ISTITUTO EUROARABO DI MAZARA DEL VALLO
Cultura storica e tradizioni religiose tra Selinunte e Castelvetrano Atti dei Convegni di studi
Castelvetrano, 16-17 marzo 2012 / 21-22 giugno 2013
a cura di Giuseppe L. Bonanno e Vincenzo M. Corseri
2018 MAZARA DEL VALLO
,67,7872 (852 $5$%2 ', 0$=$5$ '(/ 9$/L2
&XOWXUD VWRULFD H WUDGL]LRQL UHOLJLRVH WUD 6HOLQXQWH H &DVWHOYHWUDQR $WWL GHL &RQYHJQL GL VWXGL &DVWHOYHWUDQR PDU]R JLXJQR
D FXUD GL Giuseppe L. Bonanno e Vincenzo M. Corseri
0$=$5$ '(/ 9$//2
2
Cultura storica e tradizioni religiose tra Selinunte e Castelvetrano: atti dei convegni di studi : Castelvetrano, 16-17 marzo 2012/21-22 giugno 2013 / a cura di Giuseppe L. Bonanno e Vincenzo M. Corseri. – Mazara del Vallo : Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, 2018. 1. Cultura – Castelvetrano – Atti di congressi. I. Bonanno, Giuseppe Libero <1952->. II. Corseri, Vincenzo Maria <1976->. 306.094582446 CDD-23 SBN Pal0310973 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
© 2018 Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo. Giuseppe L. Bonanno e Vincenzo M. Corseri (a cura di), Cultura storica e tradizioni religiose tra Selinunte e Castelvetrano Atti dei Convegni di studi Castelvetrano, 16-17 marzo 2012 / 21-22 giugno 2013.
Indice Giuseppe L. Bonanno - Vincenzo M. Corseri Introduzione
pag.
7
1. Maria Letizia Allegra « Un cantiere castelvetranese della metà del XVI secolo: la committenza Aragona Tagliavia e le maestranze in Santa Maria di Gesù
17
2. Fabio Amodei Il calendario festivo di Castelvetrano
«
23
3. Rosario Atria Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
«
59
4. Ignazio E. Buttitta Tradizioni, feste e identità locali
«
79
5. P. Calamia – M. La Barbera - G. Salluzzo Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
«
87
6. P. Calamia – M. La Barbera – G. Salluzzo Presenze federiciane nella Valle del Belìce
«
103
4
7.
Francesco Saverio Calcara pag. 135 Santa Rita da Cascia: un esempio trainante di santità possibile. Origine e diffusione del culto in Castelvetrano
8.
Martine Fourmont « Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto nella successione dei secoli. Una breve visione d’insieme
141
9.
Vincenzo Fugaldi « La Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” di Castelvetrano: per un progetto di rinnovamento
165
10. Giovanni Isgrò « Potere e devozione nel Principato di Castelvetrano
175
11. Walter Leonardi « Devozione e culto delle sante nell’architettura e nell’urbanistica di Palermo tra XVI e XVII secolo
187
12. Vito Marino « La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
201
13. Francesca Paola Massara « Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
231
14. Giovanni Modica - Mirko Tamburello Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
253
«
5
15. Giuseppe Petrantoni pag. 269 Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi di probabile origine araba del territorio di Castelvetrano Selinunte 16. Mirko Tamburello « Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano: il primo passo verso l’identità cittadina
299
17. Mirko Tamburello « Castelvetrano medievale e i Tagliavia. Una storia attraverso i diplomi pergamenacei dell’Archivio Pignatelli Aragona Cortés
315
18. Emma Vitale Aspetti della cristianizzazione occidentale in età tardoantica
323
«
della
Sicilia
Introduzione La presente raccolta di Atti include i testi degli interventi – quelli citati e non riportati non sono pervenuti per iscritto ai curatori – tenuti in due convegni di studi di carattere storico svoltisi a Castelvetrano negli anni 2012-2013; a questi, sono stati aggiunti alcuni contributi, elaborati e pervenuti ai curatori in un secondo momento, di studiosi che non hanno potuto partecipare direttamente alle manifestazioni. Gli eventi furono organizzati dall’Officina di Studi Medievali di Palermo e dal Centro internazionale di Cultura filosofica “Giovanni Gentile” di Castelvetrano, istituzioni culturali allora entrambe presiedute dal compianto Alessandro Musco, col patrocinio del Club UNESCO di Castelvetrano Selinunte e di altri enti ed istituzioni di cui si dà conto infra. Alessandro Musco, docente di Storia della Filosofia medievale nell’Università degli Studi di Palermo, studioso, animatore culturale, nostro amico e maestro, fu l’animatore anche dei due convegni in oggetto, con la sua competenza, sapienza e saggezza, con la sua nota verve, con il suo calore umano. A lui è dedicata questa raccolta di scritti. Nei giorni 16 e 17 marzo 2012 si tenne presso il Circolo della Gioventù di Castelvetrano Selinunte un convegno di studi, a cura dell’Officina di Studi Medievali, del Dipartimento di Beni Culturali, Storico-Archeologici e Socio-Antropologici dell’Università di Palermo, della Fondazione “Ignazio Buttitta” e del Centro Internazionale di Cultura Filosofica “Giovanni Gentile” di Castel-
8
Giuseppe L. Bonanno - Vincenzo M. Corseri
vetrano, sul tema Sacralità, Feste, Riti e Santi tra Selinunte e Castelvetrano. L’iniziativa, interna al programma di ricerca Catasto Intellettuale Mediterraneo (CIM), promosso dall’Officina di Studi Medievali, fu coordinata scientificamente da Alessandro Musco. Nel corso delle due giornate, sono stati trattati ad ampio raggio temi e problemi riguardanti i culti, la tradizione religiosa, l’arte sacra e le principali festività a Selinunte, Castelvetrano e, in generale, nel territorio del Val di Mazara, dall’antichità agli anni correnti. Un approccio multidisciplinare, quindi, allo studio dell’antica Selinunte – dalla sua fondazione al periodo medievale – e di Castelvetrano, che ha visto coinvolti alcuni tra i maggiori studiosi e ricercatori delle questioni storico-religiose in Sicilia, provenienti dal mondo accademico e da diverse prestigiose istituzioni scientifiche, siciliane e non, oltre che numerosi studiosi locali. Ignazio E. Buttitta, antropologo dell’Università di Palermo e presidente della Fondazione “Ignazio Buttitta”, nel suo intervento introduttivo, dal titolo programmatico Tradizioni, Feste e Identità locali, ha messo in rilievo il fatto che, ai tempi nostri, dopo averle rinnegate come retaggio di tempi oscuri, si è tornati a parlare con una certa enfasi di tradizioni popolari, di identità e di memoria collettiva. Spesso, però, dietro l’apparente interesse per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale, tradizionale, si celano interessi confliggenti e contraddittori. Valorizzare le tradizioni significa per alcuni, per i più, coglierne e esaltarne solo quegli aspetti che paiono utili alla promozione di una mediocre politica turisticoconsumistica. «Una politica – ha fatto notare Buttitta – il cui fine ultimo e inespresso è la creazione di “riserve indiane”, dove stanchi attori dovrebbero trovarsi a recitare la parte dei commossi fedeli, degli operosi artigiani, dei pii contadini e quanto altro, a profitto del turista di passaggio felice di “stupirsi” di usi e co-
Introduzione
9
stumi “antichi” e “selvaggi”». Per lo studioso palermitano, «gli esecutori non sempre consapevoli di tale “condanna allo stereotipo” sono Pro-Loco, Enti Locali, istituzioni pubbliche e associazioni private, e a soffrire maggiormente di questi interventi sono le feste religiose. Esse, al contrario di altre espressioni della cultura popolare inesorabilmente scomparse, restano ancora vive e presenti. Sono ragioni precise a garantirne la perduranza e il rinnovamento». Le osservazioni avanzate da Buttitta, nel corso della sua prolusione, hanno colto in pieno lo spirito del convegno. Un convegno indubbiamente incentrato sull’analisi della storia della mentalità di uno specifico bacino territoriale, quello che va dall’antica Lilibeo a tutto il basso Belìce e, cronologicamente, dall’antichità greco-punica alla contemporaneità: è l’enorme territorio anticamente controllato da Selinunte, città fondata dai Megaresi verso la metà del VII secolo a.C. (così riporta Diodoro Siculo nel libro XIII della sua Biblioteca) e rimasta, almeno fino alla sua prima distruzione, avvenuta alla fine del V secolo, l’avamposto greco più avanzato ad Occidente: come è noto Selinunte ebbe modo di confrontarsi con diverse popolazioni (Elimi, Cartaginesi, ecc.) acquisendo, in breve tempo, una dimensione politico-sociale ampiamente mediterranea. Sulla civiltà selinuntina, e sulla sua cultura religiosa, negli ultimi decenni, è stato detto e scritto molto. Una delle maggiori studiose di quella civiltà, l’archeologa francese Martine Fourmont, del Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, è intervenuta all’iniziativa proponendo un’analisi dei luoghi di culto selinuntini, osservati sotto un angolo dinamico capace di fornire una lettura sia diacronica che sincronica di questi siti. La ricercatrice francese ha voluto dimostrare come questi luoghi abbiano mantenuto nel tempo una peculiare funzione cultuale, nonostante i mutamenti di religione e di civiltà, e nonostante le tra-
10
Giuseppe L. Bonanno - Vincenzo M. Corseri
sformazioni sociali avvenute, nei secoli, nel medesimo tessuto urbano. Una disamina più specificamente storico-religiosa dei culti sacri a Selinunte è stata quella offerta dall’allora direttore del Parco archeologico di Selinunte e Cave di Cusa, Caterina Greco, la quale ha voluto dimostrare che l’indagine sulle divinità adorate a Selinunte può basarsi poco sulle fonti letterarie praticamente inesistenti sull’argomento e deve quasi tutto alla ricerca archeologica. Una ricerca che, restando sempre a Selinunte, può invece avvalersi di maggiori riferimenti bibliografici, se si considerano gli studi e i testi in cui viene trattata la presenza delle prime comunità cristiane in quel territorio e la vicenda dei Quattrocento martiri cristiani che, sotto l’imperatore Diocleziano, in Sicilia, vennero perseguiti ed infine uccisi per la fede da loro professata. È stato questo il tema sviluppato da un giovane studioso castelvetranese, Angelo Curti Giardina, in una relazione che ha toccato, tra verità e leggenda, una delle storie della Selinunte cristiana rese degne di essere menzionate come fatto storico non tangibile dal punto di vista fisico, ma riscontrabile negli scritti degli eruditi di Sicilia e nelle scoperte archeologiche moderne. Quello della presenza di tracce archeologiche cristiane in Sicilia occidentale e nel territorio di Selinunte in particolare è il tema che, complementarmente, due studiose dell’Università di Palermo, Emma Vitale, una specialista del periodo romano tardoantico, e Maria Annunziata Lima, storica dell’arte bizantina e medievale, hanno rispettivamente sviluppato nelle loro relazioni. L’altro polo tematico del convegno è stata Castelvetrano (da circa un ventennio, Castelvetrano Selinunte): una città storicamente legata a Selinunte fin dalle sue scaturigini, essendo stata fondata, si pensa, subito dopo l’arrivo dei normanni in Sicilia, a poco più di dieci chilometri dall’attuale area archeologica selinuntina. Quasi tutte le relazioni tenute nel corso delle due giornate, riguardavano, nello specifico, proprio la religiosità a Castel-
Introduzione
11
vetrano. Le tradizioni, i riti e i culti che, nei secoli, si sono via via inculturati nella vita religiosa di questa comunità, hanno avuto una loro degna trattazione in un cospicuo numero di interventi che, anche se su piani metodologici differenti, toccando chiese, singole opere d’arte, feste, ecc., hanno mantenuto una coerenza di fondo tale da renderli l’un l’altro tematicamente complementari e funzionali all’attuazione di un’indagine “microstorica” dei processi culturali legati alla religiosità nel Val di Mazara dal Medioevo ad oggi. Tre storici dell’architettura, Pasquale Calamia, Mariano La Barbera e Giuseppe Salluzzo, con un intervento sul tema Architettura e religione nel Medioevo castelvetranese, hanno inoltre cercato di ripercorrere panoramicamente la storia religiosa della Valle del Belìce e di Castelvetrano in particolare, dall’XI secolo alla fine del XV secolo, dimostrando che «a Castelvetrano e nel suo territorio, in età medievale, attraverso complesse vicende storiche che hanno visto l’alternarsi di periodi di convivenze a periodi di conflitti e rivalità, sono vissute tutte le culture religiose presenti in Sicilia, lasciando segni tangibili nella tipologia dell’insediamento, nella toponomastica del territorio ed in particolare nell’architettura religiosa». Sull’analisi della toponomastica e degli idronomi, riconducibili alla dominazione araba, del territorio selinuntino e castelvetranese, si è parimenti fermato un giovane semitista e filologo palermitano, Giuseppe Petrantoni. Gli altri interventi – di cui, per brevità, si elencano i titoli, insieme ai nomi degli autori – hanno toccato gli aspetti più disparati della religiosità a Castelvetrano dal XV secolo ad oggi: Giuseppe L. Bonanno e Gaspare Bianco, L’invenzione della Croce, fra’ Pietro da Mazara e “Lu Signuri tri di maju” a Castelvetrano; Francesco Saverio Calcara, Santa Rita da Cascia: un esempio trainante di santità possibile. Origine e diffusione del culto in Castelvetrano; Giuseppe Camporeale, La Cappella della
12
Giuseppe L. Bonanno - Vincenzo M. Corseri
Maddalena della Chiesa Madre; Vincenzo M. Corseri, Giuseppe Palazzotto Tagliavia e la cultura musicale del suo tempo; Leo Di Simone, L’apparato iconografico della chiesa di S. Domenico e l’iconografia della Controriforma; Aurelio Giardina, Il culto di Maria SS. della Tagliata e i suoi riflessi nella realtà socioeconomica di Castelvetrano; Giovanni Isgrò, Il teatro festivo urbano e la sua rievocazione storica nella Diocesi di Mazara; Vito Marino, La festa di Natale e la Ninnaredda – La Scesa e l’Eternità; Francesca Paola Massara, Un calice quattrocentesco ed il culto di San Sebastiano a Castelvetrano; Ferdinando Maurici, V.F.G.A., La Sicilia e i barbareschi attraverso gli ex voto; Giovanni Modica, L’Aurora; Mirko Tamburello, Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano: il primo passo verso l’identità cittadina; Matteo Venezia, Il culto di San Giovanni a Castelvetrano fra storia e folklore. Un discorso a parte merita l’intervento (Guaritori e santi nella preistoria del basso Belìce: per un’archeologia del sacro e della paleoiatria) di Massimo Cultraro, archeologo del CNR di Catania, avendo trattato un tema di carattere preistorico, e quindi decisamente anteriore al periodo posto in esame dall’organizzazione scientifica del convegno. La presenza di Cultraro ha favorito una maggiore comprensione fenomenologica, in termini diacronici, della cultualità nel basso Belìce, ponendo questo territorio in evidenza, per la ricca ed articolata documentazione archeologica disponibile, alla stregua di «un osservatorio privilegiato nello studio delle dinamiche di sviluppo delle comunità umane, dalle fasi pre- protostoriche fino al momento di fondazione di Selinunte». Alessandro Musco, infine, ha tratto le conclusioni del convegno intervenendo su un argomento che, in un certo senso, compendia metatematicamente lo spirito di tutta l’iniziativa: Il Ratto di “Europa”: mito della sacralità delle origini. La sua riflessione ha preso spunto dall’ermeneutica iconica della celebre metopa
Introduzione
13
selinuntina con Europa sul Toro, proveniente dal tempio Y (Tempio “delle piccole metope”), considerata una delle più antiche e importanti rappresentazioni del mito di Europa e il Toro di età arcaica in Occidente (si conserva presso il Museo archeologico “A. Salinas” di Palermo). Per gli antichi greci, i confini d’Europa erano piuttosto ridotti; abbracciavano, più o meno, l’area politico-geografica dell’Ellade. Per Erodoto, l’idea d’Europa si connetteva ai concetti di bene e fecondità, opposta a quella dell’Asia. E tuttavia, negli scrittori greci, c’è un sentimento dell’Europa quale compendio di valori umani, opposto alla barbarie e all’inciviltà delle popolazioni asiatiche. L’idea d’Europa esalta l’individuo, la sua autonomia personale contrapposta alla soggezione delle popolazioni pretesa dai despoti orientali. L’operosa intraprendenza della città di Selinunte, la capacità di quei coloni di costruire, tra terra e mare, una fervida realtà economica e culturale in pochi decenni, considerando che per i greci la religione è soprattutto una religione civica, compendia esemplarmente lo spirito di quella civiltà. Uno spirito civilizzatore che nei secoli, attraverso un lento ma inarrestabile processo di transculturazione, si è riconfigurato in un’orbita cristiana, poi islamica, e quindi ancora cristiana, mantenendo sempre un assoluto radicamento nel territorio e valorizzandone le peculiarità. E anche Castelvetrano, con i suoi antichi conventi, con la preziosa chiesa normanna della Santissima Trinità di Delia, con le sue sfarzose chiese tardorinascimentali, capaci di rappresentare in pieno, artisticamente e simbolicamente, lo spirito della civiltà della Controriforma, con le sue antiche feste religiose e le secolari tradizioni alimentari (pregne di sacralità anche queste), ancora vive nella memoria collettiva, continua ad essere una città simbolo di questa cultura millenaria.
14
Giuseppe L. Bonanno - Vincenzo M. Corseri
Poco più di un anno dopo, presso l’Archivio storico comunale “Virgilio Titone” di Castelvetrano Selinunte, il 21 e il 22 giugno 2013, si è tenuto, a cura del Centro internazionale di Cultura filosofica “Giovanni Gentile” e dell’Officina di Studi Medievali, su proposta del sindaco della città, Felice Errante Jr., un convegno di studi sul tema Castelvetrano nella recente ricerca storiografica. Con l’iniziativa si è cercato di dare risalto al patrimonio archivistico e librario della città di Castelvetrano Selinunte, favorendo il dialogo scientifico tra alcuni autorevoli studiosi provenienti dal mondo accademico e i ricercatori locali, senza tralasciare il prezioso apporto dei giovani neolaureati che studiano, tra medioevo ed età moderna, la storia castelvetranese. L’idea del convegno ha preso spunto dall’iniziativa degli eredi di Virgilio Titone (storico e intellettuale di fama nazionale, allievo di Benedetto Croce e docente di Storia moderna nell’Università di Palermo per circa un trentennio) e di Gianni Diecidue (storico e drammaturgo), che, con nuove e ulteriori donazioni, hanno recentemente favorito l’avvio dell’iter per il completamento del fondo “Virgilio Titone” e per la costituzione del fondo “Gianni Diecidue”, presso i locali dell’Archivio storico comunale – dove si custodiscono circa diecimila libri, con documenti che vanno dal 1580 ai giorni nostri, per quel che riguarda il fondo comunale, ed addirittura dal 1450 per quel che riguarda l’archivio notarile, oltre alcune centinaia di stampe del ’700 mai mostrate prima – e della Biblioteca comunale “Leonardo Centonze”. Al convegno hanno partecipato, con delle relazioni mirate a completare ed arricchire il dibattito storiografico su Castelvetrano e la Sicilia occidentale tra XIV e XVII secolo, alcuni tra i principali dirigenti delle istituzioni pubbliche (Soprintendenza di Trapani, Archivio di Stato di Palermo, Università degli Studi di Palermo, ecc.) che coordinano i progetti di tutela e promozione
Introduzione
15
del patrimonio archivistico-librario, storico e monumentale siciliano. La manifestazione si è collocata all’interno di un programma di ricerca sulla storia castelvetranese, cui l’Officina di Studi Medievali ha collaborato con alcune pubblicazioni (A. Giardina - F. S. Calcara - V. Napoli - G. L. Bonanno, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano. Vol. 1: dalle origini al XVII secolo, Palermo 2010; A. Giardina - V. Napoli - G. L. Bonanno - F. S. Calcara, La chiesa e il monastero dell'Annunziata in Castelvetrano, Palermo 2010), programma che includeva anche il precedente convegno sulla cultura religiosa tra Selinunte e Castelvetrano e che si pone la finalità di promuovere la memoria storica della comunità castelvetranese e del “Val di Mazara” in generale per una migliore e più dinamica apertura della città di Castelvetrano Selinunte al territorio siciliano e alla civiltà mediterranea, anche attraverso la ricerca di tutte le fonti documentarie sparse fra gli archivi comunale di Castelvetrano, foraneo di Castelvetrano, diocesano di Mazara, di Stato di Napoli, Palermo, Trapani e Sciacca. La sessione pomeridiana del 21 giugno, apertasi con un intervento introduttivo di Giuseppe L. Bonanno, sullo stato degli studi e delle pubblicazioni su Castelvetrano e Selinunte, ha ospitato le seguenti relazioni: Francesco Saverio Calcara, Nuove prospettive storiografiche alla luce del riordino dell’Archivio storico di Castelvetrano; Vincenzo Fugaldi, La Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” di Castelvetrano: per un progetto di rinnovamento; Aurelio Giardina, Alcune considerazioni su Riveli e platee del regno di Sicilia di Virgilio Titone; Vincenzo M. Corseri, Il Seicento castelvetranese di Gianni Diecidue; Mirko Tamburello, Castelvetrano Medievale e i Tagliavia. Una storia attraverso i diplomi pergamenacei dell'archivio Pignatelli Aragona Cortés. La sessione antimeridiana del 22 è iniziata con un dialogo tra Alessandro Musco e Lina Scalisi, docente di Storia moderna
16
Giuseppe L. Bonanno - Vincenzo M. Corseri
nell’Università di Catania e autrice di un ampio studio sul ’500 siciliano, “Magnus Siculus”. La sicilia tra impero e monarchia (1513-1578), edito da Laterza (Roma-Bari 2013). Alla presentazione del volume della studiosa catanese – dedicato al casato degli Aragona Tagliavia, il cui maggior rappresentante, Carlo, noto ai posteri con l’appellativo di “Magnus Siculus”, fu il protagonista di una eccezionale avventura politica e umana, iniziata con l’impero e conclusasi con la monarchia dell’Europa spagnola –, hanno fatto seguito due relazioni in cui sono stati presentati organicamente i due nuovi fondi costituiti presso l’Archivio storico comunale e tre interventi sulle committenze degli Aragona Tagliavia a Castelvetrano tra ’500 e ’600: Lucia Titone, Il fondo “Virgilio Titone”; Nicola Di Maio, Il fondo “Gianni Diecidue”; Gaspare Bianco, La chiesa di s. Domenico. Un monumento unico restituito alla città; Maria Letizia Allegra, Un cantiere castelvetranese della metà del XVI secolo: la committenza Aragona Tagliavia e le maestranze in Santa Maria di Gesù; Maurizio Vesco, Architettura e vita di corte a Castelvetrano nella prima età moderna: alcune note sulla committenza di Diego Aragona Tagliavia. La relazione conclusiva è stata tenuta da Claudio Torrisi, direttore dell’Archivio di Stato di Palermo, il quale, intervenendo sul tema La conservazione della “memoria documentaria" quale strumento di conoscenza e di comprensione del presente, ha sinteticamente descritto il convegno, riflettendo sul valore scientifico e sull’importanza “coesiva”, per l’intera collettività, degli archivi storici, pubblici e privati, in Sicilia. I curatori intendono esprimere il loro ringraziamento al prof. Antonino Cusumano, presidente dell’Istituto Euroarabo, per aver accolto il volume nella prestigiosa collana da lui diretta, e al prof. Vincenzo Pipitone per la preziosa collaborazione editoriale. Giuseppe L. Bonanno – Vincenzo M. Corseri
Un cantiere castelvetranese della metà del XVI secolo: la committenza Aragona Tagliavia e le maestranze in Santa Maria di Gesù Maria Letizia Allegra Chiunque intraprenda degli studi su Castelvetrano deve imbattersi nella consultazione dell’ormai celebre Platea redatta da Giovan Battista Noto del 1732,1 autorevole fonte di informazioni sulla città e sulla sua consistenza architettonica. Relativamente al convento di San Domenico di Castelvetrano, la testimonianza ci porta a conoscenza della presenza di un ortogiardino sul versante orientale, già proprietà dei signori Aragona Tagliavia. Le ricerche2 hanno permesso di individuare con certezza cosa accadde a questo giardino già negli anni trenta del 1500, momen-
1
G.B. NOTO, Platea della Palmosa città di Castelvetrano, suo Stato, Giurisdizione, Baronie, e contea del Borgetto aggregati, ms., Castelvetrano 1732, f. 190. 2 M.L. ALLEGRA, Complesso di Santa Maria di Gesù a Castelvetrano nel XVI secolo. Un mausoleo per gli Aragona-Tagliavia, tesi di dottorato in “Storia dell’Architettura e Conservazione dei Beni Architettonici” (XXIII ciclo), tutor M.R. Nobile, Università degli Studi di Palermo, 2013; ID., Maestri e cantiere nella prima metà del Cinquecento a Castelvetrano: il convento di S. Maria di Gesù, 17° del 2013, pp. 39-44 su «Lexicon. Storie e Architettura in Sicilia e nel Mediterraneo».
18
Maria Letizia Allegra
to in cui evidentemente i priori del convento sentirono l’esigenza di dare una definizione alle loro proprietà. A quel tempo l’incarico venne affidato al muratore castelvetranese Pietro Denaro che si impegna ad alzare un muro di cinta realizzato con la tecnica definita Sckina pixi, che seppur con qualche contaminazione dialettale rimanda all’orditura muraria di derivazione romana a noi nota come Opus spicatum. Il muro «debeat latitudinis palmorum duorum, altitudinis canne unius et longitudis canne tricentas», convertendo comprendiamo rapidamente che si trattava di un muro largo circa 52 cm, alto poco più di 2 metri e lungo circa 624 metri. L’opera doveva avere inizio da quella che era la sagrestia dell’antica chiesa di San Giovanni, collocata a suo tempo dove oggi c’è la via Meli, e assecondando la naturale pendenza del suolo, tutt’ora percepibile, si estendeva fino alla limitrofa vigna di un nobile castelvetranese. Questo è quanto accadeva durante il quarto decennio del XVI secolo, ma certo è che la storiografia ha immortalato nella Fig. 1 - Castelvetrano, chiedi San Domenico, presbimemoria dei posteri la chiesa di San Do- sa terio con la composizione menico, al tempo dedicata a Santa Maria di dell’Albero di Jesse Gesù, soprattutto per essere il Pantheon (fig. 1) della famiglia Aragona Tagliavia decorato per ordine del principe Carlo, negli anni settanta del cinquecento da Antonino Ferraro,3 stuccatore ampliamente accreditato proveniente dal 3
Per approfondimenti sullo stuccatore Antonino Ferraro cfr. A.G. MARCHESE, I Ferraro da Giuliana, 1, Orazio Pittore, Palermo 1981; ID., I Ferraro da Giuliana, 2, Tommaso, Palermo 1983; ID., Antonino Ferraro e la statuaria lignea del ’500 a Corleone, Palermo 2009; ID., Manierismo siciliano. Antoni-
Un cantiere castelvetranese della metà del XVI secolo
19
cantiere palermitano più ambito di quel momento storico, ovvero quello della Tribuna della cattedrale. Gli studi, oggi, dimostrano inequivocabilmente che altrettanto ambiziose sono state le scelte operate da Carlo Aragona Tagliavia4 per il cantiere di Santa Maria di Gesù (fig. 2) Fig. 2 - Castelvetrano, vista del convento e della già negli anni ’50 del ’500, durante i aerea chiesa di San Domenico, già quali maestranze eccellenti hanno Santa Maria di Gesù (foto L. concorso alla definizione del chiostro Corseri) del convento. Le vicende architettoniche, di cui il cantiere domenicano di Castelvetrano è protagonista, sono strettamente correlate a quanto accaduto qualche anno prima nella capitale, Palermo. Nel 1535 aveva avuto inizio il viceregno del mantovano Ferrante Gonzaga, il che comportò l’ammodernamento della residenza viceregia, il Castellammare di Palermo, il cui cantiere dal 1541 fu affidato al tecnico di fiducia del viceré, il toscano Domenico Giunti. Studi precedenti5 hanno permesso di rintracciare nel cantiere palermitano numerosi muratori continentali, tra i quali emerge anche il ligure Nicolosio Pizano, arrivato in Sicilia dunque con l’entourage dell’architetto Giunti. Evidentemente la residenza palermitana degli Aragona Tagliavia, e i pregressi e consolidati rapporti di stima che vigevano no Ferraro da Giuliana e l’età di Filippo II di Spagna. Atti del convegno di studi di Giuliana (Castello Federiciano, 18-20 ottobre 2009), Palermo 2010. 4 Per la figura di Carlo Aragona Tagliavia cfr. L. SCALISI, Magnus Siculus. La Sicilia tra impero e monarchia (1513-1578), Roma 2012. 5 M. VESCO, «Ecos de Renacimiento en la Sicilia del siglo XVI: arquitecturas para la vida de corte en la edad de Ferrante Gonzaga (1535 - 1546)», in Las Artes y la Arquitectura del poder, Castelló de la Plana 2013, pp. 921-938.
20
Maria Letizia Allegra
tra il viceré Gonzaga e Giovanni Aragona Tagliavia, padre di Carlo appunto, devono aver favorito in certa misura ad una migrazione delle maestranze. Questi precedenti motivano dunque l’arrivo di Pizano nel cantiere del convento di Santa Maria di Gesù di Castelvetrano, ingaggiato direttamente dall’allora marchese di Terranova, Carlo AFig. 3 - Castelvetrano, ragona Tagliaconvento di San Domenivia, per realizco, particolare delle volte zare il refetto- Fig. 4 - Particolare di una vollunettate del chiostro rio, il capitolo, ta a crociera il chiostro, il dormitorio e tutto ciò che necessita. Il maestro ligure, pervenuti i materiali da lui richiesti per avviare i lavori, procederà alla realizzazione delle volte lunettate del versante settentrionale ed orientale del chiostro (fig. 3), delle crociere della cucina, canova e refettorio6 (fig. 4) e delle volte a specchio del locutorio e del vano quadrato che collegava il convento alla chiesa (fig. 5). Fig. 5 - Particolare di una volta a specchio
6
Identifichiamo la destinazione degli ambienti del piano terra lungo il colonnato orientale grazie alla testimonianza del Noto; cfr. G.B. NOTO, Platea della Palmosa, cit., f. 188: «Entrandosi in detto Locutorio a man sinistra s’incontra il refettorio e canova e nell’angolo, la cocina con altri officini».
Un cantiere castelvetranese della metà del XVI secolo
21
Le strutture saranno realizzate da Pizano applicando il principio del vuoto per pieno e, una volta terminate, saranno periziate da una commissione di tecnici nominati da ambo le parti. La documentazione denuncia una intensa attività di cantiere che si articola durante gli anni cinquanta del cinquecento, comprovata dai numerosi acquisti di calce effettuati dalle limitrofe fornaci. Fig. 6 - Particolare del colonDunque sul finire del sesto decennio nato del cinquecento, si avvicenda nel cantiere di Santa Maria di Gesù un altro maestro, di probabile origine iberica, tal Martino Cantero, che vedremo coinvolto nel completamento del colonnato7 sud ed ovest del chiostro e dei relativi archi (fig. 6), opere realizzate con la locale pietra proveniente dalle cava, tutt’ora nota, della Tagliata, sita a nord-est della città. Le verifiche dimensionali consentono oggi di attribuire al maestro anche l’esecuzione di quella porta, attraverso la quale dal chiostro si accede al disimpegno dello scalone (fig. 7). Il convento di Santa Maria di Gesù, oggi di San Domenico, al presente è sede del Liceo Classico di Ca- Fig. 7 - Particolare della porta stelvetrano, monumento felicemente realizzata da Martino Cantero restituito alla collettività dopo il po7
Sia delle colonne intere che di quelle angolari.
22
Maria Letizia Allegra
deroso intervento di restauro avvenuto alla fine degli anni Ottanta. Questo contributo permette di offrire rinvigorita luce alla figura di Don Carlo Aragona e Tagliavia come illustre mecenate animato da sempre dallâ&#x20AC;&#x2122;intento di reclutare le migliori maestranze reperibili sul mercato per lâ&#x20AC;&#x2122;edificio castelvetranese da lui prediletto e designato come sede del suo appartamento privato per i ritiri spirituali e suo sepolcro.
Il calendario festivo di Castelvetrano Fabio Amodei Premessa Il rito festivo è un, se non il, luogo culturale per eccellenza di affermazione individuale e sociale in un quadro di rifondazione cosmica, di partecipazione e di relazione, di risoluzione di conflitti (emotivi e/o sociali), di sospensione/sovversione e a un tempo di riproposizione di ruoli, rapporti e gerarchie, di soddisfacimento di esigenze economiche, sociali e culturali, di produzione e ri-produzione di sensi (individuali e collettivi) in una dimensione spaziotemporale percepita come ‘altra’ da quella quotidiana. Mentre appaga la sete di sacro e di garanzie di benessere e continuità, ribadisce i principi normativi e i valori etici che regolano ed animano la comunità; riafferma le regole cui tutti ‘dovrebbero’ aderire e conformarsi, riattualizza la memoria storica della comunità, restituendo senso a una quotidianità precaria e conflittuale e ribadendo un’immaginaria identità culturale costantemente minacciata.1
Nel tempo, inevitabilmente, usi, credenze e pratiche si sono trasformati e in certi casi sono cessati. Di alcune feste resta solo il ricordo, di altre si conservano alcuni tratti. Se si sono quasi del tutto perdute le usanze legate al carnevale, se alcune processioni sono state soppresse (come, per esempio, quella del Crocifisso), se certi culti sono sbiaditi e alcune consuetudini sono declinate (come per esempio la venerazione per il patrono S. Giovanni e l’antico costume della Fiera della Tagliata), altri riti, pur modifi1
I.E. BUTTITTA, Verità e menzogna dei simboli, Roma 2008, p. 277.
24
Fabio Amodei
cati e rinnovati, si sono conservati, altri ancora sono stati di recente ripresi, recuperati o addirittura inventati. L’Aurora è – per esempio – una manifestazione che si può ancora riconoscere nei suoi elementi tradizionali e storici, replicando eguali le sequenze elementari del rito ed alimentando una costante e massiccia partecipazione popolare. Dopo un lungo periodo di sospensione, sono stati invece recentemente e timidamente riproposti gli altari devozionali in occasione della festa di San Giuseppe, e a Natale si sono riscoperte e rilanciate in qualche modo le tradizionali Ninnareddi. Oggi tuttavia la festa che conosce maggiore visibilità e più largo seguito è quella che è stata inventata qualche anno fa in onore di S. Rita. Si tratta di un evento rituale che è nato sulla scia delle pratiche cerimoniali strutturate su perfomance spettacolari, messe in scena in costume ed elaborate ricostruzioni storiche. Le feste sono, come tutti i fatti culturali, fenomeni che si rinnovano nel tempo, in corrispondenza dei processi di trasformazione della città e della società, delle loro evoluzioni demografiche, economiche e antropologiche. Usanze per il carnevale Il Carnevale come festa di inizio anno si organizza intorno a rituali periodici di rinnovamento che rappresentano simbolicamente l’eliminazione del male (peccati, malattie, povertà) accumulatosi durante il ciclo annuale, e l’ingresso in un nuovo ordine degli eventi, sia naturali che umani.2
Nelle culture urbane di oggi, assistiamo ad una prassi di laicizzazione del senso carnevalesco, mentre, nelle culture tradizionali, permangono molti elementi specifici, che indicano un senso ‘altro’ della realtà: quello di una rifondazione cosmogonica. Nelle 2
F. GIALLOMBARDO, Festa, orgia e società, Palermo 1990, p. 61.
Il calendario festivo di Castelvetrano
25
azioni e nelle rappresentazioni carnescialesche ravvisiamo, perciò, molti degli elementi simbolici e rituali che stanno alla base di tutte le feste dell’anno: le configurazioni del rovesciamento (le maschere), i modelli della lotta (le gare ed i combattimenti), gli eccessi della materia e del corpo (l’enfasi erotica ed alimentare), ma pure immagini allotropiche dell’energia vitale ora in disordine e trasgressive, ora nel suo rifluire verso forme rinnovate e codificate.3 La festa di li tri re ovvero dell’Epifania, un tempo prettamente religioso, oggi viene chiamata comunemente “della befana” ed è caratterizzata dal consumismo e dai regali. Una volta, questo giorno chiudeva tutte le festività natalizie e inaugurava, con taglio netto, i festeggiamenti del Carnevale. Infatti, con il detto Doppu li Tri Re, olè olè (dopo l’Epifania, gran divertimento) iniziavano i balli nelle case e in famiglia: con il giovedì grasso esplodeva la vera festa carnascialesca. Fino agli anni Sessanta del Novecento circa, il Carnevale era un periodo molto atteso da tutta la popolazione per divertirsi e scrollarsi di dosso i lunghi anni di terrore vissuti durante la guerra. Oltre al ballo in maschera, la festa si vivacizzava con abbondanti abbuffate, principalmente a base di pasta di casa e carne di maiale, mentre da bere c’era sempre in abbondanza il vino di casa. Il carnevale a Castelvetrano ha conosciuto alti e bassi: nei cosiddetti iorna di li sdirri, si portavano in giro tra la folla le maschere che rappresentavano lu baruni, lu dutturi, lu camperi, l’avvocatu. Verso la fine del ’700 poi arrivò la tradizione, o dalla Sardegna o da Palermo, di Lu Nannu e La Nanna, che venivano addobbati dal cosiddetto apparaturi e portati in giro per la città in carrozza tra lo scherzoso piagnisteo della folla al seguito. Alla fine dei tre giorni
3
Cfr. F. GIALLOMBARDO, La tavola l’altare la strada, Palermo 2005, p. 104.
26
Fabio Amodei
arrivava il momento della satira politica e di costume con la lettura di lu testamentu.4
In particolar modo, a Castelvetrano, erano festeggiati i cinque giovedì antecedenti il Carnevale: in questo periodo, i giovani innamorati che avevano voglia di fidanzarsi potevano conoscersi e ballare. Erano queste le poche occasioni offerte ai giovani di corteggiare le ragazze e di avviare un rapporto amoroso. Non dobbiamo dimenticare che fino agli anni Quaranta e anche oltre, erano ancora i genitori a scegliere la fidanzata al proprio figlio, secondo il loro insindacabile giudizio. La scelta era fatta tenendo conto di tre elementi indispensabili per un buon matrimonio: Dote, sirvimentu e mantinimentu. Nel primo giovedì, detto di li vicini, si ballava in casa d’amici, dove partecipavano le famiglie dei due giovani innamorati. Il secondo era detto di l’amici e naturalmente si ballava ma, per le famiglie dei due pretendenti, poteva avvenire anche una ‘spiegazione’ (una certa intesa, un’amicizia intima). Nel terzo giovedì, detto di li parenti si poteva festeggiare “l’entrata” ufficiale del fidanzamento. Il quarto giovedì era detto di li cummari, poiché il fidanzamento era già avvenuto e i consuoceri automaticamente diventavano comari e compari. Il giovedì grasso, quinto della serie, dava inizio agli schiamazzi dei mascherati per le strade, con la partecipazione di quasi tutta la popolazione. La maschera, di solito improvvisata con vecchi vestiti riciclati per l’occasione, disinibiva i più timidi, ed era complice degli innamorati che finalmente potevano stringersi durante il ballo, incuranti degli sguardi indiscreti. Si ballava in piazza, nei circoli culturali e ricreativi, nei cinematografi, nel teatro Selinus, nella sala da biliardo. Si improvvisavano anche danze e giochi nelle case e in famiglia, ma l’invito era riservato solo ai parenti e ai conoscenti. 4
E. INDELICATO, Carnevale ieri, oggi e domani, in «Agave», 2008, n. 1, p. 7.
Il calendario festivo di Castelvetrano
27
In una società ancora maschilista, da questo giorno sino alla fine del Carnevale, le donne potevano ballare con altri uomini e parlare e scherzare in maniera poco pulita, appunto ‘grasso’; inoltre era concesso fare scherzi anche pesanti, che dovevano essere accettati. Si diceva, infatti: a Carnevali ogni scherzu vali e cu s’affenni è maiali.5
Inoltre allora, con le stesse modalità di oggi, si leggeva lu testamentu di lu nannu, con il quale «si passavano in rassegna, ironizzandoli, fatti, persone e personaggi, uomini e cose della città»,6 e si bruciavano lu nannu e la nanna, due statue di cartapesta portate su di un carro che raffigurano una coppia di anziani: l’abbruciamentu era simbolo nella società agro-pastorale castelvetranese e siciliana in genere dei cicli lavorativi dei campi, dell’esclusione dalla gestione dell’economia familiare del vecchio in quanto incapace a reggere ai ritmi di lavoro e di produzione; memoria storica delle angherie feudali, dell’oppressione campieristica nel latifondo; significazione della solitudine, della miseria e di questo reale quotidiano da gettare almeno una volta all’anno nella pazzia dello scialo e del divertimento e sentimento del contrario.7
La Candelora Il 2 febbraio la Chiesa cattolica celebra la presentazione di Gesù al Tempio, popolarmente chiamata festa della Candelora, perché in questo giorno si benedicono le candele, simbolo di Cristo come “luce per illuminare le genti”. La festa è anche detta della Purificazione di Maria perché, secondo l’usanza ebraica, una donna era considerata impura per un periodo di quaranta giorni dopo il 5
Testimonianza di V. Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, a.a. 20112012, p. 26. 6 G.B. DIECIDUE, L’antico Carnevale di Castelvetrano, Castelvetrano 1988, p. 8. 7 Ibidem.
28
Fabio Amodei
parto di un maschio e doveva, quindi, andare al Tempio per purificarsi: il 2 febbraio cadono appunto i quaranta giorni dopo il 25 dicembre, giorno della nascita di Gesù. In ogni parrocchia di Sicilia si distribuiscono a spese del parroco, delle candele benedette, con l’impronta del suggello della parrocchia (…). La candela che viene benedetta in chiesa durante la funzione sacra si serba, come le palme benedette, per divozione e non va accesa se non al capezzale dei moribondi.8
Il giorno della Candelora veniva indicato, già nel lontano passato, come una data significativa e di rinnovamento della stagione invernale: in pratica, considerandolo come un giorno di metà inverno, si praticavano dei pronostici per indovinare come sarebbe stata la rimanente seconda parte, calda oppure fredda, piovosa e nevosa oppure mite e soleggiata. Un antichissimo proverbio latino diceva che se il 2 febbraio era freddo e nevoso, la Pasqua sarebbe stata bella; se invece il giorno della Purificazione fosse stato sereno, a Pasqua sarebbe caduta la neve. Un altro detto latino, invece, all’origine dei proverbi attuali sulla Candelora, ricordava che se il sole ammicca il giorno della Candelora seguirà un freddo ben peggiore di prima. In Sicilia un antico proverbio dice: Pi la santa cannilora, s’un ci nivica e s’un ci chiova la mmirnata è sciuta fora (la primavera è vicina). Un altro proverbio asserisce: pi la cannilora, si ci nivica e si ci chiova, quaranta iorna ci nn’è ancora. E un altro ancora ci ricorda che pi la Cannilora c’unn’avi carni ammazza la figghiola. Oppure, pi la Cannilora, ogni gaddina veni ad ova (Non c’è gallina che non faccia uova). Proverbi e modi di dire popolari sottolineano il fatto che tale ricorrenza bisognava festeggiarla a tutti costi con abbondanti libagioni a base di carne.9 8
G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo 1978 (ed. orig. Palermo 1881), pp. 179-180. 9 Cfr. V. MARINO, La Cannilora (mns. presso l’Autore).
Il calendario festivo di Castelvetrano
29
La carne si mangiava soltanto nelle grandi occasioni, dando precedenza a quella degli animali da cortile. Si faceva ricorso al macellaio solo poche volte l’anno. Il maiale si allevava in casa e, dopo averlo macellato, si vendeva in privato ad amici, parenti o vicini di casa. «Mia madre mi raccontava che intorno agli anni Venti, la stessa Principessa Pignatelli, quando veniva a Castelvetrano, faceva stirare il collo a due galletti, che poi si vedevano appesi fuori della finestra della cucina del Palazzo Ducale».10 Il 2 febbraio la Chiesa festeggia la ricorrenza con una sontuosa messa ed in quell’occasione si benedicono le candele, che si portavano a casa e si accendevano per ricevere protezione, secondo la credenza, contro i fulmini, il malocchio, le carestie, le pestilenze e le calamità in generale. La candela benedetta, detta anche cannila di li tenebri, si appendeva come la palma benedetta al capezzale e si accendeva in caso di temporali. Il pranzo del giorno della Candelora era preparato a base di stufato di carne di maiale e salsiccia arrostita, innaffiato da vino vecchio di alta gradazione; spesso si ballava con accompagnamento di tammurineddu, mannulinu e friscalettu. Fra la Candelora e il Carnevale, poi, per cinque giovedì consecutivi un tempo si faceva festa in modo particolare: questi giorni erano molto attesi dai giovani innamorati che avevano intenzione di fidanzarsi con il consenso dei rispettivi genitori perché, a quel tempo, all’innamoramento dovevano seguire il fidanzamento e il matrimonio.
10
Testimonianza di Vito Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 29.
30
Fabio Amodei
La tradizione di San Giuseppe La devozione del popolo verso San Giuseppe, venerato come protettore dei falegnami, delle ragazze nubili e degli orfani, è stata sempre sentita e praticata da tutta la popolazione siciliana. «Nei mesi primaverili, in Sicilia, si dedicano a San Giuseppe grandi mense imbandite con prodotti di vario genere, dalle primizie vegetali ai pani riccamente lavorati, dai piatti di pesce, uova, ortaggi, carni, alla frutta pregiata».11 Nei paesi della Valle del Belìce la devozione per San Giuseppe è attestata già nel XVIII secolo. A Castelvetrano, i festeggiamenti si svolgevano nei giorni 17, 18 e 19 Marzo. In quei giorni la chiesa era addobbata con lunghi drappi colorati, ornati a festa: nei giorni 17 e 18 la popolazione portava i fiori in chiesa al Santo, la cui statua veniva posta su un altare molto alto con una scalinata colma di candele accese. Nel pomeriggio del giorno 19 iniziava la processione del Santo per le vie della città: alla processione partecipavano i ‘fratelli’ della confraternita dei falegnami e bottai, che portavano delle aste sormontate dalla figura di San Giuseppe, vestiti tutti con un saio bianco, cappuccio e visiera. C’erano sempre li virgineddi, bambini vestiti da angeli che portavano i gigli bianchi di San Giuseppe. Il corteo era preceduto dai tammurinara e seguiti dalla banda musicale. I fedeli che avevano fatto voti al Santo, per ricevere grazie, camminavano scalzi e portavano in mano ceri accesi. Il carro trionfale, dove era collocata la statua del Santo, era ornato di fiori e piante verdi. Al termine della processione, verso la mezzanotte, si sparavano i fuochi d’artificio. Secondo la tradizione, quando una persona bisognosa d’aiuto pregava il Santo per chiedere una grazia, poteva promettere, come restituzione, lu votu, che poteva essere: espiare una peniten11
F. GIALLOMBARDO, Festa, orgia e società, cit., p. 17.
Il calendario festivo di Castelvetrano
31
za, portare un abito votivo addosso o dare degli aiuti ai poveri (anche attraverso l’allestimento dell’altare di San Giuseppe). A grazia ricevuta, questa persona doveva mantenere la promessa fatta e lu votu si componeva e articolava nello mmitu, nella tavulata e nell’artaru: lu mmitu consisteva nell’invitare ‘la Sacra Famiglia’ in casa propria, dove era già stata preparata la tavulata (la tavola apparecchiata) e l’artaru. «Tutte le feste popolari in onore di San Giuseppe, altro non sono se non spettacoli muti, di naturalezza, di semplicità verginale, costituenti il dramma pantomimico in embrione».12 I personaggi, invitati alla tavulata, una volta erano scelti fra le persone più bisognose, a cui mancava addirittura il pane per sfamarsi: col pranzo offerto ai poveri e agli orfani, si volevano riscattare ritualmente le discriminazioni esistenti nella comunità per ripristinare il tempo mitico dell’uguaglianza e della coesione sociale, messe in crisi nel tempo profano.13 Oggi sono scelti fra volontari devoti. La festa di San Giuseppe è come un carnevale della vita, dove i ruoli vengono stravolti, i ricchi servono i poveri, e le identità vengono confuse col fine di rigenerare e rinnovare tutto.14 «Chiunque ha accesso nei luoghi ove si tengono i banchetti, e molti vi sono invitati a veder mangiare […]; accanto alle mense sono parati gli altari».15 Secondo la tradizione, che ancora continua, sul tavolo del banchetto, accanto a ciascuno dei ‘Santi’ invitati, venivano posti tre pani di diversa forma. Davanti San Giuseppe si disponeva un pane a forma di bastone, simbolo della saggezza; davanti la Ma12
G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo 1978, p. 74. Cfr. F. GIALLOMBARDO, Festa, orgia e società, cit., p. 119. 14 Cfr. F. GIALLOMBARDO, La tavola, l’altare, la strada, Palermo 2005, passim. 15 G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, cit., pp. 237-238. 13
32
Fabio Amodei
donna, un pane a forma di palma, simbolo della pace; infine davanti il Bambino Gesù si collocava un pane a forma di sole, simbolo della Signoria di Cristo sull’universo. Questi almeno i significati che vengono attribuiti oggi nella rilettura cattolica del rito. L’altare rappresentava un vero e proprio capolavoro d’arte popolare: per la sua costruzione e per la preparazione delle pietanze, specialmente dei panuzzi, necessitavano decine di giorni di lavoro e vi partecipavano tutti i vicini di casa. La struttura in legno prevedeva più ripiani (solitamente tre), a forma di scalini, ricoperti da una tovaglia bianca; in cima era posta un’immagine della Sacra Famiglia. I doni distribuiti sull’altare: pane, agrumi, fiori, rametti di mirto, d’alloro, d’ulivo e di palma, simboleggiavano le offerte di ringraziamento a Dio per i prodotti ottenuti dalla terra e un augurio di buon raccolto; erano anche simboli di ricchezza, benessere e prosperità, che richiamavano gli antichi riti pagani di Demetra e di Cerere, particolarmente venerate in Sicilia in qualità di divinità protettrici delle messi. La ricorrenza, quindi, fonde insieme la festa cristiana in onore di San Giuseppe e la festa pagana propiziatoria per la fertilità della terra. In tutta la Valle del Belìce tale tradizione non si è mai spenta del tutto e continua anche oggi, incentivata dalla devozione popolare e dalla promozione degli enti locali. Purtroppo, a Castelvetrano, questa tradizione è scomparsa da vari anni ed oggi cerca di riemergere molto timidamente. Pasqua «La Pasqua è il rinnovamento d’ogni cosa, il trionfo del Salvatore del mondo sulla morte per la resurrezione».16 16
Ivi, p. XVIII.
Il calendario festivo di Castelvetrano
33
Alla base della natura umana e divina del Dio sta l’identità della sua vicenda personale iscritta nella struttura ciclica del corso della natura, la dimostrazione, attraverso la resurrezione, che è possibile vincere la morte. I riti festivi pasquali esprimono la rigenerazione periodica del tempo attraverso la ripetizione simbolica della cosmogonia, la rigenerazione della natura accompagnata dalla affermazione della vita sulla morte.17 A Castelvetrano, la ricorrenza del Venerdì Santo con la scisa di la cruci, ha subìto nel tempo delle variazioni. Originariamente, la piazza Garibaldi ospitava questa funzione religiosa, in seguito fu portata all’antico Calvario, quindi nella piazza Ruggero Settimo davanti la chiesa di San Gandolfo e il monastero della Badia. Oggi, la funzione, si svolge al nuovo Calvario. Dopo le sette prediche dell’officiante e la rappresentazione sacra che metteva in scena la discesa di Gesù dalla croce, si snodava, per le vie della città, una lunga processione con i simulacri della Madonna Addolorata e del Cristo nella bara. Alla manifestazione religiosa partecipavano le ‘Veroniche’ e le ‘Marie’, donne e ragazzine vestite di nero con i capelli arricciati, che portavano una scaletta o una croce oppure una corona di spine, tutti segni della crocifissione di Cristo: c’è da dire, comunque, che nei riti del ciclo pasquale le donne hanno un ruolo più ‘domestico’, invece gli uomini hanno un ruolo comunitario.18Seguivano, poi, le numerose confraternite incappucciate e moltissimi fedeli. Durante la processione si pregava in questo modo: L’acqua e lu pani vulemu Signuri, e di seguito Pietà e misiricordia Signuri, invocazioni intervallate da colpi di tamburo.19
17
Cfr. A. BUTTITTA - M. MINNELLA, Pasqua in Sicilia, Palermo 1978, pp. 12-25. Cfr. F. GIALLOMBARDO, Festa, orgia e società, cit., p. 72. 19 Cfr. V. MARINO, Le ricorrenze festive ‘pasqualori’ (mns. presso l’Autore). 18
Fabio Amodei
34
Resta vero che nelle rappresentazioni e nelle cerimonie della Settimana Santa la vicenda esemplare della morte e resurrezione del Dio ancora lascia emergere la sua valenza mitica e manifesta la sua originaria funzione di segno fondante un’altra morte e rinascita, quella della natura e dunque della vita stessa.20
«Il sabato Santo, al calare della tela ed al meccanico alzarsi del Cristo risorto, le campane di tutte le chiese suonano a festa e la gente, dovunque si trovi, si butta giù a baciar la terra, in segno di ringraziamento al Creatore per averla preservata fino a quel giorno».21 La Domenica della Resurrezione a Castelvetrano s’identifica nella celebrazione dell’Aurora, un rito antico che altrove è chiamato “Incontro”. Questa cerimonia risale al 1660, per iniziativa dei Padri Carmelitani Scalzi di Santa Teresa. La funzione, oggi affidata alla confraternita di San Giuseppe dei falegnami e bottai, si è sempre svolta nella piazza principale del paese, cioè in piazza Garibaldi (oggi piazza Carlo Aragona e Tagliavia). Originariamente iniziava alle ore 06.30, cioè appena sorge il sole (appunto l’aurora). In seguito, con le nuove esigenze e i moderni regimi di vita ma anche per fare assistere all’evento i bambini che a quell’ora ancora dormono, fu spostata alle ore 9. Secondo il Vangelo, a quell’ora le pie donne recatesi sulla tomba di Gesù, la trovarono vuota. Mi ricordo che fino agli anni ’50-’60 molte persone venivano da Campobello con il carro agricolo o, chi se lo poteva permettere, con il carro patrunali tutto scolpito e dipinto e con il cavallo bardato a festa. Le donne portavano vestiti dai sgargianti colori, nelle dita di entrambe le mani portavano anelli di varia fattura; inoltre si ornavano con collane, bracciali, lunghi orecchini; sul capo portavano fazzoletti di seta dai cento colori, fermati da spilloni d’oro. Quando 20 21
F. GIALLOMBARDO, Festa, orgia e società, cit., p. 73. G.B. FERRIGNO, La funzione dell’Aurora a Castelvetrano, Torino 1920, p. 7.
Il calendario festivo di Castelvetrano
35
le nostre donne vestono vestiti sgargianti, la gente dice: ma chi sì camubbiddisa? Oppure: Pari ’na camubbiddisa di la Rora.22
Essi si trovavano avvantaggiati rispetto a tutti gli altri spettatori, perché potevano godersi la cerimonia, standosene comodamente seduti sulle sedie poste sul carro e con una visione panoramica di tutta la piazza. Una volta era attestata a Campobello la seguente usanza: nel primo anno di matrimonio lo sposo doveva portare la sposa a Castelvetrano, in occasione dell’Aurora e della Fiera della Tagliata (terza domenica di settembre). Quest’usanza, documentata già nel 1759, rappresentava la prima uscita per la coppia. Era un costume che era fissato nei registri notarili e negli atti dotali, un vincolo che obbligava gli sposi. Una volta ogni sette anni, la funzione dell’Aurora aveva luogo nella via S. Gandolfo (oggi via Ruggero Settimo) per fare assistere all’evento le suore di clausura poste da dietro le grate. La manifestazione dell’Aurora, tuttora, si fa ogni anno anche in condizioni di tempo proibitive. Si è svolta durante la guerra e anche nell’anno del terremoto del 1968. Tanto più che voce di popolo dice: Se non si fa, se la prende Trapani. L’Aurora ancora si ripete allo stesso modo di quando fu istituita: la statua di un angelo, portata a spalla, corre velocemente dando l’impressione di volare per dei volteggi che praticano i giovani portatori nel trasportare la piccola statua. Il simulacro del Cristo risorto viene posto in un angolo della piazza e, ugualmente, quello della Madonna nell’angolo opposto. L’angelo, per tre volte fa avanti e indietro per la piazza, «cosparsa di fiori d’arancio, mandarino, ecc.»,23 annunciando alla Madonna incredula la resurrezione di Cristo. Alla fine, tutta avvolta nel suo 22
Testimonianza di Vito Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 38. 23 Testimonianza di Giovanni Modica, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 39.
36
Fabio Amodei
manto nero, la Madonna si muove e va incontro a Cristo che pure avanza, fin quando avviene l’incontro festoso fra madre e figlio: a quest’atto cade il manto nero, uno stormo di uccelli, nascosto sotto di esso, prende il volo, la Madonna appare con un ricco manto festivo, la banda musicale intuona lieti concerti, le campane suonano con doppi da stordire, il popolo, come un sol uomo, emette un sonorissimo Evviva!24
Una curiosità: la statua della Madonna contiene un meccanismo che permette dal basso di alzare ed abbassare le braccia: infatti, quando è stretta dentro il manto nero ha le braccia serrate; quando avviene l’incontro, cade il manto nero e contemporaneamente si allargano le braccia come per abbracciare Cristo. L’ascensione «L’Ascensione è il giorno designato a guarire le malattie più gravi e ribelli ad ogni virtù di farmaco».25 Si tratta di una ricorrenza religiosa, una volta molto attesa da tutta la popolazione perché rappresentava un giorno di svago e divertimento da trascorrere all’aperto, al mare o in campagna. La sera della vigilia della ‘Scesa’ era consuetudine lasciar fuori, sotto il cielo, una bacinella con acqua, petali di fiori e un pizzico di sale. Secondo la credenza popolare, di notte, passava l’Angelo per benedire il tutto: quell’acqua, essendo stata benedetta, aveva il potere di guarire tutte le malattie della pelle. Anche l’acqua del mare, opportunamente benedetta, guariva le piaghe ulcerose e preservava da altri mali. A Castelvetrano, per la vigilia dell’Ascensione, essendo allora una festività riconosciuta dallo Stato con un giorno di vacanza 24 25
G.B. FERRIGNO, La funzione dell’Aurora a Castelvetrano, cit., p. 13. G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, cit., p. 257.
Il calendario festivo di Castelvetrano
37
nelle scuole ed in tutti gli uffici pubblici, chi poteva si recava a Marinella di Selinunte con il calesse, il carro o il trenino, per trascorrervi la notte ed il giorno festivo. La partenza era preceduta da grandi preparativi: Chi partiva col carretto, si portava la rarigghia (graticola) per arrostire le gustose sardine di Selinunte, la lancedda con l’acqua potabile, lu quararuni (il pentolone di rame stagnato) per cucinare la ‘pasta di casa’ già preparata, l’aglio per condire tutte le pietanze, lu quarantinu con il vino vecchio, l’agghialoru con l’olio d’oliva; possibilmente la chitarra o il violino e lu friscalettu di canna (lo zufolo) per suonare e trippiari (ballare) tutta la notte.26
Chi non andava al mare, trascorreva il giorno dell’Ascensione in campagna o facendo delle lunghe passeggiate a piedi lungo la statale per Selinunte o la strada per il fiume Delia, organizzando picnic all’aperto in compagnia d’amici e parenti. La sera poi, un po’ dappertutto, si vedevano li vamparati (i falò), con i ragazzi, o talvolta anche gli adulti, che si divertivano a saltare la legna accesa. Saltare il fuoco, considerato da sempre elemento purificatore, magico e di buon auspicio, poteva considerarsi una vittoria contro il male che bruciava attraverso la fiamma.27 La notte dell’Ascensione, scriveva lo storico locale Ferrigno agli inizi del Novecento, è un accorrere di gente non solo da Castelvetrano ma anche da tutti i paesi vicini. È una folla immensa di popolo che bivacca nell’aria libera. Fra quelli che vanno a cercare la guarigione c’è un gran numero che va per divertirsi e per fare una scorpacciata di sardelle. Tutti coloro che hanno qualche malanno addosso si tuffano nell’acqua colla speranza di riportarne la sanità; spesso ne riportano una polmonite o per lo meno un’infreddatura. Anche quelli che non sono infermi usano lavarsi le mani e il viso con quell’acqua benedetta. I ragazzi accolgono i reduci con i falò. Quelli poi che non vanno alla marina, la 26
Testimonianza di Vito Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 43. 27 Cfr. V. MARINO, La Scesa e l’Eternità (mns. presso l’Autore).
38
Fabio Amodei
sera del mercoledì usano mettere un pizzico di sale e dei fiori in una catinella d’acqua, che si tiene nella notte esposta all’aperto per ricevere la celeste benedizione, per poi la mattina lavarsi con quell’acqua benedetta.28
La festa del Crocifisso o di lu tri di maju L’attuale convento (e chiesa) dei Padri Cappuccini di Castelvetrano fu costruito per volere del principe Giovanni Aragona. I lavori iniziarono nel 1622 e l’edificio iniziò ad essere abitato nel 1629 e consacrato nel 1697, dall’allora Vescovo di Mazara, mons. Bartolomeo Castelli. Prima di tale data esisteva un altro convento: Maria SS. dei Miracoli, nella località chiamata Sant’Anna (oltre la via XX Settembre), sulla strada che conduce alla Trinità di Delia, costruito intorno all’anno 1540. Ma, a causa del fiume Delia e dei vicini acquitrini, la zona era malarica ed il vecchio convento fu abbandonato e i monaci si trasferirono nel nuovo, eretto nella contrada Rianello, oggi piazza Bertani. Nel 1868, per ordine del decreto regio 7 luglio 1866, il quale aveva soppresso ordini e compagnie di religiosi, il convento fu chiuso, ma è stato riaperto nel 1936. La chiesa ha una rilevante importanza per varie ragioni: al suo interno, è conservata la salma del principe di Castelvetrano Giovanni III Aragona e sono presenti non poche testimonianze artistiche. Il quadro posto sull’altare maggiore, pare sia stato eseguito nel 1633 dal pittore Pietro Novelli (1603-1647). Sotto l’altare maggiore è conservato l’intero corpo di Santa Restituta e ai lati, fra le altre reliquie, vi sono quelle di San Severo e Santa Aurelia. Nella prima cappella a destra è custodito un Crocefisso miracoloso appartenente a padre Pietro da Mazara. Dalla storia leggendaria e avventurosa di questo frate, ha origine il culto del Croce28
G. B. FERRIGNO, Castelvetrano. Monografia, 1990 (rist. anast. dell’ed. orig., Palermo 1908), p. 517.
Il calendario festivo di Castelvetrano
39
fisso. Dopo una vita in gioventù dedita agli eccessi e alla violenza, si riparò nel monastero e conobbe la visione di Gesù in croce. Alla sua morte la salma fu tumulata per volontà di don Carlo Aragona e Tagliavia nella chiesa del convento, unitamente al Crocifisso di legno che stringeva tra le mani. A questo Crocifisso, esposto nella cappella, si attribuiscono prodigi e miracoli.29 La festa del SS. Crocifisso si celebra da oltre tre secoli, sempre il 3 di maggio di ogni anno in ricorrenza del 3 marzo del 1313 quando, sotto l’imperatore Costantino, fu ritrovata la croce di Gesù Cristo, dopo che l’imperatore Adriano aveva fatto riempire di terra il sacro sepolcro per erigervi sopra un tempio pagano. Poiché la festa ricorre il giorno 3 di maggio, il popolo la chiama Festa di lu Signuri tri di maju. Si dice anche che «è na festa di barbari genti, è un custumi chi porta duluri, dari canna a li quattru cavaddi, pi l’amuri di nostru Signuri».30 Fino al 1948, era una festa tra le più fastose di Castelvetrano. Anche se la vara è pesantissima, era portata a spalla in una processione che incominciava alle ore 15 circa e, dopo aver girato per le strade principali del paese, rientrava l’indomani mattina alle quattro, ma a volte anche alle sette. La festa terminava con solenni fuochi pirotecnici. Alla processione aderivano varie confraternite, la banda musicale, moltissimi cavalieri con i cavalli addobbati con drappi e altri ornamenti; migliaia di fedeli partecipavano al corteo, formando delle lunghissime file; la sera si accendevano le fiaccole al vento. La processione, partendo dalla chiesa nuova dei Cappuccini, dopo essere transitata per la piazza antistante il palazzo Tagliavia 29
Cfr. G.L. BONANNO, ‘Lu Signuri Tri di maju’ a Castelvetrano. La festa in Sicilia secondo i Cappuccini, Castelvetrano 2014, p. 19. 30 N. ATRIA, Pi la festa di lu Signuri di li 3 di maju, in «La Vita Nuova», 1/9 (25 maggio 1913), p. 3.
40
Fabio Amodei
Aragona (poi anche Pignatelli) sede dei Principi, e la chiesa Matrice, aveva ufficialmente fine davanti la chiesa di san Francesco d’Assisi o dell’Immacolata, nel cui attiguo convento, oggi non più esistente, aveva sede un’altra comunità francescana, quella dei Conventuali, fin quando questa fu presente. La processione durava molte ore e aveva parecchi posi (soste), soprattutto presso altari preparati per ornamento con palme e vasi di piante e fiori, nonché colmi di cibo e bevande per i principali partecipanti alla manifestazione, in primo luogo i frati. La festa del Crocifisso era una manifestazione cittadina arricchita anche di una fiera o mercato di stagione. Le strade adiacenti alla chiesa dei Cappuccini e quelle per le quali doveva transitare la processione erano illuminate con lampade prima ad olio, successivamente ad acetilene e a petrolio, in anni più recenti con lampadine elettriche. Lo sparo di archibugi e di mortaretti faceva riecheggiare per tutta la pianura l’allegria dei cittadini e comunicava un senso di festa a quanti non potevano accorrere in città. Una sfilata di cavalieri, preceduta dal rullio dei tamburi e dallo sventolio del pallio inalberato su una lunga asta, segnava l’inizio della festa. I cavalieri, che montavano cavalli con ricchi finimenti, portavano in mano un manipolo di spighe e rami di ulivo, di mirto e di palme. Molti devoti, per sciogliere i loro voti, seguivano con ceri accesi il Pallio, che aveva al centro un’immagine del Crocifisso. Molti dei quadrivi attraverso i quali doveva passare la processione erano ornati da archi di rami verdi e di fiori. Al centro degli archi veniva collocato un canestro chiamata varedda, contenente fiori, frutta e dolci casalinghi che, dopo la festa, erano distribuiti a quanti avevano contribuito ad erigere l’arco. Quando la processione giungeva sotto gli archi si fermava e un frate impartiva ai presenti la benedizione con il Crocifisso. Se nelle abitazioni vicine si trovava qualche ammalato grave, vi si andava per avvicinarlo alla sacra Immagine. In alcuni luoghi del percorso, qualche devoto prenotava un posu ed allora un frate, da un
Il calendario festivo di Castelvetrano
41
balcone o da un altro posto elevato, predicava ai presenti: «un padre cappuccino con la stola rossa al collo levava il Crocifisso dal fercolo, stile barocco dorato, e lo portava presso la famiglia che aveva ricevuto la guarigione».31 I musicanti, i portatori della vara e gli amici della famiglia ricevevano un trattamentu, ricevevano cioè dolci, frutta secca, vino e liquori. Passata la processione, la famiglia che aveva organizzato il posu offriva un’abbondante cena ad amici e parenti. Questa usanza dei posi finì per degenerare, divenendo occasione di competizioni familiari e di scandali. Prenotare un posu implicava affrontare delle spese spesso rilevanti, cosa che non tutti si potevano permettere, per cui si acuivano le differenze sociali. I meno abbienti che volevano competere con i più ricchi finivano col contrarre pesanti debiti. Inoltre, il moltiplicarsi di queste fermate e delle relative prediche stancava i partecipanti alla processione. I Cappuccini sono in questi ultimi anni intervenuti per mettere ordine in queste manifestazioni, per limitare il numero dei posi, dividendo la città in vari settori che la processione percorre annualmente. Ma l’opera dei frati non sempre è stata interpretata nel suo giusto senso. La festa, ripresa tra molte difficoltà, soprattutto per volontà di frate Agostino Palazzolo, si celebra oggi con un corteo in costume seicentesco, giochi d’artificio e spettacolo teatrale, quando i finanziamenti del Comune e della Provincia lo consentono, con più convinta partecipazione anche religiosa degli stessi partecipanti, che sono però diminuiti di numero.32 Ricordo che il commendatore Infranca, oltre a contribuire economicamente alla festa, davanti la sua abitazione posta in piazza Dante, metteva a disposizione della cittadinanza una tinozza piena di buon vino di sua produzione con bicchieri e boccali; molte persone, specialmente quelle amiche di Bacco, ne ap31 32
G. MODICA, Lu signuri di lu tri di maju, in «Agave», 57 (2012), p. 12. Cfr. Ibidem.
42
Fabio Amodei
profittavano per farsi una bevuta gratis. Si tratta di un episodio trascurabile ma rilevante in una civiltà contadina ove non esisteva niente di più interessante da offrire alla cittadinanza in una festa così importante.33
Ricorda Patrizia Infranca, figlia del citato commendatore (nell’ottobre 2012): Il giorno della processione, con mia madre e mia sorella, preparavamo tutte le cose da offrire ai frati e agli amici che venivano per la festa: caffè, biscotti, dolciumi vari. Poi preparavamo il tavolo con una tovaglia d’occasione, lì mettevamo il cuscino ricamato dove si appoggiava il Crocifisso quando entrava in casa. Dopo la visita e la preghiera fatta nel balcone sulla piazza, consumavamo quanto preparato a tavola. Infine il Crocifisso con i frati usciva dal portone e tornava nella Chiesa.34
La festa durava tre giorni, ma la processione avveniva solo il 3 di maggio. Negli altri giorni, oltre alle cerimonie in chiesa, si eseguivano corse di cavalli, e gli altri giochi popolari: il palo della cuccagna, il gioco della padella, quello del gallo e dei tegami, la corsa con i sacchi e quella degli asini. Lu iocu di lu addu era un gioco abbastanza crudele che veniva fatto quasi sempre in occasione delle feste religiose: consisteva nel legare un gallo per le zampe al centro di una corda, le cui cime venivano trattenute da due persone poste su due balconi di fronte. I concorrenti al gioco dovevano acciuffare il gallo in questione per poterne entrare in possesso. Dunque, l’animale si faceva abbassare fino ad altezza d’uomo, ma subito dopo si tirava la corda con forza. Il povero gallo impaurito starnazzava ma, quando era acchiappato per il collo, a furia di tirare la corda, il collo restava in mano al concorrente e l’animale, decapitato, restava attaccato alla corda. I concor33
Testimonianza di Vito Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 48. 34 Testimonianza di Patrizia Infranca, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 49.
Il calendario festivo di Castelvetrano
43
renti si trovavano facilmente, poiché un gallo allora aveva il suo valore commerciale.35
«Lu iocu di la paredda consisteva nell’appiccicare delle monete col sapone sul fondo esteriore di una padella ben affumicata che, legata con uno spago per il manico, non restava ferma ma, al contrario, dondolava». 36 Il concorrente staccava le monete mediante l’uso della lingua o dei denti, senza aiutarsi con le mani. La gente, quindi, si divertiva nel vedere la faccia del concorrente di turno resa nera dalla fuliggine. Lu iocu di lu pignateddu consisteva, invece, nel sistemare, all’interno di tegamini in terracotta, alcuni premi in denaro o d’altro genere ma, sovente, vi si mettevano anche cenere, topi, crusca, acqua. Questi pentolini di terracotta si legavano ad una fune sospesa in alto: un concorrente bendato per prendere i premi doveva frantumare un contenitore aiutandosi con un bastone. «Quando, invece dei premi cadeva cenere o un topo penzolante, la gente presente scoppiava in grandi risate».37 La festa ed il culto di San Giovanni
La ricorrenza di San Giovanni Battista, patrono della città di Castelvetrano, si è celebrata a partire dal 13 novembre 1695. Fino agli anni Cinquanta il 29 agosto era il giorno principale dei festeggiamenti che erano particolarmente sontuosi: l’interno della chiesa era ornato con gusto barocco. Dal tetto, drappi di seta e di velluto con decorazioni argentate scendevano fino a terra, l’altare era addobbato di fiori e l’illuminazione era fastosa.
35
V. MARINO, Lu iocu di lu addu (mns. presso l’Autore). V. MARINO, Lu iocu di la paredda (mns. presso l’Autore). 37 V. MARINO, Lu iocu di lu pignateddu (mns. presso l’Autore). 36
44
Fabio Amodei
I festeggiamenti duravano quattro giorni. Nei giorni 26, 27 e 28 si svolgevano in via Vittorio Emanuele le corse dei cavalli: alla manifestazione partecipava una numerosa folla di spettatori venuti anche dai paesi vicini che, con entusiasmo, da dietro le transenne di legno vedevano sfrecciare gli animali montati da fantini con divisa di vario colore, secondo le scuderie di appartenenza, con calzoni bianchi e stivali con speroni. La strada allora non era asfaltata. La partenza era fissata dalla piazza Principe di Piemonte al terzo sparo di mortaretti e il traguardo era stabilito davanti la chiesa di San Francesco di Paola. La strada, lungo il percorso, veniva transennata con dei pali di legno e tavole. Durante la corsa i cavalli venivano spronati dallo sparo di mortaretti e dalle grida festose d’incitamento delle migliaia di persone assiepate dietro la palizzata. Le famiglie che abitavano nel corso usavano esporre dal loro balcone tovaglie finemente ricamate e a pittura. La sera dei giorni di festa nella piazza Garibaldi, adesso Carlo Aragona e Tagliavia, un’orchestra, che di solito veniva da Palermo o da Santo Stefano di Camastra, suonava brani d’opera lirica e operette, su un palco a forma di ferro di cavallo, a due piani, di proprietà del Comune. Tutte le strade, le tre ville, gli alberi sparsi nella città, il prospetto del Teatro Selinus, la facciata della chiesa di San Giovanni, il campanile, venivano illuminate con piccole lampadine di vario colore. Il 29 agosto, alle ore 10, passava la banda musicale per tutte le vie della città e nel pomeriggio, alle ore 18, usciva la processione del Santo: il Patrono era sistemato su un carro trionfale ornato di angeli di cartapesta, palme, fiori, sete e lampadine accese. Aprivano la processione tre tamburinai, seguiti dalle associazioni religiose di tutte le chiese. Dietro un bambino vestito con pelle caprina che portava nella mano destra un bastone a forma di croce dove si poteva leggere ‘Ecce Agnus Dei’, con la sinistra reggeva un agnellino di cartapesta; dietro di lui tre ragazzine dai capelli lunghi e neri con un diadema sul capo indossavano lunghi vestiti di colore diverso: una il verde (la fede), che teneva in mano l’ancora, l’altra vestita di bianco (la speranza), che impugnava un calice d’argento e un fascio di spighe di grano e l’altra di rosso (la carità), che reggeva una fiaccola. Seguivano tutti i preti in ‘pompa magna’, con ceri accesi e persone a piedi scalzi. Sotto il baldacchino ricamato in oro e con sei aste di rame, il parroco della chiesa portava il reliquiario, dove è custodito un piccolo frammento d’osso del dito indice del Santo. Seguivano questo gruppo il sindaco, le guardie che scortavano in alta uniforme il reliquiario e tutte le autorità civili e militari della città. Il corteo si fermava davanti al carcere (oggi Banco di Sicilia), davanti alla chiesa madre e alla porta principale del Municipio: nell’occasione, lo stesso primo cittadino con la Giunta do-
Il calendario festivo di Castelvetrano
45
nava al Santo un fascio di rose rosse. Nei giorni di festa nel Municipio e in tutti gli uffici pubblici veniva esposta la bandiera tricolore. Alle ore 23 in piazza Dante si svolgevano i fuochi d’artificio. Allora non c’erano per gli impiegati le ferie estive. La città non si svuotava. Oggi invece, ad agosto a Castelvetrano non c’è molta gente e si è preferito celebrare la festa il 24 Giugno che è la data della natività del Santo.38
Ricorda, inoltre, Vito Marino: Come avviene oggi, anche allora vicino la chiesa e lungo il percorso della processione c’erano i gelatai e li siminzara, con calia, simenza e nuciddi atturrati (ceci, semi di zucca e noccioline tostate), con le loro carrozzelle; c’era anche chi produceva sul posto e vendeva bombolona (le caramelle artigianali di allora).39
È giusto anche parlare dell’edificio che ha creato e diffuso il culto del Santo a Castelvetrano: sulla costruzione della prima chiesa di San Giovanni c’era una leggenda, secondo la quale un ricco signore aveva ordinato una statua di marmo che arrivò, via mare, nella marina di Castelvetrano. Quindi, caricata su un carro trainato da buoi, la statua prese la via per la destinazione del committente; ad un certo punto, i buoi, si adagiarono per terra e non vollero più avanzare, neanche con le bastonate. La notizia suscitò scalpore e i Castelvetranesi ravvisarono in ciò la volontà divina, che voleva sul posto un tempio che potesse ospitare degnamente il Santo. La chiesa sorse fuori le mura della città di allora, lungo una strada che dalla marina portava a Palermo: le prime notizie sulla sua esistenza risalgono al 1430, da antiche scritture depositate all’arcivescovado di Mazara. 38
Testimonianza di G. Modica, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 52. 39 Testimonianza di V. Marino., cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 52.
46
Fabio Amodei
In quegli anni Castelvetrano attraversava un periodo economico abbastanza florido, per cui intorno al santuario sorsero subito tanti edifici e così la città iniziò ad espandersi oltre le mura. La chiesa però fu demolita nel 1610 circa e dallo spazio ricavato si ampliò il monastero dei domenicani. L’attuale chiesa fu costruita nel 1589, di fronte alla prima che sorgeva a fianco del convento di San Domenico, e della quale oggi non resta più traccia. Le spese per la nuova chiesa furono sostenute dai Majo, potente e ricca famiglia della città: la costruzione ebbe termine nel 1660, con il completamento del cappellone maggiore, che ospita la statua in marmo di san Giovanni Battista. L’interno della costruzione si presenta a tre navate e transetto lungo, con due file di colonne collegate in alto da archi a tutto sesto. La statua del Santo, posta sull’altare maggiore, è una pregevole opera in marmo, commissionata dalla confraternita di San Giovanni all’inizio del XIV secolo e realizzata dell’artista Antonio Gagini, nel 1522. Una copia in legno si trova attualmente in sagrestia: essendo più leggera si porta in processione il giorno della ricorrenza. Quest’opera fu scolpita dallo scultore trapanese Pietro Croce nel 1882, come si legge sulla base della statua. Dal punto di vista formale, il sacro edificio si presenta oggi alquanto diverso rispetto al periodo della sua origine: nell’Ottocento, furono realizzati importanti lavori che la trasformarono, cancellando le forme barocche e facendo assumere alla chiesa un aspetto classicheggiante, per come si presenta oggi. Nel 1777 il campanile, adiacente all’abside, in pessime condizioni statiche, fu demolito e ricostruito a fianco dell’attuale prospetto. Tra il 1797 ed il 1802 furono modificate alcune delle parti fondamentali: sotto il tetto ligneo seicentesco furono realizzate le volte a botte a tutto sesto. S’inserì un ulteriore, vistoso ed imponente elemento strutturale e cioè il cupolone. Inoltre, si trasfor-
Il calendario festivo di Castelvetrano
47
marono le finestre, chiudendo quelle esistenti, tuttora in situ, ed operando ampi squarci nelle murature. Il 5 luglio del 1898 un incendio doloso, appiccato all’organo da un sagrestano, per vendetta, si propagò al soffitto della navata centrale danneggiandola e distruggendo gli affreschi originali eseguiti da Francesco Cutrona. Il soffitto fu ristrutturato e riaffrescato, con scene della vita di San Giovanni, dal pittore castelvetranese Gennaro Pardo nel 1900-1901; l’organo distrutto dall’incendio, nel 1901 fu sostituito. Il sisma del 1968 provocò dei danni alla struttura portante dell’edificio e, per tale causa, la chiesa rimase chiusa fino al 1983, quando iniziarono i lavori di ristrutturazione che si protrassero fino al 2000. In quella data avvenne la sua riapertura al culto, permettendo ai visitatori di ammirare tutto il suo splendore; all’interno si possono contemplare numerose opere d’arte, comprese alcune provenienti dalla chiesa di San Domenico. Nel passato, in occasione della ricorrenza del Santo, i festeggiamenti andavano in simbiosi con la fiera: infatti le sue origini risalgono al 1540, quando il conte di Castelvetrano don Giovanni Aragona e Tagliavia concesse, per la durata di tre giorni, la fiera franca su tutto lo spazio libero, oggi occupato dalla villa Regina Margherita. Tale concessione fu confermata dal conte don Carlo Aragona e Tagliavia nel 1564. Una volta la fiera aveva un’importanza rilevante per tutta la popolazione, perché serviva per gli approvvigionamenti degli attrezzi agricoli, delle stoviglie per chi si doveva sposare e per tutta quella mercanzia e giocattoli che nei negozi di allora non si trovavano. A quell’epoca, si svolgeva nella via Garibaldi e nella piazza Dante. Gli articoli che allora erano esposti sulle bancarelle della fiera, erano quelli d’uso comune in campagna e nella vita contadina quotidiana. Si usava nominare e pregare San Giovanni, in quanto protettore della città, in caso di calamità naturali:
48
Fabio Amodei
nel caso in cui si verificava un temporale con lampi e tuoni si usava dire San Giuvannuzzu Abbattista, con sotteso aiutàtini; oppure si cantava: e centumila voti lodamu a San Giuvanni / San Giuvanni a tutti l’uri / San Giuvanni lu protetturi.40
«Conservo un panuzzu di San Giovanni, proveniente da Menfi, dove ancora c’è questa usanza».41 Giuseppe Pitrè sostiene che, a Castelvetrano, si confezionavano dei panuzzi di San Giovanni grandi quanto una moneta di un soldo, che, fatti essiccare al sole e fatti benedire dal prete della chiesa di san Giovanni, si conservavano in apposite scatoline; quando c’era un forte temporale si tiravano fuori e, con una candela accesa, benedetta il giorno della Candelora, si pregava San Giovanni per essere protetti. Inoltre, prosegue il Pitrè, si recitava la seguente invocazione: San Giuvanni Battista / San Giovanni Evangelista, / San Giovanni Vuccadoru. / Scanzatimi di lu lampu e di lu tronu!42 Ritenuto un Santo che ha protetto la città da pubbliche calamità e dai fulmini, protagonista di numerosi miracoli attribuiti alla sua intercessione, grande e diffusa è stata la devozione popolare nei suoi confronti, così che fu eletto santo patrono della città di Castelvetrano, il 30 marzo 1697. Ancora oggi la popolazione locale lo considera protettore della città dalle pubbliche disgrazie e lo invoca in particolare in occasione dei fulmini. Altri interventi a favore della nostra città furono attribuiti all’opera del santo in occasione del terremoto del 1693, quando tanti paesi, anche quelli vicini al nostro, vennero distrutti. Lo 40
Testimonianza di M. Venezia, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 55. 41 Testimonianza di V. Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 55. 42 Cfr. G. PITRÈ, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo 1913, p. 185.
Il calendario festivo di Castelvetrano
49
stesso storico locale G. B. Ferrigno sostiene che il quartiere meno colpito nel XVII secolo dalla peste fu proprio quello di San Giovanni, nonostante fosse il più popoloso.43 Anche il rovinoso sisma del 1968 risparmiò Castelvetrano che ebbe soltanto pochi danni e nessun morto. A lui la gente di Castelvetrano si rivolgeva spesso il 24 giugno, giorno della natività e ricorrenza, per chiedere una grazia o divinare il futuro. Numerosi erano gli usi popolari legati a funzioni propiziatorie o di scongiuro. Così, una donna che voleva sposarsi, per sapere in anticipo se sarebbe stata fortunata nel prendere marito, il giorno di San Giovanni metteva dell’acqua in una bacinella, vi faceva il segno della croce e la buttava per strada; se per primo passava una persona simpatica o ben vestita, il matrimonio sarebbe stato felice, viceversa il contrario. Per lo stesso scopo si poteva fare un’altra prova: sempre il giorno di San Giovanni, si mettevano in un sacchetto tre fave; in una si toglieva tutta la buccia, in un’altra la metà e nell’ultima solo un pezzettino. Una persona con gli occhi bendati doveva prenderne una a caso; se era estratta quella spoglia, il pretendente sarebbe stato povero, viceversa benestante o ricco. Alla vigilia della ricorrenza del Santo, verso le ore 22, si versava un uovo dentro una bottiglia, si agitava per bene e si poneva su un davanzale all’aperto: la mattina del 24 si traevano gli auspici dalle figure che l’uovo aveva assunto. Particolarmente diffusa era l’usanza di ricorrere al piombo per divinare il futuro: in un pentolino posto sul fuoco si faceva liquefare un po’ di piombo (o cera), quindi si versava il tutto in una bacinella piena d’acqua. Dalle figure che si formavano dopo la solidificazione, si traevano degli auspici. Questa operazione si
43
Cfr. G. B. FERRIGNO, La peste a Castelvetrano negli anni 1624-1626, Trani 1905, rist. Castelvetrano 1998, pp. 25-26, 41-42.
50
Fabio Amodei
doveva compiere la mattina del 24, per le ragazze, ma anche per i giovani, che cercavano l’anima gemella. Chi soffriva di mal di gola, la notte della vigilia del Santo doveva mordere la corteccia di un pero o di un melo. Si assicurava che il male sarebbe scomparso il giorno dopo. Analogamente il puleggio (mentha pulegium) raccolto nella stessa notte si credeva avvizzisse per rifiorire miracolosamente alla vigilia del Santo Natale. L’Assunta «La festa della Madonna Assunta era un tempo così solennemente celebrata in tutta la Sicilia e particolarmente in Palermo, che mal si opporrebbe chi volesse formarsene una idea da quella che si celebra oggi».44 L’Assunta, ovvero Maria Assunta, è la denominazione che si dà all’Assunzione in cielo di Maria, la madre di Gesù Cristo. Si tratta di un dogma della Chiesa cattolica che afferma che Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta, accolta in Paradiso, sia con il corpo che con l’anima. L’Assunzione di Maria, quasi sempre raffigurata distesa, come addormentata su un giaciglio, è festeggiata nel calendario cattolico il 15 agosto. «A Castelvetrano, prima degli anni Cinquanta, tale ricorrenza era celebrata nella chiesa Madre, in quella di Sant’Antonio di Padova e in quella dei Cappuccini. Nella chiesa madre la Madonna, raffigurata dormiente, era esposta sull’altare maggiore per 15 giorni».45 44
G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, cit., p. 342. Testimonianza di V. Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 58.
45
Il calendario festivo di Castelvetrano
51
I Cappuccini organizzavano una processione durante la quale la statua della Madonna, vestita di un manto azzurro su una veste bianca, era portata a spalla da dodici ragazze vergini, le uniche che potevano toccare la Madonna.46 Un tempo, si accendevano nelle campagne dei falò rituali, di cui sono ludiche reminiscenze i fuochi a cui oggi, nella stessa occasione del calendario, danno vita i giovani sulle spiagge, senza però nulla di rituale, appunto. La Madonna e la fiera della tagliata Nella periferia di Castelvetrano, esiste una chiesetta del XVII secolo, la chiesa della Madonna della Tagliata. Sulle sue origini storiche narra la leggenda che intorno al 1600 degli operai, mentre lavoravano per l’estrazione di conci di tufo, sentirono una voce proveniente dal sottosuolo che diceva ripetutamente: ‘taglia, taglia!’, incitandoli a lavorare più speditamente. Ad un certo punto trovarono una giara che conteneva un quadro raffigurante una Madonna con il Bambino in braccio. La notizia si sparse e nel 1634, nello stesso luogo del ritrovamento, venne costruita una piccola chiesa campestre. Siccome in quegli anni si verificarono diversi miracoli, fra i fedeli, ad opera della Vergine Maria, in ricordo della voce che ripeteva ‘taglia, taglia’, nel 1711 fu deciso di chiamare la sacra immagine ‘Madonna della Tagliata’ e, nello stesso anno, la chiesa fu ampliata. Il 4 gennaio 1759 il viceré Fogliani, in onore della Madonna e su richiesta del sacerdote don Antonio Spallino del 17 agosto 1758, concesse l’istituzione di una grande fiera, che si doveva svolgere nei giorni correnti dal venerdì antecedente la terza settimana di settembre fino al martedì successivo la domenica: 46
Cfr. V. MARINO, L’Assunta, (mns. presso l’Autore).
52
Fabio Amodei
«questa grande fiera nacque nel tentativo di dare maggiore vivacità al commercio ed alla specializzazione produttiva del territorio, che durante l’occupazione austriaca si erano un po’ bloccati».47 Sebbene l’immagine della Madonna fosse molto venerata, la chiesa, col passare del tempo, fu abbandonata a se stessa, restando aperta soltanto nei pochi giorni della fiera. Così, lasciata incustodita in aperta campagna, verso la metà del XX secolo, la chiesa fu rapinata del contenuto, compreso il quadro originale della Vergine Maria. Oggi ristrutturata, la chiesa continua a restare aperta al culto per i pochi giorni della fiera. Una volta, la Fiera della Tagliata era una delle più importanti della Sicilia. I giorni erano divisi per categoria: il sabato era dedicato al pellegrinaggio alla Madonna che si fa ancora oggi nella mattinata. La domenica era per i forestieri, perché si vendevano oltre alle mercanzie, anche animali, cavalli, capre, maiali, galline uccelli ecc. Il lunedì salivano al santuario in preghiera le maestranze: muratori, barbieri, calzolai, falegnami, stagnini gessai ecc. Il martedì era riservato ai nobili che andavano in chiesa con le servitù e le proprie carrozze. Il mercoledì era dedicato ai pastai, panettieri, macellai, dolciari e ai molti giovani che arrivavano nella zona per partecipare al gioco del gallo, della pentola, della padella, e della corsa con i sacchi.48
Fino agli anni ’60 circa, le fiere erano molto attese per fare acquisti di giocattoli per bambini e di tutti quei prodotti necessari per arredare la casa e l’occorrente per la cucina, prodotti che difficilmente si trovavano nei pochi negozi del paese. Inoltre, alla Fiera della Tagliata, si potevano comprare anche animali domestici, d’allevamento e da soma, indispensabili per la campagna.
47
F.S. CALCARA - A. GIARDINA, La storia della Fiera, in «Agave» 60 (22 settembre 2012), pp. 6-7. 48 Testimonianza di G. Modica, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., p. 60.
Il calendario festivo di Castelvetrano
53
Secondo una tradizione locale di allora, il fidanzato, in quell’occasione, era obbligato, nel primo anno di fidanzamento, a comprare alla fiera una collana da donare alla fidanzata. A Campobello di Mazara, lo sposo, nel primo anno di matrimonio, doveva portare la sposa a visitare detta fiera, un impegno che si legava anche all’obbligo di partecipare all’Aurora nel giorno di Pasqua. Durante gli anni della mia fanciullezza (intorno agli anni Cinquanta) visitare la fiera e venerare l’immagine della Madonna era una vera avventura: la strada sembrava molto lunga poiché il paese allora era limitato a li tri cruci (il calvario monumentale) posto dopo la villa comunale Parco delle rimembranze. Il percorso, sempre affollatissimo, impediva di camminare in fretta, mentre si doveva stare attenti a carretti, carrozze e persone a cavallo, che provenivano anche dai paesi vicini. Quando si stava arrivando alla meta, già si sentiva il profumo delle panelle fritte e dell’arrosto della prima carne di maiale macellata, in modo particolare della salsiccia. La gente, stimolata da quell’odore provocante, non perdeva l’occasione di fare uno spuntino stando anche in piedi o seduti ai bordi dalla strada; proseguendo il cammino verso la chiesa, si vendevano gli oggetti più svariati.49
In prossimità della chiesa c’erano le logge, fatte in muratura. Qui si svolgeva il mercato e si trovavano i giocattoli variopinti che incantavano e affascinavano i bambini di allora. Dietro la chiesa, poi, c’era la fiera del bestiame. Trattandosi della terza domenica di settembre, posta a cavallo fra l’estate e l’autunno, a volte pioveva e la strada, solo sterrata, diventava un pantano con molto fango; viceversa, se tutto era asciutto, un polverone, specialmente con il soffiare dello scirocco, avvolgeva tutti. La strada non era illuminata, pertanto al ritorno c’era già buio e non si vedeva nulla; per arrivare al paese e
49
Testimonianza di V. Marino, cfr. F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, cit., pp. 60-61.
54
Fabio Amodei
uscire da quel trambusto, bastava seguire la scia della grande folla di pellegrini. Oggi alla fiera, che ancora continua più per consuetudine che per esigenze commerciali, gli animali non si vendono più. Giocattoli, stoviglie e prodotti per la campagna si trovano in tutti i supermercati e nei negozi specializzati. Poco distante sorge un monumentale centro commerciale che sembra aver del tutto cancellato la memoria dell’antica fiera della Tagliata. Natale Fra le feste religiose, il Santo Natale rimane la ricorrenza più attesa dell’anno. La nottata di Natale non passa tutta né dappertutto in giuochi e sollazzi; le funzioni religiose e, qua e là, le finzioni drammatiche chiamano fuori di casa i più tra’ fedeli, a’ quali è dolce il pensiero di sentirsi rinascere in cuore Gesù Bambino comunicandosi in quella notte.50
L’atmosfera natalizia che spirava a Castelvetrano molti anni fa era sicuramente più sentita. Si iniziava il 6 dicembre con la giocata a tombola e si finiva la sera di li Tri Re, l’Epifania. Dal 16 Dicembre, nella Chiesa Madre vi si svolgeva la Novena e qualche giorno prima veniva costruito un palco di legno a scalinata davanti l’immagine dell’Immacolata, dove prendeva posto l’orchestra composta da quattro violini, violoncello, arpa, piatti, strumenti a fiato ed il tradizionale cincirincì; nell’abside veniva costruito un gran presepe con scenari pitturati dal nostro famoso concittadino Gennaro Pardo nel 1915, dove erano collocati i pastori di terracotta. La sera del 24 Dicembre scendevano dalle montagne gli zampognari, vestiti con pelle di capra e cappelli con larghe falde e suonavano le loro melodie per le vie della città, raccogliendo monete che i passanti offrivano. Il 6 gennaio, a conclusione del Natale, sempre nella chiesa Madre, veni-
50
G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, cit., p. 446.
Il calendario festivo di Castelvetrano
55
va vestito un bambino povero, dai 4 ai 5 anni, che doveva avere i capelli biondi o castani e possibilmente ricci: il parroco lo portava nudo in braccio fino al coro dove era allestito un trono tutto di velluto cremisi e seduto il bambino lo si vestiva con una camicia bianca e un vestito blu; il bambino teneva in mano una croce ed in testa gli veniva collocata una corona di rose e, prima di fargli indossare le calzette e le scarpe, sia l’Arciprete che i quattro preti gli baciavano i piedi nudi e freddi. Subito dopo, tutti i presenti nella chiesa donavano al bambino biscotti, dolci, caramelle, frutta e soldi: tutto ciò che veniva raccolto, rappresentava per la famiglia povera del bambino un’occasione per racimolare qualcosa, soprattutto soldi. Finita questa cerimonia, il bambino veniva portato in processione sotto ‘l’ombrello sacramentale’, in braccio all’Arciprete; i fedeli guardavano in faccia il bambino che, se rideva, l’annata sarebbe stata buona, se invece piangeva, no. Questa funzione oggi non la si fa più.51
Nella ricorrenza natalizia, in ogni casa si preparava il presepe; l’albero di Natale non faceva parte delle nostre tradizioni, arrivato da noi intorno agli anni Sessanta. Molte famiglie ogni sera si riunivano per giocare a tombola o a carte. Durante la notte di Natale, nell’attesa della nascita di Cristo, si cenava con baccalà fritto e si giocava. Si usava intonare, nelle chiese castelvetranesi, le cosiddette ninnaredde: la parola ninnaredda deriva da ninna nanna, nenia che ogni mamma cantava giornalmente alla propria creatura, per farla addormentare. Nella festività natalizia, la ninna nanna si riferiva al neonato Gesù che, come ogni bambino di questo mondo, non voleva prendere sonno. Per festeggiare la ricorrenza, c’erano quindi i ninnariddari, cioè dei suonatori di violino e di cornamuse; costoro, di primo mattino ancora al buio, giravano per le strade suonando queste nenie. Nelle vie silenziose di allora, le note echeggiavano e si diffondevano nell’aria creando un’atmosfera di festa. Per i più giovani, questi canti rappresentano una novità, una tradizione a loro sconosciuta. Si tratta in realtà di un patrimonio 51
G. MODICA, La festa di li tri re, in «Agave», 54 (2012), p. 14.
56
Fabio Amodei
culturale che i nostri nonni ci hanno lasciato, ricco di sentimenti di pace e dâ&#x20AC;&#x2122;amore familiare.
Bibliografia F. AMODEI, Il calendario festivo di Castelvetrano, tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, a.a. 2011-2012. N. ATRIA, La vigilia di la Pasqua in «La Vita Nuova», I/8 (27 aprile 1913), p. 3. N. ATRIA, Pi la festa di lu Signuri di li 3 di maju, in «La Vita Nuova», I/9 (25 maggio 1913), p. 3. G.L. BONANNO, ‘Lu Signuri Tri di maju’ a Castelvetrano. La festa in Sicilia secondo i Cappuccini, Castelvetrano 2014. A. BUTTITTA - M. MINNELLA, Pasqua in Sicilia, Palermo 1978. A. BUTTITTA - M. MINNELLA, Natale in Sicilia, Palermo 2003. I.E. BUTTITTA, Feste d’estate, in «Nuove Effemeridi», X/38 (1997), pp. 62-72. I.E. BUTTITTA, Le fiamme dei santi, Roma 2002. I.E. BUTTITTA, I morti e il grano, Roma 2006. I.E. BUTTITTA, Verità e menzogna dei simboli, Roma 2008. G. D’AGOSTINO, Celebrare il tempo, in «Nuove Effemeridi», X/38 (1997), pp. 9-27. G. D’AGOSTINO, Forme del tempo, Palermo 2008. G.B. DIECIDUE, L’antico Carnevale di Castelvetrano, Castelvetrano 1988. N. FERRACANE, Castelvetrano. ‘Palmosa Civitas’, Palermo 1995.
58
Fabio Amodei
G.B. FERRIGNO, La peste a Castelvetrano negli anni 1624-1626, Trani 1905, rist. Castelvetrano 1998. G.B. FERRIGNO, Castelvetrano, monografia, Palermo 1909, rist. anast., Castelvetrano 1990. G.B. FERRIGNO, La funzione dell’Aurora a Castelvetrano, Torino 1920. G.B. FERRIGNO, Arti popolari a Castelvetrano. Teatro e giochi a Castelvetrano, [inediti del 1931], Castelvetrano 2001. F. GIALLOMBARDO, Festa, orgia e società, Palermo 1990. F. GIALLOMBARDO, La tavola l’altare la strada, Palermo 2005. A. GIARDINA, F.S. CALCARA, V. NAPOLI, G.L. BONANNO, La città Palmosa. Una storia di Castelvetrano, vol. 1, Dalle origini al XVII secolo, Palermo 20102. E. INDELICATO, Carnevale ieri, oggi e domani, in «Agave», 1 (2008), p. 7. V. MARINO, Sicilia scomparsa. Il museo della memoria, Castelvetrano 2013. G. MODICA, La festa di li tri re, in «Agave», 54 (2012), p. 14. G. MODICA, Lu signuri di lu tri di maju, in «Agave», 57 (2012), p.12. G. PITRÈ, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo 1978 [ed. or. 1881]. G. PITRÈ, Feste patronali in Sicilia, Bologna 1979 [ed. or. 1900]. G. PITRÈ, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Torino-Palermo 1913.
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte Rosario Atria Avamposto estremo della grecità in Occidente, Selinunte affianca il proprio nome a quello di due poeti meritevoli di attenzione per il contributo che diedero, l’uno in età arcaica, l’altro in età classica, alla civiltà letteraria greca.1 Si tratta del giambografo Ari-
1
Anche in ragione della sua ubicazione geografica, Selinunte rimase laterale rispetto ai fermenti che interessarono i principali centri culturali della grecità. Espressioni letterarie e artistiche quali la poesia, la musica e la danza rivestirono un ruolo significativo soprattutto nell’ambito delle attività di culto che si svolgevano nella polis, come dimostra anche il recente ritrovamento, nell’area del Tempio R, di due parti di un aulós in osso e di alcuni frammenti di kotylai corinzie decorate con scene di Frauenfest (gli scavi sono stati condotti dall’Institute of Fine Arts della New York University, sotto la direzione di Clemente Marconi). L’auletica era l’arte nella quale eccelleva il poeta Teleste, cui è intitolato il progetto di ricerca “Telestes. Musics, cults and rites of a Greek city in the West”, dedicato alla cultura musicale di Selinunte. Il progetto, avviato nel 2014 e di durata triennale, vede coinvolte le unità di ricerca dell’Institute of Fine Arts della New York University (responsabile Clemente Marconi) e del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna (responsabile Donatella Restani) e combina metodi e strumenti dell’archeologia con quelli della musicologia. Il 22 giugno 2016, su iniziativa di Clemente Marconi e Angela Bellia (Marie Curie Researcher presso l’Università di Bologna), ha avuto luogo, presso il Parco Archeologico di Selinunte e Cave di Cusa, il Workshop on Archaeomusicology The Aulos from Temple R at Selinus. From the Excavation to the Virtual Reconstruction.
60
Rosario Atria
stosseno (della cui opera sopravvive un unico verso)2 e del ditirambografo Teleste (del quale ci è stato tramandato un campione più significativo di frammenti)3, autori che si collocano in momenti chiave della storia della città adagiata sulla costa sudoccidentale della Sicilia: se l’esperienza del primo è da riferire ad un periodo cronologicamente prossimo alla fondazione della colonia, avvenuta nel corso del sec. VII a.C., quella del secondo si pone, invece, nella fase immediatamente successiva al 409, anno della presa di Selinunte da parte dei Cartaginesi.4 2
Per l’unico frammento di Aristosseno, cfr.: Comicorum Graecorum Fragmenta (CGF), edidit G. Kaibel, apud Weidmannos, Berolini 1899, vol. I/1, p. 87; Iambi et Elegi Graeci ante Alexandrum cantati (IEG), edidit M.L. West, e Typographeo Clarendoniano, Oxonii 1972, vol. II, pp. 45-46; Poetae Comici Graeci (PCG), ediderunt R. Kassel et C. Austin, apud W. de Gruyter, Berolini et Novi Eboraci 2001, vol. I, p. 7. 3
Per i frammenti di Teleste, cfr.: ATENEO DI NAUCRATI, I Deipnosofisti. I Dotti a banchetto, prima traduzione italiana commentata su progetto di L. Canfora, introduzione di Chr. Jacob, Salerno, Roma 2001 (ATH. XIV, 616d-617b; XIV, 626a; XIV, 637a); Poetae Lyrici Graeci (PLG), edidit Th. Bergk, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae 18824, vol. III, pp. 627-631; Anthologia lyrica, sive Lyricorum graecorum veterum praeter Pindarum, reliquiae potiores, edidit E. Hiller, exemplar emendavit atque novis fragmentis auxit O. Crusius, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae 1907, pp. 298-299; Poetae Melici Graeci (PMG), edidit D.L. Page, Clarendon Press, Oxford 1962, pp. 419-423. 4 Nella sua Biblioteca storica, come noto, Diodoro Siculo colloca la caduta di Selinunte in mano cartaginese nel 409 (anno IV della 92a Olimpiade). Da questo riferimento cronologico si risale al 651 come momento fondativo: «Questa città, che dalla fondazione era stata abitata per un periodo di duecentoquarantadue anni, fu dunque conquistata, e Annibale, dopo aver raso al suolo le mura di Selinunte, si mosse con l’intero esercito alla volta di Imera [...]» (DIOD. XIII, 59, 4). Narra invece Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, che Selinunte fu fondata cento anni dopo Megara Iblea. Anche in questo caso la data va ricavata: «[I Megaresi] abitarono lì [nel sito concesso loro dal re siculo Iblone] per duecentoquarantacinque anni, finché il tiranno di Siracusa Gelone li cacciò dalla città e dal suo territorio. Ma prima che venissero cacciati, cento anni dopo il loro insediamento nella colonia di Megara, mandarono Pammilo
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
61
Ideatore di giambi aggressivi e derisori, Aristosseno è accostato, in fonti quali Eusebio di Cesarea, Cirillo d’Alessandria e Giorgio Sincello, al floruit di Archiloco e Semonide, stabilito nel
a fondare con loro Selinunte; costui era giunto tra loro dalla madrepatria, Megara [Nisea]» (THUC. VI, 4, 2). Poiché l’episodio della cacciata, da inscrivere all’interno di una più ampia operazione politica condotta da Gelone, avvenne nel 483/2, la fondazione di Megara in Sicilia è da riferire al 728 e, per conseguenza, quella di Selinunte al 628. Lo scarto tra le indicazioni cronologiche offerte dai due storici in relazione alla vicenda di Selinunte può essere spiegato ammettendo che, nei rispettivi racconti, abbiano richiamato momenti differenti dell’insediamento (circostanza del tutto plausibile se si considera che la fondazione di una colonia è processo complesso e articolato in più fasi): la datazione alta di Diodoro farebbe riferimento ai primi contatti stabiliti dai Megaresi sul territorio selinuntino con creazione dell’emporio commerciale, la datazione bassa di Tucidide ad una successiva e più consistente ondata migratoria con fondazione della polis. Sulla progressività degli insediamenti greci in Occidente, cfr. E. LEPORE, I Greci in Italia, in Storia della società italiana, Teti, Milano 1981, vol. I, pp. 213-268; poi in M.I. FINLEY - E. LEPORE, Le colonie degli antichi e dei moderni, prefazione di E. Greco, introduzione di M. Lombardo, Donzelli, Roma 2000, pp. 29-65. Sulla storia di Selinunte dalla fondazione alla presa cartaginese, cfr. A. DI VITA, Selinunte fra il 650 e il 409: un modello urbanistico coloniale, in «Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente» 62 (1984), pp. 7-62; G. PUGLIESE CARRATELLI, Per la storia di Selinunte, in ID., Tra Cadmo e Orfeo. Contributi alla storia civile e religiosa dei greci d’Occidente, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 157-176; F. DE ANGELIS, The Foundation of Selinous: Overpopulation or Opportunities?, in The Archaeology of Greek Colonisation. Essays dedicated to Sir John Boardman, edited by G.R. Tsetskhladze - F. De Angelis, Oxford University Committee for Archaeology, Oxford 1994, pp. 87-110; E. ØSTBY, Chronological Problems of Archaic Selinus, in Ancient Sicily, edited by T. Fischer-Hansen, in «Acta Hyperborea» 6 (1995), pp. 83-101; S. ELIA - V. BARONE, Selinunte, Mazzotta, Castelvetrano 1996, pp. 19-51; N. CUSUMANO, Profilo storico, in Selinunte, a cura di S. Tusa, L’Erma di Bretschneider, Roma 2010, pp. 11-31; G.L. BONANNO - A. FRESINA, Appunti selinuntini, in Selinunte insieme a Hulot e Fougères, a cura di A. Fresina - G.L. Bonanno, CRicd, Palermo 2013, pp. 25-28.
62
Rosario Atria
664/3 (anno I della 29a Olimpiade), ed è indicato come musico5: Rudolf Kassel e Colin Austin, curatori della raccolta Poetae Comici Graeci, commentando le testimonianze su Aristosseno, hanno avanzato l’ipotesi che la qualifica di musico a lui accordata possa dipendere da un errore originariamente imputabile ad Eusebio di Cesarea, tratto in inganno dall’omonimia del giambografo di età arcaica con il più celebre (e più tardo) Aristosseno di Taranto, filosofo pitagorico, nonché massimo teorico di ritmica e musica del mondo greco.6 Quella legata alla selinuntinità di Aristosseno è questione controversa: occorrerebbe infatti postulare per la città che deve il suo nome al sélinon (l’apio selvatico che cresce abbondante nel sito, scelto come simbolo della monetazione locale) un’antichità anteriore all’occupazione dell’ecista Pammilo.7 È plausibile che Aristosseno fosse, invece, un poeta di Megara al seguito della spedizione che portò alla fondazione della colonia e che fosse dunque selinuntino non già di nascita, bensì d’adozione.8 Non è da escludere, peraltro, come di recente suggerito da Massimiliano Ornaghi, che la datazione che si riscontra nella tradizione di Eu5
EUSEBIUS CAESARIENSIS, Chronicon, col. 94b 15 Helm (= ARISTOXENUS, test. 2a Kassel-Austin; ARCHILOCUS, test. 81 Tarditi); CYRILLUS ALEXANDRINUS, Contra Julianum imperatorem I, 12-14 (= ARISTOXENUS, test. 2c Kassel-Austin; Archilocus, test. 47 Tarditi); G. SYNCELLUS, Chronographia, 401, 18 (= ARISTOXENUS, test. 2b Kassel-Austin; ARCHILOCUS, test. 172 Tarditi). 6 Cfr. PCG, cit. vol. I, p. 6. 7 Cfr. G.B. FERRIGNO, Castelvetrano. Monografia, Società editrice del Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, Palermo 1909, p. 125, n. 4. 8 Cfr. A. HOLM, Storia della Sicilia nell’antichità, tradotta da G.B. Dal Lago e V. Graziadei, Clausen, Torino 1896, vol. I, p. 336, n. 1; S. ELIA, Arte e civiltà di Selinunte, a cura di G. Camporeale, Mazzotta, Castelvetrano 1999, pp. 7374; G.B. FERRIGNO, Guida di Selinunte, a cura di G.L. Bonanno - D. Giancontieri, con la collaborazione di R. Atria et alii, introduzione di M. Fourmont, Club UNESCO Castelvetrano Selinunte, Castelvetrano 20122, p. 144.
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
63
sebio possa scaturire da un tentativo di regolarizzazione dei dati storico-letterari, influenzato dalla «solidità» e dalla «potenzialità attrattiva» del «cardine cronografico individuato dal floruit di Archiloco».9 Noto per l’estemporaneità del verseggiare10, scrisse numerosi componimenti, facendo uso – prima ancora di Cratino ed Epicarmo – del tetrametro anapestico catalettico, di cui è considerato l’inventore. In un luogo dell’Enchiridion di Efestione, contenente un lacerto epicarmeo, si legge a riguardo: «[…] Aristosseno di Selinunte era un poeta più antico di Epicarmo e di costui lo stesso Epicarmo si ricorda in Discorso e Discorsa: “a lui i giambi e il miglior modo, che Aristosseno per primo portò in scena”».11 I versi del celebre commediografo vissuto a Siracusa sotto i tiranni Gelone e Gerone sono stati interpretati da Alessandro Olivieri, curatore della raccolta Frammenti della commedia greca e del mimo nella Sicilia e nella Magna Grecia, come una presa di distanza rispetto alla maniera di Aristosseno e degli altri giambografi: Epicarmo, giudicando eccessivamente violenti i toni delle loro invettive personali, avrebbe optato per tutt’altra maniera. L’unico frammento superstite di Aristosseno, ritenuto spurio da Kaibel, contiene parte di un’invettiva nei confronti degli indovini.12
9
Cfr. M. ORNAGHI, Sincronismi giambici: Archiloco, Ipponatte e lo smembramento di Semonide, in «Annali online di Lettere - Ferrara» 2 (2010), pp. 70-71. 10 Cfr. L.G. GIRALDI, Historia poetarum tam Graecorum quam Latinorum dialogi decem, M. Isingrinus (?), Basileae 1545, dial. IX, p. 323. 11 HEPH., Ench. VIII, 3 (= ARISTOXENUS, test. 1 Kaibel; ARISTOXENUS, test. 1 Kassel-Austin). Per il lacerto di Epicarmo si rimanda alle raccolte Comicorum Graecorum Fragmenta e Poetae Comici Graeci (EPICHARMUS, fr. 88 Kaibel; EPICHARMUS, fr. 77 Kassel-Austin). 12 Cfr. CGF, cit., vol. I/1, p. 87.
64
Rosario Atria
Fu invece poeta ditirambico, e di chiara fama, Teleste.13 Diodoro Siculo ne pone il floruit in corrispondenza della 95a Olimpiade (398/7).14 Dal Marmor Parium si apprende della vittoria da lui conseguita in occasione degli agoni ateniesi del 402/1, svoltisi sotto l’arcontato di Micone.15 Quello ad Atene fu uno dei molteplici viaggi di Teleste, costretto a spostarsi continuamente, mosso tanto da contingenze storiche (era esule da Selinunte, in seguito alla conquista cartaginese), quanto dalla necessità di portare la propria opera ovunque venisse richiesta. Il prestigio di Teleste è testimoniato da opere celebrative di carattere scultoreo, come quella che – stando a Plinio, il quale ne serba notizia nella sua Naturalis Historia – fu fatta erigere da Aristrato, tiranno di Si-
13
Tra le principali voci biobibliografiche su Teleste, cfr.: Suidae Lexicon, edidit A. Adler, Teubneri, Stutgardiae 1971, vol. IV, p. 518 (Τελέστης, τ 265); P. MAAS, s.v. Telestes (6), in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, neue bearbeitung begonnen von G. Wissowa forgefuhrt von W. Kroll - K. Mittelhaus, Druckenmuller, München 1934, vol. V.A/1, coll. 391392; C.M. BOWRA, s.v. Telestes, in The Oxford Classical Dictionary, edited by S. Hornblower - A. Spawforth, Oxford University Press, Oxford-New York 19963, p. 1480; E. ROBBINS, s.v. Telestes (2), in Der Neue Pauly. Enzyklopädie der Antike, herausgegeben von H. Cancik - H. Schneider, J.B. Metzler, Stuttgart-Weimar 2002, vol. XII/1, col. 97. Cfr. inoltre: G.B. FERRIGNO, Castelvetrano. Monografia, cit., pp. 125-126; B. PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica, Società anonima editrice Dante Alighieri, Genova-RomaNapoli-Città di Castello 1945, vol. III, pp. 309-310; G. ARRIGHETTI, Civiltà letteraria della Sicilia antica fino al V sec. a.C., in Storia della Sicilia, dir. R. Romeo, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1980, vol. II, pp. 142-143, 152, n. 6. 14 DIOD. XIV, 46, 6: «Ctesia termina con quest’anno la sua storia persiana, incominciata da Nino e da Semiramide. In questo tempo fiorirono alcuni nobilissimi poeti ditirambici, Filosseno di Citera, Timoteo di Mileto, Teleste di Selinunte, Poliedo, che eccelleva in musica e pittura». 15 F. JACOBY, Die fragmente der griechischen Historiker (FGrHist), Weidmann, Berlin 1929, vol. II/B (239 A 65).
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
65
cione, in suo onore.16 Dalle Storie mirabili di Apollonio Paradossografo si ha notizia anche di una Vita di Teleste, successivamente andata perduta, opera di quell’Aristosseno di Taranto cui si è accennato in precedenza: la scelta di dedicare uno scritto biografico al poeta selinuntino da parte di Aristosseno, che raccontò la vita dei più illustri rappresentanti della grecità (tra questi Pitagora, Socrate, Platone), molto dice della considerazione di cui Teleste dovette godere.17 Della diffusione dei suoi componimenti si trova riscontro, oltre che in Apollonio, anche in Plutarco. In un passo della Vita di Alessandro – passo che potrebbe dipendere da Onesicrito, il quale aveva preso parte come ammiraglio alla spedizione in Asia –, si legge che il Macedone si fece inviare dal tesoriere Arpalo, oltre ai libri dello storico Filisto e a molte delle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, anche i ditirambi di Teleste e di Filosseno.18 16
Racconta Plinio, nell’Histora Naturalis, che Aristrato fece erigere per Teleste una statua, le cui decorazioni pittoriche furono affidate a Nicomaco. L’artista, che pure assolse mirabilmente all’incarico, concluse l’opera a ridosso dei termini stabiliti, evitando in extremis di finir vittima della collera del signore della città: «Raccontano infatti ch’egli si era impegnato con Aristrato, tiranno di Sicione, a dipingere il monumento al poeta Teleste entro un dato giorno stabilito. Orbene, Nicomaco presentatosi poco tempo prima della scadenza, mentre già il tiranno sdegnato voleva punirlo, in pochi giorni compì l’opera con mirabile prestezza e mirabile arte» (PLIN. XXXV, 36, 109). 17 APOLLONIUS, Mir., 40: «Aristosseno l’esperto di musica narra nella Vita di Teleste che, al tempo in cui questi soggiornava in Italía, si erano verificati alcuni fatti inauditi, uno dei quali era quello che aveva colpito le donne. Infatti si manifestavano casi di estasi di tale portata che talvolta, mentre le donne erano sedute prendendo parte ai banchetti, d’improvviso, come udendo una voce di richiamo, balzavano in piedi e correvano fuori della città. Ai Locresi e ai Reggini che avevano consultato l’oracolo, il dio prescrisse, come misura atta ad allontanare tale sciagura, di cantare [dodici] peani primaverili per sessanta giorni. Perciò fiorirono molti compositori di peani in Italía». 18 PLUT., Alex. VIII, 3-4.
66
Rosario Atria
Dal momento che la lettura delle opere di Filisto e di Filosseno è riconducibile all’attenzione di Alessandro per l’azione politica di Dionisio I, si può supporre – accogliendo le indicazioni offerte da Francesca Berlinzani nel contributo Teleste di Selinunte il ditirambografo – che la notizia di Plutarco non segnali «una semplice affinità poetico-musicale con l’opera di Filosseno», ma riferisca, a leggerla in filigrana, «di un’attività di Teleste al servizio dei tiranni di Siracusa».19 Per un inquadramento dell’opera di Teleste – della quale permangono i titoli di alcuni componimenti (Argo, Asclepio, Imeneo) e appena otto frammenti – è necessario tener conto delle trasformazioni di carattere musicale, metrico e linguistico che interessarono il ditirambo tra il sec. V e il IV a.C., distanziandolo dalle forme coltivate in età arcaica da poeti corali del calibro di Simonide, Pindaro e Bacchilide: l’opera del poeta selinuntino si inscriveva all’interno del nuovo corso, detto della Nuova Musica o del Nuovo Ditirambo, che si fondava sulle innovazioni introdotte da Laso di Ermione e da Melanippe di Melo ed era influenzato dalla teoria musicale di Dàmone ateniese, come pure dalle sperimentazioni di Frinide di Mitilene. Se Melanippe, Timoteo di Mileto e Filosseno di Citera si distinsero nella citarodia, inclinando per l’uso dello strumento ellenico per eccellenza e criticando l’aulós, che ritenevano corrompesse la semplicità e la purezza della musica greca, i superstiti lacerti testuali dell’Argo testimoniano, al contrario, come Teleste fosse convinto assertore delle possibilità espressive offerte dall’auletica. Uno dei frammenti telestaici tramandati da Ateneo contiene la polemica nei confronti di Melanippe: «Non posso credere, in cuor mio, che la celeste Atena, la dea dell’ingegno, / abbia trovato questo strumento ingegnoso nei boschi montani / e per paura 19
F. BERLINZANI, Teleste di Selinunte il ditirambografo, in «Aristonothos» 2 (2008), p. 121.
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
67
d’indecorosa bruttezza l’abbia di nuovo respinto dalle sue mani, / così che divenne gloria per il ferino Marsia, figlio di ninfa, che tra le sue mani lo fe’ risuonare. / Come poteva brama pungente d’amabile bellezza tormentare lei, / cui Cloto assegnò verginità senza nozze e senza figli?».20 L’antagonismo fra le diverse scuole musicali del tempo assurgeva, con tutta evidenza, a contenuto dell’opera stessa. La battaglia si combatteva sul terreno del mito: al poeta di Melo – che nel Marsia aveva cantato lo spregio con cui Atena aveva gettato via lo strumento per la deformazione delle gote cagionata dal suo utilizzo21 – Teleste obiettava, per dirla con Ateneo, che la dea «proprio per la sua condizione di vergine non avrebbe dovuto aver timore di non essere bella d’aspetto».22 Il ditirambografo selinuntino polemizzava, poi, con i «venditori di canti dalle sciocche parole» che a quel mito si richiamavano, stigmatizzando la diceria da loro alimentata del rifiuto dell’aulós da parte della dea: «Ma questa storia, ostile alla danza, di poeti / che parlano a vanvera, si diffuse nell’Ellade, / pei mortali odiosa umiliazione d’un’arte ingegnosa».23 Nei versi seguenti, la rivendicazione della nobiltà dell’aulós passava attraverso la magnificazione di alcuni aspetti puramente tecnici legati all’esecuzione materiale, come la melodiosa armonia dei suoni emessi e la straordinaria velocità delle dita che agivano sullo strumento: «A Bromio la diede, fedelissima ancella, il soffio / leggero della veneranda dea, insieme con l’agilità / delle belle dita, veloci come battito d’ali».24 Teleste, come ha notato Giovanni Comotti nel contributo Atena e gli auloi in un ditirambo di Teleste (fr. 805 P.), si avvaleva di un’immagine tesa a «raffigurare quasi visivamente 20
ATH. XIV, 616f-617a (= PMG 805a). ATH. XIV, 616e-616f. 22 ATH. XIV, 617a. 23 ATH. XIV, 617a (= PMG 805b). 24 ATH. XIV, 617a (= PMG 805c).
21
68
Rosario Atria
la varietà delle coloriture musicali emesse dallo strumento».25 Atena, secondo questa versione, si sarebbe separata dall’aulós non per ragioni estetiche, ma «per farne dono a Dioniso, il dio del ditirambo e della poesia drammatica».26 Che la poetica fosse argomento del canto resta dimostrato anche dalla contrapposizione tra l’harmonia lidia e quella dorica in un frammento dell’Asclepio: «o il frigio re dei sacri auli dal bel suono, / che per primo compose il canto lidio / dall’agile voce, rivale della Musa dorica, / l’aura alata del suo soffio intrecciando sulle canne».27 È plausibile che il riferimento fosse ad Olimpo, mitico auleta discepolo di Marsia, cui si dovrebbe l’introduzione in Grecia della pratica dell’aulós e dell’harmonia lidia. Dionigi di Alicarnasso sottolinea, nel De compositione verborum, come la ricerca di effetti di variazione ritmica attraverso la combinazione di arie differenti, sia marchio inconfondibile dell’arte ditirambica di Filosseno, di Timoteo e di Teleste: «I ditirambografi modulavano anche i modi mescolandoli dorici frigi e lidi nello stesso canto, e variavano le melodie rendendole ora enarmoniche ora cromatiche e ora diatoniche, e spadroneggiavano sui ritmi in tutta impunità. Costoro erano quelli che componevano secondo i dettami di Filosseno e Timoteo e Teleste, poiché presso gli antichi anche il ditirambo era soggetto a prescrizioni».28 Di tali aspetti serba traccia un ulteriore lacerto testuale telestaico tramandato da Ateneo, nel quale si sostiene che i compagni di Pelope, ossia coloro che erano emigrati nel Peloponneso insieme al figlio di Tantalo, erano stati i primi ad intonare il nomos frigio della dea Cibele (la Madre montana) e ad intrecciare l’inno lidio 25
G. COMOTTI, Atena e gli auloi in un ditirambo di Teleste (fr. 805 P.), in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 34 (1980), p. 53. 26 Ibid., p. 47. 27 ATH. XIV, 617b (= PMG 806). 28 DION. HAL., Comp. XIX, 2, 131-132.
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
69
sulla pettide: «I primi a cantare sugli auli, tra i crateri dei Greci, / il canto frigio in onore della Madre / montana furono i compagni di Pelope: / e quelli, pizzicando pettidi all’acuto, facevano echeggiare un inno lidio».29 L’unico frammento dell’Imeneo, citato nei Deipnosofisti, dà la misura dell’attenzione riservata agli strumenti su cui veniva intonato il canto: «mandando ora un suono ora un altro, / stimola la mágadis dalla voce di corno / le corde avvinte da cinque piroli, / movendo su e giù veloce la mano come corridore che doppia la meta».30 Quale posto attribuire a Teleste nel panorama della poesia e della musica di età classica? Alcuni critici (tra questi Barker e Wallace) ritengono che sia da includere nella schiera più radicale dei nuovi ditirambografi,31 secondo altri al poeta di Selinunte compete piuttosto una posizione moderata. Berlinzani, pur ammettendo la presenza nei frammenti superstiti di elementi che lo avvicinano alla corrente innovatrice, ha posto l’accento su alcuni «coefficienti» che «rimandano alla tradizione musicale anterio29
ATH. XIV, 626a (= PMG 810). ATH. XIV, 637a (= PMG 808). Stando ancora ad Ateneo, Teopompo aveva contestato nell’Altea alcune scelte lessicali di Teleste (ATH. XI, 502a): segnatamente, pare che il poeta selinuntino avesse denominato ákatos (barca) una phiále d’oro ombelicata (mesómphalos). Nei Deipnosofisti si legge pure di un «Telesi o Teleste», istruttore di cori, che aveva inventato «molte figure di danza, illustrando in modo perfetto il significato delle parole con i gesti delle mani» (ATH. I, 21f). Benché l’informazione sia stata sovente collegata al ditirambografo selinuntino, non è stato accertato che si tratti di lui. Va precisato, inoltre, che Ateneo fa successivamente riferimento ad un Teleste, «danzatore di Eschilo» (ATH. I, 22a), che – a giudizio di Biagio Pace – non deve esser confuso con l’omonimo creatore di ditirambi (cfr. B. PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica, cit., vol. III, pp. 309-310). 31 A. BARKER, Greek Musical Writings, Cambridge University Press, Cambridge 1984, vol. I, p. 97; R.W. WALLACE, A Early Fifth-Century Athenian Revolution in Aulos Music, in «Harvard Studies in Classical Philology» 101 (2003), pp. 86-87. 30
70
Rosario Atria
re», come la celebrazione della nobiltà dell’harmonia lidia, «non esclusa dalle composizioni tradizionali», o il «senso di orgoglio per essere detentore di un’arte dalle nobili origini».32 Radicale o moderato che lo si giudichi, non sussistono dubbi sul fatto che sia stato tra i più illustri e apprezzati poeti tra la fine del sec. V e l’inizio del IV a.C. e che abbia avuto un ruolo importante nell’evoluzione del genere poetico-musicale del ditirambo.
32
F. BERLINZANI, Teleste il ditirambografo, cit., p. 124. A conforto di questa tesi è addotto anche un argumentum e silentio: nelle fonti antiche più significative sui riformatori, come il De Musica dello Pseudo Plutarco, di Teleste non è fatta menzione (pp. 114-115 e 125-126).
Bibliografia Anthologia lyrica, sive Lyricorum graecorum veterum praeter Pindarum, reliquiae potiores, edidit E. Hiller, exemplar emendavit atque novis fragmentis auxit O. Crusius, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae 1907, pp. 298-299. Comicorum Graecorum Fragmenta (CGF), edidit G. Kaibel, apud Weidmannos, Berolini 1899, vol. I/1, p. 87. Dithyrambographi Graeci, collegit D. Ferrin Sutton, Weidmann, Hildesheim-MĂźnchen-ZĂźrich 1989, pp. 78-80 (Telestes of Selinus = n. 36). Fragments of Old Comedy, edited and translated by I.C. Storey, Cambridge 2011, vol. III, pp. 310-313. Iambi et Elegi Graeci ante Alexandrum cantati (IEG), edidit M.L. West, e Typographeo Clarendoniano, Oxonii 1972, vol. II, pp. 45-46. Paradoxographoi. Scriptores rerum mirabilium Graeci, insunt (Aristotelis) mirabiles auscultationes, Antigoni, Apollonii, Phlegontis historiae mirabiles, Michaelis Pselli lectiones mirabiles, reliquorum eiusdem generis scriptorum deperditorum fragmenta [...], edidit A. Westermann, G. Westermann, Brunsvigae; Black et Armstrong, Londini 1839. Poetae Comici Graeci (PCG), ediderunt R. Kassel et C. Austin, apud W. de Gruyter, Berolini et Novi Eboraci 2001, vol. I, p. 7.
72
Rosario Atria
Poetae Lyrici Graeci (PLG), edidit Th. Bergk, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae 18824, vol. III, pp. 627-631. Poetae Melici Graeci (PMG), edidit D.L. Page, Clarendon Press, Oxford 1962, pp. 419-423. Suidae Lexicon, edidit A. Adler, Teubneri, Stutgardiae 1971, vol. IV, p. 518. ATENEO DI NAUCRATI, I Deipnosofisti. I Dotti a banchetto, prima traduzione italiana commentata su progetto di L. Canfora, introduzione di Chr. Jacob, Salerno, Roma 2001. CYRILLUS, Contre Julien (Contra Julianum imperatorem), introduction, texte critique, traduction et notes par P. Burguiere - P. Evieux, Les editions du cerf, Paris 1985. DIONYSIUS HALICARNASENSIS, De compositione verborum [...], edidit F. Hanow, B.G. Teubneri, Lipsiae 1868. DIODORO SICULO, Biblioteca storica. Frammenti dei Libri Libri XI-XIII, a cura di C. Miccichè, Rusconi, Milano 1992.
IX-X.
EUSEBIUS CAESARIENSIS, Werke, VII. Die Chronik des Hieronymus. Hieronymi Chronicon, herausgegeben im Auftrage der Kirchenväter-Commission der Königl. preussischen Akademie der wissenschaften von R. Helm, Akademie Verlag, Berlin 1956. HEPHAESTIO, Enchiridion [...], iterum edidit Th. Gaisford, Typographaeo Academico, Oxonii 1855. PAUSANIA, Viaggio in Grecia. Guida antiquaria e artistica, libri V-VI, introduzione, traduzione e note di S. Rizzo, Rizzoli, Milano 2001. PLINIO, Storia naturale, libri XXXIII-XXXVII, traduzioni e note di A. Corso - R. Mugellesi - G. Rosati, Einaudi, Torino 1988.
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
73
PLUTARCO, Vite parallele: Alessandro e Cesare, introduzione di D. Magnino - A. La Penna, con i contributi di B. Scardigli - M. Manfredini, Rizzoli, Milano 2014. G. SYNCELLUS, Chronographia, in Corpus scriptorum historiae byzantinae, editio emendatior et copiosior, consilio B.G. Niebuhrii C.F. instituta, opera eiusdem Niebuhrii, Imm. Bekkeri, L. Schopeni, G. et L. Dindorfiorum aliorumque philologorum parata, Weberi, Bonnae 1829. STRABONE, Geografia. L’Italia, libri V-VI, introduzione, traduzione e note di A.M. Biraschi, Rizzoli, Milano 2014. TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, a cura di L. Canfora, Einaudi-Gallimard, Torino 1996. **** G. ARRIGHETTI, Civiltà letteraria della Sicilia antica fino al V sec. a.C., in Storia della Sicilia, dir. R. Romeo, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1980, vol. II, pp. 142-143, 152, n. 6. N. BALTIERI, Aulós e ‘Nuova’ Danza. Una rilettura di Melanippide PMG 758 e Teleste PMG 805, in Tra lyra e aulos. Tradizioni musicali e generi poetici, a cura di L. Bravi - L. Lomiento - A. Meriani - G. Pace, Quaderni della «Rivista di Cultura Classica e Medioevale», 14, Serra, Pisa-Roma 2016. A. BARKER, Greek Musical Writings, Cambridge University Press, Cambridge 1984, vol. I, p. 97. A. BARKER, Telestes and the ‘five-rodded joining of strings’, in «Classical Quarterly» 47 (2/1997), pp. 75-81.
74
Rosario Atria
A. BELLIA, Strumenti musicali e oggetti sonori nell’Itala meridionale e in Sicilia (VI-III sec. a.C.). Funzioni rituali e contesti, Libreria musicale italiana, Lucca 2012. F. BERLINZANI, Teleste di Selinunte il ditirambografo, in «Aristonothos» 2 (2008), pp. 109-140. G.L. BONANNO - A. FRESINA, Selinunte insieme a Hulot e Fougères, a cura di A. Fresina - G.L. Bonanno, CRicd, Palermo 2013, pp. 25-28. C.M. BOWRA, s.v. Telestes, in The Oxford Classical Dictionary, edited by S. Hornblower - A. Spawforth, Oxford University Press, Oxford-New York 19963, p. 1480. G. COMOTTI, Atena e gli auloi in un ditirambo di Teleste (fr. 805 P.), in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 34 (1980), pp. 47-54. G. COMOTTI, Un’antica arpa, la mágadis, in un frammento di Teleste (fr. 808 P.), in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 44 (3/1983), pp. 57-71. G. COMOTTI, L’«anabolé» e il ditirambo, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 60 (1989), pp. 116-117. G. COMOTTI, Il «canto Lidio» in due frammenti di Teleste (frr. 806; 810 P.), in Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, a cura di R. Pretagostini, Gruppo Editoriale Internazionale, Roma 1993, vol. II, pp. 513-520. E. CSAPO, The politics of the New Music, in Music and the Muses. The culture of mousike in the classical Athenian city, edited by di P. Murray - P. Wilson, Oxford University Press, Oxford 2004, p. 233.
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
75
N. CUSUMANO, Profilo storico, in Selinunte, a cura di S. Tusa, L’Erma di Bretschneider, Roma 2010, pp. 11-31. F. DE ANGELIS, The Foundation of Selinous: Overpopulation or Opportunities?, in The Archaeology of Greek Colonisation. Essays dedicated to Sir John Boardman, edited by G.R. Tsetskhladze - F. De Angelis, Oxford University Committee for Archaeology, Oxford 1994, pp. 87-110. S. De Vido, Selinunte. Gli ultimi anni, in Temi selinuntini, a cura di C. Antonetti - S. De Vido, ETS, Pisa 2009, pp. 111-128. A. DI VITA, Selinunte fra il 650 e il 409: un modello urbanistico coloniale, in «Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente» 62 (1984), pp. 7-62. S. ELIA, Arte e civiltà di Selinunte, a cura di G. Camporeale, Mazzotta, Castelvetrano 1999, pp. 73-75. S. ELIA - V. BARONE, Selinunte, Mazzotta, Castelvetrano 1996, pp. 19-51. G.B. FERRIGNO, Castelvetrano. Monografia, Società editrice del Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, Palermo 1909, pp. 125-126; estr. da F. NICOTRA, Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, compilato col concorso d’insigni collaboratori e dei Municipi della Sicilia, con proemio di G. Pipitone Federico, Società editrice del Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, Palermo 1907-1908, vol. II, p. 487. G.B. FERRIGNO, Guida di Selinunte, a cura di G.L. Bonanno - D. Giancontieri, con la collaborazione di R. Atria et alii, introduzione di M. Fourmont, Club UNESCO Castelvetrano Selinunte, Castelvetrano 20122, p. 144. A. FONGONI, Atena e l’aulos nel Marsia di Melanippide (fr. 758 Page/Campbell) e nell’Argo di Teleste (fr. 805 a-c Pa-
76
Rosario Atria
ge/Campbell), in Tra lyra e aulos. Tradizioni musicali e generi poetici, a cura di L. Bravi - L. Lomiento - A. Meriani - G. Pace, Quaderni della «Rivista di Cultura Classica e Medioevale», 14, Serra, Pisa-Roma 2016. M. FOURMONT, Selinunte. Guida archeologica, a cura di G.L. Bonanno, Mazzotta, Castelvetrano 2014. L.G. GIRALDI, Historia poetarum tam Graecorum quam Latinorum dialogi decem, M. Isingrinus (?), Basileae 1545, dial. IX, p. 323. A. HOLM, Storia della Sicilia nell’antichità, tradotta da G.B. Dal Lago e V. Graziadei, Clausen, Torino 1896, vol. I, p. 336, n. 1. J.H. HORDERN, Telestes, PMG 808, in «Classical Quarterly» 50 (1/2000), pp. 298-300. F. JACOBY, Die fragmente der griechischen Historiker (FGrHist), Weidmann, Berlin 1927-1958. E. LEPORE, I Greci in Italia, in Storia della società italiana, Teti, Milano 1981, vol. I, pp. 213-268 (poi in M.I. FINLEY - E. LEPORE, Le colonie degli antichi e dei moderni, prefazione di E. Greco, introduzione di M. Lombardo, Donzelli, Roma 2000, pp. 29-65. P. LE VEN, “You Make Less Sense than a (New) Dythiramb”: Sociology of a Riddling Style, in The Muse at Play. Riddles and Wordplay in Greek and Latin Poetry, edited by J. Kwapisz - D. Petrain - M. Szymanski, De Gruyter, Berlin-Boston 2013, pp. 5155. E. LIVREA, Telestes fr. 805 (= 1). C. 2 Page, in «Rheinisches Museum für Philologie» 118 (1975), pp. 189-190.
Aristosseno e Teleste, poeti dell’antica Selinunte
77
U. MANCUSO, La lirica classica greca in Sicilia e nella Magna Grecia. Contributo alla storia della civiltà ellenica in Occidente, Stab. tip. succ. FF. Nistri, Pisa 1912, parte I, pp. 233-234, 310, n. 3. C. MARCONI, Nuovi dati sui culti del settore meridionale del grande santuario urbano di Selinunte, in Katà koruphèn pháos. Studi in onore di Graziella Fiorentini, «Sicilia antiqua» 11 (2014), vol. I, pp. 263-271. C. MARCONI, Two New Aulos Fragments from Selinunte: Cult, Music and Spectacle in the Main Urban Sanctuary of a Greek Colony in the West, in Musica, culti e riti nell’Occidente greco, a cura di A. Bellia, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2014, pp. 105-116. P. MAAS, s.v. Telestes (6), in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, neue bearbeitung begonnen von G. Wissowa forgefuhrt von W. Kroll - K. Mittelhaus, Druckenmuller, München 1934, vol. V.A/1, coll. 391-392. M. ORNAGHI, Sincronismi giambici: Archiloco, Ipponatte e lo smembramento di Semonide, in «Annali online di Lettere - Ferrara» 2 (2010), pp. 69-71. E. ØSTBY, Chronological Problems of Archaic Selinus, in Ancient Sicily, edited by T. Fischer-Hansen, in «Acta Hyperborea» 6 (1995), pp. 83-101. B. PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica, Società anonima editrice Dante Alighieri, Genova-Roma-Napoli-Città di Castello 1945, vol. III, pp. 309-310, 357. A.W. PICKARD-CAMBRIDGE, Dithyramb Tragedy and Comedy, Clarendon Press, Oxford 19622, pp. 41-43, 52-53.
78
Rosario Atria
G. PUGLIESE CARRATELLI, Per la storia di Selinunte, in ID., Tra Cadmo e Orfeo. Contributi alla storia civile e religiosa dei greci d’Occidente, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 157-176. E. ROBBINS, s.v. Telestes (2), in Der Neue Pauly. Enzyklopädie der Antike, herausgegeben von H. Cancik - H. Schneider, J.B. Metzler, Stuttgart-Weimar 2002, vol. XII/1, col. 97. A. ROTSTEIN, Aristoxenus of Selinus and the Hypothesis of a Dorian Iambos, in EAD., The Idea of Iambos, Oxford University Press, Oxford 2010. R.W. WALLACE, An Early Fifth-Century Athenian Revolution in Aulos Music, in «Harvard Studies in Classical Philology» 101 (2003), pp. 86-87.
Tradizioni, feste e identità locali Ignazio E. Buttitta Premessa Tra le numerose questioni che gli etnoantropologi e i sociologi italiani contemporanei sono chiamati a risolvere v’è quella della persistenza in significative porzioni del territorio nazionale di modalità di percezione e organizzazione del tempo e dello spazio (e parallelamente di strutturazione delle relazioni sociali e dei relativi sistemi di valori) proprie delle società agropastorali; e ciò anche laddove sono intervenute, almeno a partire dal II dopoguerra e più estesamente dagli anni Sessanta del Novecento, significative trasformazioni dei contesti socio-economici tradizionali.1 Queste persistenze possono essere particolarmente osservate al livello delle credenze, delle pratiche e degli immaginari magico-religiosi.2 L’urgenza di comprendere questo fenomeno si fonda anche sulla necessità di trovare una soluzione positiva al progressivo scollamento, da più parti avvertito, tra le visioni del mondo e del1 2
G.L. BRAVO, Italiani: racconto etnografico, Roma 2001.
Si vedano tra l’altro per la Sicilia: F. GIALLOMBARDO, Festa, orgia e società, Palermo 1990; I.E. BUTTITTA, I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa, Roma 2006; ID., Verità e menzogna dei simboli, Roma 2008, pp. 231 ss.
80
Ignazio E. Butitta
la vita di consistenti parti della società reale e quelle (non di rado contraddittorie) proposte dai mezzi di informazione gestiti dalle élites economico-politiche. Tale cesura che può ricondursi, in ultima analisi e non senza una certa approssimazione, alla opposizione cultura egemonica vs culture subalterne, si articola peraltro trasversalmente all’interno di altre costanti dialettiche: città vs campagna, centro vs periferia, vecchi vs giovani, etc.3 Venendo ai contesti all’interno dei quali si sono svolte la più parte delle nostre indagini sul campo, si avverte chiaramente nel rapportarsi a tante comunità della Sicilia, e non solo di quella “interna”, una serpeggiante discrasia comportamentale che porta gli individui a operare scelte all’interno della propria quotidianità tra diverse e opposte strategie relazionali e contraddittori sistemi di valori, scelte difficili che pongono alle comunità e ai singoli drammatici interrogativi sul senso dell’esserci nel mondo e del mondo. Tali interrogativi investono fortemente la memoria culturale comunitaria e, particolarmente, il farsi festivo quello spaziotempo cioè all’interno del quale tradizionalmente le comunità ricapitolavano e confermavano, attraverso un complesso linguaggio simbolico, i principi fondanti dell’esserci comunitario trovandovi legittimazione nella sfera del sacro. Tradizioni, identità e feste popolari Dopo averle rinnegate come retaggio di tempi oscuri, come residui del passato (un passato che è stato realmente per i più di privazioni e fatica, di soprusi e attese disilluse), si fa oggi un gran 3
A.M. CIRESE, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo 1973; ID., Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma 1997.
Tradizioni, feste e identità locali
81
parlare di tradizioni popolari e insieme di identità e di memoria. Spesso, però, dietro l’apparente interesse per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale, tradizionale si celano interessi confliggenti e contraddittori. Valorizzare le tradizioni significa per alcuni, per i più, quando non distorti da rivendicazioni regionaliste, coglierne e esaltarne solo quegli aspetti che paiono utili alla promozione di una mediocre politica turistico-consumistica. Una politica il cui fine ultimo e inespresso è la creazione di “riserve indiane”, dove compiacenti attori dovrebbero trovarsi a recitare la parte dei commossi fedeli, degli operosi artigiani, dei pii contadini e quant’altro, a profitto del turista di passaggio felice di “stupirsi” di usi e costumi “antichi” e “selvaggi”.4 Esecutori non sempre consapevoli di tale “condanna allo stereotipo” sono Pro-Loco, Enti Locali, istituzioni pubbliche e associazioni private. A soffrire maggiormente di questi interventi sono le feste religiose. Esse, al contrario di altre espressioni della cultura popolare inesorabilmente scomparse, restano ancora vive e presenti. In effetti rispetto alle trasformazioni sociali e culturali prodotte dai fatti realizzatisi in questi ultimi anni nelle aree di cultura tradizionale, le feste religiose sono quelle che hanno mostrato le maggiori resistenze. Spesso addirittura si è assistito a riprese e amplificazioni. Sono ragioni precise quelle che ne hanno garantito il perdurare e il rinnovarsi. Alla forza iterativa delle strutture formali dei riti, alla radicata tendenza da parte delle società a conservare e tramandare quanto si dimostri di provata efficacia, all’intenso bisogno di sacro nell’inesauribile ricerca di senso alla propria esistenza, si aggiunge, oggi più di ieri, la precisa volontà delle singole comunità di riconoscersi e affermarsi attraverso la 4
I.E. BUTTITTA, Conservare o inventare? Della (im)possibile salvaguardia delle tradizioni, in Voci del Carnevale, raccolte e trascritte da F. Bona e P. Broglia, vol. IX, Ivrea 1998, pp. 13-19.
82
Ignazio E. Butitta
propria cultura. La ragione della permanenza di tratti culturali arcaici è quindi anche da ricercare nel desiderio di confermare la propria specificità e con essa il senso stesso del proprio esserci minacciato da rapide quanto traumatiche trasformazioni. La festa continua a rispondere a questa esigenza. È attraverso essa che si riproduce e riafferma l’identità, tanto individuale quanto collettiva, nella ricapitolazione dei valori sociali e ideologici della propria cultura. È attraverso il discorso esplicitato dai simboli rituali cioè che vengono rimesse in discussione, per essere periodicamente riconfermate, le categorie attraverso le quali gli uomini percepiscono la realtà, i fondamenti che governano l’ordine naturale e sociale. Gli uomini, nel ripetere gesti e parole simili anno dopo anno, cercano la certezza di un’appartenenza, le stesse ragioni fondanti dell’esserci, e insieme a questo, chiedono risposte positive a problemi irresolubili nella prassi, efficaci argini alle ansie e ai drammi del quotidiano. Le feste nel ricorso ai santi e nella iterazione della loro struttura offrono garanzie forti all’individuo e alla comunità e continuano a rispondere alle inquietudini, ai dilemmi fondamentali dell’esistere non soddisfatti dalla società contemporanea.5 Ogni discorso sull’identità non può dunque prescindere da una riflessione sulla festa e più in generale sulle forme della religiosità tradizionale. È grazie alla presenza del Santo, resa annualmente visibile attraverso l’iter processionale, che viene riconfermata la persistenza della comunità e riproposta la peculiare visione sacrale del proprio territorio e del proprio calendario. Se è evidente quanto il sentimento di appartenenza ribadito annualmente nelle feste contribuisca a definire e sostenere il senso stesso delle nostre esistenze, il nostro ”essere nel mondo”, è altret-
5
G. KLIGMAN, Căluş. Symbolic Transformation in Romanian Ritual, Chicago and London 1981.
Tradizioni, feste e identità locali
83
tanto chiaro come il processo di impoverimento e omologazione delle feste possa produrre alienazioni d’ogni sorta. Oggi più di ieri è osservabile nel concreto il continuo adeguamento delle forme, dei tempi e degli spazi dei riti festivi al rapido mutare delle proposte e delle istanze formulate in sedi del tutto estranee alla cultura cui essi appartengono. Un adeguamento non privo di stridenti contraddizioni che rendono manifeste le conflittualità culturali e sociali, le tensioni tra memoria e contingenza. Allo stravolgimento delle feste contribuiscono, oltre alle politiche di sviluppo turistico sostenute dagli enti locali, anche altri fattori di disturbo. Tra questi principalmente la crescente pressione dei mezzi di comunicazione di massa e i continui interventi normalizzatori della Chiesa. Risultato ineluttabile di tale processo sembra essere l’appiattimento di un ricco e variegato universo su standards di fruizione che privilegiano della festa gli aspetti ludici e spettacolari, folkloristici, esitando nell’introduzione anche forzata di elementi nuovi e estranei al fine di esaudire e incoraggiare le domande del mercato turistico. La speranza che sorregge tali interventi è quella, in teoria legittima e apprezzabile, di rilanciare l’economia locale stimolando i flussi turistici. Questa politica, raramente sostenuta da una sia pur minima sensibilità antropologica, come è facilmente comprensibile, non favorisce affatto lo sviluppo. Episodici e assai limitati nel tempo gli afflussi di visitatori non comportano l’incremento economico sperato. D’altro canto la progressiva standardizzazione delle feste non sollecita l’eventuale turista a recarsi in un posto piuttosto che in un altro. In ogni caso «su questa strada le feste tradizionali rischiano di smarrire il senso originario che ne faceva una tessera fondamentale nel mosaico della cultura attraverso cui ciascuna comunità, celebrando an-
84
Ignazio E. Butitta
nualmente i propri santi manifestava la speranza di continuare a persistere nel e oltre il tempo»6. Riconsiderando Date queste premesse sembra pertanto lecito domandarsi quale futuro sia riservato alle feste tradizionali e più in generale a tutte le espressioni della religiosità folklorica, quali siano le specifiche strategie che le comunità possono adottare per resistere alle trasformazioni indotte dall’esterno (un esterno almeno ideologicamente assai lontano), per impedire o rallentare l’inesorabile processo di omologazione salvaguardandone le specificità. L’interrogativo ultimo e drammatico che si pone (o dovrebbe porsi) agli studiosi di scienze sociali (e non solo agli studiosi) è: cosa resterebbe, qualora tale processo dovesse finire con l’affermarsi definitivamente, a segnalare verso se stessi e verso l’esterno la propria identità? Quando io dico di essere di un determinato luogo, infatti, non solo indico e rivendico una appartenenza spaziale, ma rinvio più o meno esplicitamente a un insieme di pratiche, comportamenti, credenze, valori propri della comunità da cui provengo. Il compito degli studiosi di scienze sociali, dei ricercatori, può limitarsi ad essere quello di registrare fatti (fornendone se si vuole classificazioni e interpretazioni) per consegnarli a futura memoria? Siamo ineluttabilmente destinati a compilare micro-storie e a coltivare interessi forse troppo eufemisticamente definibili come neo-antiquari? Gli uomini di cultura, accademici e non, sempre così pronti ad assumere mode, indicazioni e stimoli dai 6
A. BUTTITTA, Introduzione, in G. GIACOBELLO - R. PERRICONE (a cura di), Calamonaci. Antropologia della festa e culto dei santi nell’Agrigentino, Palermo 1999, pp. 9-12: 12.
Tradizioni, feste e identità locali
85
centri del potere contribuendo d’altra parte alla legittimazione delle politiche istituzionali, dovrebbero fornire risposte concrete alle istanze implicitamente o esplicitamente avanzate dall’oggetto delle loro ricerche. Spesso nel corso delle mie indagini sul campo mi è stato chiesto di parlare col parroco o col sindaco affinché la smettessero di promuovere e sostenere iniziative divergenti dalla volontà dei fedeli. Cosa produrrebbe un documento ufficiale e autorevole che stigmatizzasse come distruttivo delle stesse realtà cerimoniali tradizionali, l’attuale fiorire di sagre e messe in scena “storiche”, di palii e concorsi e il susseguirsi di contributi finanziari e sostegni organizzativi? Forse non sarebbe in alcun modo risolutivo ma certo produrrebbe lo sviluppo di un ampio dibattito chiarificatore. Queste questioni ci sospingono a porci alcuni altri ineludibili interrogativi: quanto resisteranno i balli dei santi, le processioni dell’alloro, i falò rituali, i canti processionali, le ossessive acclamazioni, etc.? Cosa diverremo noi, noi siciliani intendo, noi abitanti di Prizzi, San Marco, Tortorici, Sortino, Scicli, Pietraperzia, Troina, Cerami, Castelvetrano, etc., senza le “nostre” feste, senza i “nostri” santi? Ha senso oggi occuparsi di tali problemi e prestare attenzione a fenomeni che al di là della loro apparente ineluttabilità possono addirittura qualificarsi di segno positivo? Non troviamo di meglio per accennare una risposta che ricordare quanto ha rilevato Mario Alcaro: «Non ci è indifferente – e non potrà mai esserlo – la contrada dove siamo stati gettati. Il nostro Io si forma e si struttura grazie ad abitudini che si acquisiscono sulla base dell’ethos, cioè del sistema dei valori e dei modelli di comportamento della comunità dove ci è toccato nascere. Proprio per questo è salutare reagire ai processi di omologazione, di standardizzazione, di omogeneizzazione, che accompagnano la globalizzazione del mondo, contrapponendo a essi la rivitalizzazione delle culture locali, la riscoperta e la reinvenzione delle
86
Ignazio E. Butitta
“radici storiche comuni”, la riaffermazione delle proprie identità collettive».7 Alcaro è ben consapevole che rispetto a tali tradizioni non bisogna «assumere l’atteggiamento folcloristico della salvaguardia del pittoresco», e che non «occorre conservare, come in un museo, sopravvivenze arcaiche, né ancora che bisogna preservarle da contaminazioni moderniste». Piuttosto, ciò che appare necessario è lasciare le tradizioni «alle loro dinamiche naturali, alle interazioni col mondo della vita odierna, agli incroci spontanei con gli eventi e i processi del presente». Ciò che va assolutamente evitato è infine «che tali dinamiche siano stravolte con l’introduzione forzata di modelli altri, con l’imposizione di standard che sradicano e annientano le identità, con categorie e norme tratte da contesti culturali estranei».8
7
M. ALCARO, Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Torino 1999, p. 3; cfr. L. SCIOLLA, Italiani. Stereotipi di casa nostra, Bologna 1997, p. 71. 8
M. ALCARO, Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, cit., p. 9.
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo Scopo di questo scritto è mettere in evidenza la ricca trama di relazioni culturali, religiose e storiche che hanno caratterizzato il territorio di Castelvetrano in un arco temporale che va dalla caduta dell’Impero Romano fino a quando l’affermarsi del potere spagnolo, nell’ambito politico-religioso da una parte, e del linguaggio rinascimentale, in campo artistico dall’altra, porta alla definitiva scomparsa di quella tradizione multiculturale che caratterizza il Medioevo siciliano. Faremo vedere come, nel quadro più vasto dei fatti storici che interessano l’intera Isola, nel territorio castelvetranese si possa ritrovare un’eco ben documentata di quegli stessi fatti, mostrando come esso non fosse del tutto periferico rispetto al contesto siciliano e più in generale a quello europeo. In questa cornice la presenza di resti e manufatti architettonici viene interpretata alla luce degli eventi storici narrati, diventando una preziosa testimonianza per conoscere e comprendere il nostro territorio. In età tardoantica, la Sicilia è quasi ormai interamente convertita al cristianesimo e la chiesa dell’Isola, divisa in dodici diocesi, è guidata dal Papa di Roma. Tuttavia, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, fatta eccezione per un periodo di quasi un secolo in cui la Sicilia si ritrova in balia dell’occupazione
88
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
dei Vandali, degli Eruli e degli Ostrogoti, le truppe bizantine, comandate da Belisario, nel 535 portano l’Isola sotto l’autorità dell’Impero Romano d’Oriente, determinando così un passaggio progressivo della chiesa siciliana sotto la dipendenza dal patriarcato di Costantinopoli. Anche nell’area geografica che è oggetto di questo studio, troviamo testimonianza di questo passaggio. Il territorio del Basso Belìce, compreso tra il vescovado di Lilibeo (Marsala) e quello di Triocala (Caltabellotta), ha ancora a quel tempo in Selinunte uno dei centri urbani più importanti e, in effetti, nell’area archeologica di questa antica città, alcuni recenti scavi hanno messo in luce, all’interno di una probabile basilica, una vasca battesimale a immersione a pianta quadrata con quadrifoglio e croce all’interno, che richiama alcuni esempi coevi dell’Africa settentrionale e soprattutto della Tunisia, territori soggetti anch’essi a Costantinopoli. Dopo lo sbarco a Mazara nell’827 dell’esercito musulmano di Asad, inizia l’occupazione araba dell’Isola e con essa l’islamizzazione dei suoi abitanti. A questo fenomeno concorrono sia gli immigrati musulmani con i loro discendenti, sia le numerose conversioni avvenute tra la popolazione indigena. Le autorità musulmane instaurano la supremazia della religione islamica che viene elevata a religione di stato, riducendo quella cristiana e quella giudaica (della cui presenza in Sicilia si trova ampia documentazione), sebbene tollerate, in condizione di inferiorità. I pochi cristiani rimasti nel Val di Mazara, costretti a pagare la giziah e privi di qualunque comunicazione con il patriarcato di Costantinopoli o con le altre autorità cristiane dell’Isola, si ritrovano di fatto in uno stato di forte isolamento. In età araba, dunque, la Valle del Belìce è un territorio abitato prevalentemente da popolazioni islamiche, come del resto succede in gran parte dell’Isola. In questa parte della Sicilia in particolare vivono numerose comunità di origine berbera, come suggerisce per esem-
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
89
pio il toponimo Modione, che sembra derivare da Madyunah,1 una tribù Berbera del Nord-Africa. Anche per il centro urbano di Castelvetrano, gli studiosi oggi sembrano condividere l’ipotesi che questo corrisponda al casale arabo di Qasr Ibn Manqud. Si tratta di un centro fortificato, fondato con molta probabilità dallo sheik Ibn Manqud, un caudillo di origine berbera, che si ritrova a governare parte della Sicilia occidentale durante la frantumazione politica dell’emirato siciliano, avvenuta nella prima metà dell’XI secolo. Come recentemente è stato evidenziato da Henri Bresc,2 un ruolo importante per l’islamizzazione della Sicilia viene svolto dal programma di incastellamento voluto alla fine del X secolo dal califfo fatimita Muizz, che ordina di edificare in ciascun distretto (iqlim) una città fortificata con una moschea. Questa disposizione ha in primo luogo lo scopo di favorire l’insegnamento e la propaganda religiosa,3 con l’obbligo della preghiera solenne del venerdì. Ci sono quindi fondate ragioni per ritenere che il qasr fondato da Ibn Manqud rientri in questo progetto di riorganizzazione territoriale voluto dal califfo fatimita, come suggerisce lo stesso termine qasr, che nella lingua araba sta ad indicare appunto un complesso militare fortificato. Mentre dell’architettura religiosa islamica nel territorio in oggetto non ci sono pervenuti né resti né notizie di manufatti, al contrario potrebbero esserci testimonianze della presenza di strutture militari fortificate. Per esempio, il geografo arabo Idrisi, nel XII secolo, parla di una di queste strutture, che avrebbe dovuto essere proprio all’interno del tessuto urbano di Castelvetrano, fino ad oggi, tuttavia, non individuata. Inoltre, recentemente, 1
Cfr. F. MAURICI, Breve storia degli arabi in Sicilia, Palermo 2006, p. 61. Cfr. ivi, p. 63. 3 Nel sermone del venerdì (Khutba) veniva proclamata la legittimità della dinastia califfale fatimita. 2
90
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
l’archeologo Dieter Mertens4 ha ipotizzato che i resti del fortino medievale a pianta quadrilatera con torri angolari, realizzato a Selinunte con materiali di riuso, sopra i basamenti dei templi A e O, possono inquadrarsi ed interpretarsi sia come un castellum d’epoca tardoromano-bizantina, ma anche come il ribat d’età islamica di cui stiamo parlando. Il dominio arabo in Sicilia termina con l’arrivo dei Normanni, che riportano la cristianità siciliana sotto la sfera d’influenza di Roma. Dopo la conquista normanna, la convivenza tra le etnie musulmana e cristiana si presenta in termini rovesciati: i musulmani, che avevano perso la guerra, accettano di essere dominati e sottomessi ai vincitori. Ma, contrariamente agli emiri musulmani, che avevano escluso i cristiani dai ruoli importanti, i re normanni si avvalgono largamente, anche per delicati incarichi di governo, di personale tecnico-amministrativo musulmano. Con Ruggero II sembra, dunque, realizzarsi finalmente una convivenza fattiva tra sicilianità cristiana e sicilianità musulmana. A testimonianza di questo nuovo clima culturale, a Castelvetrano troviamo una delle più significative architetture di questo periodo: la chiesa della Trinità di Delia, attigua in origine ad un convento di monaci greco-ortodossi. Questo manufatto presenta una pianta centrica a croce greca ed un volume cubico caratterizzato dalla cupola emisferica all’esterno di colore rosso; una composizione di volumi semplici a forma cubica, prismatica ed emisferica, ottenuti da paramenti murari semplici, costituiti da blocchi di calcarenite a piccoli conci esattamente tagliati, senza forti cornici, alleggeriti da lievi rincassi intorno alle nude finestre o porte ad arco acuto (fig.1).
4
Cfr. D. MERTENS, Città e monumenti dei greci d’Occidente, Roma 2006, pp. 400-401.
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
91
Lo spazio centrale del complesso architettonico è ripartito da quattro colonne di marmo, sulle quali si imposta la cupola; il santuario è triabsiadato ed è pronunziato all’esterno da volumi semicircolari. Gli elementi della composizione arFig. 1 - Castelvetrano, Trinità chitettonica sono chiaramente la sintesi di Delia equilibrata delle tre culture presenti in quel momento in Sicilia (araba, bizantina e normanna), costituendo, così, un esempio di felice fusione dei caratteri dell’arte preesistente con quelli dall’arte dettati dal nuovo popolo dominante. Questo clima di tolleranza, tuttavia, non dura per molto tempo. Con la morte di Guglielmo II e il venire meno dell’autorità regia garante dell’equilibrio tra le diverse etnie siciliane, si passa dalla tolleranza all’insofferenza. Ad aggravare i rapporti contribuisce anche l’accrescersi del potere baronale e la propaganda a sostegno delle crociate. La rottura della convivenza tra le due etnie principali della Sicilia cristiano-islamica avrà conseguenze demografiche devastanti per tutta la regione; le comunità arabe lasciano i territori dove sono in minoranza e, concentrandosi nelle roccaforti della Sicilia occidentale,5 occupano molti territori della chiesa e dei feudatari cristiani loro confinanti. In queste roccaforti del Val di Mazara addirittura ricostituiscono un nuovo emirato,6 staccandosi dall’autorità regia. Federico II, che eredita dalla madre Costanza d’Altavilla il Regno di Sicilia, tenta di riportare l’ordine, invitando le comuni5
F. MAURICI, Breve storia degli arabi in Sicilia, cit., p. 24. F. MAURICI, L’emirato sulle montagne: note per una storia della resistenza musulmana in Sicilia nell’eta di Federico II di Svevia, Palermo 1987, p. 40. 6
92
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
tà islamiche a rientrare all’interno dell’antico sistema socioeconomico e a restituire i territori tolti alla chiesa e ai legittimi assegnatari. Le comunità ribelli, dal canto loro, convinte di potere conservare uno stato musulmano libero all’interno del mondo occidentale cristiano, rifiutano gli ordini del re e si preparano allo scontro e alla resistenza ad oltranza. I casali di Jato, Entella, Guastanella e molti altri siti fortificati ubicati sulle montagne diventano pertanto le loro roccaforti. Il conflitto fra l’esercito cristiano di Federico II e le comunità musulmane si conclude in una prima fase nel 1225 quando, dopo quattro anni di duri scontri, i ribelli si arrendono al re. L’area del Basso Belìce, territorio in cui ricade Castelvetrano, è fortemente interessata da questi eventi storici. In effetti, nel territorio costiero, compreso tra le città fortificate di Mazara e di Sciacca, sorgeva il casale musulmano di al-Asnam (Selinunte), come documentato da diverse fonti storiche; da questo casale le comunità ribelli della Sicilia Occidentale mantenevano i contatti verso i paesi islamici del Nord Africa. Per il sovrano, il possesso di quest’area risulta, pertanto, fondamentale per potere “assediare” le comunità musulmane ribelli del Val di Mazara ed impedire loro, di fatto, le vie di contatto con il Nord Africa. Con molta probabilità, come avviene in epoca federiciana anche per altri casali islamici della Sicilia, gli abitanti di al-Asnam7 vengono allontanati dalla costa e deportati nell’entroterra. Se l’esempio d’architettura normanna che ci rimane (la chiesa della Trinità di Delia) è soprattutto religioso, quello lasciato dagli 7
Una tradizione popolare molto diffusa, riportata anche in alcune lapidi del XVII secolo applicate nella fontana della Ninfa, nella Porta di Mare e all’interno del Municipio vuole che la città di Castelvetrano sia stata fondata dai Selinuntini dopo avere abbandonato la loro città; a nostro avviso questa tradizione nasce dal trasferimento forzato dei Musulmani dal casale di alAsnam, luogo dell’antica Selinunte, in un casale in prossimità dell'attuale Castelvetrano.
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
93
Svevi è essenzialmente militare, ed è fortemente segnato dalla personalità dell’imperatore svevo. Una documentazione minuta, benché purtroppo limitata al periodo dal 1232 al 1245, ci attesta come l’imperatore segua i suoi cantieri continuamente, dando direttive, approvando le opere fatte o chiedendo informazioni al preposto per le fortificazioni. Chiare evidenze dimostrano che nel Basso Belìce vengono costruiti tre edifici per lo svago: Castrum Bellumvidere, Castrum Bellum Reparium e la torre di Federico a Menfi. I pochi resti architettonici ancora visibili del castello federiciano di Bellumvidere (figg. 3-4), oggi sono inglobati all’interno delle fabbriche del palazzo ducale Fig. 3 - Pianta palazzo di Castelvetrano. Esse vedono un corpo di Ducale fabbrica quadrilatero con torri angolari e mediane di forma ottagonali, volte costolonate ed emisferiche, muri a scarpa e fossato.8 Queste strutture mostrano una architettura nuova, caratterizzata da un lato dal gusto e dalla magnificenza imperiale romana, e dall’altro dall’innovazione delle forme e dei sistemi costruttivi gotici di caratteri borgognoni, elementi di chiara derivazione cistercense che indicano anche a Fig. 4 - Ipotesi pianta Castelvetrano l’intervento e la stretta Castrum Bellum videre
8
Cfr. P. CALAMIA – M. LA BARBERA – G. SALLUZZO, Bellumvider. La Reggia di Federico II a Castelvetrano, Palermo 20112, pp. 47-49.
94
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
collaborazione di quest’ordine monastico, la cui presenza, in effetti, è documentata nel monastero di Delia fino alla prima metà del XIV secolo.9 Nel 1246,10 dopo una seconda rivolta, le truppe imperiali sconfiggono definitivamente le popolazioni islamiche, determinando la scomparsa della componente musulmana dalle etnie siciliane e lasciando gran parte della Sicilia occidentale spopolata. Tuttavia, sempre in età sveva, alcuni accenni documentari ci convincono della presenza nella stessa area dell’insediamento di alcuni ordini cavallereschi,11 che fanno così supporre l’attivazione di un piano articolato di trasformazione e di messa in valore del territorio. La presenza dei cavalieri Ospedalieri di San Lazzaro di Gerusalemme è documentata in contrada Santa Caterina, oggi in territorio di Menfi, località sita ai confini della riserva di caccia in prossimità del fiume Belìce, dove i cavalieri edificano la chiesa 9
La presenza dei cistercensi nel monastero di Delia è confermata dal pagamento delle decime degli anni 1308-1310 in cui è riportato il pagamento del Monasterium Delie ordinis cistercensium; cfr. P. SELLA, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Città del Vaticano 1944, p. 120. 10 «Nell’estate di quell’anno (1245) l’imperatore inviò un ultimatum ai guerriglieri non escludendo di trattare con una certa indulgenza quanti si fossero immediatamente sottomessi, scendendo de montanis ad planitiem. […] nel novembre 1246 egli scrisse però a Ezzelino da Romano annunziandogli trionfalmente che anche gli ultimi ribelli erano finalmente discesi [...] Jato ed Entella vennerò abbandonate, come mostrano drammaticamente gli scavi: gli ultimi esponenti della resistenza musulmana furono spediti anch’essi a Lucera»; in F. MAURICI, L’emirato sulle montagne..., cit., p. 3. 11 S. BIVONA, Scritti storici su Menfi ed il suo territorio, Menfi 1997, pp. 4752. Il feudo Dimina a Castelvetrano risulta in possesso alla Commenda S. Maria dell’Alto delle Giummare; cfr. L. BUONO - G. PACE GRAVINA (a cura di), S.M.O.M. La Sicilia dei Cavalieri, le istituzione dell’Ordine di Malta in età moderna (1530-1826), Roma 2003, p. 177.
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
95
di Santa Caterina di Belìce e l’ospedale che secondo la regola dell’ordine sarebbe servito a curare i lebbrosi. Anche nel feudo di Dimina12 a Castelvetrano è documentata la presenza dei cavalieri di San Giovanni e lo stesso risulta in possesso della Commenda di S. Maria delle Giummare (Madonna dell’Alto) di Mazara. La fine del dominio svevo è determinata dalla vittoria presso Benevento degli Angioini che si impossessano così del Regno di Sicilia. Con questi cambia radicalmente il rapporto con la chiesa che riacquista la propria autonomia e parte dei privilegi perduti in età sveva. Con Carlo d’Angiò molte aree demaniali del Regno di Sicilia vengono suddivise in feudi e assegnate a famiglie a lui alleate. Da un documento della cancelleria angioina apprendiamo che nel 1271 la terra e il castello di Castelvetrano vengono infeudati e concessi a Giovanni Lentini.13 Di particolare importanza, ai nostri fini, è un altro documento della cancelleria angioina in cui si evidenzia, sempre nel territorio di Castelvetrano, lungo l’antica strada Mazara-Sciacca, in prossimità del fiume Modione, la presenza di una chiesa intitolata a Sant’Elia, santo tipicamente venerato dai cristiani ortodossi. Questo dimostra come, con molta probabilità, cristiani di tradizione greco-ortodossa siano ancora presenti, con una loro comunità, nel nostro territorio alla fine del sec. XIII, mostrando come la situazione religiosa sia tutt’altro che semplificata anche in un’epoca così tarda. Con la rivolta del Vespro e l’arrivo di Pietro d’Aragona, la Sicilia passa nell’orbita catalano-aragonese e, successivamente, con la pace di Caltabellotta, firmata dal figlio Federico III, l’antico regno normanno viene definitivamente diviso in due parti. In questo modo la Sicilia viene separata dall’Italia e dall’Eu12
Ibidem. A. RAGONA, Gualtiero di Caltagirone e la fine delle aspirazioni repubblicane del Vespro, Caltagirone 1985, p. 127. 13
96
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
ropa, a causa della frapposizione territoriale e politica del regno di Napoli, precipitando di fatto in un isolamento politico e culturale. Con Federico III d’Aragona, nel 1296 la città di Castelvetrano, con il castello, è assegnata a Nino Tagliavia, e nel 1299 viene infeudata a Bartolomeo Tagliavia.14 A partire dal XIV secolo la città è oggetto di un significativo sviluppo urbanistico caratterizzato dall’edificazione di alcune chiese, San Gandolfo e Santa Maria. I caratteri stilistici di questo periodo sono caratterizzati dall’affermarsi della tradizione normanno-sveva. Tale convivenza stilistica è stata definita dagli storici dell’arte con l’appellativo di “chiaramontana”. Anche le costruzioni realizzate a Castelvetrano sono riconducibili a questo stile, come si evince per esempio dal portale gotico a doppia ghiera della chiesa di San Gandolfo, demolita nella seconda metà del XX secolo. Intrecci ereditari dinastici, agli inizi del secolo XV, rendono la Sicilia dipendenza del regno di Aragona e Catalogna, e col trasferirsi della residenza regia dalla Sicilia in Aragona, inizia la confluenza aragonese nell’architettura e nell’arte siciliana, caratterizzata da influssi gotico-catalani. In questo periodo la città ha un ulteriore sviluppo, favorito anche dallo stabilirsi a Castelvetrano dei baroni Tagliavia.15
14
E. LESNES, Burgimilluso, in CENTRO REGIONALE PER L’INVENTARIO, LA CATALOGAZIONE E LA DOCUMENTAZIONE GRAFICA, FOTOGRAFICA, AEROFOTOGRAFICA, AUDIOVISIVA E FILMOTECA REGIONALE SICILIANA (a cura di), Castelli medievali di Sicilia, Palermo 2001, p. 420. 15 A. GIARDINA – F. S. CALCARA – V. NAPOLI – G. L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano, Palermo 20102, p. 35.
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
97
Vengono edificate nuove chiese, quali Sant’Agostino, San Girolamo, San Giorgio (fig. 2), Santa Chiara, san Giacomo e San Giovanni (la vecchia). I pochi elementi architettonici, ancora oggi riconoscibili, risalenti a questo periodo, sono alcuni portali con arco a sesto ribassato, caratterizzati da stilemi gotico-catalani. Nuovi matrimoni intrecciano i rapporti tra il regno di Aragona e il regno di Castiglia. Anche il regno di Sicilia entra, Fig. 2 - Portale ex chiesa di dunque, a far parte dei vasti possedimenti San Giorgio del nuovo regno di Spagna di cui condividerà le sorti. Infatti, il 18 giugno 1492, con un editto Ferdinando il Cattolico impone, dopo un lungo deterioramento dei rapporti di convivenza tra le popolazioni cristiane ed ebraiche, che gli ebrei devono convertirsi al cristianesimo o abbandonare per sempre la Spagna e tutti i territori annessi. Sappiamo che in Sicilia, fin dall’epoca della dominazione romana, gli Ebrei hanno vissuto pacificamente con le etnie presenti, sebbene spesso sottoposti a limitazioni. Ogni comunità ebraica16 dispone almeno di una “sinagoga”, attorno alla quale ruota l’attività rituale e liturgica della comunità; l’edificio di culto, inoltre, funziona anche come spazio di studio e di ritrovo. Capo spirituale della comunità è il “rabbino”, il quale presiede i riti e le cerimonie. Con l’editto di espulsione del 1492, anche le comunità ebraiche siciliane vengono espulse; i loro beni immobili vengono confiscati dal potere regio e venduti. Alcuni studi evidenziano che in 16
Tra le attività economiche e le professioni praticate prevalentemente dagli Ebrei ci sono il commercio e l’artigianato. Le attività legate alla lavorazione della seta e alla concia delle pelli, in Sicilia, erano gestite quasi esclusivamente dalle comunità ebraiche.
98
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
quel periodo diverse sinagoghe sono adattate a chiese; sappiamo, ad esempio, che le sinagoghe di Salemi e Calascibetta diventano chiese e vengono intitolate a Santa Maria della Catena. Anche a Castelvetrano è documentata la presenza di una piccola comunità ebraica; Alberto Rizzo Marino17, parlando dell’ambiente ebraico mazarese nei secoli XIV e XV, riferisce, ad esempio, di un processo contro un artigiano ebreo di nome Beniamino De Manueli, residente a Castelvetrano. Altri due atti,18 relativi alla salvaguardia regia, decretata il 28 maggio 1492 dal viceré Ferrando de Acugna e sulla riscossione di tributi19 dovuti al re, riferiscono di una giudecca20 nella terra di Castelvetrano.21
17
Cfr. A. RIZZO MARINO, Gli Ebrei di Mazara nei secoli XIV e XV, in «Rassegna delle Provincia di Trapani» 9 (1966), p. 25. 18 Ibidem. 19 Cfr. C. TRASSELLI, Sull’espulsione degli Ebrei dalla Sicilia, in «Annali della Facola di Economia e Commercio dell’Università di Palermo» 8 (1954), pp. 140-141. Secondo il Trasselli, volendo fare un’analogia con altre due comunità emblematiche dell’Isola, a Ciminna vi erano 8-9 fuochi e ad Augusta 6-7. La popolazione di Castelvetrano nel 1595, era costituita da 10.229 persone per 1323 fuochi (cfr. G. GANGEMI – R. LA FRANCA, Centri storici di Sicilia, Palermo 1979, p. 679); considerando una famiglia media ebrea composta da sei persone, la comunità costituiva circa l’1% della popolazione totale. Inoltre, dalla rata annuale che la comunità ebraica di Castelvetrano doveva pagare al re, di importo pari a 2 once e 21 tari, tenendo conto che ogni famiglia ebraica era gravata mediamente da una tassa di circa 0,20 once annuali, si può ipotizzare che la comunità ebraica della giudecca castelvetranese poteva essere costituita da un nucleo di 10-12 famiglie circa. 20 Di recente lo studio da noi pubblicato:P. Calamia, M. La Barbera, G. Salluzzo, Castelvetrano e gli ebrei nel sec. XV, Lions Club Castelvetrano, Castelvetrano 2015, ha accertato la presenza della giudecca a Castelvetrano, documentata attraverso una esauriente ricerca di fonti di archivio. 21 Alcuni toponimi ancora oggi conservati nel territorio potrebbero fornire lo spunto per nuove ricerche ed approfondimenti. A poca distanza dal centro urbano sono presenti, inoltre, due toponimi: la “Stidda”, in prossimità del val-
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
99
Alcuni toponimi quali Catena, Conceria e Stella (la Stella di Davide è ancora oggi una figura riconducibile al mondo ebraico) possono condurre ai luoghi che furono della comunità giudaica di Castelvetrano; in particolare il primo termine potrebbe indicare il luogo della judeca. Con molta probabilità, l’attuale chiesa Fig. 5 - Pianta chiesa Santa intitolata a Santa Maria della Catena po- Maria della Catena trebbe essere il risultato di trasformazioni edilizie praticate sulla possibile sinagoga. In effetti, l’attuale edificio religioso presenta un impianto architettonico con alcune anomalie. La chiesa ha una pianta di forma rettangolare, caratterizzata da un doppio sistema absidale contrapposto (quello prospiciente sulla strada è stato adattato ad ingresso della chiesa). Questo, ad una prima indagine visiva, può rimandare ad una possibile sinagoga ad unica aula con ai lati corti l’aron e la bimà, similmente ad alcune scholae realizzate in ghetti nella prima metà del XV secolo (fig. 5). Lo stabilirsi nella città di Castelvetrano di alcuni ordini religiosi come Francescani, Carmelitani, Agostiniani e Domenicani contribuisce a rendere sempre più omogeneamente cattolica la popolazione della città. Gli edifici religiosi cominciati a costruire tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo rimarcano ancora la presenza di elementi tipici della tradizione normanno-sveva e goticocatalana, sebbene con l’aggiunta di nuovi elementi architettonici rinascimentali, come si osserva nelle fabbriche della nuova chiesa madre, nella cappella della Maddalena e nella chiesa di Santa Maria di Gesù (oggi San Domenico). lone Racamino, piccolo affluente del fiume Modione, e il toponimo “Conceria” presente in questa area.
100
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
La chiesa madre presenta una pianta basilicale con doppio transetto a tre navate, il cui riferimento è da ricercare nell’architettura normanna ed in particolare nel duomo di Monreale. L’apparato architettonico interno, invece, segue il gusto rinascimentale ed è composto da archi a Fig. 6 - Chiesa Madre pieno centro sorretti da colonne in calcarenite. All’esterno, il sistema absidale presenta un coronamento con merli tardomedievali. Anche la facciata con rosone presenta un disegno tipicamente medievale, mentre il portale con doppie paraste corinzie e timpano triangolare è rinascimentale (figg. 67). La cappella della Maddalena, all’interno della chiesa madre, è a pianta centrica con cupola emisferica impostata su spicchi angolari; un sistema compositivo di tradizione arabonormanna. Questo spazio viene modificato dallo stuccatore Tommaso Ferraro in un am- Fig. 7 - Pianta chiesa Madre biente rinascimentale, con riferimenti fiorentini e bramanteschi. La chiesa di Santa Maria di Gesù, iniziata nel 1470, presenta una pianta a tre navate separate da arcate ogivali su pilastri. Durante i lavori di ammodernamento, voluti dalla famiglia Tagliavia Aragona, l’edificio medievale subisce un notevole cambiamento. Viene innalzata la navata centrale, sostituito il portale di ingresso, chiuse le finestre originarie a sesto acuto e risagomati gli arFig. 8 - Chiesa San chi della navata centrale. Il nuovo spazio Domenico ottenuto viene completato, ad opera di An-
Architettura e religione nel medioevo castelvetranese
101
tonino Ferraro da Giuliana, con un apparato decorativo di gusto manierista (fig. 8). Questi sopra descritti sono forse gli ultimi esempi in Sicilia di sincretismo culturale in architettura. Con il successivo e definitivo affermarsi, anche a Castelvetrano, dello stile rinascimentale si esaurisce, pertanto, quel linguaggio eclettico tardomedievale che è l’ultima testimonianza della millenaria cultura multireligiosa del territorio. Da questo momento il conformismo politico, culturale e religioso voluto dai nuovi dominatori caratterizzerà la storia dell’intera Sicilia, facendo assurgere l’“uniformità” e l’assolutismo a valori portanti della nuova struttura sociale.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo*
1. Federico II e la riserva di caccia L’Imperatore Federico II (1194-1250) è una delle figure più rilevanti e discusse del medioevo europeo. Egli pur essendo un uomo del suo tempo, grazie ai suoi interessi multiculturali e il suo tentativo di dialogo con le diverse culture del Mediterraneo, affascina ancora oggi ed è oggetto di vivaci discussioni critiche. Federico nasce a Jesi nel 1194, suo padre era l’Imperatore Enrico VI; sua madre era la principessa normanna Costanza d’Altavilla, erede del Regno di Sicilia. A quattro anni Federico resta orfano di entrambi i genitori, ma con un’eredità immensa: ai titoli e ai possedimenti del padre in Germania si univano quelli della madre nell’Italia meridionale. Prima della morte, Costanza d’Altavilla nominò il papa Innocenzo III tutore del figlio e reggente del regno; in Germania la reggenza è assunta dallo zio Filippo di Svevia. Dalla reggenza pontificia ebbero a giovarsi soprattutto la chiesa e i baroni del regno, i quali si impadronirono *
La struttura complessiva del saggio è stata elaborata insieme dai tre autori; tuttavia, il primo paragrafo è di Mariano La Barbera, il secondo di Giuseppe Salluzzo e il terzo di Pasquale Calamia.
104
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
di parte del Demanio di molti castelli e di una parte delle entrate regge. In Germania il guelfo Ottone IV di Baviera, dopo la morte di Filippo di Svevia, si fa eleggere Imperatore dai principi tedeschi. In un regno medievale la minore età del sovrano, spesso determina una condizione di instabilità. Per affermare la sua sovranità nei suoi possedimenti, il giovane Federico deve sostenere negli anni numerose iniziative militari per contrastare il potere della chiesa, dei baroni e le spinte autonomistiche dei comuni. Nel luglio del 1220 Federico, dopo avere consolidato il potere in Germania e ottenuto l’incoronazione ad Imperatore, ritorna in Sicilia e si adopera per riportare all’obbedienza le comunità islamiche presenti nell’isola.1 Come è noto, durante la dominazione normanna, gran parte di queste popolazioni, ormai sconfitte, vengono inserite nel nuovo ordine sociale e giuridico, rimanendo presenti sul territorio organizzate in proprie comunità e dotate di ampie autonomie. Nel Val di Mazara queste comunità sono maggioritarie rispetto a tutte le altre etnie e la parte interna della Sicilia occidentale è l’area più profondamente islamica di tutta l’isola.2 Alla fine della dominazione normanna e durante la reggenza di papa Innocenzo III, il delicato equilibrio tra le comunità cristiane e le comunità musulmane di Sicilia si spezza per l’assenza di un governo regio e l’accrescere del potere baronale che non esita a saccheggiare anche i territori delle comunità islamiche. La rottura della convivenza tra le due etnie principali della Sicilia cristiano-islamica avrà conseguenze demografiche devastanti per tutta la regione; le comunità musulmane lasciano i territori dove sono in minoranza e, concentrandosi nelle rocca-
1 2
Cfr. F. MAURICI, La Sicilia di Federico II, Palermo 1995, pp. 6 e 21. Ivi, p. 21.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
105
forti della Sicilia occidentale,3 occupano molti territori della chiesa e dei feudatari cristiani loro confinanti. In queste roccaforti del Val di Mazara addirittura ricostituiscono un nuovo emirato,4 staccandosi dall’autorità regia. L’Imperatore, almeno inizialmente, invita le comunità islamiche a rientrare all’interno dell’antico sistema socio economico e a restituire i territori tolti alla chiesa e ai legittimi assegnatari. Le comunità ribelli, dal canto loro, convinte di potere conservare uno stato musulmano libero all’interno del mondo occidentale cristiano, rifiutando gli ordini del re, si preparano allo scontro e alla reFig. 1 sistenza ad oltranza (fig. 1). Federico II scende in campo, fin dall’estate del 1221, entro un territorio topograficamente difficile, densamente abitato da popolazioni musulmane che vivevano protette in numerosi centri fortificati, quali Jato, Entella, Calatrasi, Maranfusa, ecc. L’offensiva militare si conclude, in una prima fase, nel 1225; dopo quattro anni di duri scontri le popolazioni musulmane di Sicilia indebolite dai lunghi assedi e dalla perdita del capo carismatico del jihad Mammad Ibn Abbad, si arrendono al re Federico II, presente personalmente per lunghi periodi nella Valle del Belìce, luogo del conflitto. Anche l’area del Basso Belìce è fortemente interessata da questi eventi storici. Nel territorio costiero, compreso tra le città fortificate di Mazara e di Sciacca, sorgevano numerosi casali musulmani, come risulta dalla descrizione dei geografi Muqaddasi, Idrisi e 3
Ivi, p. 24. Cfr. F. MAURICI, L’emirato sulle montagne: note per una storia della resistenza musulmana in Sicilia nell’età di Federico II di Svevia, Palermo 1987, p. 40. 4
106
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
Ibn Jubayr5 e dai risultati di diversi scavi archeologici:6 Rachasala, Rahal Al Qayd, Biggini, Al Muqaddasi, Baiada, Qasr Ibn Mankud, Pietra Belìce, Summaci, Al Asnam, Calate, Misilindino, Part Hanna. In particolare il casale di Al-Asnam (Selinunte), sito in prossimità della foce del fiume Modione, poteva essere usato come punto di arrivo e di partenza dalle comunità ribelli della Sicilia Occidentale verso i paesi islamici del Nord Africa. Per l’Imperatore, il possesso di quest’area risultava fondamentale per “assediare” le comunità musulmane ribelli del Val di Mazara, impedendo loro, di fatto, le vie di contatto con il Nord Africa. Con molta probabilità, come avviene, in epoca federiciana, per altri casali islamici della Sicilia, gli abitanti di Al-Asnam7 vengono allontanati dalla costa e deportati (fig. 2). Fig. 2
5
Cfr. M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula, trad. it., 2 voll. Torino-Roma 18801881, 2a ed., a cura di U. Rizzitano, 2 voll., Palermo 1988. 6 Cfr. H.P. ISLER, Gli arabi a Monte Iato, in G. CASTELLANA (a cura di), Dagli Scavi di Montevago e di Rocca di Entella un contributo di conoscenze per la storia dei musulmani della Valle del Belìce dal X al XIII secolo. Atti del Convegno nazionale. Sala consiliare del Comune di Montevago, 27-28 ottobre 1990, 1992, pp. 105-125. Si veda, inoltre: G. NENCI [et alii], Entella. Ricognizioni topografiche e scavi, 1983-1986, in «Atti della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di lettere e filosofia, III s., XVI (1986), pp. 10751104. 7 Una tradizione popolare molto diffusa, riportata anche in alcune lapidi del XVII secolo applicate nella fontana della Ninfa, nella porta Garibaldi e all’interno del Municipio, vuole che la città di Castelvetrano sia stata fondata dai Selinuntini dopo avere abbandonato la loro città; a nostro avviso, questa tradizione nasce dal trasferimento forzato dei Musulmani dal casale di AlAsnam, luogo dell’antica Selinunte, in un casale in prossimità dell’attuale Castelvetrano.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
107
Una parte dell’area pianeggiante del Basso Belìce, tolta alle popolazioni musulmane, è stata utilizzata come riserva di caccia8 dell’Imperatore Federico II di Svevia, come evidenziano gli studi condotti da Henri Bresc. Questo territorio, grazie alla sua particolaFig. 3 re orografia, alla ricchezza della vegetazione e all’abbondanza di cacciagione, si prestava per le attività di caccia (fig. 3). Si tratta di una fertile pianura,9 attraversata dai fiumi Arena, Modione e Belìce che, straripando durante il periodo invernale, formano vasti acquitrini10 in prossimità delle foci. Queste vaste aree umide, distribuite lungo una delle principali rotte di migrazione dell’aviofauna, diventano aree di nidificazione e di svernamento di numerose specie acquatico-paludicole di uccelli: anatre, aironi, fenicotteri, gru, beccaccini, folaghe, martin pescatore, ecc. Nel territorio erano presenti, anche, diverse aree boschive, praterie e sistemi dunali; habitat adatto per altre specie
8
Cfr. H. BRESC, Un monde méditerranéen. Economie et société en Sicile. 1300-1450, Roma-Palermo 1986, vol. I, p. 94. 9 Una pianura con una estensione pari a circa 20.000 ha. 10 Nel Dizionario topografico della Sicilia, del 1752, V. AMICO afferma: «Gli amplissimi prati di Castelvetrano abbondano di vene d’acqua, ed in alcuni luoghi sono paludosi, chiusi trai fiumi Arena e Madiuno, per cui l’aria è poco salubre; ma lussureggiano i campi per l’ubertà delle biade, pei lietissimi pascoli che nutrono copiosi armenti: i vini vi sono singolari e squisiti, l’olio, i frutti, il mele sempre vi abbondano, come anche vi hanno delle miniere di bianchissimo sale; nei boschi aperti e spaziosi albergano cinghiali in gran copia ed altre fiere da caccia presentando ai Principi giocondo divertimento». V. AMICO, Dizionario Topografico della Sicilia, trad. e note di G. Di Marzo, vol. I, Palermo 1855, p. 264.
108
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
di uccelli sedentarie e migratrici: quaglie, fagiani, pernici, beccacce, galline prataiole, coturnici sicule, ecc. Le acque salmastre delle foci dei fiumi sono popolate da rane e raganelle, e sono percorse da numerose specie di pesci, che risalgono, nel periodo riproduttivo, il corso dei fiumi; era possibile pescare con facilità spigole, alose, storioni, muletti, cefali, capitoni e anguille. Nei diversi habitat che costituivano la riserva erano presenti numerosi rettili: vipere, colubri, sauri, ramarri, lucertole e gechi. Il sistema dunale costiero veniva utilizzato da molte specie di tartarughe e testuggini marine per la riproduzione. All’interno della folta macchia mediterranea11 vivevano, all’epoca, numerosi ricci, lepri, arvicole, istrici, cinghiali e daini. La presenza di cinghiali e di daini è confermata, almeno fino al XVII secolo, dalla descrizione del feudo di Belìce fatta dal canonico G.B. Noto.12 La ricchezza di fauna sosteneva la presenza anche di numerosi predatori: martore, donnole, faine, lontre, volpi, lupi e gatti selvatici. Numerose erano anche le specie di rapaci presenti nell’area: falchi, poiane, nibbi, sparvieri, grillai, grifoni, gufi, civette, allocchi, avvoltoi degli agnelli, ecc. Sporadicamente, era 11
Cfr. G.B. FERRIGNO, Arti popolari a Castelvetrano: inedito del 193; Teatro e giuochi a Castelvetrano: inedito del 1931, Castelvetrano 2001, p. 90. Nella descrizione della caccia, Ferrigno afferma: «Un capitano di caccia, nominato dal feudatario del luogo, sopraintendeva, con l’aiuto di un adeguato numero di campieri, alla custodia delle riserve del principe di Castelvetrano. Marinella, Cavallaro, Dimina, erano in gran parte boschivi, boschiva era quasi tutta la baronia di Berribaida, che prendeva il nome di Foresta. Vi abbondavano i cinghiali, i daini, le lepri, i conigli, le pernici, i francolini. I Viceré con loro numeroso codazzo di cavalieri, venivano spesso da queste parti a far le loro partite di caccia. Ce ne fu uno, il conte di Santo Stefano, che ci venne per sei o sette anni di seguito. E non solo portava via l’abbondante caccia […]». 12 Cfr. G.B. NOTO, Platea della palmosa Città di Castelvetrano. Suo stato, giurisdizione, baronie e contea del Borgetto aggregati, 1732, ms. nella Biblioteca comunale di Castelvetrano, ai segni 21.X.14.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
109
possibile vedere volteggiare anche aquile reali e di Bonelli, presenti in quel tempo sui vicini monti Sicani. La vegetazione, come risulta da alcuni frammenti superstiti dell’antica foresta, rimasti inalterati in prossimità delle parche di Bilello13 e nell'area costiera che si estende da Triscina a Tre Fontane, era varia e profondamente condizionata dalle locali caratteristiche ambientali. I lecceti, posti nelle zone più alte ed in prossimità dei corsi d’acqua, si univano alle grandi distese di roverelle, bagolari, pioppi, corbezzoli, carrubi, gelsi neri, platani, sughere ed olmi; distribuiti su tutto il territorio, erano molti olivastri e pini mediterranei; nelle zone più basse, lungo la costa e nelle dune, diversi pioppi neri e canneti. La Foresta di Birribaida,14 il cui nome è la storpiatura del toponimo francese Beaurepaire, il castello di Biancofiore nella letteratura del ciclo arturiano, diviene in questa parte della Sicilia il luogo ideale per l’Imperatore Federico II, cultore della natura ed appassionato di caccia.15 Dopo la sottomissione delle popolazioni musulmane, Federico rivolge la sua attenzione verso le città dell’Italia del nord e l’organizzazione della crociata, più volte promessa al papa. Federico II si impossessa di Gerusalemme e dei luoghi santi attraverso accordi con il sultano d’Egitto. Le critiche del papato per come Federico II ha condotto la crociata e il rifiuto dei comuni di rinunciare alle loro autonomie, impegneranno
13
Le parche di Bilello, all’interno del territorio di Castelvetrano, nelle contrade Bresciana e Canalotto, sono caratterizzate da rocce calcarenitiche affioranti, ricoperte da una rigogliosa vegetazione spontanea. 14 Nonostante l’intero territorio del Basso Belìce sia oggi coltivato ad uliveti e vigneti, si conservano numerosi toponimi – Bosco della guardiola, Macchia di Lupo, Bosco nuovo, Margio rotondo, Bosco di Belìce – che evidenziano l’antica presenza di aree boschive ed acquitrinose. 15 Cfr. E. KANTOROWICZ, Federico II, Imperatore, Milano 1978.
110
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
l’Imperatore in diverse azioni militari che lo terranno lontano dalla Sicilia. A partire dal 1231, per contrastare alcune rivolte, avvenute nel regno di Sicilia, Federico destina una parte rilevante delle entrate statali alla difesa Fig. 4 del Mezzogiorno. Necessario era stabilire il controllo imperiale sulle principali fortezze, nonché costruire e potenziare i castelli regi, nelle aree di maggiore interesse per la corona. Anche nel Basso Belìce,16 Federico II, come era solito fare nelle grandi riserve di caccia, fa costruire edifici per lo svago e per il controllo dell’area turris Burgimillus,17 castrum Bellumreparum,18 castrum Bellumvider.19 (fig. 4). La torre di 16
Il professore Henri Bresc, uno dei maggiori studiosi europei della Sicilia medioevale, ha pubblicato recentemente nel volume Quei Maledetti Normanni, per la collana MEDIEVALIA, edita dal Centro Europeo di studi Normanni, un’interessante ricerca La ricostruzione della Val di Mazara sotto Federico II e Manfredi: Corleone e Regale. Il contributo scientifico per la nostra zona tratta della fondazione di Regale, voluta da Manfredi di Svevia sulle antiche rovine di Selinunte. Particolare risalto l’Autore dedica alla ricostruzione sveva del Basso Belìce: «Federico vi ha stabilito una vasta riserva di caccia e fatto costruire tre edifici fortificati, due castelli, Belripayri (Birribaida, Campobello di Mazara) e Belvedere (Castelvetrano), separati da appena 5 km, e una torre, Burgimillusu (Menfi), senza dubbio tutti e tre residenze di caccia, ma di dimensioni e con forme eccezionali. Confermando l’importanza che l’Imperatore ha dato a questa parte della Sicilia e avvalorando gli studi condotti dagli architetti castelvetranesi P. Calamia, M. La Barbera e G. Salluzzo che nel 2004 scoprono le rovine del Castrum Bellum Videre contenuto nel palazzo ducale di Castelvetrano». 17 Cfr. E. LESNES, Burgimilluso, in AA.VV., Castelli medievali di Sicilia, Palermo 2001, p. 109. 18 Ivi, p. 420. 19 Ibidem.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
111
Burgimillus20 viene realizzata lungo l’antica strada Sciacca-Mazara, a controllo del lato orientale della riserva. Oggi i resti di questo edificio si trovano ubicati all’interno dell’attuale centro urbano di Menfi. Il castrum Bellumreparum, annoverato nella lista dei castra exempta21 Fig- 5 del 1239, viene costruito all’interno della riserva di caccia; i resti di questo edificio ricadono all’interno del comune di Campobello di Mazara.22 Il castrum Bellumvider (fig. 5), anch’esso inserito nella lista dei castra exempta del 1239, è stato realizzato in posizione dominante a controllo della parte settentrionale della riserva di caccia; oggi parti significative di questo castello sono visibili all’interno del palazzo Pignatelli di Castelvetrano. Nel 1239 l’Imperatore, da Lodi, si interessa personalmente della riorganizzazione dell’area del Basso Belìce, dove erano probabilmente in attività i cantieri dei tre castelli (fig. 6), ordinando a Raimondo de Amicis, giustiziere nella Sicilia occidentale, di insediare un Fig. 6 nuovo abitato nel territorio dema-
20
La torre federiciana è andata in parte distrutta a causa del sisma del 1968. Cfr. J.L.A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia Diplomatica Friderici Secundi [...], VI vol., Parigi 1852-1861, rist. anast., Torino 1963, p. 414. 22 «Come residenza di svago e caccia venne con molta probabilità costruito in età federiciana il castello di Bellumrepar». F. MAURICI, La Sicilia di Federico II, cit., p. 56. 21
112
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
niale di Burgimilluso che, come abbiamo già visto, corrisponde all’attuale Menfi. I castelli demaniali del basso Belìce, con molta probabilità, hanno ospitato parte delle truppe imperiali inviate nel Val di Mazara per contrastare le ribellioni delle popolazioni musulmane. Infatti, gli Islamici di Sicilia, dopo circa quattordici anni dalla fine della prima guerra musulmana, si ribellarono nuovamente all’Imperatore; sono le ultime disperate manifestazioni di insofferenza che sfociarono nel 1243, in una nuova guerra.23 Le comunità musulmane abbandonano i casali poco difendibili e si concentrano, come avevano fatto durante la prima ribellione, nei casali fortificati di Jato ed Entella.24
23
«Intorno al 1239 la residua popolazione saracena di Sicilia era di nuovo in subbuglio. I pastori che avevano preso in gabella le greggi della corte, non potendo pagare quanto pattuito, erano minacciati di lavori forzati nei castelli di Lentini e Siracusa; altri saraceni casalium trasferitisi (o più probabilmente trasferiti) a Palermo, nell’antico quartiere islamico del Seralcadi (il Transpapireto) non manifestavano alcuna volontà di stabilirvisi e Federico si sforzava per bona verba di convincerli promettendo loro favorem et gratiam». F. MAURICI, La Sicilia di Federico II, cit., p. 35. 24 «Erano le ultime manifestazioni disperate di insofferenza, sfociate nel 1243 in rivolta aperta, secondo l’antico copione: fuga ed asserragliamento ad Jato ed Entella». F. MAURICI, La Sicilia di Federico II, cit., p. 35
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
113
Nel 1246,25 le truppe imperiali sconfiggono le popolazioni islamiche e anche gli ultimi esponenti della resistenza musulmana sono relegati a Lucera, in Puglia; i pochi sopravvissuti, dispersi tra le pieghe di un tessuto demografico sempre più omogeneamente latino e cattolico, decretarono di fatto, di lì a Fig. 7 poco, la scomparsa della componente musulmana dalle etnie siciliane (fig. 7). La scomparsa violenta della componente islamica siciliana e la conseguente crisi del villanaggio determinano, nel Val di Mazara, la scomparsa di decine di abitati d’altura incastellati e centinaia di piccoli casali. Recentemente l’archeologa Martine Fourmont,26 attraverso gli studi dell’isolato FF1 di Selinunte Fig. 8 (fig. 8) e la presenza di monete dell’epoca di Manfredi rinvenute in situ, ha avanzato l’ipotesi 25
«Nell’estate di quell’anno (1245) l’Imperatore inviò un ultimatum ai guerriglieri non escludendo di trattare con una certa indulgenza quanti si fossero immediatamente sottomessi, scendendo de montanis ad planitiem. [...] nel novembre 1246 egli scrisse però a Ezzelino da Romano annunziandogli trionfalmente che anche gli ultimi ribelli erano finalmente discesi […] Jato ed Entella vennero abbandonate, , come mostrano drammaticamente gli scavi: gli ultimi esponenti della resistenza musulmana furono spediti anch’essi a Lucera». F. MAURICI, La Sicilia di Federico II, cit., p.3 26 M. FOURMONT, Selinunte: una breve storia della ricerca, Castelvetrano 2008. Relazione svolta in occasione della inaugurazione del Campus Archeologico Museale (CAM) di Triscina di Selinunte.
114
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
che Selinunte medievale sia da relazionare con la presenza del castello federiciano e la foresta di caccia dell’Imperatore. Anche l’area del Basso Belìce rimane priva di centri abitati ad esclusione del casale di Partanna e della terra di Castelvetrano. Dopo la morte di Federico II e la conquista angioina, l’area occupata dalla foresta di Birribaida con i castelli demaniali viene infeudata e assegnata alle famiglie nobili dei Lentini, Nigrello e Blanquefort che avevano sostenuto il papato e i Francesi nella lotta contro gli Svevi (fig. 9). Soltanto una piccola parte della foresta resterà demaniale sotto la corona di Federico III d’Aragona, ma di lì a poco, approfittando della debolezza e della inettitudine della casa reale aragonese, alcuni nobili vicini al Vicario27 Guglielmo Peralta si impossessano di questa area demaniale. Nel XIV secolo, i boschi e la fitta macchia mediterranea della federiciana foresta di Birribaida lasciano progressivamente il posto a fertili campi coltivati dai nuovi siFig. 9 gnori.
27
Durante la dominazione aragonese, coesistono due categorie di feudatari: un baronaggio latino di origine normanno-sveva che, per essersi naturalizzato, poteva considerarsi indigeno, e quello catalano portato dagli aragonesi, meno numeroso, ma che godeva della protezione dei sovrani. I contrasti tra i baroni indigeni e quelli catalani sfociano in una guerra aperta che si concluse grazie ad un accordo tra i baroni più potenti dell’isola. Con questo accordo si stabilisce di affidare il governo a quattro Vicari scelti tra le famiglie più rappresentative per ceto e nobiltà. Questi Vicari, in realtà, governano la Sicilia favorendo soltanto le proprie famiglie e i baroni loro alleati.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
115
2. L’architettura sveva nel basso Belìce Se l’architettura medievale che ci rimane in Italia dei tempi normanni è prevalentemente religiosa (vedi la chiesa della SS. Trinità di Delia a Castelvetrano), quella degli Svevi è essenzialmente militare (vedi Castel del Monte ad Andria), ed è anche fortemente segnata dalla personalità di Federico II di Hohenstaufen (fig. 10). La creazione di una rete di castelli demaniali posti a controllo del regno è uno degli aspetti principali della politica di rafforzamento del regnum meridionale e del potere imperiale. L’introduzione della tipologia architettonica del castello-fortilizio è legata Figura 10 alla conquista normanna; prima dell’arrivo dei Normanni, trattare di castelli in Sicilia significa parlare soprattutto di kastra, di centri abitati e città fortificate del thema bizantino, e di husun, qila e mudun, che designano in genere il centro abitato cinto da mura (fig. 11). Le strutture castellari federiciane sono strettamente legate alla lezione costruttiva dell’ordine cistercense: la Fig. 11 tradizione architettonica normanna dei dongion è abbandonata, quasi rinnegata, maggiore attenzione viene rivolta alle costruzioni militari islamiche. È fuori di dubbio che anche nella Sicilia bizantina e islamica esistettero edifici fortificati, totalmente isolati o integrati nella cinta muraria di un kastron o di una madina; gli esempi rimasti in Sicilia sono il forte di Selinunte e il fortino di Mazzallakkar a Sambuca di Sicilia,
116
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
costruzioni che rientrano fra il castellum d’epoca tardo romana o bizantina e il ribat d’età islamica (fig. 12). Il monopolio dell’erezione di castelli, a partire dal 1220, con Federico II passa esclusivamente, di fatto e di diritto, alla corona. Un celebre documento del Fig. 12 1239, la lista dei castra exempta,28 permette di conoscere alcuni dei castelli demaniali, amministrati direttamente dall’Imperatore che ne nominava ed eventualmente rimuoveva i castellani. Non si tratta di tutti i castelli demaniali dell’Isola, ma di un gruppo che, per particolare rilevanza, non necessariamente soltanto militare, sottostava ad uno speciale regime giuridico. I castelli di Siracusa, Augusta, Catania e il Castel del Monte ad Andria definiscono gli elementi tipologici dell’architettura imperiale: corpo di fabbrica a matrice geometrica, torri angolari e mediane, muri a scarpa, fossati, volte a costoloni, pietra squadrata, forma ottagonale, misure salomoniche e orientamenti astronomici (fig. 13). Con l’emanazione nel 1231 delle Costituzioni melfitane, l’Imperatore Fig. 13 svevo avvia la grande riforma ammi-
28
Nella Sicilia citra Salsum i castra exempta erano quelli di Messina, Siracusa, Caltagirone, Milazzo, Aci, Enna, Taormina, Nicosia, Monforte, Rometta, Scaletta, Sperlinga, San Fratello ed un misterioso Palmerium. Nella Sicilia ultra il gruppo comprendeva i castelli di Palermo, Termini, Calatafimi, Calatamauro e Licata, oltre ai due castra di Bellumreparum e Bellumvidere.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
117
nistrativa del Regno. Il progetto29 organizzativo dello stato prevede, tra il 1232 e il 1240, anche la ristrutturazione e la realizzazione di numerosi edifici civili, castelli necessari per ricevere la corte durante i suoi continui spostamenti e ospitare le guarnigioni poste al controllo del territorio e domus solaciorium, campi venatori e acquari,30 quasi sempre fortificati anche se finalizzati a supportare logisticamente le attività di caccia. Castelli «forestali» e residenze venatorie erano quasi certamente Bellum videre (fig. 14) e Bellum reparum ed ancora Burgimill in Sicilia occidentale, che l’Imperatore svevo fa realizzare a servizio e controllo del territorio attorno l’attuale Castelvetrano e della grande riserva di caccia di Birribaida; ben tre edifici fortificati ricordati da documenti della cancelleria sveva (fig. 15).
Fig. 14
29
Fig. 15
Federico II di Svevia «Fu un fondatore di città e progettò molti castelli, [...]. L’Imperatore fece eseguire – e ne seguì personalmente l’erezione come provano le lettere a Tommaso da Gaeta – un numero assai importante di castelli nelle Puglie e in Sicilia, da quello di Foggia a quello di Lucera, a Castel del Monte, a Lagopesole, a Castel Maniace di Siracusa». E. CASTELNUOVO, Rappresentare ciò che esiste come è, pubblicato nel 1983 in Storia dell’arte italiana di Einaudi. 30 Cfr. G. AGNELLO, L’architettura sveva in Sicilia, Roma 1935, rist. anast. Siracusa 1986, pp. 103-110.
118
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
La turris di Burgimillus,31 ubicata all’interno dell’attuale centro urbano di Menfi, originariamente era isolata, formata da due corpi affiancati a pianta quadrata, sfalsati l’uno rispetto all’altro. Nella rientranza del lato occidentale, era inserita la scala di accesso al primo piano. L’interno dell’edificio, diviso in tre piani, risultava coperto a crociera al piano terra e ad ombrello nei piani superiori. L’edificio fu fortemente danneggiato dal terremoto del 1968 e fu Fig. 16 quindi distrutto e sostituito da una struttura moderna (fig. 16). Per quanto riguarda il castrum Bellum videre, inserito nella lista dei castra exempta, è stato da noi identificato nel 2004 grazie ad alcune strutture medievali inglobate tra le fabbriche successive del Palazzo ducale di Castelvetrano, che hanno quasi del tutto mascherato le preesistenze. Il toponimo ‘Belvedere’, infatti, dal latino Bellum videre, è ancora oggi il nome di un’area dell’abitato di Castelvetrano, come già notato anni fa da Ferdinando Maurici.
31
La torre federiciana è andata parzialmente distrutta a causa del sisma del 1968.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
119
Il rilievo dei resti architettonici, inglobati tra le strutture del palazzo ducale Tagliavia,32 ha illustrato un complesso fortificato precedente il palazzo secentesco (fig. 17). Su questa costruzione, a nostro avviso, è necessario fare alcune brevi considerazioni. Il nucleo centrale33 del comFig. 17 plesso architettonico consiste in un grande impianto quadrilatero, con corte centrale interna e una torre angolare superstite di forma ottagonale. A questo nucleo sono stati aggiunti, in epoche diverse, numerosi corpi di fabbrica, fino a raggiungere l’attuale facies del palazzo (fig. 18).
32 Nel Dizionario topografico della Sicilia, V. Amico cosi descrive la città: «È certamente Castelvetrano ricco ed abbondante, e siede in un campo un poco declive verso Scirocco, con larghe e rette vie, e magnifica rocca, dov’è il palazzo del Barone, la quale comprende il tempio di S. Pietro, ornato dal 1670 di insigne collegio canonico; […] La fortezza situata un giorno poco sopra dell’antica città, percossa da un fulmine ruinò, e gli avanzi ne esistono». V. AMICO, Dizionario Topografico della Sicilia, trad. e note di G. Di Marzo, vol. I, Palermo 1855, pp. 263-264. 33 «Per quanto antica sia questa città di Castelvetrano non si vede in essa altro antico monumento permanente; se non che un gran castello il quale, facendo parte del gran Palazzo del Principe, si trova quasi tutto riformato, che appena dell’antichità se ne osserva un’alta torre ottagonale, ed alcuni altri pezzi di mura del castello di Ponente ed a Mezzogiorno, con alta torre quadrata verso Libeccio, alla quale sono state attaccate altre fabbriche. Il castello era quadrato con quattro torri agli angoli, due delle quali sono esistenti come si disse, che sono l’una a greco e l’altra a libeccio, quella che era a scirocco fu smantellata allorché vi si fondò la collegiata; e l’altra a maestro di struttura gotica fu pure smantellata modernamente l’anno 1794 e rifatta dell’istessa grandezza e forma ma di diverso ordine». G. VIVONA, Descrizione di Castelvetrano, ms. del 1805, Biblioteca comunale di Castelvetrano.
120
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
La torre ottagonale34 (fig.19), costruita in piccoli conci di calcarenite, presenta all’esterno un volume compatto e massiccio, nonostante le semplici riseghe orizzontali. Essa si sviluppa su tre livelli. Il piano terra, accessibile mediante un lungo corridoio che si apre nell’androne del palazzo, preFig.18 senta all’interno un vano circolare coperto da una volta ad otto vele a costoloni, simile alle volte realizzate nelle torri del Castello Ursino e del Castel del Monte. Al terzo livello, il vano è coperto da una volta ombrelliforme, simile alla copertura della torre di Federico ad Enna ed alla torre della Colombara di Trapani.35 Fig. 19 34
«Incastrata tra le fabbriche di questo vasto edifizio vedesi una torre ottagona costruita in piccoli conci, il cui piano è coperto da volta ad otto vele di sesto acuto con costole rilevate negli spigoli. Al terzo piano la volta è emisferica. Il lato esterno dell’ottagono è lungo m. 3 circa; lo spessore del muro al 2° piano e di m.1 circa. Nel lato del cortile contiguo alla torre vedesi al 1° piano una finestra rettangolare con sopracciglio gotico a doppia squadra. 15° secolo». G. POLIZZI, Catalogo dei monumenti d’arte e di antichità della provincia di Trapani, Trapani 1877, p. 44. 35 G. AGNELLO, a proposito della descrizione del secondo piano della torre di Federico di Enna, scrive: «In qual modo si chiudeva la bella torre ottagona? Mensole e capitelli, obbedendo alle stesse ragioni estetico-costruttive del pianterreno e, colla variazione delle semicolonne, a quelle imperanti anche nel primo piano, ci portano al riconoscimento della volta la quale, tuttavia, non doveva conservare lo slancio delle due sottostanti». G. AGNELLO,
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
121
L’edificio castelvetranese, di pianta rettangolare, è ruotato, rispetto all’asse est-ovest, di circa 23° e mezzo; una scelta che potrebbe sottendere un preciso orientamento astronomico. Tale angolo, infatti, è la declinazione che il sole raggiunge durante i solstizi. Anche Castel del Monte, Figura 20 orientato rispetto alla declinazione terrestre, sembrerebbe obbedire a rapporti dettati dall’astronomia e dalla matematica (fig. 20). La zona centrale, con corte interna, conserva due corpi edilizi ad est ed ovest, realizzati al piano terra in muratura a vista, costituita da conci di calcarenite, messi in opera con una leggera scarpa. In queste murature, prospicienti il cortile interno, si aprono alcune porte, caratterizzate da un profilo che può paragonarsi a quello della porta Fig. 21 d’ingresso della scala esistente nella torre di Federico ad Enna (fig. 21).
L’architettura sveva in Sicilia, Roma 1935, rist. anast. Siracusa 1986, p. 374. Come si evidenzia nel disegno della sezione della torre, l’ultima copertura doveva essere di tipo ombrelliforme. Anche la torre della Colombara a Trapani, infatti, presenta una forma prismatica ottagonale, in cui l’ultimo piano è coperto da una volta ad ombrello con costoloni smussati che poggiano su otto semicolonne con capitelli. Cfr. M. Savona, Trapani, torre della Colombara, in AA.V.V., Castelli medievali di Sicilia, cit., p. 445.
122
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
I corpi dei lati nord e sud sono porticati al piano terra, con elementi architettonici e decorativi tipicamente barocchi, che sottolineano il totale rifacimento di questi due corpi di fabbrica durante il XVII secolo. Le strutture di fondazione perimetrali di questi due corpi barocchi sono reaFig. 22 lizzati in pietra squadrata. Sul lato sud si conserva la base di una struttura a pianta ottagonale, realizzata in piccoli conci di pietra calcarea: da un’attenta misurazione, tale base ottagonale risulta ubicata in mezzeria rispetto al vecchio muro (fig. 22). Quindi, si riscontra la presenza almeno di una seconda torre ottagonale del castello che precedette il palazzo secentesco: tale torre aveva dimensioni minori rispetto alla torre angolare già descritta. Superfluo ricordare che torri mediane, anche se realizzate con forme geometriche diverse, sono presenti tanto nel castello di Augusta che nel Castello Ursino di Catania. I resti architettonici precedenti all’impianto del palazzo ducale, in via di prudente ipotesi di lavoro, consentono di avanzare uno schizzo di ricostruzione dell’impianto medievale. Potrebbe essersi trattato, almeno nel progetto iniziale, di un grande complesso edilizio a pianta rettangolare con corte interna, munito forse di quattro torri angolari di forma ottagonale e quattro torri mediane anch’esse ottagonali. Certamente oggi rimangono una torre ottagonale angolare e la base di un’altra, più piccola ma dello stesso perimetro, in mezzeria su uno dei lati (fig. 23).
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
Fig. 23
123
La volumetria del castello si può ipotizzare a due piani; le torri che ipotizziamo esistenti sugli angoli avrebbero potuto, per ragioni di simmetria progettuale, essere simili alla torre ottagonale superstite, che conserva ancora oggi una volta a vele con otto costoloni al piano terra ed una volta emisferica al primo piano, simili a quelle
esistenti nelle torri di alcuni noti castelli federiciani. Il castrum Bellumreparum36 è stato individuato da Henri Bresc all’interno del territorio dell’attuale comune di Campobello di Mazara,37 perché il toponimo francese di origine letteraria Belripayre, largamente diffuso in Francia, in Italia rimane uniFig. 24 co ed è presente solo in questa area (fig. 24). Birribaida, evidente storpiatura del toponimo francese, diviene il nome di questa baronia e ancora oggi è la denominazione di
36
Cfr. J.L.A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia Diplomatica Friderici Secundi [...], VI vol., Parigi 1852-1861, rist. anast., Torino 1963, p. 414. 37 Afferma Ferdinando Maurici: «Come residenza di svago e caccia venne con molta probabilità costruito in età federiciana il castello di Bellumrepar». F. MAURICI, La Sicilia di Federico II, cit., p. 56.
124
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
una contrada rurale, in territorio di Campobello.38 Nonostante l’importanza del castello demaniale omonimo della riserva di caccia dell’Imperatore, gli studiosi ancora oggi non hanno individuato i resti di questo edificio. A nostro avviso l’esatta ubicazione di questo edificio va ricercata Fig. 25 all’interno del palazzo baronale di Campobello. Infatti, l’attuale palazzo presenta una forma rettangolare con corte interna aperta su un lato; come si evince dalla planimetria catastale, è inclinato anch’esso rispetto all’angolo di declinazione terrestre di ventitré gradi e mezzo e presenta al piano terra spessore murari di oltre due metri (fig. 25). A conferma di questa tesi, alcuni studiosi che si sono occupati di Campobello, Paolo Vinci e Enrico Scuderi39 riportano brevi notizie del castello medievale e propongono di identificarlo con il palazzo baronale della città di Campobello. Anche Fazello, alla 38
Campobello, centro urbano di nuova fondazione, sorge a 100 m. sul livello del mare a 6 km. dalla costa, all’interno dell’antico feudo Guardiola della baronia di Birribaida. Il paese comincia ad essere costruito nel 1621 dal barone Giuseppe di Napoli, dopo avere ottenuto la Licentia populandi da Filippo IV di Spagna. Il primo nucleo costituito da 95 case per 234 abitanti si sviluppa lungo la strada antistante il palazzo baronale. 39 Cosi descrivono, nei primi anni del Novecento, il Castello Medievale: «Al giorno d’oggi di torri, torrioni, bertesche, fossati, feritoie, merli e ponti levatoi, non esiste traccia. Solo fa meraviglia la grande spessezza delle mura , di circa due metri o delle stanze quasi sotterranee che servirono sino alla metà del secolo scorso, per carceri. Il resto conserva ancora qualche traccia dell’antica architettura, [...] È sito in via Garibaldi, dirimpetto quasi la madre chiesa e presso il municipio, con ingresso Piazza Galliano». P. VINCI - E. SCUDERI, Campobello di Mazara, in F. NICOTRA (a cura di), Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, vol. II, Palermo 1908, p.19.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
125
metà del XVI secolo, aveva fatto cenno al castello di Birribaida, evidentemente allora ancora riconoscibile.40 Nel 1621, una descrizione contenuta nella Licentia populandi concessa a Giuseppe Napoli da Filippo IV per fondare il paese di Campobello, evidenzia un primo nucleo urbano costruito con la presenza di un castello, di una chiesa, un convento dei padri domenicani. Il castello riportato nella Licentia populandi con molta probabilità, coincide con i resti del castrum di Bellum Reparium che viene trasformato e inglobato nel nuovo palazzo baronale. Se l’ipotesi di ricostruzione del castello di Bellum Videre appare possibile, almeno come intento progettuale, non è assolutamente certo, invece, che l’edificio sia stato interamente ultimato secondo il disegno originario. È, anzi, piuttosto probabile che l’edificio medievale non sia stato mai completato. La stessa cosa potrebbe essersi verificata per l’altro castrum federiciano di Bellum Reparum, vicino al nostro castello di Bellum videre: lo suggerirebbe il fatto che nel 1366 è ricordata soltanto una turri Belripayri: il castello, cioè, era ridotto esclusivamente, o quasi, a una torre. E, d’altra parte, molti studiosi ritengono che anche i grandi castelli federiciani di Catania, Augusta e Siracusa siano rimasti incompiuti.
40
Il Fazello, nella descrizione della città di Selinunte, scrive, riferendosi al territorio oggi di Campobello di Mazara: «sovrasta un rilevato di terra chiamato il Cozo, nella cima del quale si vedono le rovine d’una fortezza, e son dette oggi il Castellaccio. Al piede poi verso settentrione è un castello detto Perribaida, da cui un miglio lontano verso ponente si trova Ramuxara, dove è una di quelle cave di pietra, di cui abbiamo parlato». T. FAZELLO, De Rebus Siculis decades duae, Palermo 1558, trad. it. con titolo Storia di Sicilia, a cura di A. De Rosalia - G. Nuzzo, Palermo 1990.
126
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
L’individuazione di due castra exempta dimenticati per secoli – Bellum videre e Bellum Reparium – insieme alla torre di Burgimillus, conferma, anche in questa parte della Sicilia, la grande attenzione di Federico II di Svevia al progetto architettonico dei castelli forestali nel basso Belìce. Di notevole interesse è il ruolo di trait d’union svolto dal castello di Castelvetrano, rispetto ai più noti esemplari di Catania ed Andria, che concorre a completare il quadro generale Fig- 26 di informazioni sull’edilizia imperale federiciana ed impone una rivisitazione delle conoscenze storiche riguardanti questa parte dell’isola nel XIII secolo (fig. 26). 3. Bellum Videre, Bellum Reparium e la Torre di Bur-
gimillus. Da castelli svevi a residenze baronali Negli anni dopo la morte di Federico II, la Chiesa cerca di aumentare la propria influenza sul Regno di Sicilia e di riappropriarsi dei privilegi perduti. Nel 1254, Innocenzo IV mostra un certo interesse per le aree già demaniali del Basso Belìce ed assegna Castelvetrano e Burgimilluso al notaio calabrese Giovanni di Rocca Imperiale.41 Il pontefice con questo atto, rimasto privo di efficacia, tenta di legare alla Chiesa una famiglia importante del Regno. Sempre in questi anni è documentata nell’area di Castelvetrano 42 la presenza del frate francescano Gandolfo da Bi41
Cfr. E. PISPISA, Il regno di Manfredi, proposte di interpetrazione, Messina 1991, p. 199. 42 Cfr. F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco, S. Cataldo 1988, pp. 49-51.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
127
nasco, un predicatore contrario agli Svevi, impegnato a cercare alleati alla causa guelfa. Nel 1258, re Manfredi, figlio naturale dell’Imperatore sembrerebbe personalmente presente nell’area del Basso Belìce e avrebbe soggiornato nella Torre di Burgimillus.43 Federico II e, in Fig. 27 subordine, Manfredi (fig. 27), in pochi anni con la loro opera trasformano un territorio agricolo e boschivo, ove in origine esistevano alcuni nuclei di popolazioni musulmane, in una vasta riserva regia, corredata di tre castra. Alcuni accenni documentari farebbero pensare alla presenza nell’area, in età sveva, anche di insediamenti di ordini cavallereschi44 e di monaci cluniacensi45 e
43
Dalla torre di Burgimilluso emette il Diploma con il quale conferma il privilegio dato da suo fratello Corrado IV alla città di Palermo e tutte le libertà, gli usi e le consuetudini di cui godeva. 44 La presenza dei cavalieri Ospedalieri di San Lazzaro di Gerusalemme è documentata in contrada Santa Caterina, oggi in territorio di Menfi, località sita ai confini della riserva di caccia in prossimità del fiume Belìce; dove i cavalieri edificano la chiesa di Santa Caterina di Belìce e l’ospedale che secondo la regola dell’ordine è servito a curare i lebbrosi. S. BIVONA, Scritti Storici su Menfi ed il suo territorio, Menfi 1997, pp. 47-52. Il feudo Dimina a Castelvetrano risulta in possesso alla Commenda di S. Maria delle Giummare. L. BUONO - G. PACE GRAVINA (a cura di), S. M. O. M. La Sicilia dei Cavalieri, le istituzione dell’Ordine di Malta in età moderna (1530-1826), Roma 2003, p. 177. 45 La presenza dei cistercensi nel monastero di Delia è confermata dal pagamento delle decime degli anni 1308-1310 in cui è riportato il pagamento del «Monasterium Delie ordinis cistercensium». P. SELLA, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Città del Vaticano 1944, p.120.
128
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
quindi, forse, ad un piano articolato di trasformazione e di messa in valore del territorio. Dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento, sembra annullarsi l’interesse della corte angioina per l’area occupata dalla foresta di Birribaida, che viene suddivisa in feudi assegnati ad alcune famiglie aristocratiche. A partire dal 1283, il casale di Burgimillus è concesso ai notai Stefano De Nicolao e Filippo Guarreschi; successivamente nel 1287 al 1392 la famiglia Manuele è titolare di questa località; il baronato di Burgiomilluso istituito da Giacomo I d’Aragona viene concesso in premio a Corrado Rodolfo Manuele che provvede ad ampliare il maniero federiciano. Nel 1316 la baronia di Burgiomilluso è sottoposta a vari attacchi da parte degli Angioini. In un documento del 1335 ritroviamo Burgimilluso come castello e, successivamente, come Casale, nel 1355. Nel 1392 la baronia è in possesso di Guglielmo Peralta; quindi passa in dote prima a Francesco Ventimiglia e poi a Nino Tagliavia, barone di Castelvetrano. Duecento anni dopo, nel 1549, la baronia di Burgiomilluso diviene contea di Borgetto; il feudatario è Carlo Aragona Tagliavia che ripara ed amplia il vecchio castello federiciano. Nel 1637 con Diego Aragona Tagliavia Pignatelli ottiene la Licentia populandi che darà origine alla città di Menfi. Nel 1869 la torre di Federico II viene adibita a carcere dipendente dalla Regia Giustizia. Il sisma del 1968 la danneggia notevolmente, ed oggi i pochi resti della torre di Burgiomilluso sono visibili all’interno delle moderne fabbriche comunali (fig. 28).
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
129
Il castello di Birribaida o Bellum Reparum, dopo la citazione del 1239, è poi riportato in un elenco di terre e castelli siciliani del 1355 con il toponimo ulteriormente corrotto di Castrum Berruparie46 e, in un documento del 1366, è menzionato come turri Belripayri,47 Fig. 28 abitata, questa, a quel tempo da un solo custode: dal castrum si è passati ad una torre apparentemente isolata. Nel XVI secolo il castello è descritto da Tommaso Fazello e pertanto è ancora riconoscibile. Nel secolo XVII Giuseppe Napoli ristruttura il castello e lo trasforma in residenza baronale; si avvia un processo di trasformazione che cambierà definitivamente il castello medievale in palazzo baronale. Attualmente il palazzo è suddiviso in vari appartamenti ad uso residenziale di diversi proprietari. Per quanto riguarda la terra di Castelvetrano, nel 1271, subito dopo la conquista angioina, la troviamo nei registri della cancelleria assegnata a Giovanni da Lentini,48 signore del Castello e della terra di Castelvetrano, personaggio influente
46
E. LIBRINO, Rapporti fra Pisani e Siciliani a proposito di una causa di rappresaglie nel sec. XIV. Note ed appunti, in «Archivio Storico Siciliano», XLIX (1928), p. 209. 47 P. SELLA, Rationes decimarum Italiae, cit., p.126. 48 L. CATALIOTO, Terre, baroni, e città in Sicilia nell’età di Carlo I d’Angiò, Messina 1995, pp. 148, 216, 217, 290.
130
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
presso la corte di Carlo I d’Angiò e signore anche del castello federiciano di Augusta.49 Nel 1299, con diploma dato in Polizzi, Federico III assegna la terra di Castelvetrano al cavaliere Bartolomeo Tagliavia: […] Concediamo al benemerito e ai suoi eredi per sempre la terra di Castelvetrano, posta in Val di Mazara, terra che era stata concessa da Nostra Eccellenza al nostro traditore Tomaso da Lentini, e a causa del tradimento commesso da Lui contro nostra Maestà, ritornò giustamente e a ragione nelle mani dalla Nostra corte.
Verso la metà del XIV secolo, approfittando della debolezza e della inettitudine del casato aragonese, alcuni nobili vicini al Vicario50 Guglielmo Peralta si impossessano dell’area demaniale di Birribaida e del Castello. Durante la dominazione aragonese, coesistono due categorie di feudatari, un baronaggio latino di origine normanno-sveva che per essersi naturalizzato poteva considerarsi indigeno e quello catalano portato dagli aragonesi, meno numeroso, ma che godeva della protezione dei sovrani. I contrasti tra i baroni indigeni e quelli catalani sfociano in una guerra aperta che si concluse grazie ad un accordo tra i baroni più potenti dell’isola. Con questo accordo si stabilisce di affidare il governo a quattro Vicari 49
P. CALAMIA - M. LA BARBERA - G. SALLUZZO, Bellumvider. La reggia di Federico II di Svevia a Castelvetrano, Palermo 2004, p. 76. 50 Durante la dominazione aragonese, coesistono due categorie di feudatari, un baronaggio latino di origine normanno-sveva che per essersi naturalizzato poteva considerarsi indigeno e quello catalano portato dagli aragonesi, meno numeroso, ma che godeva della protezione dei sovrani. I contrasti tra i baroni indigeni e quelli catalani sfociano in una guerra aperta che si concluse grazie ad un accordo tra i baroni più potenti dell’isola. Con questo accordo si stabilisce di affidare il governo a quattro Vicari scelti tra le famiglie più rappresentative per ceto e nobiltà. Questi Vicari in realtà governano la Sicilia favorendo soltanto le proprie famiglie e i baroni loro alleati.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
131
scelti tra le famiglie più rappresentative per ceto e nobiltà. Questi Vicari in realtà governano la Sicilia favorendo soltanto le proprie famiglie e i baroni loro alleati. Alla fine del XIV secolo, la foresta di Birribaida è in possesso di Bartolomeo de Iuvenio51 che, con atto del 1399, la vende al saccense Ferrerio di Ferreri. La foresta, almeno dall’inizio del XV secolo, diventa una baronia, i boschi e la fitta macchia mediterranea lasciano progressivamente il posto a fertili campi coltivati. Il castello di Bellum videre, o ciò che di esso era stato effettivamente realizzato, rimane trascurato per alcuni secoli, adattato nella seconda metà del XV secolo dai Tagliavia a residenza baronale, come risulta da un documento del 1497: […] maestro Baldassare di Pietro e maestro Francesco di Dia di Mazara e maestro Nicolò Gregorio di Marsala si obbligarono a favore del segreto baronale, don Calcedonio di Cardona ad edificare la sala grande del castello della terra di Castelvetrano (fig. 29).52
Fig. 29 51
Con gli accresciuti domini, i signori di Castelvetrano acquistano un ruolo di primo piano tra la nobiltà siciliana del XVI e XVII secolo. Don Carlo Aragona e Tagliavia,53 nel 1564, diviene il
G.B. DIECIDUE (a cura di), Can. Giovanni Vivona. Descrizione e Notizie di Castelvetrano. Con documenti delle investiture, Alcamo 2000, pp. 15-17. 52 A. GIARDINA - F.S. CALCARA - V. NAPOLI - G.L. BONANNO, La città Palmosa. Una storia di Castelvetrano, Palermo 20102, p.165. 53 Carlo Aragona e Tagliavia (1522-1599), figlio d’Antonia Concessa Aragona e di Giovanni Tagliavia, per volontà di Filippo II diventa nel 1564 il primo principe di Castelvetrano. Riceve, inoltre, alte cariche e titoli nell’ambito dell’amministrazione dell’Impero spagnolo. In rapida succes-
132
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
primo principe di Castelvetrano, venendo inoltre chiamato a ricoprire importanti incarichi nell’amministrazione dell’impero spagnolo. Egli, nel 1574, dà incarico allo stuccatore Antonino Ferraro da Giuliana di ammodernare e decorare la chiesa di San Domenico, mausoleo di famiglia (fig. 30).54 Gli interventi fatti realizzare dal principe a Castelvetrano, introducono nella città i primi elementi architettonici rinascimentali: archi a tutto sesto, paraste corinzie, portali con timpano; in questo periodo, d’altro canto, ha inizio un secondo intervento di ristrutturazione del castello, confermato dalle ingenti somme previste nel bilancio di famiglia destinate a lavori di manutenzione e abbellimento della residenza di Castelvetrano.55 Fig. 30
sione, diviene presidente del Regno (1566-68, 1571-77), viceré di Catalogna (1580), ambasciatore in Germania, governatore dello Stato di Milano (1582), membro del Consiglio di Stato e guerra a Madrid, Presidente del Consiglio d’Italia e reggente della monarchia spagnola durante la minore età di Filippo III. Le cariche politiche e amministrative ricoperte lo portano in molte città italiane ed europee, dove ha modo di conoscere le corti, gli artisti e molti cantieri di opere rinascimentali. 54 A. GIARDINA, I Tagliavia Aragona e la Chiesa di S. Domenico in Castelvetrano, Castelvetrano 1985, pp. 19-21. 55 A. GIARDINA - V. NAPOLI, Carlo d’Aragona e le “travi” dipinte della Chiesa Madre, Castelvetrano 2002, p. 28.
Presenze federiciane nella Valle del Belìce
133
Di recente, durante alcuni lavori di manutenzione dell'edificio, sono venuti alla luce parti di decorazione in stucco e affreschi (fig. 31). Gli stucchi, rinvenuti in una nicchia ricavata nello spessore del muro, riproducono due alberi genealogici: uno raffigura la discendenza delFig. 31 la Real Casa Normanna in Sicilia, l’altro raffigura la discendenza dei Tagliavia. La disposizione degli alberi e delle figure di guerrieri poggiate sui rami sono simili al disegno dell'albero di Jesse,56 realizzato da Antonio Ferraro57 nella chiesa di San Domenico. Questi frammenti di decorazione a stucco fanno pensare che molti dei grandi saloni del castello siano stati decorati, durante il principato di Carlo, con stucchi e pitture rinascimentali. Con questo intervento rinascimentale, con molta probabilità, nel castello vengono rimosse le crociere, le semi colonne e risagomati gli archi ogivali,58 mentre alcuni frammenti architettonici – cornici, decori e capitelli – risalenti all'epoca medievale e quindi al castello federiciano, vengano riusati con molta probabilità per la costruzione di altri edifici.
56
Ivi, pp. 28-29. G.B. FERRIGNO, Castelvetrano, Palermo 1909, p.483. 58 L’intervento eseguito dai Ferraro tra il 1574 e il 1580 nella chiesa di San Domenico determina una radicale trasformazione dell’edificio medievale viene alzata la navata centrale e il presbiterio, l’originaria copertura in legno viene sostituita da volta a crociera, viene aggiunta la cappella del coro e viene arricchita la facciata principale con un portale a timpano triangolare e paraste corinzie, tutte le pareti e le volte vengono decorate con stucchi e affreschi. 57
134
Pasquale Calamia – Mariano La Barbera – Giuseppe Salluzzo
Durante il XVII secolo, la residenza degli Aragona Tagliavia a Castelvetrano subisce ulteriori e più radicali trasformazioni fino alla realizzazione dell’attuale palazzo ducale che ha approfittato delle preesistenze medievali.59 Malgrado le trasformazioni architettoniche degli edifici in età rinascimentale e barocca e le modifiche culturali praticati durante l’età feudale, che hanno occultato fino ai giorni nostri, la presenza di Federico II di Svevia nel Basso Belìce, grazie agli accurati studi di Henri Bresc, a quelli di Ferdinando Maurici e al nostro modesto contributo si è potuta ricostruire l’opera di trasformazione avvenuta nella prima metà del XIII secolo in questa parte della Sicilia.
59
Nel 1732, G.B. Noto afferma che i resti inclusi nelle fabbriche del palazzo ducale appartengono ad un castello «[…] contiene detta città un ampio Palazzo Ducale ov’è compreso il Castello chiamato dei Veterani […]». G.B. NOTO, Platea della Palmosa Città di Castelvetrano. Suo stato, giurisdizione, baronie e contea del Borgetto aggregati, ms. del 1732, Biblioteca comunale di Castelvetrano. Cfr. G. VIVONA, Descrizione di Castelvetrano, ms. 1805, Biblioteca comunale di Castelvetrano.
Santa Rita da Cascia: un esempio trainante di santità possibile. Origine e diffusione del culto in Castelvetrano Francesco Saverio Calcara La storia delle devozioni religiose riflette anche la storia più generale delle comunità che le esprimono, giacché nei Santi si colgono spesso modelli di vita, aspirazioni e processi di appartenenza. Le cosiddette “guerre di santi”, così frequenti nella espressione della religiosità siciliana – oggetto, tra l’altro, di un interessante saggio di Leonardo Sciascia a commento di una raccolta di suggestive foto di Fernando Scianna1 – la dicono lunga, anche da un punto di vista antropologico, sulla funzione e l’importanza di tali culti, il cui significato a volte sfugge alle stesse autorità ecclesiastiche. Alla fine del ’600, con la proclamazione di San Giovanni Battista a principale patrono della nostra città di Castelvetrano, giunse, ad esempio, a conclusione un processo lungo e travagliato, le cui implicazioni non furono solamente religiose ma anche espressione di dinamiche sociali che coinvolsero i prìncipi, le grandi famiglie della nobiltà comunale, gli ordini religiosi, le corporazioni, le confraternite e, più in generale, lo spirito muni1
Cfr. L. SCIASCIA, Feste religiose in Sicilia, Bari 1965.
136
Francesco Saverio Calcara
cipalistico, teso a costruire, anche attraverso la dimensione del sacro, l’identità cittadina sia sul piano simbolico sia su quello politico. Tale percorso si era iniziato col patronato di San Gandolfo, poi con quello di San Giacomo, quindi con Santa Rosalia, la Vergine Immacolata, San Francesco da Paola e finalmente Sant’Anna, in un succedersi di complesse vicende, vera e propria «guerra dei santi», per il cui approfondimento si rimanda al volume La città palmosa,2 primo organico tentativo di storia castelvetranese, scritto da Aurelio Giardina e dallo scrivente, e di cui è in preparazione il II volume. Ma è la natura profonda del culto dei santi, cioè il bisogno di avere un protettore invisibile che permetta di identificarsi con lui, in quanto compagno di condizione umana, è proprio questo carattere di rapporto umano che spiega come, nel corso degli anni, il fedele tenda a forme riadattate o diverse di venerazione, adeguate alle nuove sensibilità religiose e alle mutate condizioni sociali. Il santo non è un dio o un angelo che deriva i suoi poteri semplicemente dal posto che occupa in una gerarchia spirituale, ma un intercessore che opera nella storia, proprio perché servo di Dio. Per questo Paolino e gli altri vescovi, attribuivano un profondo valore teologico ai miracoli dei santi. Le loro tombe erano «immuni dai fatti connessi alla morte […] non solo perché le anime degli occupanti erano in paradiso, ma perché la pace profonda del loro sonno prima della risurrezione si manifestava anche nelle loro ossa».3 I santi, insomma, costituiscono una testimonianza continua – e potente – della speranza cristiana della ri2
Cfr. A. GIARDINA - F. S. CALCARA - V. NAPOLI - G. L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano. I. Dalle origini al XVII secolo, Palermo 20102, pp. 252-265. 3 P. BROWN, Il culto dei Santi, Torino 2002, p. 108.
Origine e diffusione del culto in Castelvetrano
137
surrezione, ma anche un modello concreto che indica la possibilità effettiva, concreta, di tale cammino di salvezza. In tal senso va letto, anche nella nostra città, il fiorire del culto per la Santa di Cascia. A Castelvetrano, la venerazione per Santa Rita si diffuse quasi contemporaneamente alla sua canonizzazione, avvenuta le 1900, e si tenne sempre viva, come testimonia un grande quadro della Santa, dipinto, nei primi anni Sessanta, da Luigi Maniscalco, prima conservato alla chiesa della Catena e ora alla Salute e l’esistenza di diverse edicole votive sparse qua e là nel territorio. La devozione fu zelata anche nella chiesetta di Sant’Antonino al Corso ed oggi, dopo la morte di p. Antonino Trapani che ne era rettore, si è trasferito nella detta parrocchia di Maria SS. della Salute. Anche nella nostra città, alla Santa degli impossibili viene associato un fiore in particolare: la rosa. La benedizione delle rose e la loro distribuzione alle donne presenti è uno dei momenti più toccanti che precede la solenne processione della Santa, il 22 maggio di ogni anno. La rosa è il simbolo della devozione a lei, in quanto ad una cugina recatasi a far visita a Rita morente, ella espresse un ultimo desiderio: una rosa dal giardino che aveva lasciato. Si era d’inverno. La parente ubbidì, andò e trovò nell’orto coperto di neve una rosa fiorita. Gliela portò e Rita tutta felice la regalò al suo Crocefisso. Il segreto di tale sentita e profonda devozione ha trovato un suo risvolto teatrale-rievocativo anche nella organizzazione, da un decennio a questa parte, di un grande corteo storico, riuscito esperimento di rappresentazione a quadri viventi secondo il modello del teatro itinerante. Il Corteo ripresenta in sintesi gli episodi salienti della vita della Santa che vengono proposti per le vie della città con ricercata solennità, complice anche la magniloquenza dei costumi, fedeli riproduzioni degli abiti dell’epoca; la solennità cede alla semplicità ogni volta che uno di questi
138
Francesco Saverio Calcara
quadri viventi raggiunge la piazza destinata alla propria rappresentazione, allorquando, abbandonata la propria fissità, il quadro prende vita in una rappresentazione che cede alle regole del teatro inteso nel senso più puro delle proprie origini: una rappresentazione sacra con i propri spettatori intorno, teatro che nasce e si muove in brevissimo spazio di tempo, teatro che si fa e si disfa, teatro di tutti i luoghi e nessun luogo, teatro che prende i propri spettatori e li conduce per mano attraverso le vie di un luogo, una via, una piazza dove si celebra la quotidianità. Forse il motivo della grande partecipazione popolare ai festeggiamenti per Santa Rita risiede nel fatto che ognuno può trovare nella Santa di Cascia l’immagine completa di donna, di sposa, di vedova, di consacrata; riscontrando in Lei il coraggio di amare e la forza di perdonare, con la grazia di Dio, il proprio prossimo anche di fronte al dolore e alle tentazioni di vendetta. Nel primo centenario della canonizzazione, durante il Giubileo del 2000 davanti ad una grande folla di devoti della santa in Piazza San Pietro Giovanni Paolo II si chiedeva: «Ma quale è il messaggio che questa santa ci lascia? È un messaggio che emerge dalla sua vita: umiltà e obbedienza sono state la via sulla quale Rita ha camminato verso un’assimilazione sempre più perfetta al Crocefisso. La stigmate che brilla sulla sua fronte è l’autenticazione della sua maturità cristiana. Sulla Croce con Gesù, ella si è in un certo senso laureata in quell’amore, che aveva già conosciuto ed espresso in modo eroico tra le mura di casa e nella partecipazione alle vicende della sua città» cioè cercando di portare pace fra le varie fazioni contrapposte e in lotta fra loro. Mentre nei primi testi agiografici si sottolineava la vita di Rita nel monastero, cioè la sua vita di religiosa. Dopo la canonizzazione si è insistito, per una precisa scelta pastorale di quegli anni e che vale ancora oggi, sulla prima parte: si mise in risalto la Rita moglie e madre, che a costo di grandi sacrifici e sofferenze per-
Origine e diffusione del culto in Castelvetrano
139
sonali tiene unita la famiglia e riafferma l’indissolubilità del matrimonio cristiano. Credo che anche a Castelvetrano il suo culto abbia conosciuto un grande successo, poiché questa devozione sembra fornire una risposta ed un conforto alle fatiche e alle tensioni sopportate da un vasto strato – soprattutto femminile – della popolazione. Giovanni Paolo II disse ancora: «La santa di Cascia appartiene alla grande schiera delle donne cristiane che «hanno avuto significativa incidenza sulla vita della Chiesa, come anche su quella della società». Rita ha bene interpretato il “genio femminile”: l’ha vissuto intensamente sia nella maternità fisica che in quella spirituale». Forse la migliore definizione della santità di Rita da Cascia la troviamo nella iscrizione che è stata posta sull’urna contenente i suoi resti mortali: «Tucta allui se diete». «Si diede tutta a Lui», cioè a Cristo, anche nel momento della crocifissione, che è la cosa più difficile.
Bibliografia L. SCIASCIA, Feste religiose in Sicilia, Bari 1965. P. BROWN, Il culto dei Santi, Torino 2002. A. GIARDINA - F. S. CALCARA - V. NAPOLI - G. L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano. I, Dalle origini al XVII secolo, Palermo 20102.
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto nella successione dei secoli. Una breve visione d’insieme1 Martine Fourmont Affrontare l’argomento che ho scelto passa prima da una domanda: si giustifica o non è “fattibile”? La risposta è: siccome la città antica greca di Selinunte costituiva un’entità urbana ben definita (fig. 1), è lecito prendere tale angolo di lettura. Stessa cosa per la Selinunte del dopo 250 a.C., quando era già stata distrutta dai Romani. Poi scorrono decenni o secoli senza poter definire il carattere della zona: essa torna al pascolo, al bosco, all’agricoltura. Tuttavia le ricerche sviluppatesi negli ultimi decenni hanno consentito di precisare l’esistenza di un nucleo di vita perfettamente definito verso la foce del fiume Modione, l’antico 1
Ringrazio l’Amico prof. Sandro Musco per l’invito fattomi a partecipare ai lavori di questo importante convegno che, purtroppo, non riesco a seguire, essendo la sua data anteriore al momento della mia solita migrazione verso Sud. Ringrazio l’Amico prof. Giuseppe L. Bonanno che non solo ha revisionato la lingua italiana del mio saggio, ma, di più, ha accettato di presentarlo. La mia riconoscenza va al Direttore del Parco Archeologico di Selinunte, dott.ssa Caterina Greco, che, sempre, incoraggia la mia curiosità. Dedico questa relazione alla dott.ssa Lina Di Stefano, recentemente scomparsa. Fu lei, allora Soprintendente alle Antichità di Trapani, che mi richiamò a Selinunte. Ricordiamo la grande studiosa, ma anche la semplicità di questa Signora, che ho avuto il privilegio di avere per Amica [nota risalente al 2013 – n.d.c.].
142
Martine Fourmont
Selinoûs. Tale nucleo pare poter attribuirsi al periodo tardoantico, e viene datato al periodo che va dalla metà del V sec. agli inizi del VI sec. d.C. da Ferdinando Lentini,2 che vi ha condotto scavi per conto della Soprintendenza di Trapani, sotto la direzione di Sebastiano Tusa e di Caterina Greco. Si tratta di un posto di scarico/carico di merci, di magazzini e di un battistero. Siamo ancora incerti sull’immagine del sito, tranne il fatto che ai tempi del Salinas, gli scavi effettuati nel santuario urbano, nell’area dei templi C e D, danno testimonianza di una chiesetta su C, e di tombe tra C e D. La data di tali monumenti resta oggetto di interpretazioni diverse che possono attribuirli a un periodo non posteriore dal V sec. d.C. per il Salinas,3 quando, di recente, Alessandra Molinari4 non esclude che possa trattarsi di costruzioni di periodo normanno-svevo, risalenti al XI-XII sec. d.C. – tale interpretazione era già intravista dal Cavallari. Allo stesso periodo sono ormai ascrivibili i numerosi resti individuati da chi scrive sia sull’isolato FF1 Nord che sull’intera acropoli; altri fabbricati sono anche stati riconosciuti fuori dell’acropoli. Abbiamo il racconto del geografo el-Idrisi5 che, negli anni centrali del XII sec., parla del sito sotto il toponimo di Rahl ‘al ‘Asnâm, villaggio dei Pilastri o degli Idoli. Purtroppo i secoli successivi rimarranno 2
F. LENTINI, «L’insediamento tardoantico alla foce del fiume Modione», in S. Tusa (a cura di), Selinunte, Roma 2010, p. 198. 3 A. SALINAS, «Ricordi di Selinunte cristiana», in Scritti scelti, vol. II, Palermo 1977, p. 57. 4 A. MOLINARI, «Insediamento rurale e fortificazioni della Sicilia occidentale in età bizantina. Vecchi e nuovi dati su Segesta e Selinunte», in R.M. Carra Bonacasa (a cura di), Byzantino-Sicula IV: Atti del I Congresso internazionale di archeologia della Sicilia bizantina, (Corleone, 28 luglio-2 agosto 1998), Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici, (Quaderni, 15), Palermo 2002, pp. 323-353 (in particolare pp. 336-337). 5 Nuzhat al-mushtāq fī-khtirāq al-afāq ovvero Il libro di Ruggero, Palermo, ca. 1154-1157.
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
143
mal compresi per il fatto che gli scavi dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, praticati nel santuario dell’acropoli, ne hanno praticamente eliminato ogni traccia, senza però tenerne conto nelle relazioni pubblicate nelle “Notizie degli scavi”. Sappiamo comunque che l’acropoli viene dotata di una torre di avvistamento verso la metà del Cinquecento.6 Sappiamo pure che i rilievi più antichi, contemporanei agli scavi ottocenteschi, attestano la presenza di un piccolo nucleo di vita attorno all’odierno scalo. Tale fatto ci aiuta a capire come il luogo di vita “slitta” dall’acropoli al livello del mare, cosa che chiaramente indica un cambiamento nello status di pericolo per le coste: tale fenomeno s’incontra attorno a tutto il Mediterraneo quando diminuisce il rischio di attacco da parte dei Pirati barbareschi. In Grecia tutti i villaggi chiamati “Scala” sono relativi a quel momento di discesa dei luoghi di vita dalla montagna verso il mare. Ai tempi dei Viaggiatori, vediamo il fascino esercitato dalla città addormentata sulla sensibilità di questi uomini di cultura, attratti dal carattere bucolico-pittoresque del sito dove pascolano le pecorelle e dove la terra tra templi G e F è lavorata dall’aratro. Alcuni di questi viaggiatori accennano a particolari che interessano il nostro argomento. Partiamo ora dalla colonia megarese e vediamo l’evoluzione dei suoi luoghi di culto. All’inizio sono costruiti sull’acropoli il megaron Sud e l’altro, verso Nord-Est, più il c.d. tempio C1 – finora ipotizzato e ubicato sotto il tempio C2 che vediamo ancora oggi. Verso l’estremità Sud dell’acropoli, un altro megaron, P, a Sud-Est del futuro tempio O.
6
Disegno acquerellato, Torino, Archivio di Stato; v. anche Descrittione delle Torri Maritime del Regno, ms. in B.C.P. ai segni Qq.D.188, e «Descrizione della Sicilia» in G. Di Marzo (a cura di), Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, seconda serie, vol. VII, Palermo 1877.
144
Martine Fourmont
Sulla Collina Orientale, gli scavi condotti da Giorgio Gullini hanno evidenziato l’esistenza di un tempio E1. Oltre il fiume Modione-Selinoûs, sorge un primo tempio sotto il c.d. tempio Triolo Nord, il megaron di Hera. Poi su un arco di tempo un po’ più lungo, viene edificato il tempio della Malophoros, ubicato a poca distanza verso Nord. Così si evidenzia il fatto che rapidamente dopo gli anni di fondazione, per non dire sin dall’inizio, sono tutte e tre le zone del sito che ricevono strutture religiose. È il momento di fioritura dei megara. Poi si passerà ai templi così particolari di Selinunte, che comportano non tre, bensì quattro divisioni interne, e che hanno uno spazio particolarmente ampio sotto la loro peristasi, cosa che invita alla restituzione di riti processionali attorno alla parte centrale del tempio. Non è qui il caso di rifare l’intera storia dell’architettura templare di Selinunte, bensì piuttosto di vedere i luoghi, i punti del paesaggio scelti per costruire i templi. Diventa così interessante procedere ad alcune osservazioni riguardanti la quota altimetrica dell’insieme dei templi. Abbiamo due zone di altura, acropoli e Collina Orientale, e una zona bassa, Gaggera/Malophoros. Nell’area occidentale, della Gaggera-Malophoros (fig. 2), non distante dalla foce del Modione, quindi vicino il livello del mare, e per il periodo greco, l’edificio più basso è il megaron Triolo: m 9 slm. Tale fatto viene rafforzato se si pensa al primo megaron, oggi seppellito sotto l’edificio che conosciamo. Seguendo il percorso da Sud verso Nord, incontriamo il tempio di Demeter Malophoros, alla quota di m 12, altitudine che consente al tempio di staccarsi in una posizione leggermente dominante e più indietro in rapporto alla strada moderna. Il tempio di Zeus Meilichios, più recente, occupa l’altimetria di m 11 slm, cosa che gli conferisce un posto quasi uguale al tempio di Demetra; comunque la differenza si può notare dal profilo dei monumenti nel paesaggio.
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
145
Camminando altri m 30 circa verso Nord, incontriamo il c.d. tempio M – se tempio è –, costruito alla quota di m 18, cosa che indica una pendenza relativamente cospicua tra i due punti. L’edificio M non era l’ultimo, perché sappiamo che, nel momento del suo scavo, la Bovio Marconi ha individuato elementi architettonici che non possono esservi pertinenti, marca un altro punto privilegiato nel paesaggio della Gaggera. Se passiamo all’acropoli (fig. 3), vediamo che il megaron Sud si trova a quota m 29, il megaron Nord-Est a 27, e il terzo, P, a Sud del tempio O, a 22 m slm. È quindi il megaron Sud che, all’inizio, domina lo spazio del santuario urbano, o ancora il tempio C1 per il quale non possediamo informazioni sufficienti. Verso Nord-Est, il secondo megaron domina la salita – probabilmente già munita di una gradinata – che, dal fianco Est del promontorio, porta alla spianata del santuario. Quando si allarga la spianata con l’enorme terrazzamento contenuto dal muraglione a gradoni,7 e quando vengono eretti i templi C2 e D, la linea del paesaggio urbano assume una notevole modifica: la silhouette di ambedue gli edifici si stacca alta dalle altre costruzioni dell’acropoli. Interessante osservare che la loro quota è rispettivamente m 30, per C2, e 33 per D. Così lo stilobate di D è leggermente sopra il livello della strada – m 32 –, che viene tracciata a Ovest, nel prolungamento del grande asse Nord-Sud che, in un secondo tempo, sarà continuato fino alla falesa sul mare. Interessante ricordare che, per taluni studiosi, la base del progetto urbanistico si trova in effetti all’incrocio della strada NordSud e della strada F, e che tale incrocio si situa proprio nella zona più alta dell’acropoli: m 32 slm. 7
A. DI VITA, Per l’architettura e l’urbanistica greca di età arcaica: la stoà del temenos del tempio C e lo sviluppo programmato di Selinunte, in «Palladio» 17 (1967), pp. 3-60.
146
Martine Fourmont
Sul lato Ovest del santuario dell’acropoli esiste l’altro ingresso monumentale (fig. 4), definito dal propylon. La quota m 32 slm definisce il tratto che va dall’ingresso-propylon fino all’incrocio con la strada F, dopo di che, più verso Nord, essa si mantiene a 31 m slm fino a Porta Nord, ovviamente ulteriore. Il dispositivo urbanistico era diverso nel progetto originale visto che il grande asse Nord-Sud proseguiva fino al lato Sud dell’agorà. Per questo tratto oltre Porta Nord, il livello doveva andare salendo progressivamente fino a raggiungere i m 42-43 slm nella parte più alta dell’agorà. Si definisce così una progressione altimetrica che accompagna il percorso dal santuario urbano al centro civico della polis. Purtroppo l’agorà ha perso quasi ogni traccia della sua monumentalità, ancora sottolineata dal portico sul lato Ovest. Ma manca un elemento maggiore per una piazza del tipo agorà: un tempio! Tale tempio, scomparso o ancora nascosto sotto la duna Sud-Ovest, potrebbe aver approfittato di un altra situazione elevata, ancora sotto la duna, ma siamo nella congettura... Ora, se passiamo al terzo gruppo di edifici religiosi, quello della Collina Orientale, vediamo che i tre templi sono ubicati alle seguenti quote: m 40 per E3, il tempio ricostruito oggi visibile, 42-43 per F, e 44 per G. Il piano di calpestio tra F e G passa a quota 43, vale a dire quella dell’agorà. Sappiamo d’altronde che la grande arteria che parte dall’agorà e attraversa la Grande Porta Est sul versante del Gorgo Cottone portava alla zona Nord della Collina Orientale. Si definisce allora una costruzione particolare: i due grandi assi, quello Nord-Sud e quello Ovest-Est, collegano ad angolo retto il santuario urbano e i templi della collina Orientale, e l’incrocio dei due rami si trova sull’agorà (fig. 5). Così viene dimostrato il fatto che se l’urbanistica selinuntina è stata disegnata a tavolino, in due dimensioni dello spazio, come si è capito ormai da tempo, è, ancor più, concepita tenendo conto
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
147
di tutte e tre le dimensioni dello spazio, creando così un gioco di proporzioni tra le alture e gli edifici su di esse edificati. La progressione attraverso il paesaggio urbano segue una gradazione gerarchica verso i punti alti del terreno, valorizzato dalla presenza dei maggiori elementi costitutivi e simbolici della sua monumentalità. Passiamo ora a un altro aspetto del nostro studio, quello della permanenza o non permanenza dei luoghi di culto sulla superficie della Selinunte greca. Accettiamo per scontato che tutti i templi ellenici finora elencati perdurano fino al 409 a.C., data della distruzione della polis da parte dei Cartaginesi. Dopo tale data e dopo alterne vicende, Selinunte entra nell’epicrazia cartaginese. Va subito menzionato il parere recentemente pubblicato da Rossana De Simone nel libro Selinunte8 de “L’Erma” di Bretschneider. Analizzando diversi documenti o criteri, la studiosa propende per l’assenza di testimonianze essenzialmente puniche a Selinunte. Per l’autrice un fatto è che Selinunte sia entrata nella cerchia di Cartagine, un altro è la cultura materiale del sito. Per certi aspetti, non riesco a condividere pienamente tale opinione. Partiamo di nuovo da Ovest. Nella zona della GaggeraMalophoros (fig. 6) abbiamo la testimonianza di un culto di tipo punico in due ex-templi greci: Triolo Nord-Hera e Demeter Malophoros. Tutti e due gli edifici hanno conservato un’attività cultuale nel loro adyton, ma questa volta le celebrazioni sono da mettere in rapporto con il mondo punico. Per l’acropoli, conosciamo le tre aree cultuali scavate da Vincenzo Tusa nella parte meridionale del promontorio: a Sud-Est del tempio O, a Ovest dello stesso tempio, e a Ovest del grande asse Nord-Sud, in prossimità della cinta sul mare. Aggiungerei volentieri una quarta area di culto punico a Ovest del tempio C: 8
R. DE SIMONE, «Selinunte punica», in S. Tusa (a cura di), Selinunte, Roma 2010, pp. 181-190.
148
Martine Fourmont
tale proposta viene dalla lettura dei giornali di scavo nell’Archivio Storico del Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”; si tratta degli scavi del Cavallari e del Gabrici che mettono in luce una struttura contenente anfore e ossa.9 La struttura deve essere ubicata tra il tempio C e il grande asse NordSud. Ma sull’acropoli (fig. 7) è presente un luogo di culto punico di un’altra forma: nel tempio A (che ha conservato parti del naos, del pronao e della peristasi Nord) è reperibile una successione di vani, tra cui uno è abbellito con un mosaico con corona, bucranio e segno di Tanit. La pianta di tale struttura è particolare e la possiamo individuare nel rilievo pubblicato da D’Andria e Campagna.10 Non può trattarsi di un edificio di culto greco. D’Andria e Campagna mettono tale struttura in rapporto con i vani che s’incontrano nella parte Sud del tempio O, lì adiacente, e interpretano lo spazio tra queste due parti come un cortile. Accenno rapidamente al mosaico con i caducei e il segno di Tanit della “casa” sulla grande trasversale a Sud del santuario, perché potrebbe trattarsi di un culto in ambito meramente domestico – tale “cappella” è studiata da S. Helas. Vengo ora al tempio B che pone forse numerosi problemi e di cui non ho finora parlato. Si sa, oggi, dopo i recenti sondaggi di Clemente Marconi, che l’attribuzione del tempio B a un culto di Empedocle non è più accettabile: il tempio è costruito dopo il 409 a.C., quando Selinunte è controllata da Cartagine, e quando tanti decenni sono trascorsi dopo Empedocle. L’accurata analisi 9
Sono riconoscente al Direttore del Museo, dott.ssa Agata Villa, e alla dott.ssa Lucina Gandolfo per le liberalità dimostrate nei miei confronti, e le ringrazio per la collaborazione offertami. 10 F. D’ANDRIA – L. CAMPAGNA, «L’area dei templi A e O nell’abitato punico di Selinunte», in M.G. Amadasi Guzzo et alii (a cura di), Da Pyrgi a Mozia. Studi sull’archeologia del Mediterraneo in memoria di Antonia Ciasca («Vicino Oriente», «Quaderno», 3), Roma 2003, pp. 171-188.
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
149
dei frammenti ossei contenuti nell’altare11 dimostra in maniera luminosa che essi si riferiscono maggiormente a maialini. Il maialino è l’attributo di Demeter. Diodoro Siculo (Biblioteca, XIV 18) ricorda che il culto di Demeter e Kore è stato introdotto a Cartagine nel 396 a.C., e già nel 1895 Clermont-Ganneau12 insiste sull’assimilazione di Tanit a Demeter e ricorda la testa di Demeter assimilata a Tanit sulle monete di Cartagine. Non sviluppo il punto, non essendo specialista né di religioni né di epigrafia. Ma cerchiamo di mettere in prospettiva il piccolo tempio B di Selinunte sullo sfondo cultuale cartaginese. Il tempio B è finora l’unico tempio, anche se di dimensioni modeste, di forma greca, edificato nella Selinunte controllata da Cartagine, molto probabilmente alla fine del IV sec. a.C.;13 è anche il tempio che non viene ricoperto dalle case puniche che invadono allora lo spazio del santuario urbano, incluso quello stesso dei templi ellenici. Per quanto riguarda la terza zona, quella della Collina Orientale, non disponiamo finora d’informazioni relative ai culti per il periodo punico. Esiste, però, un isolato con case tra tempio E e tempio F, datato a tale periodo. Non sarebbe, quindi, impossibile che sia esistito in questa area un luogo di culto punico – o almeno che uno dei templi abbia conosciuto un’altra fase di occupazione, fenomeno che abbiamo incontrato nei templi della Gaggera-Malophoros. Prima di esaminare i monumenti ascrivibili al periodo tardoantico, al quale facevo cenno nella mia introduzione, ritengo necessario soffermarmi su un documento, rapidamente pubblicato, e con errori, in «Archivio Storico Siciliano» nel 1882. Anche 11
Studio in corso, R. Miccichè, presentato nel giugno 2010. C. CLERMONT-GANNEAU, Tanit et Démeter, in «Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres» 39/4 (1895), pp. 291-292. 13 Informazione fornita dal prof. Clemente Marconi. 12
150
Martine Fourmont
se importantissimo, tale documento è rimasto di difficile comprensione. Le mie ricerche nell’Archivio Storico del Museo di Palermo mi hanno consentito di proporre forse alcuni chiarimenti. La carpetta 706 dell’Archivio contiene una lettera in risposta alla richiesta del Salinas, allora direttore del museo, che ha cercato un’iscrizione senza successo: Palermo, 11.06.1880. Il chiarissimo prof. Saverio Cavallari, vicedirettore dei Musei e delle Antichità del Regno, nel suo lavoro sopra Selinunte ed il suo territorio, pubblicato nel l’Archivio [sic] storicosiciliano, anno VII, pag. 104, fa menzione di un frammento d’iscrizione latina di epoca imperiale del II secolo a.C. [sic] spedita a Palermo. Non trovando nei cataloghi del Museo alcun frammento d’iscrizione con quella provenienza sarei gratissimo al detto professore se volesse darsi la pena di esaminare le iscrizioni del Museo Nazionale di Palermo, affinché di vedere se chi sa vi sia compreso il frammento selinuntino. Una tale ricerca oramai è facilissima, trovandosi tutte le iscrizioni del Museo esposte nei due cortili, nella stanzetta dove sono collocati gli oggetti venduti da Moschella, e in un cassetto contenente i piccoli frammenti. Prego quindi la S. V. Illma a voler dare analogo incarico al prelodato signor professore Cavallari, di che la ringrazio vivamente, il Direttore [Salinas].14
In una sotto-carpetta, con data 1883, sono quindi passati tre anni, ho visto la risposta del commissario «11.07.1883. Comunico alla S.V. la seguente lettera che mi fa tenere il signor Vice-Direttore prof. Cavallari in ordine alla iscrizione latina di Selinunte (6 luglio 1883, N. 58): Di riscontro alla nota qui contro segnata pregiomi significarle, che tra tutte le iscrizioni già collocate a le [sic] altre non ancora messe al posto non ho trovata [sic] quella di cui ne tenni conto in un mio lavoro sopra
14
La sotto-carpetta 1882-1885 dello stesso documento 706 contiene di nuovo due lettere, dell’11 giugno e dell’1 luglio 1883, che sono altre due richieste riguardanti l’iscrizione latina in questione.
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
151
Selinunte, pubblicato nell’Archivio Storico Siciliano, anno VII, p. 104.15 Questa iscrizione, che ben ricordo, fu trovata nella medesima epoca quando si rinvennero l’iscrizione greca del tempio di Giunone [...] Varie volte l’ho cercata nel nostro museo ma inutilmente. [...] Tutti gli oggetti compresa l’iscrizione latina furono spediti dal Canonico Viviani in Palermo. L’iscrizione era un frammento di tufo, dove erano scolpite le seguenti lettere alte m. 0,07: DIV...C. AUG... e fu rinvenuta alla Marinella, sotto la casetta del posto doganale,16 da alcuni cavatori di pietra. Tanto di risposta alla sua lettera dell’11 giugno 1883 N. 89. Il R. Commissario [Scalea].
È chiaro che tale iscrizione ha attratto la curiosità degli studiosi. Purtroppo il riferimento cronologico, «II sec. a.C.» collegato alle parole «Divus Augustus» non ha per niente aiutato la sua interpretazione. Esistono due possibilità di correzione: o dobbiamo leggere I sec. a.C., e siamo allora in presenza di un’epigrafe relativa all’imperatore Augusto, o dobbiamo leggere II sec. d.C., e si tratta di uno degli Antonini. Ricordiamo che sulla superficie dell’antica Selinunte greca e punica non è stata finora ritrovata alcuna struttura né di I a.C. né di II d.C. Bisognerebbe immaginare la “palmosa Selinus” di Virgilio fuori i limiti del Parco Archeologico, fuori dalla polis greca. Torneremo sul problema in conclusione. Passiamo ora al periodo tardo-antico, cristiano, per cui si ricordavano nell’introduzione gli scavi recenti praticati dalla Soprintendenza all’inizio del nuovo secolo. Abbiamo la presenza di un battistero (fig. 8) con fonte battesimale dal tipo incontrato in
15
F.S. CAVALLARI, Sulla topografia di talune città greche di Sicilia e dei loro monumenti, Terza parte: Dal Capo San Marco a Lilibeo; I - Selinunte e il suo territorio, in «Archivio Storico Siciliano» VII (1882), pp. 68-166. 16 Trattasi qui della “Nuova dogana”.
152
Martine Fourmont
Tunisia relativo al VI sec. d.C.17 Si suppone la presenza di una chiesa nei pressi di tale battistero.18 Più a Nord, sempre nella zona occidentale, ci sono testimonianze nel tempio di Demeter Malophoros. Nell’Archivio Storico del Museo Salinas di Palermo ho rintracciato19 una lettera dell’assistente Scifoni con segnalazione di una vasca di marmo, scoperta nel marzo 1894, a poca distanza dal propylon del relativo santuario: «stamane, proseguendosi lo scavo del lato Nord del muro esterno che fa parte dell’edifizio [...] a distanza di m 4,80 dal detto muro e ad un metro di altezza dal livello antico, fra le sabbie, è stata scoverta una grande vasca di marmo bianco, circolare (specie di battistero), intatta, che nell’orlo esterno, ha delle semplici filettature, e nella parte sottostante ha rilevato un dado da dover servire per essere incastrato nel piede».20 Il diametro di tale vasca è indicato in margine: m 1,13. Una vasca di marmo bianco potrebbe essere interpretata come pertinente al periodo tardo-antico. Tale documento potrebbe essere messo in relazione con la chiesa a cui ho appena accennato. Va aggiunta la presenza di tombe circostanti. Nel suo articolo su «Notizie degli Scavi», 1894,21 il Salinas accenna a lucerne con il crismo, nonché a monete del basso impero, rinvenute, nel 1888, all’interno della camera attigua all’ingresso, vale a dire al propylon del santuario della Malophoros – assieme a un capitello corinzio di marmo, alto m 0,16, che risulta essere medievale. 17
Museo del Bardo, battisteri di Kelibia e di Gigthis. Un’apertura nel muro Sud dell’edificio potrebbe corrispondere a un accesso diretto tra chiesa e battistero. 19 Carpetta 706, 3.3.1894. 20 Del tipo di grande recipiente di marmo che conosciamo nel battistero di Ravenna. È la vasca un tempo esposta nella sala delle metope nel Museo Salinas. 21 A. SALINAS, Scritti scelti, a cura di V. Tusa, vol. II, Palermo 1977, pp. 131-132. 18
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
153
Esistono ancora alcune testimonianze di monumento cristiano nella zona del tempio M. I ritrovamenti dell’anno 1874 negli scavi praticati nella zona del tempio C e fino al tempio D hanno dato luogo a diverse interpretazioni, abbiamo già sottolineato il fatto. Ma se la piccola chiesa, le tombe – i cui materiali sono stati unicamente menzionati con la parola «vasi rozzissimi»,22 anche le croci greche possono trovare una datazione molto più tarda, fino ai tempi bizantini23 o normanno-svevi, il ritrovamento della bella lampada di bronzo con l’iscrizione Deo Gratias non è facilmente inquadrabile con una data molto alta: Deo Gratias, come Deo Laudes, sono espressioni di riconoscimento tra i Donatisti,24 quindi sono attribuibili ai secc. IV-V d.C. Nel disco di tale lampada compare il monogramma di Cristo della forma costantiniana. La presenza di un’ampolla di vetro s’inquadra ugualmente bene in tale ambito. Sorge allora una domanda: ma il culto cristiano sul tempio C potrebbe essere durato per l’arco di quasi sette o otto secoli, o magari aver conosciuto due fasi, forse anche separate da un periodo di “vuoto”? Se la risposta fosse positiva, avremmo quindi almeno due gruppi cronologici e la cosa mi pare finora corrispondere meglio alla realtà archeologica dell’area circostante.25 La maniera nella quale è stata esplorata la zona sul finire dell’Ottocento e all’inizio del secolo seguente non consente di 22
Ivi, pp. 57-58. I vasi rinvenuti nelle tombe potrebbero essere di epoca bizantina, non contenendo le tombe medievali corredo. 24 P. MONCEAUX, La littérature donastique. Les ouvrages de Petilianus, in «Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres»» 50/4 (1906), pp. 226-228. 25 Presenza sull’isolato FF1 Nord, e sull’acropoli in generale, di una fase dei secc. XII-XIII. d.C. Le ricerche al Museo Salinas confermano la presenza di abitanti già nella seconda metà del sec. XI. 23
154
Martine Fourmont
avere informazioni tali da chiarire il problema. Non conosco, però, alcuna menzione di ceramica sigillata che, in parte, darebbe conforto alla mia perplessità.26 Sempre per il culto cristiano, ma senza poter apportare alcun elemento di cronologia, conosciamo la chiesetta di Torre Manuzza, e sull’acropoli stessa, sono menzionate altre due cappelle: una sul tempio A, ricordata dal Benndorf,27 e un’altra tra tempio A e tempio O, a cui si riporta un aneddoto raccontato dal francese Théodore de Bussières28 che, nel 1836, cenò dal guarda costa la cui casa era: «un’antica cappella priva di finestre e di camino, divisa in diverse camerette mediante stuoie; il soffitto è fatto di canne; l’altare, condannato ad uso più volgare, funge ormai da focolare». Di tale cappella parlano anche il Benndorf e il Salinas.29 Un rilievo del Cavalli, del 1877, indica dove era tale casetta-cappella. Per finire con gli edifici cristiani nell’area del Parco Archeologico e della polis greca, va ricordato che, a diverse riprese, ho sentito Giorgio Gullini dichiarare che su o attorno al tempio E sono esistite testimonianze di culto fino a un periodo avanzato. Purtroppo non abbiamo nessuno scritto in merito.30
26
E. GABRICI, nella relazione Selinunte. Ripresa degli scavi sull’Acropoli, in «Notizie degli Scavi di Antichità» 1 (1923), pp. 104-113, scrive a p. 112: «Mancano [...] i vasi aretini». 27 O. BENNDORF, Die Metopen von Selinunt, mit Untersuchungen über die Geschichte, die Topographie und die Tempel von Selinunt, Berlino 1873, p. 34. 28 TH. DE BUSSIÈRES, Lettres sur la Sicile, in «Revue des Deux Mondes» 5 (1836), pp. 494-500 (in particolare p. 500). 29 A. SALINAS, Scritti scelti, cit., p. 57. 30 È a Nord del tempio G che fu trovata l’iscrizione funeraria di Ausonius Diaconus, generalmente datata al V sec. d.C.
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
155
In breve, abbiamo visto che spesso, e con qualsiasi cultura religiosa, greca, punica, cristiana, esiste una certa permanenza nei luoghi di culto che si sovrappongono nel tempo. Per chiudere, ritengo giusto citare la chiesa vecchia di Marinella (fig. 9), distrutta nel terremoto del 1968 – ho impiegato anni prima di localizzarla –, e che si trova tra via Caboto e la via della Cittadella, nei pressi dell’ingresso del parcheggio, vicino la scuola elementare. Essa corrisponde al villaggio sviluppatosi vicino lo scalo, quando si ebbe lo spostamento del luogo di vita. Non posso non notare che la sua ubicazione non è tanto lontana dal posto dove fu ritrovato il blocco inciso con Divus Augustus, ma non dimentichiamo che le pietre viaggiano e che la “misteriosa” iscrizione romana potrebbe anche essere stata portata da qualche nave che l’avrebbe adoperata come zavorra...
156
Fig. 1 â&#x20AC;&#x201C; Selinunte, veduta satellitare (da Google)
Martine Fourmont
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di cultoâ&#x20AC;Ś
157
Fig. 2 â&#x20AC;&#x201C; Zona della Malophoros (elaborazione da D. Mertens, Selinus I, Beilage 1)
158
Martine Fourmont
Fig. 3 â&#x20AC;&#x201C; Acropoli, i livelli (elaborazione da D. Mertens, Selinus I, Beilage 1)
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di cultoâ&#x20AC;Ś
159
Fig. 4 â&#x20AC;&#x201C; Acropoli, santuario, propylon e scalinata (infografica di M. Fourmont)
160
Fig. 5 â&#x20AC;&#x201C; Selinunte: i punti piĂš alti (elaborazione da Google)
Martine Fourmont
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di cultoâ&#x20AC;Ś
161
Fig. 6 â&#x20AC;&#x201C; Culti di periodo punico (elaborazione da Google e da D. Mertens, Selinus I, Beilage 1)
162
Martine Fourmont
Fig. 7 â&#x20AC;&#x201C; Santuario punico nel tempio A (da M. Fourmont, Guida archeologica, 2014, fig. 59)
Selinunte: topografia e tipologia fisica dei luoghi di culto…
163
Fig. 8 – Battistero a Ovest dell’acropoli (da F. Lentini, in Selinunte, p. 213, fig. 9)
164
Fig. 9 â&#x20AC;&#x201C; Marinella, chiesa vecchia (foto di G. Polizzi)
Martine Fourmont
La Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” di Castelvetrano: per un progetto di rinnovamento Vincenzo Fugaldi Il mio intervento non è perfettamente in linea con il tema principale del convegno, eppure è a esso collegato, poiché il programmato restauro di parte del Convento di San Francesco di Paola per ospitarvi la Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” può rappresentare una preziosa occasione per gettare un ponte tra il passato e il futuro di questa città. La recente apertura del Pertini a Cinisello Balsamo, avvenuta nel settembre 2012, può essere da stimolo a una riflessione. Ecco alcuni dati:1 Cinisello è un paese di circa 74.000 abitanti, dunque poco meno del doppio di Castelvetrano. Il Pertini, che prima era una vecchia scuola elementare, offre spazi complessivi per 6.622 mq, di cui 5.027 destinati a servizi al pubblico e 1.595 destinati a magazzini e locali tecnici. La biblioteca di Cinisello precedentemente occupava – su due sedi - poco meno di 1.500 mq. I lavori del Pertini sono costati circa 11.000.000 di euro per i locali e oltre 1.800.000 euro per arredi e attrezzature informatiche. I posti a sedere sono 710, suddivisi in 403 sedie, 91 sedute imbottite, 28 poltrone, 187 poltrone per l’auditorium, 1 divano. La biblioteca 1
Cfr. B. PERTINI, A Cinisello Balsamo una grande biblioteca pubblica per una città che cambia, in «Biblioteche oggi» 2 (2013), pp. 27-50.
166
Vincenzo Fugaldi
possiede oltre 112.000 documenti, tra cui 85.000 libri, quasi 20.000 risorse elettroniche (cd-rom, cd musicali, dvd), 205 testate di periodici, fondi storici, e offre accesso a circa 94.000 risorse digitali attraverso MediaLibraryOnLine. I dati statistici riguardanti l’accesso riportavano, già nelle vecchie sedi, nel 2011, un indice di impatto (iscritti annui/popolazione) del 13,22%. Tra le attrezzature, ci sono 33 pc disponibili per il pubblico, 20 pc portatili per corsi di informatica, 4 stazioni di auto prestito. Il personale: 1 posizione organizzativa, 21 bibliotecari comunali di cui due a part time, 6 bibliotecari del sistema bibliotecario, 1 tecnico di sala, 3 impiegati amministrativi di cui due a part time, 9 volontari e un servizio di guardiania. Orari di apertura: da gennaio ad aprile e da ottobre a dicembre 63 ore settimanali, così suddivise: domenica, lunedì e martedì dalle 14 alle 19; mercoledì, giovedì, venerdì e sabato dalle 10 alle 22. A maggio, giugno, luglio e settembre 67 ore settimanali (chiusura alle 23); ad agosto le ore settimanali si riducono a 46. Qualcuno – non se ancora dopo aver appreso questi dati – potrebbe muovere obiezioni alla mia affermazione riguardante la biblioteca come ponte tra il passato e il futuro: per alcuni, infatti, ancora, la biblioteca rappresenta solo un mezzo per conoscere e conservare il passato, e non può avere nulla a che fare col futuro. Io cercherò invece di dimostrarvi che non è così. La biblioteca di cui voglio parlarvi, la biblioteca comunale, non ha infatti alcuna funzione conservativa. Funzioni di questo tipo devono essere svolte dalle istituzioni preposte per legge alla conservazione, nel caso del territorio della provincia di Trapani dalla sola Biblioteca Fardelliana. Le biblioteche comunali, invece, hanno funzioni diverse. Un’altra obiezione che qualcuno potrebbe porre è che delle biblioteche, già oggi e ancor più nel futuro, non avremo bisogno, perché “tanto c’è Google”. A queste obiezioni occorre rispondere con chiarezza: Internet dà accesso a una enorme quantità di in-
La Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” di Castelvetrano…
167
formazioni, ma non ne garantisce l’integrità e la permanenza, per svariate ragioni. Proprio l’enorme quantità di informazioni reperibili mediante Google disorienta l’utente, il quale spesso si limita ai primi risultati, o non trova l’informazione che cerca. La maggior parte degli utenti, poi, non è in grado di discernere l’informazione di qualità da quella scorretta. I social network peraltro, per quanto utili e affascinanti, presentano gravi ombre. Niente di virtuale, in sintesi, può sostituire una biblioteca pubblica ben concepita e organizzata, nella quale le persone – anche quelle che non utilizzano Internet – si incontrano e si confrontano veramente.2 Il disegno di legge sul Sistema bibliotecario regionale integrato che l’Associazione italiana biblioteche, Sezione Sicilia, ha recentemente portato all’attenzione dell’Assemblea regionale siciliana, definisce la biblioteca comunale come struttura informativa permanente aperta al pubblico che fornisce l’accesso libero e gratuito all’informazione e alla conoscenza, registrate su supporti di qualsiasi natura e formato. Un servizio che ogni Comune assicura alla propria comunità di riferimento per rispondere alle esigenze di documentazione e informazione di tutti cittadini. La biblioteca deve assicurare, tra l’altro: a) l'acquisizione, la conservazione, la gestione, l’incremento, la revisione costante e la valorizzazione delle proprie raccolte, in misura adeguata alla popolazione servita, in locali allestiti e organizzati in funzione delle diverse fasce di utenza; b) il servizio di lettura, di consultazione e il prestito, locale e interbibliotecario, anche a sostegno della formazione continua dei cittadini; c) l’assistenza agli utenti per la ricerca e l’acquisizione di informazioni e documenti;
2
Cfr. A. AGNOLI, Caro sindaco, parliamo di biblioteche, Milano 2011.
168
Vincenzo Fugaldi
d) la fornitura di informazioni circa l'ubicazione dei documenti in possesso di altre biblioteche al di fuori del sistema di appartenenza; e) un servizio di apertura al pubblico che tenga conto delle esigenze delle diverse categorie sociali, assicurandone l’erogazione nelle fasce orarie in cui esse possono accedere in tutto l’arco settimanale e per l’intera giornata. Gli orari di apertura al pubblico non potranno in ogni caso essere inferiori a 40 ore a settimana nei Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, come nel caso di Castelvetrano; f) la realizzazione di collegamenti con banche dati, basi di dati informatizzate e contenuti in formato digitale, di pubblico dominio e commerciali, garantendone la fruizione al pubblico; g) l’attività di avviamento alla lettura, di promozione del libro e dell’istruzione come strumenti indispensabili per la crescita democratica individuale e l’emancipazione civile, sociale ed economica degli individui; h) la costituzione di una sezione ragazzi; i) la costituzione di raccolte e servizi multiculturali; j) i servizi per l’infanzia; k) i servizi per i giovani adulti; l) i servizi per fasce di utenti svantaggiati; m) una sezione bibliografico-documentale di interesse locale; n) assicurare con postazioni pubbliche la navigazione in rete con accesso libero e gratuito; o) alfabetizzare l’utente all’uso delle più diffuse tecnologie dell’informazione e istruirlo sulle tecniche di ricerca, per accedere all’informazione in rete, sviluppare le competenze nella ricerca dell’informazione e stimolare la capacità di valutazione critica dei risultati delle ricerche; s) la rilevazione della soddisfazione degli utenti; t) la collaborazione con le scuole di ogni ordine e grado;
La Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” di Castelvetrano…
169
u) il sostegno all’autoformazione e all’apprendimento permanente di tutti i cittadini, anche in collaborazione con il sistema della formazione nelle sue diverse articolazioni, al fine di favorire il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza. Dunque un lungo elenco di compiti, che qualificano la biblioteca comunale in maniera sostanzialmente differente rispetto alla concezione “conservativa” cui facevo cenno prima. Come affermato dal documento programmatico dell’Associazione italiana biblioteche Rilanciare le biblioteche pubbliche italiane, http://www.aib.it/attivita/campagne/2012/12818-rilanciarele-biblioteche-pubbliche-italiane-documento-programmatico/, la biblioteca comunale è un servizio di prossimità per il cittadino, che offre una serie di servizi di lettura, supporto allo studio e informazione di comunità accessibili a chiunque: è un servizio di base, senza alcuna connotazione specialistica. Riprendo qui, per chiarirli meglio, alcuni concetti espressi nel precedente elenco di compiti della biblioteca. Acquisizioni.3 La politica che presiede alla formazione di una raccolta bibliotecaria è strategica per determinare il successo del servizio nei confronti dell’utenza e per la crescita culturale della comunità servita. Le raccolte, che devono ispirarsi al pluralismo delle idee e alla libertà intellettuale, devono tener conto dei bisogni dell’utenza. È l’utente, infatti, e non il documento, il vero patrimonio di una biblioteca. Va analizzato a fondo il contesto locale, costituendo un’offerta documentaria che favorisca la libera circolazione dell’informazione e la diffusione della conoscenza. Vanno effettuate analisi dei contesti istituzionale ed economico, dei bisogni informativi della popolazione, da realizzarsi mediante raccolta e valutazione di dati. Al concetto di acquisizione sono strettamente collegati quelli di conservazione, gestione, sviluppo 3
Cfr. S. PARISE, La formazione delle raccolte nelle biblioteche pubbliche. Dall'analisi dei bisogni allo sviluppo delle collezioni, Milano 2008.
170
Vincenzo Fugaldi
e revisione delle raccolte: poiché abbiamo chiarito che le biblioteche comunali non hanno compiti conservativi – tranne che per i materiali sottoposti a tutela come i libri antichi sino al 1830, le opere rare e di pregio e i fondi riguardanti la storia locale – è necessaria una costante attività di revisione, da svolgersi secondo precisi criteri. La revisione deve basarsi su un protocollo ben preciso che ne fissi regole e modalità, in riferimento alla condizioni materiali, all’età, al contenuto, all’uso e alla ridondanza dei documenti. Tutte queste attività vanno confortate da una Carta delle collezioni, un documento pubblico che espliciti all’utenza le politiche prescelte, e da obiettivi quantitativi e di sviluppo basati su standard internazionali. Promozione della lettura. Un volume dell’editore Laterza, L’Italia che legge, di Giovanni Solimine, pubblicato nel 2010 e basato su dati statistici, evidenzia che in Italia, tra la popolazione con un’età superiore ai sei anni, ci sono quasi 31 milioni di persone che non leggono. Più imbarazzante il dato frazionato geograficamente: legge libri il 51,8% di chi vive al nord, e soltanto il 34,6% di chi vive al sud. La quota più bassa si registra in Sicilia, dove meno di una persona su tre si dichiara lettore. È noto che esiste un rapporto fra condizioni economiche generali, consumi culturali, benessere dei cittadini e livelli di convivenza civile. C’è un legame tra il livello di benessere, non solo economico, e gli indici di lettura. I paesi nei quali si legge di più e in cui le biblioteche marcano una presenza più incisiva, sono anche i paesi in cui i livelli di competitività sono più elevati, la corruzione e la criminalità pesano in misura minore, la parità tra i sessi è scontata, e così via. Le due cose vanno di pari passo, poiché il senso critico e gli stimoli che la lettura offre sono di aiuto per il miglioramento della civile convivenza. Oltre la metà dei residenti in Sicilia dichiara di non aver letto, né nel tempo libero, né per motivi professionali o scolastici, né di aver avuto tra le mani alcun genere di libri. E per di più questi dati costituiscono una media: men-
La Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” di Castelvetrano…
171
tre infatti nelle grandi città la presenza di librerie sopperisce alle gravissime carenze nei servizi di pubblica lettura – almeno nei confronti dei pochi che hanno la disponibilità economica per acquistare libri – nelle piccole realtà l’assenza di lettori è una terribile costante. Questa è la realtà che ci circonda, ecco perché abbiamo il dovere civile di promuovere la lettura, a ogni livello, in particolare attraverso servizi bibliotecari modernamente concepiti. Servizi per l’infanzia, per i ragazzi e per i giovani adulti.4 Se non creiamo piccoli lettori, non avremo mai dei lettori adulti. Il progetto Nati per leggere, avviato nel 1999, ha l'obiettivo di promuovere la lettura ad alta voce ai bambini di età compresa tra i 6 mesi e i 6 anni. A tale progetto partecipano vari attori, bibliotecari, pediatri, educatori, enti pubblici, associazioni culturali e di volontariato. Naturalmente il progetto, di straordinaria valenza sociale, che sta riscuotendo enorme successo su tutto il territorio nazionale e anche in Sicilia, non può radicarsi se non è supportato da una valida biblioteca comunale che ne costituisca il centro propulsore. Vanno poi organizzati i servizi per ragazzi, che forniscano loro le capacità di alfabetizzazione e di apprendimento, mettendoli in grado di partecipare e contribuire alla vita della comunità, attraverso un’ampia scelta di materiali e di attività, offrendo loro l’opportunità di provare il piacere della lettura e il gusto di scoprire nuove cose. La biblioteca deve organizzare eventi appositi per bambini, come a esempio la narrazione di storie. E infine, in tema di adolescenti, la biblioteca deve aiutarli a superare la transizione tra l’infanzia e l’età adulta fornendo ac4
Cfr. il sito del progetto Nati per leggere, http://www.natiperleggere.it/ e la pubblicazione dell’INTERNATIONAL FEDERATION OF LIBRARY ASSOCIATIONS AND INSTITUTIONS Il servizio bibliotecario pubblico. Linee guida IFLA/Unesco per lo sviluppo. Edizione italiana a cura della Commissione nazionale Biblioteche pubbliche dell’AIB, Associazione italiana biblioteche, Roma 2002 (disponibile a: http://archive.ifla.org/VII/s8/news/pg01-it.pdf).
172
Vincenzo Fugaldi
cesso alle risorse e condizioni ambientali che, rispondendo ai loro specifici bisogni, ne favoriscano lo sviluppo intellettuale, affettivo e sociale. Una fascia d’età molto delicata, che se non saputa gestire con servizi adeguati, rischia di abbandonare la frequenza della biblioteca. E, per ciascuno di questi servizi, occorrono spazi e arredi adatti, scelti e calibrati per le diverse fasce di età. Servizi multiculturali.5 Comportano, tra le altre, le seguenti attività: individuare le comunità di immigrati, gli stranieri temporaneamente residenti, le minoranze storico-linguistiche presenti nel territorio; analizzare i bisogni di informazione di ciascuna delle comunità rappresentate; rimuovere ogni eventuale barriera fisica, ambientale, sociale, psicologica che contribuisce a limitare la frequentazione della biblioteca; rendere pubbliche le politiche perseguite dalla biblioteca in relazione ai servizi per le minoranze etniche, linguistiche e culturali; predisporre adeguati strumenti di informazione e comunicazione; prevedere forme di consultazione stabile con le comunità servite, sia in fase di programmazione che di verifica degli obiettivi; garantire un efficace sviluppo delle raccolte, privilegiando i documenti nelle lingue di origine, bilingui o plurilingui, nei diversi formati e con i diversi supporti che le tecnologie rendono disponibili, con particolare attenzione ai materiali per l'apprendimento linguistico; assicurare che una buona percentuale delle acquisizioni sia rivolta ai bambini delle minoranze etniche e linguistiche; catalogare i documenti possibilmente nella scrittura originale; offrire servizi di informazione nella lingua di origine, preferibilmente per il tramite di personale appartenente alle comunità servite; raccogliere, conservare e rendere disponibile documentazione sulle tradizioni 5
Parte redatta facendo riferimento al documento del GRUPPO DI STUDIO SULLE Per la biblioteca multiculturale dell’aprile 2002, http://www.aib.it/aib/commiss/mc/missione.htm. BIBLIOTECHE MULTICULTURALI DELL’AIB
La Biblioteca comunale “Leonardo Centonze” di Castelvetrano…
173
storiche e culturali delle comunità minoritarie, e sulla loro presenza nella realtà locale; curare l'aggiornamento del personale alle diverse competenze professionali necessarie a gestire e svolgere i servizi multiculturali. L’apertura di una nuova e prestigiosa sede per la biblioteca comunale di Castelvetrano può rappresentare una straordinaria occasione di crescita della qualità della vita per la popolazione, specie per la parte più giovane. Purché sia radicata in tutti gli attori coinvolti (amministratori e bibliotecari in primis) una nuova cultura della biblioteca, che ne colga tutte le potenzialità sociali. E che si prenda atto che lo scenario della comunicazione è profondamente cambiato negli ultimi decenni, e che oggi una biblioteca pubblica non può continuare a esistere senza confrontarsi con le nuove tecnologie, il mondo del web e quello dei social network: e-book, tablet, smartphone, Google, Wikipedia, Youtube, Facebook, Twitter, ecc. E per confrontarsi con il nuovo, le biblioteche vanno gestite da personale professionalmente formato e adeguatamente aggiornato, pronto ad accettare le sfide che un servizio basato sulla centralità dell’utente richiede in modo pressante. Lo sforzo richiesto all’amministrazione è dunque quello di investire molto – oltre che sul rinnovamento delle raccolte sia per quanto riguarda il materiale cartaceo sia quello elettronico – sulla formazione e l’aggiornamento professionale, e di arredare i nuovi locali – posto che le precedenti scaffalature, comunque inadatte, non sono recuperabili – secondo le esigenze di una biblioteca che viva nell’oggi, adeguandosi alla realtà che cambia. Dunque scaffalature aperte e mobili su ruote, postazioni per le informazioni discrete e leggere, soluzioni di arredo che siano facilmente modificabili nel tempo, al fine di calibrare i servizi sulle esigenze dell’utenza. Oggi, dopo la biblioteconomia documentale, incentrata sul documento, e la biblioteconomia gestionale, incentrata sul servi-
174
Vincenzo Fugaldi
zio, la nuova biblioteconomia è sociale: una disciplina al servizio di una biblioteca che mette in relazione persone con persone, guardando al benessere dell’individuo e all’impatto sulla qualità della vita che la frequentazione della biblioteca può contribuire a generare, ricercando un nuovo punto di equilibrio tra il core business della biblioteca e la sua funzione sociale. Per questo occorrono biblioteche diverse e bibliotecari con una preparazione professionale adeguata, che aiutino, come sosteneva Giovanni Solimine nel suo intervento a un recente convegno milanese, le persone a vivere meglio e aumentino il livello di benessere sociale offrendo loro – ogni giorno – gli strumenti per conoscere e comprendere la società.6
6
C. FAGGIOLANI - G. SOLIMINE, Biblioteche moltiplicatrici di welfare. Verso la biblioteconomia sociale, in «Biblioteche oggi» 3 (2013), pp. 15-19.
Potere e devozione nel Principato di Castelvetrano Giovanni Isgrò Sono esistiti da sempre collegamenti stretti fra la ritualità legata alla sfera religiosa e la cerimonialità del potere laico. La logica è stata quella della cattura del consenso ma anche del controllo della sudditanza in tutta la sua articolazione. La storia è ampiamente attraversata da testimonianze significative in questo senso. Nel passaggio dall’alto al basso Medioevo furono i Benedettini a sostenere con le loro pratiche monastiche la legittimità del monarca cristiano, da Carlo Magno ai re normanni. Su un altro piano, l’avvento degli ordini mendicanti, francescani e domenicani, nel sec. XIII, diede inizio al fenomeno della pietà popolare, e con esso, a quello confraternale con le manifestazioni penitenziali; ma anche in quel caso non mancò la presenza attiva delle classi dominanti.1 In Sicilia bisogna attendere l’avvento della monarchia spagnola per assistere ad un vero processo di regolarizzazione delle pratiche rituali nei contesti urbani. In particolare sarà l’avvento dei Gesuiti, in piena Controriforma, a dare ulteriore ordine alla forma del teatro festivo,2 men1
Sul rapporto fra devozione e potere con particolare riferimento agli ambiti cerimoniali e a quelli della drammatica sacra rimando per tutti a G. ISGRÒ, Il sacro e la scena, Roma 2011. 2 Cfr. in proposito G. ISGRÒ, Fra le invenzioni della scena gesuitica, Roma 2008.
176
Giovanni Isgrò
tre dalla metà del Settecento un nuovo rilancio della festa popolare organizzata da parrocchie e da nuove confraternite arricchirà il panorama delle rappresentazioni a carattere devozionale, la cui tradizione è giunta fino a noi. Nel quadro europeo di questa realtà cerimoniale nella quale la ritualità della sfera religiosa e quella della celebrazione del potere laico si intrecciarono, gli Aragona e Tagliavia signori di Castelvetrano da un lato cercarono a loro volta legittimità per meriti devozionali e obbedirono in particolare alle strategie di dominio dettate dalla monarchia spagnola in riferimento al ruolo che ricoprirono nella città di Palermo e più in generale nella Sicilia, ricevendo per questa ragione riconoscimenti e privilegi. Dall’altro in terra di Castelvetrano gli stessi signori seguirono percorsi per certi aspetti autonomi, che se nel corso del ’500 sembrarono rispondere alla logica del buon governo topico, nel Seicento, quando il monopolio della cerimonialità civica non interessò il potere signorile come nel passato ed esplose la cultura della festa barocca a committenza multipla, si avvertì la mancanza di un’orchestrazione complessiva che garantisse all’articolazione del tessuto urbano armonia e unità interna fino al manifestarsi di realtà devozionali disgregate e fra loro talvolta in aperto conflitto. Il panorama cinquecentesco ruota attorno alla figura di Carlo Aragona e Tagliavia, figlio di Giovan Vincenzo, primo conte di Castelvetrano. Due anni prima di succedere al padre, nel 1546 don Carlo compiva il primo importante gesto “devozionale” chiamando i frati cappuccini nel territorio di S. Anna presso una chiesa-convento appositamente eretta extra mænia. L’iniziativa ebbe subito grande successo di immagine e consenso presso la sudditanza, ben presto accresciuti dallo straordinario evento del rientro in Sicilia del corpo di padre Pietro da Mazara dopo la presa cristiana della città di Madhia e dell’inseparabile, quanto mi-
Potere e devozione nel Principato di Castelvetrano
177
racoloso, suo crocifisso che per volere dell’estinto fu consegnato proprio al convento di Castelvetrano. Dalla metà degli anni cinquanta del ’500, in coincidenza con la salita al trono di Filippo II iniziava intanto l’irresistibile ascesa del cursus honorum di don Carlo. Ottenuto dal re di Spagna il titolo di principe nel 1564 , due anni dopo fu nominato Presidente del Regno, carica questa, che gli consentì di svolgere un ruolo primario nella realizzazione delle prime fasi attuative del progetto “Palermo città-teatro”. Al 1567 si riferiscono infatti il prolungamento del Cassaro (ossia via Toledo, oggi corso Vittorio Emanuele) fino a piazza Marina, poi aperto fino al mare dal viceré Marcantonio Colonna, la sistemazione del largo d’Aragona (oggi piazza Bologni), la collocazione della monumentale fontana Pretoria davanti al Palazzo Civico. L’ingresso trionfale del cardinale Farnese che percorse l’asse di parata della via Toledo per prendere in cattedrale possesso solenne del suo potere spirituale in Sicilia proprio in quello stesso anno 1567 fu un immediato riscontro dell’alto ruolo assunto dal principe di Castelvetrano. Ma ancora più significativo fu il contributo dato dal nostro nell’organizzazione della flotta siciliana destinata alla battaglia di Lepanto nel 1571. Il successo riportato sulla flotta turca in quella circostanza, come è noto, ebbe ripercussioni forti anche in Sicilia, nel senso che un forte impulso fu dato alla riqualificazione urbanistico-architettonica in particolare delle due maggiori città di rappresentanza della Sicilia, Palermo e Messina; esempio, questo, seguito anche da centri minori dell’isola, mentre a Carlo Aragona nel 1572 spettò l’onore di dirigere a Palermo i festeggiamenti in onore del comandante della flotta alleata cristiana, Giovanni d’Austria, figlio naturale dell’imperatore Carlo V; circostanza, che aggiunse legittimità alla sua immagine di “Grande Siciliano”. Dalla sua rielezione alla carica di Presidente del Regno nel 1574, il cursus honorum porterà il nostro principe ad incarichi sempre più prestigiosi. Nel
178
Giovanni Isgrò
1581 è viceré in Catalogna e successivamente Governatore a Milano. La considerevole, positiva ricaduta di tanto prestigio nella città di Castelvetrano continuò ad essere fortemente sostenuta dall’orientamento devozionale di Carlo Aragona, che rivelò proprio negli anni ’70 grande devozione a San Domenico. La costruzione della chiesa dedicata a questo grande Santo fu evento assai significativo dal momento che costituì anche atto di omaggio al domenicano Papa Pio V, promotore della battaglia di Lepanto. E non è un caso che un affresco riproducente lo schieramento a battaglia delle navi cristiane contrapposte a quelle turche fu fatto realizzare all’interno di quella chiesa. Al di là della promozione delle arti collegate alla tematica religiosa, che pure costituisce un capitolo fondamentale nella storia della città, il progressivo configurarsi dell’impianto urbanisticoarchitettonico offre una testimonianza esemplare di una originale sintesi fra hispanidad e Rinascenza. Fu così che la piazza antistante il castello trasformato in edificio di rappresentanza massimo dell’urbe assunse la funzione di plaza mayor regular rispondente al disegno urbanistico promosso da Filippo II nelle città del suo dominio.3 In questo luogo di rispetto, dove si sporge il tempio massimo della città e dove la sudditanza poteva riunirsi per acclamare il suo principe o/e per assistere al passaggio delle processioni, si consumava il rito della complementarietà fra potere civile e potere religioso. Attorno a questo centro, vero e proprio palcoscenico urbano a spazio totale, come in una sorta di ideale cavea si predisposero nel tempo, “a ferro di cavallo”, le chiese di Sant’Agostino, di San Carlo Borromeo, di San Domenico, degli Agonizzanti, di Sant’Antonio Abate, di Sant’Antonio da Padova; tutte della se3
Rimando in proposito a G. ISGRÒ, La città e il teatro della festa. Il barocco spagnolo, Palermo 2003.
Potere e devozione nel Principato di Castelvetrano
179
conda metà del ’500 ad eccezione della chiesa di San Carlo realizzata nel 1627. Il “gran teatro della devozione” ruotante attorno al palazzo del principe ed alla contigua Chiesa Madre venne completato dagli interventi seicenteschi volti a precisare, nello spirito della festa barocca, l’immagine della città-teatro.4 Anche in questo caso il ruolo di “corago” della scena urbana devozionale spettò al principe. E non è di secondaria importanza in questo senso l’istituzione della “fiera franca” nel 1610 presso il grande slargo compreso fra la chiesa di San Giovanni e quella di San Domenico. Nel 1623 Ottavio Aragona faceva costruire un convento da destinare ai padri cappuccini in un’area più prossima alla città. I lavori vennero però interrotti per la morte del committente, seguita a breve dalla morte del fratello Giovanni, vittima della peste del 1624. Ed ecco che proprio nell’anno della ripresa dei lavori, giusto in prossimità del convento, nel 1626 veniva alzato l’arco trionfale che introduceva l’asse di parata in direzione della plaza mayor. È in questo contesto di ulteriore animazione di questo spazio che si colloca in un clima di vera e propria euforia e di pietà popolare l’evento dell’“Aurora”, ossia dell’incontro fra il Cristo Risorto e la Madonna al mattino del giorno di Pasqua ideata e curata inizialmente dai padri Carmelitani. Il 1631 è la volta della costruzione della nuova parrocchia del SS. Sacramento presso la chiesa di San Giovanni. E fu testimonianza dell’acceso clima “devozionale” l’incontenibile rivalità che esplose subito fra questa parrocchia e la chiesa Madre con ripercussioni forti anche sulla definizione dei rispettivi percorsi processionali.
4
Sull’idea della città-teatro in Sicilia può essere utile consultare i saggi di G. ISGRÒ, Feste barocche a Palermo, Palermo 1981-86; Il teatro del ’500 a Palermo, Palermo 1983; Il teatro negato, Bari 2011.
180
Giovanni Isgrò
Nel 1670 veniva istituita la confraternita dei “33”. Ad essa fu assegnato il culto della SS. Crocifisso e l’organizzazione della relativa festa destinata a diventare un grande evento celebrativo urbano con la costruzione di archi effimeri addobbati di rami, fronde e fiori alzati lungo le strade della processione e all’ingresso delle vie che si sporgevano sugli assi di parata. L’inizio del ’700 vede anche la realizzazione del carro trionfale in onore di San Giovanni, ad imitazione delle macchine sceniche realizzate nel Festino di Santa Rosalia a Palermo. Da questa sorta di emulazione degli eventi legati alle grandi tradizioni festive in uso nei maggiori centri dell’isola, nel 1759 nacque anche la “Fiera della Tagliata”, destinata a diventare nel tempo, insieme all’“Aurora”, manifestazione tipica di Castelvetrano. La carrellata necessariamente veloce del teatro festivo barocco si chiude qui per dare spazio ad alcune riflessioni relative all’andamento storico e alle caratteristiche della devozione promossa dal nostro principe a partire dalla metà XVI del secolo. In particolare non si può non rilevare l’assenza dei padri Gesuiti a Castelvetrano intanto che in tutta la Sicilia dopo la chiamata del viceré De Vega essi iniziavano una sempre più vasta azione pastorale che avrebbe portato ad un’ampia diffusione della fede anche nei territori contigui a Castelvetrano come Marsala, Mazara, Salemi. Probabilmente fu proprio il rigore della Compagnia di Gesù, ma anche la forte attitudine di quest’ordine all’adattamento e alla comprensione delle realtà sociali per una rifondazione forte della devozione e della morale cristiana al di fuori delle logiche di potere a far sì che Carlo Aragona e i suoi discendenti ritenessero di non rischiare una presenza scomoda. Proprio Carlo Aragona del resto nel 1567 a Palermo era stato testimone di un evento che dovette scoraggiarlo dal favorire l’insediamento dei Gesuiti nella “sua” città. Si tratta del cosiddetto Trionfo della morte inscenato in parte nel Cassaro di Palermo in occasione del Carnevale. Nel tempo in cui la città impazzava e si abbandonava
Potere e devozione nel Principato di Castelvetrano
181
a lascivie e immoralità i padri e gli allievi del collegio palermitano, nel giorno delle Ceneri, misero in scena uno straordinario, quanto inedito corteo figurato e allegorico in costume che, partendo dalla Chiesa del Collegio, attraversò il Cassaro e gli assi principali del centro urbano. Si trattò di una vera e propria azione edificante volta a incutere sentimenti di pentimento per l’attenzione alle cose terrene e di terrore di fronte all’immagine terribile della morte.5 Uscendo fuori dall’atmosfera aristocratica ed esclusiva delle recite nel Collegio, i Gesuiti esercitarono in questa circostanza il loro ruolo di divulgatori eccezionali della fede di fronte all’espansione massima della “platea” urbana. Per far questo, le stesse figurazioni riconoscibili della pratica penitenziale, quale fu quella inscenata dalla schiera dei flagellanti al seguito del simulacro del Cristo morto collocato su un alto catafalco, furono teatralmente esasperate dal numero degli attanti e dalla esibizione estrema della sofferenza e del sangue delle ferite provocato dalle “discipline”. Insieme a questa amplificazione drammatica delle esperienze processionali preesistenti, ci fu la grande invenzione e la sorpresa dell’inatteso in grado di superare in spettacolarità e in meraviglia qualsiasi forma di esibizione carnevalesca. L’azione consisteva in una inquietante sfilata di circa 500 figuranti, con in testa una sessantina di personaggi vestiti di sacchi penitenziali di colore azzurro con in mano due torce accese; seguivano un coro di musici , dietro ai quali veniva condotta una bara recante il Crocifisso, con attorno gli attrezzi della Passione e quattro angeli. Era, questa, l’apertura della visione cupa di ben 200 penitenti vestiti di nero, che si battevano con discipline di ferro, sì che il sangue bagnava il suolo mentre il rimbombo dei colpi sulle carni squarciava il silenzio della sera, di fronte ad un popolo attonito e 5
La descrizione completa di questo evento è di E. AGUILERA, Provincae Siculae Societatis Jesu ortus et res gestae, I, Palermo 1737, pp. 171-2.
182
Giovanni Isgrò
intanto che portatori di lanterne illuminavano la scena con luci funeste. Seguiva ancora un altro coro in veste di anacoreti, che con un canto flebile lamentavano la caducità delle cose umane. Era la volta, quindi, di una fila di dodici uomini dal viso scarno su cavalli assai deformi e sparuti, recanti simboli di morte e attorniati da figuranti con sai color cenere, recanti torce. Chiudeva lo spettacolare, quanto lugubre corteo, un carro altissimo tale da raggiungere le quote di finestre e balconi, come se il suo messaggio funesto potesse entrare fin dentro le stanze dei palazzi. Illuminato da quattro lanternoni e ceri, era realizzato con grande maestria e dipinto tutt’intorno. Lo trainavano quattro buoi neri, guidati da un cocchiere raffigurante il Tempo, mentre al centro del carro, su un praticabile in alto, dominava un simulacro raffigurante la Morte, realizzato con “ossa spolpate”, recante in una mano una grande falce, e sull’altra un arco con frecce avvelenate. Ai piedi si vedevano zappe, pale e ogni arnese necessario per scavare fosse e seppellire cadaveri. La Morte appariva, al tempo stesso, trionfante su una schiera di quindici personaggi raffiguranti pontefici, imperatori, re, principi, persone di ogni ceto, che alzavano lamenti e grida strazianti per la loro condizione. Questa sorta di teatro di strada, inventato e proposto per la prima volta dai Padri Gesuiti, sortì l’effetto voluto di uno shock improvviso presso la gran parte della cittadinanza convenuta in quanto spinta dalla curiosità, cui seguì un sentimento spontaneo di devozione collettiva che portò gli spettatori a diventare, tutti insieme, protagonisti di una processione edificante a partecipazione totale. Ma poté anche essere interpretato come una sorta di “sorpasso” implicito, anche se momentaneo, del controllo della cosa urbana nei confronti dell’autorità laica. Aspetto, questo, che dovette influire non poco sulla decisione di Carlo Aragona di non accogliere i Gesuiti nella sua terra. Sul piano artistico – devozionale, al tempo stesso –, questo evento esemplare della spettacolarità urbana messa in atto dai
Potere e devozione nel Principato di Castelvetrano
183
Gesuiti ci fa comprendere per differenza la ragione per la quale, fatta esclusione dell’“Aurora”, il fenomeno festivo devozionale a Castelvetrano mancò della componente spettacolare soprattutto nel campo della teatralizzazione urbana, nella quale appunto i padri della Compagnia furono maestri. Basti pensare alla consuetudine degli spettacoli edificanti da loro inscenati nella vicina Mazara relativi alle vicende agiografiche di San Vito, patrono e martire, in occasione del locale Festino. In quella occasione piazze e slarghi venivano trasformati in luoghi deputati diversi nei quali i devoti assistevano a terrificanti azioni perpetrate contro i santi martiri Vito, Modesto e Crescenzia, con impiego di musici e performers ma anche di elementi scenografici e ingegni scenici tali da imprimere nella mente degli spettatori il senso forte dei valori della fede.6 6
Uno dei ragguagli più significativi in proposito riguarda la teatralizzazione inscenata nel 1728, che porta il titolo di La fede trionfante nei martiri invitti dell’inclita città di Mazzara, Palermo 1728. Riportiamo qui la sintesi di questo spettacolo pubblicata da G. Pitrè: «Fa proprio raccapriccio a leggere la relazione di questo spettacolo e a pensare quanto dovette esso destarne a Mazaresi il 15 giugno di quell’anno. Pochi i personaggi astratti, moltissimi i manigoldi armati di vari strumenti; quattrocento martiri cristiani crudelmente straziati: altri sventrati, e stirate le budella in una ruota, altri in una caldaia di zolfo e piombo bollente, altri lacerati con uncini e pettini di ferro, altri portati sotto la catasta, altri saettati, e crocifissi e sbranati da fiere e morsicati da vipere; e flagellati a sangue; e strappate co’ denti le lingue, e tagliate le dita, le mani, le braccia e feriti con accette e trapanati con ispade e coltelli: e poi scorticamenti, e attanagliamenti, e decapitazioni d’ogni maniera: scene terribili che erano come l’introduzione di quella ove si rappresentava il martirio del fanciullo Vito, del vecchio Modesto e della donna Crescenza. Bisogna credere che chi ideò lo spettacolo avesse molta familiarità co’ martirologi cristiani, ché difficilmente saprebbero idearsi tanti supplizi e così fieri quali quelli di Mazara. V’erano angeli e apparizioni prodigiose; miracoli che facea il fanciullo, e cento altre cose. Sedici furono i luoghi ne’ quali tutte le scene si eseguirono, sperse per tutta la città; ove si videro collocate macchine acconce alle rappresentazioni parziali: il piano di S. Nicolò, quello del Bagno, la porta di
184
Giovanni Isgrò
A fronte del manque scenico urbano determinatosi a Castelvetrano a causa dell’assenza dei Gesuiti c’è la memoria della grande devozione del principe Carlo Aragona, archetipo di un orientamento che continuò a caratterizzare la sua discendenza signorile. Senonché una “strana” testimonianza si aggiunge a quella della scelta del non aver fatto nulla, lui che così potente era, per avere nella sua Castelvetrano la Compagnia di Gesù. Questa volta però l’evento riguarda un grande santo, di fronte al quale il nostro principe si trovò nel 1584 in occasione della cerimonia di un battesimo “di condizione” in coincidenza del carnevale nel tempo in cui egli ricopriva l’alto incarico di governatore di Milano. Evidentemente qualcosa del comportamento di Carlo Aragona non piacque al Borromeo, soprattutto in riferimento al ruolo politico-istituzionale che egli svolgeva in quel viceregno cattolico. E questo “qualcosa” lascia un po’ perplessi, in quanto attiene proprio a quella sfera morale-religiosa della quale egli era apparso grande paladino in terra di Sicilia nella qualità di Presidente del Regno e Principe di Castelvetrano. Ed ecco parte dell’omelia che Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, pronunciò in quella occasione attaccando apertamente il nostro principe per il suo silenzio e la sua inerzia complice degli sprechi, del lusso e degli spettacoli immorali in corso in quei giorni di carnevale: Perché sento che ogni cosa è pervertita dalle crapule e dal lusso? Che cosa significano queste grandissime spese che adesso si vanno facendo, questi orrendi spettacoli? Perché questi innumerevoli, gravissimi, mortali peccati che da ciò discendono? È questo ciò che questo popolo ha promesso a Dio quando fu battezzato? Accadono queste cose. Eccellentissimo principe, e noi tacciamo? Vengono scagliate contro Dio inPalermo, il piano della Canea, i monasteri di Santa Veneranda, di San Michele, di Santa Caterina, il convento del Carmine, la piazza del Duomo, ecc. Questa sembra a me la rappresentazione muta più clamorosa in onore di Santi» (G. PITRÈ, Delle sacre rappresentazioni in Sicilia, in «Archivio Storico Siciliano», N. S., I, 1876, pp. 146-7).
Potere e devozione nel Principato di Castelvetrano
185
giurie così numerose e non ci sentiamo ardere dallo zelo del Signore? Ahimè! Quasi con la nostra complicità il Signore viene bestemmiato. Dio non può essere preso in giro; cedeste? Son vane scuse. Né basterà l'andar dicendo che fummo persone importanti e potenti, che a noi molte cose furon permesse. Fate attenzione, infatti, a ciò che lo spirito di Dio ci dirà a gran voce. Udite e notate, o re, prestate orecchio voi che governate le moltitudini, perché a voi fu dato il potere da Dio, dall'Altissimo vi fu dato il comando. Egli interrogherà le vostre opere, scruterà i vostri pensieri. Presto vi apparirà con spavento. Oda, o Principe, oda anche io miserrimo, perché non sarà un giudizio come gli altri, ma severissimo sarà per coloro che son qui presenti.
Con queste parole di San Carlo ci avviamo alla conclusione di queste brevi riflessioni sottolineando il fatto che se è vero che il potere politico si è spesso avvalso della facies religiosa per legittimare se stesso di fronte ai suoi sudditi, è anche vero che tutte le volte nelle quali l’osservanza della morale religiosa poté risultare scomoda, le distanze irrimediabilmente si aprirono. Così accadde ancora una volta nei viceregni spagnoli del centro e sud America, dai quali ad un certo punto i padri della Compagnia furono cacciati perché in grado di provvedere autonomamente ai bisogni del popolo, sfuggendo così al controllo diretto del potere della monarchia dominante. Ma la storia è siffatta e Castelvetrano, pur col suo “buon governo”, non poté sfuggire alla regola degli uomini. A questo punto, personalmente mi viene in mente quanto accadutomi a Castelvetrano nel 1995 in occasione della II edizione della “Festa del Principe” (proprio il principe Carlo Aragona e Tagliavia) da me ideata e organizzata al fine di portare in questa città la forma del teatro festivo urbano. In quella circostanza invitai monaci benedettini del Monastero di San Martino delle Scale per esibirsi in canti gregoriani diretti dallo stesso abate, padre Ildebrando Scicolone, durante una sosta teatralizzata. La scelta di questa autorevole “formazione”, oltretutto legittimata più di ogni altra in Sicilia nell’esecuzione del genere, sembrò non essere
186
Giovanni Isgrò
gradita dalla committenza, o comunque da chi la sosteneva, in quanto da me preferita ad una corale amatoriale locale, “suggeritami” per l’occasione. Questa mia risoluzione artistica ispirata anche da opportunità di tipo spirituale e motivata dalla dignità storica di quell’ordine monastico, inventore fra l’altro proprio del canto gregoriano, non trovò consenso presso chi localmente pure poteva vantare una certa vicinanza alla Chiesa. Il risultato fu che negli anni immediatamente successivi la mia iniziativa venne interrotta, nonostante il mio impegno volto a garantirle ulteriore valenza scientifica e artistica. Tuttavia in tempi più recenti, sulle tacce dell’evento del 1995, la tipologia del teatro festivo urbano è stata ripresa, sia pure in occasione celebrativa diversa, a cura di operatori locali con consistente battage pubblicitario. Come dire che, mutata la veste del potere “devoto”, ancora oggi le regole non cambiano.
Devozione e culto delle sante nell’architettura e nell’urbanistica di Palermo tra XVI e XVII secolo Walter Leonardi Tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, si impone in Sicilia un’ondata di fervore controriformistico, fondata su una radicalizzazione delle pratiche devozionali e su una riaffermazione dei principi dottrinali più tradizionali. Il clero dell’isola vede prevalere al suo interno le tendenze più intransigenti e conservatrici, volte alla riaffermazione dell’ortodossia in ogni campo della vita civile e culturale. Una vera e propria “strategia di persuasione”, facente capo all’attività degli ordini religiosi e decisa a indirizzare la religiosità popolare, trova i propri canali di espressione nella moltiplicazione di confraternite e congregazioni, nell’incremento delle occasioni liturgiche e di preghiera, nell’accentuazione del fasto e della solennità delle cerimonie e dei riti, nella diffusione capillare di una appropriata letteratura religiosa.1 La necessità di controllo e manipolazione dei bisogni spirituali della gente si manifesta anche nel tentativo di assecondare la devozione popolare attraverso una politica a favore del culto dei 1
Sull’argomento, si veda: L. SCALISI, La Controriforma, in F. BENIGNO - G. GIARRIZZO (a cura di), Storia della Sicilia. Dalle origini al Seicento, RomaBari 2003, pp. 171-182.
188
Walter Leonardi
santi, che nei decenni in cui si vanno affermando le misure dottrinali e disciplinari adottate dal Concilio di Trento diventa una indispensabile valvola di sfogo della “domanda di sacro” manifestata dalla popolazione dell’isola:2 alle figure celesti ci si rivolge per chiedere la protezione contro ogni pericolo o evento avverso, o per invocare la salvezza in caso di calamità e sciagure. La penetrazione controriformistica nella società determina importanti cambiamenti anche nell’assetto urbanistico delle grandi città, dove le forme dell’architettura diventano veicolo di sofisticati valori simbolici e religiosi. A Palermo, tra XVI e XVII secolo, una serie di interventi urbanistici e architettonici coordinati trasformano completamente il tessuto urbano. Alle operazioni di rettifica e prolungamento dell’antico asse del Cassaro, iniziate negli anni Sessanta del Cinquecento per iniziativa del viceré Garcia di Toledo e del Presidente del Regno Carlo d’Aragona, segue il tracciamento di un rettifilo ortogonale, la Strada Nuova, costruita nei primi anni del secolo successivo con il beneplacito del viceré Bernardino Cardines, duca di Maqueda. La “croce” delle strade Toledo-Maqueda rappresenta il punto di approdo della «politica di riduzione della città storica a sistema spaziale semplice e commisurato alle esigenze di controllo espresse dal governo spagnolo e dell’élite nobiliare-aristocratica; in nessun’altra città del Mediterraneo la trasformazione è così drastica e didatticamente aderente al sistema di potere posto in atto dal controriformismo agrario-cattolico»3, che vede in una pianificazione razionale il più efficace strumento di potere nei confronti delle classi sociali subalterne. Un sostrato ideologico e culturale più ampio, tuttavia, sottende al grande intervento pianificatore del “taglio” di via Maqueda. 2
Ibid., p. 179. E. GUIDONI - A. MARINO, Storia dell’urbanistica. Il Seicento, Roma- Bari 1979, p. 70. 3
Devozione e culto delle sante nell’architettura…
189
Come hanno notato Marcello Fagiolo e Maria Luisa Madonna nel loro studio (che ha fatto scuola) sulla rifondazione della città storica nel Cinquecento,4 la quadripartizione di Palermo tramite l’intersezione di due imponenti assi viari è interpretata come benedizione e riconsacrazione della capitale dell’isola mediante il segno della crux cristiana, ovvero come uniformazione dell’abitato urbano alla sfera ultraterrena. Palermo viene paragonata ad una «celeste Gerusalemme»5 o ad un nuovo paradiso terrestre. La carica simbolica celata dietro alla forma della croce di strade è strettamente connessa al contesto storico e filosofico in cui si colloca l’impresa urbanistica. L’ultimo scorcio del Cinquecento è connotato da avvenimenti inquietanti, a partire dalla peste che nel 1575 colpisce la Sicilia. Alla pestilenza succede, nel 1592, una spaventosa carestia, alla quale si accompagnano una serie di fatti dolorosi, come il devastante incendio che investe l’Ospedale Grande, o l’esplosione di una polveriera al Castello a mare.6 «Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno»,7 per citare un celebre verso di Tommaso Campanella, causano in seno alla po4
M. FAGIOLO - M.L. MADONNA, Il Teatro del Sole. La rifondazione di Palermo nel Cinquecento e l’idea della città barocca, Roma 1981. 5 «Siede Palermo al modello della Celeste Gerusalemme in sito quadro, e piano». M. DEL GIUDICE, Palermo magnifico nel Trionfo dell’anno M.D.C.LXXXVI. rinovando le feste dell’Inventione della Gloriosa sua Cittadina S. Rosalia, Palermo 1686, p. 31. Nell’urbanistica rinascimentale e barocca, ricorrente è anche il riferimento all’agostiniana Civitas Dei come modello per i piani di renovatio urbis; a tal proposito, si veda: S. STURM, L’architettura dei Carmelitani Scalzi in età barocca, Roma 2002, p. 1. 6 M. FAGIOLO, M.L. MADONNA, cit., p. 53. 7 T. CAMPANELLA, Delle radici de’ gran mali del mondo, in Poesie filosofiche di Tommaso Campanella pubblicate per la prima volta in Italia da Gio Gaspare Orelli professore all’università di Zurigo, Lugano 1834, p. 13; vedi anche: G. DI NOLA, Tommaso Campanella: il nuovo prometeo, da Poeta- VateProfeta a Restauratore della politica e del diritto, p. 57.
190
Walter Leonardi
polazione un senso di paura e di catastrofe incombente. Un clima di angoscia e profondo turbamento caratterizza anche l’avvento del nuovo secolo: l’anno del Signore 1600 si apre col rogo di Giordano Bruno, vittima del più bieco oscurantismo dogmatico. Il 24 luglio del medesimo anno, giorno in cui si celebra santa Cristina, viene data la prima “picconata” all’edificazione di via Maqueda. Il riferimento alla ricorrenza agiografica non è casuale: la riconfigurazione della forma urbis viene vista come benedizione della comunità in nome dei valori cristiani più autentici e come esorcismo contro ogni male. La felicità di Palermo, dunque, è legata indissolubilmente alla protezione celeste, ad una auspicabile felicità cristiana: «Ex christiana felicitate, felix auspicium, felicius incrementum» scrive Francesco Baronio Manfredi nel suo De maiestate panormitana.8 Di fronte agli eventi funesti, la collettività reagisce affidando alla sfera divina le proprie speranze di salvezza. Nella pia città di Palermo, tra XVI e XVII secolo, il culto dei santi è alla base dell’assetto religioso e culturale messo in atto dalla Chiesa: significativo, in tal senso, il proliferare dei processi di canonizzazione e l’introduzione di nuove venerabili figure nel pantheon della religiosità popolare (tra il 1636 e il 1698 la città elegge ben 18 nuovi santi protettori).9 L’elezione di nuovi patronati si aggiunge all’antica devozione verso le sante tradizionalmente deputate alla protezione della città. È significativo che le sorti della metropoli dell’isola siano affidate ad un numero ristretto di venerabili figure femminili. Come ha evidenziato Giuseppe Galasso, questa predilezione verso una dimensione angelicata e materna della trascendenza contraddistingue la religiosità siciliana rispetto alle altre realtà del Mez8
F. BARONIO MANFREDI, De maiestate panormitana, libri IV, Palermo 1630, p. 166; sul tema si veda: M. FAGIOLO - M.L. MADONNA, cit., pp. 52- 56. 9 L. SCALISI, cit., p. 179.
Devozione e culto delle sante nell’architettura…
191
zogiorno d’Italia, caratterizzate da uno schiacciante predominio maschile nel variegato universo dei santi patroni: «È facile pensare che l’idea di protezione, salvaguardia, tutela, rappresentanza, identificazione e di quant’altro può essere connesso alla nozione di “patrono” si accordi bene con il profilo maschile della tradizione sociale occidentale. E, tuttavia, si sente che con ciò il problema non è chiuso. In Sicilia […] due città importanti come Palermo e Catania hanno come patrone due sante di grande profilo: nel Mezzogiorno continentale casi così macroscopici di patronato femminile non affiorano».10 La devozione per le sante è probabilmente riconducibile ad un retroterra culturale profondo e ancestrale: «si sa che la Sicilia è fin dall’antico una madre- terra di divinità femminili misteriche, di grandi madri intimamente connesse alla terra. Si potrebbe sostenere, in una prospettiva più lunga, che nella mentalità fanciullesca, visionaria, cavalleresca del popolo siciliano le divinità femminili si possono ridurre essenzialmente ad un’idea dell’“eterno femminino”, un concentrato di potenzialità archetipiche, umane ed ecologiche in quanto elemento generante per eccellenza».11 In onore delle benefiche protettrici vengono realizzate solenni feste, che coinvolgono tutta la cittadinanza. I “trionfi sacri” delle sante patrone costituiscono «il banco di prova per le opere architettoniche e urbanistiche realizzate esplicitamente in funzione degli spazi di rappresentanza».12 Le sacre reliquie vengono trasportate per le vie di una città rinnovata, che per l’occasione si arricchisce di ulteriori arredi architettonici e scultorei. Nel gennaio del 1592 viene portata in processione l’arca di santa Cristina da Tiro, potente patrona della città. Ancor 10
G. GALASSO, L’altra Europa. Per una antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Napoli 2009, p. 478. 11 M. FAGIOLO - M.L. MADONNA, cit., p. 112. 12 Ibid., p. 138.
192
Walter Leonardi
più solenne la cerimonia che viene organizzata l’anno successivo per celebrare l’importazione in Sicilia, dalla chiesa romana di Santa Maria in Monticelli, dell’urna argentea contenente le reliquie di santa Ninfa, venerata da tempo a Palermo. L’arrivo in città del sacro scrigno è accolto da grandi festeggiamenti, dei quali offre una preziosa testimonianza la descrizione contenuta nel terzo libro del De maiestate panormitana di Francesco Baronio.13 La festa barocca occupa lo spazio della città come un grande teatro, ridefinendone la percezione mediante un complesso e fantasioso sistema di architetture effimere: lungo la magnifica passeggiata della Strada Colonna «in quel largo ch’è fra il bastione del Trono, il molo vecchio, il mare, e le mura della Città […] si fabbricò di legname un magnifico teatro circondato d’alto a basso di molti ordini di scalini»14; al termine della recente via Toledo, nel punto in cui essa sfocia nella passeggiata lungo il mare, vengono innalzati «due grandi obelisci di cento palme d’altezza l’uno, finti di graniti d’Egitto, con molte borchie d’oro, e una gran palla dorata in cima, e pieni per ogni verso di gieroglifici, che facevano in lode della Santa una centinovata, e bella oratione […] di contro a quelli, sul lito del mare in modo che si vedesse da tutta la via Toleda, e da tutta la strada Colonna sopra un piedistallo alto quaranta palmi […] s’ergeva un obelisco alto palmi cento venti del color medesimo…».15 L’elemento più impressionante della manifestazione, infine, è
13
«[…] si fe nella Città grande apparecchio per ricevere con solenne festa la tanta da essa bramata reliquia», F. BARONIO MANFREDI, cit., liber III, p. 5. Un analogo resoconto si ritrova in: G. DI REGIO, Breve ragguaglio della trionfal solennità fatta in Palermo l'anno M.D.XCIII. Nel ricevimento del capo di Santa Ninfa vergine e martire palermitana, donato a quella città da papa Clemente VIII, Palermo 1593. 14 F. BARONIO MANFREDI, cit., p. 6. 15 Ibid., p. 8.
Devozione e culto delle sante nell’architettura…
193
costituito dal carro della santa, progettato da Giovanni Battista Collepietra e alto tredici metri; su di esso si innalza il simulacro della martire, «vestito di un bel drappo di seta rossa freggiato, e riccamato a stelle d’oro […] e teneva con bell’atto gli occhi al cielo, e le mani verso il popolo mostrando di porgere a Dio prieghi per la sua terrestre patria».16 Gli apparati effimeri realizzati in occasione delle feste avranno grande influenza sul ridisegno della città in una direzione eminentemente teatrale: è in questo contesto che si colloca la grande iniziativa architettonica dell’ottangolo di Piazza Villena, grandiosa «macchina permanente»17 della città e palcoscenico privilegiato di ogni evento cittadino. Nel progetto iconologico della piazza, i simulacri delle sante occupano l’ordine più alto delle facciate, a simboleggiare la superiorità della dimensione celeste sul potere politico (le statue dei sovrani spagnoli) e sulla Natura (le sculture raffiguranti le stagioni al piano inferiore). Le patrone recano in mano i frutti della loro ascesa al cielo e gli oggetti più rappresentativi del loro sacrificio.18 Santa Ninfa è rappresentata nell’atto di reggere, con la mano sinistra, un vaso con carbone infuocato, simbolo del martirio, mentre nella mano destra reca un libro di precetti religiosi. Santa Cristina tiene anch’ella con la mano destra un libro chiuso, mentre la sinistra è colta in un gesto che ricorda il lancio di una saetta; il martirio della santa è evocato dal simulacro collocato ai piedi della figura
16
Ibid., p. 25. M.S. DI FEDE, La festa barocca a Palermo: città, architetture, istituzioni, in Espacio, Tiempo y Forma, serie VII, Historia del Arte, vol. 18- 19, Madrid 2005- 2006, p. 53. 18 La descrizione dei simulacri che viene fornita in questa sede riprende quella contenuta in: O. PARUTA, Relatione delle feste fatte in Palermo nel MDCXXV per lo trionfo delle Gloriose Reliquie di S. Rosalia vergine palermitana, Palermo 1651, pp. 76- 80. 17
194
Walter Leonardi
femminile e rappresentante un grosso macigno con una corda legata intorno. Santa Oliva sostiene con un braccio il volume di un testo sacro, con l’altro reggeva in origine un ramoscello di olivo, simbolo della pace tra l’uomo e Dio, nel nome della quale la santa affrontò la morte. La statua di sant’Agata, infine, oltre al solito libro nella mano destra, raffigurato aperto in questo caso, regge con la sinistra «una tazza, e dentro le sue mammelle svelte»,19 in accordo con l’iconografia tradizionale. Alle quattro protettrici vengono consacrati i quartieri o mandamenti in cui la città è ripartita in seguito al taglio dei grandi rettifili che definiscono la nuova “croce urbana”. La presenza delle statue delle sante rivela, nel caso dei Quattro Canti, il forte significato municipalistico dell’invaso monumentale, che sembra voler celebrare la magnificenza di una comunità forte e orgogliosa, impegnata a difendere le proprie autonomie e i propri privilegi: alle patrone, depositarie dei valori e dell’identità della città, va riconosciuta una fedeltà superiore a quella che si deve a qualsiasi altra entità, monarca compreso. Il conflitto tra la pluralità dei poteri che gestiscono la città nel periodo considerato è esemplificato dal cambio di rotta che assume il programma iconografico a partire dal 1619, quando si decide di sostituire i simulacri reali, previsti nel progetto originario della piazza, con le statue delle sante protettrici; la soluzione adottata in seguito, con i tre ordini sovrapposti di sculture, rappresenta un compromesso necessario a garantire un composizione più equilibrata dal punto di vista simbolico e propagandistico.20 19
Ibid., p. 76. Il progetto iniziale di Giulio Lasso prevede unicamente la collocazione, nel terzo ordine delle facciate, delle statue dei sovrani spagnoli; la riapertura del cantiere, a partire dal 1619, determina, per volontà della Deputazione dell’Ottangolo, l’inserimento nei partiti centrali del terzo ordine delle statue delle sante, e la sistemazione di quattro fontane con le statue delle stagioni in corrispondenza del primo ordine; in seguito le statue dei sovrani verranno 20
Devozione e culto delle sante nell’architettura…
195
La devozione popolare verso un ordinamento celeste deputato a vegliare sulla città proteggendola da ogni evento spiacevole trova il suo zenit nell’introduzione di una nuova figura nell’empireo delle protettrici di Palermo: santa Rosalia. Il ritrovamento delle ossa della vergine eremita si configura come momento salvifico per la cittadinanza, afflitta dall’incubo della peste, e il culto della fanciulla normanna finisce per spodestare quello delle antiche patrone. I “trionfi” della “santuzza” costituiranno una vera e propria occasione per la sperimentazione di fantasie architettoniche, elaborate dai più valenti architetti del Senato, a partire dal monumentale arco al centro dei Quattro Canti realizzato per le celebrazioni del giugno 1625.21 Nel 1686, il “festino” si arricchisce di un elemento destinato ad avere enorme fortuna: il carro trionfale. Il disegno della macchina è di Paolo Amato, protagonista indiscusso della progettazione degli apparati effimeri realizzati per le feste cittadine tra la fine del Seicento e i primi anni del sereintrodotte; in Maria Sofia DI FEDE, cit., p. 54. Sulle fasi costruttive della fabbrica, si veda anche: G. FANELLI, I Quattro Canti di Palermo. Il cantiere barocco nella cultura architettonica e urbanistica della capitale vicereale, Palermo 1998. 21 Le celebrazioni del 1625 rivelano già quella copresenza di funzioni religiose e momenti di mera mondanità che connoterà il “festino” della “Santuzza” per lungo tempo a venire: oltre alla solenne processione, a cui prendono parte tutte le organizzazioni religiose e civili, vengono organizzate ben due festose cavalcate, una delle quali a conclusione dei festeggiamenti, dopo la messa in cattedrale; suggestivi giochi pirotecnici vengono organizzati sul piano di Sant’Erasmo. Nei decenni successivi, e in particolare a partire dal 1649, il “festino” viene formalizzato: le celebrazioni principali sono articolate in tre giorni: la giornata inaugurale è caratterizzata dall’accensione di luminarie in tutta la città storica; il 14 luglio, vigilia della ricorrenza, si celebra in cattedrale una funzione solenne durante la quale l’urna d’argento con le reliquie della santa viene portata dalla cappella al centro del presbiterio; il 15 luglio, infine, si svolge la processione dell’urna della santa, con la partecipazione di tutta la collettività.
196
Walter Leonardi
colo successivo. Le tavole contenute nell’opera di Michele Lo Giudice Palermo magnifico nel trionfo dell’anno 1686, disegnate da Antonio Grano e dallo stesso Amato,22 testimoniano i ricchi allestimenti: il carro, trainato «da quattro Orsi, da quattro Leoni, e da quattro elefanti»,23 trasporta il simulacro della santa, che si erge sopra una gigantesca aquila, simbolo della città. L’apparato per l’altare maggiore della cattedrale, una sorta di arco sorretto da colonne tortili e sormontato da una grande corona, inquadra l’immagine della città felice, nel nuovo volto imposto dall’amministrazione spagnola: su di essa aleggia santa Rosalia, alla guida di un cocchio trainato da quattro cavalli. Il processo di ridefinizione del disegno urbano in chiave monumentale e celebrativa ha ormai raggiunto un decisivo punto di approdo e Palermo appare magniloquente nelle parole di Lo Giudice: «Una croce di quattro strade a misura dispose, la dividono in quattro regioni di uniforme magnificenza. La più bella delle facciate sta rivolta all’Oriente; aprendosi ivi nobilissima Porta fra due Moli stupende, che senza chiudersi in arco, s’alzano ugualmente a toccare il 22
Nell’opera si trovano sei tavole relative a Palermo: l’antiporta rappresenta Santa Rosalia in gloria circondata da puttini; in basso il vecchio Palermo addormentato e, in lontananza, la veduta a volo d’uccello della città. La seconda tavola raffigura il carro trionfale di Santa Rosalia. La terza tavola rappresenta l’entrata del carro troiano per trofeo dei trionfi di S. Rosalia; la tavola successiva una macchina dei fuochi, immaginata come una fantastica città di Troia. Le ultime due tavole, infine, rappresentano l’apparato degli archi della nave della Madrice ne’ trionfi di S. Rosalia e l’altare maggiore allestito nella cattedrale. L’antiporta del volume è disegnata da Antonio Grano (Palermo 1660 ca.- ivi, 1718), architetto, pittore e incisore, autore di numerose opere sparse per le chiese di Palermo. Le altre tavole sono di Paolo Amato (Ciminna 1634 - Palermo 1714), architetto e ingegnere del Senato, progettista di numerose opere nella capitale, tra le quali la Chiesa del Santissimo Salvatore. È anche autore di un trattato intitolato La nuova pratica di prospettiva, pubblicato a Palermo nel 1732. 23 M. DEL GIUDICE, cit., p. 35.
Devozione e culto delle sante nell’architettura…
197
sommo dell’architettura più adorna […] Dona principio questa porta magnifica alla meravigliosa strada del Cassaro, larga quanto comodamente vi camminano tre Carrozze del pari […] e che finisce nell’arco trionfale, glorioso per gli africani trofei di Carlo Quinto…».24 La festa di santa Rosalia, dunque, non è semplicemente un momento di espiazione e ringraziamento nei confronti della divinità, ma si configura come celebrazione istituzionale della città e del suo rinnovato splendore, frutto dell’iniziativa combinata del Senato e del governo spagnolo (figg. 1-2). La riscoperta delle reliquie della santa eremita ha una risonanza fortissima nella cultura del tempo, non solo palermitana: l’eco della notizia si diffonde in buona parte della Sicilia, sconvolta dalla peste, e sono molte le comunità Fig. 1 - Paolo Amato, Entrata del carro che fanno trionfale di S. Rosalia nel 1686 appello all’intervento misericordioso della “santuzza”. La venerazione per la patrona della capitale finisce per lasciare una traccia vistosa nel milieu artistico e figurativo di un territorio particolarmente ampio e in onore di Rosalia si realizzano altari, dipinti e simulacri un po’ ovunque. Il gesuita Giordano Cascini offre una interessante testimonianza di quanto avviene a Castelvetrano: «[il paese] havea per un anno sostenuto i calamitosi Fig. 2 - Paolo Amato, incommodi della pestilenza […]; hor men- Altare maggiore della Madrice ne’ Trionfi di S. tre che gl’officiali diputati al governo della Rosalia nel 1686 24
Ibid., p. 31.
198
Walter Leonardi
città, e della sanità con ogni diligenza humana non lasciavano di procedere, convenendo ogni giorno insieme, per dare buoni ordini a tanto bisogno, vennero anche a pensare, che fra gl’aiuti sovranaturali , i quali procuravano, dovettero invocare la Santa Vergine Rosalia, il cui Corpo intendeano, che avea scoverto Iddio in quel tempo, per essere opportuno presidio in tanti mali, come già si vedea in Palermo; Fig. 3 - Francesco Negro, Inter quattuor Virgines però convennero di antiquora panormitanae farne dipingere la urbis praesidia et decora sacra immagine di media spectatur Rosalia Lei, unendola in(1651) sieme a quella di S. Rocco avvocato contro’l medesimo male, e porvi in mezo il mistero della Immacolata […], drizzando a tutt’e tre un sacro altare nella chiesa maggiore» (figg. 34).25 La figura di santa Rosalia domina le Fig. 4 - Paolo Amato, La incisioni e le stampe a tema religioso rea- Rosalia Benedettina (1668) lizzate a Palermo a partire dalla seconda metà del Seicento. La vergine normanna è in alcuni casi accompagnata dalle antiche patrone della città, come in alcune tavole attribuite a Francesco Negro e incise per l’opera di Giordano Ca-
25
G. CASCINI, Di S. Rosalia Vergine Palermitana, Libri tre composti dal R. P. Giordano Cascini della Compagnia del Gesù. Nelle quali si spiegano l’Invenzione delle sacre Reliquie, la vita solitaria, e gli onori di Lei […], Dedicati all’Illustrissimo Senato di Palermo, Palermo 1651, p. 365.
Devozione e culto delle sante nell’architettura…
199
scini del 1651.26 Più spesso, tuttavia, ella è da sola a proteggere i palermitani da tutte le avversità, segno di un culto crescente e predominante: nell’antiporta dell’agiografia redatta dal benedettino Pietro Antonio Tornamira,27 l’architetto Paolo Amato raffigura Rosalia mentre sconfigge, a cavallo di un’aquila, un malefico drago; in mano reca uno stendardo, in cui è raffigurata la pianta della nuova Palermo «quadrifida».28 Vedute a volo d’uccello della capitale e scorci riconoscibili di luoghi simbolo della vita cittadina ricorrono spesso in queste rappresentazioni: una conferma ulteriore del legame profondo che si instaura tra l’immagine della città e il retroterra liturgico e devozionale che fa da sfondo all’esistenza quotidiana della comunità.
26
G. CASCINI, cit.; le incisioni a cui ci si riferisce in questa sede sono in particolare due: una è intitolata Inter quattuor Virgines antiquora panormitanae urbis/ praesidia et decora media spectatur Rosalia, l’altra reca il titolo S. Nympha V. et Mar. S. Agata V. et M. s. Oliva V. et Mar. S. Rosalia V. urbis Panhormi tutelares cives. Le tavole descritte sono state pubblicate in: C. BARBERA AZZARELLO, Raffigurazioni, Vedute e Piante di Palermo dal sec. XV al sec. XIX, Caltanissetta 2008, p. 84- 85. 27 P.A. TORNAMIRA, Idea congetturale della vita di s. Rosalia, vergine palermitana, monaca e romita dell’ordine del patriarca S. Benedetto, Palermo 1668. Don Antonio Tornamira (Alcamo 1618 – Palermo 1681) si laurea in Giurisprudenza nel 1639 e prende i voti l’anno successivo, entrando nell’ordine dei benedettini. L’incisione di cui si parla in questa sede è reperibile in: C. BARBERA AZZARELLO, cit., p. 93. 28 Un epigramma di Pietro Carrera recita: «Reddita quadrifida est me recipiente Panormus/ Accepitque suam Curia tota Domum»; in M. FAGIOLO - M.L. MADONNA, cit., p. 50.
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina Vito Marino I Siciliani appartenenti alla civiltà contadina, scomparsa intorno agli anni ’50 del XX sec., erano molto religiosi; se ne trova conferma nella letteratura e nei proverbi dialettali, ma anche nella stessa vita reale dei campi. Come i popoli dell’Africa, ritmavano il loro lavoro con musica e canti, perché questo faceva parte della loro cultura, così i Siciliani di allora intervallavano il loro duro lavoro con le preghiere. Per la Sicilia di una volta, il grano era tutta la ricchezza di una famiglia. Si lavorava un intero anno sotto il sole e la pioggia di lu scuru a lu scuru (dall’alba al tramonto), per portare a casa la provvista per l’anno successivo. Dal grano si ricavava il pane, l’alimento direi unico, per sopravvivere, che si considerava come qualcosa di sacro. Non per niente, durante il paganesimo, Demetra e Cerere erano particolarmente venerate in Sicilia, come divinità protettrici delle messi.1
1
Il culto di Demetra fu celebrato da sacerdotesse provenienti soprattutto dalla Sicilia, che fu il più importante centro di irradiazione del mito, per la presenza, ad Enna, di uno dei più antichi e prestigiosi templi dedicati alla dea. Il culto di Demetra si fuse con quello Cerere.
202
Vito Marino
Questo pane amaro, sudato e faticato, era il simbolo della vita. A conferma dell’immenso valore attribuito al pane, un proverbio siciliano diceva: «A cu ti leva lu pani levacci la vita». Per potere avere acqua e pane occorreva senz’altro l’intervento benigno di Dio, viceversa c’era carestia e fame; pertanto, il contadino si rivolgeva a Dio in ogni occasione della giornata lavorativa, per avere benedetto il lavoro ed il raccolto. A documentare la sacralità del pane, per la ricorrenza di molti santi si preparano ancora dei pani particolari, come i panuzzi negli altari di San Giuseppe; per San Martino, per l’Immacolata, per San Giovanni, con forme particolari corrispondenti a simboli religiosi. Pertanto, prima di tagliare la classica vastedda, il capo famiglia faceva il segno della croce con il coltello sulla parte piatta. Se un pezzettino cadeva accidentalmente per terra, da cosa sacra, si puliva, si baciava, e si rimetteva sul tavolo. Esso non si posava mai con la parte piatta rivolta verso l’alto; mia madre mi spiegava che, essendo il pane benedetto da Dio, questa sarebbe stata un’offesa nei Suoi confronti. Il capo famiglia, durante i pasti, lo affettava per tutti, distribuendone una fetta ciascuno; tacitamente significava che quella doveva bastare. Anche la panificazione avveniva con dei riti particolari che sapevano di sacro. La massaia, prima di camiari (riscaldare) il forno, si faceva il segno della croce e invocava un santo: «Sant’Aati, dati focu a li balati» (alle lastre del forno). Quando il forno era già pronto, diceva: «Ora ch’è finuta la fatica mia, / facìti Vui Virgini Maria». Quindi, dopo avere infornato il pane, non si dimenticava di fare un altro segno di croce e di dire in segno di benedizione: Lu panuzzu è dintra lu furnu e lu Signuri è nmezzu lu munnu; Pani crisci / chi Diu ti binirici; Pani crisci’nta lu furnu / Comu Diu crisciu lu munnu; Santu Donatu / facitilu fari beddu sullivatu;
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
203
Santu Sidoru / beddu di crusta e beddu di solu; Sant’Anna / la saluti a cu s’affanna; Sant’Austinu / ogni pani quantu un cufinu; Santa Rita / beddu di crusta e beddu di muddica; Santu Nicola / beddu di dintra e beddu di fora.
oppure: Santu Nicola / ogni pani quantu ’na mola! (macina di mulino); San Franciscu / pani friscu; San Catauru / pani cauru.
Queste orazioni, che direttamente non avevo mai sentito, le ho raccolte presso anziani di Castelvetrano e da amici di Menfi e, in parte, sono confermate da Costumi e usanze dei contadini in Sicilia di Salomone Marino.2 Evidentemente, esse non si recitavano tutte assieme. Per la pioggia sempre avara, tante e tante volte si sono invocati i santi con processioni propiziatorie e preghiere rivolte con viva convinzione e fede. Nelle processioni religiose così si pregava: «l’acqua e lu pani vulemu Signuri». In una nota canzone siciliana si evidenzia la triste realtà della mancanza di pioggia: Signuruzzu chiuviti chiuviti chi l’arvuliddi su morti di siti e facitinni una bbona senza lampi e senza trona. L’acqua di ’n celu sazzia la terra funti china di pietà; li nostri larmi si posanu ’n terra e Diu nni fa la carità.
2
Cfr. S. Salomone-Marino, Costumi ed usanze dei contadini in Sicilia, Palermo 1897, p. 29.
204
Vito Marino
Impotente contro le avversità della natura, solo Dio, vero padre misericordioso, poteva aiutare le persone a sopravvivere; «dunni manca Diu pruvviri» diceva un proverbio. Dalle persone più umili, come i contadini, tutto era considerato peccato e le avversità della natura erano considerate come castighi per i peccati commessi. Si è detto sempre che la civiltà siciliana è il frutto della somma delle varie civiltà apportate dai popoli colonizzatori che si sono succeduti, attraverso i secoli, in Sicilia. Così, la religione cattolica si è sommata a quella pagana e musulmana. In tutte le case non mancavano mai le immagini sacre o gli altarini; ma, per avere maggiore protezione (non si sa mai!), molte famiglie aggiungevano cornetti, gobbetti, fiocchi rossi e ferri di cavallo. Inoltre, si vedevano spesso grosse corna di bue, poste a bella vista sull’architrave della porta d’ingresso. Molte donne, male interpretando li cosi di Diu, consideravano peccato anche fare l’amore con il marito e accettavano l’atto mal volentieri; addirittura, ogni volta, si facevano il segno della croce e andavano a confessarsi. Quando due contadini s’incontravano in campagna, il saluto era «E viva Maria»; l’altro rispondeva «E Gesù e Giuseppi ’n cumpagnia». Per evadere dalla triste realtà di una vita monotona, sofferta, arida, le feste religiose rappresentavano l’unico diversivo, passatempo e divertimento popolare lecito e accessibile; per questo motivo esse erano molto attese. Si viveva in quell’attesa, per indossare il vestito nuovo della festa, per fare una ricca mangiata, per godersi gli spettacoli di piazza e, principalmente, per pura fede religiosa. Oggi molte di quelle feste sono scomparse o sono poco seguite. Quelle ancora esistenti non presentano più la pomposità barocca e teatrale di una volta; la vita moderna offre tanti svaghi,
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
205
divertimenti, luoghi d’incontro fra giovani, mentre la fede in Dio comincia a vacillare. Per fortuna, in molti paesi, alcune manifestazioni religiose sono state rilanciate, con l’aiuto degli Enti Pubblici, a scopi culturali e folcloristici. A Castelvetrano è stata proposta da qualche anno, con successo, la festa di Santa Rita. Durante il perdurare della civiltà contadina regnava il maschilismo. La donna non aveva diritti, ma solo doveri, alla maniera musulmana. Per evadere da questa situazione di quasi recluse, le donne aspettavano feste religiose, fidanzamenti, matrimoni e morti di parenti ed amici di famiglia; durante queste occasioni esse avevano la possibilità di uscire (mai da sole) ed incontrare amiche e parenti o fare nuove conoscenze e potere così dialogare. Un proverbio difatti diceva: «li fimmini vonnu o zitaggi o morti o festi fora li porti» (fuori di casa) per avere la possibilità di uscire. *** Natale e Pasqua sono state sempre considerate le festività principali; ma in ogni quartiere, c’è stato sempre più di un santo da festeggiare ogni anno. I ragazzi aspettavano il giorno di vacanza festivo, per giocare con allegri schiamazzi per strade, piazze e cortili, allora liberi dal traffico automobilistico. Essi in quelle ricorrenze ricevevano li boni festi (dei soldini) da parte dei parenti intimi. Un’aria diversa si respirava in ogni dove: nei crocevia o davanti ai cortili, si vedevano molte persone che, indossando il vestito della festa, discutevano e si “godevano il passeggio” (per come si usava dire allora). Le chiese erano apparate (addobbate) con fastosità barocca, con moltissimi fiori, con sontuosi drappi di seta, mussole, veli, frange dai ricchi colori brillanti e di velluto
206
Vito Marino
dorato, che scendevano dal soffitto, terminanti con frange di cartapesta dorate. A Castelvetrano, Don Pippinu Vaiana l’apparaturi 3 aveva un bel da fare tutto l’anno per svolgere questo lavoro. Lo sfarzo era anche nelle processioni, con angeli, apostoli e santi, vestiti con abiti vistosi dai colori bianchi, scarlatti, azzurro, oro. In quell’occasione sostavano davanti la chiesa o seguivano la processione li gelatara (allora la particolare granita locale si chiamava frisca e bella), li siminzara o caliara, che vendevano frutta secca caliata, come calia, simenza, nuciddi, nuciddi americani e pastigghia (ceci, semi di zucca, nocciole, arachidi, tostati e castagne secche). Il venditore di bombolona era un personaggio caratteristico, perché negli intervalli di tempo libero preparava nella sua bancarella delle caramelle rudimentali, fatte con zucchero ed aromi, sciolti sul fuoco e lavorati manualmente. In ogni festa non mancava mai, oltre alla banda musicale, la masculiata (sparo di botti; da mascoli = cannoni) e la tammurinata (suonata di tamburi). Un proverbio dice in merito: «Nun c’è festa senza parrinu e mancu senza tammurinu». Per i ricchi proprietari terrieri di allora, la religiosità era vista da un’altra prospettiva. A loro modo essi erano molto religiosi e nei loro palazzi non mancava un altare o una cappella, dove il prete andava a celebrare la messa. Inoltre, costruivano chiese nei bagli e nelle loro tenute di campagna. Per avere la coscienza tranquilla verso Dio, erano molto generosi verso i preti e partecipavano generosamente alle offerte. Di contro, poiché non conoscevano in prima persona la povertà e la fatica dei campi, risparmiavano sulla paga e sui cibi dei contadini, da loro considerati scansafatiche. 3
G. Vaiana, noto addobbatore castelvetranese, molto attivo nella prima metà del XX secolo.
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
207
Quando mia madre doveva eseguire un lavoro rischioso o quando doveva uscire di casa, diceva sempre «a nomu di Diu ch’è nomu sicuru» (si raccomandava a Dio). Il povero indifeso accettava con rassegnazione le avversità che riceveva gratuitamente dalla natura, ma anche dalle persone cattive,come una volontà divina e fra sé ripeteva «chiddu chi voli Diu!»,oppure si consolava con il sempre valido proverbio: «Calati juncu chi passa la china». Quando si trattava di mietere grandissime estensioni di terreno, come avveniva nei feudi, c’era lavoro per molti mietitori, che erano divisi in due squadre: una a destra ed una a sinistra, con un capo squadra ciascuna: lu capu di manu ritta e lu capu di manu manca. Quello che comandava tutti i mietitori era però quello di destra. Lu capu di manu ritta, prima di mettiri manu (iniziare a lavorare), si scopriva il capo e diceva a voce alta: «Sia ludatu e ringraziatu lu santissimu Sacramentu» e gli altri rispondevano «Sempri sia ludatu». Lo stesso avveniva ad ogni livata di manu (ora di smettere); inoltre, prima dei pasti principali, faceva recitare ai mietitori delle preghiere con dei ringraziamenti al Signore per il lavoro eseguito, per il raccolto e per il cibo che dovevano consumare: Sia ludatu e ringraziatu lu Santissimu e Divinissimu Sacramentu (detto tre volte), E tri voti laudatu sia e scatta lu nfernu e triunfa Maria, E cu tri chiova fu nchiuvatu Cristu e senza chiova la matri Maria, Na funtanedda a li peri di Cristu, chi fu fatta cu li larmi di Maria.
Dopo seguivano i vari Pater Noster, Ave Maria, Lòria Pàtrisi (Gloria al Padre). Quando una persona chiedeva una grazia ad un santo, prometteva, come contraccambio, lu votu, che poteva essere: una penitenza (come fare un viaggio a piedi), dare degli aiuti ai poveri
208
Vito Marino
(come l’artaru di San Giuseppi), portare un abito votivo addosso. L’abitinu (l’abito votivo) era un saio con colori e ornamenti prestabiliti per ogni santo: per Santa Lucia abito di colore verde vivo con guarnizioni e cordone bianchi; per Santa Rita abito di colore scuro con guarnizioni e cordone beige; per Santa Chiara abito di colore marrone con guarnizioni e cordone beige; per la Madonna Addolorata abito di colore nero con cordone e guarnizioni turchine; per Maria Immacolata abito di colore bianco con cordone e guarnizioni celesti; per la Madonna del Carmine abito di colore marrone scuro con cordone e guarnizioni bianche; per San Francesco di Paola abito di colore marrone scuro con cordone e guarnizioni nere. L’abito, per evitare l’ira del Santo, si toglieva soltanto quando era completamente logoro. In chiesa, durante la messa, le donne portavano il capo coperto da una mantellina o un fazzoletto; esse stavano sedute davanti, mentre gli uomini dietro. Le donne benestanti approfittavano dell’occasione per mettere in mostra il vestito nuovo comprato a Palermo. Invece, le donne popolane ed i contadini assistevano alla prima messa verso le ore 4.30, per avere più tempo libero durante la giornata, per accudire ai numerosi compiti casalinghi e di campagna, ma anche per non essere oggetto di critiche e di sguardi indiscreti. Tuttavia, il popolo siciliano, pur essendo religioso fino alla superstizione, attraverso canti, proverbi e racconti, manifestava i suoi rancori verso certi preti e i frati, dei quali conosceva i difetti; mentre le numerose chiese e monasteri esistenti possedevano una buona fetta delle terre migliori. Pertanto, ferma restando la fede religiosa, il povero li accettava malvolentieri. Infatti, un proverbio diceva: «A monaci e parrini, viriticci la missa e rumpiticci li schini».
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
209
Lo storico Gianni Diecidue nel suo volume Chiesa e Stato a Castelvetrano4 cita una statistica risalente al due marzo 1724, dalla quale risulta che, negli 11 monasteri e 15 chiese esistenti, professavano 515 religiosi fra sacerdoti, novizi, professi, famuli, bizzocche, chierici professi e secolari oblati, mentre la popolazione era di appena 10.188 persone. Anche Cesare Abba, uno scrittore garibaldino, rimase così meravigliato del gran numero di monasteri, di monaci e preti esistenti allora in Sicilia, che ebbe a scrivere: «[...] troppi davvero. Come fanno a nutrirli questi poveri Siciliani?»5. Una nota canzone popolare diceva: E vinissi un forti ventu e si purtassi lu cunventu e durassi quantu un’ura e si purtassi la supiriura.
La festa di Natale Fra le feste religiose, il Santo Natale rimane la ricorrenza più attesa e festeggiata dell’anno. Negli anni che furono della mia infanzia, l’atmosfera natalizia che spirava a Castelvetrano era sicuramente più sentita, anche se di soldi se ne vedevano ben pochi. Qualche settimana prima, le casalinghe erano tutte indaffarate a pulire la casa e a preparare li cosi duci (dolci di Natale); nell’aria si sentiva il caratteristico odore di legna d’ulivo bruciata e di biscotti appena sfornati.
4
Cfr. G.B. DIECIDUE, Chiesa e Stato a Castelvetrano nel 1700, Castelvetrano 19932, pp.12-13. 5 G.C. ABBA, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, Palermo 1993, p. 76 (ed. orig. Bologna 1891).
210
Vito Marino
Ogni famiglia ne faceva una buona provvista, riempiendo un paio dei capienti cassetti del canterano, per soddisfare la numerosa prole. A quei tempi, tutti i lavori si eseguivano a forza di braccia e l’arrivo di figli, specialmente maschi (si diceva, infatti: «auguri e figghi maschuli»), era considerato un dono della Provvidenza. Così era normale trovare delle famiglie numerose anche con dieci figli. Questi dolci erano di varia natura e nome. Li cosi di ficu erano i più buoni, perché ripieni di fichi secchi tritati assieme a buccia d’arancia e mandorle; essi avevano anche un interesse artistico per la forma che si dava alla pasta (fiore o palma). Lu chinu (il ripieno) era lo stesso biscotto, ma ripieno di miele, mandorle e frutta candita. Molto apprezzati erano anche li mustazzola, fatti di farina e mosto cotto concentrato (comunemente detto “vino cotto”). Li viscotta picanti erano preparati con farina, olio d’oliva, pepe e ciminu (cumino = semi di finocchio selvatico). Li cassateddi ripiene di ricotta (fritti o al forno), li pignulati, li minnulati, li cannola e la cassata venivano anch’essi fatti e consumati, ma non si trattava di dolci prettamente natalizi, perché si preparavano anche in altre ricorrenze. Il forno, anche se non esisteva in tutte le case, non creava un problema, poiché nel vicinato c’era sempre qualche cummaredda disposta a mettere a disposizione il suo e a collaborare “a buon rendere”. Questi scambi di favori servivano anche per stare assieme fra amici e parenti e facevano parte della tradizione e dell’atmosfera natalizia. Oggi questi dolci si trovano facilmente dai pasticceri, dai panettieri, nei supermercati; sono di discreta fattura, ma mancano di quel sapore d’antico, di quella atmosfera natalizia che serviva per rinsaldare i cuori e i rapporti fra le famiglie. Così, seduti al calduccio attorno al braciere con la carbonella accesa, si lavorava, si discuteva, si scherzava, si rideva in com-
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
211
pagnia e, nell’attesa che il forno facesse anche lui la sua parte, si giocava a carte. Ufficialmente, i dolci erano preparati per i ragazzi, ma anche gli adulti partecipavano alla consumazione. I buongustai, i cosiddetti liccuti, amanti dei piaceri della buona tavola, tasca permettendo, sono esistiti da sempre. Una volta il vocabolo “dolce”, nel linguaggio corrente dialettale, non esisteva; in sua vece, si usava dire li cosi duci o li liccumii (leccornie); volendo precisare in particolare il genere di dolce si diceva li cosi di ficu, li cosi di morti, oppure direttamente lu pupu di zuccaru, la marturana, la cassata, e lu cannolu. Di conseguenza, anche il pasticcere veniva chiamato cosaduciaru. Mi ricordo alcune frasi e vocaboli, ormai scomparsi dal linguaggio parlato, che meritano essere ricordati: mi liccavi tuttu, nun si putìa livari di nmucca, oppure stracchiavi,che stavano a significare: mi è molto piaciuto, ho gustato con tanto piacere. La persona golosa, che non si sazia di mangiare, era chiamata cannarozzu (esofago) o argiutu (da li argi = la gola; quindi goloso) oppure si diceva che avesse la lupa, mentre chi mangiava pochissimo era chiamato spitignusu o cannarozzu strittu. Parlando di certi cibi gustosi, mangiati in quantità limitata, si diceva che un’arriva mancu a lu cannarozzu. Invece, cannarozzu stagnatu era considerato chi, per ingordigia, mangiava i cibi ancora bollenti. Farisi lu cannarozzu longu voleva dire attendere per molto tempo l’arrivo dei cibi. Soltanto per curiosità, cito anche lu cannarozzu fausu, che è la trachea. Certamente non poteva considerarsi cannarozzu il povero contadino zappatore, che lavorava anche quattordici ore al giorno, mangiando solo pane e cipolla. Allora, nella ricorrenza natalizia, si preparava in ogni casa il presepe; l’albero di Natale non faceva parte delle nostre tradizioni; esso è arrivato da noi intorno agli anni ’60 del secolo scorso.
212
Vito Marino
Ricordo che nel dopoguerra, non potendo comprare i pastorelli, io e mio fratello li abbiamo preparati con dell’argilla e fatti asciugare sotto la furnacella (serviva per cucinare a carbone). Non ci siamo dimenticati di fare anche lu spavintatu di lu pirsepiu, che non mancava mai nei presepi. Quindi, li abbiamo colorati con le matite a colori usate a scuola. Durante il periodo della novena, mia madre ci faceva recitare delle preghiere davanti al presepe, fra cui lu rusariu di San Giuseppi. Durante le festività natalizie, molte famiglie, ogni sera, si riunivano per giocare a tombola o a carte. Durante la messa del Santo Natale, presso la chiesa Madre si suonava l’organo. Siccome il mantice per azionare l’aria era manuale, i ragazzi a turno dovevano tirare una cordicella, quando lo diceva l’organista. Siccome i ragazzi si stancavano e se ne andavano, molte volte l’organo non funzionava. Durante la notte di Natale, nell’attesa della nascita di lu Bomminu si cenava con baccalà fritto e si giocava a carte o a tombola. Per il pranzo di Natale, il piatto più importante era la pasta di casa, in particolare li maccarruna e li tagghiarini, conditi con ragù di maiale (preparato con sarsa sicca), con aggiunta sopra di saliatu, muddica e mennuli atturrati. Quel giorno si comprava la carne di vaccina o di maiale a la chianca (macelleria). L’ucceri o chiancheri (il macellaio), fino agli anni ’40-’50, apriva soltanto la domenica e nelle feste principali, sia per mancanza di refrigerazione (il ghiaccio non garantiva una lunga conservazione), sia per mancanza di richiesta. Durante la civiltà contadina, solo il pane e la pasta erano considerati alimenti indispensabili; la carne e la frutta erano considerati come alimenti voluttuari. Nelle festività natalizie molte famiglie usavano tirare il collo al gallo o ad una vecchia gallina; se nel cortile c’era un addurinnia (tacchino), esso era prescelto, perché le bocche da sfamare
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
213
erano molte. Non mancava mai a tavola vinu di utti, a forte gradazione alcolica e i cannoli. Ricordo di un mio capriccio di bambino: della gallina preferivo mangiare la cresta; se mi capita di assaggiarla oggi, sento rinascere in me quel sapore scomparso dei vecchi tempi, quell’atmosfera natalizia fatta di niente, esistita in una società povera ma ricca di sentimenti e spiritualmente più sana. Per il Capo d’anno era classico il pranzo a base di scibbò, un tipo di pasta a forma di lasagna molto larga, condita con ragù di maiale, saliatu e mennuli atturrati. Questo tipo di pasta era considerato di buon auspicio per il nuovo anno. Il vocabolo proviene dal francese jabot, in quanto assomiglia a quelle bande larghe con volants, che ornano la pettorina delle camicie da smoking. Inoltre, si mangiava carne varia preparata a ragù e arrosti vari, esclusa la salsiccia, perché rotonda. Infatti, la superstizione popolare asseriva che portava male mangiare in quel giorno cibi dalla forma rotonda come salsiccia, involtini, cannoli e maccarruna. A causa della superstizione, c’era la credenza che la qualsiasi situazione o azione (bella o brutta) succedesse o si facesse nel primo giorno dell’anno, si sarebbe poi perpetuata per tutto l’anno in corso. Infatti, era consuetudine dire: Soccu si fa pi lu Capu d’Annu si fa tuttu l’annu; Cu è malatu pi lu Capu d’Annu è malatu tuttu l’annu; Capu di l’Annu penzacci ch’ha fari, si annata bona ti voi passari; Capu di l’annu saluti e dinari, penzacci beni lu chiddu c’ha fari; Cu mancia ministrina, tuttu l’annu fina fina; Cu mancia maccarruna, tuttu l’annu ruzzuluna; Cu travagghia pi lu Capu d’Annu, travagghia tuttu l’annu; Cu chianci pi lu Capu d’Annu, chianci tuttu l’annu.
214
Vito Marino
Gli usi e i costumi della passata civiltà contadina, dove affondano le nostre radici, e da dove proviene la nostra cultura, fanno parte ormai di un mondo scomparso, sommerso dalla civiltà d’altri popoli, arrivata fino a noi con la globalizzazione. Non per questo essi devono scomparire dalla nostra memoria; anzi, bisogna riesumarli e riportarli al loro giusto valore. Così la festa di li tri re (dell’Epifania) una volta era prettamente religiosa, oggi si chiama “della befana”, cioè del consumismo e dei regali. In chiesa, dopo la santa messa, a scopo umanitario, si celebrava la Vistizioni di lu Bomminu. Un bambino povero veniva spogliato delle proprie vesti e, ricoperto solo da una benda, veniva presentato ai fedeli in chiesa. Qui, dopo che gli erano stati lavati i piedi, veniva vestito degli abiti ricevuti in dono. Al termine, il bambino veniva portato, in processione, a casa sua, con altri regali. Tale giorno chiudeva tutta la festività natalizia e iniziava a taglio netto quella di lu Cannalivaru. Infatti, con il detto: Doppu li Tri Re, olè olè (dopo l’Epifania, gran divertimento) iniziava il ballo nelle famiglie, in privato, a parti di casa. Li reuli di li misi, conosciute meglio come calennuli di Natali o calennuli di Santa Lucia, erano una credenza popolare, con cui si poteva fare la previsione del tempo per un intero anno. A tal proposito un detto antico diceva Di li calennuli di Santa Lucia si viri l’annata chi ci sia; e un altro Aviri boni o tinti li calenni (avere buone o cattive previsioni). Così, secondo le antiche credenze popolari, per avere in anticipo le previsioni del tempo per tutto l’anno, bastava osservare le condizioni atmosferiche nei giorni che andavano dal 13 al 24 dicembre; il giorno 13 rappresentava il mese di gennaio dell’anno successivo, il 14 rappresentava febbraio, il 15 marzo e così via. Se il tempo in uno di questi giorni (ad es. il 15) era buono, signi-
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
215
ficava che anche il mese di marzo dell’anno successivo sarebbe stato bello. La Ninnaredda In Sicilia, la festa del Santo Natale è quella più sentita, perché unisce la religiosità alla tradizione popolare fatta di presepe, di cosi duci e di canti natalizi, che ci riportano al mondo innocente dell’infanzia. Qui cercherò di riassumere tutti i miei ricordi e quelli raccolti fra le persone più anziane, da me interpellate, che riguardano la Ninnaredda, un genere di canto popolare religioso siciliano cantato in chiesa, fino agli anni ’50, in occasione della Nuvena di Natali; essa durava nove giorni: dal 16 al 24 dicembre. Così, dopo le preghiere, si cantavano dei brani, tutti in lingua siciliana, intonati da un coro all’unisono, con l’accompagnamento di semplici strumenti musicali, che potevano essere: lu friscalettu (l’immancabile flauto di canna fatto a mano); lo scacciapensieri (detto in siciliano marranzanu oppure mariolu, o anche ngannalarruni o nnangalarruni, che significano furbo, inganna ladroni); lu tammureddu (il tamburello), lu circhettu o ncincirincì (il cerchietto) con dei sonaglini (li ciancianeddi) e la brogna (la buccina o tromba marinaresca, una grossa conchiglia, che faceva da basso); inoltre potevano esserci anche il violino, il mandolino o la chitarra. La parola Ninnaredda deriva da ninna nanna, nenia che ogni mamma cantava giornalmente alla propria creatura, per farla addormentare; nella festività natalizia, la ninna nanna si riferiva al neonato Gesù che, come ogni bambino di questo mondo, non voleva prendere sonno. Alcuni brani riguardavano anche la Sua nascita, altri la Sacra Famiglia, ricordata dalla tradizione popolare
216
Vito Marino
siciliana come una normale famiglia terrena con i suoi problemi quotidiani di fame, freddo, lavoro e amore familiare. Ascoltando questi brani si percepiscono dei ritmi, che sanno d’orientale. Anche in questo campo, sicuramente l’influenza della dominazione araba in Sicilia ha lasciato la sua impronta. Per festeggiare la ricorrenza natalizia, c’erano anche i ninnariddari, cioè dei suonatori di violino e di ciarameddi (cornamuse); costoro, a li sett’arbi (di mattino prestissimo, ancora al buio), giravano per le strade suonando queste nenie. Nelle strade silenziose di allora, le note echeggiavano e si diffondevano nell’aria creando un’atmosfera di festa. Fra i miei ricordi, velati dal tempo, c’è la figura di don Pippinu l’orvu (Giuseppe Ricupa), un non vedente dalla nascita, che allora esercitava questo mestiere per sopravvivere. Di lui parla Giovanni Asaro, in un articolo, La settimana di passione nei canti popolari castelvetranesi, su «Il Faro»,6 in cui afferma che era un autodidatta virtuosissimo del violino, aveva una voce calda e pastosa, e morì giovane. Chi era interessato lo invitava a suonare in casa davanti al presepe; poteva trattarsi di una suonata occasionale o per tutta la novena. Al suonatore si dava un compenso, a volte in natura, come li cosi duci. La globalizzazione, apportata dalla civiltà del benessere e del consumismo e subentrata alla civiltà arcaica contadina, ha sostituito questi canti con altri (Jingle bells, Noël Noël, ecc.) provenienti da paesi stranieri con culture diverse dalla nostra. Oltre al presepe, allora esisteva in molte famiglie il culto dell’altarino in casa, possibilmente sistemato in una nicchia. I nobili tenevano l’altare in un’apposita stanza. Il culto dell’albero di Natale, proveniente dal nord Europa, è arrivato nelle nostre case intorno agli anni ’60 e possiamo defi6
Cfr. G. ASARO, La settimana di passione nei canti popolari castelvetranesi, in «Il Faro» 15 (dicembre 1966).
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
217
nirlo simbolo del consumismo della civiltà moderna; esso ha soppiantato gli altarini, il presepe e le nostre care ninnaredde. A molte persone, che hanno superato una certa età, queste nenie fanno ricordare con nostalgia il tempo passato della propria giovinezza, quando, nel periodo natalizio, di mattina, alle 4.30, ci si recava in chiesa per ascoltarle. Allora, la prima messa era celebrata di consuetudine così presto per permettere ai contadini di assistervi prima di andare al lavoro. Dobbiamo ricordarci che si era ancora in piena civiltà contadina, quando l’80% della popolazione viveva d’agricoltura e l’asino e il mulo erano i mezzi di locomozione – seppur molto lenti – di allora; i contadini, pertanto, dovevano partire dal paese molto presto per raggiungere il posto di lavoro. Nei primi anni del secondo dopoguerra ricordo che a Castelvetrano, nella via Bertani, ai quattro canti con via Denaro, si cantava la ninnaredda davanti la crisiola di lu Signuruzzu di la caruta (cioè l’edicola o altarino incastrato nel muro, ove c’era un quadro che rappresentava il Signore mentre cade sotto il peso della croce); come accompagnamento per il coro all’unisono (mi hanno riferito, io ero troppo piccolo per ricordare questi particolari) c’erano il sassofono, il violino, la chitarra e il clarinetto. Oggi assistiamo ad un timido risveglio di questa tradizione. Per i più giovani questi canti rappresentano una novità, una tradizione a loro sconosciuta; si tratta in realtà di un patrimonio culturale che i nostri nonni ci hanno lasciato, ricco di sentimenti di pace, d’umiltà e d’amore familiare. Valori ormai scomparsi nella moderna civiltà, ove si assiste quotidianamente a violenze, odio, vendette e disgregamento della famiglia.
218
Vito Marino
La Scesa e l’Eternità Si tratta di due ricorrenze religiose un tempo molto attese da tutta la popolazione, perché erano due giorni di vacanza da trascorrere all’aperto, al mare o in campagna, fra svaghi e divertimenti. Da alcuni anni sono cadute in disgrazia, come sta succedendo per tutte le nostre tradizioni. Esse cadono sotto la scure del benessere, quando ogni giorno può significare festa, e della globalizzazione, che porta a noi le usanze nordiche e annulla quelle nostre, quelle dei nostri padri. La vigilia della Scesa (Ascensione), ricordo che mia madre non si dimenticava mai, per fede e consuetudine, di lasciare durante la notte, fuori, una bacinella con acqua, petali di fiori ed un pizzico di sale; la mattina ci faceva lavare la faccia con quell’acqua. Secondo la credenza religiosa popolare, di notte sarebbe passato l’Angelo per benedire tutte le acque della Terra che, purificate, avrebbero avuto il potere di guarire tutte le malattie della pelle. Sulla spiaggia del mare, a mezzanotte, oltre a numerose persone, giungevano anche pecore, vacche, capre, cavalli, muli, asini, con i rispettivi padroni, nell’intento di farli bagnare con l’acqua del mare benedetta. L’Ascensione, una volta, era riconosciuta come festività nazionale. Chi poteva, si recava il giorno della vigilia a Marinella di Selinunte con il calesse, con il carro o con il trenino, per trascorrervi la notte ed il giorno festivo. La partenza era preceduta da grandi preparativi; nell’aria si sentiva un’atmosfera di festa, che da sola bastava a rendere felice l’animo umile delle persone di una volta. Chi partiva col carretto, si portava la rarigghia (graticola) per arrostire le gustose sardine di Selinunte, la lancedda con l’acqua potabile, lu quararuni (il pentolone di rame stagnato) per cucina-
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
219
re la pasta di casa già preparata, le teste d’aglio per condire tutte le pietanze, lu quarantinu con il vino vecchio per rendere più allegri, la bottiglia a chiusura ermetica e le bustine per fare le aranciate effervescenti per i ragazzi, l’agghialoru con l’olio d’oliva; possibilmente la chitarra o il violino e lu friscalettu di canna (lo zufolo) per suonare e trippiari (ballare) tutta la notte. Sistemate tutte le occorrenze, i ragazzi si facevano sedere sul tavulazzu di davanti e le donne sulle sedie o sopra lu mazzu di pagghia per la mula. Chi non era andato al mare trascorreva il giorno dell’Ascensione in campagna o facendo delle lunghe passeggiate a piedi lungo gli stradali, con picnic all’aperto in compagnia d’amici e parenti. Di sera, un po’ dappertutto, si vedevano li vamparati (i falò), con i ragazzi che si divertivano a scarvacari (saltare) la legna accesa. Essendo il fuoco considerato da sempre purificatore, qualcosa che sa di magico, che porta bene, scavalcarlo poteva considerarsi una vittoria contro il male che sta bruciando con la fiamma. Si tratta di un’antichissima tradizione che risale ai riti pagani dei palilia e degli ambarvalia, e a quelli medievali, quando nei fucarun si bruciavano oltre alla legna, tutto il negativo della vita, il male e l’indesiderato; la paura era esorcizzata con grandi salti sopra i falò da parte dei giovanissimi, dimostrando con quest’atto agli astanti il loro coraggio e spavalderia. Questa usanza continuò anche con l’avvento della religione cristiana e si espanse un po’ ovunque in Italia e in tutta Europa. Se l’origine ed il modo di intendere è comune, la ricorrenza varia da paese a paese. I ragazzi, in quell’occasione, si ricordavano della bozzica (altalena), che li faceva divertire. I genitori più comprensivi con una corda robusta improvvisavano l’altalena legata ad una trave o ad un forte tronco d’albero. Presi dall’atmosfera giocosa, anche gli adulti partecipavano con quella gioia spontanea e infantile che
220
Vito Marino
resta sempre dentro di noi, nascosta, purtroppo, schiacciata dal peso degli anni e dalle mille avversità della vita. La festività di Pasquetta o lunedì di Pasqua o lunedì dell’Angelo, a Castelvetrano è chiamata l’Eternità, per una vecchia abitudine siciliana di storpiare le parole; deriva da Trinità, poiché in quel giorno c’era la consuetudine di fare una passeggiata a piedi, con possibili picnic lungo lo stradale, fino alla chiesa della SS. Trinità di Delia. Voce di popolo asserisce che dal 1392 e fino al 1523, quando la località Delia era un priorato retto da monaci benedettini, secondo la tradizione greco-bizantina, ai pellegrini, in occasione dell’Eternità, veniva offerto qualcosa da mangiare. «Le prime notizie che di questa chiesa si hanno», asserisce il Ferrigno «rimontano al 1392. Vi era fondato un priorato che per alcun tempo (1474-1486) era aggregato all’Abbazia di San Giovanni degli Eremiti di Palermo. È certo però, come ci risulta da documenti che abbiamo riscontrato, che al 1523 vi era addetto come cappellano il rev. fra’ Taddeo de Harena dell’ordine di San Benedetto».7 Andati via i monaci cessò questa funzione, ma la gente continuò, per consuetudine, ad andare a fare visita alla chiesa della SS. Trinità, il giorno di Pasquetta, portandosi dietro l’occorrente per lo spuntino, non dimenticando le uova bollite colorate e “lu campanaru” di Pasqua, l’agnello pasquale di pasta di mandorla e la “sosizza pasqualora”. Questa usanza, ad incominciare dagli anni ’50 a poco a poco è scomparsa. L’uovo, sin dall’antichità, è stato considerato il simbolo della vita, l’origine dell’uomo e della stessa divinità. La sua colorazione ha origini superstiziose contro le potenze occulte maligne.
7
G.B. FERRIGNO, Castelvetrano, in F. NICOTRA (a cura di), Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, Palermo 1907-1908, p. 476.
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
221
Lu campanaru, fatto di pasta frolla dolcificata, ha la forma di cucciddatu (ciambella molto lavorata), con l’uovo sodo colorato posto su un lato, mentre l’agneddu pasquali è fatto di pasta di mandorla. La sosizza pasqualora era fatta di carne di maiale, con il budello grosso dello stesso animale, preparata e fatta asciugare e stagionare per qualche mese. Anche la minnulata o cubaita (da kubbat, di origine araba) fatta di zucchero e mandorle o noci o sesamo, continua a far parte della ricorrenza pasqualora. La festa di li morti Il due novembre tutto il mondo cristiano celebra la commemorazione dei defunti; in Sicilia, fino ad un recente passato, era anche una festa molto attesa dai più piccini. Per non fare perdere ai bambini la memoria dei parenti defunti, fino a qualche decennio fa, in quel giorno c’era la tradizione di portare loro dei doni e far credere, nella loro dolce innocenza, che a fare ciò erano stati li murticeddi. Per spiegare questo fenomeno, per loro soprannaturale, si sosteneva che i defunti, usciti dalle tombe, andassero a comprare dolciumi e oggetti vari e poi li portassero come regalo ai bambini più buoni. La delusione era forte, quando a scuola i ragazzi più grandi ridevano della loro convinzione. Come regali, i più poveri potevano ricevere calia, favi caliati, pastigghia (fave, ceci tostati, castagne secche), ficu sicchi, ranati, cutugna (fichi secchi, melograni, cotogne), nuci, nuciddi, nuciddi americani (arachidi). Non c’è da meravigliarsi dei regali che sembrano oggi così miserevoli; la frutta allora era considerata un bene voluttuario. Altri regali erano: bombolona (le caramelle artigianali di una volta), tetù, muscardina (per chi aveva buona
222
Vito Marino
dentatura), mustazzola, quaresimali, viscotta picanti (tutti biscotti artigianali). I meno poveri ricevevano li cosi di morti, come confetti, caramelle, cioccolatini, finte sigarette e soldoni di carta dorata o argentata ripieni di cioccolata; fra questi, i più caratteristici erano la frutta di marturana e li pupa di zuccaru. Questi ultimi sono reminiscenze della dominazione araba in Sicilia; si tratta di statuette di zucchero vuote di dentro con forma di ballerina, bersagliere, soldato a cavallo con il fiocco colorato, tamburino o cavaliere. La marturana, il dolce più prelibato, voce di popolo asserisce che ebbe origine alla fine del 1812, con la venuta a Palermo di Maria Carolina d’Austria, regina delle Due Sicilie, che andò a far visita alle monache del monastero della chiesa della Martorana; queste le offrirono dei dolci fatti di pasta di mandorla e zucchero, confezionati così bene nel colore e con la forma della frutta naturale, da fare rimanere stupefatta la sovrana. Secondo un’altra nota tradizione popolare, senza fondamento, la frutta di Martorana è nata perché le suore del convento della Martorana, per sostituire i frutti raccolti dal loro giardino ne crearono di nuovi con mandorla e zucchero, per abbellire il convento per la visita del papa dell’epoca. Per i più benestanti, c’erano anche vestitini, scarpette, camiciole, giocattoli. Il tutto era sistemato su una nguantera ben nascosta, per stimolare un loro maggiore interesse al risveglio. Così, lu jornu di li morti i bambini andavano contenti con i genitori a fare visita ai cari defunti per ringraziarli dei doni ricevuti. Nella stessa ricorrenza era consuetudine da parte di lu zitu portare a la zita un cesto con un pupu di zuccaru, che rappresentava una coppia di fidanzati; inoltre, per il primo anno di fidanzamento,il fidanzato doveva regalare alla fidanzata un ombrello, più altri regali di maggior valore. Oggi questa consuetudine è
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
223
scomparsa, assorbita dalla globalizzazione, ma anche perché i regali arrivano in ogni occasione, tutto l’anno. Al suo posto è subentrata un’altra consuetudine: Halloween, di origine anglosassone, proveniente da una cultura non nostra. *** Per quanto riguarda il cimitero di Castelvetrano, volendo riportare la sua piccola storia, il Ferrigno ebbe a scrivere: «La scienza non poteva più tollerare che il putridume dei cadaveri, lasciati nei vortici dei carnai, ammorbasse l’aria».8 Così, in rispetto della legge 11 marzo 1814, nel 1840 (dopo 26 anni) fu costruito il cimitero comunale. Le fosse comuni, allora esistenti, erano dei veri carnai, profondi sino a sei metri, che contenevano sino a 700 cadaveri. Esse esistevano in alcune zone interne dell’abitato: una si trovava nell’odierna via G. La Croce, che, anticamente, era chiamata «via delle Anime poverelle», situata alle spalle della Chiesa della Catena, con frontale in via Denaro. Un’altra si trovava nei pressi della Chiesa di San Giuseppe, oggi piazza Diodoro Siculo, mentre una terza si trovava alle spalle della Chiesa di Sant’Antonio Abate, dove oggi c’è un giardinetto interno; inoltre, quasi tutte le chiese conventuali erano provviste di carnaio.9 Quando ero ragazzo, sulla tomba si accendevano le candele. La cera bruciata che colava (lu squagghiumi) era comprata a peso dai commercianti, che aspettavano fuori del cimitero; i ragazzi cercavano di raccoglierne il maggior quantitativo possibile, anche chiedendo il permesso ai vicini, per avere un maggior ricavo.
8
Citazione riportata in N. FERRACANE, Castelvetrano. Palmosa Civitas, Palermo 1995, p. 96. 9 Ivi, p. 97.
224
Vito Marino
Per rispetto dei defunti, durante quel giorno i genitori vietavano severamente ai ragazzi di cantare e fare schiamazzi; la radio trasmetteva solo musica sinfonica. Purtroppo, oggi, come frutto indesiderato della recente globalizzazione, i popoli economicamente e militarmente più evoluti, anche se dotati di una cultura di poco valore, hanno esercitato molta influenza su altri popoli, spesso con un più ricco patrimonio di conoscenze. Così in Sicilia si sono perduti o modificati dei valori umani inestimabili, come i costumi, il modo di vivere, di pensare, di occupare il tempo libero, di lavorare, di giocare, di comunicare in seno alla famiglia e nella società. La famiglia e la casa per il siciliano erano tutto il proprio mondo, attorno al quale giostrava la società. «È la to casa chi ti strinci e ti vasa», «Casuzza to cufulareddu to», così sentenziavano i proverbi. La concezione di sacralità della famiglia, e di rispetto verso i suoi componenti, da noi continuava più che mai anche dopo la morte. Questa ricchezza d’animo, questa «corrispondenza d’amorosi sensi»,10 per come sosteneva il Foscolo, era qualcosa che noi siciliani ci portavamo dietro da millenni e che nessuna colonizzazione era riuscita a portarci via. Lu votu, lu mmitu e l’artaru di san Giuseppi La devozione del popolo verso San Giuseppe, venerato come protettore dei falegnami, delle ragazze nubili e degli orfani, è stata sempre sentita da tutta la popolazione siciliana. A Castelvetrano, una volta, la confraternita dei falegnami s’incaricava della sua festa.
10
«[...] celeste è questa / Corrispondenza d’amorosi sensi» da U. FOSCOLO, I sepolcri, vv. 29-30.
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
225
Il Patriarca incominciò a venerarsi come ricorrenza nel 1479 sotto il Papa Sisto IV, che lo inserì nel calendario per il giorno 19 marzo. Nella Valle del Belìce la devozione per San Giuseppe iniziò nel XVIII secolo.11 Da una donna anziana ho appreso, ma ne ho avuta conferma da altre fonti, che, ad iniziare dal primo mercoledì dopo l’Epifania e fino alla ricorrenza, si festeggiava il Santo in chiesa con li mercuri sulenni e li mercuri vasci. I primi, finanziati con i soldi raccolti fra i fedeli, con funzioni più solenni; i secondi, celebrati gratuitamente dalla chiesa, erano meno appariscenti. In quelle occasioni si cantava lu viaggiu di San Giuseppi, con accompagnamento d’organo e violino, e si recitava lu rusariu di San Giuseppi. Alla fine della funzione, avveniva lo sparo dei mascuna (mortaretti), la tammuriniata e la scampaniata, tre manifestazioni che hanno da sempre accompagnato le principali feste religiose. Si tratta di espressioni esteriori barocche che fanno da contorno alle ricorrenze festive religiose, ma sono molto sentite dalla popolazione. In merito un proverbio antico dice: «Nun c’è festa senza parrinu e mancu senza tammurinu». A Castelvetrano il festeggiamento si effettuava nei giorni 17, 18 e 19 marzo. In quei giorni la chiesa era apparata (addobbata) con lunghi drappi colorati ornati con fregi e angeli dorati; tutta una fastosità molto usata in quei tempi per le feste religiose più importanti. L’apparaturi, era, come sempre, don Peppino Vaiana. Nei giorni 17 e 18 la gente portava fiori in chiesa al Santo, la cui statua veniva posta su un altare molto in alto, con una scalinata piena di candele accese, mentre nella via Vittorio Emanuele (la strata di la cursa) si assisteva alle corse dei giannetti (cavalli 11
Da un depliant pubblicato a cura della Pro Loco di Salemi, s.d.
226
Vito Marino
da corsa); una manifestazione questa molto sentita dalla popolazione. Nel pomeriggio del giorno 19 iniziava la processione del Santo per le vie della città. Alla processione partecipavano i “fratelli” della confraternita dei falegnami e bottai, che portavano delle aste sormontate dalla figura di San Giuseppe, vestiti tutti di bianco con saio, cappuccio e visiera. C’erano sempre li virgineddi, bambini vestiti da angeli che portavano i “gigli bianchi di San Giuseppe”. Il corteo era preceduto dai tammurinara, e seguiti dalla banda musicale. Alcuni fedeli, che avevano fatto promessa al Santo per ricevere grazie, camminavano a piedi scalzi e portavano i ceri accesi in mano. Il Santo veniva posto sul carro trionfale ornato di fiori e piante verdi. Rientrando la processione, verso la mezzanotte si sparava lu jocu di focu (i fuochi d’artificio). Secondo la tradizione, quando una persona bisognosa d’aiuto, pregando il santo chiedeva una grazia, poteva promettere, come contraccambio, lu votu, che poteva essere: una penitenza (come fare un viaggio a piedi), portare un abito votivo addosso o dare degli aiuti ai poveri (come l’artaru di San Giuseppi). A grazia ricevuta questa persona doveva mantenere la promessa fatta. Nel caso di grazie ricevute da san Giuseppe lu votu si componeva di mmitu, tavulata e artaru. Lu mmitu consisteva nell’invitare la Sacra Famiglia in casa propria, dove già erano preparati la tavulata (la tavola apparecchiata) e l’artaru. È noto che durante la civiltà contadina, la povertà e la fame regnavano presso le famiglie più umili della classe operaia e contadina. Questa regola dura di frugalità veniva interrotta in quel giorno, con una tavulata (un banchetto) composto da più di centu e una pitanza, tutti prodotti ricavati dalla campagna e cucinati in tanti modi. Era il massimo che la povertà di allora poteva offrire ad un santo per la grazia ricevuta.
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
227
Quando ero bambino, a Castelvetrano, la mattina della festa del Santo vedevo passare in processione don Mariddu lu tammurinaru (Mario Pompei), che si dava da fare a percuotere il tamburo per attirare l’attenzione della gente. Al suo seguito c’era la Sacra Famiglia, composta da San Giuseppe (un vecchietto appoggiato ad un lungo bastone con il giglio fiorito, una tunica turchese che lo ricopriva fino ai piedi e la testa inghirlandata), la Madonna (una ragazza con una lunga veste celeste, ornata con ricami e merletti) e lu Bomminu (Gesù, un bambino vestito di bianco, fermato ai fianchi con nastro azzurro). Alcune virgineddi (delle bambine avvolte di bianchi veli e con il giglio in mano), completavano il gruppo; seguivano i fedeli. Questo corteo, dopo avere girato per alcune strade del paese, si dirigeva verso la chiesa del Santo, per una funzione religiosa, quindi si recava in casa di chi aveva fatto il voto. La casa si riconosceva per i rami di palma posti sul davanzale della porta. Per rispettare il cerimoniale, la Sacra Famiglia trovava la porta chiusa; quindi San Giuseppe bussava alla porta e dall’altra parte era chiesto: «Cu è? Soccu vuliti?» (Chi è? Cosa volete?). La risposta era: «Su tri poviri piddirini, chi addumannanu arrisettu» (sono tre poveri pellegrini che chiedono sistemazione). Siccome la porta non si apriva, la scena si doveva ripetere tre volte; alla terza volta la porta si apriva al grido di «Viva Gesù, Giuseppi e Maria» e clamorosi applausi. Questi personaggi, invitati alla tavulata, una volta erano scelti fra le persone più bisognose, a cui mancava addirittura il pane per sfamarsi; oggi sono scelti fra volontari devoti, per allietare la festa. A mezzogiorno in punto, dopo che il prete aveva dato la benedizione, si serviva il pranzo in una stanza adiacente all’altare, in una tavola lunga, coperta da una tovaglia bianca, mentre fuori si sparavano li mascuna. Secondo la tradizione, che ancora continua, sul tavolo del banchetto, accanto a ciascuno dei Santi invitati, sono posti tre
228
Vito Marino
pani di diversa forma. Davanti San Giuseppe è posto un pane a forma di bastone, simbolo della saggezza; davanti la Madonna un pane a forma di palma, simbolo della pace; infine, davanti al Bambino Gesù è posto un pane a forma di sole, simbolo della Signoria di Cristo sull’universo. La prima pietanza del banchetto è rappresentata dall’arancia, seguono gli assaggi di un’infinità di pietanze, come la pasta di San Giuseppi, frittelle varie di verdure, ortaggi, pesci, uova e frutta di stagione (niente carne, perché è periodo di quaresima); infine ci sono i dolci di tutte le varietà in uso nel paese come pignulati, minnulati, quindi sfinci, cannola, cassateddi, cassati (dolci a base di ricotta), nonché molti altri a base di pasta di mandorla. Durante il pranzo le pietanze sono servite a tavola da tre ragazze da marito, mentre gli invitati non devono toccare il cibo, ma vengono serviti in bocca con le posate, come atto di umiliazione e penitenza che fa parte della promessa fatta con il votu. Ad ogni portata, servita a tavola, c’è un rullo di tamburo con «evviva Gesù Giuseppe e Maria», con la risposta di tutti «evviva». Servito il pranzo, si scioglie il voto, ma, davanti all’altare, continuano le preghiere ed i canti dedicati a San Giuseppe, ancora per una diecina di giorni; i numerosi fedeli, che vanno a fare lu visitu, ricevono come dono panuzzi artisticamente lavorati, e dolci. L’altare, frutto di vera fede religiosa verso il Patriarca, rappresenta anche un vero capolavoro d’arte popolare. Per la sua costruzione e per la preparazione delle pietanze, specialmente dei panuzzi, occorrono decine di giorni di lavoro e vi partecipano tutti i vicini di casa. La struttura di legno prevede alcuni ripiani (di solito tre) a forma di gradinata, coperti da una tovaglia bianca; in cima agli scalini è posta un’immagine della Sacra Famiglia. I doni posti sull’altare, come pane, agrumi, fiori, rametti di mirto, d’alloro, d’ulivo e di palma raffigurano offerte di ringraziamento a Dio, per i prodotti avuti dalla terra ed un auspicio di
La religiosità dei siciliani durante la civiltà contadina
229
buon raccolto; sono anche simboli di ricchezza, benessere e prosperità, che richiamano gli antichi riti pagani di Demetra e di Cerere, già citati. La ricorrenza, quindi, fonde insieme la festa cristiana in onore di San Giuseppe e, contemporaneamente, pagana propiziatoria per un buon raccolto. Il pane di frumento, nelle forme e figure più diverse, rappresenta il simbolo della tradizione cristiana. Così abbiamo la sfera con la scritta J.H.S. (Jesus Hominum Salvator), la scala, la croce, la corona di spine e i chiodi, che rappresentano la passione di Cristo. Li cucciddati, a forma di sole, simboleggiano la luce divina; la serra e lu marteddu, i ferri del mestiere del Patriarca; i cuori indicano l’amore fra i membri della Sacra Famiglia. Inoltre, ci sono le figure di colomba, aquila, pavone, fiore, foglia, sacra famiglia, calice, stella, ecc. Li panuzza sono dei panini in miniatura, lavorati così bene da farli diventare dei veri capolavori d’arte, da fare invidia ai migliori ceramisti di Capodimonte. In tutta la Valle del Belìce, tale tradizione non si è mai spenta e continua anche oggi, incoraggiata dalla devozione popolare e dagli Enti Locali. A documentare la sacralità del pane, a Salemi, anche per la festa di San Biagio (il 3 febbraio), fra gli ornamenti di alloro, mirto e fiori, emergono i tradizionali pani fatti di pasta non lievitata e cotti al forno, chiamati cuddureddi e cavadduzzi. I primi simboleggiano la gola di cui San Biagio è protettore, i secondi ricordano la liberazione dalle cavallette nel 154212. Purtroppo a Castelvetrano questa tradizione era scomparsa da vari decenni; oggi cerca di riemergere molto timidamente. Speriamo che la nostra proverbiale apatia sia scrollata e la tradizione ripristinata. Devota a San Giuseppe, mia madre, davanti al presepe di Natale, recitava lu rusariu di San Giuseppi e cantava lu viaggiu di 12
Cfr. sito web dell’Associazione Pro Loco di Salemi (La Festa di San Biagio).
230
Vito Marino
San Giuseppi. Dei due brani conservo le parole ed il motivo (che ho trascritto in musica). Il terremoto che avvenne a Castelvetrano la notte del 15 gennaio 1968 arrecò pochi danni alla chiesa a lui dedicata, posta in Piazza Diodoro Siculo (ex Chianu di lu puzzu di li Sitti); ma, dopo alcuni mesi di transennamento, l’amministrazione comunale di allora pensò bene di demolire chiesa e convento annesso e così risparmiare tempo per le pratiche di ricostruzione. Da quella data, la suddetta cerimonia era andata in disuso. In ogni caso resta la consuetudine in tutte le famiglie di mangiare il giorno del Santo lu tianu di San Giuseppi. Il condimento è preparato con tutte le verdure di stagione, cucinate nelle maniere più varie, con l’aggiunta di uva passa, pinoli e sarde fresche. In un tegame si dispone a strati la pasta già cotta, alternata con il condimento e abbondante salsa di pomodoro; sopra si dispone uno strato di mollica e mennuli atturratati (mandorle abbrustolite) e il tutto va a finire nel forno per la cottura finale. Chi non aveva il forno in casa o chi voleva evitare di camiari (riscaldarlo), sistemava questa pietanza in un tegame di terracotta, che si disponeva sulla furnacedda col carbone acceso. Sopra, su un particolare coperchio di terracotta, si sistemava altro carbone acceso (focusutta e focusupra). I dolci tipici della ricorrenza erano li sfinci di San Giuseppi. Bibliografia Di recente pubblicazione, un testo che raccoglie gran parte degli scritti di V. MARINO intitolato Sicilia scomparsa. Il museo della memoria, Castelvetrano 2013.
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano Francesca Paola Massara I manufatti legati alla celebrazione della Liturgia Eucaristica, ed in particolare i vasa sacra, quelli destinati a contenere “il corpo ed il sangue di Cristo”, sono fin dai primordi oggetto di particolare attenzione da parte di committenti e artisti, che ne hanno curato anche caratteri iconografici e coordinate simboliche, spesso complesse. Nella suppellettile liturgica, anche di piccolo modulo, si rispecchiano infatti i grandi movimenti delle arti figurative cosiddette “maggiori”, le loro peculiarità stilistiche, i percorsi delle scelte iconografiche elaborate da committenze volitive, spesso animate dalle devozioni ai Santi e ai Patroni, cui si accompagnano i caratteri e le esigenze dei riti e delle celebrazioni del culto. Lungi dal considerarli opere di carattere minore, gli studi contemporanei ne hanno evidenziato, dunque, il valore non solo storico-artistico, ma anche storico-documentario, Fig. 1 - Calice dalla Chiesa di San Giovanni soprattutto se tali opere mostrano speciali Battista di Castelvetrano, connotazioni, indubbiamente legate ai conte- metà sec. XV - inizi XVI (foto Filippo Serra) sti di riferimento.
232
Fig. 2 - Calice dalla Chiesa di San Giovanni Battista di Castelvetrano, metà sec. XV - inizi XVI (foto di F. Massara)
Francesca Paola Massara
Il calice oggetto della relazione, proveniente dalla città di Castelvetrano ed oggi conservato presso il Museo Diocesano di Mazara del Vallo, riveste uno speciale interesse per tipologia e iconografia (figg. 1-2). Si tratta di un calice in rame dorato e argento,1 appartenente alla declinazione siciliana della tipologia iberico-catalana, identificata come “madonita” dagli studi di Maria Accascina:2 la base è polilobata, modellata sulla mistica foglia di cardo, in riferimento simbolico alla corona di spine ed alla Passione di Cristo, e ornata da ricchi tralci fitomorfi da cui germogliano fiori e frutti, così come dalla morte e resurrezione di Cristo viene rigenera-
ta la vita. Ognuno dei segmenti della base reca una diversa tipologia di racemi vegetali; in particolare, sul lobo di un segmento, alla radice di uno dei girali fioriti, sono incisi i simboli delle specie eucaristiche: il calice con il vino sormontato dall’ostia consacrata, entro la quale sono raffigurati il Crocifisso ed i due Dolenti (la Vergine e San Giovanni evangelista). Un altro segmento reca, invece, la raffigurazione del martirio di San Sebastiano: il Santo è rappresentato secondo la tradizionale iconografia del giovane ignudo, coperto solo da un ampio perizoma drappeggiato sui fianchi e legato ad uno spoglio tronco d’albero. Il capo è nimbato e rivolto verso destra, la lunga capigliatura scende sulle spalle a ciocche lisce e separate; le braccia sono entrambe legate dietro la schiena, mentre le caviglie sono 1
Il calice ha le seguenti misure: h cm 24, Ø base cm 14. M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia dal XII al XIX sec., Palermo 1974, pp. 145-146, 151-152, 157. 2
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
233
circondate da una grossa fune. La postura frontale viene spezzata dalla posizione irregolare delle gambe, incrociate e leggermente di tre quarti. Il Santo viene raffigurato trafitto da una sola freccia al costato (fig. 3). Il sacro vaso ha, poi, fusto a sezione esagonale, segnato da due piattelli poligonali ed interrotto da un grosso nodo, attraversato orizzontalmente da una fascia sporgente mistilinea; su di esso soFig. 3 - Calice (particolare no incisi elementi decorativi susseguendella base con San Sebastiano) ti a foglia singola. La coppa, sostenuta da un collarino a foglie di cardo stilizzate, non è originale. Sotto la base è inciso un elemento gigliato e tripunte con le lettere S ELIA FN, graffito con tratto irregolare. Lo stato di conservazione del manufatto non è ottimale: oltre alla sostituzione della coppa, si notano saldature e stagnature più recenti e ripetute, avvenute in tempi diversi, in corrispondenza dei piattelli sul fusto e del collegamento tra fusto e corolla. In questi punti, nonostante le saldature, la sacra suppellettile si mostra alquanto sconnessa e instabile. Il calice, opera tardogotica, datato tra la seconda metà del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, è pienamente inserito nella temperie culturale iberico-catalana. La cultura e la produzione artistica siciliana del XV e di gran parte del XVI secolo è profondamente influenzata da quella spagnola; l’osservazione di questo fenomeno da parte dell’Accascina ha determinato il riconoscimento da parte della Studiosa di una “famiglia” di suppellettili liturgiche (calici, ostensori, reliquiari) di produzione palermitana e derivazione iberica, in cui si riscontrano struttura formale e motivi decorativi comuni, vicini alla produzione di Barcellona, come le foglie di cardo, il nodo
234
Francesca Paola Massara
grande e geometricamente sagomato, la base polilobata. Molti di questi manufatti sono custoditi proprio nei paesi delle Madonie, da cui la denominazione di “madoniti”, che è passata ad indicare una ben precisa tipologia. Il calice di Castelvetrano può trovare validi confronti con altri manufatti di produzione palermitana, come il calice appartenente al Tesoro della Cattedrale di Palermo, anch’esso di tipologia “madonita”,3 datato alla seconda metà del secolo XV e su cui è presente uno dei primi marchi della maestranza orafa di Palermo;4 questo ha suggerito identica origine anche per l’opera di Castelvetrano.5 Altri interessanti confronti possono essere operati con il calice della chiesa madre di Santo Stefano di Briga (ME), datato alla seconda metà del Quattrocento, con base polilobata e ampio nodo al fusto, ornato da baccellature simili al nostro manufatto;6 con un calice dall’Oratorio della chiesa dell’Annunziata di Caccamo,7 datato alla fine del sec. XV - inizi del XVI; con un calice 3
Ivi, pp. 145-146; 151-152; 157; M.C. DI NATALE, «Scheda II.3», in M.C. DI NATALE (a cura di), Ori e argenti di Sicilia dal Quattrocento al Cinquecento. Catalogo della Mostra, Milano 1989, pp. 179-180; M.C. DI NATALE, «Scheda 5», in M.C. DI NATALE (a cura di), Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, Milano 2001, p. 356; M.C. DI NATALE, «Ori e argenti del Tesoro della Cattedrale di Palermo», in M.C. DI NATALE - M. VITELLA (a cura di), Il Tesoro della Cattedrale di Palermo, Palermo 2010, pp. 55-56 (con bibliografia precedente). 4 M. ACCASCINA, I marchi delle argenterie e oreficerie siciliane, Busto Arsizio 1976, pp. 18-19; S. BARRAJA, I Marchi degli argentieri e orafi di Palermo, Palermo 2010, p. 23. 5 M.C. DI NATALE, «Il tesoro dei vescovi», in M.C. DI NATALE (a cura di), Il tesoro dei vescovi, Marsala 1993, pp. 23; 26; M. VITELLA, «Scheda 3», in Il tesoro dei vescovi, cit., p. 96. 6 M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia, cit., p. 223. 7 M.C. DI NATALE, «Scheda 12», in Splendori di Sicilia, cit., p. 361.
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
235
del Duomo di Messina, di età un po’ più tarda (primi del secolo XVI);8 con due calici assai simili, uno dalla chiesa madre “Maria SS. La Nova” di Chiaramonte Gulfi (Ragusa) e l’altro dalla chiesa madre “Maria SS. Annunziata e San Giuseppe” di Giarratana (Ragusa), entrambi datati alla fine del XV secolo - inizi XVI, forse un po’ più tardi del nostro,9 mentre è decisamente più recente il calice in argento dorato della fine del secolo XVI, dall’oratorio di Sant’Antonio Abate di Enna,10 erede della tradizione tardogotica, esplicita nella raffigurazione degli strumenti della Passione sui tre clipei alla base, ma ormai trasformata nella linea e modellato dalla sensibilità rinascimentale. Ad un periodo compreso tra la fine del secolo XV e gli inizi del XVI sono da attribuire, infine, tre calici conservati presso il Museo Diocesano di Palermo,11 dall’impianto monumentale e dall’apparato ornamentale più ricco, soprattutto nel caso del calice donato dal cardinale Salvatore Pappalardo, che presenta inciso sulla base un medaglione in cui è racchiusa una raffigurazione della Pietà dal sapore michelangiolesco. Di particolare interesse il riferimento al calice dalla chiesa madre di San Lorenzo in Aidone (Enna), datato alla prima metà 8
M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia, cit., pp. 223-224. G. DISTEFANO, Argenti medievali inediti dalla Contea di Modica. Ispirazioni senesi e derivazioni iberiche, in «Kalós. Arte in Sicilia» XXI/2 (2009), pp. 22-24. 10 V. U. VICARI, «Scheda III.5», in G. INGAGLIO (a cura di), Fate questo in memoria di me. L’Eucarestia nell’esperienza delle Chiese di Sicilia. Catalogo della mostra, Catania 2005, pp. 126-127. 11 M.C. DI NATALE, «Arti decorative al Museo Diocesano di Palermo. Dalla città al Museo e dal Museo alla città», in M.C. DI NATALE (a cura di), Arti decorative al Museo Diocesano di Palermo. Dalla città al Museo e dal Museo alla città, Palermo 1999, pp. 107-108; M.C. DI NATALE, «Scheda 5», in Splendori di Sicilia, cit., p. 356; M.C. DI NATALE, «Scheda 13», in Splendori di Sicilia, cit., pp. 361-362; M.C. DI NATALE, Il Museo Diocesano di Palermo, Palermo 2006, pp. 52, 57.
9
236
Francesca Paola Massara
del secolo XVI e recante sul piede un clipeo con la raffigurazione di Sant’Antonio abate.12 Sul piede si dispiegano simili girali fitomorfi, come simili sono schema decorativo e linea tipologica, anche se nel calice di Aidone è evidente maggiore semplificazione dell’ornato ed essenzialità disegnativa, probabilmente da ascrivere a quell’attardamento della Sicilia sulla cultura artistica gotica, con riproposizioni di modelli arcaizzanti ancora in età cinquecentesca. Anche qui, sul piede, troviamo entro clipeo una raffigurazione di un Santo patrono, Sant’Antonio, mentre nel calice di Castelvetrano San Sebastiano in figura libera occupa un intero lobo della base. La presenza di personaggi, scene, stemmi, simboli entro clipei incisi o sbalzati sulle basi di calici e reliquiari deriva dagli archetipi madoniti della metà del Quattrocento, come il calice in argento dorato di argentiere palermitano conservato nella Madrice di Polizzi Generosa13 e quelli meno sontuosi ma altrettanto elaborati da Geraci Siculo, Petralia Soprana, Petralia Sottana, Castelbuono, Isnello.14 12
M.A. LIMA, «Ad honorem et gloriam Dei magnifica opera. Sacre suppellettili e paramenti nel tesoro della chiesa madre», in E. CARUSO - M.A. LIMA F.P. MASSARA (a cura di), San Lorenzo in Aidone. Una chiesa madre di Sicilia dal Medioevo all’Età moderna e il suo tesoro, Palermo 2010, pp. 118-119 e «Scheda 1», p. 192; F.P. MASSARA, «Cum signo civitatis. Produzione e circolazione dell’arte liturgica nella collezione della Madrice di Aidone», in San Lorenzo in Aidone. Una chiesa madre di Sicilia dal Medioevo all’Età moderna e il suo tesoro, cit., p. 153. 13 M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia, cit., p. 151. Il calice in oggetto reca lo stemma dell’arcivescovo Nicolò Pujades (1466-1467); V. ABBATE, Inventario polizzano. Arte e società in un centro demaniale del Cinquecento, Palermo 1992, p. 156; V. ABBATE, Polizzi. I grandi momenti dell’arte, Polizzi Generosa 1997, pp. 78-80. 14 M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia, pp. 146, 152; F. FERRUZZA, Cenni storici su Petralia Soprana, Palermo 1938, pp. 162; G. MACALUSO, Petralia
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
237
Un esemplare datato ad età sensibilmente più tarda è, infine, quello proveniente dalla chiesa di San Pietro e Santa Maria Maggiore di Calascibetta e oggi al Museo Diocesano di Caltanissetta,15 che reca incisa sulla base l’iscrizione 1588 DON NARDV CAVLIANNI. Il nostro calice manifesta la sua dipendenza da questi modelli, ma sembra anche rielaborarli autonomamente, raffigurando il Santo a figura piena su un intero segmento della base e rinunziando anche ad inserire entro clipeo la piccola rappresentazione del calice sormontato dall’ostia. Quest’ultima, poi, reca al suo interno l’incisione con il Crocifisso ed i dolenti, riecheggiando analoghe composizioni di origine senese16 particolarmente in auge nei secoli XIV e XV, realizzate su suppellettili liturgiche con gusto miniaturistico su smalti o applicazioni.17 In particolare, riguardo alla decorazione fitomorfa incisa alla base, essa è stata riscontrata affine soprattutto a quella sulla base del calice di Polizzi,18 sulla base del reliquiario della chiesa maSoprana. Guida alla storia e all’arte, Palermo 1986, pp. 51-52; M.C. DI NATALE, I tesori nella Contea dei Ventimiglia. Oreficeria a Geraci Siculo, Caltanissetta 1995, p. 14; M.C. DI NATALE, «Scheda 5», in Splendori di Sicilia, cit., p. 356; S. ANSELMO, Polizzi, Tesori di una città demaniale, Caltanissetta 2006, pp. 64-65; M.C. DI NATALE, «Argenti e argentieri palermitani», in M.C. DI NATALE - G. CORNINI - U. UTRO (a cura di), Sicilia ritrovata. Arti decorative dai Musei Vaticani e dalla Santa Casa di Loreto. Catalogo della mostra, Palermo 2012, pp. 79-80. 15 E. D’AMICO, «Le oreficerie», in S. RIZZO - A. BRUCCHIERI - F. CIANCIMINO (a cura di), Il Museo Diocesano di Caltanissetta, Caltanissetta 2001, pp. 134, 227. 16 G. DISTEFANO, Argenti medievali, cit., p. 23. 17 Cfr. i preziosi calici dalla chiesa di Santa Maria a Randazzo e dalla chiesa madre di Sciacca, datati al sec. XIV (cfr. M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia, cit., pp. 124-127). 18 M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia, cit., p. 151. Il calice in oggetto reca lo stemma dell’arcivescovo Nicolò Pujades (1466-1467); V. ABBATE, Inventario polizzano. Arte e società in un centro demaniale del Cinquecento, Palermo
238
Francesca Paola Massara
dre di “Maria SS. Assunta” a Sutera e del reliquiario dei Ss. Gerardo e Calogero della chiesa madre “S. Maria La Nova” di Termini Imerese, datati tra la fine del secolo XV e la metà del XVI.19 Il calice di Castelvetrano è segnalato come proveniente dalla chiesa di San Giovanni Battista20 anche se, con ogni probabilità, non venne realizzato per questa destinazione. La chiesa, di particolare importanza, dalle fonti sembra essere una delle due parrocchie di riferimento del territorio ecclesiale di Castelvetrano (l’altra è la chiesa madre). Nella relazione di mons. Ugo Papè, vescovo di Mazara dal 1772 al 1791,21 in cui si elencano i beni della Parrocchia della chiesa di San Giovanni Battista, sono citati «n. due calici con suoi piedi di rame e sue patene di argento»22, indicazione che potrebbe fare riferimento al calice in questione, anche se non vi compare alcuna descrizione precisa.
1992, p. 156; V. ABBATE, Polizzi. I grandi momenti dell’arte, Polizzi Generosa 1997, pp. 78-80 19 M.C. DI NATALE, «Scheda II.20» e «Scheda II.21», in Ori e argenti di Sicilia, cit., pp. 192-194; M. VITELLA, Gli argenti della Maggior chiesa di Termini Imerese, Termini Imerese 1996, pp. 61-64; S. RIZZO, Il tesoro dell’isola. Capolavori siciliani in argento e corallo dal XV al XVIII secolo, Catania 2008, vol. I, p. 393; vol. II, p. 793 (con bibliografia antecedente). 20 Sulla chiesa, cfr. G. CAMPOREALE (a cura di), La chiesa di San Giovanni Battista. Contributi alla conoscenza storica, artistica ed iconografica del monumento, Castelvetrano 2004. 21 P. PISCIOTTA, Croce e Campanile. Mazarien Ecclesiae, Mazara del Vallo 2008, pp. 145-147. 22 Ms. in Archivio Storico Diocesano di Mazara del Vallo, Mons. Ugo Papè, Sacra Visita anno 1775, Campobello - Castelvetrano, Arm. 35, palc. 1, posiz. 4., f. 609 v.
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
239
La rilevanza dell’opera d’arte sacra di cui ci occupiamo è legata non solo alla sua antichità, ma soprattutto alla raffigurazione presente sul piede, ossia all’immagine del Santo martire Sebastiano, evidentemente commissionata in ordine ad una particolare devozione locale. Infatti, tra le testimonianze più antiche del culto di San Sebastiano in Castelvetrano, si annovera una statua lignea a grandezza naturale, di notevole interesse per fattura e coordinate storiche (figg. 4-5).23 Lo stato di conservazione Fig. 4 - San Sebastiano. Chiesa del è discreto: si segnalano ca- Purgatorio, Casteldute di colore e sparsi feno- vetrano (foto Vinmeni di craquelé, mancano 4 cenzo Napoli) delle 10 frecce; l’opera non ha subito interventi di restauro e dunque mantiene la colorazione originaria, comprese le dorature, pur sotto la patina di invecchiamento naturale. Il Santo, raffigurato in sembianze giovanili, è ignudo e stante, legato al palo del supplizio; ha la testa inclinata verso destra, coronata Fig. 5 - San Sebastia- dai folti capelli biondi e aureola a disco. Una no (part.). Chiesa del serie di frecce trafigge il corpo snello e sottile, Purgatorio coperto da un drappeggio sui fianchi. Il braccio destro è levato in alto, mentre l’altro è legato dietro la schiena; la gamba destra è portante, la sinistra leggermente piegata. Stilisticamente, il volto delicato, dall’ovale pieno, sembra contrastare con la resa anatomica aguzza e spigolosa, evidente
23
La scultura ha altezza di m 2,17 (compreso il tronco del supplizio; solo la statua misura m 1,97), la base ha forma irregolare, m 0,40 x 0,48.
240
Francesca Paola Massara
soprattutto nella resa del torace, segnato da forti incisioni del costato, con una durezza che ricorda da vicino i modelli tardogotici. Attribuita recentemente allo stesso Antonino Ferraro da Giuliana a cui si commissionò la decorazione della chiesa di San Domenico, la statua è stata ricondotta alla seconda metà del secolo XVI (in particolare al 1577, proprio in relazione a quell’intervento).24 Lo schema iconografico della scultura può trovare qualche raffronto con le interpretazioni nordiche come, per esempio, quella proposta dal dipinto di Hans Memling conservato a Bruxelles, al Musées Royaux des Beaux-Arts, e datato al 1475, in cui il Santo si presenta simile per postura, fisicità essenziale e smagrita, quasi “legnosa”, e volto dall’ovale delicato, sebbene ben diversa sia l’impronta della preziosità fiamminga nel raffinato contesto, elaborato e ricco di dettagli.25 L’iconografia plastica del Santo in Sicilia presenta una serie di varianti, sia nello schema compositivo (entrambe le mani dietro la schiena o sulla testa; drappo o vestimenta; visione frontale o prospettica; postura; atteggiamento ed espressività del volto) che nell’ispirazione stilistica. La costante dell’immagine giovanile ignuda, interpretata dalle botteghe locali, si esprime classicamente impostata26 o si alterna a quella che elabora un movimento “avvitato” del corpo, ispiratore di devozionale pathos.
24
A.G. MARCHESE, Antonino Ferraro e la statuaria lignea del ’500 a Corleone, Palermo 2009, pp. 55-56. 25 P. ASSION, Sebastian Mart., in E. KIRSCHBAUM - W. BRAUNFELS (a cura di), Lexicon der christlichen Ikonographie, Rom - Freiburg - Basel - Wien 1994, vol. VIII, pp. 318-323. 26 Cfr. le sculture della chiesa di San Sebastiano di Isnello e del Collegio di Maria a Collesano (A. CUCCIA, «Scultura lignea del Rinascimento in Sicilia. La Sicilia occidentale», in Splendori di Sicilia, cit., pp. 129-130).
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
241
Un raffronto per lo schema sembra potersi operare con il San Sebastiano dalla chiesa di Santa Maria di Gesù al Piano a Polizzi Generosa, datato alla prima metà del secolo XVI,27 diverso nella resa del capo e dotato di un certo equilibrio compositivo, e con la statua del Museo Diocesano di Palermo,28 di riconosciuta ispirazione gaginesca, datato alla seconda metà del secolo XVI, con membra più tornite e posa più plastica rispetto al nostro manufatto. Alquanto diverso per resa stilistica, trattamento del capo e del volto appare il Santo inserito nella Cappella della Madonna della Catena (1598) della chiesa madre di Caltabellotta, su cui compare un cartiglio che firma l’opera per mano di Antonino Ferraro.29 Esempi tardi e da confrontare solo per la persistenza di un modello, quelli della statua da Capizzi, fortemente restaurata, e del San Sebastiano di Caltanissetta, elaborazione manierata recentemente attribuita a Stefano Li Volsi e datata alla prima metà del secolo XVII.30 La statua di Castelvetrano si trova oggi presso la chiesa del Purgatorio, un edificio sorto tra il 1642 e il 1644, al posto di una chiesetta di età anteriore, di minori dimensioni. Nel 1644, anno di completamento, vi furono trasportati in processione, dalla vicina chiesa degli Agonizzanti, un quadro rappresentante le Anime Purganti e la suddetta statua di San Sebastiano.31 27
P. RUSSO, La scultura in legno del Rinascimento in Sicilia. Continuità e rinnovamento, Palermo 2009, pp. 77-82 28 M.C. DI NATALE, Il Museo Diocesano di Palermo, cit., pp. 100, 102. 29 A.G. MARCHESE, Antonino Ferraro e la statuaria lignea, cit., p. 56. 30 S. TORRE, S. Sebastiano. Tradizioni del culto in Sicilia, Acireale - Roma 2005, pp. 85, 106, 122, 123. 31 G.B. FERRIGNO, Castelvetrano, Palermo 1909, p. 123-124, 213-214; G. DAVÌ - M.P. DEMMA, Paesi della Valle del Belìce. Guida storico-artistica, Palermo 1981, p. 33; M. VENEZIA, Quell’incrocio di antiche strade, in «Luoghi di Sicilia. Castelvetrano e gli Aragona. Una capitale tra ’500 e ’600» 14/3 (2002), pp. 2-3, 18-30.
242
Francesca Paola Massara
Quest’ultima veniva posta accanto l’altare, dove ancora si trovava nel 1775: «Nell’angolo destro di esso altare vi sta situata la Statua del glorioso martire Sebastiano, e nel sinistro la statua del glorioso S. Filippo» (dal Plano Generale della Venerabile Sacra chiesa e Congregazione delle Anime del Purgatorio della Città di Castelvetrano, in Sacra Visita di Mons. Papè - Castelvetrano 1775 ). 32 Nello stesso anno 1644, la chiesa, sorta nel secolo XV sotto il titolo di San Sebastiano, cambiava l’antica denominazione per quella di Nostra Signora degli Agonizzanti, ancora attuale.33 Tuttavia, l’antica devozione non si perdeva, ereditata in toto dalla nuova sede del simulacro, recando anche tracce iconografiche della traslazione del culto, attraverso una statua in facciata e un rilievo in stucco: nella Sacra Visita dell’Em.mo Vescovo Spinola di Castelvetrano, Campobello e Partanna dell’anno 1639, si legge: «Oratorium Congregationis S. Sebastiani seu Purgatorij […]. In altari Sancti Sebastiani, cuius nulli sunt redditis, nec onera, et in quo celebratur aliquoties in anno fidelium devotione […]».34 Da qui si evince che l’Oratorio era animato da una Congregazione che aveva assunto parimenti il titolo di San Sebastiano, accanto a quello del Purgatorio; il culto non si estingueva, era però divenuto “povero” e la celebrazioni sembrano saltuarie. Ancora nel testo della Copia conforme di transazione fatta da Ill.mo Can. Andrea Giacalone con Mons. Giuseppe Stabile nel
32
Ms. in Archivio Storico Diocesano di Mazara del Vallo, mons. Ugo Papè, Sacra Visita anno 1775, Campobello - Castelvetrano, arm. 35, 1.4; ff. 324345; in particolare f. 325 r. 33 G.B. FERRIGNO, Castelvetrano, pp. 123, 213; G. DAVÌ - M.P. DEMMA, Paesi della Valle del Belìce, pp. 23, 46. 34 Ms. in Archivio Storico Diocesano di Mazara del Vallo, Sacra Visita dell’Em.mo Vescovo Spinola di Castelvetrano, Campobello e Partanna dell’anno 1639, n. 338/404, f.1 r.
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
243
1857, al f. 12, si legge: «Sacra chiesa delle Anime del Purgatorio sotto il titolo di San Sebastiano […]».35 La memoria di questo titolo nel secolo successivo sembra essersi progressivamente perduta. Testimonianze degli anni ’40 del XX secolo indicavano ancora la statua posta al centro delle colonne che adornavano il presbiterio sul lato sinistro dell’altare. Infine, nel 1981, uno studio censuario sui beni storico artistici dell’area del Belìce dava la statua di San Sebastiano come dispersa, con «collocazione odierna sconosciuta».36 Il San Sebastiano della chiesa del Purgatorio è stato collegato con la omonima scultura in stucco che è parte integrante del grandioso ciclo decorativo della chiesa di San Domenico, un sontuoso apparato in terracotta stuccata e affreschi, commissionato da Carlo Aragona e Tagliavia, primo principe di Castelvetrano, al giulianese Antonino Ferraro tra il 1547 e il 1580.37
35
Ms. in Archivio Storico Diocesano di Mazara del Vallo, fald. Castelvetrano, Copia conforme di transazione fatta da Ill.mo Can. Andrea Giacalone con Mons. Giuseppe Stabile, f. 12 r. 36 G. DAVÌ - M.P. DEMMA, Paesi della Valle del Belìce, cit., p. 33. 37 G.B. FERRIGNO, Castelvetrano, cit., pp. 114-115; G. DAVÌ - M.P. DEMMA, Paesi della Valle del Belìce, cit., pp. 43-46; A. GIARDINA, I Tagliavia Aragona e la chiesa di San Domenico in Castelvetrano, Castelvetrano 1985; S. LA BARBERA, Ferraro, Antonino, in L. SARULLO - B. PATERA (a cura di), Dizionario degli artisti siciliani. Scultura, Palermo 1993, pp. 114-116; A. GIARDINA, Il fasto, la scena e l’armonia, in «Kalós - Luoghi di Sicilia. Castelvetrano Selinunte» 8/2 (1996), pp. 6-17; F. NEGRI ARNOLDI, Scultura del ’500 in Italia Meridionale, Napoli 1997, pp. 99-182 (in particolare pp. 109, 161, 177); A. GIARDINA - V. NAPOLI, Carlo d’Aragona e le travi dipinte della chiesa madre. Araldica, storia e arte a Castelvetrano tra XV e XVII secolo, Castelvetrano 2002, pp. 25-29; F.S. CALCARA - M. VENEZIA, L’estro di un geniale “impastatore di calce”, in «Kalós - Luoghi di Sicilia. Castelvetrano e gli Aragona. Una capitale tra ’500 e ’600» 14/3 (2002), pp. 31-33; A. GIARDINA -
244
Francesca Paola Massara
Il monumento è stato definito «un incontro felice tra gaginismo, spirito popolare e Maniera Italiana» in un artista che «può considerarsi il lontano progenitore della decorazione barocca siciliana».38 Il Di Marzo indica in questo monumento la prima opera di Antonino Ferraro.39 Sui pilastri di sostegno del cappellone sull’altare maggiore si aprono nicchie con le statue dei Ss. Pietro e Paolo sulla fronte, Fig. 6 - San Sebastiano. mentre sui lati sono inseriti San Sebastiano Antonino Ferraro, 1547- (figg. 6-7) e San Rocco (con datazione al 1580. Chiesa di San Do- 157740), nominati menico, Castelvetrano Santi protettori (foto Vincenzo Napoli) della città, insieme all’Immacolata e a Santa Rosalia, in occasione della peste (come da atto 12 luglio 1625 presso Notar Graffeo).41 Le opere più tarde che testimoniano interesse per il culto del Santo sono la statua inserita in facciata della chiesa del Purgatorio ed il quadro con Madonna e Santi dipinto da Fra’ Felice da Fig. 7 - San Sebastiano (part.). Sambuca.42 Chiesa di San Domenico F.S. CALCARA - V. NAPOLI – G .L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano dalle origini al XVII secolo, Palermo 20102, pp. 65-67. 38 G. BELLAFIORE, La Maniera Italiana in Sicilia, Palermo 1963, p. 23. 39 G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia, Palermo 1880, pp. 727-730. 40 A. G. MARCHESE, Antonino Ferraro e la statuaria lignea, cit., p. 55. 41 G.B. FERRIGNO, Castelvetrano, cit., p. 195. 42 G. DAVÌ - M.P. DEMMA, Paesi della Valle del Belìce, p. 33; A. GIARDINA, Il fasto, la scena e l’armonia, in «Kalós», cit., pp. 6-17.
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
Fig. 8 - San Sebastiano. Facciata della Chiesa del Purgatorio, sec. XVIII (foto Vincenzo Napoli)
Fig. 10 - L’Immacolata veglia sulla città con i Santi patroni Francesco, Sebastiano, Rosalia, Rocco, Giovanni Battista, Fra Felice da Sambuca, 1789. Chiesa dei Cappuccini
43
Ivi, p. 56.
245
La scultura (fig. 8), inserita entro una delle nicchie che si aprono sulla fronte della chiesa del Purgatorio, è del secolo XVIII e reca i tratti del naturalismo e della robusta visione plastica del Settecento, seppure con un’interpretazione accademica e piuttosto greve nelle proporzioni e nella resa anatomica. Dello stesso periodo una Fig. 9 - San Sebastiano soccorso lunetta in dalle matrone, rilievo in stucco. Chiesa del Purgatorio, interno, stucco, en- sec. XVIII (foto Vincenzo Napoli) tro la chiesa, che raffigura le matrone che soccorrono il martire dopo il supplizio delle frecce (fig. 9). Infine, al 1789 è da ascrivere la grande tela di Fra’ Felice da Sambuca realizzata per la chiesa dei Cappuccini e sostituita a quella di analogo soggetto dipinta da Pietro Novelli nel 1633. Il dipinto raffigura l’Immacolata con San Francesco, Santa Rosalia, San Sebastiano e San Giovanni Battista (fig. 10).43 Qui il santo è inserito in un contesto apertamente devozionale, non più protagonista ma comprimario nella rosa dei
246
Francesca Paola Massara
Santi patroni contro la peste, con iconografia ormai consolidata.44 Agiografia e culto del martire romano Sebastiano (dal greco sebastòs = venerabile) sono molto antichi:45 figura tra i protettori della città di Roma insieme ai Santi Pietro e Paolo e viene ricordato per la prima volta nella Depositio Martyrum, inserita nel Cronografo del 354, che pone il suo anniversario il 20 gennaio e indica come luogo della sua sepoltura il cimitero in catacumbas sulla via Appia a Roma.46 Nome, martirio, luogo del sepolcro e culto sono gli elementi certi che possono dedursi dalla Depositio. Secondo la Passio Sancti Sebastiani, racconto romanzato attribuito a Sant’Ambrogio, ma forse opera del monaco Arnobio il Giovane (V secolo), Sebastiano sarebbe di origini milanesi; è incerta la nascita a Milano o a Narbona, in Gallia. Secondo la Passio, il Santo si reca poi a Roma, al seguito degli imperatori Diocleziano e Massimiano, al tempo di Papa Gaio (283-296), che lo nomina difensore della chiesa (Defensor Ecclesiae) per aver aiutato i suoi compagni di fede. Entrato nella guardia imperiale grazie alle sue qualità, il miles Christi Sebastiano si distingue operando miracoli, opere di carità e conversioni tra la nobiltà romana e curando la sepoltura dei 44
Il tema riprende e modifica quello già commissionato da Don Carlo Aragona e Tagliavia in due dipinti del secolo XVI, uno proveniente dalla chiesa di San Rocco e oggi al Museo Diocesano di Palermo e l’altro tuttora nella chiesa di Sant’Agostino di Palermo, attribuito a Giuseppe Albina “il Sozzo” (cfr. P. BIAGIO MINISTERI OSA, La chiesa ed il convento di Sant’Agostino a Palermo, Palermo 1994, pp. 89; 132; A. GIARDINA - V. NAPOLI, Carlo d’Aragona. Araldica, storia e arte, cit., p. 37, figg. 5-7). 45 G. GORDINI - P. CANNATA, Sebastiano, santo, in Bibliotheca Sanctorum, Roma 1968, vol. XI, coll. 776-801; P. ASSION, Sebastian Mart., cit., pp. 318323. 46 R. VALENTINI - G. ZUCCHETTI, Codice topografico della città di Roma, Roma 1940-1942, vol. II, p. 17.
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
247
martiri. Scoperto e condannato alla pena capitale da Diocleziano, viene denudato, legato a un palo e trafitto dalle frecce dei suoi stessi commilitoni, «tanto da sembrare un riccio» (ut quasi hericius videretur). Creduto morto, viene abbandonato sul luogo ma poi, soccorso dalla matrona Irene, giunge a guarigione. In seguito, il santo si ripresenta agli imperatori proclamando ancora una volta la propria fede, provocando una nuova condanna a morte; il suo corpo viene gettato nella Cloaca Maxima, recuperato grazie ad una visione e, infine, sepolto nel cimitero sull’Appia Ad catacumbas, dove la tradizione segnala la Memoria Apostolorum (dal IX secolo Basilica di San Sebastiano).47 Gli storici pongono la data della morte di Sebastiano tra il 303 e il 305, ma il suo culto si comincia ad affermare solo a partire dal VI secolo, parallelamente alla diffusione di pestilenze particolarmente violente. Nella tradizione popolare il Santo, a causa del supplizio, è indicato come depulsor pestis e invocato contro il morbo, dato che sin dall’antichità c’è un rapporto frecce / vulnera pestis (come nell’Iliade, in cui la peste è inviata da Apollo con frecce letali). Grazie anche ai pellegrinaggi, la fama di Sebastiano si diffonde in tutta Europa; Paolo Diacono, nella Historia Langobardorum, riferisce che la peste del 680 cessa quando a San Sebastiano si intitola un altare nella chiesa di San Pietro in Vincoli. La grande diffusione del culto di San Sebastiano si amplia con la traslazione di reliquie, la dedicazione di chiese e la compilazione di raccolte di miracoli. Nei secoli VI-XIII prevale l’iconografia del Santo in vesti militari; un’ulteriore crescita del suo culto è legato alla diffusione
47
A. FERRUA, La basilica e la catacomba di San Sebastiano, Città del Vaticano 1990; PH. PERGOLA, Le catacombe romane. Storia e topografia, Roma 1997, pp. 181-185.
248
Francesca Paola Massara
della celebre Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine (12301298). In Sicilia il culto di San Sebastiano sembra risalire al 1347, quando si abbatte sull’isola la terribile peste bubbonica, che già flagellava l’intera Europa; il Santo viene proclamato compatrono della città di Palermo48 e nel 1482 gli viene eretta e dedicata una chiesa, legata ad una omonima confraternita, come voto per la liberazione dal «crudelissimo contagio».49 Si sviluppa proprio in quest’epoca la rappresentazione di Sebastiano giovane, raffigurato nella scena del suo primo supplizio e caratterizzato dall’attributo iconografico della freccia. L’espansione del culto è probabilmente legata alla tradizione agiografica spagnola, anche se il Santo era di certo già noto; sorgono, inoltre, proprio tra XV e XVI secolo, un gran numero di confraternite a lui intitolate. La diffusione capillare della venerazione e la scelta delle coordinate iconografiche con cui rappresentare il martire (ignudo e trafitto) hanno certamente radice nel suo ruolo di depulsor pestis, per il quale viene invocato con disperata insistenza, ritraendolo talvolta in compagnia della Vergine e di altri Santi patroni quali Giobbe, San Rocco e Santa Rosalia, anch’essi difensori dalle epidemie. Il culto di San Sebastiano si sviluppa a Castelvetrano nel secolo XV, in relazione alla diffusione della peste, e si consolida in occasione delle altre ondate del contagio: dopo l’epidemia del 1575-1576, è tristemente famosa quella del 1624-1626, a motivo della quale il 16 gennaio 1625 la cittadinanza si riunisce per de48
È attribuibile a questo periodo la preghiera latina (della quale esiste anche una variante dedicata a San Rocco) che invoca la sua protezione dal contagio: «Sancto Sebastiano, fac me ab ogni contagione securum». 49 G. PALERMO, Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni, Palermo 1858 (rist. an. Palermo 1984), pp. 211-212.
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
249
liberare di ricorrere all’intercessione «di Nostra Signora avvocata dei peccatori, di San Sebastiano, di San Rocco e di Santa Rosalia acciò con il mezzo del pentimento et loro intercessione si possi placare la iusta ira di Iddio et liberare dal male», ed a tal fine fabbricare nella chiesa madre un altare con un quadro dedicato all’Immacolata Concezione, San Rocco e Santa Rosalia, «essendovi di San Sebastiano una chiesa separata».50 La peste del 1624 è probabilmente la più grave dopo la pandemia della Peste Nera del 1347-48, che decima la popolazione europea,51 entrando proprio dalla Sicilia.52 Tuttavia, nel tempo tra le due epidemie, una serie di altri episodi colpisce la Sicilia,53 nel 1362 e nel 1374, mentre nel primo cinquantennio del 1400 si calcola che almeno nove ondate di peste si siano diffuse nell’isola, tra cui si segnalano quelle di Palermo (1401) e Corleone (1434-1449/1450),54 con un picco di mortalità nel 1421-1422.
50
G.B. FERRIGNO, La peste a Castelvetrano negli anni 1624-1626, Trapani 1905, p. 23; A. GIARDINA - F. S. CALCARA - V. NAPOLI - G.L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano, cit., pp. 99, 178-179. 51 A. CORRADI, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna 1865 (19732), p. 260. 52 La peste fu recata da galee genovesi provenienti dall’Asia e approdate a Messina (M. AYMARD, Epidémies et médecins en Sicile à l’époque moderne, in «Annales Cisalpines d’Histoire Sociale», serie I, 4 [1973], pp. 9-37). 53 F. SERIO, Istoria cronologica delle pestilenze di Sicilia, in A. MONGITORE, Della Sicilia ricercata nelle cose più memorabili, Palermo 1783, tomo II, p. 491; M. AYMARD, Epidémies et médecins en Sicile, pp. 9-37; I. PERI, La Sicilia dopo il Vespro. Uomini, città e campagne 1282-1376, Roma-Bari 1982, pp. 171-180; C. VALENTI, Due episodi di peste in Sicilia (1526-1624), in «Archivio Storico Siciliano», serie IV, X (1984), pp. 5-88; S. DI MATTEO, Palermo, Milano 1994, p. 102. 54 I. MIRAZITA, Corleone. Ultimo medioevo. Eredità spirituali e patrimoni terreni, Palermo 2006, pp. 39-40.
250
Francesca Paola Massara
In conclusione, secondo i dati in nostro possesso, possiamo formulare alcune ipotesi a riguardo del prezioso calice, ma anche sul suo rapporto con il culto e le rappresentazioni artistiche del Santo martire Sebastiano a Castelvetrano. Sembra verosimile che il calice oggi conservato al Museo ed in esso confluito dalla chiesa di San Giovanni Battista sia in realtà stato realizzato inizialmente per la chiesa di San Sebastiano e, trasportato insieme alla statua del Santo alla chiesa del Purgatorio, sia infine approdato, dopo il venir meno del culto, alla chiesa di San Giovanni in virtù di una pertinenza territoriale parrocchiale. Al calice confermiamo la cronologia nota, propendendo in particolare per gli ultimi anni del secolo XV, per motivi stilistici ed iconografici, anche sulla base di confronti e paralleli; calice e chiesa di San Sebastiano potrebbero dunque essere all’incirca coevi. In tal caso, il manufatto sarebbe la più antica testimonianza del culto in Castelvetrano, dopo la fondazione della chiesa. Il calice e la statua conservata presso la chiesa del Purgatorio, sebbene non sovrapponibili iconograficamente, sono entrambi pertinenti alla stessa realtà devozionale ed alla stessa temperia culturale ed artistica; è possibile che siano stati pensati per la stessa chiesa. Riguardo alla statua, non ci sentiamo di concordare con la datazione e con la attribuzione al Ferraro recentemente proposti, sebbene le due opere abbiano in comune lo schema iconografico. Nel confronto con il San Sebastiano di San Domenico sembrano emergere valide differenze, soprattutto in ordine ad una diversa cura del modellato, alla resa della muscolatura, al trattamento delle superfici, con effetto di anatomia asciutta e incisa per la statua lignea del Purgatorio, decisamente ancora memore di un affilato goticismo, mentre sono evidenti i tratti di morbidezza e plasticità per la statua della chiesa di San Domenico, già sensibile
Un calice quattrocentesco e il culto di San Sebastiano a Castelvetrano
251
alla temperie manierista. In virtù di questi elementi, si potrebbe formulare l’ipotesi che la statua lignea preceda sensibilmente la seconda, datandosi forse tra la fine del secolo XV e gli inizi del secolo XVI. Se così fosse, si tratterebbe dell’archetipo dell’iconografia statuaria del martire a Castelvetrano, strettamente connessa alla chiesa, anch’essa nata nel secolo XV. Tuttavia, rimangono sospese conclusioni definitive, in attesa di elementi documentari e nuovi dati a supporto degli studi storici e storico-artistici sullo sviluppo del culto e dell’iconografia locale.*
*
Particolare gratitudine desidero esprimere al rev. don Pietro Pisciotta, Direttore dell’Archivio Storico Diocesano di Mazara del Vallo, per la preziosa ed insostituibile guida tra i documenti dell’Archivio; ringrazio altresì i sigg. Vincenzo Napoli e Gianni Polizzi per la grande disponibilità e la gentile concessione di alcune immagini.
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato* Giovanni Modica - Mirko Tamburello Festa del Patrono La sontuosa festa in onore di San Giovanni Battista, santo patrono della città di Castelvetrano, si celebrava il 29 di agosto. Era la festa più importante dell’anno sin dall’epoca moderna, precisamente dal 13 novembre 1695. Parte delle spese che riguardavano le messe cantate al vespro, gli addobbi con le stoffe di seta damasco, gli angeli con frange dorate, venivano affrontate dalla stessa chiesa, che aveva rendite in abbondanza, mentre le altre erano a carico del Comune. Erano quattro i giorni della festa e si iniziava il 6 di agosto. Alle ore 7 scampanavano tutte le sedici chiese del paese. Stessa cosa succedeva alle 12 e alle 15. Nei giorni 26, 27, 28 di agosto si svolgeva la corsa dei cavalli. Nell’attuale via Vittorio Emanuele II, allora denominata dalla gente strata di la cursa, si preparavano a gareggiare li giannetti, cavalli da corsa, montati da fantini con divise di vario colore, a secondo delle scuderie di appartenenza, con calzoni bianchi e stivali con speroni. La strada allora non era asfaltata, la partenza, da piazza Principe di Pie-
*
Il presente atto è la rielaborazione delle testimonianze di Giovanni Modica, cultore di storia castelvetranese, pubblicate sul periodico «AGAVE», diretto da Elio Indelicato, compiuta da Mirko Tamburello.
254
Giovanni Modica − Mirko Tamburello
monte, era segnata dallo sparo di tre mortaretti, il traguardo era fissato davanti la chiesa di San Francesco di Paola. La strada, lungo il percorso, veniva transennata con dei pali di legno e tavole. Durante la corsa i cavalli venivano spronati dallo sparo dei mortaretti e dalle grida festose d’incitamento delle migliaia di persone assiepate dietro le palizzate. Inoltre, le famiglie che abitavano lungo la strata di la cursa usavano esporre dal loro balcone tovaglie finemente ricamate e pitturate. La sera dei giorni 26, 27, 28 e 29 dello stesso mese, nell’attuale piazza Carlo Aragona e Tagliavia, allora piazza Garibaldi, un’orchestra proveniente da Palermo o da Santo Stefano di Camastra, su un palco a forma di ferro di cavallo a due piani di proprietà del comune, suonava brani d’opera lirica e operette. In occasione della festa tutte le strade, le tre ville con gli alberi, il prospetto frontale del teatro Selinus e la facciata della chiesa di San Giovanni, campanile compreso, venivano illuminati con piccole lampadine di vario colore. Il 29 agosto, alle ore 10, passava la banda musicale per tutte le vie della città e alle ore 18 si formava la processione per il Santo, con in testa una copia lignea della statua in marmo realizzata dall’artista Antonio Gagini nel 1522, che si trova ancora ai piedi dell’altare maggiore della chiesa. Il Patrono veniva sistemato su un carro trionfale ornato di angeli di cartapesta, palme, fiori, sete e lampadine accese, tutta opera de l’apparaturi. Aprivano la processione tre tamburinai, seguiti dalle associazioni religiose di tutte le chiese. Appena dietro un bambino, vestito con pelle caprina, portava nella mano destra un bastone a forma di croce dove si poteva leggere Ecce Agnus Dei, con la sinistra reggeva un agnellino di carta pesta. Dietro di lui tre ragazzine dai capelli lunghi e neri con un diadema sul capo, indossavano lunghi vestiti di colore diverso. Una, vestita di verde (fede), teneva in mano un’ancora; un’altra, vestita di bianco (speranza), reggeva in mano un calice d’argento e un fascio di spighe di grano; l’ultima, vestita di rosso (carità), portava una
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
255
fiaccola. Seguivano tutti i preti in pompa magna e tanti fedeli a piedi scalzi con ceri accesi fra le mani. Sotto il baldacchino, ricamato in oro e con sei aste di rame, il parroco della chiesa portava i reliquiari dove era custodito un piccolo frammento d’osso del dito indice del Santo (la testa decapitata e custodita nel mausoleo di Damasco, in Siria). Dietro questo gruppo c’era il sindaco, le guardie che scortavano in alta uniforme il reliquario, e tutte le autorità civili e militari della città. Il corteo si fermava davanti la chiesa madre e davanti la porta principale del Municipio che nei giorni della festa, insieme agli altri uffici pubblici, esponeva il tricolore. Nell’occasione lo stesso primo cittadino con la giunta donava al Santo un fascio di rose rosse. Davanti la chiesa di San Giovanni c’erano le bancarelle dove si vendeva la nucidda americana, la calia e la semenza e li favi caliati. Al termine della giornata, intorno alle ore 23, la festa si concludeva con i fuochi d’artificio, allestiti in piazza Dante. La fiera di San Giovanni si preparava dalla meta della via Garibaldi fino ad arrivare in piazza Dante. Lì si potevano comprare giocattoli, attrezzi da lavoro, e fuori la porta Garibaldi sostavano anche i venditori di recipienti realizzati con la curina (saggina) o con il legno. Allora non c’erano per gli impiegati le ferie estive e la città non si svuotava mai. Oggi, invece, ad agosto, a Castelvetrano non c’è molta gente e si è preferito celebrare la festa il 24 giugno, data della natività del Santo. La devozione per il Santo Patrono è stata sempre immensa e ogni anno, per l’occasione della festa, tornavano in paese tanti emigrati dall’America. I fedeli credevano potesse proteggerli dalle calamità ma anche dai fulmini. Infatti in molti, quando c’erano i temporali, recitavano: San Giuvannuzzu Battista proteggici. Inoltre, quando si faceva in casa il pane, venivano confezionati dei piccolissimi pani, benedetti dal parroco della chiesa di San Giovanni e poi conservati in scatoline di argento o di legno (in relazione alla condizione economica delle varie famiglie). Durante le forti piogge, con lampi e tuoni, si aprivano le scatolette con i piccoli panuzzi, si accen-
256
Giovanni Modica − Mirko Tamburello
deva un lumino o una candela e si diceva tre volte: San Giuvannuzzu San Giuvannuzzu chi si lu patruni arrassa li lampi, arrassa li trona. Tre erano le consuetudini praticate il 24 di giugno, come già ricordato, giorno delta natività del Santo, e che da trent’anni a questa parte sembrano scomparse completamente. La mattina le ragazze che volevano prendere marito o i giovani che volevano sapere del loro futuro mettevano un pentolino sul fuoco con dentro del piombo, che, appena liquefatto, veniva versato dentro un recipiente pieno d’acqua; la reazione fra i liquidi formava delle figure astratte che venivano decifrate. Chi non aveva il piombo lo sostituiva con la cera, che però durava poco tempo, lo stretto necessario per interpretare la figura e quindi il destino. Un procedimento similare si faceva la sera del 23 giugno, alle ore 22.30. Si mettevano il tuorlo e l’albume di un uovo dentro una bottiglia di vetro, che veniva agitata e poi poggiata su un davanzale, al fresco della notte. La mattina, all’alba, s’interpretava il significato delle forme assunte dall’uovo solidificato nel vetro della bottiglia. Sempre nella notte del 23, per coloro che avevano malattie alla gola, bastava mordere la corteccia di un albero di pero o di melo, che i malanni (la faringite, la tonsillite) scomparivano, mentre l’albero il giorno seguente appariva come bruciato nella notte. La festa a San Giuseppe Era la prima delle tre feste religiose più importanti della città. Nei giorni 17, 18, e 19 marzo un numero altissimo di fedeli si recavano nella chiesa di San Giuseppe per portare al Patriarca fiori e doni. Il comitato organizzatore era costituito allora da falegnami e bottai.
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
257
La chiesa veniva addobbata con angeli in cartapesta e stoffe pregiate. Il Santo era collocato su un altare alto da terra dieci metri, raggiungibile mediante una scala piena di candele, accese durante le cerimonie. Così come avveniva durante la festa di San Giovanni Battista, anche in occasione di questa festa, nella via Vittorio Emanuele II, il corso principale di Castelvetrano, si assisteva alle corse dei cavalli con gualdrappe sul dorso ricamate in oro e montati da fantini. Il giorno 19 marzo per le strade si vedevano passare li virgineddi, poverelli travestiti per raffigurare San Giuseppe, Gesù bambino e la Vergine Maria. Indossavano costumi cuciti dalle famiglie che avevano fatto il voto per una guarigione. I tre fanciulli venivano preceduti da un tamburinaio che annunciava a suon di percussioni la loro presenza. Poi i giovani figuranti bussavano per tre volte alla porta della casa della benefattrice e, alla terza volta, la stessa porta si apriva e i bambini trovavano una tavola imbandita con 33 pietanze, l’una diversa dall’altra. Alle persone del corteo che seguivano i fanciulli e che andavano a visitare l’altare fatto in casa, veniva offerto lu cucciddatu. Si ascoltava per tre giorni lo scampanio delle sedici chiese di Castelvetrano. Alle 7 del mattino, alle 12 e alle 18, orario del solenne Vespro. Giorno 19, alle ore 17, si smodava la processione preceduta da tre tamburinai con lo stendardo di seta di San Giuseppe, ricamato in oro davanti, dietro di colore rosso, portato da un fratello della confraternita; ai lati, altri due fedeli reggevano delle aste sormontate dalla figura di San Giuseppe. C’erano anche dei bambini vestiti da angeli che portavano in mano dei fiori, seguiti da fedeli a piedi scalzi con grossi ceri in mano. Sul carro trionfale veniva collocata la statua del Santo tra palme, angeli di cartapesta, lampadine accese, festoni di alloro e di stoffa di vario colore. Attorno al piedistallo della statua, fiori freschi, rose, garofani e calle.
258
Giovanni Modica − Mirko Tamburello
Dove passava la processione venivano montati dai fedeli archi di legno con fiori freschi e primizie di stagione: nespole, pomodori, fichidindia, carrube, piselli, che metaforicamente venivano offerti al Santo. La facciata della chiesa era tutta illuminata ad acetilene. Verso la mezzanotte, la processione si ritirava e si assisteva ai fuochi d’artificio che venivano sparati da dietro la vicina chiesa della Salute. Sui tavolini della piazza antistante la chiesa si vendeva la calia e simenza, le noccioline americane e il gelato. L’appuntamento gastronomico per eccellenza restava comunque, e resta tuttora, la pasta a tianu, un composto di maccheroni, finocchietto selvatico, broccolo, sparaci selvatici e quelli coltivati normalmente detti anche sparaci di trona, sarde fresche, sarde salate, e mollica di pane abbrustolita (si chiamava a tianu perché tutti questi ingredienti venivano cotti in un tegame di creta con il fuoco di carbone o anche cotti, sempre all’interno del tegame, dentro l’immancabile forno a legna, dove si cuoceva il pane nero). La chiesa fu colpita parzialmente dal terremoto nella notte del 15 gennaio del 1968, intorno alle ore 3. Nonostante fosse caduta solo una parte del cornicione, come dimostrano le foto dell’epoca, ne venne ordinata la demolizione da parte dell’amministrazione di allora, che sicuramente non ebbe la lungimiranza di pensare ad un restauro. Costatata la pericolosità dell’edificio pericolante, dopo il transennamento, durato qualche tempo, arrivò la ruspa che cancellò con la chiesa anche il convento ad essa annesso.
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
259
La festa di li Siniari L’ultimo mercoledì del mese di agosto a Castelvetrano veniva celebrata la festa della Madonna di Custonaci, ospitata nella chiesa di Sant’Antonio Abate, in piazza Nino Bixio. Nella circostanza della festa religiosa, l’effige veniva adornata d’archi, di lampadine e mirto, come pure le strade adiacenti. La festa era anticipata alla domenica precedente, quando il mercoledì cadeva nel giorno 29, festa di San Giovanni Battista. Il culto della Madonna di Custonaci fu introdotto a Castelvetrano dal sacerdote don Carlo Mazara da Monte San Giuliano, nel 1811. La festa di li siniari, che erano devoti alla Madonna di Custonaci, durava tre giorni ed iniziava ogni mattina con lo scampanio dei sacri bronzi. C’era un rituale da rispettare: alle 8 era celebrata la messa e di pomeriggio venivano recitate litanie e benedizioni. La chiesa veniva addobbata a festa per la ricorrenza, e la mattina di mercoledì si assisteva allo sparo dei mortaretti e al giro della banda musicale per le vie del paese dove sarebbe passata di pomeriggio la processione. Alle 18 si formava la processione organizzata da un’associazione religiosa e dalla parrocchia di San Giovanni. Al corteo partecipavano molti devoti scalzi e a loro si aggiungevano tre preti. Lungo il percorso erano previste varie pause, durante le quali si sparavano mortaretti, davanti le case di cittadini che dicevano di avere ricevuto la grazia. Il simulacro veniva portato a spalla, e dietro stavano la gente in processione e la banda musicale. Al rientro in chiesa c’era la benedizione con il Santissimo Sacramento che veniva collocato nell’ostensorio. Il quadro della Madonna di Custonaci, ornato con fiori freschi, era portato a spalla da otto persone. La festa si concludeva con i giochi pirotecnici.
260
Giovanni Modica − Mirko Tamburello
L’evento era organizzato dalle botteghe di piazza Nino Bixio e da quelle situate nelle strade adiacenti, ma soprattutto da li siniari, proprietari dei giardini di limoni, arance e mandarini, nella via Errante Vecchia. Tutti, comunque, si prodigavano per la riuscita di questa manifestazione religiosa. Molti si sono interrogati sull’origine etimologica del nome siniari. Si ritiene che possa derivare da un attrezzo che veniva usato per attingere acqua dai pozzi. La noria (in siciliano senia), era fatta da due ruote dentate; ad una delle due ruote veniva attaccato un asino con gli occhi bendati, che girava continuamente su un solco preparato da lu siniaru, cioè dal proprietario del giardino, che di solito lo abitava tutto l’anno. L’altra ruota, posta sopra il collo rettangolare del pozzo, faceva scendere venti, trenta secchi di zinco vuoti, di forma quadrata, attaccati gli uni agli altri per mezzo di una catena di rame. Il giro dell’asino, grazie alla senia, faceva salire l’acqua che era versata nelle vasche utilizzate per innaffiare gli aranceti e le verdure che vi si coltivavano tutto l’anno. La festa di li siniari la si ricorda per la gioia e la partecipazione dei tanti residenti e dei putiari della zona della piazza, primo vero motore pulsante dell’economia castelvetranese. La festa di li tri re Fino a sessanta anni fa la festa più sentita nelle Chiese e nelle famiglie era quella del Natale, la più lunga di tutte, che unisce due anni, uno che muore e l’altro che nasce. Il periodo festivo iniziava il 6 dicembre e finiva la sera di li tri re, si diceva allora, oggi l’Epifania. Dal 16 dicembre nella chiesa Madre di Castelvetrano si svolgeva la Novena e qualche giorno prima veniva costruito un palco di legno davanti l’immagine dell’Immacolata, dove prendeva posto l’orchestra, composta da quattro violini, violoncello, arpa, piatti, strumenti a
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
261
fiato e il tradizionale cincirincì – un cerchio di rame al quale erano stati attaccati li ciancianeddi (campanelli rotondi di rame) che battendolo con la mano destra sulla sinistra accompagnava la voce dei cantanti che si esibivano con canti natalizi, musicati e scritti da molti castelvetranesi –. Tra le canzoni le più celebri e ricordate negli anni sono: Dormi non piangere; Dormi placido fanciullo; Dormi diletto; Tu scendi dalle stelle e dormi bellissimo pargolo biondo. Nell’abside della chiesa veniva costruito un gran presepe con scenari pitturati dal nostro famoso concittadino Gennaro Pardo nel 1915, dove erano collocati i pastori di terra cotta, erano sei alti circa 70 centimetri, colorati al naturale. C’era il pifferaio inginocchiato, quello che portava un agnello sulla spalla, un altro che portava un paniere con le uova e il quarto pastore aveva le mani alzate e questo lo chiamavano lu spaventatu di lu presepi, quello che suonava l’organetto, ed infine l’ultimo portava un bambino per mano. La sera del 24 dicembre scendevano dalla montagne zampognari, vestiti con pelle di capra e cappello con larghe falde e suonavano le loro melodie per le vie della città raccogliendo monete che i passanti offrivano. Giorno 28 dicembre il bambino Gesù veniva coperto perché – narra la storia – ci fu in quel giorno la scanna degli innocenti, la famosa storia di Erode. Si tratta di un episodio del Vangelo, in cui Erode, il grande Re della Giudea, ordina un massacro dei bambini allo scopo di uccidere Gesù, della cui nascita a Betlemme era stato informato dai Magi. Secondo la narrazione evangelica, Gesù scampò alla strage grazie ad un angelo che avvisò in sogno San Giuseppe, il quale portò Maria e il bambino su di un asinello lontano dalla città. Quando i soldati di Erode videro San Giuseppe e la sua famiglia allontanarsi vollero vedere cosa la Madonna nascondesse sotto il manto, e, strappandolo sul grembo della donna, vi trovarono un canestro di fiori. Il 6 gennaio, a conclusione del Natale, sempre nella chiesa Madre, veniva travestito un bambino povero dai 4 ai 5 anni, coi
262
Giovanni Modica − Mirko Tamburello
capelli biondi o castani e possibilmente ricci. Inizialmente l’arcivescovo dalla sacrestia lo portava nudo in braccio fino al coro, dove, per l’occasione, era allestito un trono di velluto cremisi e, fatto sedere il bambino, lo si vestiva con una camicia bianca e un vestito blu. Il bambino teneva in mano una croce e in testa gli veniva collocata una corona di rose, e prima di fargli indossare le calzette e le scarpe, sia l’arciprete che i quattro preti, gli baciavano i piedi nudi e freddi. Subito dopo tutte le persone presenti alla celebrazione donavano al bambino biscotti, caramelle, dolci, frutta di stagione e soldi. Tutto ciò che veniva accuratamente raccolto per la famiglia povera del bambino, soprattutto i soldi. Finita questa cerimonia all’interno della chiesa Madre, durava circa un’ora e mezza, il bambino veniva portato in processione. Durante il percorso i fedeli guardavano sempre in faccia il pargolo per vedere se piangeva o rideva, perché – secondo la credenza popolare – si lu bamminu riri l’annata sarà bona, si chianci sarà tinta. L’Ascensione dell’Angelo L’Ascensione si celebrava, e si celebra ancora oggi, quaranta giorni dopo Pasqua. Qualche decennio fa la notte dell’attesa dell’Angelo era ben diversa. Il mercoledì sera, perché allora la festa era di giovedì, si accendevano i falò vicino al binario del trenino che portava le famiglie da Castelvetrano a Marinella di Selinunte. Altri falò venivano accesi in mezzo alle strade di periferia, quelle che portavano verso il mare o la campagna famiglie intere con carretti e calessi. La maggior parte delle persone andava a Marinedda dove si abballava tutta la notte al suono dei mandolini, di chitarre e fi-
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
263
sarmoniche. Si organizzavano anche grigliate di salsiccia, veniva preparata la pasta a la carrittera e non mancavano mai li carcucciuliddi sarvaggi vugghiuti cu lu sali. Dicevamo dell’allegria delle festa, occasione anche di conoscenze per eventuali zitaggi successivi. Si giocava con la bozzica (altalena) che veniva montata sfruttando i rami degli alberi. Quando si sedevano le donne trovavano sulla corda uno scialle in segno di rispetto. Tre forzuti masculi avevano il compito di dare avvio al movimento dell’altalena, mentre qualche ragazzotto aspettava con ansia che la gonna della fanciulla si alzasse per potere intravedere le bellezze contorniate dai pizzi e merletti. Gli uomini, invece, di solito giocavano a lu vadduni, una specie di percorso ad ostacoli, dove venivano collocate delle buche coperte da circa cinquanta centimetri di acqua, e chi vi finiva dentro doveva pagare il pegno. Appena scoccava la mezza notte, molte persone che accusavano malattie alla pelle facevano il bagno nell’acqua del mare – secondo credenza popolare – perché in quel momento sarebbe passato un Angelo a benedire l’acqua. La gente che rimaneva in città preparava, prima della mezzanotte, una bacinella piena d’acqua, e, collocata sul davanzale del balcone, vi inseriva sale, petali di rose e foglioline di menta. L’indomani mattina, il giovedì, con l’acqua benedetta dall’Angelo ci si lavava la faccia. Anche la sera del giovedì dell’Ascensione si facevano i falò. Ora purtroppo questa tradizione e scomparsa, l’Ascensione è solo un giorno di divertimento che non coincide più con la sera del mercoledì.
264
Giovanni Modica − Mirko Tamburello
Lu venniri Santu Sessant’anni fa la processione del venerdì Santo usciva dalla chiesa dell’Addolorata, nella centralissima piazza Alfieri a Castelvetrano, alle ore 15, con il Cristo morto dentro la bara, scortato da quattro carabinieri in alta uniforme. Apriva la processione lu tammurinaru, che ogni minuto dava un colpo di bacchetta sul tamburo ornato di nastri neri, seguito dai seguaci della confraternita, vestiti con saio bianco e un cappuccio, che portavano tre croci. Di queste, la croce al centro era sempre più grande rispetto alle altre. Seguiva uno stuolo di ragazzine, dai dieci ai quattordici anni, vestite tutte di nero con collane e bracciali neri e capelli arricciati. Per l’occasione le dette bambine, dette Marie, cantavano una nenia: l’acqua e lu pani vulemu Signù, pieta e misericordia Signù. Portavano in mano i misteri della passione del Cristo in legno: i dadi, i tre chiodi, i fasci con scure dei littori, le insegne della legione romana, le aquile, la tenaglia, il martello, le scale, il gallo, le corde, il sudario con il volto di Cristo in stoffa, il lenzuolo, la tunica rossa, e ancora la bandiera color porpora con l’iscrizione “S.P.Q.R.”. In argento invece la patena, l’ostensorio, la pisside, i turibolo, il calice, il vaso con l’unguento e altri oggetti. Verso le 21.30 la processione si ritirava lasciando prima il Cristo dentro la chiesa Madre, mentre la Madonna, con a seguito i fedeli, ritornava nella sua chiesetta di l’Addulurata dove trovava una fascia nera di lutto attaccata alla stessa porta. La Madonna veniva portata a spalla all’interno della chiesa, addobbata tutta di nero, e veniva collocata su un piano rialzato per dare la possibilità ai fedeli di baciarle i piedi e strofinare i fazzoletti anche nelle mani. Si pensava che questi fazzoletti, una volta portati a casa e messi al collo delle persone malate, potessero in qualche modo fare guarire il degente.
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
265
Verso la mezzanotte un confratello faceva entrare dentro la sacrestia della chiesa ad uno ad uno i fedeli, poi dava loro del pane con le uova sode, carciofi bolliti ed intinti nell’aceto, nell’olio e nel vino. All’alba del sabato mattina, si toglieva l’addobbo dalla Chiesa, la Madonna veniva portata sopra l’altare. Allora la Risurrezione veniva celebrata a mezzo giorno e le persone che erano in chiesa o in strada s’inginocchiavano e baciavano il terreno, gli uomini si toglievano il cappello, o la coppola, per tutto il periodo in cui suonavano le campane a festa. Ora questo non c’è più perché la Risurrezione avviene a mezza notte, orario in cui la maggior parte delle persone dorme. L’Aurora La prima volta che venne celebrata l’Aurora a Castelvetrano fu nel 1660 ad opera del Padri Carmelitani Scalzi, che abitavano nel convento attiguo alla Chiesa di San Giuseppe, diroccato nel 1968. Questa funzione era caratterizzata dal fatto che arrivavano molte famiglie con i carretti addobbati a festa e calessi da Partanna, Campobello e Santa Ninfa. Nell’antichità l’Aurora si svolgeva di buon mattino e partecipavano, data l’ora, solo persone adulte, ecco perché sui chiamava l’Aurora. Poi per dare la possibilità ai bambini di assistere alla festa religiosa, gli organizzatori la spostarono alle ore 9. Gli organizzatori erano i proprietari dei giardini (li siniari), i bottai e falegnami. Per far comprendere l’importanza di questa festa quando si prendeva moglie, soprattutto nei centri vicini, si scriveva nell’atto nuziale l’obbligo del marito di condurre la sposa il primo anno a vedere l’Aurora a Castelvetrano. Ogni sette anni l’Aurora invece si svolgeva nella via Ruggero Settimo per
266
Giovanni Modica − Mirko Tamburello
dare la possibilità alle monache di clausura che abitavano all’interno del Convento dell’Annunziata di potervi assistere. Il 18 aprile del 1813 questa funzione ebbe un’attrazione speciale per la presenza a Castelvetrano di sua Maestà la Regina Maria Carolina d’Austria e del figlio il principe Leopoldo che assistettero all’evento dal balcone sopra l’arco di Palazzo Pignatelli. In questa occasione la statua della Madonna venne restaurata dal pittore palermitano Vito Miceli, con un impegno economico ratificato con atto del 17 marzo del 1813 del Notaio Castelli. Il 28 marzo 1717 per un banale errore del sacrista di San Giuseppe che suonò le campane il sabato prima di quelle della chiesa Madre l’arciprete Giglio non autorizzò lo svolgimento dell’Aurora. Ci furono animate discussioni tra il comitato e l’Arciprete ma non ci fu nulla da fare. Gli organizzatori della confraternita si recarono in fretta e furia a Mazara per incontrare il Vescovo e farsi dare l’autorizzazione. Pare che la famosa frase si l’Aurora ’un si fa, si la pigghia Trapani fu pronunciata in quella circostanza. E da allora qualunque siano stati i motivi ostativi, l’Aurora si doveva svolgere. Infatti nel 1968, anno del terremoto, per paura di perdere la tradizione la funzione religiosa si svolse in piazza Garibaldi a mezzo giorno circa e c’erano circa venti persone. Il rito per i castelvetranesi, organizzato dalla Confraternita di San Giuseppe, è molto sentito e migliaia sono le persone che vi assistono. Poi la processione e lo scampanio dei sacri bronzi. Quando organizzava l’apparaturi, decenni fa ormai, si assisteva ad un grande spettacolo, le colombe di cartone scorrevano su e giù, a destra e a sinistra, mediante fili di acciaio collocati tra la Chiesa del Purgatorio e l’edificio di fronte. Proprio nell’occasione dell’incontro tra la Madonna e il Cristo Risorto i bambini alzavano tutti gli occhi al cielo.
Le feste a Castelvetrano: la memoria del passato
267
Molti anni fa le famiglie portavano in processione le figlie in età da marito, vestite di bianco ed era un’occasione per organizzare il fidanzamento. L’indomani di Pasqua bisognava andare a fare baldoria. Per Pasquetta oltre che a Marinella di Selinunte si andava alla Trinità di Delia, in quanto vi abitavano dal 1392 dei monaci benedettini che accoglievano le persone e davano loro da mangiare. Verso il 1523, essendo le famiglie aumentate, i monaci cominciavano a non riuscire a soddisfare le esigenze dei gitanti e da allora ogni nucleo familiare si organizzò per arrostire qualche cosa da se e per se, spesso carciofi.
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi di probabile origine araba del territorio di Castelvetrano Selinunte Giuseppe Petrantoni Il territorio di Castelvetrano Selinunte, come tutta la Sicilia, ha vissuto la presenza di diverse dominazioni nel corso dei secoli. In particolar modo, comunità di lingua araba hanno lasciato un retaggio storico-culturale di notevole importanza. Anche se l’odierno territorio di Castelvetrano Selinunte segna le notevoli modifiche imposte dallo scorrere della storia e dal sovrapporsi delle sue stratificazioni, rimangono tracce linguistiche, oltre che storico artistiche e monumentali, della presenza arabo-islamica, negli idronimi e nei toponimi. Ma c’è di più. Uno studio più approfondito dei nomi dei luoghi potrebbe anche permettere l’identificazione di un sostrato semitico nord-occidentale e più precisamente feniciopunico. Difatti l’antica Selinunte subì nel 409 a.C. la distruzione per mano dei Cartaginesi e dopo la restaurazione del siracusano Ermocrate, la città torno di nuovo nell’ambito cartaginese nel 392 a.C.; quindi alla metà del III secolo a.C. si ripeté la distruzione al fine di evitare la conquista romana della polis. La presenza punica è testimoniata quindi non solo nell’architettura ma probabilmente anche nell’etimologia di sostrato di alcuni nomi di luogo dell’area costiera del territo-
270
Giuseppe Petrantoni
rio selinuntino. Si è proceduti quindi ad analizzare dapprima i nomi di Castelvetrano e di Selinunte e successivamente gli idronimi e i toponimi del territorio. Castelvetrano. Il nome attuale è di origine latina e per molto tempo si è sostenuta la suggestiva ipotesi secondo la quale Castelvetrano venne fondata dai ‘veterani’ selinuntini. Oggi la teoria più plausibile sembrerebbe quella secondo la quale Castelvetrano trae le sue origini dal processo di trasformazione sociale chiamata ‘crisi del villaggio’.1 La scomparsa dei tanti casali2 dei ‘villani’, costituiti per lo più da musulmani vinti, causò un processo di trasformazione sociale che ebbe come conseguenza il confluire di tanti lavoratori della terra verso il borgo. Il nome Castrum Veteranum ‘castello vecchio’ indicherebbe la presenza di un castello del borgo (non si sa se di origine selinuntina, romana, bizantina o araba) anticamente esistente e poi andato distrutto. Come sostengono Giardina e Calcara,3 in epoca bizantina fu realizzato un castrum poi abbandonato a causa dell’invasione araba. Successivamente gli arabi avrebbero costruito, attorno all’attuale Castelvetrano, diversi casali raḥl e luoghi fortificati qaṣr, come ad esempio: Raḥl al-Quayd, Qaṣr ibn Manqūd, citato quest’ultimo da Idrisi.4 Se Ibn Manqūd, come sostiene F. Maurici5 sulle teorie di H. Bresc,6 è lo šayḫ
1
A. GIARDINA - F.S. CALCARA - V. NAPOLI - G.L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano, vol. I, Palermo 20102, p. 25. 2 Idrisi ne menziona alcuni nella zona di Castelvetrano. 3 A. GIARDINA - F.S. CALCARA - V. NAPOLI - G.L. BONANNO, La città palmosa, cit., p. 25. 4 IDRISI, Il libro di Ruggero, trad. di U. Rizzitano, Palermo 2008, pp. 49-50. 5 F. MAURICI, «Sicilia bizantina: il territorio della provincia di Trapani dal VI al IX secolo», in A. Corretti (a cura di), Quarte giornate internazionali
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
271
che verso il 1036 si impadronì della Sicilia occidentale, il toponimo romano castrum veterani, già attestato dal 1201,7 farebbe riferimento al conquistatore arabo appellandolo ‘veteranus’; quest’ultima parola è l’esatta traduzione latina che appare comunemente nei documenti di età normanna: ar. šayḫ lat. Veteranus. Dunque il toponimo Castelvetrano rimanderebbe a ‘castello dell’anziano o dello sceicco’, sostituendo in parte il toponimo Qaṣr ibn Manqūd. Selinunte. La storia di Selinunte è legata alla spedizione dei Megaresi che la fondarono nel 650 a.C. circa. È ormai accettata l’ipotesi secondo la quale il toponimo deriverebbe dal greco σέλινον che indica il ‘prezzemolo’ selvatico che tutt’oggi cresce nel luogo e che divenne simbolo nella monetazione in età greca. Dopo la definitiva evacuazione della sua popolazione da parte dei Cartaginesi verso Lilibeo durante la I Guerra Punica (250 a.C.) e l’assorbimento del suo territorio nei dominî romani, non sembrano esserci stati altri nomi attribuiti a Selinunte fino all’arrivo del viaggiatore arabo Idrisi. Secondo F. Maurici,8 a Selinunte fu costruito, in un momento ancora non precisato, un recinto fortificato sul basamento del tempio O e sulle rovine di quello A. In base ad una somiglianza iconografica con i castra tardo romani e bizantini dell’Africa, si è ipodi studi sull’area elima, Erice. 1-4 dicembre 2000, Atti II, Pisa 2003, pp. 905-925, nota 136. 6 H. BRESC, «Féodalité coloniale en terre d’Islam: la Sicilie (1070-1220)», in Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerranéen (XXIII siècles), Actes du Colloque International (Roma 1978), Roma 1980, p. 634. 7 E. WINCKELMAN, Acta Imperii inedita, 2 voll., Innsbruck 1880-85, vol. I, p. 77, f. 84. 8 F. MAURICI, Medioevo trapanese. Gli insediamenti nel territorio della provincia di Trapani dal tardo antico alle soglie dell’età moderna, Palermo 2002, p. 41.
272
Giuseppe Petrantoni
tizzata una datazione che oscilla tra il V e l’VIII secolo. Secondo D. Mertens,9 il forte costiero selinuntino poteva addirittura essere un ribat d’epoca musulmana. Sicuramente, dopo la distruzione e l’abbandono della città, doveva sussistere ancora un piccolo villaggio a Selinunte o nelle vicinanze che Idrisi identificò con il toponimo al-asnām, ossia ‘gli idoli, i feticci’, nome attribuito probabilmente per la presenza dei templi dedicati al culto religioso. Delia. Il fiume Delia nasce dalle fonti di Monte San Giuseppe, Monte Calemici e Monte Pietralunga nel comune di Vita, dopo aver percorso 43 km sfocia nel Mar Mediterraneo presso Mazara del Vallo. Il corso d’acqua, nel suo tratto iniziale, viene denominato fiume Grande, in quello centrale fiume Delia e in quello finale fiume Arena. Nella parte mediana del suo percorso, nei pressi di Castelvetrano, è stata costruita una diga, tra il 1954 e il 1959, che ha dato origine al serbatoio dell’odierno lago artificiale Trinità. Vicino al fiume sorge la chiesa della S.S. Trinità di Delia o Cuba di Delia in stile arabo-normanno del XII secolo. Il toponimo delia ha un’origine certamente semitica e si attesta in Sicilia con l’arrivo di genti arabe a partire dal IX secolo. Il nome avrebbe quindi origine dall’arabo dāliyah (pl. dawāl) che indica la noria,10 una ruota idraulica munita di secchi che ha la funzione di sollevare l’acqua sfruttando la corrente di un corso idrico per irrigare i campi. Sembrerebbe che la noria sia stata inventata in Mesopotamia intorno al 200 a.C. ed è stata migliorata e diffusa nel mondo islamico dagli ingegneri 9
D. MERTENS, Castellum oder Ribat? Das Küstenfort in Selinunt, in «Instambuler Mitteilungen» 39 (1989), pp. 391-398. 10 A sua volta il sostantivo “noria” in arabo nāᶜūra proviene dalla radice nᶜr ad indicare il “vociare, lo schiamazzare, lo zampillare” ossia il suono che emette il congegno quando estrae l’acqua.
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
273
meccanici. In arabo dāliyah assume il concetto di ‘rotazione, tutto ciò che gira’. Il sostantivo proviene dal verbo dalū che in arabo significa ‘far penzolare qc., appendere, sospendere qc.’ ma anche ‘spalliera’ su cui viene fatta arrampicare la vite. Difatti il secondo significato del nome è ‘ceppo di vite, albero di vite’ e quindi ‘vigneto’. Secondo E.W. Lane11 il termine è da tradurre con hung fruit e il suo plurale indicherebbe ‘unripe dates hung and eaten when they become ripe’ ma anche ‘a grape-vine, a shoot of a grape vine’. È evidente che il toponimo potrebbe riferirsi alla vallata dove scorre oggi il fiume in cui sorgevano dei vigneti abbondanti e prosperosi. Il nome delia è attestato anche in Idrisi, nel Libro di Ruggero, come marsā dāliyah che l’Amari identifica con l’odierna cittadina di Brolo in provincia di Messina.12 Soprattutto il termine, oggi, identifica anche il comune di Delia in provincia di Caltanissetta che sorge su un territorio irriguo, un tempo coltivato a vigne, che quindi deve il suo nome probabilmente alla presenza di vigneti.13 La radice dlw trova riscontro in altre lingue semitiche sempre con un significato collegato all’estrazione dell’acqua e all’irrigazione della terra; in ebraico e in aramaico14 è presente il nome dᵊliyah, dal verbo di ultimae infirmae dalah, con il significato di ‘estrarre l’acqua, drawing water’. Il sostantivo femminile dālīt significa inoltre ‘suspended,branches of the vine trained to an espalier; grapes of the 11
E.W. LANE, Arabic-English Lexicon, London 1863, p. 909. M. AMARI, Carta comparata della Sicilia moderna, a cura di L. Santagati, Palermo 2004, p. 68. 13 Per una storia del comune di Delia vedi A. RUSSO, Storia di Delia, Palermo 1958. 14 M. JASTROW, A Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and the Midrashic Literature,W. Drugulin, Leipzig 1926, p. 310. 12
274
Giuseppe Petrantoni
espalier’, connotando esattamente il significato della presenza della vigna. Volendo trovare un riscontro in una lingua semitica del III millennio a.C., in accadico,15 il verbo dalū significa proprio ‘estrarre l’acqua dal pozzo, to draw water from a well’, anche ‘irrigare un campo’; il suo sostantivo dālu significa ‘secchio’. Affascinante sembrerebbe l’ipotesi, da alcuni studiosi sostenuta, secondo la quale il termine avrebbe a che fare con un luogo di culto. Esaminando il lavoro di Amico,16 si legge che il comune di Delia, nel nisseno, deriverebbe il suo nome da un tempio sacro dedicato alla dea Delia Diana. Il Trovato17 cita lo scrittore Filippo Cluverio (1580-1623) che nel suo lavoro Sicilia antiqua sostiene che Delio o Delion sia una città antica della Beozia, nei pressi del limes con l’Attica, nella quale era presente un tempio dedicato ad Apollo. Inoltre Deliàs era la nave che menava i deputati ateniesi a Delo per la festa in onore di Apollo. La piccola isola di Delo, secondo la mitologia, era un’isola errante che fu fermata da Zeus per far partorire a Latona i due gemelli, Apollo e Diana, di conseguenza Delia è uno dei tanti soprannomi della Vergine Diana nativa di Delo. Ora, se il comune di Delia non ha preso il suo nome dalla dea greca,18 il territorio di Castelvetrano in cui sorge ‘l’altra’ Delia, potrebbe aver mutuato il nome da un ipotetico e antico tempio dedicato alla dea Vergine Diana Delia? Trovato esclude tale possibilità19 anche se, proprio a ridosso del fiume, sor15
I.J. GELB - T. JACOBSEN - B. LANDSBERGER - A.L. OPPENHEM, The Assyrian Dictionary, Chicago 1959, p. 56. 16 V.M. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, 2 voll., trad. e annot. di G. Di Marzo, Palermo 1855, vol. I, pp. 367-368. 17 G. TROVATO, Sopravvivenze arabe in Sicilia, Monreale 1949, p. 139. 18 A. RUSSO, Storia di Delia, cit., pp. 22-23. 19 G. TROVATO, Sopravvivenze arabe in Sicilia, cit., p. 139.
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
275
ge il luogo di culto rappresentato dalla chiesa della SS. Trinità di Delia già menzionata. È solo una coincidenza, oppure in passato la zona rappresentava un possibile centro religioso ancor prima dell’arrivo degli arabi? Non avendo attestazioni tangibili di un probabile insediamento a carattere religioso, parrebbe evidente, quindi, che il toponimo si riferisca alla presenza di vigneti nella zona in cui scorre il fiume Delia. A supporto di ciò potrebbe essere la presenza, poco più a ovest del fiume stesso nel territorio di Mazara del Vallo, di un casale chiamato Vignale, tra casa Berlingeri e casa Sant’Elia. Stagno Ialico. Lo stagno volgarmente chiamato Ialico o Jalico indica il bacino di acqua in cui confluisce il fiume Belìce all’interno della propria foce.20 Colui che ne fa menzione e ne descrive le particolari caratteristiche fisiche è Tommaso Fazello, che nel XVI secolo scoprì l’antica Selinunte. Annota lo storico: «[…] Dopo la bocca del fiume Belìce, circa tre miglia, sèguita uno stagno detto con voce saracina Jalico, dove stagnano l’acque del mare e la state (scil. l’estate) genera cattiva aria e molto perniciosa agli abitatori. Al capo di questo stagno […] si veggano tre tempii d’architettura dorica […]».21 Si comprende che i templi dorici si riferiscono a Selinunte. Il teologo siciliano continua citando Diodoro il quale racconta come Selinunte sia stata abitata dapprima dai Fenici e, dopo l’edificazione di Megara, come sostiene Tucidide, dai Megaresi con a capo Pammilio. Fazello prosegue: «[…] Essendo una volta appestata questa città (scil. Selinunte) per la corruzione e il puzzo dello stagno Ialico, Empedocle, filosofo agrigentino, tirò per quello stagno in una fossa stretta fatta a sue spese l’acque dolci di due fiumi vicini, per la concorrenza del20
M. AMARI, Carta comparata della Sicilia moderna, cit., p. 114. T. FAZELLO, Storia di Sicilia. Deche due, 2 voll., trad. di R. Fiorentino, Palermo 1830, vol. II, p. 118. 21
276
Giuseppe Petrantoni
le quali acque, la peste cessò […]».22 Dalla descrizione si intuisce come lo stagno Ialico rappresenti quindi il punto di incontro di due fiumi vicini e lo sbocco sul mare del fiume Belìce come appunta anche l’Amari. A primo impatto l’idronomo farebbe pensare al verbo arabo laqiya, la cui forma performativa yalqā23 indica ‘colui che incontra, che si imbatte, che va incontro’ ma anche ‘che getta via’. Un riferimento forse al fiume Belìce che va incontro al mare. Il sostantivo laqā (pl. alqā’) designa ‘qualsiasi cosa trovata per caso, rifiuto, scarto’ da cui il nome di luogo malqā “luogo di incontro, punto di intersezione, di confluenza” che ben si addice al luogo di confluenza dei due fiumi descritti dal Fazello. Ma un’altra radice, lakiā’, coniugata in forma prefissale yalkā, identifica meglio il ‘fermarsi in un luogo, il restare in un luogo’. Il locus nel quale stagnerebbero in estate le acque del mare generando cattivo odore. Una seconda ipotesi potrebbe invece ricollegare l’idronimo a un possibile proto-semitico *halāk, che ha dato luogo, dapprima all’accadico alāku (pres. illak, pret. illik ) con il significato di ‘giungere’, ‘said of the coming of the flood’24 e anche di ‘scorrere’, ‘to run (said of the water)’.25 Successivamente la radice è rimasta produttiva in lingue quali l’ugaritico hlk, l’ebraico e l’aramaico sotto forma di hālaḫ in forma hif’il con il significato di ‘to lead, to carry’ e soprattut22
Ivi, p. 120. La riduzione dell’uvulare occlusiva araba /q/ in occlusiva velare /k/ è ben attestata per l’arabo di Sicilia nei diplomi greci ed arabi dell’XI e XII secolo annotati da S. Cusa come ad esempio la parola al-Qissīs: ἐλκασής , vedi D. AGIUS, Siculo Arabic, London-New York 1996, p. 417. 24 Come nell’espressione “mīlum gapšum i-il-la-kam - a mighty flood will come” cfr. I.J. GELB et alii, The Assyrian Dictionary, cit., p. 308. 25 Vedi l’espressione «ultu bābišu adi šiliḫtišu ašar mešu il-lak-u - from its (the canal’s) inlet to its outlet wherever its water goes» in Ivi., p. 310. 23
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
277
to il fenicio la cui radice hlk alla froma qal significa ‘andare’ mentre alla forma yif’il ‘offrire, fare un’offerta sacrificale;26 il suo participio moloch costituisce la sacralità dell’offerta a Dio. Volendo ricorrere alle attestazioni di toponimi e idronimi di origine araba presenti in Sicilia nel Medioevo, G. Caracausi27 nel suo lavoro annota la parola Chalici che corrisponderebbe al Chalicium de Belix = Yhalici che si trova tra l’imboccatura del Belìce e del Carabo. L’etimo proviene dall’arabo ḫalīğ e indica il ‘sinus maris, flumen, il golfo’. Attestato dal 1124 ne fa menzione S. Cusa nei diplomi28 scritti in greco e in arabo sotto forma di χαλικίου e anche il Pirri.29 Si noti il processo di trascrizione della fricativa uvulare araba /ḫ/ alla fricativa velare greca /χ/:30 ar. al-ḫaṭṭāb, gr. ἐλχαττάπ e della palatale araba /ǧ/ alla occlusiva velare greca /k/:31 ar. ᶜaǧamī , gr. ἄκεμι. Mentre la resa del /ḫ/ arabo confluisce nel latino /ch/ o /yh/. In lingua siciliana vi è la forma galiggi ‘rivi d’acqua chi mancanu nellu principiu di la primavera,32 mentre in lingua calabrese il termine galici ‘canale di acqua piovana, burrone’; galìciu ‘canale profondo prodotto da un’erosione’; il plurale
26
M.J. ESTANYOL I FUENTES, Diccionari abreujat fenici-català, Barcelona 1997, p. 42. 27 G. CARACAUSI, Arabismi medievali in Sicilia, Palermo 1983, p. 170. 28 S. CUSA, I diplomi greci e arabi di Sicilia, Palermo 1868, p. 555. 29 R. PIRRI, Sicilia sacra, terza ediz. emendata e ampliata da A. Mongitore e V. M. Amico, Palermo 1733, p. 525. 30 S. CUSA, I diplomi greci e arabi, cit., p. 569. 31 Ivi, p. 474. 32 M. PASQUALINO, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, 2 voll., Palermo 1785-95, vol. II, p. 195.
278
Giuseppe Petrantoni
galici dà luogo infine a ‘zone acquitrinose’.33 È più probabile quindi che il termine Ialico prenda la sua forma latina dall’arabo ḫalīǧ, per indicare una insenatura del mare a comporre un naturale golfo dove confluisce un fiume prima di raggiungere la propria foce. Belìce. Il fiume Belìce, uno dei maggiori della Sicilia meridionale per estensione, è lungo 107 km e si forma dalla confluenza di due rami: il Belìce destro che nasce presso Piana degli Albanesi e il Belìce sinistro che scende invece dalla rocca di Busammara34 sfociando nei pressi di Selinunte. L’idronimo, segnalato più volte nel Medioevo, ha una difficile spiegazione etimologica. Tra gli autori arabi, al-Muqaddasī (X-XI secolo), nel suo Kitāb aḥsan al-taqāsīm, lo chiama con il nome di Balğah.35 Idrisi invece identifica un castello di nome Bilici e il fiume omonimo che scorre nei pressi dello stesso: «la cui sorgente si trova a nord di Corleone […] deviando verso occidente supera ad ovest il Manzil Sindi quindi, attraverso i monti […] procedendo oltre verso sud, si versa in mare nei pressi di Selinunte».36 Anche il geografo arabo lo annota sotto forma di balğah. Il nome è stato trascritto in forme differenti nel corso dei secoli, con riferimento sia al casale sia al fiume vero e proprio. In questa sede si tratterà soltanto dell’etimo che si ascrive al corso d’acqua. La testimonianza dei diplomi dell’XI e del XII secolo in greco, arabo e latino è 33
G. ROHLFS, Nuovo dizionario dialettale della Calabria (con repertorio italo-calabro), Ravenna 1977, p. 292. 34 Oronimo di probabile origine araba da abū, dialetto tunisino bū ‘padre’ e asmar ‘di colore bruno, castano, olivastro’. 35 Secondo F. Maurici, la bilğah di al-Muqaddasī potrebbe identificarsi con il sito di Pietra di Belìce. Cfr. F. MAURICI, Medioevo trapanese, cit., p. 43. 36 IDRISI, Il libro di Ruggero, cit., p. 50.
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
279
ancora preziosa. Si riscontrano: βελίς nell’espressione in cui si fa menzione dello stagno Ialico (vedi sopra): εἰς τό χαλίχιον τοῦ βελίς;37 raḥl balīğ;38 Belich.39 Amari40 identifica il fiume Belìce con il nahr al-Qārib riportato da Idrisi come wādī alqawārib (pl. di qārib)41 con il significato di ‘fiume delle barche’, da cui nel medioevo si ha il latino carabus, greco κάραβος. Aggiunge poi l’Amari nella storia dei Musulmani in Sicilia42 che vi era una torre nei pressi delle rovine dell’antica Selinunte chiamata Belgia, voce arabica. Anche il Fazello identifica il Belìce come nome derivato dall’arabo: «[…] grossissimo fiume chiamato dai Saracini Belich da un casale rovinato del medesimo nome ed oggi si chiama Belìce […]».43 Sono diverse le teorie sull’etimologia del nome. La più accreditata sembrerebbe quella secondo la quale il nome del fiume siciliano deriverebbe dall’arabo. Tra i fautori di tale credenza vi si annovera Antonio Di Gregorio il quale, nella sua opera Sichillia in tre volumi, racconta come l’architetto Francesco Vetrano44 gli chiese di studiare il significato della parola Belìce di sicura origine araba.45 Il Di Gregorio messosi 37
S. CUSA, I diplomi greci e arabi, cit., p. 555. Ivi, pp. 225 e 204. 39 S. CUSA, I diplomi greci e arabi, cit., p. 181. 40 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, 2 voll., Torino-Roma 1880, vol. I, p. 121. 41 Esiste anche una località chiamata in arabo Qal’at al-Qawārib identificata da al-Muqaddasī nel suo Kitāb e riportato da Amari come la “Rocca dei barchetti”, vedi M. AMARI, Biblioteca, cit., vol. II, p. 669. 42 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 1854-1863, vol. I, p. 237. 43 T. FAZELLO, Storia di Sicilia, cit., vol. II, p. 117. 44 Geologo autore dell’opera I Sicani, Palermo 1984. 45 A. DI GREGORIO, Sichillia, 3 voll., Catania 2003, vol. III, pp. 44-45. 38
280
Giuseppe Petrantoni
al lavoro dopo settimane riuscì nell’intento di tradurre il termine con ‘bagnato ma non si vede’. Secondo l’autore l’idronimo deriverebbe dalla radice verbale balla ‘inumidire, bagnare’, seguito dal verbo laysa che usato al perfetto nega il presente ‘non c’è, non esiste’. Di conseguenza da ballaisa > bel’lisa > belis Di Gregorio giunge a Belìce, senza addurre ulteriori spiegazioni filologiche; il significato sarebbe quello di ‘fiume che bagna ma non si vede’.46 A supporto della teoria, l’autore riporta come l’amico Vetrano abbia esplorato il fiume sotterraneo e vi abbia trovato perfino pesci ciechi per la mancanza di luce; questo dimostrerebbe come gli arabi prima di lui, avessero conosciuto il fiume Belìce sotterraneo che appunto bagna ma non si vede.47 L’etimologia suscita qualche perplessità, dunque la questione forse merita un approfondimento. Esaminando la toponomastica del Vicino Oriente antico, si nota come l’idronimo in esame potrebbe trovare riscontri ben precedenti rispetto alle fonti arabe medievali. Si potrebbe trovare un accostamento con il nome di un fiume della Siria tributario dell’Eufrate. Plutarco (46-127 d.C.) nel Crassus (23,5)48 cita il nome di un fiume chiamato βάλισσος durante la spedizione del triumviro in Siria contro i Parti.49 Lo stesso fiume è citato un secolo prima da Strabone (58-21/25 a.C.) nel XVI libro della Geografia (1,27) con il nome però di 46
ID., Sichillia, cit., vol. I, pp. 92-93. ID., Sichillia, cit., vol. III, p. 45. 48 Nato a Cheronea, fu scrittore e filosofo greco vissuto sotto l’impero romano. Celebri sono le sue Vite Parallele (in greco Βίοι Παράλληλοι) dedicate al suo amico Quinto Sosio Senecione. Si tratta di una serie di biografie di uomini celebri, tra questi Crasso che, durante la rinnovazione del Triumvirato, nel convegno di Lucca del 56 a.C., fu spedito da Cesare in Siria. 49 Conclusasi con la disfatta di Carre (53 a.C.). 47
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
281
βασίλειος, posto tra il Tigri e l’Eufrate, oggi corrispondente al fiume chiamato in arabo baliḫ50 nella Siria del nord, al confine con la Turchia, lo stesso che Plutarco chiamò bàlissos. Il termine bàlissos/ basìleios però non sembrerebbe avere una derivazione greca, né tantomeno sembrerebbe di origine araba la forma odierna baliḫ. Continuando la ricerca si riscontra non lontano dal fiume al-Baliḫ, nei pressi del lago alAssad in Siria, la cittadina di Tell Meskenè, identificata come l’antica Emar, importante centro di commercio dell’età del bronzo. I numerosi scavi condotti fin dagli anni ’70 dell’èra contemporanea51 hanno portato alla luce numerose tavolette d’argilla in scrittura cuneiforme accadica, datate tra il XIV secolo a.C. e la caduta di Emar nel 1187.52 Fatto ancor più importante per la ricerca, durante gli scavi è stato riportato alla luce l’area del tempio che comprendeva il santuario dedicato al dio fenicio Ba’al e forse anche alla consorte Astarte, risalente alla tarda età del bronzo (XIII-XII secolo a.C.). Dopo il crollo della città, il sito rimase desolato fin quando nel 253 d.C. divenne teatro della battaglia di Barbalissos tra i persiani sasanidi di Shapur I e le truppe romane. Secondo M.C. Astour53 durante il periodo persiano l’antica Emar fu chiamta 50
N. BIFFI, Il Medio Oriente di Strabone. Libro XVI della Geografia, Bari 2002. Il Baliḫ è un affluente dell’Eufrate. Si forma nella fonte di ‘Ayn al‘Arus in Siria e si congiunge all’Eufrate nella città di al-Raqqah, non molto distante da Tell Meskenè. 51 Gli scavi iniziali furono svolti da due team francesi nel 1972-76 guidati da Jean Claude Margueron. 52 J.C. MARGUERON - V. BOUTTE, Emar, Capital of Aštata in the Fourteenth Century BCE, in «The Biblical Archaeologist» 58/3 (1995), pp. 126-138. 53 M.C. ASTOUR, «La toponymie de la Syrie du Nord», in La Toponymie Antique, Acts du Colloque de Strasburg, 12-14 juin 1975, pp. 119-141 (in partic. p. 133).
282
Giuseppe Petrantoni
Bēt-Baleš (casa di Baleš) in onore, probabilmente, di Belesos, satrapo di Siria nel 401 a.C. Successivamente il toponimo divenne in greco Barbalissos e in arabo medievale Bālis. Ora, se è vero che i nomi bàlissos > (Bēt) Baleš > (variante) Barbalissos > Bālis non sembrerebbero avere un etimo specifico né in greco, né in arabo (appare evidente che la variante Bālis sia un calco dal precedente toponimo greco-persiano e che la radice balasa, sost. balis ha il significato di ‘sconforto, disperazione’, ‘despairing’54) e neppure in persiano (Baleš è solo una corruzione dell’antroponimo Belesos) da dove potrebbe derivare tale radice? Si potrebbe imboccare una via alternativa ipotizzando che il termine possa essere frutto dell’unione di due vocaboli giustapposti di origine fenicia. Per quale motivo non pensare ad esempio a un prodromo che potrebbe scaturire da un antroponimo fenicio B’l ‘š (lett. Ba’al ‘iš), ossia ‘Ba’al è vivo/vive/esiste/c’è’, nome de facto esistente presso la tribù dei Beniamiti55 in onore del dio (appunto Ba’al) a cui è stato edificato il tempio trovato ad Emar? Potrebbe un simile toponimo aver concesso il nome anche al fiume Balissos-Baliḫ? Tornando in Sicilia, nella prima “ondata” grecofona sull’isola che ha dato luogo alle colonie (735 a.C. – 212 a.C.), il fiume Belìce era chiamato in greco Υψας. Sarebbe troppo ipotizzare che i Cartaginesi avessero chiamato lo Iùpsas > Ba’al ‘iš > Balìs in onore del Dio Ba’al Hammon? In epoca medievale, come annotato sopra, sono attestate diverse forme del nome Belìce, dal greco βελίς, al latino Belich. Se si osserva attentamente, le due trascrizioni rimanderebbero alla dicotomia siriana, accennata sopra, tra βάλισσος e baliḫ. Guardando con attenzione le testimonianze del toponi54
E.W. LANE, Arabic-English Lexicon, cit., p. 248. C.R. KRAHMALKOV, A Phoenician-Punic Grammar, Leiden-BostonKöln 2001, p. 277. 55
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
283
mo, attestato sin dall’XI secolo d.C. in Sicilia, si nota un’evoluzione del termine: Belìs > Belich > Bilichi > Bilici > Belìce. Con l’arrivo delle prime genti arabe in Sicilia è probabile che il termine baliḫ sia stato importato e reso in latino con Belich, onde si avverte un imāla56 in ba > be tipica del Medio Arabo di Sicilia57 e la resa dell’arabo /ḫ/ nel latino /ch/, come visto sopra per l’idronimo dello stagno Ialico da ḫalīğ > Chalicium. La resa balğah di Idrisi nel suo Libro di Ruggero si potrebbe spiegare attraverso un calco, effettuato dal geografo su bilğah, trascritto da al-Muqaddasī anni prima il quale, a sua volta, potrebbe avere riportato il toponimo come veniva nominato nell’arabo del suo tempo, ossia con la resa del /ch/ latino con la palatale araba /ğ/ e con il cambiamento, attraverso una fase di pidginizzazione latino-arabo ben attestata in Arabo di Sicilia,58 del genere grammaticale dal maschile al femminile. Dalla forma belich si giunge al più vicino latino, dal punto di vista paraetimologico (?), bilix, -licis, sostantivo femminile che significa ‘a due fili’ (si riferisce ai due rami del fiume Belìce?) e di conseguenza per calco morfologico ad un probabile bilğ < beliḫ + ah > bilğah arabo, in Idrisi balğah. Con il passare dei secoli si potrebbe essere passati dalla pronuncia della palatale sonora /ğ/ </ḫ/ alla palatale sorda /č/ come in Bilici. 56
Ossia la lettura del fonema /a/ o /ā/ in /e/, tipica dei dialetti maghrebini come il tunisino. 57 Per uno studio sulla vocalizzazione dell’Arabo di Sicilia cfr. D. AGIUS, Siculo Arabic, cit.; J. GRAND’HENRY, «L’arabe sicilien dans le contexte maghrebin», in M. Moriggi (a cura di), Atti del XII Incontro Italiano di Linguistica Camito-semitica (Afroasiatica), Soveria Mannelli 2006, pp. 35-44. 58 D. AGIUS, «Who Spoke Siculo Arabic?» in M. Moriggi (a cura di), Atti del XII Incontro Italiano di Linguistica Camito-semitica (Afroasiatica), cit., pp. 25-33, pp. 30-31.
284
Giuseppe Petrantoni
Tornando a una probabile origine araba dell’idronimo, risulta interessante l’ipotesi di G. Trovato59 che traduce l’arabo balğah con ‘luce del mattino’, dalla radice baliǧa ‘brillare, splendere’, da cui il balīğ che appare nei diplomi dell’XI secolo. E se l’etimo non fosse arabo ma contenesse una probabile radice proto-indoeuropea? Il Pellegrini60 cita il fiume Λίσσος < indoeuropeo *lēi ‘versare, scorrere’,61 (cf. sanscrito liśati ‘andare, muovere’) e il fiume Balētus62 nel Bruttium (citato da Plinio n.h. III,72) da ind. *bhel- ‘splendore’, sanscrito bhā ‘splendore, essere luminoso, luce’, esattamente come nell’ arabo baliǧa. Le due ipotesi sono suggestive e potrebbero trovare un riscontro con la scoperta di un megalite forato sul Monte Arcivocalotto, a metà strada tra Rocca Busambra e Monte Jato, dove sono stati ritrovati anche dei cocci ceramici databili dall’Eneolitico al Bronzo.63 Il megalite è un calendario solare e durante il solstizio di inverno il sole, dopo essere sorto, ha il suo culmine al centro del foro alle 8.30 con i raggi che colpiscono perfettamente l’inizio del fiume Belìce, posto in basso, splendendo al suo interno, come appunto “luce del mattino”. Ramussara. Cave di Cusa. Le Cave di Cusa, anche se oggi appartengono al comune di Campobello di Mazara, rappresentano il punto più vicino a Selinunte dove in passato i greci utilizzavano i banchi di calcarenite per i blocchi più grandi delle opere e dei templi della cittadina della Magna Grecia. Le Cave furono in uso dal VI secolo a.C. fino alla conquista della 59
G. TROVATO, Sopravvivenze arabe, cit., pp. 90-91. G.B. PELLEGRINI, Toponomastica italiana, Milano 2008, p. 55. 61 Cfr. l’albanese lisë ‘ruscello’, lituano lìeti ‘scorrere’. 62 G.B. PELLEGRINI, Toponomastica italiana, cit., p. 369. 63 Ringrazio la prof.ssa Francesca Mercadante per la comunicazione. 60
gentile
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
285
città da parte dei punici del 409 a.C. L’evento, traumatico e improvviso, determinò il momento d’interruzione del lavoro di estrazione dalla roccia. I pezzi vennero così lasciati lì dov’erano, alcuni appena sbozzati, altri completamente finiti sulla strada per Selinunte. Con questa immagine apparvero le Cave di Cusa al Fazello che nel VI secolo d.C. le visitò: «[…] Questa città (scil. Selinunte) ha tre cave antichissime di pietra, donde furono cavate le pietre per edificare ed abbellir detta terra […] la terza è verso ponente sei miglia discosto in un luogo chiamato saracinamente Ramussara, donde si cavarono quei grandissimi sassi, e quelle stupende colonne, che serviron poi per sostentare i tempii e gli altri edifici per ornamento della città».64 Il Fazello identificò le odierne cave con il nome, probabilmente arabo, di Ramussara, l’Amico annota che in latino vennero trascritte con il nome di Ramuxara,65 mentre oggi l’attuale denominazione deriva da quello del proprietario del terreno su cui vennero scoperte. Il toponimo, a prima vista, sembrerebbe di origine araba, come appuntava il Fazello e potrebbe essere il risultato della fusione del sostantivo rumūs (pl. di rams) ‘fosse, tombe’ con l’aggettivo ḥārra ‘calde, torride, ardenti’ dal verbo ḥarra ‘essere caldo’. È probabile che gli arabi, notando la desolazione e l’abbandono nelle cave, abbiamo paragonato il luogo a delle tombe, a delle fosse (in questo caso indicando i fossi nelle rocce da dove si estraeva la pietra?) che in estate per il troppo caldo diventavano roventi. Ma c’è di più. Guardando attentamente il toponimo si potrebbe scorgere una matrice fenicia del termine. Un indizio proverrebbe dalla trascrizione latina del termine annotata dall’Amico, Ramuxara con /x/ palatale uguale a semitico /š/. In questo caso il nome delle cave deriverebbe dall’unione di 64 65
T. FAZELLO, Storia di Sicilia, cit., p. 128. V. AMICO, Dizionario topografico, cit., vol. II, p. 412.
286
Giuseppe Petrantoni
r(w)m ‘essere alto, innalzare’ e šᶜr ‘porta, entrata’ che dà luogo al toponimo Xaar.66 I nomi composti con la radice r(w)m appaiono più volte, soprattutto nell’onomastica e normalmente l’elemento r(w)m viene posto in seconda posizione come il più comune ‘ḥrm (Aḥiram) ‘mio fratello è alto’, nome di un re di Tiro.67 In questo caso r(w)m è posto prima di šᶜr e si potrebbe intendere che sia un verbo (participio?) che occupa la prima posizione nella tipica frase verbale semitica VSO anziché fungere da aggettivo. Il sostantivo šᶜr, presente anche nell’ebraico šaᶜar, starebbe ad indicare le cave (una volta estratto il blocco l’incavatura forma un’entrata, una porta) alte e massicce (?). Ma si potrebbe avanzare un’altra ipotesi. Stando alla trascrizione fatta dal Fazello, il secondo elemento del toponimo comincia per un’alveolare /s/ -sara che ricondurrebbe al nome fenicio ṣar con /ṣ/ = /ts/ che ha il significato di ‘roccia, scoglio’68 e che identifica anche la città di Tiro, come emerge dalle monete in cui vi è scritto çur o çor.69 Dal toponimo della città di Tiro si ha il latino Sarra onde l’etnico Sarranus ‘di Tiro’ (cf. Plauto, Truc. II 6.58 ‘ex Sarra’). Si nota, nella resa in latino, il passaggio dall’affricata alveolare /ts/ alla più dolce alveolare spirantizzata /s/. Dunque r(w)m sar potrebbe significare ‘la roccia è alta’, è ciò si accosterebbe meglio alla descrizione del luogo, oppure potrebbe, volendo pensare alla sacralità del luogo, riferirsi alla città di Tiro come un elogio alla città (il verbo r(w)m ha il significato 66
M.J. ESTANYOL I FUENTES, Diccionari abreujat, cit., p. 123. M.G. AMADASI GUZZO, «Note di epigrafia punica in Sicilia», in A. Corretti (a cura di), Terze giornate internazionali di studi sull’area elima, Atti del convegno (Gibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997), Pisa-Gibellina 2000, pp. 1-16 (in partic. p. 7). 68 Cfr. l’ebraico tsar. 69 G.B. PELLEGRINI, Toponomastica italiana, cit., p.46. 67
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
287
anche di ‘esaltare, innalzare’). Troveremmo così un riscontro nella tesi sostenuta da A. Cutroni Tusa,70 secondo la quale Selinunte, nel periodo di supremazia cartaginese, sarebbe da identificare con la legenda monetale di r(‘)šmlqrt ‘capo di Melqart’,71 Dio venerato proprio a Tiro. Ma si tratta solo di teorie poiché il ‘capo di Melqart’ è stato identificato con alcuni centri della Sicilia, tra i quali Eraclea Minoa come sostenuto da Sznycer,72 Se effettivamente il toponimo dovesse avere un corrispettivo con la città di Selinunte si avrebbe un collegamento sacro e religioso tra le cave di Cusa conquistate dai punici ‘di Tiro’ (Cartagine fu fondata secondo la leggenda da una colonia proveniente da Tiro) e Selinunte che prese il nome del Dio Melqart venerato nella città fenicia. Si potrebbe infine pensare a un’ulteriore ipotesi. Considerando la probabile seconda parte del toponimo (-s/xara), nel siciliano è presente il sostantivo sciara (dall’ar. šāriᶜ pl. šawāriᶜ ‘via, strada’ ) con il significato di ‘lava, corrente di lava che scorre’. Il sostantivo siciliano potrebbe avere una probabile derivazione dall’arabo šaᶜrā’, femminile di ašᶜar come annota il Freytag73 con il significato di ‘hirsuta, de ove; inde herbosus, plantis abundans locus arboribus obsitus’. Il
70
Cfr. A. CUTRONI TUSA, RŠMLQRT è Selinunte?, in «Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica» 42 (1995), pp. 235-239 (con bibliografia completa). 71 Per uno studio più approfondito si confronti L.I. MANFREDI, Monete puniche. Repertorio epigrafico e numismatico delle legende puniche, Roma 1995, pp. 115-117. 72 M. SZNYCER, «Toponymes phéniciens en Méditerranée Occidentale», in La Toponymie antique, Acts du Colloque de Strasbourg 12-14 juin 1975, pp. 163-175 (in partic. p. 173). 73 G.W. FREYTAG, Lexicon arabico-latinum, 2 voll., Hallis Saxonum 1830-34, vol. II, p. 427 b.
288
Giuseppe Petrantoni
Wehr invece traduce con ‘scrub country’.74 Si confronti il maltese xaᶜra ‘tratto di terra che nulla produce, deserto, landa, pianura’.75 Il Pellegrini76 pensa ad un’unione tra šaᶜrā e harra(h), quest’ultimo secondo il Freytag77 significa ‘terra seu regio petrosa; locus lapidi bus nigris, exesis et quasi igne adustis constans’. È evidente nelle tre ipostesi il significato di ‘terra erbosa, di pianura e di terra pietrosa, piena di sassi’ da abbinare alla prima probabile parte del toponimo (-ram/rams/z/ramš ?). Bugilifer. La prima menzione di un luogo chiamato Bugilifer la ritroviamo nel Fazello che ricorda come: «Questa città (scil. Selinunte) ha tre cave antichissime di pietra […] l’una di queste è lontana dalla città due miglia, l’altra ch’è volta verso tramontana è quattro miglia lontana dalla terra, posta in quel luogo ch’oggi è detto Bugilifer […]».78 Il dizionario topografico di Amico riporta: «[…] luogo dove si osserva una delle latomie o pietraie dell’antica Selinunte, sito verso aquilone, a 4 metri dai diroccati monumenti di questa città».79 È molto probabile che il sito si riferisca alle Cave di Barone, site a 4 km a nord della città in un basso banco roccioso il cui materiale si trova nei templi D, A ed E di Selinunte. Dal punto di 74
H. WEHR, A Dictionary of modern written Arabic (Arabic-English), O. Harrassowitz, Wiesbaden 1979, p. 553 b. 75 G. BARBERA, Dizionario maltese-arabo-italiano: con una grammatica comparata arabo-maltese, 4 voll., Beyrouth 1939-40, vol. IV, p. 1132. 76 G.B. PELLEGRINI, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, Brescia 1972, pp. 275-276 e anche Postille etimologiche arabo-sicule, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani» 12 (1973), pp. 5-21. 77 G.W. FREYTAG, Lexicon arabico-latinum, cit., vol. I, p. 360b. 78 T. FAZELLO, Storia di Sicilia, cit., vol. II, p. 128. 79 V. AMICO, Dizionario topografico,cit., vol. I, p. 166.
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
289
vista toponomastico il nome parrebbe derivare dall’arabo. Secondo il Di Gregorio80 la parola proverrebbe da (a)bū ‘padre’, ğīl ‘generazione, popolo, nazione, età, secolo’ e infine da fard ‘unico, incomparabile’, dando luogo così a ‘padre dell’incomparabile antichità’. Sembrerebbe che Di Gregorio abbia tradotto volendo trasmettere una sensazione di immortalità, di antichità e di importanza storica al luogo, sentimento che dovrebbe suscitare l’antica Selinunte piuttosto che le Cave di Barone. Inoltre lo studioso non dà spiegazione filologica all’elisione della /d/ finale in fard che avrebbe dato luogo a fer. Si potrebbe tuttavia ipotizzare un’altra derivazione sempre dall’arabo. La prima parte della parola potrebbe essere abu- o bu-, suffisso per ‘padre’ che esiste nella kunya, il tectonimo onorifico che precede il nome proprio di persona o il soprannome di un uomo come nel caso di Buseto:81 Bū al-sīd ‘il (casale del) padre di Sayyid’.82 Il Cusa annota anche βουλφάρατζ > (a)bū ‘l-farağ ‘il padre della gioia’.83 Il secondo termine invece risulta essere più difficile da ritrovare. Perché non pensare a ğalā’ ‘splendore, chiarezza, scoperta’? Darebbe il significato di un ‘ritrovamento splendido’ (le rovine della cava maestosa?). Per ultimo, il probabile finale –fer che potrebbe corrispondere all’arabo ḥafr ‘scavo, incisione, intaglio’, o anche a ḥafīr ‘tomba’ (come le Cave di Cusa?), molto più riconducibile a una cava dove si scava e si intaglia la pietra. La fricativa faringale araba /ḥ/ non veniva più percepita e si trascriveva /ø/ come in Cusa: ar. Isḥāq > gr. ἴσαακ.84 Volendo ipotizzare una traduzione, si avrebbe ‘padre dello 80
A. DI GREGORIO, Sichillia, cit., vol. II, p. 126. Comune in Provincia di Trapani. 82 F. MAURICI, Medioevo trapanese, cit., p. 57. 83 S. CUSA, I diplomi greci e arabi, cit., p. 257a. 84 S. CUSA, I diplomi greci e arabi, cit. p. 583. 81
290
Giuseppe Petrantoni
splendore/scoperta dello scavo/intaglio. Ma vi è di più. Risulta curioso come il termine Bugilifer potrebbe ritrovare un riscontro etimologico nel semitico nordoccidentale e più precisamente dal fenicio. Infatti scomponendo sempre in tre il toponimo, si avrebbe bw’ [bū’] ‘entrare, giungere’, gly [gilī] ‘scoprire’ e p’r [pār], toponimo quest’ultimo attestato come Paar85, con il significato di ‘marmo’. L’approssimata traduzione di un ipotetico bw’glyp’r sarebbe ‘entrò/giunse e scoprì il marmo’ (riferendosi alla pietra bianca della cava quasi marmorea?). Si avrebbe anche una corrispondenza tra il verbo fenicio gly e quello arabo ğalā con il significato di ‘scoprire, svelare’. Triscina. La frazione e località balnearia di Castelvetrano è nata nella seconda metà del XX secolo. Il suo nome non sembrerebbe avere un’origine certa, forse si tratterebbe di una storpiatura di un precedente nome ben definito. Secondo la teoria di G. Ingrasciotta86 il nome deriverebbe da un’errata trascrizione notarile di ‘friscina’, in siciliano per ‘fiocina’, che i marinai selinuntini utilizzavano per la pesca del polipo e che veniva nascosta vicino un’antica sorgente d’acqua. Da qui f>t per Triscina. L’ipotesi, secondo Ingrasciotta, è supportata dal fatto che il toponimo viene utilizzato con l’articolo femminile preposto: la Triscina, per indicare la borgata. Il nome però potrebbe avere un’origine ben più antica. Esaminando il racconto di viaggio di Idrisi e soprattutto l’opera dell’Amari,87 si nota come quest’ultimo annoti il nome di una costa vicino Porto Palo: Tirsa abi ṯawr, variante del nome Tirscia. Non si esclude la possibilità che il solo toponimo tirsa/tirscia sia stato utilizzato per indicare anche la costa dove attualmente sorge Tri85
M.J. ESTANYOL I FUENTES, Diccionari abreujat, cit., p. 104. G. INGRASCIOTTA, Triscina nella mia memoria, Castelvetrano s.d. 87 M. AMARI, Carta comparata, cit., p. 184. 86
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
291
scina, tra l’altro vicina a Porto Palo, dato che Idrisi elenca altri Tirsa nel suo libro. Ora, in arabo tirsa potrebbe essere il plurale di turs ‘scudi’, ‘a certain piece of defensive armour, a shield’,88 gli ‘scudi’ di un certo Abi Ṯawr (lett. ‘padre del toro’) indicando la costa come possibile fortino e probabilmente il nome, attraverso il fenomeno della metatesi, potrebbe essere mutato in Triscia < Tirscia, da qui corrotto in Triscina. L’ipotesi però non sembra reggere data la variante Tirsa > Tirscia con s >š (fenomeno fonetico che avviene nelle lingue semitiche nordoccidentali come l’ebraico o il fenicio). Ci si chiede allora se l’arabo non abbia mutuato il nome, come un calco, dal fenicio. Effettivamente in fenicio esiste il nome trš ‘most’,89 ‘mosto’ dal verbo ‘rš ‘desiderare, eleggere’. Dunque la radice avrebbe a che fare con il mosto ricavato dalla pigiatura dell’uva. Confrontando altre lingue semitiche nordoccidentali, si nota come in ebraico esista tīrōš per ‘mosto’ e in ugaritico trṯ con lo stesso significato e con il passaggio sa š>ṯ, 90 contrapposto a yn ‘vino’ (cf. greco οἶνος). Lo stesso Ingrasciotta ci conferma che a Triscina crescevano vigneti91 e allora perché non ipotizzare che la zona serviva ai fenici per pigiare l’uva e ricavare il mosto per poi conservarlo per la produzione del vino? In questo caso il termine trš >Triscina descriverebbe perfettamente la località di Triscina come ‘luogo in cui si produce il mosto’. La presente ricerca, pur senza la pretesa di esaustività, tende quindi a mostrare come un sostrato arabo o, per meglio dire semitico, potrebbe sottendere ad alcuni dei toponimi o degli idronimi analizzati. Un approfondimento riguardo alla presen88
E.W. LANE, Arabic-English Lexicon, cit., pp. 302-303. M.J. ESTANYOL I FUENTES, Diccionari abreujat, cit., p. 129. 90 D. SIVAN, A Grammar of the Ugaritic Language, Atlanta 2001, p. 7. 91 G. INGRASCIOTTA, Triscina, cit., p. 9.
89
292
Giuseppe Petrantoni
za fenicia sull’isola permetterebbe forse di individuare lasciti linguistici possibilmente riemersi nell’età della cosiddetta “dominazione araba”.
BIBLIOGRAFIA
D. A. AGIUS, Siculo Arabic, Kegan Paul International, London-New York 1996. ID., «Who Spoke Siculo Arabic?» in XII Incontro Italiano di Linguistica Camito-semitica (Afroasiatica), Atti a cura di M. MORIGGI, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 25-33. M. G. AMADASI GUZZO, «Note di epigrafia punica in Sicilia», in A. Corretti (a cura di), Terze giornate internazionali di studi sull’area elima, Atti del convegno (Gibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997), Pisa-Gibellina 2000, pp. 1-16.
M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, 2 voll., Loescher, Torino-Roma 1880. ID., Storia dei Musulmani di Sicilia, a cura di G. Giarrizzo, Le Monnier, Firenze 2002. ID., Carta comparata della Sicilia moderna, trad., integr. e ann. di L. Santagati, Flaccovio Editore, Palermo 2004. V. M. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, 2 voll., trad. e annot. di G. Di Marzo, Tipografia Pietro Morvillo, Palermo 1855. M. C. ASTOUR, «La toponymie de la Syrie du Nord», in La Toponymie Antique. Acts du Colloque de Strasburg, 12-14 juin 1975, Université des sciences humaines de Strasbourg, Travaux du Centre de recherche sur le Proche-Orient et la Grèce antiques, Strasbourg 1977, pp. 119-141.
294
Giuseppe Petrantoni
C. AVOLIO, Saggio di toponomastica siciliana, G. Di Giovanni, Noto 1937. G. M. BARBERA, Dizionario maltese-arabo-italiano: con una grammatica comparata arabo-maltese, 4 voll., Imprimerie Catholique, Beyrouth 1939-40. F. L. BENZ, Personal names in the Phoenician and Punic inscriptions, Biblical Institute Press, Roma 1972. N. BIFFI, Il Medio Oriente di Strabone. Libro XVI della Geografia, Introduzione, traduzione e commento, Il Medio Oriente di Strabone, Edipuglia, Bari 2002. H. BRESC, «Féodalité coloniale en terre d’Islam: la Sicilie (1070-1220)», in Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerranéen (X-XIII siècles), Actes du Colloque International, Roma 1978, Roma 1980. G. CARACAUSI, Arabismi medievali in Sicilia, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Palermo 1983. ID., Dizionario onomastico della Sicilia: repertorio storicoetimologico di nomi di famiglia e di luogo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo 1993. S. CUSA, I diplomi greci e arabi di Sicilia, Tipografia Lao, Palermo 1868. A. CUTRONI TUSA, RŠMLQRT è Selinunte?, in «Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica» 42 (1995), pp. 235-239. C. DALLI, «From Islam to Christianity: the Case of Sicily», in J. CARVALHO, Religion, ritual and mythology: aspects of identity formation in Europe, Edizioni Plus-Pisa University Press, Pisa 2006, pp. 151-169. A. DE SIMONE (a cura di), La descrizione dell’Italia nel Rawd al-miᶜṭār di al-Ḥimyarī, Liceo ginnasio Gian Giacomo Adria, Mazara del Vallo 1984.
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
295
ID., Nella Sicilia araba tra storia e filologia, Luxograph, Palermo 1999. R. DE SIMONE, «Epigrafia fenicio-punica», in C. Pastena - F. Spatafora - C. Oliva - M. M. Milazzo (a cura di), Forme della scrittura, Regione Siciliana. Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana. Dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana, Palermo 2010, pp. 12-15, 48-51. A. DI GREGORIO, Sichillia, 3 voll., Prova d’Autore, Catania 2003. M. J. ESTANYOL I FUENTES, Diccionari abreujat fenici-català, PPU, Barcelona 1997. T. FAZELLO, Storia di Sicilia. Deche due, 2 voll., trad. di R. Fiorentino, Pedone e Muratori, Palermo 1830. G. W. FREYTAG, Lexicon arabico-latinum, 2 voll., Hallis Saxonum 1830-34. F. GABRIELI, Un secolo di studi arabo-siculi, in «Studia Islamica» 2 (1954), pp. 89-102. I. J. GELB - T. JACOBSEN - B. LANDSBERGER - A. L. OPPENHEM, The Assyrian Dictionary, The Oriental Institute, Chicago 1959. A. GIARDINA - F. S. CALCARA - V. NAPOLI - G. L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano, vol. I, Officina di Studi Medievali, Palermo 20102. J. GRAND’HENRY, «L’arabe sicilien dans le contexte maghrebin», in M. Moriggi (a cura di), XII Incontro Italiano di Linguistica Camito-semitica (Afroasiatica), Atti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 35-44. A. HOLM, Della geografia antica di Sicilia, trad. di P. M. Latino, Tipografia del Giornale di Sicilia, Palermo 1871.
296
Giuseppe Petrantoni
IDRISI, Il libro di Ruggero, trad. di U. Rizzitano, Flaccovio Editore, Palermo 2008. G. INGRASCIOTTA, Triscina nella mia memoria, Lithos, Castelvetrano s.d. G. INEICHEN, La traslitterazione dei termini arabi e la stratificazione degli arabismi nel Medio Evo, in «Bollettino dell’Atlante Linguistico Mediterraneo» 8/9 (1966-67), pp. 197-202. ID., «La tradizione araba come problema filologico e linguistico», in A. Vàrvaro (a cura di), Atti del XIV Congresso Internazionale di Linguistica e di Filologia Romanza (Napoli, 15-20 aprile 1974), 5 voll., Napoli-Amsterdam 1978, vol. I, pp. 389-397. M. JASTROW, A Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and the Midrashic Literature,W. Drugulin, Oriental Printer, Leipzig 1926. R. KONTZI, Arabisch und romanisch, in «Lexikon der Romanistischen Linguistik» 7 (1998), pp. 328-347. C. R. KRAHMALKOV, A Phoenician-Punic Grammar, E. J. Brill, Leiden-Boston-Köln 2001. E. W. LANE, Arabic-English Lexicon, William & Norgate, London 1863. L. I. MANFREDI, Monete puniche. Repertorio epigrafico e numismatico delle legende puniche, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1995. J. C. MARGUERON - V. BOUTTE, Emar, Capital of Aštata in the Fourteenth Century BCE, in «The Biblical Archaeologist» 58/3 (1995), pp. 126-138. F. MAURICI, Medioevo trapanese. Gli insediamenti nel territorio della provincia di Trapani dal tardo antico alle soglie
Considerazioni linguistiche sugli idronimi e sui toponimi…
297
dell’età moderna, Regione Siciliana. Assessorato beni culturali e ambientali e pubblica istruzione, Palermo 2002. ID., «Sicilia bizantina: il territorio della provincia di Trapani dal VI al IX secolo», in A. Corretti (a cura di), Quarte giornate internazionali di studi sull’area elima, Erice. 1-4 dicembre 2000, Atti II, Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 2003, pp. 905-925. D. MERTENS, Castellum oder Ribat? Das Küstenfort in Selinunt, in «Instambuler Mitteilungen» 39 (1989), pp. 391-398. A. METCALFE, Muslims and Christians in Norman Sicily: Arabic speakers and the end of Islam, Routledge, London 2003. S. MOSCATI, Italia punica, Rusconi, Milano 1995. G. NANIA, Toponomastica e topografia storica nelle valli del Belìce e dello Jato, Barbaro, Palermo 1995. M. PASQUALINO, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, 2 voll., Reale stamperia, Palermo 1785-95. G. B. PELLEGRINI, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, Paideia, Brescia 1972. ID., Postille etimologiche arabo-sicule, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani» 12 (1973), pp. 5-21. ID., Ricerche sugli arabismi italiani con particolare riguardo alla Sicilia, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo 1989. ID., Toponomastica italiana, Hoepli, Milano 2008. R. PIRRI, Sicilia sacra, terza edizione emendata e ampliata da A. Mongitore e V. M. Amico, Coppola, Palermo 1733. G. ROHLFS, Nuovo dizionario dialettale della Calabria (con repertorio italo-calabro), Longo, Ravenna 1977.
298
Giuseppe Petrantoni
A. RUSSO, Storia di Delia, Scuola tipografica salesiana, Palermo 1958. D. SIVAN, A Grammar of the Ugaritic Language, Society of Biblical Literature, Atlanta 2001. M. SZNYCER, «Toponymes phéniciens en Méditerranée Occidentale», in La Toponymie antique, Acts du Colloque de Strasbourg 12-14 juin 1975, pp. 163-175. G. TROVATO, Sopravvivenze arabe in Sicilia, Tipografia Vena, Monreale 1949. A. VÀRVARO, Lingua e storia in Sicilia, Sellerio, Palermo 1981. H. WEHR, A Dictionary of modern written Arabic (ArabicEnglish), O. Harrassowitz, Wiesbaden 1979. E. WINKELMAN, Acta Imperii inedita, 2 voll., Innsbruk 188085.
Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano: il primo passo verso l’identità cittadina Mirko Tamburello
Tra i secoli XI e XIII sorsero in Europa diversi movimenti di protesta a carattere religioso che criticavano la Chiesa cattolica e ne rifiutavano le regole, sostenendo di dover tornare a vivere secondo i principi originari del cristianesimo. Non tutti i movimenti di rinnovamento nascevano fuori o contro la Chiesa, infatti, all’inizio del XIII secolo, nacquero gli ordini mendicanti. L’originalità del loro approccio consisteva nella grande attenzione data al prossimo. La volontà di condividere la precarietà, le sofferenze, le disillusioni e le speranze della gente comune rese credibile questa nuova forma di apostolato.1 In Italia, tra il 1206 e il 1207 un giovane di Assisi, Francesco di Bernardone, rinunciò pubblicamente al proprio padre per donarsi a Dio e alla carità. Dopo aver scritto la Regola dell’Ordine dei Frati Minori – confermata con Bolla papale da Onorio III nel 1223 – Francesco d’Assisi invitò i suoi compagni a seguire tutte le vie del mondo per predicare il Cristo povero, umile e crocifisso. Giacomo da Vitry nel 1216 presentò la nostra Isola come una delle regioni dove i Minori si «spargevano per tutto l’anno». I primi france-
1
M. MOLLAT, I poveri nel medioevo, Roma-Bari 2001, p. 140.
300
Mirko Tamburello
scani giunsero presto a Palermo, tra il 1224 e il 1225. 2 Gandolfo Sacchi di Binasco (MI) doveva essere fra questi.3
Cenni biografici Gandolfo Sacchi nacque a Binasco, un paesino che oggi conta circa 7.000 abitanti e che nel XIII secolo non doveva averne più di 4.000, distante pressappoco 16 km da Milano. Una lapide conservata nella sacrestia della Chiesa Parrocchiale di Binasco, ritrovata tra le macerie del distrutto convento francescano edificato intorno all’anno 1370, ci riferisce della sua appartenenza alla nobile ed agiata famiglia Sacchi.4 In rilievo vi si vedeva l’immagine di un frate francescano e un’iscrizione recitava: «Beato Gandolfo Sacchi da Binasco». Lo stesso cognome lo si trova nelle lezioni agiografiche del Breviario della diocesi di Pavia e di quello Francescano, al 3 aprile. Sappiamo poco riguardo la sua infanzia, ad esempio non ci è dato sapere quale sia stata la sua prima educazione, e dove e da chi, sia stato iniziato agli studi. È certo che trovò nella famiglia un ambiente cristiano ed esemplare.5 La sua scelta, come quella di San Francesco d’Assisi, di cui ne seguì le orme, non poté non essere una rispo2
Si veda il sito www.fratiminoriconventualisicilia.it (ultima consultazione novembre 2012). 3 Non deve sorprendere la presenza di un lombardo in Sicilia, anche da civile. Infatti è ampliamente documentata la presenza di molti lombardi nell’isola intorno alla prima metà del ’200. Vi cercavano nuovi mercati ed erano richiamati dai reggitori delle città per ampliare il numero della popolazione. 4 Famiglia che rappresentò quella nobiltà terriera intraprendente ed energica, che lasciò una vasta orma nella civiltà italiana; cfr. F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano: saggio biografico e sul culto reso al Santo, Palermo 1979, p. 7. 5 Ibid.
Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano
301
sta al bisogno profondo di cercare la verità in Dio e nello stesso tempo una risposta puntuale ai bisogni laceranti della società e della chiesa di allora.
La vocazione religiosa L’Italia del XIII secolo visse un vivace periodo di religiosità popolare, che, non sempre guidata da un clero adatto a farlo, carica di esuberanza, spesso trascendeva l’ortodossia. Il XIII secolo fu, infatti, caratterizzato da un forte rinnovamento di idee: nei popoli nacque pian piano quel senso di fraternità umano-cristiana che fece dei Francescani in Italia, ma anche di altri movimenti dello stesso tipo nel resto dell’Europa, i sostenitori e i propagatori più convinti.6 In seno a questi nuovi ordini religiosi e morali Gandolfo Sacchi maturò una forte vocazione religiosa. Il francescanesimo offrì al giovane, intelligente e sensibile, un terreno adatto per far crescere in sé le virtù che lo resero degno di santità. Gandolfo fu paladino convinto di un totale rinnovamento interiore e, nello stesso tempo, ansioso di comunicare agli altri le proprie convinzioni.7
Il frate Gandolfo da Binasco Il giovane Sacchi entrò nell’Ordine dei Frati Minori, la famiglia religiosa fondata da Francesco di Assisi e approvata nel 1209 da Innocenzo III, mentre era in vita il fondatore. Purtroppo non è possibile determinare esattamente, con la veridicità dei documen6 7
M. MOLLAT, I poveri nel medioevo, cit., p. 146. F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., p. 9.
302
Mirko Tamburello
ti, dove abbia ricevuto l’abito religioso e chi ne abbia ricevuto i voti. Dalle indagini storiche che i biografi, nel corso dei secoli, dedicarono al nostro santo, possono delinearsi varie ipotesi a riguardo. Alcuni sostengono che il giovane abbia professato, e quindi ricevuto l’abito religioso dei Frati Minori, in una delle zone francescane d’Italia e che sarebbe giunto in Sicilia già sacerdote per diffondere i precetti puri e originari della Chiesa cattolica. Tra questi Gandolfo Miserendino, sacerdote della Compagnia di Gesù nato a Polizzi Generosa nel 1671. Miserendino sostiene che Gandolfo Sacchi si sia spostato in Sicilia solo dopo essere entrato a far parte della famiglia francescana.8 Altri, invece, sostengono che Gandolfo Sacchi sia divenuto Frate Minore in Sicilia, a Palermo, dopo qualche anno che i Frati Minori vi aprirono il loro convento: secondo questa tesi la data dovrebbe aggirarsi intorno al 1224-25. Il cappuccino Farella, altro biografo del Santo, ritiene che il giovane Sacchi, ormai ventenne, si unì ad una comitiva di pellegrini penitenti della sua terra, diretti verso Roma, per lucrarvi indulgenze. Lo studioso ipotizza che tale, importante, decisione venne presa per vanificare la pressione esercitata dalla sua famiglia, che lo sollecitava a contrarre matrimonio con una ricca donna. I compagni pellegrini, durante il viaggio ebbero ben presto l’opportunità di conoscere le tante virtù del giovane ma soprattutto la sua volontà di servire e di aiutare i più bisognosi. Quando la sua misericordia raggiunse la massima fama tra i fedeli di Roma e tra i suoi compagni, il nostro Gandolfo decise di proseguire il suo viaggio verso sud, e di raggiungere la Sicilia, anziché tornare in Lombardia. Meta di arrivo in Sicilia fu Palermo, dove, con umiltà ed insistenza, avendo ormai deciso la direzione che la sua vita avrebbe dovuto prendere, chiese di essere ammesso tra i discepoli di Francesco. Compiuto il noviziato e 8
G. MISERENDINO, Vita, virtù e miracoli del glorioso S. Gandolfo, Palermo 1743, p. 5.
Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano
303
professata la Regola francescana, ricevette l’ordinazione sacerdotale con la licenza di predicare come ormai era prescritto dalla regola, approvata da Onorio III nel 1223. La Sicilia, che aveva conosciuto i frati francescani come predicatori erranti sin dal 1212, li vide, poi, domiciliati in ben 21 conventi già nel 1221.9
I Frati Minori a Palermo A Palermo i Frati Minori furono accolti benevolmente dal popolo e dai nobili e tra il 1223-24 ebbero il terreno per fabbricarvi la chiesa ed il convento.10 Il momento coincide dunque con quello, presunto, dell’arrivo nella stessa città di Gandolfo Sacchi. A distanza di pochissimo tempo i Francescani subirono, proprio a Palermo, più che in ogni altra città della Sicilia, le ire dei sovrani. Il Papa allora emanò una bolla con la quale garantiva la loro ortodossia e richiamava il clero locale, che era stato loro ostile fin dall’inizio, al rispetto dei Frati Minori (1228). Federico II, in rotta con il pontefice, avversò i francescani in tutti i modi, e in particolare quelli di Sicilia e di Palermo. Il sovrano svevo ordinò di cacciare in esilio tutti i Minori del regno di Sicilia (1229).11 A questi episodi ne seguirono altri dello stesso ordine, finché, nel 1255, dopo la morte di Federico II, fu ripresa la costruzione della chiesa e del convento di Palermo.12 Pare che fra’Gandolfo abbia vissuto da protagonista il conflitto fra il papato e l’imperatore 9
F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., p. 11. A. MONGITORE, Storia delle chiese di Palermo: i conventi, vol. I, Palermo 2009, p. 427. 11 F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., p. 14. 12 Per un elenco dettagliato delle battaglie tra i Frati Minori di Sicilia e il sovrano svevo, vedi F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., pp. 14-16. 10
304
Mirko Tamburello
Federico II. Pur non avendo una documentazione certa che attesti la sua compartecipazione agli eventi, tuttavia, il fatto che egli si allontani da Palermo ci suggerisce la volontà del frate di sottrarsi ad ogni tipo di persecuzione imperiale e dedicarsi pienamente alla vita contemplativa e di preghiera. È infatti attestato che Gandolfo da Binasco, nel 1256, ricevette l’incarico di fondare il convento di Termini Imerese.13 Tale importante incarico ci fa dubitare che il francescano sia stato influenzato dai movimenti più radicali del suo Ordine e porta a ritenere che egli si sia, invece, mantenuto fedele alla sua ala ufficiale, nettamente a fianco dei Pontefici. Inoltre altri indizi testimoniano la grande importanza del Frate e il ruolo di rilievo che rivestiva all’interno della famiglia francescana: si pensi alle funzioni di contionator devotus14 e alla fama acquisita in buona parte della Sicilia; alla sua rappresentazione, accanto ad eminenti personaggi dell’Ordine, in un dipinto all’interno della chiesa di San Francesco a Palermo, datato all’epoca della morte del Santo (il dipinto si trovava nell’abside, purtroppo non è più esistente).15
Fra’ Gandolfo a Castelvetrano Vi è una certa univocità fra le fonti riguardo al periodo di allontanamento del frate da Palermo; avvenne, sicuramente, nella fase più intensa delle persecuzioni federiciane, invece, sulla motivazione della partenza del frate, le fonti differiscono leggermente. Farella sostiene che Gandolfo, inizialmente, sia fuggito da Palermo e da Federico II per raggiungere le Madonie, monti adatti 13
G. LEANTI, L’Ordine Francescano in Sicilia nei secoli XIII e XIV, in «Miscellanea Francescana», vol. 37, 1937, p. 24. 14 V. NOÈ, Gandolfo, in «Biblioteca Sanctorum», VI, Roma 1965, p. 33. 15 G. MISERENDINO, Vita, virtù e miracoli del glorioso S. Gandolfo, cit., p. 13.
Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano
305
al suo bisogno di ascesi spirituale e che, solo in un secondo momento, abbia ritenuto opportuno sistemarsi a Castelvetrano. Secondo il cappuccino è molto probabile che il frate abbia trovato riparo nelle terre della nobile famiglia Tagliavia, della quale faceva parte quel Costanzo che come Procuratore dei Frati aveva sollecitato la restituzione dei beni confiscati loro dal Sovrano, ottenendone la restituzione e l’indennizzo nel 1255.16 Questa amicizia spiegherebbe la presenza di Gandolfo a Castelvetrano. Il sacerdote di Polizzi Miserendino, di contro, afferma che il frate si sia allontanato da Palermo per fuggire alla fama conquistata, e, toccati lungo il cammino vari luoghi di Sicilia, fosse poi andato a dimorare a Castelvetrano, a quel tempo solo un quieto borgo in via d’espansione. Dalla biografia di Miserendino: Castelvetrano, detta anticamente Castello de’ veterani, perché i soldati veterani dell’antica e celebre Selinunte, alla fine della loro carriera militare, si ritiravano qui, come in un luogo delizioso, per passare tranquillamente il rimanente dei loro giorni. Arrivato da queste parti Gandolfo si accorse di avere già raggiunto un luogo desiderabile, scelse come sua dimora una selva vicina all’abitato, e si diede alla preghiera. In quella porzione di terra, adesso, si erge il Venerabile Monastero della santissima Annunziata, sotto la regola del Patriarca San Domenico. Qui dunque fece albergo il frate, e non bene agiato, ma sotto una piccola capannetta formata di legni e paglia, ed esposta alle dure inclemenze delle stagioni. Poi, il tenore della vita condotto dal frate fu assai diverso dal passato, giacché in questo luogo più che altrove si applicò egli all’acquisizione delle virtù. Il suo silenzio era continuo, disperati i suoi digiuni, non aveva altro ristoro se non quello costituito da poca erba cruda e da qualche tozzo di pane ricevuto in elemosina. Tormentava poi il suo debole corpo con discipline spietate. Le contemplazioni erano lunghissime. Di tanto in tanto usciva dalla sua amata solitudine per dedicarsi agli altri, il popolo ammiratore lo seguiva e gli si affollava intorno. Benché non era quella la sola motivazione per cui la gente gli si faceva seguace: vi erano ancora i prodigi. Tradizione vuole che Gandolfo fece a Castelvetrano molti e portentosi miracoli. Nel luogo in cui
16
F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., p. 18.
306
Mirko Tamburello
abitava il frate vi era un pozzo (oggi dentro il Monastero prende il nome dal Frate Minore) le cui acque, appena assaggiate, restituivano agli infermi la sanità; si dice inoltre che Gandolfo abbia ridato la voce ad un muto, al quale mancava sin dalla nascita. Tanto ottenne da quella terra, e tanto le diede, che alla fine, Gandolfo, stanco degli onori ricevuti, decise di abbandonare Castelvetrano per spostarsi in un luogo più solitario.17
A proposito della partenza da Castelvetrano le due maggiori fonti del Sacchi differiscono nuovamente. Miserendino fa allontanare fra’ Gandolfo da Castelvetrano solo nel febbraio del 1260, per farlo giungere, dopo poco tempo, a Polizzi Generosa. Farella, invece, stima la permanenza del frate a Castelvetrano precedente alla fondazione del convento di Termini Imerese, tant’è che, secondo il cappuccino, Gandolfo, dopo essere stato a Castelvetrano e aver predicato anche in altre città, fa ritorno a Palermo. Dedicatosi, anche qui, alla predicazione nei vicini centri e avendo conquistato la solita ed odiata fama presso i fedeli, chiese di essere nuovamente allontanato e mandato in altre località; così nel 1256 lo ritroviamo a Termini Imerese per aprirvi un convento del suo Ordine e nello stesso tempo per dare sfogo al suo zelo di predicatore, portandosi nei paesi vicini.18
Testimonianze Le testimonianze agli atti del processo del 1621 per attestare la continuità e l’uniformità del culto reso al frate, al fine di ottenere la sua canonizzazione dalla santa sede, confermano la notorietà del frate anche a Castelvetrano, dove resta qualche traccia del
17 18
G. MISERENDINO, Vita virtù e miracoli del glorioso S. Gandolfo, cit., p. 11. F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., p. 19.
Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano
307
suo passaggio.19 Infatti, sulla base degli studi degli storici castelvetranesi, la città appare dotata di due chiese già nel 1346: quella di S. Maria e quella di S. Gandolfo. L’antica chiesa di S. Gandolfo, curata dalla confraternita omonima, nel 1448 si ampliava annettendosi l’oratorio dei confrati. In questa circostanza venne realizzato il Trittico, raffigurante al centro l’incoronazione della Vergine ed ai lati San Gandolfo e San Giorgio.20 A tal proposito, mi sembra doveroso ricordare brevemente i passaggi più importanti della storia di quest’opera: il Trittico dell’Annunciazione – dipinto su tavola da un autore ignoto e risalente al 1448 – conservato al Palazzo Abatellis di Palermo, originariamente era collocato nella Chiesa dell’Annunziata di Castelvetrano. La tavola manca dalla nostra città dal 1860, quando sparì, forse con la complicità di una suora del Monastero annesso alla stessa chiesa. In seguito dell’opera si perdette ogni traccia. Fin quando, nel 1997, un opuscolo21 di A. Giardina e V. Napoli diede notizia del ritrovamento del Trittico: era conservato nei depositi di Palazzo Abbatellis a Palermo. Dopo i lavori di restauro, il Trittico dell’Annunziata è pronto per tornare alla nostra città. L’evento, di enorme portata storico-artistica, avrà luogo il 26 marzo di quest’anno. Tornando alle notizie, accertate dai documenti, che testimoniano sia la permanenza del santo a Castelvetrano, sia l’importanza che questo ha avuto nella coscienza dei propri contemporanei, e anche nell’avvio di quel lungo processo che, dalla 19
Su richiesta di Martino Mira, vescovo di Cefalù, furono ascoltati a Castelvetrano, nel 1612, alcuni testimoni. Essi affermano che la chiesa dell’Annunziata, annessa al monastero delle domenicane, era anticamente dedicata a S. Gandolfo, di cui esisteva un’immagine affrescata nell’oratorio delle monache (Vedi Processus …, Polizzi 1632, pp. 126-136). 20 A. GIARDINA - F.S. CALCARA - V. NAPOLI - G.L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano, Palermo 2010, p. 253. 21 A. GIARDINA - V. NAPOLI, Due opere d’arte castelvetranesi riscoperte e commentate, Castelvetrano 1997.
308
Mirko Tamburello
venerazione di Gandolfo portò alla formazione di primordiale sentimento di unità religiosa e di identità cittadina, vanno assolutamente ricordati i lavori di Aurelio Giardina, Vincenzo Napoli, Giuseppe L. Bonanno, e Francesco S. Calcara, i quali, con la stesura di un libro dal titolo La chiesa e il monastero dell’Annunziata in Castelvetrano,22 hanno fornito agli studiosi un’ottima fonte bibliografica, ma anche documentaria, circa la storia e l’architettura della chiesa dell’Annunziata, una volta chiesa di San Gandolfo, di Castelvetrano. Prendiamo nota anche di altre importanti notizie relative al Santo e alla storia della sua chiesa: da un atto del 5 maggio 1520 sappiamo che la chiesa di San Gandolfo si andava ricostruendo adiacente alla struttura precedente, ormai prossima alla rovina - i lavori costarono complessivamente onze 99 e tarì 21 –; nel suo testamento (1525), Baldassarre Tagliavia disponeva che il suo cadavere fosse seppellito nella chiesa di San Gandolfo, dove era già tumulato il figlio, che proprio di quel santo portava il nome; nel 1526, il barone Giovan Vincenzo Tagliavia completava la fabbrica del monastero della chiesa, nel quale, già in quell’anno, facevano ingresso le prime religiose.23
Gandolfo patrono di Polizzi Generosa Secondo la biografia di Farella, il Santo, nei primi mesi del 1260, percorreva la strada che da Termini Imerese porta ai paesi delle Madonie, un altro frate lo accompagnava.24 Chi erano e dove 22
A. GIARDINA - V. NAPOLI - G.L. BONANNO - F.S. CALCARA, La chiesa e il monastero dell’Annunziata in Castelvetrano, Palermo 2010. 23 Ivi, p. 29. 24 Era usanza presso i Frati Minori di andare a due a due per il mondo, secondo i precetti della Regola di Francesco d’Assisi.
Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano
309
erano diretti? Erano fra’ Gandolfo da Binasco e il fratello compagno fra’Pasquale. Qual’era la meta dei due frati? Sono due le opinioni trasmesseci, ed ognuna è propria di diversi orientamenti storiografici: secondo la prima i due frati si dirigevano verso i monti di Petralia Soprana in cerca di un luogo solitario per dedicarsi a una parentesi di vita contemplativa più intensa. Ma, sfiniti di forze durante il cammino, trovandosi a poche miglia da Polizzi Generosa, deviarono il loro cammino verso questa città per recuperarvi le energie. Sopraggiunta intanto la Quaresima, il Santo, di cui già si era diffusa la fama di taumaturgo e di uomo virtuoso, fu invitato a predicarvi la Quaresima. Farella esclude completamente l’idea che Gandolfo possa essere giunto a Polizzi da Castelvetrano, in quanto, un’iscrizione posta su tavola esistente nella cappella del Santo a Polizzi recita: «che mentre si trovava a Palermo […] venne a Polizzi».25 La seconda opinione riferisce che, trovandosi il Frate a Palermo, sia stato invitato dai polizziani a predicare il Quaresimale del 1260 e, per questo motivo, si sia diretto verso le Madonie. Questa tesi che il Farella accetta, elimina alcune difficoltà che l’altra presenterebbe. È difficile, infatti, pensare che in pieno inverno, due Frati, si siano messi in cammino verso una località così lontana da Palermo per ricercare, sui monti, un ritiro spirituale. Inoltre questa decisione era contraria alle prescrizioni del 22 settembre 1220 e del 1255: la vita eremitica poteva esser condotta da minino tre frati, o, al più, quattro; nel nostro caso ci sono solo due frati che cercano un eremo. E ancora: se la meta del viaggio di fra’Gandolfo fosse stata realmente un eremo su di un monte, come mai, morto fra’Pasquale, primo compagno di Gandolfo, gli viene inviato dai superiori un altro compagno giovane poco adatto ad un ritiro spirituale? Un’ulteriore difficoltà, per i sostenitori dell’ipotesi del romitaggio dei frati è data dal fatto che appare improbabile che i 25
F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., p. 19.
310
Mirko Tamburello
Signori di Polizzi o il Clero locale non abbiano pensato a provvedersi di un predicatore per la Quaresima e che approfittarono della presenza del Frate per rimediare alla loro negligenza. Infatti Polizzi, a quei tempi più che ora, era uno dei centri più importanti dell’isola, sia per il numero degli abitanti che per il loro prestigio, una tale mancanza è difficile da credere ed accettare.26 Conclude quindi Farella che i due Frati Minori, sulla fine di gennaio o all’inizio di febbraio del 1260, si siano avviati per le strade montane delle Madonie in direzione di Polizzi, lo scopo del loro viaggio era la predicazione e l’attività ministeriale del tempo quaresimale. Giunto a Polizzi, Gandolfo venne accolto in una casa alle porte della città. Da qui passò a soggiornare all’ospizio annesso all’ospedale di San Nicolò de Franchis. In questo luogo, Gandolfo, visse l’ultimo mese della sua vita, che coincise con la Quaresima che si accingeva a predicare e l’ultima sua predica fu proprio quella del Mercoledì Santo, il 31 marzo 1260. Si spense il 3 aprile dello stesso anno.27 Se le ipotesi avanzate meritano credibilità, non è difficile comprendere come in così poco tempo (circa tre mesi) di soggiorno a Polizzi, Gandolfo abbia acceso l’entusiasmo dei suoi cittadini la cui venerazione per il beato si esprimerà anche nei secoli successivi alla sua morte. Solo nel 1881 Papa Leone III approvò e ratificò il decreto che confermava il culto pubblico tributato a Gandolfo di Binasco, “Santo e Beato”. Per raccontare la vita di San Gandolfo i suoi biografi hanno attinto in larga misura al Processus del 1621, nei cui atti era inclusa, per altro, la prima fonte di notizie su Gandolfo Sacchi, la Legenda, scritta intorno al 1320 dal vescovo di Cefalù Giacomo di Narni.
26 27
F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, cit., pp. 21-22. Ivi, p. 27.
Fra’ Gandolfo da Binasco a Castelvetrano
311
L’importanza di San Gandolfo per Castelvetrano Alla fine del XVII secolo fu proclamato patrono di Castelvetrano S. Giovanni Battista. La finalmente avvenuta proclamazione del santo patrono non è altro che la fine di quel lungo processo che culminò con la formazione dell’identità cittadina sia da un punto di vista propriamente politico e territoriale, sia da un punto di vista simbolico. Questo difficile percorso trova la sua origine proprio nell’operato di fra’Gandolfo a Castelvetrano, nelle sue virtù e nelle caratteristiche della sua identità. Infatti di particolare ispirazione furono, per la formazione di un aggregato urbano e sociale, certi valori come l’austerità e la semplicità, valori sicuramente incarnati dal francescano. Per meglio spiegare l’importanza di fra’ Gandolfo per la nascita sociale di Castelvetrano riporto di seguito una citazione chiarificatrice, estrapolata dal libro La città palmosa. Una storia di Castelvetrano: Le leggende e la considerazione che accompagnarono la permanenza del santo a Castelvetrano, quando il borgo era ai primordi della sua storia, costituiscono una prima tappa di quel percorso di costruzione di uno spazio del sacro, per cui, nella figura e nell’opera del Frate da Binasco, la comunità volle cogliere un primo motivo di identificazione e di orgoglio cittadino.28
28
A. GIARDINA - F.S. CALCARA – V. NAPOLI – G.L. BONANNO, La città palmosa …, cit., p. 252.
Bibliografia Acta Sanctorum septembris, V, Bruxelles 1970. F.D. FARELLA, San Gandolfo da Binasco francescano, Palermo 1979. A. MUSCO (a cura di), Francescanesimo e cultura in Sicilia (secc. XIII-XVI). Atti del convegno internazionale di studio nell’ottavo centenario della nascita di San Francesco d’Assisi, Palermo 1982. Gandulphus Christi Athleta, Polizzi Generosa 2007. A. GIARDINA – F.S. CALCARA – V. NAPOLI – G.L. BONANNO, La città palmosa. Una storia di Castelvetrano, Castelvetrano 20102. A. GIARDINA - V. NAPOLI – G.L. BONANNO - F.S. CALCARA, La chiesa e il monastero dell’Annunziata in Castelvetrano, Palermo 2010. G. LEANTI, L’Ordine Francescano in Sicilia nei secoli XIII e XIV, in “Miscellanea Francescana”, 37, 1937. J. LE GOFF, L’uomo medievale, Roma-Bari 1987. G. LIBRIZZI, San Gandolfo da Binasco patrono di Polizzi Generosa, Palermo 1997. G. MISERENDINO, Vita virtù e miracoli del glorioso S. Gandolfo, Palermo 1743. M. MOLLAT, I poveri nel medioevo, Roma-Bari 2001. A. MONGITORE, Storia delle chiese di Palermo: i conventi, trascrizione integrale dell'opera manoscritta a cura di F. Lo Piccolo, 2 voll., Palermo 2009. Processus auctoritate ordinaria et delegata a sancta Sede Apostolica formatus per Ill. ac Rev. F. Don. Stephanus Muniera, Ep.
Fraâ&#x20AC;&#x2122; Gandolfo da Binasco a Castelvetrano
313
Cephaludensem super sanctitate vitae, miraculis et veneratione piae memoriae B. Gandulphi a Binasco, Patroni Generosae Civitatis Politii, Ord. Min. S. Francisci, ad petitonem et instantiam Ven. Cleri saecularis et regularis Civit. Politii ac eius Magistratus, Editus ad instantiam Don Antonii Eban et Cardona et D. Francisci Rampulla Gubernatorum et Procuratorum Cappellae dicti Beati. Politii, apud Alphonsum dellâ&#x20AC;&#x2122;Isola. MDCXXXII.
Castelvetrano medievale e i Tagliavia. Una storia attraverso i diplomi pergamenacei dell’Archivio Pignatelli Aragona Cortés Mirko Tamburello L’archivio Pignatelli Aragona Cortés è formato da circa 10.000 unità cartacee e 1954 pergamene. Tale documentazione, di eccezionale valore storico, supera i confini territoriali dell’Italia Meridionale per estendersi al resto della penisola, ma anche alla Spagna e, fuori dall’Europa, al Messico, terra nella quale giunse il conquistatore spagnolo Hernán Cortés. L'archivio è costituito da diversi nuclei documentari, a loro volta composti da serie e sottoserie, formatisi in epoche diverse. Si evidenziano due grossi assi documentari principali, uno formatosi a Napoli e uno in Sicilia con sede nel palazzo Monteleone a Palermo, dimora dei Pignatelli duchi di Monteleone, archivi che, prima di essere riuniti, ebbero storie separate. Il lavoro di ricostituzione delle serie dei due archivi, integrate da quelle di recente acquisizione, terminò nel 1930. Furono estrapolate 1954 pergamene, ordinate secondo un criterio diplomatico e cronologico che, conservate in appositi armadi a cassettiera, andarono a costituire il cosiddetto “Tabulario” e delle quali se ne compose un inventario.
316
Mirko Tamburello
La prima serie del fondo è denominata Pergamene, anche se certi testi riportano ancora il suo nome più antico, e cioè quello di Diplomatico. All’interno del fondo si articolano ulteriori sottoserie denominate: Diplomi (1101-1928), 694 unità di cui 11 relative al territorio di Castelvetrano; Atti giudiziari (1411-1748), 38 unità; Bolle (1256-1926), 141 unità di cui quattro particolarmente inerenti al territorio di Castelvetrano e ai suoi possessori; Istrumenti (1276-1706), 1081 unità, di cui solo una, risalente al 1300, riassume un antico strumento notarile relativo al palazzo di Castelvetrano. La serie Pergamene è sicuramente una delle serie più interessanti dell’archivio Pignatelli Aragona Cortés, e, dal punto di vista paleografico e diplomatico, è senza dubbio la più importante. Raccoglie al suo interno tutta la documentazione riprodotta su questo supporto scrittorio e prodotta dalla famiglia in un lunghissimo arco di tempo, dal 1212 al 1926. Il mio lavoro nasce dall’attenta e meticolosa analisi del repertorio Diplomi (1101-1928). Da una totalità di 694 unità, ho selezionato le dieci pergamene di epoca medievale riguardanti il territorio di Castelvetrano, le sue pertinenze e la successione dei suoi possessori. Una delle dieci pergamene che documentano la storia della baronia di Castelvetrano non è più disponibile nel fondo dell’Archivio di Stato di Napoli. Forse andata perduta o forse distrutta dal tempo. Si tratta del diploma numero 13, dato a Messina il 2 giugno del 1303 da Federico III a Bartolomeo Tagliavia, primo barone della terra di Castelvetrano, nel quale il re prometteva al barone e ai suoi eredi di mai togliere e mai revocare il possesso di questa alla famiglia Tagliavia. I diplomi che, invece, ho potuto consultare, fotografare e studiare ripercorrono puntualmente la storia medievale della città, offrendo informazioni fondamentali che documentano sia le ori-
Castelvetrano medievale e i Tagliavia
317
gini dell’Universitas, sia la sua affermazione e la sua evoluzione in un contesto territoriale più esteso, il cosiddetto Val di Mazara. Veniamo ora all’analisi formale delle pergamene, passando in rassegna le caratteristiche principali di ognuna di esse. Alla descrizione esteriore dei documenti seguirà un esame minuzioso dei caratteri intrinseci delle carte. Tutti i nove diplomi sono stilati su pergamena dura con inchiostro scuro e coprono un periodo che va dal 1299 al 1453. La pergamena soppiantò il papiro tra il VII e l’VIII secolo, e resistette anche all’avvento della carta, cui lasciò spazio, in Sicilia, solo a partire dal XVII secolo. A conferma di ciò una costituzione siciliana di Federico II di Svevia proibiva l’uso della carta per la prassi documentaria, ritenuta dal sovrano di scarsa resistenza. È effettivamente perfetto lo stato di conservazione delle pergamene, che, ad eccezione di qualche normalissimo segno del tempo, permette scioltezza di lettura. La lettura è inoltre enormemente facilitata dalla nitidezza dell’inchiostro e dalla discreta spaziatura fra una riga di scrittura e l’altra. Quest’ultime caratteristiche sono facilmente evidenziabili nei diplomi concessi da re Federico III di Sicilia (II d’Aragona) a Bartolomeo, nel primo decennio del XIV secolo (fig. 1). La scrittura degli altri documenti si presenta leggermente diversa da quella dei primi, lo spazio di compilazione si amplia e i margini del foglio si riducono. Ne vengono fuori caratteri più piccoli su righe di poco distanziate. Presentano queste caratteristiche in particolare due documenti, il diploma concesso da re Ludovico di Sicilia a Matteo Tagliavia, figlio di Bartolomeo, nel 1346, e Fig. 1 - 18 gennaio 1299 Polizzi
318
Mirko Tamburello
quello concesso da Alfonso V a Giovanni Tagliavia, nel 1453 (fig. 2). Il diploma numero 34, concesso da Federico IV di Sicilia a Nino I Tagliavia nel 1370, evidenzia una scrittura completamente diversa da tutti gli altri documenti. Il tratto della penna appare molto più fine e poco calcato, i tratti grafici segnati più veloFig. 2 - 19 settembre 1346 cemente e senza particolare attenzioCatania ne. Potrebbe essere questa la copia di un originale. A conferma di questa tesi basta dare una rapida occhiata al diploma numero 35, concesso dallo stesso re allo stesso destinatario nel medesimo anno: la scrittura torna ad essere quella usata dalla cancelleria reale (figg. 3-4). Un’ulteriore differenza fra i due diplomi sta nel contenuto: l’unità numero 34 è un privilegio di concessione di una carica amministrativa, l’unità 35 è un privilegio di donaFig. 3 - 6 maggio 1370 Catania zione monetaria. In generale si può dire che il formato dei documenti varia in modo impercettibile, tranne che nel caso dell’orientamento della pergamena; infatti, delle nove pergamene solo tre sono scritte su un supporto di scrittura orientato orizzontalmente, le altre sei sono stilate Fig. 4 - 7 maggio 1370 Catania
Castelvetrano medievale e i Tagliavia
319
su un supporto verticale (figg. 5-6). Tutte le pergamene rappresentano delle unità documentarie, forse perché tutte sono dei privilegi regi di concessione.
Fig. 5 - 17 luglio 1307 Messina
Fig. 6 - 22 agosto 1399 Catania
La dimensione delle pergamene varia di molto, ma in generale non vi sono pelli più piccole di un odierno formato A2. L’esame dei signa nelle pergamene rivela un particolare molto interessante: l’uso delle due lettere iniziali del nome di Federico III e di Federico IV – F e R – vengono tracciate con carattere maiuscolo. Era questa una caratteristica dei documenti stilati dall’imperatore Federico II di Svevia che testimonia la tendenza dei re aragonesi ad intensificare i riferimenti al passato svevo dell’isola, non perdendo occasione di sottolineare la continuità tra la dinastia aragonese e quella degli Hohenstaufen (figg. 7-8-9).
Fig. 7 - 18 gennaio 1299 Polizzi
320
Mirko Tamburello
Fig. 8 - 17 luglio 1307 Messina
Fig. 9 - 7 maggio 1370 Catania
Una croce greca potenziata caratterizza due delle pergamene analizzate, si tratta del diploma numero 34 e 56. La croce è il signum più comune nei documenti medievali (figg. 10-11).
Fig. 10 - 6 maggio 1370 Catania
Fig. 11 - 22 agosto 1399 Catania
Un’ulteriore analisi può esser fatta da un punto di vista storiografico, ripercorrendo passo passo l’avvicendarsi dei re di Sicilia della casata di Aragona e parallelamente quello dei baroni di Castelvetrano. Il primo periodo risulta fortemente documentato attraverso cinque pergamene sulle dieci totali. È il periodo del re-
Castelvetrano medievale e i Tagliavia
321
gno di Federico II d’Aragona, primo re di Sicilia, che per primo concede la terra di Castelvetrano a Bartolomeo Tagliavia. Successore di Federico è Pietro II di Sicilia che regna nell’isola per un periodo limitato, dal 1337 al 1342, periodo in cui la terra di Castelvetrano passa dalle mani di Bartolomeo a quelle del figlio, Nino I. Il diploma numero 20 del 1346 è un privilegio che Ludovico, terzo re di Sicilia, concede a Matteo Tagliavia, terzo barone di Castelvetrano. Altra testimonianza documentaria che segna l’avvicendarsi parallelo di re aragonesi e componenti della famiglia Tagliavia. Il regno di Federico IV di Sicilia dura per vent’anni, dal 1355 al 1377. In questo periodo a Castelvetrano governa Matteo che, proclamato barone da re Ludovico, mantiene il potere fino al 1396, quando re di Sicilia era già Martino I. Un vuoto documentario provoca un grande salto in avanti nella storia, e da Martino I di Sicilia si passa ad Alfonso V d’Aragona. Quest’ultimo concede con diploma del 1453 la baronia a Giovanni Tagliavia, sesto barone di Castelvetrano.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale in età tardoantica* Emma Vitale
Il tema del lungo percorso che portò, nei secoli della tarda antichità, alla lenta affermazione della religione cristiana nel lembo più occidentale della Sicilia, oltre a presentare un notevole grado di complessità a vari livelli, solo negli ultimi trent’anni ha iniziato a ricevere l’attenzione che merita, anche sullo sfondo dei progressi compiuti dell’indagine archeologica sul primo Cristianesimo in Africa settentrionale e nel Mediterraneo occidentale.1 *
Desidero anzitutto ringraziare il professor Alessandro Musco e gli organizzatori del convegno, che, con la loro cortesia, hanno voluto coinvolgermi in questa importante iniziativa culturale incentrata sul comprensorio territoriale di Selinunte e Castelvetrano, il cui fascino si conserva immutato nei secoli. 1 Superata l’antica tesi dell’origine apostolica della Chiesa siciliana, la ricerca storica, rivalutando in misura crescente l’apporto delle fonti archeologiche, privilegia l’analisi dei contesti sociali, economici e culturali in seno ai quali andò affermandosi il nuovo credo, nel quadro dell’assetto insediativo e giurisdizionale dell’Isola fra la Tarda Antichità e la conquista bizantina: L. CRACCO RUGGINI, «La Sicilia tra Roma e Bisanzio», in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, pp. 3-37; ID., Sicilia III/IV secolo: il volto della non-città, in «Kokalos» 28-29 (1982-83), pp. 477-515; ID., «Il primo Cristianesimo in Sicilia (III-VII secolo)», in Il Cristianesimo in Sicilia dalle origini a Gregorio Magno. Atti del Convegno, Caltanissetta 1987; E. DE MIRO, Città e contado in Sicilia tra il III e il IV secolo d.C., in «Kokalos» 28-29 (1983-84), pp. 319-
324
Emma Vitale
Dati vecchi e nuovi vengono, così, riletti secondo gli attuali orientamenti degli studi, nell’ottica della recuperata centralità dell’Isola rispetto alle grandi direttrici di comunicazione tra Italia, Africa e vicino Oriente, a partire dalla riforma amministrativa di Diocleziano e fino ad almeno tutta l’età bizantina. La sinergia fra la ricerca sul campo, l’analisi del rapporto fra viabilità e territorio, la lettura del contesto ceramico come esito del rapporto – spesso dialettico e variamente articolato – fra processo produttivo e scambio commerciale, nel quadro delineato dalle fonti storiche, letterarie ed epigrafiche, ha determinato il progressivo emergere di una consapevolezza del paesaggio tardoantico del tutto nuova rispetto ad appena qualche decennio addietro. Segnatamente, nell’Ovest della Sicilia, l’attenzione per l’ambiente rurale ha trovato espressione in una serie di ricognizioni topografiche e di indagini sistematiche: da Mazara ad Entella, dalla Monreale Survey a Prizzi, Corleone e Baucina, da Segesta a Selinunte e ad Alcamo, nuovi dati si sono aggiunti a un quadro delle dinamiche del popolamento caratterizzato, fino ad allora, da troppe
329; M. MAZZA. «La Sicilia fra tardo-antico e alto medioevo», in La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee. Atti del Convegno, Galatina 1986, pp. 43-84; G. BEJOR, «Gli insediamenti della Sicilia romana: distribuzione, tipologie e sviluppo da un primo inventario dei dati archeologici», in A. GIARDINA (a cura di), Società romana e Impero tardoantico, III. Le merci, gli insediamenti, Roma-Bari 1986, pp. 463-519; R.M. BONACASA CARRA, «La Sicilia», in Alle origini della parrocchia rurale (IV-VIII sec.). Atti della giornata tematica dei seminari di Archeologia Cristiana (École Française de Rome, 19 marzo 1998), Città del Vaticano 1999, pp. 167-180; ID., «Aspetti della cristianizzazione in Sicilia nell’età bizantina», in Byzantino-Sicula IV. Atti del I Congresso Internazionale di Archeologia della sicilia bizantina (Corleone, 28 luglio-2 agosto 1998), Palermo 2002, pp. 103-117 (Istituto siciliano di studi Bizantini e Neoellenici, Quaderni, 15); F.P. RIZZO, Sicilia cristiana dal I al VI secolo, vol. I, Roma 2005 (Istituto Siciliano per la Storia antica. Testimonia Siciliae Antiqua I, 14), pp. 60-70.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
325
lacune.2 Come si sa, infatti, sulla conoscenza della tarda antichità siciliana ha a lungo gravato un vistoso sbilanciamento fra i territori dal Simeto al Platani – dove si concentrava, tradizionalmente, la quasi totalità della «Sicilia cristiana» – e la cuspide nordoccidentale dell’Isola, caratterizzata da una povertà di dati che, tuttavia, non convinceva gli specialisti per più di una ragione. In primo luogo, proprio per quella stessa ricchezza di risorse e per quel rapporto privilegiato con il mare, che l’avevano resa, da sempre, una delle aree territoriali più ambite di tutto il Mediterraneo antico; ancora (e di conseguenza), per la favorevole situa2
M.G. CANZANELLA, «L’insediamento rurale nella regione di Entella», in Atti delle Prime Giornate Internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 19-22 settembre 1991), Gibellina-Pisa 1992, I, pp. 151-172; B. CALAFATO - S. TUSA - G. MAMMINA, Uomo e ambiente nella storia di Mazara del Vallo. Indagine topografica nell’agro mazarese, Palermo 2001; A. CORRETTI - M. GARGINI C. MICHELINI - M.A. VAGGIOLI, Tra Arabi, Berberi e Normanni: Entella ed il suo territorio dalla tarda Antichità alla fine dell’epoca sveva, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes» 116/1 (2004), pp. 145-190; C.A. DI STEFANO, «La Sicilia occidentale fra il IV e il V secolo d.C.: il contributo della ricerca archeologica», in M. CROCIATA - M.G. GRIFFO (a cura di), Pascasino di Lilibeo e il suo tempo. A 1550 anni dal Concilio di Calcedonia, Caltanissetta-Roma 2002, pp. 79-86; A. FILIPPI, «Da Alcamo a Trapani. L’abitato rurale fra l’età imperiale e l’alto medioevo», in ByzantinoSicula IV, cit., pp. 375-383; J. JOHNS, «Monreale survey. L’insediamento nell’alto Belìce dal Paleolitico superiore al 1250 d.C.», in Atti delle Prime Giornate Internazionali di studi sull’area elima (Gibellina 19-22 settembre 1991), cit., pp. 407-420; A. MOLINARI, Segesta II. Il castello e la moschea (scavi 1989-1995), Palermo 1997; F. OLIVERI, Contrade ed insediamenti nel comune di Prizzi, Palermo 1989; F. SPATAFORA, «Ricerche e prospezioni nel territorio di Corleone», in Atti delle Seconde Giornate Internazionali di studi sull’area elima (Gibellina 22-26 ottobre 1994), III, Gibellina-Pisa 1997, pp. 1273-1286; A. VINTALORO - A. SCUDERI, Corleone archeologica, I. Studio storico archeologico sul territorio corleonese, Corleone 1995; F. MAURICI, La Sicilia occidentale dalla tarda antichità all’età islamica, Palermo 2005; D. GIORGETTI (a cura di), Le fornaci romane di Alcamo. Rassegna ricerche e scavi 2003/2005, Roma 2006.
326
Emma Vitale
zione dei collegamenti viari, documentati dall’Itinerarium Antonini sia in relazione con l’entroterra rurale (percorso interno Agrigento-Palermo) che con le grandi città metropolitane (direttrice costiera Agrigento-Lilibeo-Palermo); infine, per il fatto di ricadere sotto la giurisdizione della sede episcopale di Lilibeo, una delle più antiche e prestigiose dell’Isola, citata già da papa Leone Magno e rimasta fedele all’ortodossia romana per tutta la durata della sua storia. Fino a non più di vent’anni fa, però, il territorio di Castelvetrano rappresentava ancora uno dei fortunati indicatori della presenza cristiana nel frammentario e rarefatto panorama della Sicilia occidentale. Nel 1885 Giuseppe Fiorelli dava conto, in Notizie degli Scavi di Antichità, delle scoperte effettuate dal Salinas nella vasca per la raccolta delle acque della sorgente di Bigini, sei chilometri a sud-est di Castelvetrano.3 Secondo la relazione, la vasca moderna risultò sovrapposta ad un bacino di epoca romana del diametro di dieci metri, connesso al braccio di un acquedotto e caratterizzato dal deposito di un buon numero di lucerne e di monete, che furono acquistate per il Museo di Palermo. Il Fazello (De Rebus Siculis, l. VI), intorno alla metà del XV secolo, descriveva le strutture, allora visibili, delle opere idrauliche connesse alla vasca di Bigini, attribuendole al sistema di approvvigionamento idrico di Selinunte, da cui il nome di “vasca selinuntina”. Le lucerne si collocavano fra gli inizi dell’Impero e la tarda antichità, mentre, fra il materiale numismatico recuperato, la moneta più tarda recava una contromarca di Eraclio Costantino (612-641 d.C.). Anche se un consistente nucleo di manufatti andò disperso, l’accurata documentazione grafica non ha lasciato dubbi circa la presenza di prodotti di importazione nordafricana 3
G. FIORELLI, Castelvetrano. Relazione del cav. prof. A. Salinas sugli acquedotti di Selinunte e sulle lucerne trovate nella vasca di Bigini presso Castelvetrano, in «Notizie degli Scavi» (1885), pp. 288-298.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
327
quali le lucerne in terra sigillata delle forme Atlante VIII (nelle varianti A1c e A2a) e X (varianti A1a e B1a). Fra queste ultime, alcune recano sul disco decorazioni chiaramente cristiane, come la croce monogrammatica e la croce gemmata a bracci patenti (fig. 1).4 Oggi sappiamo che, se la lucerna di forma VIII copre il 20% del volume delle importazioni fra il IV e il V secolo, con l’africana classica X A1a e con il vasellame fine Fig. 1 - Castelvetrano, da mensa in terra sigillata D si raggiunge il lucerne dalla vasca di picco massimo fra il V e buona parte del VII Bigini (da Carra 1992) secolo: dati che rivelano la solidità della rete di relazioni economiche e commerciali fra l’Isola e l’opposta sponda del Mediterraneo, che continuò fino a ben oltre le soglie dell’età bizantina.5 In tale contesto, il sistema di nuclei insediativi e necropolici che, a partire da Costantino, iniziò a rivestire fittamente le campagne, sia lungo le direttrici della viabilità preromana che lungo i nuovi percorsi tardoantichi, concordemente si interpreta come il segno tangibile della rifioritura economica e sociale seguita all’istituzione dell’annona costantinopolitana nel 332 d.C., che fece aumentare in modo assai rilevante la richiesta del grano siciliano, con il conseguente intervento diretto di facoltosi esponenti dell’aristocrazia romana fra cui si annoverano,
4 R.M. BONACASA CARRA, Quattro note di Archeologia Cristiana in Sicilia, cit., fig. 5 a-d. 5 R.M. BONACASA CARRA - E. VITALE, «Ceramiche di produzione locale e ceramiche di importazione nella Sicilia tardoantica», in Ruolo mediterraneo della Sicilia nella tarda antichità. Atti del IX Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia antica (Palermo, 9-13 aprile 1997), in «Kokalos» 43-44 (199798), tomo I/1, Roma 2000, pp. 383-385.
328
Emma Vitale
come ben si sa, pure i domini delle sontuose dimore di Philosophiana, di Patti Marina e del Tellaro.6 Sullo sfondo del nuovo assetto del paesaggio, organizzato in funzione degli estesi possedimenti fondiari, nel corso della tarda antichità il Cristianesimo andò affermandosi con gradualità; le trentuno chiese rurali censite da Rosa Maria Carra, sono di fatto l’unica evidenza superstite di altrettanti «agglomerati secondari», ormai scomparsi, che facevano capo alle grandi diocesi paleocristiane con sede nelle antiche città della costa. Si sostiene, ormai, con crescente convinzione che fu proprio il territorio fra Lilibeo e Agrigento ad aver giocato un ruolo chiave nell’arrivo e nella diffusione del Cristianesimo nella Sicilia occidentale: e, più nello specifico, la diocesi di Lilibeo, testa di ponte verso l’Africa proconsolare e la Byzacena, vale a dire le regioni allora più intensamente cristianizzate del Mediterraneo. D’altra parte, i rapporti della grande diocesi di Cartagine con la comunità siciliana emergono con chiarezza dalla corrispondenza intercorsa nel 250-251 fra il vescovo Cipriano e il clero di Roma a proposito dei lapsi. Caratterizzata da un ricco pluralismo che vedeva i cristiani accanto ai pagani e agli ebrei, con tenaci sopravvivenze cultuali in grado di generare forme di superstizione pagano-cristiane, l’Isola sempre si distinse per la salda fedeltà del suo episcopato alle direttive della cathedra Petri, anche durante la controversia pelagiana e in presenza dell’arianesimo che, nella Sicilia occidentale, determinò episodi di aspra tensione; ne rimase vittima, fra gli altri, pure il vescovo Pascasino di Lilibeo, 6
R.M. BONACASA CARRA, Quattro note di Archeologia Cristiana in Sicilia, cit., p. 28; ID., «Aspetti della cristianizzazione in Sicilia nell’età bizantina», cit., pp. 105-107; C.A. DI STEFANO, «La Sicilia occidentale fra il IV e il V secolo d.C.: il contributo della ricerca archeologica», cit., pp. 69-73; R.M. BONACASA CARRA, «Il primo Cristianesimo in Sicilia e i rapporti con l’Africa romana tra III e V secolo», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia. Catalogo della mostra, Palermo 2007, pp. 131-133.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
329
che, intorno alla metà del V secolo, ebbe a subire un’amarissima captivitas per mano dei Vandali.7 Il particolare legame con l’Africa cristiana emerge in modo impressionante dalla decorazione della nota basilica cimiteriale di San Miceli a Salemi (fig. 2), indagata nel 1893 dal Salinas, in cui le tre fasi dei pavimenti musivi si distribuiscono lungo un arco cronologico compreso fra la fine del IV e il VII secolo. Il paviFig. 2 - Salemi, basilica di San Miceli (da Carra 1992) mento B, riferibile alla seconda fase della chiesa, nell’impaginato geometrico a motivi stellari ad Est e ad ottagoni e quadrati ad Ovest, mostra uno strettissimo legame con la regione cartaginese, tanto nell’onomastica delle epigrafi musive di Kobouldeus e Maxima, quanto nello schema decorativo, di cui sono stati evidenziati con insistenza i punti di contatto – oltre che con Kaukana e con la basilica di S. Croce Camerina – con la nutrita serie di mosaici funerari rinvenuti in diverse località della Tunisia e conservati nel Museo del Bardo. Fra i mosaici del Bardo, quello con la celebre rappresentazione dell’Ecclesia Mater di Tabarka, attribuito al pieno V secolo, evidenzia con chiarezza le strettissime analogie planimetriche e strutturali fra la coeva edilizia di culto dell’Africa Proconsolare e quella superstite della Sicilia paleocristiana: dalla 7
R.M. BONACASA CARRA, «La Sicilia», cit., pp. 167-180; ID., «Il primo Cristianesimo a Lilibeo: aspetti, problemi e attualità della ricerca archeologica», in M. CROCIATA - M.G. GRIFFO (a cura di), Pascasino di Lilibeo e il suo tempo, cit., p. 92; R.M. BONACASA CARRA, «Il primo Cristianesimo in Sicilia e i rapporti con l’Africa romana tra III e V secolo», cit., pp. 133, 135-137; C. GRECO, «Testimonianze paleocristiane e bizantine nel territorio della provincia di Trapani», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia, cit., pp. 217-218.
330
Emma Vitale
presenza di un’abside gradata alla divisione in tre navate, dall’altare con ciborio sorretto da colonne al centro della navata alla copertura a capriate lignee.8 A Marsala, il sorprendente apparato decorativo pittorico dell’ipogeo di Crispia Salvia, portato in luce nel Fig. 3 - Marsala, ipogeo di Crispia 1996 in via M. D’Azeglio, dopo un Salvia (da Giglio 1996) primo inquadramento cronologico al pieno II secolo in base all’analisi del testo epigrafico della defunta eponima, è stato più correttamente riferito alla prima metà del secolo successivo (fig. 3).9 Al linguaggio stilistico e formale tardoantico rimandano, infatti, sia la frontalità che la tendenza alla stilizzazione delle figure. Negli affreschi della tomba 2, cinque 8
B. PACE, La basilica di Salemi, in «Monumenti Antichi dell’Accademia di Lincei» 24 (1916), cc. 697-736; M. BILOTTA, Le epigrafi musive della basilica di San Miceli a Salemi, in «Felix Ravenna» 113-114 (1977), pp. 31-64; R.M. BONACASA CARRA, Quattro note di Archeologia Cristiana in Sicilia, p. 10 e fig. 17; ID., «Il primo Cristianesimo in Sicilia e i rapporti con l’Africa romana tra III e V secolo», cit., pp. 137-139; F.P. MASSARA, «I mosaici paleocristiani e bizantini della Sicilia: osservazioni iconografiche», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia, cit., pp. 165-167; C. GRECO, «Testimonianze paleocristiane e bizantine nel territorio della provincia di Trapani», cit., p. 224. 9 R. GIGLIO, Lilibeo: l’ipogeo dipinto di Crispia Salvia, Palermo 1996; R.M. BONACASA CARRA, «Nota lilibetana: a proposito dei cimiteri tardoantichi di Marsala», in Domum tuam dilexi. Miscellanea in onore di Aldo Nestori, Citta del Vaticano 1998, pp. 143-154; R. GIGLIO, «Nuovi dati della necropoli paleocristiana di Lilibeo: note preliminari», in M. CROCIATA - M.G. GRIFFO (a cura di), Pascasino di Lilibeo e il suo tempo, cit., pp. 105-110; R. GIGLIO, «Recenti rinvenimenti nella necropoli paleocristiana di Lilibeo: note preliminari», in Scavi e restauri nelle catacombe siciliane, Città del Vaticano 2003 (Scavi e restauri pubblicati a cura della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, 3), pp. 66-70.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
331
personaggi sono intenti a brindare intorno a uno stibadium davanti ad una mensa tripes, alla presenza della defunta-flautista rappresentata su uno sfondo di rose di colore rosso (fig. 4): il tema, che con insistenza ricorre in Fig. 4 - Ipogeo di Crispia Salvia tutta l’arte funeraria romana, richiama - scena di banchetto (da Giglio la concreta offerta di rose durante i 1996) Rosalia di maggio-giugno e simboleggia la felicità eterna nei Campi Elisi. Tutta la scena, considerata nel suo complesso, allude al ben noto uso pagano di promuovere veri e propri incontri conviviali tra amici e parenti del defunto per ricordarlo senza tristezza. Se da un lato gli antecedenti sono da ricercare nelle pitture delle note edicole a naiskos lilibetane, dall’altro è assai stringente il rapporto con i coevi e realistici affreschi della catacomba dei Ss. Marcellino e Pietro a Roma (fig. 5): vivide attestazioni della mutuazione del banchetto funerario da parte dei cristiani, pur arricchito del nuovo valore semantico di sollievo spirituale ottenuto dall’estinto grazie alla preghiera dei vivi, che prelude alla beatitudine eterna. Nell’ipogeo lilibetano, la concreta testimonianza dell’espletamento del refrigerium, oltre che dalla decorazione pittorica, è data anche dalla presenza di quattro cavità circolari nel pavimento contenenti piccole olle globulari munite di coperchio, e da una piccola tavola in tufo al centro della camera, chiaro riferimento all’uso dell’offerta di cibo ai defunti. Anche se il primo impianto dell’ipogeo è inquadrabile nel II secolo, come rivela la già citata iscrizione, la cronologia degli affreschi rimanda al momento del Fig. 5 - Roma, SS. Marcellino e Pietro con scena di banchetto (da passaggio della città da munici- arcosolio Fiocchi-Bisconti-Mazzoleni 2002)
332
Emma Vitale
pio a colonia sotto Pertinace o Settimio Severo; evento che coincise con l’acquisizione di nuovo prestigio da parte di diversi esponenti della classe senatoria, grazie al finanziamento di opere pubbliche ricordato nella ricca serie di testi epigrafici di III e IV secolo, e nella sua trasformazione in tappa obbligata del percorso tra Roma e l’Africa.10 Prova ne è anche un altro eccezionale documento del grado di raffinatezza raggiunto dalla committenza lilibetana della seconda metà del IV secolo. Nella stessa Lilibeo, le latomie dei Niccolini ospitano diversi ipogei paleocristiani, impreziositi da decorazioni ad affresco cariche di analogie con le pitture di Crispia Salvia. Tra questi, l’arcosolio G del cubicolo conosciuto come «complesso NordOvest» presenta, nella lunetta, file di rose rosse con fogliame su fondo bianco chiaramente allusive al paradiso, mentre, nell’intradosso, una partizione a cassettoni realizzata con fasce di colore bruno e ocra vede l’inserimento di temi floreali e di elementi densi di valore simbolico Fig. 6 – Marsala, area dei Niccolini - complesso Sud (da Giglio 2003) come il kantharos, il calice e la croce monogrammatica. La cifra iconografica dell’habitat paradisiaco ricorre anche nella lunetta e nel sottarco dell’arcosolio A, nel cosiddetto «complesso Sud» (fig. 6), un cubicolo che, giu10
R.M. BONACASA CARRA, «Nota lilibetana: a proposito dei cimiteri tardoantichi di Marsala», cit., pp. 153-154; C. GRECO, «Testimonianze paleocristiane e bizantine nel territorio della provincia di Trapani», cit., pp. 218-220. Per una sintesi e un commento sull’apparato decorativo dell’ipogeo lilibetano cfr. G. CIPRIANO, La decorazione pittorica nei contesti funerari della Sicilia III-VI secolo, Palermo 2010 (Studi di Archeologia, 1), pp. 20-23, pp. 79-83. Per il confronto con gli esempi romani: F. BISCONTI in V. FIOCCHI NICOLAI - F. BISCONTI - D. MAZZOLENI, Le catacombe cristiane di Roma, Regensburg 20022, pp. 109-112 e fig. 126.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
333
stamente considerato la testimonianza più notevole della pittura paleocristiana di Lilibeo, comprende tre arcosoli, interamente affrescati fin nei parapetti, e un antistante pavimento musivo. Di eccezionale inte7 – Area dei Niccolini, comresse sono, in particolare, le rappre- Fig. plesso Sud - particolare della scesentazioni sui parapetti degli arcosoli na di caccia (da Giglio 2003) A e B. Nel primo, una scena cinegetica mostra un cane che insegue una lepre su uno sfondo naturalistico, rara attestazione di scena di caccia in un contesto dichiaratamente cristiano (fig. 7). Il parapetto dell’adiacente arcosolio B ha, invece, da sempre attratto l’attenzione degli esegeti per la rappresentazione di un monumentale edificio colonnato di scorcio su uno specchio d’acqua popolato di pesci (fig. 8): eco della tradizione pittorica di ascendenza ellenistico-romana e indizio di una committenza, oltre che facoltosa, ben permeata di cultura classica fin nell’avanzato IV secolo. Una cospicua serie di confronti con l’ambiente nordafricano delle villae di fine III-IV secolo, ricche di scene venatorie e paesaggistiche, è stata spesso richiamata per gli affreschi lilibetani; tuttavia, come recentemente evidenziato da Giuseppina Cipriano, sarebbe alquanto riduttivo non scorgervi – al di là della citazione di repertorio, legata alla rappresentazione dello status – l’intento di veicolare un messaggio di natura salvifica, in cui alla limpida immagine idealizzata dell’otium agreste si sovrappone il simbolico racconto della serenità che attende il defunto nella vita eterna. Non a caso, in età costantiniana, il tema cinegetico appare Fig. 8 - Area dei Niccolini, complesso Sud - particolare dell’edificio co- associato ad episodi del Nuovo Testamento in un nicchione della calonnato (da Giglio 2003)
334
Emma Vitale
tacomba romana di via Anapo.11 I poli di riferimento – Roma da una parte, l’Africa Proconsolare e la Byzacena dall’altra – fra cui si muovono le prime attestazioni della cristianizzazione della Sicilia occidentale trovano, dunque, nelle pitture marsalesi, alcuni degli esempi più luminosi e densi di valore semantico. Sulla costa africana, Dougga, Tabarka e Hippo Regius, in particolare, hanno fornito i confronti più vicini agli affreschi marsalesi. E non si può tralasciare, a tal proposito, quella che il compianto professor Antonino Di Vita ha definito l’«area sacro-funeraria» di Sidret e-Balik, presso l’odierna cittadina di Sabratha in Tripolitania (fig. 9). L’ampio complesso subdiale si impiantò, secondo lo scopritore, dopo il sisma dell’anno 310, nell’area di una cava di argilla abbandonata e rimase in uso fino al devastante terremoto del 365. Cinto da muri su tutti i lati, è dotato di letti tricliniari e di mensae in muratura per i banchetti in onore dei defunti, sepolti nella sottostante camera se- Fig. 9 – Sabratha (Libia), area sacropolcrale ipogea. I muri perimetrali funeraria di Sidret el-Balik sono interamente coperti di affreschi per circa 180 metri quadrati; l’eccezionale complesso iconografico, caratterizzato da impressionanti e vivaci scene di caccia, ghirlande con festoni e 11 R.M. BONACASA CARRA, «Il primo Cristianesimo a Lilibeo: aspetti, problemi e attualità della ricerca archeologica», cit., pp. 102-104; R. GIGLIO, «Nuovi dati della necropoli paleocristiana di Lilibeo: note preliminari», cit., pp. 112-116; R. GIGLIO, «Recenti rinvenimenti nella necropoli paleocristiana di Lilibeo: note preliminari», cit., pp. 74-81; M.A. LIMA, «Disegni e acquerelli di affreschi e mosaici paleocristiani e bizantini di Lilibeo (Marsala)», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia, cit., p. 233; G. CIPRIANO, La decorazione pittorica nei contesti funerari della Sicilia III-VI secolo, cit., pp. 23-30.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
335
amorini vendemmianti, si colloca nell’ambito della prima metà del IV secolo (fig. 10). E, ancora in Tripolitania, nell’avanzato IV secolo, il tema del Fig. 10 - Sidret el-Balik, parete nord (dettaglio di banchetto funerario ricor- scena venatoria) re nei sontuosi affreschi dell’ipogeo «di Adamo ed Eva» a Gargaresc, dove la defunta Aelia Arisuth, simbolicamente introdotta da un servo lampadoforo e da un portatore di anfora vinaria, è accompagnata dai parenti verso i dispositivi (mensa e banco semicircolare) realmente collocati presso un angolo della sala; l’adiacente cortile è riccamente affrescato con fiori dipinti, come a Lilibeo, oltre che con l’immagine dei Protoparenti, da cui deriva il nome del monumento.12 Anche a Selinunte, in anni recentissimi, sono stati rintracciati importanti testimonia della fase cristiana, di cui finora sopravvivevano scarne indicazioni: dalla nota lucerna bronzea del Museo di Palermo all’epigrafe del diacono Ausanius, rinvenuta nel 1859, databile alla metà del V secolo e conservata presso il Museo Archeologico di Palermo.13 Dell’assetto insediativo postclassico si conoscevano essenzialmente il nucleo di abitazioni impiantatesi fra i templi dell’acropoli ormai in rovina, la piccola 12
A. DI VITA, «L’ipogeo di Adamo ed Eva a Gargaresc», in Atti del IX Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1978, pp. 198-256 e ID. L’area sacro-funeraria di Sidret el-Balik a Sabratha, in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia» 53-54 (1984), pp. 273-282; R.M. BONACASA CARRA, «Il primo Cristianesimo in Sicilia e i rapporti con l’Africa romana tra III e V secolo», cit., pp. 140-141. 13 A. SALINAS, Ricordi di Selinunte cristiana, in «Archivio Storico Siciliano», n.s. 7 (1883), pp. 126-134; L. BIVONA, Iscrizioni latine lapidarie del Museo di Palermo, Palermo 1970, pp. 59-61, tav. XXIX.
336
Emma Vitale
necropoli presso il santuario della collina orientale e l’edificio insediato nel santuario della Malophoros. Dal 2004 ad oggi, una serie di indagini archeologiche condotte lungo il tratto finale del Modione/Selinos hanno determinato la scoperta del lembo di un quartiere nei pressi del porto marittimo-fluviale, che fu in uso almeno dal III al VI secolo d.C. Lo scavo di una struttura, già individuata ai primi del Novecento ed identificata sin da allora come edificio di culto, si è rivelata di grande importanza nel quadro fin qui delineato. All’interno di un vano trasformato in calcara in età medievale, si conserva, infatti, un’interessante vasca battesimale realizzata in muratura con piccoli blocchi e lastre di calcarenite di reimpiego (fig. 11). Il dispositivo costituisce una variante del tipo ottagonale, con otto piccoli alveoli radiali, all’interno dei quali si inserisce una croce greca. Il foro per il deflusso delle acque, la profondità di circa un metro e settanta e la presenza di tre gradini per lato rimandano alla liturgia battesimale per Fig. 11 – Selinunte, l’ambiente con il fonte battesimale (da Lentini 2010) immersione, con adduzione delle acque dal vicino fiume tramite un dispositivo idraulico inquadrato e sormontato da un piccolo arco che fungeva da baldacchino. I materiali in associazione e la tipologia strutturale indicano un orizzonte cronologico di VI secolo, anche sulla base dei confronti rintracciati sia in Nord-Africa ad El Atrum e nella basilica orientale di Cirene, sia in area siro-palestinese al monte Nebo e ad Huarté. Queste scoperte stanno consentendo di ricostruire le dinamiche insediative ed economico-commerciali dell’emporion presso il porto-canale e di ricucire in un quadro organico gli altri indicatori già noti della continuità di occupazione, con esiti che saranno di importanza determinante per una migliore definizione
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
337
della fase bizantina del sito, caratterizzata dalla fortificazione dell’acropoli secondo un modello individuato nei castra dell’Africa dei secoli VI e del VII.14 Alla scoperta selinuntina si è aggiunto, a partire dal 2008, un nuovo e inatteso rinvenimento sui riti dell’iniziazione cristiana nella diocesi di Lilibeo. Nel sito di Case romane a Marettimo, la prosecuzione degli scavi nell’area dell’edificio militare romano del I sec. a.C. e della chiesetta normanna ha determinato la scoperta di un edificio di culto paleocristiano, con annessa vasca battesimale nel vano a Sud dell’abside (fig. 12).15 Il fonte, orientato ad Est, è a pianta ottagonale con tre gradini sui lati est ed ovest; profondo metri 1,08 e internamente rivestito di intonaco con decorazione a marmoridea, non presenta sistema di adduzione idrica e risulta posteriore rispetto al vano che lo ospita. Fig. 12 – Marettimo, l’ambiente con il L’ingresso era previsto dalla fonte battesimale (da Ardizzone 2011) 14
C. GRECO, «Testimonianze paleocristiane e bizantine nel territorio della provincia di Trapani», cit., pp. 225-228; F. LENTINI, «L’insediamento tardoantico alla foce del fiume Modione», in S. TUSA (a cura di), Selinunte, Roma 2010, pp. 191-203 (Studia Archaeologica, 179). Per un’immagine del fonte battesimale: ivi, p. 196, fig. 7. Per la complessa simbologia del motivo cruciforme inscritto in una forma ottagonale cfr. D. MORFINO, «Le strutture battesimali nell’Africa romana. IV-VI secolo d.C.», in Il primo Cristianesimo nell’Africa romana e in Sicilia. Quattro note, Palermo 2011 (Studi di Archeologia, 2), pp. 53-55. 15 La chiesa, che sotto il profilo iconografico presenta strette analogie con gli esempi di Salemi (San Miceli) e Santa Croce Camerina (Pirrera), trova altresì confronto in edifici di culto rurali paleocristiani della Numidia e dell’entroterra libico: F. ARDIZZONE, «Un impianto battesimale nell’isola di Marettimo: cronologia, tipologia e significato», in Il primo Cristianesimo nell’Africa romana e in Sicilia, cit., p. 112 e nota 34.
338
Emma Vitale
navata sud tramite alcuni gradini; tutto l’impianto non appariva isolato, essendo stato incluso in età protobizantina in una struttura ben più ampia che aveva accolto al suo interno anche il castrum romano. In base ai dati di scavo, il complesso cultuale viene datato fra la seconda metà del V e la fine del VII - inizi del VIII secolo.16 Sulla base della recentissima classificazione di Debora Morfino, sia per la posizione in un annesso a Sud dell’abside, sia per la morfologia «a barca», la vasca battesimale di Marettimo rimanda alla Byzacena – con particolare riferimento all’episcopio di Sufetula/Sbeitla – e all’orizzonte cronologico di pieno VI secolo; si tratta, al momento, dell’unica attestazione finora nota al di fuori dell’Africa, cui rimandano tutte le caratteristiche del complesso, dalla tecnica muraria a telaio all’icnografia dell’edificio di culto, alla tipologia del fonte.17 Sotto il profilo topografico, la vicinanza di una sorgente d’acqua dolce e la collocazione della chiesa con relativo battistero all’interno di un articolato sistema di edifici, hanno indotto alla suggestiva ipotesi della presenza di un insediamento monasti16
Nella tecnica costruttiva “a telaio” si riconosce uno dei retaggi della cultura punica di questa parte dell’Isola, ma anche uno degli indicatori delle strette relazioni con il Nord Africa, dove caratterizza numerosi edifici datati tra il V e il VI secolo, in particolare a Sbeitla: cfr. ivi, p. 110 e nota 25. La data di inizio delle scorrerie per mare dei Musulmani nel 703-704 risulta compatibile con la documentazione archeologica relativa alla distruzione del sito e all’abbandono dell’insediamento. 17 In particolare, la collocazione della vasca in un annesso a Sud dell’abside corrisponde al tipo 2a: cfr. D. MORFINO, «Le strutture battesimali nell’Africa romana. IV-VI secolo d.C.», cit., pp. 26, 50 e figg. 24-25; F. ARDIZZONE, «Un impianto battesimale nell’isola di Marettimo: cronologia, tipologia e significato», cit., p. 113 e nota 35. Si ricorda la menzione, da parte delle fonti scritte, di vescovi della Byzacena rifugiatisi in Sicilia durante la persecuzione vandalica; un dato storico che, purtroppo, non ha trovato ancora adeguato riscontro nella consistenza della documentazione archeologica.
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
339
co. Laddove la supposizione si dimostrasse veritiera, il ruolo di quest’ultimo acquisterebbe dei riflessi assai interessanti, considerato che, nell’Itinerarium per maritima loca, l’isola Maritima non viene indicata come un semplice scalo sulla rotta da Capo Bon a Roma, passando per la Sicilia, ma che, al contrario, essa costituiva proprio la statio lungo questo percorso. Quanto precede ha inevitabilmente richiamato alla memoria il toponimo «isola del monaco» di Favignana islamica, già evidenziato dal Maurici, che rifletterebbe una situazione più antica.18 Ci troveremmo, dunque, di fronte a una preziosa testimonianza di monachesimo insulare, fenomeno già attestato nel Mediterraneo occidentale a partire dal IV secolo, ma soprattutto in età bizantina. Sono numerosissimi, infatti, i monasteri ricordati dalle fonti scritte negli arcipelaghi dall’epistolario gregoriano, per i quali non si dispone ancora di dati archeologici.19 Per le Eolie si ricorda, ad esempio, un monastero di S. Andrea nell’isola di Vulcano, causa di non poche preoccupazioni per il grande pontefice a motivo di comportamenti improntati a scarsa disciplina. A questo esempio si aggiunge, in pieno VI secolo, quello di Gregorio di Tours che, nei Libri Miraculorum, attesta la presenza delle reliquie dell’apostolo Bartolomeo a Lipari e di una chiesa co-
18
F. ARDIZZONE - E. PEZZINI, «Prime attestazioni cristiane nell’arcipelago delle Egadi e presenze monastiche», in R.M. BONACASA CARRA - E. VITALE (a cura di), La cristianizzazione in Italia fra tardoantico e alto medioevo. Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-25 novembre 2004), Palermo 2007, II, p. 1824; F. ARDIZZONE, «Un impianto battesimale nell’isola di Marettimo: cronologia, tipologia e significato», cit., p. 115. 19 A Pantelleria nell’VIII secolo si ha l’attestazione di un monastero greco di S. Giovanni; è recente la scoperta di un insediamento protobizantino in contrada Scauri: ivi, pp. 115-116.
340
Emma Vitale
struita sulla tomba venerata, cosa che faceva ipotizzare al Bernabò Brea l’esistenza di un santuario, mèta di pellegrinaggio.20 Numerosi sono dunque i tasselli che la ricerca archeologica e i recenti orientamenti della storiografia della Sicilia romana hanno fatto emergere negli ultimi anni. Va delineandosi un quadro del passaggio graduale dell’Isola dal paganesimo al cristianesimo, percorso lento ma inesorabile in cui la Sicilia occidentale, lungo la rotta del grano che collegava l’Africa Proconsolare a Roma, si trovò a giocare un ruolo decisivo, in merito al quale le prospettive degli studi in atto promettono sviluppi assai interessanti.
20
L. BERNABÒ BREA, Le isole Eolie dal Tardo Antico ai Normanni, Ravenna 1988, p. 16; anche a Panarea, il rinvenimento di una mensa marmorea di particolare pregio induceva lo studioso a non escludere la presenza di una realtà monastica: ibidem, pp. 22-23.
BIBLIOGRAFIA Abbreviazioni bibliografiche GIORGETTI 2006
ARDIZZONE 2011
D. GIORGETTI (ed.), Le fornaci romane di Alcamo. Rassegna ricerche e scavi 2003/2005, Roma 2006. F. ARDIZZONE, «Un impianto battesimale nell’isola di Marettimo: cronologia, tipologia e significato», in Il primo Cristianesimo nell’Africa romana e in Sicilia. Quattro note, Palermo 2011, pp. 99-122 (Studi di Archeologia, 2).
ARDIZZONE-PEZZINI 2007 F. ARDIZZONE-E. PEZZINI, «Prime attestazioni cristiane nell’arcipelago delle Egadi e presenze monastiche», in R.M. BONACASA CARRA - E. VITALE (edd.), La cristianizzazione in Italia fra tardoantico e alto medioevo. Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-25 novembre 2004), Palermo 2007, II, pp. 1815-1836. BEJOR 1986 G. BEJOR, «Gli insediamenti della Sicilia romana: distribuzione, tipologie e sviluppo
342
Emma Vitale
da un primo inventario dei dati archeologici», in A. GIARDINA (ed.), Società romana e Impero tardoantico, III. Le merci, gli insediamenti, Roma – Bari 1986, pp. 463519. BERNABÒ BREA 1988 BILOTTA 1977
BIVONA 1970 CALAFATO-TUSAMAMMINA 2001
CANZANELLA 1992
CARRA 1992
CARRA 1998
L. BERNABÒ BREA, Le isole Eolie dal Tardo Antico ai Normanni, Ravenna 1988. M. BILOTTA, Le epigrafi musive della basilica di San Miceli a Salemi, in «Felix Ravenna» 113-114 (1977), pp. 31-64. L. BIVONA, Iscrizioni latine lapidarie del Museo di Palermo, Palermo 1970. B. CALAFATO-S. TUSA-G. MAMMINA, Uomo e ambiente nella storia di Mazara del Vallo. Indagine topografica nell’agro mazarese, Palermo 2001. M.G. CANZANELLA, «L’insediamento rurale nella regione di Entella», in Atti delle Prime Giornate Internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 19-22 settembre 1991), Gibellina-Pisa 1992, I, pp.151172. R.M. BONACASA CARRA, Quattro note di Archeologia Cristiana in Sicilia, Palermo 1992. R.M. BONACASA CARRA, «Nota lilibetana: a proposito dei cimiteri tardoantichi di Marsala», in Domum tuam dilexi, Miscel-
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
CARRA 1999
CARRA 2002a
CARRA 2002b
CARRA 2007
CARRA-VITALE 1997-1998
343
lanea in onore di Aldo Nestori, pp. 143154, Città del Vaticano (1998). R.M. BONACASA CARRA, «La Sicilia», in Alle origini della parrocchia rurale (IVVIII sec.). Atti della giornata tematica dei seminari di Archeologia Cristiana (École Française de Rome, 19 marzo 1998), Città del Vaticano 1999, pp. 167-180. R.M. BONACASA CARRA, «Aspetti della cristianizzazione in Sicilia nell’età bizantina», in Byzantino-Sicula IV. Atti del I Congresso Internazionale di Archeologia della sicilia bizantina (Corleone, 28 luglio-2 agosto 1998), Palermo 2002, pp. 103-117 (Istituto siciliano di studi Bizantini e Neoellenici, Quaderni, 15). R.M. BONACASA CARRA, «Il primo Cristianesimo a Lilibeo: aspetti, problemi e attualità della ricerca archeologica», in Pascasino di Lilibeo, pp. 91-104. R.M. BONACASA CARRA, «Il primo Cristianesimo in Sicilia e i rapporti con l’Africa romana tra III e V secolo», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia. Catalogo della mostra, Palermo 2007, pp. 130-145. R.M. BONACASA CARRA-E. VITALE, «Ceramiche di produzione locale e ceramiche di importazione nella Sicilia tardoantica», in Ruolo mediterraneo della Sicilia nella
344
CIPRIANO 2010
CORRETTI et al. 2004
CRACCO RUGGINI 1980
CRACCO RUGGINI 1982
CRACCO RUGGINI 1987
Emma Vitale
tarda antichità. Atti del IX Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia antica (Palermo, 9-13 aprile 1997), «Kokalos» 43-44 (1997-98), tomo I 1, Roma 2000, pp. 377-452. G. CIPRIANO, La decorazione pittorica nei contesti funerari della Sicilia III-VI secolo, Palermo 2010 (Studi di Archeologia, 1). A. CORRETTI–M. GARGINI–C. MICHELINIM.A. VAGGIOLI, Tra Arabi, Berberi e Normanni: Entella ed il suo territorio dalla tarda Antichità alla fine dell’epoca sveva, in «Mélanges de l'Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes» 116, 1 (2004), pp. 145-190. L. CRACCO RUGGINI, «La Sicilia tra Roma e Bisanzio», in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, pp. 3-37. L. CRACCO RUGGINI, Sicilia III/IV secolo: il volto della non-città, in «Kokalos» 2829 (1982-83), pp. 477-515. L. CRACCO RUGGINI, «Il primo Cristianesimo in Sicilia (III-VII secolo)», in Il Cristianesimo in Sicilia dalle origini a Gregorio Magno. Atti del Convegno, Caltanis-
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
DE MIRO 1982
DI STEFANO 2002
DI VITA 1978
DI VITA 1984
FILIPPI 2002
FIOCCHI-BISCONTIMAZZOLENI 20022
FIORELLI 1885
345
setta 1987, pp. 87-125. E. DE MIRO, Città e contado in Sicilia tra il III e il IV secolo d.C., in «Kokalos» 2829 (1983-84), pp. 319-329. C.A. DI STEFANO, «La Sicilia occidentale fra il IV e il V secolo d.C.: il contributo della ricerca archeologica», in Pascasino di Lilibeo, pp. 69-89. A. DI VITA, «L’ipogeo di Adamo ed Eva a Gargaresc», in Atti del IX Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1978, pp. 198-256. A. DI VITA, L’area sacro-funeraria di Sidret el-Balik a Sabratha, in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia» 53-54 (1984), pp. 273-282. A. FILIPPI, «Da Alcamo a Trapani. L’abitato rurale fra l’età imperiale e l’alto medioevo», in Byzantino-Sicula IV. Atti del I Congresso Internazionale di Archeologia della sicilia bizantina (Corleone, 28 luglio-2 agosto 1998), Palermo 2002, pp. 375-383 (Istituto siciliano di studi Bizantini e Neoellenici, Quaderni, 15). V. FIOCCHI NICOLAI - F. BISCONTI - D. MAZZOLENI, Le catacombe cristiane di Roma, seconda edizione, Regensburg 2002. G. FIORELLI, Castelvetrano. Relazione del
346
GIGLIO 1996 GIGLIO 2002
GIGLIO 2003
GRECO 2007
JOHNS 1992
LENTINI 2010
Emma Vitale
cav. prof. A. Salinas sugli acquedotti di Selinunte e sulle lucerne trovate nella vasca di Bigini presso Castelvetrano, in «Notizie degli Scavi» (1885), pp. 288-298. R. GIGLIO, Lilibeo: l’ipogeo dipinto di Crispia Salvia, Palermo 1996. R. GIGLIO, «Nuovi dati della necropoli paleocristiana di Lilibeo: note preliminari», in Pascasino di Lilibeo, pp. 105-117. R. GIGLIO, «Recenti rinvenimenti nella necropoli paleocristiana di Lilibeo: note preliminari», in Scavi e restauri nelle catacombe siciliane, Città del Vaticano 2003, pp. 65-81 (Scavi e restauri pubblicati a cura della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, 3). C. GRECO, «Testimonianze paleocristiane e bizantine nel territorio della provincia di Trapani», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia. Catalogo della mostra, Palermo 2007, pp. 216229. J. JOHNS, «Monreale survey. L’insediamento nell’alto Belìce dal Paleolitico superiore al 1250 d.C.», in Atti delle Prime Giornate Internazionali di studi sull’area elima (Gibellina 19-22 settembre 1991), Gibellina-Pisa 1992, I, pp. 407-420. F. LENTINI, «L’insediamento tardoantico alla foce del fiume Modione», in S. TUSA (ed.), Selinunte, Roma 2010, pp. 191-203
Aspetti della cristianizzazione della Sicilia occidentale…
LIMA 2007
MASSARA 2007
MAURICI 2005
MAZZA 1986
MOLINARI 1997
MORFINO 2011
OLIVERI 1989
347
(Studia Archaeologica, 179). M.A. LIMA, «Disegni e acquerelli di affreschi e mosaici paleocristiani e bizantini di Lilibeo (Marsala)», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia. Catalogo della mostra, Palermo 2007, pp. 230-237. F.P. MASSARA, «I mosaici paleocristiani e bizantini della Sicilia: osservazioni iconografiche», in Sulle tracce del primo Cristianesimo in Sicilia e in Tunisia. Catalogo della mostra, Palermo 2007, pp. 164171. F. MAURICI, La Sicilia occidentale dalla tarda antichità all’età islamica, Palermo 2005. M. MAZZA, «La Sicilia fra tardo-antico e alto medioevo», in La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee. Atti del Convegno, Galatina 1986, pp. 43-84. A. MOLINARI, Segesta II. Il castello e la moschea (scavi 1989-1995), Palermo 1997. D. MORFINO, «Le strutture battesimali nell’Africa romana. IV-VI secolo d.C.», in Il primo Cristianesimo nell’Africa romana e in Sicilia. Quattro note, Palermo 2011, pp. 9-97 (Studi di Archeologia, 2). F. OLIVERI, Contrade ed insediamenti nel comune di Prizzi, Palermo 1989.
348
PACE 1916
Emma Vitale
B. PACE, La basilica di Salemi, in «Monumenti Antichi dell’Accademia di Lincei» 24 (1916), cc. 697-736. Pascasino di Lilibeo M. CROCIATA-M.G. GRIFFO (edd.), Pascasino di Lilibeo e il suo tempo. A 1550 anni dal Concilio di Calcedonia, CaltanissettaRoma 2002. RIZZO 2005 F.P. RIZZO, Sicilia cristiana dal I al VI secolo, vol. I, Roma 2005 (Istituto Siciliano per la Storia antica. Testimonia Siciliae Antiqua I, 14). SALINAS 1883 A. SALINAS, Ricordi di Selinunte cristiana, in «Archivio Storico Siciliano», n.s. 7 (1883), pp. 126-134. SPATAFORA 1997 F. SPATAFORA, «Ricerche e prospezioni nel territorio di Corleone», in Atti delle Seconde Giornate Internazionali di studi sull’area elima (Gibellina 22-26 ottobre 1994), III, Gibellina-Pisa 1997, pp. 12731286. VINTALORO-SCUDERI 1995 A. VINTALORO-A. SCUDERI, Corleone archeologica, I. Studio storico archeologico sul territorio corleonese, Corleone 1995.
Finito di stampare Ottobre 2018