun guardari a cui. Fa beni, e scordatillo. Saluta lu medicu, pri n’àutra vota. Cu ddu cappeddu chi aju ti salutu.


121 9. Guàrdati lu to jmmu, e no chiddu d’àutru. 10. Nun disprizzari omu sutta cappa, né fimmina sutta strazza5. 11. Nuddu è obbligatu ad infamari se stissu. 12. Fa beni, a cui ti voli mali. 13. Nun livari la mercedi all’operaij. 14. Cui si rallegra di lu mali d’àutru, lu so è vicinu. 15. Cui è puntuali, è patruni di la vurza d’àutru6. 16. Si voi essiri trattatu, tratta. 17. Di tutti si divi fari cuntu. 18. Ogni tinta petra, servi a la maramma7. 19. Cui opera giudica, ogn’unu misura l’àutru cu la sua mezzacanna. 20. Zoccu fai t’è fattu. 21. Cu la stissa munita chi pagamu, semu pagati. 22. Cui renni mali pri beni, lu so mali prestu veni. 23. Cui ammazza, è ammazzatu.

CASI E CUNVIRSAZIONI 1. 2. 3. 4. 5. 5

Casa granni, ìnchila di spini. Cu frabica supra la rina, la caduta è vicina. Nun fuj cani, chi a la casa un torna. Casa senza fìmmina mpuvirisci. Tinta è dda casa chi nun avi cappeddu.

[Sotto un’umile veste; non giudicare dalle apparenze] [Chi paga puntualmente i suoi debiti, è padrone della borsa d’altri, trova sempre del denaro in prestito] 7 [maramma: fabbrica, organizzazione diretta a edificare] 6


122 6. Cui la casa d’àutru pràttica, la sua è povira, e mindica. 7. L’anima di la casa è la scrittura8. 8. Cui è asinu stia ’nn casa sua. 9. Cui scava lu fossu, lu primu iddu ci cadi. 10. Cui è asinu cridi zoccu cc’è dittu. 11. La casa di l’omu malu, sinni va in fumu, e lu malu ferru sinni va pri la mola. 12. Tintu cu nun avi a nuddu. 13. Lu pisci grossu si mangia lu nicu. 14. Nun crìdiri tuttu chiddu chi t’è dittu. 15. Li mura hannu oricchi. 16. Megghiu sulu chi malu accumpagnatu. 17. A la tua casa, straniu nun trasa. 18. Lu troppu cunvirsari, genera noja. 19. Cui cu cani si curca, cu porci si leva. 20. Audi, vidi, e taci, e campi in paci. 21. Lu fìnciri è virtù. 22. Una crapa virminusa, ni nfetta na dijna. 23. Ogn’unu cu li soi. 24. Cui pratica cu zoppi, supra l’annu zuppichìa. 25. Pràttica cu li megghiu di tia, e pèrdici li spisi. 26. Prèati di trattari cu li megghiu di tia. 27. Lu taciri, è prudenza. 28. Lu taciri, è risposta. 29. Si taci pirchì, nun s’avi chi diri. 30. Si divi taciri a tempu, ed a locu. 8

[Per scrittura deve probabilmente intendersi l’atto notarile che ne attesta la proprietà]


123 31. Li mali cumpagni portanu a la ruina. 32. Cu li dotti cc’è sempri chi apprenniri. 33. Cosi cuntati, crìdini la mitati. 34. Quali palori senti, tali cori ti fai. 35. A medicu, cunfissuri, ed avvocatu, nun ci tèniri nenti cilatu.

ACCATTARI E VINNIRI 1. Cui disprezza compra. 2. L’esperienza ’nsigna gran cosi. 3. Cui nun avi esperienza, nun avi scienza. 4. Tempu, vinni merci9. 5. A lu mircatu pènsaci. 6. Cui troppu si fidau, s’ascià ngannatu. 7. Cumpagnu nun leva parti. 8. Cui voli vìnniri assai caru, nun guadagna gran dinaru. 9. Lu suverchiu, rumpi lu cuverchiu. 10. Ogni mircanti, vanta la sua mircanzia. 11. Mircanzia sarvata, furtuna aspetta. 12. Pisu e misura né ti leva né ti duna.

CUNTRARIITÀ E PRUSPIRITÀ 1. Comu ti sappi bonu «la vita dulcedo», accussì ti saccia lu «ad te suspiramu»10. 9

[Per vendere bene bisogna aspettare l’occasione giusta] [Proverbio di fonte sicuramente colta ed ecclesiastica, che mutua due espressioni latine: «vita dulcedo» vs «ad te suspiramus»]

10


124 2. Mi scantu tantu di l’acqua cauda, ca si veni la fridda mi scauda. 3. L’omu da beni d’ogni cosa si cuntenta. 4. Nuddu pò jri contra lu celu. 5. Iddiu è lagnusu ma no scurdusu. 6. Cui si pigghia pena, prestu mori. 7. La mala nova, la porta l’oceddu. 8. Ogn’unu avi lu so chiovu, cui l’avi vecchiu e cui l’avi novu. 9. Zappa a l’acqua e simina a lu ventu. 10. Aju a ràdiri, e pagari?11 11. Pati lu giustu pri lu piccaturi. 12. Diu a cui voli beni, ci manna cruci e peni. 13. Un mali nun è passatu, e l’àutru è juntu. 14. Tintu cui perdi pri jiri circannu. 15. Cui patisci dispettu veni pirfettu. 16. Sugnu abbuttatu, e si nun parlu scattu. 17. Di la nicissità si ni fa virtù. 18. Doppu la timpesta veni la calma. 19. Doppu lu chiantu veni lu cantu. 20. Doppu lu patiri veni lu gudiri. 21. Quannu l’alligrizza è in casa, la disgrazia è darreri la porta. 22. Contra furtuna, nun vali sapiri. 23. Una gran colura, pò ammazzari. 24. Piccatu vecchiu, sintenza nova. 25. Lu suli chi ti viri ti riscalda. 26. Nun si pò pigghiari lu celu a pugna. 27. Nun arrispighiari lu cani chi dormi. 11

[Debbo servire, e pure pagare?]


125 DIVUZIONI VERA E FAUSA Arrobba lu porcu, e duna pri limosina li nziti12. Quantu cchiù unu è nubili, tantu cchiù si umilia. Megghiu ubbidiri, chi sagrificari. L’omu, è saccu di vastuni13. L’omu bonu si sgarra, nun si scusa, anzi iddu stissu s’accusa. Alcuni su àngiuli ’n chiesa, e diavuli ’ncasa. Nun prumèttiri a santi la curuna, e mancu a picciriddi la cuddura. 8. Cui servi a Diu, campa assai. 9. Cui servi a Diu, nun avi paura di nenti. 10. Cui servi a Diu, campa filici. 11. Cui avi paura, si guarda d’ogni mali. 12. L’omu bonu si scanta macari di l’umbra sua. 13. Di l’omini ni putemu ammucciari, e no di Diu. 14. Diu vidi lu funnu di lu nostru cori. 15. Cui si umilia, si alza. 16. Cc’è un occhiu chi tuttu vidi, e una oricchia chi tuttu senti. 17. Si fa scrupulu di la stizza di lu latti14. 18. Dunni jemu Diu nni vidi. 19. Nun si movi fogghia d’àrvulu si nun è vuluntà di Diu. 20. Cui teni fidi a Diu nun pirisci mai. 21. Cui servi a l’artaru, di l’artaru campa. 22. Cui è cu Diu, Diu è cu iddu. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

12

[nziti: setole del maiale, a sottolineare la scarsa generosità] [uomo da legnate, come epiteto ingiurioso] 14 [stizza: goccia. Fingere di avere scrupolo per cose di poco conto] 13


126 DUMINIU E SIRVITÙ 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Cui porta ’ngruppa, è cacciatu di sedda. Quantu su l’acchianati tanti su li scinnuti. Fa l’arti chi sa fari, e si nun arricchisci campirai. Pigghia fama, e curcati. Megghiu picca a gòdiri, chi assai a trivuliari. Quantu và lu bonu nomu, nun vannu tutti li ricchizzi di lu munnu. 7. Vali cchiù lu bonu nomu, ca centumila scuti ’n cascia. 8. Nuddu divi nèsciri di la sua casedda. 9. L’onuri fannu mutari costumi. 10. Cui troppu abbrazza nenti stringi. 11. Nun mèttiri tanta carni a lu spitu. 12. Cui cchiù sapi cchiù travagghia. 13. Cui ubbidisci nun sgarra mai. 14. Ogni gaddu canta a lu so munnizzaru. 15. Cui cerca, trova. 16. Unni nun ci è liggi nun c’è difettu. 17. L’oriu suverchiu fa spurtari15. 18. È un pupu di pezza misu n’tronu. 19. Cui tropp’àutu acchiana la sua caduta è vicina. 20. Attacca l’asinu unni voli lu patruni. 21. Lu iùdici voli aviri dui oricchi. 22. Cui cumanna avi a dari cchiù cuntu. 23. Nuddu ti rapi si no cui ti sapi. 24. Li criati su nimici salariati. 15

[Chi ha più del necessario, spesso eccede nei comportamenti]


127 25. Nun si può sirviri a dui patruni. 26. Pri tanti piloti si perdi la navi. 27. Nun ti lassari cu li pedi, si nun ti afferri cu la manu. 28. Megghiu testa di sarda, ca cuda di liuni. 29. Pari un puddicinedda, fintu prìncipi. 30. La pignata di la comuni nun vugghi mai. 31. Un criatu fidili nun si basta a pagari. 32. Oi si vidi lu munnu a la riversa.

DONI E RIGALI 1. Megghiu dari ca riciviri. 2. La chiavi d’oru apri ogni porta. 3. Si jetta l’amu pri pigghiari lu pisci. 4. Nun siari16 manu di meli e vucca di feli. 5. Li rigali pràcinu a tutti. 6. Li rigali plàcanu l’omini, cu li rigali ogni sciarra s’astuta. 7. Li rigali attuppanu l’occhi. 8. Nun aviri na manu lunga e l’àutra curta. 9. Si lassi lu pocu pri aviri assai, resti pizzenti e nenti avrai. 10. Ogni prumissa, è debitu, e si duna. 11. Cui plegia e nun paga nun si chiama plegirìa17. 12. Cui assai prumitti, prestu si ni penti. 13. Prumitti assai, e nenti attenni. 14. Quannu ti è data la purcedda curri cu la curdicedda18. 16

[intr. antiq. essere] [Chi promette e non paga non è degno di garanzia] 18 [Quando si presenta una buona occasione, non lasciarla scappare] 17


128 15. Cui cchiù ricivi, cchiù avi a dari. 16. Cu li rigali ogni cosa s’otteni. 17. Tutti l’omini su ’ntrissati. 18. Chiddu chi servi a tia, ad àutru nun dari. 19. Lu prumìttiri, è vigilia di lu dari. 20. Cui duna prestu duna dui voti. 21. A cavaddu datu, nun ci circari sedda. 22. Cui arrigala fa guadagnu. 23. Dici la campana, dammi e dugnu. 24. Nun addimandari favuri, a cui nun nni pò fari.

GIUVINTÙ E VICCHIAJA 1. Cui a li vinti nun sa, a li trenta nun fa, e a li quaranta in peju va. 2. Cui nun ha ricotu li pecuri a st’ura, nun arricogghi né pecuri né lana. 3. Si pìgghianu li cunsigghi di li vecchi. 4. Dici lu puddicinu ntra la nassa: dunni maggiuri c’è, minuri cessa. 5. Li picciotti fannu li picciottarii. 6. A la prisenza di li vecchi si parra pocu. 7. Lu lupu si perdi lu pilu nun perdi lu viziu. 8. L’àrvulu comu crisci, accussì resta. 9. Li vecchi sannu assai. 10. Pocu varva, pocu giudiziu.


129 LITI E DISSENZIONI 1. Va circannu liti cu la cannilicchia. 2. Ognunu tira bracia a lu so cudduruni. 3. Lu litigari è un duci mpuviriri. 4. Una cosa di nenti pò attizzari un gran focu. 5. Una piccula faidda a li voti accenni gran focu. 6. Cui boni si guardau bonu si truvau. 7. Nun cc’è cchiù sciarreri di la donna. 8. Cui è tistardu và di malu in peju. 9. Fuma pri li naschi. 10. Nun jùnciri ligna a lu focu. 11. Nun mèttiri pipi a li cavuli. 12. Sciarri ntra parenti desòlanu li casi. 13. Nun litigari pri nenti. 14. Nun litigari cu parenti, né cu ricchi, né cu pizzenti. 15. Cui porta odiu, in sciarrj campa. 16. Lu malu omu sempri attizza malanni. 17. Nun pò truzzari la petra cu la quartara. 18. L’omu pacificu, è ben vulutu. 19. Li virghi nun si rùmpinu tutti ’nsemmula. 20. Superbu cu superbu, nun fa bona liga. 21. Lu sciarreri sempri sta ’n guerra. 22. L’omu riggirusu19, è a tutti odiusu. 23. Cui sanu s’attacca lu ìditu, sanu si lu sciogghi. 24. Ariu nettu, nun avi paura di trona. 25. Cui avi a dari avi a pagari, e cui è prena avi a figghiari. 19

[raggiratore, ingannatore]


130 26. Quannu la cosa s’allunga speddi a cuda di surci. 27. Vota ca s’ardi. 28. Corvi cu corvi nun si scìppanu l’occhi. 29. Né ’nsusu cu li càvuli né ’ngnusu cu li vròcculi. 30. Cui troppu la stira prestu la rumpi. 31. Cui agghiutti feli, nun pò sputari meli. 32. Cui sparti n’avi la megghiu parti. 33. Megghiu accordu magru, ca sintenza grassa.

MANCIARI E BIVIRI 1. Cani ch’avi fami mancia cipuddi. 2. Megghiu pani e sali cu la paci, ca pirnici e faciani cu la guerra. 3. La dieta è lu primu midicamentu. 4. Nun tutti hannu lu stissu palatu, e lu manciari nun è a dìsputa. 5. Cui avi lu meli a la manu, si lu licca. 6. Nun ti jttari comu gaddu a pastu. 7. Lu manciari nni va sinu a l’ugna di li pedi. 8. Ogni acqua leva siti. 9. Unni ccè grasci, cùrrinu li muscagghiuni. 10. L’acqua nun si pò nigari. 11. Cui mancia sulu s’affuca. 12. Cui è sàturu, schifìa. 13. Cui schifìa, e cui addisìa. 14. Saccu vacanti nun pò stari a l’addritta. 15. Dammi primu, e dammi ossu. 16. Lu troppu manciari nun fa ripusari. 17. Tuttu chiddu chi fa, si lu metti sutta lu nasu.


131 18. Quannu c’è di spèndiri, nun ti ficcari. 19. Lu suverchiu manciari, fa ammalari. 20. Cui mancia a crepa panza, nun cueta si nun lanza. 21. Lu suverchiu manciari porta la morti. 22. Lu sazziu nun cridi a lu diunu. 23. Cui di spiranza d’àutru la tavula metti, nun avi paura di lavari piatta. 24. Cui travagghia a vigna mancia racina. 25. Cui travagghia a mànnara, mancia ricotta. 26. Cui mancia fa muddichi. 27. Lu manciuni è sempri pòviru. 28. Lu ’mbriacuni è sempri spicciulatu. 29. Lu ’mbriacuni è chiacchiaruni. 30. La vutti chi nun è attuppata, sbenta 31. Cui è liccu s’ardi. 32. Basta chi la ventri sia china, o di pagghia o di jna. 33. Cui di vinu è amicu, di se stissu è nimicu. 34. La fami fa nèsciri la serpi di la tana. 35. Mmatula ti fai lu mussu a funcia, primu si travagghia e poi si mancia. 36. Di stu munnu si n’avi tantu quantu si nni tira cu li denti. 37. Cui nun mancia mori20.

20

[Sono aggiunti a mano: 38. Ogni tinta funtana, leva siti; 39. Inchi la panza e ìnchila di spini]


132 MATRIMONII E DONNI 1. 2. 3. 4. 5.

Cui bonu si voli maritari, si mariti cu li soi pari. Nuddu si pigghia, si nun si rassumigghia. La fimmina è la causa d’ogni mali. Nun crìdiri a la donna ca t’inganna. Cu li donni nun si pò pigghiari copia, chi nun ànnu nè drittu nè riversu. 6. Di l’omini pocu su li boni, e di li donni nudda. 7. Nun c’è cchiù maliziusa di la fimmina. 8. La mugghieri massara è n’àutra dota. 9. La mugghieri virtuusa è cchiù chi dota. 10. Pigghia la munnizza di lu to munnizzaru e mittitilla dintra. 11. Cui avi la mala mugghieri, avi la stizzana21 a lu capizzu. 12. La mugghieri d’àutru pari cchiù bedda. 13. La bona mugghieri, è la prima ricchizza di la casa. 14. Cui avi la mala mugghieri a lu latu, campa sempri dispiratu. 15. Megghiu sulu, ca malu accumpagnatu. 16. Ogni oceddu voli lu sò nidu. 17. Li donni fannu dannari. 18. Li donni fannu arrinigari. 19. Matrimonj e dignitati, da lu celu su calati. 20. Cui liberu pò stari, nun s’incatini. 21. Cu li donni si ridi a la trasuta e si chianci a la nisciuta. 22. Guai, a dda casa, chi gaddina canta e gaddu taci. 23. Unni regna la donna ardi la guerra. 24. Chidda è la bedda chi a lu cori piaci. 21

[seccatrice]


133 25. Dunni c’è cappeddi, nun c’è bisognu di fodeddi22. 26. Megghiu la morti, chi la mala mugghieri. 27. La mala mugghieri distrui la casa. 28. La putta è una vucca di lupa. 29. La fìmmina è comu la gatta, chi mentri accarizza sgranfugna.

MINSOGNI E VIRITÀ 1. Lu minsugnaru voli aviri bona mimoria. 2. Minsugnaru in unu, minsugnaru in tuttu. 3. La minsogna apporta virgogna. 4. Lu minsugnaru è da tutti odiatu. 5. Lu minsugnaru nun dici mai la verità. 6. Lu minsugnaru nun è cridutu mai. 7. Lu celu e la terra l’ha juratu, ca nenti pò stari cilatu. 8. Nun crìdiri a minsugnaru ca t’inganna. 9. La minsogna camina zoppa. 10. Cui si fida di li minsogni nenti accanza. 11. La virità è odiata. 12. La virità va summa comu l’ogghiu. 13. Nun c’è un ugnu di viritati. 14. Da un cornu all’àutru, nun si sapi la virità. 15. Si sgarra la lingua, nun sgarra lu cori. 16. Ammuccia, ammuccia, ca tuttu pari. 17. Cui reu, dici la viritati, va svinennu strati strati.

22

[sottane]


134 MISERJ DI L’OMU 1. Cchiù si sta a lu munnu, cchiù s’impara. 2. Lu gnuranti è stafferi di lu dottu. 3. Cui si metti ntra lu periculu, ci cadi. 4. Cui nun si guarda di li picculi erruri, cadi poi ntra li maggiuri. 5. Pri li piccati vennu li miserj. 6. Lu piccatu appretta la morti. 7. Un piccatu tira all’àutru. 8. Pri lu piccatu, mi vinni la morti. 9. In jocu, jucannu, si fannu piccati comu trona. 10. Nun cridi lu santu, si nun vidi lu miraculu. 11. Cu pani e pacenzia, si va ’mparaddisu. 12. A scecchi e picciriddi, Diu l’ajuta. 13. Nuddu pò diri: di st’acqua nun vogghiu vìviri. 14. Nuddu si pò fari mastru. 15. Cui si guverna di se stissu spissu sgarra. 16. Ogni sceccu cci pari arcipreti. 17. Pò cchiù Diu chi l’omu. 18. La sorti la reggi Diu. 19. Ogn’unu ’mpara a costu d’àutru. 20. Hai lavatu la testa a lu tignusu. 21. Si detti la zappa ntra li pedi. 22. Senza di Diu nun si pò fari nenti. 23. Nun è dadu, è lunaticu. 24. Ogni lignu avi lo so fumu. 25. Pigghia muschi ntra l’aria. 26. Caca luntanu, ca mai fetu veni. 27. Lu celu mi jttau, e la terra mi riparau.


135 OPERI BONI E MALI 1. Fa beni e scordatillu, fa mali e pensaci. 2. Cui apri putìa di vappu23 prestu la chiudi. 3. Arvulu ca nun frutta, tàgghialu di pedi. 4. Cui s’ammuccia zoccu fa, è signu ca fa mali. 5. Ogn’unu è figghiu di l’azioni soi. 6. Asinu puta, Diu fa racina. 7. Ogni omu è natu pi travagghiari. 8. Fa chiddu chi dicu, e no chiddu chi fazzu. 9. Cui fa li centu, e nun fa li centu e unu, perdi tuttu e resta diunu. 10. Cui fa un panaru, fa centu carteddi. 11. Una si fazza, a l’àutra nun si lassa. 12. Cui fa ligna a mala banna, ’ncoddu si li nesci. 13. Lu lagnusu, è sempri pòviru. 14. Lu lagnusu, è sempri nicissitusu. 15. Lu putruni nun risolvi mai. 16. Nun metti un ìditu all’acqua fridda. 17. Chiddu chi siminamu arricugghiemu. 18. Cui simina spini, nun pò ricògghiri rosi. 19. Cui pocu simina, pocu ricogghi. 20. Travagghiu fattu, dinari aspetta. 21. La vigghiata fa la jurnata. 22. Fa tantu mali cui tira, quantu cui scorcia. 23. Quannu mi pari d’aviri finutu, tannu accumenza. 24. Cui cchiù fa, cchiù merita. 25. Nun fari nenti senza cunsigghiu. 23

[smargiasso, millantatore]


136 26. Cui cchiù fa cchiù guadagna. 27. Cunsìgghiati sempri cu li boni. 28. Chiddu chi facemu ni truvamu. 29. L’omu quannu s’adira fa pazzii. 30. Comu jamu Diu nni ajuta. 31. Si travagghia cchiù pri fari mali, ca pri fari beni. 32. Ogni latru veni pr’arrubbari. 33. Cui la fa, la paga. 34. L’omu travagghiaturi sempri campa. 35. Mali nun fari, e paura nun aviri. 36. Cui la dura la vinci. 37. Quali è l’omu, tali opera. 38. Nun vaja scausu, cui spini simina, ca poi si pungi, a la sdiminticata. 39. Una si dici, e n’àutra si nni fa. 40. Lassa lu munnu comu lu trovi. 41. Cui accumenza e poi stanca, comu si nun avisssi accuminzatu. 42. Doppu lu fattu nun c’è cchiù rimediu. 43. Megghiu nun accuminzari, ca stancari, e nun finiri. 44. Zoccu a fari, fallu prestu.

PARENTI E FIGGHI 1. 2. 3. 4.

Voli imparari lu patri a fari figghi. Biatu ddu corpu, chi nun fici mai figghi. Pàmpina assimigghia a trunzu. Un patri campa centu figghi, e centu figghi nun ponnu campari un patri.


137 5. Nun canusci a sò patri chi lu fici. 6. Ogni scravaccheddu, a sò patri pari beddu. 7. L’àrvulu pecca e la rama ricivi. 8. L’àrvulu s’addrizza mentri è nicu. 9. Tali fìgghiu, quali patri. 10. Lu figghiu di lu crivaru, fa crividdi. 11. Zocccu fa la mamma a lu cufularu, fa la figghia a lu munnizzaru. 12. A lu cavaddu la virga e spiruni, ed a lu figghiu un bonu vastuni. 13. Aju nutricatu lu scursuni ntra la manica24. 14. Unu frabbica, e l’àutru sfabbrica, lu patri fa, e lu figghiu sfa. 15. Cui avi figghi, avi guai. 16. Cui avi mali figghi, avi mala vicchizza. 17. Di la testa feti lu pisci. 18. Firredda ’nsigna zitedda25. 19. Lu vastuni ’nsigna lu garzuni. 20. Figghiu mmizzigghiatu26 crisci malucriatu. 21. Quannu cci voli na cancariata27, nun è piccatu. 22. Fa cchiù una riprinzioni, a cui la senti, ca centu vastunati a cui nun senti.

24

[Ho allevato una serpe in seno] [La sferza ovvero la severità educa la giovane] 26 [viziato, vezzeggiato] 27 [sgridata] 25


138 PARLARI E TACIRI 1. Su cchiù li vuci, ca li nuci. 2. La bona palora, bonu locu pigghia. 3. Boni palori, e vistiti di pannu, mai hannu fattu dannu. 4. Nun cunfidari nenti a la mugghieri. 5. Li gàstimi su comu la canigghia, cui li manna si li pigghia. 6. Lu parrari sinceru, è beddu assai. 7. Cui si loda, s’imbroda. 8. Cui ti loda, t’inganna. 9. Li paroli si bisognanu pisari. 10. Palori assai, e fatti nenti. 11. Si hai un mali dillu a tutti. 12. La palora è cchiù di cuntrattu. 13. A lu parrari si canuscinu l’omini. 14. Si divi parrari a tempu, ed a locu. 15. Avi meli a la vucca, e feli a lu cori. 16. Ogni mircanti parla di la sua mircanzia. 17. Lu troppu parlari, fa siti. 18. Cui troppu parra, spissu sgarra. 19. Omu chi parla assai, nenti dici. 20. Prima di parlari, mastica li palori. 21. Palori pocu pinsati portanu pena. 22. La lingua nun avi ossu, e rumpi l’ossu. 23. La lingua nun avi ossu, e tagghia minutu, e grossu. 24. La lingua fa beni, e mali. 25. Catinazzu ’mmucca. 26. L’omu s’attacca pri la palora, e lu voi pri li corna. 27. Su palori persi e jttati a lu ventu.


139 28. Senti assai e parla picca. 29. Hai vistu lu voi? Né vrancu né nìuru. 30. Spanni di chiddu chi è chinu lu saccu. 31. Di l’abbunnanza di lu cori, parla la lingua. 32. Li tistimonj fannu ’mpènniri l’omini. 33. Li palori nun ìnchinu panza. 34. A’ dittu bonasira a lu mortu. 35. Comu nesci la mala palora, nun pò nesciri la bona? 36. La carni di l’omu si mancia cu lu meli28.

PINSERI E SULLICITUDINI 1. Pri li tanti pinseri, lu cornu annigrau. 2. Si sgarra la lingua, nun sgarra lu cori. 3. Cui va cu lu ’ngannu, ci veni lu malannu. 4. Nun cunfidari a tutti lu to cori. 5. Lu cori a li voti è presagu. 6. Cui ama, sempri pensa na cosa. 7. La lingua va unni lu denti doli. 8. Cui si pigghia pena, campa pocu. 9. Cui avi pinseri nun dormi. 10. L’apparenza ’nganna. 11. Cui guarda lu sò, non fa latru a nuddu. 12. L’invidiusu mori cunfusu. 13. Cui opera, giudica. 14. Nun pigghiari cunsigghi di ’ngnuranti. 28

[L’uomo va sedotto con le parole dolci]


140 15. Pensa la cosa avanti chi la fai; ca la cosa pinsata, è bedda assai. 16. Cui bonu sedi, malu pensa. 17. Zoccu si pensa, si parla. 18. Oi ci pensu iu, e dumani ci pensa Diu. 19. Nuddu pò trasiri ntra li giudizii di Diu. 20. Cui ti loda, t’adula.

RICCHIZZI E PUVIRTÀ 1. Cui prestu arricchisci, prestu fallisci. 2. Nuddu tuttu ’nsèmmula arricchisci. 3. Cui avi dinari, fa navi. 4. Cchiù chi duna, cchiù riccu si fa. 5. Lu dinaru, è lu sangu di l’omu. 6. Cui avi dinari sputa sintenzi. 7. Li dinari ànnu l’ali. 8. Li dinari mèttinu pinseri. 9. Lu riccu quannu mori nenti si nni porta. 10. La prima nobiltà, su li dinari. 11. Diu fa arricchiri, e Diu fa ’mpuviriri. 12. Megghiu sennu ca dinari. 13. Cui voli cumpariri riccu, prestu fallisci. 14. Cui troppu voli nenti avi. 15. Li dinari vannu cu li dinari. 16. A lu riccu ricchizzi, a lu poviru puvirtà. 17. Cu lu cchiù riccu e putenti di tia, nun c’aviri chi fari, crìdilu a mia. 18. Quannu lu riccu à parratu, è di tutti ’ncinziatu.


141 19. Lu riccu campa cu lu poviru, e lu poviru cu lu riccu. 20. Li dinari fannu isari la testa. 21. Li dinari sarvati, fannu gran guerra. 22. Li dinari fannu spurtari. 23. Li dinari fannu rinigari. 24. Li dinari fannu idolatrari. 25. Li dinari fannu dannari. 26. Sarva ca trovi. 27. Mircanti, e porcu, a la morti pari. 28. Li dinari, fannu l’orvi cantari. 29. Senza dinari, nun si canta missa. 30. Lu riccu pò diri una palora cchiù. 31. La furca è fatta pri lu poviru. 32. A lu poviru, Diu l’ajuta. 33. Lu poviru, e lu malatu, nun è vulutu da lu parintatu. 34. La puvirtà fa perdiri la nobiltà. 35. Lu poviru di nuddu è vulutu. 36. Ad arvulu cadutu, accetta, accetta. 37. Sugnu arrivatu cu l’acqua a la gula. 38. Megghiu poviru e arripusatu, ca poviru e travagghiatu. 39. Cui nun avi dinari nun è ntisu. 40. Lu poviru quannu parla nun è ntisu. 41. Lu poviru cchiù chi travagghia, è sempri poviru. 42. A lu pirutu, pirutu, Diu l’ajuta29. 43. Arricogghi cchiù un poviru pizzenti, ca un patruni di mànnara. 44. Lu picca m’abbasta, e l’assai mi suverchia. 45. Lu poviru, è importunu. 29

[Dio soccorre chi è disperato]


142 46. Megghiu poviru cu la saluti, ca riccu e malatu. 47. Quantu va la saluti, nun vannu li dinari. 48. Cui vinni scinni. 49. Poviru cci sì, lagnusu pirchì? 50. Me patri è cucciddatu e jeu moru di fami. 51. Ohimè tri voti vi lu dicu, cui cadi in puvirtà perdi l’amicu. 52. Lu poviru nun è cridutu mai. 53. Cui suverchiu spenni, poviru addiventa. 54. Lu disignu di lu poviru, nun veni mai a fini. 55. Cui disprezza lu poviru, disprezza a Diu.

RISU E CHIANTU 1. La cuntintizza, avi a veniri di lu cori. 2. Doppu la cuntintizza, veni la morti. 3. Si chianci e si ridi, a tempu, ed a locu. 4. Cui chianci primu, ridi doppu. 5. Doppu scialu, scuntintizza. 6. La malincunìa si lu mancia vivu. 7. La malincunìa cci rudi l’ossa. 8. La malincunìa lu porta a la fossa. 9. Cui oi chianci, dumani ridi. 10. Doppu lu risu veni lu chiantu. 11. Nun c’è nozzi senza chiantu. 12. Nun c’è luttu senza risu. 13. Nun sempri ridi la mugghieri di lu latru. 14. Nun tutti li spichi vannu all’aria. 15. Mi levu di la bracia, e mi mettu ntra lu focu.


143 SIGNI E SENZI DI LU CORPU 1. Beni e mali ’ncera pari30. 2. Avi l’oricchi a panaru, senti quannu cci veni ’mparu. 3. Si fici lu cchiaccu cu li so stessi manu. 4. La facci di l’omu, è facci di liuni. 5. Si fràbica la furca cu li soj stissi manu. 6. Avi la facci, ca la pò dari, ntra li cantuneri. 7. La saluti veni dall’alligrizza di lu cori. 8. La cuntintizza fa ringiuviniri. 9. L’omu bonu avi lu cori ’mmanu. 10. L’occhi sù la ruvina di l’omu. 11. Nu cc’è cchiù surdu di chiddu chi nun voli sentiri. 12. Sentu la vuci, e nun sentu la pirsuna. 13. Si fa oricchi di mircanti. 14. L’omini nun si accattanu a parmu. 15. Facci chi nun è vista, è addisiata. 16. La porta ’nchianta di manu. 17. Né cu zoppi abballari, né cu checchi cantari. 18. Cui nasci tunnu, nun pò moriri quatru. 19. Ogn’unu cu l’arti sua. 20. Quannu unu nun voli, dui nun si sciarrìanu.

SONNI 1. Lu lettu è rosa, si nun si dormi, si riposa. 2. Nun crìdiri a li sonni, chi t’inganni. 30

[La buona o la cattiva salute si leggono sul volto]


144 3. Zoccu la vecchia vulìa, ’n sonnu cci vinìa. 4. Nun si pò durmiri, e fari la guardia. 5. Dormi patedda, chi lu granciu vigghia.

TEMPU 1. Lu bon tempu, e lu malu tempu, nun dura tuttu lu tempu. 2. Sàrvati di manciari, e no di fari. 3. Lu tempu scopri ogni cosa. 4. Lu tempu è gran galantomu. 5. Ogni cosa veni a fini. 6. Ntra un’ura Diu lavura. 7. Lu tempu è priziusu. 8. Lu fradiciu nun teni. 9. Lu tempu persu nun è di nuddu. 10. Cui sarva, trova. 11. Robba fatta cu furtu, dura tempu curtu. 12. Lu focu di la pagghia pocu dura. 13. Ogni cosa, avi lu so tempu. 14. Lu tempu passa, e la vicchizza accosta. 15. Lu tempu vola. 16. Di la notti ni fa jornu. 17. Si rispunni a tempu propriu. 18. Cui va primu, macina a lu mulinu. 19. Chiddu chi và vagabunniannu, irrà un jornu dumannannu. 20. Quannu è junta l’ura, nun c’è medicu, e mancu vintura.


145 VANITÀ DI LU MUNNU 1. Si vìdinu munnizzari ciuriri, e jardina siccari. 2. Aria e tuppè, e dinari nun cci nn’è. 3. Nun cc’è un’ugnu di nettu. 4. Ogni cosa a stu munnu è vanitati. 5. Lu munnu è una gaggia di pazzi. 6. Sutta di lu celu e di la luna, nun cc’è firmizza alcuna. 7. Di patruni addivintau servu. 8. Ogni cosa ritorna a la so origini. 9. Cui sputa n’celu, ’n facci cci torna. 10. Cui dici chi sapi assai nun sapi nenti. 11. Lu superbu nun avi paci. 12. Sutta lu celu, nenti cc’è di novu. 13. Figghiau la muntagna e fici un surci. 14. Lu guadagnu di la bedda, si nni va pi bianchettu. 15. Lu superbu è da tutti disprizzatu. 16. Cui si teni e nun è tinutu, è un asinu vistutu. 17. Cui è superbu è pazzu. 18. Prestu cadi cui autu voli vulari. 19. Si vidi oi lu viziu primiatu, e la virtù castigata; la virtù umiliata, e lu viziu ’n triunfu. 20. Nun ti fidari chi la corda è grossa, chi cchiù ch’è grossa cchiù prestu si lassa. 21. Guai a cui stima lu malu pri bonu, e lu bonu pri malu.


146 VESTIRI E SPUGGHIARI 1. A locu chi nun sì canusciutu, comu sì vistu sì rassumigghiatu. 2. Cui si vesti di li robbi d’àutru, prestu si spogghia. 3. Chiddù chi avi la lenza tisa, cui sà si sutta cc’avi cammisa? 4. Lu munnu nun pò vestiri ad unu, si nun spogghia a n’àutru. 5. Si nun si spogghia lu patri, nun si pò vestiri lu figghiu. 6. Centu latri nun ponnu spugghiari un nudu. 7. Su onurati li vistimenti e no la pirsuna. 8. Secunnu è l’asta, porta la bannera31. 9. Vesti un zuccuni, ca pari baruni. 10. La gaddina si spinna quannu è morta. 11. Unni manca, Diu cuverna.

VIRTÙ E VIZII 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 31 32

La robba di l’avaru, si la mancia lu sfragaru32. Doppu l’avaru veni lu sfragaru. L’avaru nun è cuntenti mai. L’avaru si licca la sarda. La robba d’àutru, sapi cchiù duci. La vutti di chi è china spanni. Lu putiaru zoccu avi abbannìa. È facci tosta, è facci di coiru. Lu latru si nun è vistu arrobba, siddu è vistu, dici chi joca. [È bene fare il passo secondo la gamba] [sciupone]


147 10. Ogni omu avi una vèrtula di malizia. 11. L’omu di vinu, campa mischinu. 12. Omu di vinu nun vali un quattrinu. 13. Lu ’mbriacu dici la virità. 14. Tri cosi odia Diu: lu poviru superbu, lu riccu farfanti, e lu vecchiu viziusu. 15. L’occasioni fa l’omu latruni. 16. La prima nobiltà è la sanità. 17. Cui ha fattu lu malannu si lu chianci. 18. Cui culpa a lu so mali, chianci iddu stissu. 19. Avi setti spirti comu li gatti. 20. La virtù unita è cchiù forti. 21. Megghiu sennu chi dinari. 22. Diu sulu è giustu. 23. Biatu lu poviru pacinziusu. 24. Lu viziusu è sempri timurusu. 25. Cui simina virtù, ricogghi assai. 26. Cui la sgarra, la paga. 27. Lu viziu l’avi ntra l’ossa.

VITA E MORTI 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Oi in figura e dumani in sepultura. Oi ntra lu lettu e dumani ’n catalettu. La vita di l’omu è na cuntinua guerra. Quannu menu ti la pensi, veni la morti. Si sapi unni si nasci, ma no dunni si mori. Cui malu campa prestu mori.


148 7. Cui malu campa, dispiratu mori. 8. Nudi nascemu e nudi muremu. 9. La vita di l’omu è curta e travagghiata. 10. Guai cu la pala, e morti mai33. 11. La vita di l’omu è fugaci. 12. Ognunu mori cu lu so viziu a latu. 13. Morti addisiata, nun veni mai. 14. Cui si rallegra di la morti d’àutru, la sua è vicina. 15. Cui pripara la morti ad àutru, la sua nun è luntana. 16. Una bona morti onura tutta la vita. 17. Ntra stu munnu cui nasci, e cui mori. 18. Megghiu mòriri chi malu campari. 19. Mali nun fari, e paura nun aviri. 20. Semu nati pri muriri. 21. Cui nasci mori. 22. Comu si campa si mori. 23. Si campa e si mori quannu voli Diu. 24. L’omu in chi si vidi vivu, e in chi si vidi mortu. 25. La vita di l’omu passa comu lu ventu. 26. Stu munnu è un veru pilligrinaggiu. 27. Nuddu pò sfuiri la manu di Diu. 28. Diu pruvidi macari la firmicula. 29. Dunni manca l’omu supplisci Diu. 30. Si lu giovani pò mòriri, lu vecchiu nun pò campari. 31. Ogni cosa si consuma, e veni a… FINI

33

[Vengano pure i guai, purchè non venga la morte]


Istituto Euro Arabo di Studi Superiori di Mazara del Vallo. Via Antonino Castiglione 61/B – 91026 – Mazara del Vallo (TP) Tf: 0923-908421; 091-961661; fax: 0923-908421 www.istitutoeuroarabo.it; e-mail: iea@istitutoeuroarabo.it Volumi pubblicati: 1. – F. Gabrieli, Ibn Hamdìs, 2000 Ristampa del saggio dell’illustre arabista Francesco Gabrieli (190496) su Ibn Hamdìs (Siracusa 1053-1133), il più famoso poeta arabo siciliano. Prefazione di A. Borruso dell’Università di Palermo. 2. – M. Cipolla, Storia della Matematica, 2001 Ristampa del ciclo di conferenze tenute dall’insigne matematico Michele Cipolla (1880-1947) dell’Ateneo palermitano presso la Biblioteca filosofica di Palermo nel 1933. Prefazione di U. Bottazzini e P. Nastasi dell’Università di Palermo. 3. – F. Napoli, Diario 1943-44, 2002. Tratto da uno zibaldone manoscritto conservato presso la Biblioteca Comunale di Mazara, descrive gli avvenimenti e lo stato di vita a Mazara negli anni 1943-44, uno dei periodi più drammatici e dolorosi della storia recente della città. Introduzione di S. Costanza. 4. – F. Napoli, Folklore di Mazara, 2003. Ristampa del saggio pubblicato dallo studioso mazarese nel 1934. Vi sono illustrati usi, credenze, feste locali e tradizioni popolari. Introduzione di A. Cusumano. 5. – F. Bascone, Le Scuole Serali di Mazara, 2003. A cento anni esatti dalla sua pubblicazione (1903), ristampa di un saggio che, in forma di appassionato pamphlet e con accenti di desolante attualità, ci invita a riflettere sulla funzione eminentemente sociale della scuola. Nota introduttiva di G. Inzerillo.


6. – M. Ghachem, Nouba, poesie, 2004. Raccolta di poesie, per la prima volta tradotte in italiano, di uno tra i più noti autori contemporanei della letteratura arabo-francofona. Traduzione e cura di S. Mugno. Introduzione di G. Toso Rodinis. 7. – O. Napoli, Poesie scelte, 2005. Antologia del poeta mazarese che ha avuto un ruolo di primo piano nella storia letteraria del Novecento. Introduzione di L. Greco. Contributi di M. Bettini e S. Mugno. 8. – S. Nicastro, Episodi, tendenze e figure della storia del Risorgimento, 2006. Studio sulle origini del Risorgimento italiano. La vicenda risorgimentale appare come il naturale epilogo del lungo e contraddittorio processo di formazione di quel sentimento nazionale senza il quale né l’indipendenza dallo straniero, né la creazione del nuovo Stato unitario avrebbero trovato concreta attuazione. A cura di S. Costanza e R. Lentini. 9. – A. M. Ripellino, Oltreslavia. Scritti italiani e ispanici (1941-1976), 2007. Antonio Pane, uno dei più attenti studiosi dell’universo letterario ripelliniano, ha curato una preziosa antologia di scritti rari del grande intellettuale, siciliano di nascita e mitteleuropeo per cultura. Nell’introduzione, Antonino Cusumano firma un ritratto inedito di Ripellino a Mazara. 10. – G. Inzerillo, Nino Sammartano. Un pezzo di diavolone olivastro, 2008. Attento profilo storico-critico di un insigne intellettuale del Novecento: letterato e pedagogista, uomo politico e animatore culturale. In appendice una significativa antologia dei suoi scritti. Nota dell’ambasciatore Bruno Bottai. 11. – R. Castelli Dell’immaginario popolare. Scritti vari (1882-1906), 2010.


La presente edizione si compone di mille esemplari numerati

ESEMPLARE N. …………………..



Raffaele Castelli (1838-1919) fu significativa figura di intellettuale mazarese, studioso delle tradizioni popolari, insigne umanista e stimato latinista. Professore per più di quarant’anni presso il locale Ginnasio e preside dello stesso dal 1887 al 1911, approdò agli studi demologici secondo il più classico degli itinerari, muovendo cioè dalla sua passione lungamente coltivata per il mondo antico. Compose versi in latino e si cimentò con ottimi risultati nella traduzione dei Fasti e del 1° libro delle Tristezze di Ovidio. Sulle pagine dei classici Castelli credette di trovare il terreno d’incontro più congeniale dei suoi interessi di letterato e di demologo, una felicissima sintesi delle lontane radici storiche di non poche manifestazioni di vita folklorica ancora attuali. Collaboratore di Giuseppe Pitrè, fu suo corrispondente e amico personale, con il quale ha intrattenuto un proficuo e assiduo rapporto epistolare. Suoi scritti sono stati pubblicati sul prestigioso Archivio per lo studio delle tradizioni popolari e in parte confluiti nell’opera Credenze ed usi popolari siciliani, che ha conosciuto ripetute e anche recenti edizioni. Il volume che l’Istituto Euro Arabo ha deciso di dare alle stampe, a novanta anni dalla morte dell’autore, raccoglie saggi non più editati e pertanto poco noti e preziosi, non solo per la loro rarità. Sotto il titolo Dell’immaginario popolare, l’antologia mette insieme gli scritti su miti, preghiere, modi di dire, giochi e leggende, recuperati a Mazara e dintorni alla fine dell’Ottocento: un ricco e rilevante patrimonio di materiali orali riconducibili all’orizzonte simbolico della cultura popolare.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.