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ISTITUTO EURO ARABO DI STUDI SUPERIORI

LORENZO INZERILLO

Una città di polvere e gelsomini

LE MAZARISATE

a cura di Giuseppe Inzerillo

2013 Mazara del Vallo


2 Inzerillo, Lorenzo <1905-1997> Una città di polvere e gelsomini: le mazarisate / Lorenzo Inzerillo; a cura di Giuseppe Inzerillo - Mazara del Vallo: Istituto Euro Arabo di studi superiori, 2013. 1. Folclore – Mazara del Vallo. I. Inzerillo, Giuseppe 390.094582448 CDD-22 SBN Pal0261981 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

© 2013 Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, Mazara del Vallo.


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INDICE

Nostalgia del padre di Antonino Cusumano

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Nota introduttiva di Giuseppe Inzerillo

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Album Inzerillo

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Capitolo 1 Le parole

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Capitolo 2 I luoghi

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Capitolo 3 I mestieri

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Capitolo 4 I personaggi e le storie

pag. 109

Capitolo 5 Usi e costumi

pag. 131

Appendice Glossario

pag. 145


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Nostalgia del padre di Antonino Cusumano «Il padre è morto» ha scritto lo psicanalista Massimo Recalcati. Nella liquidità dei legami familiari, è evaporata la figura paterna tradizionale, la sua autorità, la sua capacità di governo. Impreparati e confusi, incapaci di orientare regole ed azioni, desiderosi di annullare le distanze generazionali, preoccupati più dall’essere amati che dall’essere ascoltati, i padri oggi sembrano aspirare a diventare fratelli dei propri figli, complici delle loro trasgressioni, compagni dei loro giochi, amici tra i tanti che abitano la galassia dei social network. Definitivamente eclissato il padrepadrone, messo in crisi il sistema su cui si reggeva il vecchio pater familias, rischia oggi di tramontare il senso condiviso del limite, il valore simbolico della norma, l’etica della responsabilità, tutte esiziali e storiche funzioni incarnate nel ruolo sociale e culturale del genitore. La sua assenza priva i figli dei modelli di riferimento, della pedagogia della testimonianza e dell’eredità del passato. La sua abdicazione produce effetti devastanti sulla vita familiare e su quella pubblica. Può accadere così, sempre più spesso, che l’alleanza su cui si fonda il patto educativo tra insegnanti e genitori sia rovinosamente tradito da quei padri che tendono a sottrarsi alla fatica del loro ruolo, prestandosi al gioco di fare le veci dei figli nell’ansia di proteggerli dai fallimenti e rimuovere disagi e conflittualità. Eppure, non c’è chi non veda la domanda crescente presso i giovani e più estesamente nella società, della figura di un padre, non tiranno né eroe ma semplicemente padre, genitore che, pur nella sua vulnerabilità, è testimone del tempo che passa, anello imprescindibile di una catena infinita, concreto paradigma della continuità tra le generazioni. Nella consapevolezza che per oltre-


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passarlo bisogna riconoscere il debito che abbiamo con lui, la memoria è la lezione che educa alla coscienza di sé, la strategia identitaria che permette di «diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare», per usare le parole di Italo Calvino. Il padre, se è stato davvero un padre, è la memoria di ciascuno ma è anche metafora della memoria collettiva, rappresenta il patrimonio ereditato dal passato, quel che siamo stati e quel che ci appartiene, interpreta il bisogno umano e antropologico di essere avvicendati e reincarnati da chi ci sopravvive. Nel ripensare a lui ci imbattiamo in verità in un bilancio su noi stessi, sulla nostra vita, sui nostri gesti nei quali spesso ritroviamo i suoi, sui nostri modi irriflessi di incedere e di parlare che erano anche un po’ i suoi, sulle nostre stesse parole in cui a volte riconosciamo il ricordo delle sue. In un preciso momento della vita di ciascuno, del padre e del figlio, si sovrappongono non solo la linea del corpo, i segni dello sguardo, gli accenti della voce, ma anche l’ombra di certi pensieri e di lunghi silenzi, l’eco di segrete speranze e di antiche paure. A un certo punto della parabola esistenziale accade che il figlio tenda ad avvicinarsi al padre che, pur fatalmente lontano e irraggiungibile, sembra tuttavia rallentare i suoi passi fino ad annullare le distanze del tempo e dello spazio. Ritrovare e riabbracciare il proprio padre perduto è probabilmente l'impossibile e nascosto desiderio di ognuno di noi. Così è, in fondo, per Giuseppe Inzerillo che ha il privilegio di tornare a guardare al padre Lorenzo, scomparso nel 1997, e a parlare con lui e di lui attraverso questi scritti che ha raccolto, ordinato e introdotto con un’ampia riflessione sul contesto di quegli anni e sul debito colpevolmente accumulato. Al ritmo serrato di uno stridente cortocircuito di passato e presente il figlio ricorda e recupera quanto ha ricevuto in eredità, riconoscendo nel padre un modello di riferimento non solo affettivo ma anche d’ispirazione etica, civile e culturale.


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Tornano in mente le parole di Goethe: «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero», e l’insegnamento che Giuseppe Inzerillo ha maturato si gioca sul filo della nostalgia e della disillusione. Ha nostalgia del padre e della città da lui abitata e amata. A differenza di quanto comunemente si creda, la nostalgia non è un sentimento ambiguo ma nobile, muove dal disincanto e dalla consapevolezza della caducità della vita, dell’effimero scorrere del tempo. Chi ha nostalgia non rimpiange il passato ma non vuole dimenticarlo né tanto meno restaurarlo, avendo un affettuoso, laico e meditato rapporto con il mondo di uomini e cose che ci ha preceduto e magari ci ha generato. Con questo sguardo Giuseppe Inzerillo rilegge gli scritti del padre, a sua volta costruiti sul paziente esercizio della memoria, su quella fondamentale arte del ricordare che è l’esperienza più intima e distintiva della natura umana, condizione che precede e sostiene ogni atto consapevole e responsabile del presente. Nelle pagine di questo libro si annodano in un inestricabile intreccio nomi, luoghi e generazioni di un'intera comunità, si dispiega quella che con qualche approssimazione continuiamo a chiamare identità di una città, un'identità oggettivata nelle forme di un vissuto collettivo entro uno spazio carico di trame simboliche e di relazioni sociali. Il lettore mazarese vi ritroverà il senso di parole e storie familiari dimenticate, scoprirà le origini di certi riferimenti territoriali e genealogici, rinnoverà le ragioni dell’abitare e del condividere una città. Chiunque scorra queste pagine capirà che nell'orizzonte della vita comunitaria, in fondo, noi siamo davvero qualcuno perché somigliamo a qualcuno altro, e siamo riconosciuti e chiamati per nome perché figlio di persona già nota, di un padre che ci ha introdotto e tenuto per mano per le strade del centro e ci ha dato quel nome o perfino quel soprannome che tutti conoscono.


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I ritratti, le storie, le minute descrizioni di luoghi e personaggi, i piccoli aneddoti e le bizzarre curiosità che Lorenzo Inzerillo ci propone, nel mettere insieme le voci di una sorta di spoon river della Mazara del Novecento unitamente ai frammenti di un discorso civile e di un tenace rapporto amoroso con la città, rievocano le emozioni di un antico lessico familiare, le suggestioni di credenze e costumi riconducibili ad una cultura orale e popolare largamente diffusa fino a qualche anno fa. Per quel che mi riguarda gli sono grato per avermi fatto scoprire, tra le tante cose, le origini e le ragioni dell’espressione che ripeteva spesso mio padre: «A la via, ci dissi Peppe Baddra». Ricordare oggi Inzerillo con la ristampa di questi scritti, pubblicati per la prima volta su un periodico locale nel corso del 1991, ci offre l’occasione per richiamare alla memoria anche un caro amico e coraggioso giornalista prematuramente scomparso, Giuseppe Pirrello che quel giornale diresse e fu promotore di quella pubblicazione, intuendone con lungimiranza l’originale valore documentario. A guardar bene, questo libro scioglie il debito nei confronti di Lorenzo Inzerillo non soltanto del figlio Giuseppe ma anche, in verità, di tutta la città. Così che, alla fine, nell’orizzonte laico della memoria, possiamo forse ancora dire che «il padre non è morto».


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Nota introduttiva di Giuseppe Inzerillo Lorenzo Inzerillo, esploratore curioso e testimone appassionato di cronache del Novecento mazarese

Nel mese di maggio del 1991, esattamente il giorno 11, il settimanale mazarese di informazioni “International DOC 7” inizia a pubblicare a puntate, in bella evidenza tipografica, “un poderoso dattiloscritto”, suscitando tra i lettori viva curiosità. Era un libro ancora inedito, una crisalide di carta pronta per la sua naturale metamorfosi tipografica e che tuttavia – suggerisce la redazione del periodico – avrebbe acquistato valore nel tempo conservando e riunendo ogni settimana i fascicoli in edicola. Quella vasta miniera di informazioni (proverbi, modi di dire, ricorrenze laiche o religiose, antichi mestieri cancellati dall’umanesimo della tecnica e dalle convenienze economiche, obsolete denominazioni topografiche, ngiurie, cose e casi di Mazara all’alba del XX secolo) era stata pazientemente ed amorevolmente collazionata nel corso degli anni da “un anziano e distinto signore”, Lorenzo Inzerillo, che ora, senza alcuna presunzione storica o letteraria, metteva a disposizione di una platea non esigua di lettori, magari con la speranza di suscitare qualche spunto di riflessione. Perché quelle duecento pagine, in definitiva, proiettavano ancora gli odori e le immagini di una città in procinto però di sottoporsi ad una radicale operazione di chirurgia estetica dagli esiti purtroppo preoccupanti sul piano antropologico. Tutto sarebbe inevitabilmente cambiato e già si avvertivano i segni premonitori del repentino abbandono di antichi costumi e della scelta disinvolta ed impudica di condotte pubbliche e private prima inimmaginabili. Anche per questa oggettiva di-


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stinzione tra passato e presente il patrimonio culturale scoperto ed elaborato da Lorenzo Inzerillo, in tempi aridi ed avidi – sottolineava nella presentazione ai lettori un intelligente e colto redattore, Giuseppe Pirrello – forse meritava attenzione e molta fortuna. Nell’analisi critica del Pirrello, pur generosa, mancava tuttavia un interrogativo: come mai una persona non estranea alle complesse e tumultuose vicende politiche ed amministrative di Mazara, a partire dall’arrivo degli anglo-americani nell’estate del 1943 (era stato l’ultimo Presidente del Comitato di Liberazione locale e successivamente consigliere comunale ed assessore del Comune nelle amministrazioni elettive del 1946 e del 1956), chiamasse ora a raccolta nel suo presepe-teatro non più strati popolari delusi e ripiegati su se stessi dopo il crollo del mastodontico edificio marxista ma anomali personaggi alla ricerca di un autore? Erano infatti ancora vivi nella memoria di alcuni, sia pure in un convulso disordine storico e lessicale, tutti insieme, “culi a moddru”, “peri di crita”, “spillacchi”, e “senza causi di tila”. Lorenzo Inzerillo offriva ora ad ognuno simpatica ospitalità per consegnarli in futuro a qualche pallido ricercatore insieme ai loro diversificati linguaggi di una volta diventati stranieri alle nuove generazioni. In questo sorprendente lungo viaggio l’autore aveva ritrovato, o scoperto per la prima volta, l’anima autenticamente popolare di Mazara, rassegnata o ironica, povera sul piano economico ma ricca d’invenzioni verbali di sopravvivenza, beffarda e pacifica, sognatrice e dolente. L’astuzia della ragione aveva fatto capire all’autore del dattiloscritto che in fondo l’alternativa, piccola e parziale s’intende, alle degenerazioni imminenti potevano essere proprio le antiche virtù civiche e il rispetto della cittadinanza organizzata. Ad una condizione, che sulla naturale intelligenza degli abitanti non prevalesse il furbo, cioè chi, per restare nell’ambito del vecchiotto vocabolario Tommaseo-Bellini, “tira


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ad ingannare altrui con astuzia, per propria vile utilità” (si può essere più furbi degli altri, avvertiva Le Bruyère, non più furbi di tutti gli altri). Va osservato inoltre che una volta, intorno al 1400, furbo indicava il compagno di strada ma oggi a Mazara è subentrato un deplorevole sottinteso ammirativo, persino nella individuale o collettiva elusione, esplicita ma tacita, della legalità. Lungo e penoso sarebbe in questa circostanza il discorso sulla città a partire dagli anni ’60, dall’abbandono del Piano Regolatore Generale (che avrebbe disegnato un razionale profilo urbanistico ed architettonico alla successiva espansione informe dell’agglomerato costruito dall’avidità consociativa) sino al familismo di ritorno e alle pratiche di un trasformismo indecoroso mai sepolto. In questo inferno in progress realizzato gli uomini disinteressati, cioè quelli interessati alla civiltà della convivenza democratica, rimasero soli, mentre giovani diplomati e laureati, emigrando altrove, avevano reso più fragile il tessuto civile cittadino. Nell’assordante flusso della parola consolidati principi continuarono certo ad essere proclamati con voce stentorea, ma pochi cittadini erano in grado veramente di praticarli, persistendo preoccupanti vuoti pedagogici e straripante relativismo etico. Che fare se antiche liturgie politiche insensate ma compensatorie si erano ormai logorate? Lorenzo Inzerillo, coltivando il suo ristretto orticello, ritenne di qualche importanza generale costruire pazientemente un personale “Novellino” attraverso il recupero paziente e lenticolare di piccole storie di ieri, che potevano interessare e incuriosire qualche lettore. Nel frattempo continuava a temere il rischio di un vergognoso scioglimento del Consiglio comunale per sospette collusioni mafiose: la pesca col “rizzaglio” giudiziario di tanti pubblici amministratori; lo stupro delle belle tempere del concittadino Giuseppe Boscarino dissolte con la distruzione del Palazzo comunale; l’inquinamento di tutte le acque di terra e di mare; la stolta viabilità motorizzata; l’aumento della criminalità e degli


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atti di vandalismo contro persone e cose. Alla fine si rasserenava pensando ad allarmismi esagerati ed inverosimili inventati dai propalatori del pessimismo concittadino sorridente. Quando però la realtà effettuale superava ogni catastrofica previsione, tornava ad agitarsi incredulo e sbigottito. E tornava a scoprire che il vero rischio per il potere arcobaleno non era tanto l’inerte indignazione moralistica della gente, ma la capacità di esercitare in maniera continuativa e razionale le armi della critica intransigente e costruttiva, patrimonio purtroppo di esigue minoranze. Nonostante tutto, per felice contraddizione, Lorenzo Inzerillo non rinunciava a coltivare ugualmente la speranza di un futuro dal cuore antico, immaginando con la fantasia che nell’immediata polverosa periferia traboccassero ancora tralci di gelsomino. Polvere e gelsomino insieme e confusi. Proprio in quei momenti sembrava il personaggio di un racconto di Leonardo Sciascia (Il quarantotto), quel colonnello Carini senza molte speranze mentre in effetti era il cuore della speranza, «la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori».1 A chi gli chiedeva perché avesse incominciato a scrivere in tarda età replicava che qualche dimestichezza con la scrittura risaliva a decenni precedenti e che ora voleva interrogarsi ed interrogare la gente, pensando ad una sorta di funzione demiurgica ed illuministica del libro rivolto ai mazaresi. Aggiungendo poi che la metafora regressiva per la città restava sempre la fontana donata da Pietro Consagra, esaltazione del mito di Mazara con quelle quattro statue di bronzo sospese nel libero orizzonte tra cielo e mare, icone di condizioni umane diverse espresse dal gioco non verbale delle acque. Dopo l’inaugurazione incominciò la mutazione genetica cittadina e fu sovversione estetica all’interno di una più vasta incuria incivile: i sommacchi del prospiciente 1

Leonardo Sciascia, Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino 1977, pag. 161.


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lungomare occlusero l’orizzonte, il linguaggio dell’acqua divenne afono, automobili e palchi di occasionali manifestazioni annullarono l’effetto visivo, cinquanta cannelle alla base del monumento zampillarono liquido banale, mentre le statue, asciutte come un osso, immobili e con le lingue tagliate, dubitarono di poter restare ancora ad assistere al sacrilegio di Piazza Mokarta. Meglio trasferirsi un giorno a Gibellina, patria della scelta definitiva di Pietro Consagra. Questa fontana non era un semplice oggetto ma uno strumento simbolico della storia, un riverbero della pietas laica nei confronti degli uomini e dei monumenti artistici, magari per contribuire ad accrescere la coscienza civica della gente. Così l’indifferenza collettiva straccia invece pagine di storia. Ancora oggi qualcuno non immemore richiede alla naturale devozione filiale di realizzare finalmente quel volume che nel 1991 Giuseppe Pirrello auspicava, magari con qualche integrazione idonea a rappresentare la meditazione costante dell’autore in rapporto al lungo impegno di cittadino. C’è nell’esortazione di tanti amici il fascino della riscoperta, tra l’altro, della parsimonia mazarese di una volta, contrapposta alle devastazioni di un consumismo senza anima e sostanzialmente disperato. Certo nel quasi libro di Lorenzo Inzerillo è doveroso scontare non pochi errori ortografici di trascrizione, ripetizioni fastidiose ed incertezze sintattiche e lessicali, ma, come replicava il professore Franzò al suo lontano alunno debole in italiano e inopinatamente diventato un detestabile Procuratore della Repubblica, l’italiano non è l’italiano, è il ragionare.2 Comunque sia ora la pubblicazione, con la sua funzione ortatoria, si realizza e va ad arricchire una koinè cittadina impareggiabile e specifica che attraverso miti, leggende e dicerie parla ai lettori di oggi, con la speranza che in quel variegato impasto linguistico, religioso, etnico e perfino 2

Leonardo Sciascia, Una storia semplice, Adelphi, Milano 1989.


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fisiognomico i mazaresi, che anticamente si conoscevano tutti, possano tornare, con l’ausilio di queste pagine, a costruire una nuova identità. Fino a qualche decennio addietro tutti conoscevano Peppi Baddra, don Cola l’ugghiaru, Vitu lu Checcu, Vàrtulu Buzziddru e la famiglia Diadema che orgogliosamente presentava un infante dotato di stupefacenti attributi virili (che sarà chiamato appunto Ciolla, soprannome esteso in seguito indebitamente a tutto il parentado). Ma ora, con la dilatazione informe dell’agglomerato urbano, ognuno è ignoto a se stesso e agli altri nella prigione del condominio. Lorenzo Inzerillo, se non altro per motivi anagrafici, ne conosceva molti, oppure aveva da altri meno giovani appreso modi di dire originali e un vocabolario colorito e ce li presenta nella loro umanità (fu anche testimone oculare, come ricorda Vita Maria Russo3, di gustosi episodi collegati a manifestazioni musicali e teatrali). Nonostante la confessata “cultura limitata e periferica”, era soddisfatto quando la sua innata febbre conoscitiva riusciva a recuperare frammenti di identità cittadina, pezzetti di uno specchio rotto da ricomporre in tutti i modi possibili, come nel caso delle “ngiurie”, di origine semplice o misteriosa, riconosciute e accettate o sdegnosamente rifiutate, che inevitabilmente lo portavano ad esplorare tante vite di concittadini, schegge di una sua autobiografia assente o inconsapevole. La sua bulimia della lettura, da giovane, lo spinse a costruire una faticosa e sfaccettata piccola biblioteca, lontana dalle facili seduzioni del pensiero unico dell’ideologia ossificata o cristallizzata. Era stato deprivato di un ordinato e prolungato corso di studi e volle così prendersi la sua silenziosa piccola rivincita. Negli scaffali si ritrovarono 3

Vita Maria Russo, Il teatro Garibaldi di Mazara del Vallo. Storia e repertorio, tip. Buffa, Mazara del Vallo, 2001, pag. 8. Si deve al premuroso interessamento di V. M. Russo la conservazione di diversi scritti, affidati al Comune di Mazara il 24 settembre 1997 e successivamente depositati presso l’Archivio Storico cittadino.


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quindi libri sugli emarginati sociali in attesa di una redenzione sempre annunciata e altri di gusto salottiero delle classi alte della società: i volumi di Victor Hugo (I lavoratori del mare, L’ottantanove) e di Massimo Gorki (La madre, La spia), densi di furori rivoluzionari, stavano accanto a quelli di Guido da Verona (Colei che non si deve amare, Mimì Bluette, fiore del mio giardino, Scioglie le trecce, Maria Maddalena, Mata Hari, la danza davanti alla ghigliottina). In solitudine sospetta, di quest’ultimo scrittore, faceva poi mostra di sé una trasposizione goliardica del romanzo manzoniano, I Promessi Sposi, dove Lucia, per farsi strada nella vita, non si rifiuta a nessuno, tranne che allo sventurato Renzo. A distanza di tanti decenni appare difficile ricordare tutti i libri, ad eccezione di centinaia di libretti di opere liriche e degli scritti degli storici locali Filippo Napoli e Leonardo Bonanno. E tanta carta riempita dalla scrittura musicale. Con quella piccola biblioteca il titolare di un modestissimo titolo di studio, la sesta elementare, onorava se stesso all’interno di una comunità che ora apre centinaia di pizzerie, gelaterie, pasticcerie e ristoranti rumorosi e privi dei segni della convivialità, mentre purtroppo stentano a sopravvivere le superstite librerie private (e quella pubblica non sta per niente bene in salute...). Sarebbe incompleta questa introduzione che si sforza di spiegare il significato delle “Mazarisate” nel contesto di una storia recente della città se non si accennasse brevemente all’educazione civica di una persona che, come e insieme ad altri, nasceva alla vita democratica attraverso discussioni accese, polemiche costruttive, approfondimenti di buon senso. Frequentò, liberamente, tre Università mazaresi. Quella di Marcuzzu lu scarparu che in via Garibaldi, di fronte allo slargo di Casa Villani, impegnato con diligenza nella sostituzione di una suola o al rinforzo di un tacco col firruzzu antiusura, comunicava la felicità dei popoli nel segno (o sogno) rivoluzionario di Lenin e Stalin; quella di Vito Aleo, il verduraio di via Bagno che in mezzo agli


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ortaggi, laconico e perentorio, ripeteva l’insegnamento immortale di Marx ed Engels, di tanto in tanto interrotto nella esposizione dagli acquisti inopportuni delle massaie; e infine quella Università meno dogmatica, e perciò sospettabile di eresie riformiste, del sarto Giametta che intratteneva i presenti sul socialismo liberale del quale gli aveva parlato un amico con ammirazione. Tra tacchi, suole, ravanelli, carciofi, bottoni, forbici ed aghi si era formata così una modesta classe dirigente locale, né di estrazione agricola e nemmeno marinara, non ancora avviluppata nelle pastoie delle ambizioni personali. Più tardi avvenne un forzoso risveglio e alcuni tornarono al piccolo mondo antico, alla saggezza popolare, alle sane abitudini dei genitori e dei nonni. Altri s’incamminarono su strade impervie senza bussole ideali e con molti convincimenti di estrema fragilità morale. Nella sua affettuosa esercitazione pedagogica Lorenzo Inzerillo, consapevole che talvolta i libri più rivoluzionari sono proprio quelli conservatori, che guardano al passato, volle sottrarre alla incerta e mutevole tradizione orale, di per sé deperibile, una preziosa miniera di informazioni con l’illusione di offrire efficaci punti di riferimento ideali alle nuove generazioni. Ma vincerà il profumo dei gelsomini oppure la polvere coprirà anche i sentimenti?


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Lorenzo Inzerillo: note biografiche

Lorenzo Inzerillo nacque a Mazara del Vallo il 23 giugno del 1905 (alcuni documenti, italiani o stranieri, riportano stranamente la data del giorno successivo o, addirittura, del 23 luglio del medesimo anno). La grande crisi economica e finanziaria del 1929, partita dagli Stati Uniti, aveva inciso anche sul gramo reddito delle famiglie povere – ed erano tante – di Mazara, limitando quasi del tutto ogni prospettiva occupazionale giovanile. Fu costretto ad emigrare, come tanti, nella dirimpettaia Tunisia, allora sottoposta al Protettorato della Francia. Era il 21 aprile del 1931, Natale di Roma. Qualcosa è stato scritto, anche di recente, su questa massiccia emigrazione anomala che già da qualche lustro avevano intrapreso agenti finanziari, braccianti agricoli, potatori, agricoltori emergenti in cerca di fortuna, artigiani, piccoli negozianti e disperati privi di tutto. Lorenzo Inzerillo, sbarcato a La Goulette, si ritrovò in quella repubblica siciliana di oltre ottantamila abitanti chiamata la Petite Sicile. Subito dopo scelse di gestire a Gafour, allora importante snodo ferroviario, un confortevole Salone “Coiffer pur hommes et dames”. Al termine della giornata poi si esibiva con un’orchestrina locale e talvolta, quando gli era possibile, si ritrovava nella redazione di qualche giornale in lingua italiana a parlare delle prospettive politiche con esponenti di spicco dell’emigrazione antifascista, ad indirizzo prevalentemente marxista, come Giorgio Amendola, Pietro Valenza, Velio Spano, che poi, insieme ad altri copriranno ruoli importanti nel dopoguerra italiano. Va pure considerato che tale iniziazione politica aveva profonde e non lontane motivazioni, cioè da quando, nato in una famiglia ai limiti della povertà, vide la sua aurorale carriera scolastica interrotta e spezzata perché il padre combatteva nella tra-


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gedia della Guerra mondiale, la prima vicenda effettivamente unitaria degli italiani, per anni fianco a fianco di tanti commilitoni in un ribollente miscuglio di etnie, lingue, caratteri e gastronomie della miseria. Riuscì comunque a conseguire, il 10 luglio del 1915, l’Attestato di compimento del corso elementare inferiore, cioè il titolo di studio necessario per l’ammissione alla quarta classe ma non idoneo ai fini del proscioglimento dall’obbligo scolastico, secondo l’ordinamento giuridico dell’epoca. Poi, nell’anno scolastico 1917-18, con il padre impegnato nelle ultime fasi della guerra nelle terre quasi redenti, conseguì la licenza della sesta elementare, un titolo decoroso in una nazione che registrava ancora larghe sacche di analfabetismo. La sospensione degli studi fece maturare nel suo animo il convincimento di essere vittima di una forte indelebile discriminazione sociale; che l’idea forte del riscatto economico e libertario poteva avere duraturo successo un giorno attraverso la redenzione dall’ignoranza dei giovani capaci e meritevoli, ai quali non si potevano promettere grottesche facilitazioni cartacee portatrici di devastanti illusioni personali e collettive. «Pane e grammatica», ai primi del Novecento, si gridava nelle agitazioni socialiste della Valle Padana e ora Lorenzo Inzerillo, escluso prima dalla scuola e poi dai confini della Patria, nel personale processo faticoso di formazione civile, incominciava a sussurrare tra i giovani le stesse parole. Nei primi giorni del 1940 intuisce che la seconda guerra mondiale avrebbe coinvolto direttamente la sua famiglia (moglie e due figli) e prende la decisione di rimpatriare a Mazara, dove sbarca il 9 gennaio. Qui apre una cartolibreria, organizza l’UNRE locale (Unione Nazionale Rimpatriati dall’Estero), collabora a periodici in vernacolo siciliano, assume la corrispondenza di giornali palermitani, accetta nel 1945, per delega del Commissario Straordinario al Comune, G. Hopps Bulgarello, la direzione difficile e pericolosa dell’annona municipale, è eletto con-


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sigliere comunale e nominato assessore nel 1946 e nel 1960 (forse giova ricordare che le prime donne mazaresi elette a suffragio universale, nel 1946, furono Maria Giacalone e Anna Adamo). Una vita impegnata sul piano civile e in seguito, quando incominciò a scrivere le “Mazarisate”, ancora impegnata sullo stesso piano, anche se in un ruolo diverso. Coltivava un ultimo desiderio, salutare l’alba del nuovo millennio. Non gli fu consentito perché il suo cuore si fermò il 7 aprile del 1997.

AVVERTENZE Sono stati eliminati i refusi tipografici della versione originale e, per facilitare una più completa comprensione del testo, è apparso opportuno distribuire la materia trattata in tematiche specifiche rispetto al manoscritto originale dell’autore, dando una titolazione ai singoli capitoli preceduti da brevi introduzioni stampate in corsivo e scritte dal curatore.


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MAZARISATE


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CAPITOLO 1

LE PAROLE

Gli antichi nomi dei nonni e, in seconda istanza, degli zii, ripetuti nell’ambito familiare da generazioni, generalmente riferiti a questo o a quel Santo prediletto a partire dal giorno della nascita, sembrano avvertire da qualche anno una sorta di rarefazione tra i libroni dell’anagrafe municipale. La scelta a quanto pare irresistibile dei genitori delle nuove generazioni è ora orientata dalle suggestioni dei nomi resi popolari dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione. Tanto che qualcuno, celiando, ha immaginato che dinanzi a siffatta crisi devozionale, cioè in tempi magri, i Santi in definitiva restano ugualmente soddisfatti di una candela di sego al posto di quelle di cera, come una volta. Del resto, in qualche località della Sicilia non a caso si ripete “A Santi vecchi ’un ci addrùmanu lampi”. Resistono invece in questa specie di gara i personaggi della mitologia classica, dell’epica cavalleresca e della letteratura. Lorenzo Inzerillo volle pazientemente occuparsi di questo tema, dei nomi decisamente fuori corso anagrafico e di quelli tradotti e deformati nel dialetto, perché in fondo costituiscono tessere di un variopinto mosaico, religioso e agnostico. Se il nome presso gli antichi era un presagio (nomen omen), nei piccoli ma densi agglomerati urbani di oggi l’ingiuria è diventata, con l’aumento della popolazione, un utile segno di riconoscimento identitario quando le persone si portano addosso cognomi ufficiali assai diffusi (si pensi a città marinare come


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Chioggia o Comacchio dove Ballarin, Boscolo, Cavalieri e Fantini rendono obiettivamente difficile la consegna della corrispondenza o la notifica di un atto amministrativo). Non dissimile la situazione di Mazara dove cognomi come Asaro, Gancitano, Giacalone e tanti altri ancora necessariamente sono riconosciuti, dalla gente e non dall’ufficiale di stato civile, proprio con un soprannome generato da fatti, circostanze, abitudini, comportamenti morali o immorali (riferibili anche al nucleo familiare antico o recente e perfino ai motopescherecci) e divulgati con successo persistente presso amici e conoscenti. Nella rappresentazione di Lorenzo Inzerillo, sorniona ed ironica, si ritrovano persone dotate di naturale ingenua felicità, nonostante le non infrequenti disagiate condizioni economiche, perché l’autore resta sempre consapevole che la bellezza di una rosa non si coglie discernendo i singoli petali, come del resto è sempre il corpo che affascina e non il dettaglio della sua anatomia. E quindi, salvo qualche gustosa eccezione, le 338 ingiurie da lui ritrovate raccontano una variegata umanità che le persone anziane, dotate di memoria presbite, non faranno fatica a riconoscere. E c’è chi ricorda ancora la struttura infelice e pretenziosa di quel motopeschereccio immediatamente battezzato il giorno del varo “minchia ch’è laiu!”.


29 NOMI PROPRI

Aspaneddru: Gaspare Austinu: Agostino Bastianeddru: Sebastiano Batassanu: Baldassare Bittina: Elisabetta Brasinu: Biagio Brisciuzza: Brigida Basili: Basilio Bisiddra: Bice Binnardu: Bernardo Bittinu: Roberto Bracitinu: Placido Caticchia: Caterina Calicchiu: Calogero Carmineddru: Carmelo Cicciu: Francesco Cittina: Concetta Culicchia: Nicola Cusuminu: Cosma Dommianu: Damiano Dimiti: Disma Ginu: Luigi Giddìu: Egidio Jacu: Giacomo Liddru: Bartolomeo Lisa: Luisa Liseddra: Luisella Lullù: Luigi Marieddra: Maria Masinu: Tommaso Mattiuzzu: Matteo Miccioni: Melchiorre

Milia: Emilia Mimì: Domenico Minicheddru: Domenico Mumminu: Girolamo Nardu: Leonardo Ninu: Antonio Nittu: Benedetto Nofriu: Onofrio Ntonu: Antonio Ntria: Andrea Ntunicchia: Antonia Nunzieddru: Nunzio Nzulu: Vincenzo Pauluzzu: Paolo Polito: Ippolito Razzieddra: Grazia Rusulìa: Rosolia Sabella: Isabella Sariddru: Rosario Saru: Rosario Scimuni: Simone Silivestru: Silvestro Siloru: Isidoro Tanuzzu: Gaetano Tassanu: Baldassare Tifaniu: Epifanio Titta: Gian Battista Trisina: Teresa Ursulina: Orsolina Vannuzzu: Giovanni Vàrtulu: Bartolomeo Vuggherminu: Guglielmo


SOPRANNOMI

Alessi Lu Zu Turi Cusumano ritornato che fu da Siena, dopo aver fatto il servizio militare, parlando con amici e parenti, facendo sfoggio della lingua italiana, soleva intercalare il termine “alessio” (al posto di adesso). Fu così che divenne per tutti Turi Alessio. Al figlio Vito questa ngiuria non piaceva per niente, per cui il toscaneggiante Alessio fu cambiato in Alessi. Da allora e per un po' di tempo Vito Cusumano venne chiamato don Vitino Alessi, adducendo che si trattava del cognome della madre. Era titolare dell’unica salumeria degna di questo nome, seguita poi dalle drogherie di Cola Sardo e di Gino Ferro. Ci sarebbero da raccontare molti aneddoti esilaranti, essendo il negozio di Cusumano sempre affollato, oltre che dagli avventori anche da distinte persone, che facevano del locale un luogo di riferimento e conversazione. Per motivi di spazio, ci limitiamo a raccontarne solo una. Un giorno nell’esercizio del compianto don Vitino Cusumano entrò un cane e di nascosto riuscì a mangiare un bel pezzo di mortadella. Accortosi troppo tardi del misfatto, don Vitino si limitò a cacciare via il cane e appurò che detto animale era il cane di caccia dell’avvocato Genna. Dopo qualche giorno l’avvocato entrò nella salumeria per acquisti e don Vitino, con fare mellifluo, gli rivolse la parola così dicendo: «Mi scusi avvocato, se entra un cane e si mangia un pezzo di mortadella è tenuto il padrone del cane a risarcire il danno?» «Certo, rispose l’avvocato. Quanto ti debbo dato che il cane è mio? In questo caso però mi devi pagare la mia consulenza legale che sarebbe di dieci lire. Poiché la mortadella costa cinque lire, dammi il resto di cinque lire e restiamo amici».


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Alluccutu Vanni Buscemi quando era piccolo aveva un aspetto dinoccolato. Svogliato, ntummatu, per cui i coetanei lo chiamavano l’alluccutu.. Ad onore del vero, bisogna dire che Giovanni con l’avanzare degli anni e con il progredire negli studi, da persona intelligente, riuscì a sfondare raggiungendo vertici eccelsi nella vita sociale, e diventando personaggio politico conosciuto in tre continenti, con soddisfatto orgoglio dei mazaresi.

Ammazzaddrini Mastro Nicolino Climenti, di mestiere costruttore di gabbie di legno per pollame vario, per arrotondare, accorreva alla chiamata delle persone che, in occasione di nascite e decessi, solevano ammazzare una gallina per il brodo da offrire alla puerpera o per fare il cùnsulu ai parenti stretti del defunto. Poiché nessuno si sentiva di tagliare la testa ad un volatile, chiamavano Cola Climenti, collaudato ammazzaddrini. Per la cronaca diciamo che la mercede per queste decapitazioni era in natura. Infatti il collo e la testa dell’animale lo zu Niculino se li portava a casa.

Bacarazza Il suo aspetto fisico, corpulento come una bàcara panciuta, non smentiva il soprannome. Totò era sempre in mille maniere affaccendato e si godeva la vita assai dinamica senza patemi d’animo. Anche nel ventennio, da sindacalista e piccolo gerarca, faceva il suo lavoro immedesimandosi con i tempi, senza però essere mai un fanatico.


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Ballunaru Papà Tumbiolo, di mestiere carbonaio, portava a domicilio il carbone con il quale si cucinavano le pietanze. Fra un viaggio e l’altro trovò il tempo di generare una numerosa prole. Fra i maschi ricordiamo Vito, Peppino e Turiddu. Il più sfacciato ballunaru di tutti era però il primogenito Vito, il quale era degno dell’Oscar della bugia. Con naturalezza e faccia tosta ti spifferava ogni millanteria incredibile. Un giorno, venuto a Mazara Ciccio Pizzo per fare un comizio, trovò alla sezione socialista Vito Tumbiolo, il quale gli riferì che il segretario del partito aveva affidato a lui l’incarico di presentare l’oratore. Fu così che l’esterrefatto pubblico del comizio vide Ballunaru presentare il compagno Pizzo con tanta enfasi e un’inventiva da sbalordire.

Beddramatri Era il soprannome di un anziano pescatore, ereditato probabilmente dalla madre Maria o dalla nonna. Lo zu Ciccio era conosciuto come taumaturgo, nel senso che guariva storpi, anchilosati, zoppi e malconci. La sua casa di via Amalfi era sempre piena di gente in attesa del turno. Beddramatri massaggiava, fasciava, ntrummava ginocchi contusi, caviglie storte, braccia spezzate, femori lesionati, come avrebbe fatto un vero ortopedico.

Boiacani Gli anziani lo ricordano ancora Nunzio, accalappiacani municipale. Persona seria di stampo antico, accudiva al suo lavoro con solerzia e puntualità. Ề rimasta impressa nella memoria la frase che mastro Nunzio ripeteva ogni volta che un cane riusciva a


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svincolarsi dal cappio fuggendo: «Curri quantu voi chi ti pigghiu».

Buzziddru Vàrtulu, di mestiere trasportatore di vino allo scalo della Ferrovia, dopo aver caricato e scaricato tutto il giorno botti e bozzelli, usava rigirarsi su se stesso, stremato di forze. Questa sua stranezza di comportamento finì con l’immortalarlo. Infatti tuttora, quando una persona per sbrigare una faccenda viene sbattuto da un ufficio all’altro, si dice che lo fanno girare come un Vàrtulu buzziddru.

Caifassu Il signor Graffeo, mastro d’ascia in via Casa Santa, figura maestosa e aitante, era un simpatico personaggio con la sua barbetta a pizzo e il suo ragionare di antico galantuomo. Si faceva voler bene da tutti. Faceva parte del complesso filodrammatico e, a dire dei competenti, se la cavava benissimo. Una sera si recitava la morte e passione del Cristo, con Graffeo nella parte di Caifa, il sacerdote del Sinedrio che doveva condannare Gesù. Ma il nostro filodrammatico, preso da improvvisa amnesia, s’inceppò e uscito nel proscenio incominciò a balbettare: «Io sono Caifa, sono Caifasso, sono confuso» e, dopo aver imprecato contro chi gli aveva affidato la parte, disse: «Sugnu schifiusu» e scappò via. Da allora fu per tutti Caifassu.


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Cantalanotti Nenè ha avuto la sfortuna da piccolo di contrarre la meningite, per cui crescendo camminava a ginocchia piegate, quasi che le gambe non sopportassero il peso della testa, in verità consistente. Abitava con la madre, donna Serafina, al vicolo Torre Bianca. Il padre fu un genitore di passaggio. Gettò le fondamenta e non si vide più. Fra tutte le cose negative che il destino elargì a Nenè, ci fu tuttavia una cosa positiva. Il figlio di Serafina aveva una voce tenorile, squillante e impetuosa, che sfruttava di notte per le vie del paese cantando canzoni di attualità.

Cardeddra Gli Asaro di Mazara, ai tempi precedenti l’introduzione dei motopesca, conducevano una vita modesta e, come tutte le persone modeste consumavano cardeddra, verdura povera e comune. Da lì il soprannome.

Cicciu maturdu Il nomignolo è stato appiccicato, tanto tempo fa, a Francesco Sammartano, calzolaio in via S. Basilio n.26 (ora via Raffaele Castelli). Il nostro personaggio si guadagnò questo appellativo da parte dei suoi clienti abitanti nei dieci cortili cadenti del rione S. Agostino, perché appunto, niente affatto socievole, si limitava soltanto a spendere quelle poche sillabe strettamente necessarie al suo lavoro. Indifferente a tutto ciò che succedeva attorno a lui, non sentiva, non pensava, non commentava, una vera statua di tufo.


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Per la storia diciamo che Francesco Sammartano era fratello di Ruggero, muratore abitante al primo piano dello stesso stabile ove Francesco teneva bottega. La famiglia di Ruggero era composta dalla moglie Maria Vento e dai figli, Nicola il ragioniere (Cola trotò) e da Vinciddruzzo, poi padre Sammartano cappellano a S. Giuseppe. Era ospite permanente della famiglia il prof. Sebastiano Vento, fratello della moglie Maria.

Cincusordi Il piccolo Nino, barbiere di via Vittorio Veneto, ci sapeva fare. Era gentile, educato, chiacchieruneddru. Poteva contare su una vasta clientela, che lo faceva lavorare dal mattino alla sera inoltrata. Il segreto del suo successo era che Ninuzzo la barba la faceva pagare appena cinque soldi, mentre gli altri prendevano mezza lira, come dire due barbe per una.

Ciolla In una casa dei Diadema, alla fine del secolo XIX, venne al mondo un bel bambino. I genitori ne furono molto contenti, poiché oltre alla bellezza il loro rampollo si presentava ben dotato in fatto di genitali, per cui ogni qualvolta parenti ed amici visitavano la loro casa, papà e mamma Diadema, mostrando loro il bambino a panni sciolti, mettevano in evidenza l’attributo, dicendo:«Guardate che ciolla!».


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Faccibeddra Il sig. Lombardo, negoziante di tessuti in via Vittorio Veneto, aveva modi gentili e signorili che ben si associavano alla finezza dei lineamenti del viso. Per questo la vasta clientela femminile gli attribuì questo apprezzamento nel soprannome.

Filinia Questo soprannome fu dato ad un avvocato, il quale per la sua magrezza poteva considerarsi come una ragnatela, una filinia appunto.

Firrareddru Lo chiamavano così, perché Pietro Angelo, assieme ai suoi fratelli, lavorava nella fucina paterna in via Macello. Fin da piccolo Pietro si rivelò un vero sportivo con predilezione per la bicicletta. Praticò il ciclismo con successi locali e provinciali. Tenace e combattivo com’era, lu firrareddru si trovò a competere con un altro corridore pugnace e forte, lu marsaliseddru.

Ha ha Con questa sillaba ripetuta era conosciuto il bravo Giovannino, barbiere prima e poi rivenditore di attrezzi per sale da barba. Questa doppia sillaba diventò il suo soprannome per il fatto che Giovannino era affetto di balbuzia accentuata, oggetto di equivoci e derisioni.


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La nanfarusa Parlava con la voce nasale e gestiva un lupanare, frequentato da quanti non avevano le risorse sufficienti per entrare nel bordello troppo caro delle sorelle Petricchia e Marannina, situato alla Badiella con tanto lusso e lenone con cane. A ridosso di detto locale lavoravano, oltre a Concettina la nanfarusa, Vitina pani e ficu, Rosa Lumia e Pippineddra v’aggiùccati.

La rasta Donna Marieddra la rasta, robusta e gioviale, aveva il suo esercizio nella propria casa, in via Santa Maria di Gesù, ed eseguiva un lavoro inusitato per Mazara, in quanto faceva la stiratrice di colletti inamidati. Dalla signora Pampalone, intesa La rasta, cioè vaso di fiori, correvano tutti i giovani e mature persone a farsi inamidare camicie e polsini.

Lu Turcu Don Giovanni Fasulo era così soprannominato per la sua carnagione scura. La sua attività si poteva definire parafarmaceutica. Nella sua bottega di via Umberto vendeva tutte le erbe e derivati che servivano a preparare tisane, infusi, cataplasmi di linusa, fiori di papavero, alloro, chiodi di garofano, estratti di canapa, radiche di gramigna, fiori di camomilla, orzo, ruta, crescione, crusca, miele, olio di neve, allume, ecc.


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Minni-minni Peppuccio dopo aver imparato a camminare si può dire che è rimasto ancora nutricu, un vero e proprio lattante. Durante i giochi con i suoi coetanei, tutto a un tratto lo si vedeva allontanare e correre verso la mamma: «Minni, minni» gridava. Poi faceva tutto lui, sbottonava la camicetta della genitrice, indi, golosone, si appiccicava a quel ben di Dio, sporgente. Un giorno la signora Giacalone, temendo che la cosa si protraesse fino a quando Peppuccio si fosse iscritto alle scuole elementari, pensò bene di imbrattarsi i capezzoli e dintorni di fuliggine. Inutile dire che il pappone spaventato a tale vista, svezzò subito, mentre il richiamo “minni minni” rimase come ngiuria.

Nasuni Don Ciccio, barbiere in via Roma, lo conoscevano come Ciccio Nasuni, per via del suo naso carnoso e appariscente. Oltre al suo naso, il barbiere aveva la lingua lunga. Quando qualcuno per scherzo accennava alla sua “proboscide”, don Ciccio ridendo rispondeva subito: «Tali nasu, tali fusu», accompagnato da un gesto coerente.

Nfurnapatri Correva l’anno 1911 molto “freddoso” e il signor Giovanni, conduttore di una panetteria nel quartiere della casba, si accorse che il proprio padre, avanti negli anni e pieno di acciacchi, se ne stava seduto accanto al forno, tremante dal freddo. A tale vista Giovanni, preso da compassione filiale, lì per lì sfornò il pane ed in-


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fornò il congelato genitore. Dopo tanti anni la storiella circola ancora ma non potremmo giurare sulla sua veridicità.

Nnìnghili nnìnghili Peppino era piccolo, faceva il sagrestano a San Nicolò, dove serviva la messa di don Accardi. Quando era costretto ad assentarsi, ricorreva a Bracitinu, che aveva le sorelle che affittavano sedie ai fedeli della messa. Placido era più piccolo di Peppino, per cui questi, prima di andarsene, lo istruiva circa il servizio della sacra funzione, raccomandandogli: «Fai attenzione, quando patri pàrracu aìsa l’ostia, tu devi suonare tre volte la campanella, capisci? Devi fare Nnìnghili nnìnghili».

Ntrèppitu A Turi, ritornato dall’America, quando si trovava in conversazione con parenti e amici, piaceva raccontare episodi di quel Paese, e lo faceva a modo suo, cioè con un idioma inedito siculoamericano, con la caratteristica di tradurre, strada facendo, in un perfetto linguaggio marinaresco. Da qui la ngiuria di ntrèppitu. «Quando alla mornigi ivu a lu storu, mangiavo bred and ciss, tuo eghissi, dopo trink vain, azzo rait, poi scappavo a lu travagghiu, va si no nain business». Così gli emigrati d’America si illudevano di parlare la lingua inglese e di essere ottimi interpreti. Occhi d’aremi Gli occhi di Giovannino, sagrestano alla Madonna della Porta, in verità non erano d’aremi, come i semi d’oro delle carte da gioco,


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ma micciulusi e appiccicaticci. Un soprannome alla rovescia questa volta, con un significato ironico.

Occhi di puci Il titolare di questa ngiuria doveva avere gli occhi impercettibili. Infatti, quando era bambino, i genitori li cercavano con la lente di ingrandimento.

Omu di munnu Appellativo dato in genere a quelle persone che facevano personaggio, gente di rispetto che si rispettava. Uno di questi era Vanni Denaro, commerciante all’ingrosso di olio e formaggio a Turribianca. Alto, con un po’ di pancetta, carismatica e simpatica figura, zu Vanni era sempre chiamato a fare da paciere nelle dispute. Era prodigo di consigli, mettendo la parola giusta al momento giusto. Tuttavia, forse disgustato da certe incomprensioni, soleva pronunciare la frase rimasta ricorrente:«Cu fa beni mori ammazzatu».

Orlandino Appellativo dato a Gaspareddru per il suo aspetto fisico e per il suo incedere a pilaccuni rovesciato, cioè abbattuto su un fianco. A prima vista sembrava che imitasse un paladino di Francia, baldanzoso come Orlando che poi, data la statura, si trasformò in Orlandino. Per la verità, il nostro protagonista non era per niente furioso, poiché nessun dubbio si poteva nutrire sulla sua serietà e galantomismo. Si può aggiungere che quando fu a capo


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dell’amministrazione comunale si prodigò per Mazara e per i suoi abitanti.

Ovu di pullu Era chiamato scherzosamente in questo modo il bravo e mite Angiolino, perché rosso di pelo e conseguentemente viso costellato di efelidi, proprio come le uova dei tacchini.

Papà Quasi un secolo fa la piazza di S. Michele era il centro nevralgico della città. Vi confluivano le maestranze in cerca di ingaggio. La piazza era altresì punto di riferimento per incontri d’affari. Nelle vicinanze si affacciavano molte botteghe di artigiani. Fra queste la più appariscente era quella dei Di Natale, dove si lavorava lo zinco, la latta e l’ottone. I ragazzi dei Di Natale, nei loro giochi, s’incontravano e si mescolavano con i figli delle famiglie benestanti del quartiere. Così i piccoli stagnini, a forza di frequentare i figli dei ricchi, impararono, fra le altre cose, che il tata era chiamato papà e Papà fu e rimase.

Piringu Era chiamato così perché fin da piccolo a don Guglielmo piaceva sfottere le persone con scherzi salaci e parole di scherno. Piringo era lo spuntone di ferro delle trottole, che assai appuntito riusciva a spaccare in due le strùmmuli degli avversari.


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Quagghiareddru Il capostipite dei Quinci doveva essere un uomo all’antica, morigerato e austero, autorevole con i propri figli, dai quali pretendeva esagerata disciplina. Di fronte a questa ferrea volontà paterna, la numerosa prole, stufa di tanto severo rigore, decise ad uno ad uno di lasciare il tetto familiare, allontanandosi come i figli della quaglia, come li quagghiareddri, insomma.

Quartigghia Donna Vitineddra abitava nel cortile grande di via Perez, dove dimoravano altre quindici famiglie. L’intraprendente donna un giorno pensò di fare scavare al centro un pozzo e a poca distanza fece istallare sette pile a proprie spese. La benefattrice però pretendeva da ogni famiglia di contadini che abitava il cortile una quartigghia di cereali al mese: fave, ceci, fagioli e frumento. Così si guadagnò la ngiuria.

Saccu di chiova Un antenato dei Tumbiolo aveva fama di grande amatore e, infatti, d’accordo con la propria moglie, ha messo al mondo una sequenza di figli. Questi pargoletti, man mano che crescevano, si rivelavano bellicosi, indisciplinati e linguacciuti, oltre il limite di guardia. Quando qualcuno si complimentava con il super papà, per la sua vitalità, trasmessa forse alla prole, senza alcun entusiasmo rispondeva: che sì, aveva un sacco di figli «ma sunnu tutti comu un saccu di chiova, puntuti e pungenti».


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Simana Questo soprannome attribuito ai Gancitano, in verità, abbondava a Mazara, risalendo al tempo in cui si pagava “a simana”, a rate settimanali.

Spaccarizzi Nell’adolescenza mons. Giovan Battista Quinci frequentava il mare. Il suo passatempo preferito era quello di raccogliere ricci negli scogli prospicienti la costa. Conosceva, dalla secca Balata alla scogliera di Quarara, tutti gli anfratti marini rigogliosi degli aculeati animaletti che si riempiono di uova gustose quando la luna è piena. Il futuro ciantro della Cattedrale era molto ghiotto di queste uova, per cui lo si vedeva spesso portare a terra centinaia di ricci che spaccava a ritmo veloce.

Tagghia testi Il soprannome fu dato in dote al signor Norrito, per il fatto che, essendo particolarmente parsimonioso, quando la moglie friggeva il pesce il nostro economista tagliava ai pesci le teste per risparmiare l’olio.

Ecco un elenco di altri soprannomi diffusi a Mazara: Addrazzu, Ammazzapatri, Angiuluni, Aranciu di terra, Arrobbascecchi, Bacaruni, Baggianu, Baraccheddru, Barruzza, Batarollu, Beddramatri, Beddrasantamaria, Boccia, Bottaritta, Buburibù,


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Bumma, Busciulisi, Cacagianni, Cacariavulu, Caliaturi, Campanaru, Canali, Cani nìvuru, Cantaranu, Capacità, Capuneddru, Capurali, Cassateddra, Catineddra, Cavaddru, Cavatuni, Cavigghia, Chiacchiteddru, Cillipuci, Cirinaru, Colicoli, Coscibianchi, Cufuruna, Dannatu, Dianeddra, Dimoniu, Facciazza, Fallù, Fuciuni, Fuddruni, Funcia, Funnacara, Giaffi, Giummo, Gnisottu, Jojò, La fami, La morti, La signa, La tisa, Li fratuzzi, Lu attu, Malalinqua, Malu pilu, Mangiafrancu, Manùncola, Marrobbiu, Matalottu, Mazzacani, Mazzara, Mezzalira, Michiluni, Miliuni, Minchiazza, Mpinnatu, Munna ova, Mussu pittatu, Mustazzeddru, Nnappa, ’Ntràcina, Nziriddru, Occhi di vitru, Occhi-Occhi, Pacanu, Paccigghia, Pacchimolla, Paccucurtu, Pani e ficu, Panzalonga, Papà cannolu, Paparacianni, Papettu, Pappantella, Papparina, Passuluni, Pastizzuni, Patapùffiti, Patri vecchiu, Pellipelli, Piantala, Piatturanni, Picuni, Piliddru, Pilurussu, Pinnuluni, Piricuddru, Piriteddru, Piscibannera, Piscicarnutu, Pizzuluni, Popò, Puddricinu, Pullacchiuni, Pupiddru, Pupu nìvuru, Purceddru, Purpiceddru, Purpittuni, Quagghi-Quagghi, Quarara, Quattruquattru, Ramunnu, Ranfilordi, Ranfuni, Rariceddra, Ruppiddru, Santupatri, Scaminaci, Spampinatu, Scarafuni, Scarpaliscia, Scattiolu, Schillicchia, Sciabbarasi, Scimiotta, Scorciascecchi, Scorcidifora, Scucciddra, Scupittuni, Settitesti, Sicareddru, Sirragghianu, Sirratum Soccu, Spasciavarchi, Spinguluni, Strascineddra, Strica, Succiteddru, Surfareddru, Tabbaranu, Taddrarita, Talianu, Tarantella, Tartaruni, Tatacavacchiu, Testa di ferru, Tista, Tocca e ciara, Toccu, Tontolinu, Tracchiazza, Tritrìcchiti, Trummatorta, Trummitteddra, Tuffuni, Turdiceddru, Ucchialuni, Ugghiaru, Vanniminica, Varvazza, Vintipacchia, Virticchiu, Vitturianu, Zibibbu, Zichitteddra, Zummittreddru.


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MODI DI DIRE

Li cosi passati su comu li morti Si dice per convincere gli altri a non tenere più conto delle offese ricevute. Lu sangu nun è acqua I rapporti familiari prevalgono su tutto. L’àrvulu s’addrizza quannu è nicu Vale anche per i giovani da educare. Lu porcu si sonna ghiànnari Vale per chi esprime il suo desiderio con esagerazione. Finiri a gghiocu di focu Finire a baruffa furibonda. Vulari senza ali Fantasticare cose difficili da avverarsi per difetto di mezzi. Arraccumannari la pecura a lu lupu Affidare la fiducia a chi non la merita. Arricurdari lu mortu ntavula Dire cose spiacevoli fuori luogo. Arriminari lu pignateddru Si dice di chi vuol nuocere qualcuno con accorgimenti maliziosi. Arrivau la mula a lu fùnnacu Sta per indicare che si è arrivati al punto. Questa è l’amara risposta di colui, in avanzata età, ormai sfiduciato, che si vede mancare il terreno sotto i piedi, all’amico che l’interroga sullo stato della sua salute. Megghiu na vota arrussiari chi centu voti gianniari Meglio avere un male grande per una sola volta che soffrire molte volte.


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Ad àrvulu carutu accetta, accetta Quando un individuo cade di prestigio e di benessere, tutti si divertono a contrariarlo. Abbaia cu li cani e ròccula cu li lupa Mantenere il piede in due staffe. Lu surci appena viri lu attu accabba di trippiari Come il topo cessa di ballare alla vista del gatto, spesso si è forte con i deboli e debole con i forti. Semu comu lu scavacchiu na la stuppa Siamo prigionieri di una situazione senza via d’uscita, imbrigliati di debiti, cambiali e simili incubi. Orva di l’occhi chi nun vitti nenti Dovrei accecare se non dico il vero; dichiararsi all’oscuro di un avvenimento. Pisciari fora di lu rinali Andare fuori tema nella discussione. T’avìssiru a sparari a scangiu Si tratta di una maledizione particolarmente malvagia, cioè essere uccisi per errore. Cu ti voli beni cchiù di mamma, o iddru è foddri o t’inganna L’amore materno è impareggiabile. Mi retti cuntu cu lu cozzu Nemmeno mi rispose e guardò altrove. Ci piaci puru lu scrusciu di lu carrettu Si dice di chi è propenso verso ogni divertimento. Tra niàvutri nun c’è né to né me Non c’è distinzione proprietaria e nemmeno segretezza fra due persone. Ề un pìritu ncartatu Riferito a persona piena di sé, vanagloriosa. Pi camminari lu carrettu avi bisognu di lu sivu na lu fusu


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Si sottintende la necessità della bustarella per ottenere un appalto, per smuovere un’istanza pubblica che sonnecchia o per ricevere benefici e favoritismi da chi può. Ci voli cipuddri pi fari chiànciri Occorrono circostanze idonee e favorevoli. Mi scurcià Si riferisce all’avidità del commerciante nei confronti del cliente derelitto. Nun semu cosa di nèsciri Non sappiamo stare in società. Questa l’amara costatazione di un padre al ritorno da un invito a pranzo con tutta la famiglia, durante il quale i figli si sono comportati in modo incivile, mentre la moglie, nata a Dàgala Funna, si ostinava a toscaneggiare come un’oriunda senese. Soccu viu accattu Frase rivolta con scetticismo ad uno sbruffone che millanta mari e monti. Vèstiri pupi Inventarsi situazioni immaginate o costruite in mala fede. Quannu parli accussì t’avissi a siccari la lena Le tue parole non meriterebbero respiro. Cu parla, lu paracquaru? Si allude all’ombrellaio ambulante che reclamizza a voce il suo mestiere senza successo. La frase è ripetuta quando ad una persona che parla nessuno dà retta. Metti vistina chi pari regina Quando una persona è ben vestita è rispettata come una sovrana. Lu spavintatu di lu prissepi È il pastorello di gesso del Presepe che annuncia al mondo, con le braccia alzate e la meraviglia nel viso, la nascita di Gesù. Si dice per esprimere l’attitudine costante allo stupore ingenuo di alcune persone dinanzi a discorsi o situazioni ritenuti straordinari.


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Li cosi arrubbati nun lùcinu Dalle cose rubate non si trae giovamento. È tantu furtunatu chi si cari a mari nesci cu lu culu chinu d’anciddri Si allude a chi dall’apparente occasionale sventura esce fuori con rinnovata e inverosimile fortuna. Acqua davanti e ventu d’arrera Così viene salutato un tizio che si è reso antipatico in una conversazione e poi minaccia bruscamente di andarsene. Ussu tu e ussu jè Formula espressa tra due persone che dopo una conversazione hanno pattuito un segreto. Lu cani mùzzica sempri lu sciratu Si riferisce a persona povera e colma di disgrazie. Paga tuttu cappiddrazzu! Sono parole adirate ogni qualvolta un capo famiglia constata che in casa si spende troppo, si scialacqua, si sbaglia nel fare i conti. Lu cavaddru chi si viri lu pilu allisciatu ecca càvuci Si dice quando i bimbi, vedendosi coccolati, fanno le bizze. Stu jornu chiovi assuppa viddrani Si dice di pioggerella leggera e continua, alla quale il contadino non bada per non perdere il guadagno della giornata, lasciandosi così inzuppare gli indumenti. L’acqua va a mari L’espressione si usa quando si apprende che un ricco riceve una eredità o vince alla lotteria, insomma quando è “perseguitato” dalla fortuna. Avi a ghiri a mèttiri la meta a li bròcculi Espressione ironica indirizzata ad un mattiniero nullafacente, con funzioni sociali irrilevanti. Mi viu pigghiatu di li turchi


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Lo dice quel pover’uomo accusato di un reato del quale è completamente innocente. Vaiu pi fùiri e trovu li turchi Lo dice chi, fuggendo da luogo ostile per lui nefasto, capita disgraziatamente in un posto più ostico e avverso del primo. Un ci nni calari pi mia Affermazione di chi ritiene di non voler essere coinvolto in una determinata situazione. S’un vugghi la pignata, nun si cala La pasta ha bisogno dell’acqua bollente; ogni cosa a suo tempo. Mi pari lu cappiddranu di lu Priatoriu Tu mi sembri il cappellano della chiesa del Purgatorio, il quale, tutte le volte che un fedele entrava a messa già incominciata, riprendeva la funzione dal principio. Questo accostamento si suole destinare a colui il quale osa ripetere con monotonia sempre gli stessi discorsi. Lu monacu sciala e lu cunventu paga La dissipazione del denaro pubblico da parte degli amministratori è pagato dai cittadini contribuenti. Cu lu addru e senza addru Diu fa lu jornu Niente può contrastare la volontà divina e il corso della natura. A chi nun ti la sonu pi davanti, ti la sonu pì d’arrera Così disse mezzo addormentato il casellante di Transinico al treno proveniente da Palermo, e non potendo più suonare la tromba all’indirizzo della locomotiva per avvertire il collega del passaggio a livello successivo, ligio ugualmente al dovere professionale, indirizzò il suono all’ultima vettura del treno che si allontanava verso Mazara. Evidente il significato malizioso. Sata lu citrolu e va nculu all’urtulanu Si dice quando di un misfatto viene incolpato un innocente estraneo alla vicenda delittuosa.


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Semu comu li crasti di La Sammuca: dunni va unu, vannu tutti l’àutri Siamo come i montoni di Sambuca: dove va il capo branco vanno tutti gli altri. Questi animali, come è risaputo, sono in deficit in fatto di attributi sessuali, per cui il paragone si addice agli uomini senza personalità e senza virilità, portati al vassallaggio e al servilismo. Me mugghieri dormi a carrettu narvuliatu Posizione assunta dalle donne con le gambe divaricate e all’insù, proprio come sono sistemati i carri agricoli quando è tempo di riposo, con le aste al cielo. Avemu lu culu futtutu e lu piccatu all’anima Recriminano in questo modo coloro i quali, dopo aver subito un danno, si vedono riversare su se stessi la colpa. Me figghia, supra l’artaru, acchianà cu la vesta bianca Ogni madre è orgogliosa di far sapere che la figlia che va in sposa è pura come un angelo. A li cristiani ranni bisogna ràrici lu so Non bisogna contraddire le persone anziane, ma compatirle. Pari pigghiatu cu la lampara Sembra pescato alla luce di lampara; ha l’aspetto allucinato. Fa lu fissa pi un pagari la tassa Si finge stupido per non fare onore ai propri impegni. Morsi lu figghiozzu e finì lu cumparatu Si cita questa frase quando due amici o soci perdono la stima e la fiducia reciproca. Né ciucia né metti ligna Si dice di persona seria che si fa i fatti suoi e si astiene dall’intervenire nelle dispute. Fa lu futti e chianci Si lamenta sempre anche se, come è noto a tutti, si gode la vita beatamente. Porta la còppula storta e si senti carcòcciula


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Si dice di persona che si dà delle aree da capoccia. Ti maritasti? A ligna ncoddru a gghiri Una volta sposato devi darti pensiero a faticare per mantenere la famiglia. Pigghià la strata di l’acitu Si allude a persona che ha intrapreso la via del peccato e del disonore. Mi pari un nigghiu Mi sembra un uccello di malaugurio. La za Betta cuntrariusa metti l’acqua a li addrini quannu chiovi Con questo detto si fa riferimento a quelle persone che capricciosamente si oppongono a quello che è il giusto andamento di una cosa, operando sistematicamente il contrario. Mammaranni perdi corpa La nonna ormai dimentica ogni cosa a distanza di pochi minuti. Chissu fussi capaci di livari l’acqua di lu vinu Si vuole mettere in risalto l’intraprendenza, l’astuzia e l’intelligenza di una persona. Quagghià la mènnula Lo suole dire, sollevata, una giovane mamma, quando il proprio bambino, piuttosto restio a prendere sonno, finalmente dopo tanto dondolio e ninna nanna, si addormenta. Cu è cuntentu è pazzu Nessuno è completamente immune da contrarietà. Semu sempri un pani menu una feddra Nell’economia domestica il bilancio è permanentemente in rosso. È misu a pani e tumazzu Ricorre tra un capo cantiere e un lavorante, il quale nell’eseguire il lavoro se la prende comoda. Beddra varca di paranza! Modo di dire che si pronunziava quando si voleva alludere a un tipo scanzonato e importuno. La suppa a pisci fuiutu


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In tempi di estrema povertà si preparava la zuppa con tutti gli ingredienti necessari: aglio, cipolla, pomodoro, ecc, ma il pesce restava nella memoria di cuoca e commensali. Sugnu nna li peri di li vestii Lo dice colui che trovasi in affanno, per via della sua disastrosa situazione economica. Stu picciriddru pari mortu nnall’ovu Si riferisce a ragazzo privo di vivacità e completamente inerte. Inchi varchi Così si dice di colui che viene a raccontare un fatto al quale ha assistito, commentandolo con alcune invenzioni tali da riempire barche e anche bastimenti. Dunni arriva nun ci ni metti scala Non ha il senso della misura ed è senza freni. Scrivi a muru e stuia cu li spaddri Lo pensa l’imbroglione nello stesso momento in cui l’amico gli fa un prestito di denaro, ovviamente con l’intenzione di non rimborsarlo. Li carni arrìzzanu Si dice così quando si ascoltano discorsi terrificanti o quando si stenta a credere a ciò che di clamoroso e stupefacente dice l’interlocutore. Mi la fici sciri di l’occhi Dice così chi ha avuto tolta improvvisamente una cosa o ha perso la fiducia in una persona. Dici “Sangiovanni Battista” prima di lu lampu San Giovanni Battista s’invoca per scongiurare un pericolo. In questo caso si tratta di un rimprovero rivolto a chi paventa sempre l’insuccesso prima ancora che una missione o un lavoro avesse inizio. Curtu e malucavatu Si dice di persona bassa di statura e malnata. Lu putiaru soccu avi abbannìa


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Così si vuole controbattere alle offese dell’avversario: quello che dici di offensivo a me è esattamente ciò che dovresti dire a te stesso. Cu si susi prima cumanna Si ricorre a questo detto quando c’è disordine e mancano rispetto e disciplina. Scrivici carni di porcu Si suol dire a persona a cui si è fatto un favore, facendogli capire che questo è stato il primo e l’ultimo. È cchiù addra banna chi a sta banna Si parla di un ammalato grave che ha meno del cinquanta per cento di probabilità di sopravvivere. Leva vanchi e metti fillizzi Lo si dice in occasione della visita di persona di riguardo, quando ci si fa in quattro per rendere la casa accogliente. Appi lu càvuciu e l’ammuttu È l’espressione amara di chi, avendo subito una perdita finanziaria nel suo commercio, deve digerire per di più i rimproveri dei suoi familiari. Come dire: il danno e la beffa. Cu avi li càusi cacati seri mpizzu Si parla di qualcuno che non a posto con la propria coscienza dimostra nervosismo e irrequietezza, aspettandosi da un momento all’altro una punizione. Vinemu a la calata Veniamo al dunque. Si dice pure: già che ci siamo, parliamone. Ci persi lu micciu e l’ogghiu Chi perde il lucignolo e l’olio è il disperato che, dopo aver prestato del denaro ad un amico intimo, non ha visto più né il denaro né l’amico. Stùiati lu mussu Lo si dice a persona che ha proferito un’oscenità. Tra mèrici e mammane squagghià la criatura


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Questa frase si ode spesso in un gruppo di persone quando si è constatata la sparizione di un certo oggetto di valore di cui tutti giurano di non sapere niente. S’arricugghì cu l’ali caruti Espressione che accompagna lo stato d’animo di chi ha visto fallire l’impresa che aveva in mente. C’è di fari di tutti na carvunera Siete dei niente di buono: lo dicono spesso ai loro dipendenti i dirigenti. Ni talìa cu l’occhi a pampineddra Lo riferisce l’innamorato parlando di lei consenziente e con gli occhi ammalianti. Li carti vennu e lu iucaturi s’avanta Dicesi per un uomo che si vanta quando la fortuna gli è propizia. Avi la figghia supra la panza Rimprovero che si fa ad una madre che si dà da fare per trovare un fidanzato alla figlia, ricorrendo anche a sotterfugi pur di levarsi questo peso. Sugnu comu una petra dintra un puzzu Imprecazione di persona che stagna immobile senza nessun progresso economico, vittima di un destino avaro. A so maritu ci misi la faretta Si dice quando in una casa comanda la moglie. Carì e desi lu cozzu Ề caduto e ha dato la nuca. Si dice sarcasticamente di persona baciata improvvisamente dalla fortuna. Mèttiri li sgroppi all’occhiu Mettere i tralci secchi agli occhi. Indurre una persona ad essere avveduta in un determinato affare alquanto farraginoso. Agghiuttutu sugnu Lo dice chi ha ricevuto un immeritato rimprovero ed è rimasto sorpreso e con il fiato sospeso. Sta iurnata nun mi spercia nenti


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Nessuna cosa mi attira oggi, sono refrattario e annoiato. Si nni pigghia tuttu piringu Se ne sta ozioso e beato tutto il giorno. Avi la vucca ranni Non sa tenere un segreto e parla a sproposito. Ci nn’avi na la burnia Tira fuori all’infinito fatti e fatterelli che pare ne abbia a iosa nel suo barattolo. Nirvia cappillanu! Esclamazione che si fa anche con se stesso dopo aver parlato con un tizio che non sente o che fa finta di non sentire, che fa lo gnorri, insomma. E fìcimu la gghiotta! Lo dice sconsolato un tizio che, insieme ad un socio, dopo aver preparato con cura una certa operazione nella cui riuscita si sperava tanto, si accorge di aver sbagliato tutto. Sunnu fìcatu e ficateddru Si usa dire quando si parla di due amici inseparabili. Ammàtula ti pettini e t’allisci, lu cuntu chi t’ha fattu un t’arrinesci È la stornellata ironica di un’invidiosa ad una vicina che cerca marito. Semu all’ultimu tiritàppiti Si dà l’appellativo “tiritàppiti” all’ultimo fragoroso schioppettio dei giochi d’artificio. La frase si pronuncia quando si constata che si è alla fine di qualcosa. Nina la soru, avi un annu chi nun vivi broru Si esprime così chi desidera una cosa non facilmente ottenibile. Stasira ti conzu lu capizzu Questa sera ti accomodo bene il guanciale, promette ironicamente la madre al figliolo discolo che ne ha combinata una grossa. Ovvero gli darà una buona strigliata. Avi lu bàlacu


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Ha la violaciocca, un fiore appariscente e profumato. È la frase ironica di uno stufo di sentire un altro elogiare e vantare in modo esagerato una cosa di cui è proprietario. Pari na cassata di batìa Si parla così di una bella donna, procace ed esuberante, proprio come un dolce fatto dalle abili mani delle monache. Ci vulissiru cutiddrati cu l’agghia Si invocano colpi di coltello intriso d’aglio. Dice così una persona che ha ricevuto una pesante offesa e si augura severe punizioni. Si veni n’autra vota pi picciuli, lu mannu ni Pitricchia Se si tiene conto che Petricchia era una tenutaria di case chiuse, è facile immaginare il luogo dove doveva recarsi il malcapitato. Petricchia è anche un nome che si pronuncia quando si vuol tacere quello vero. Per esempio: dove vai? Da Pitricchia. Maliditta la mammana chi ci tirà li peri! Maledizione contro persona malefica e dannosa. Cu ci l’attacca la ciancianeddra a lu attu? Chi, in un gruppo di amici, si prende la responsabilità di una bravata? Agneddru cu lu sucu, e finì lu vattiu Si dice quando un piacevole avvenimento o pubblica cerimonia si conclude rapidamente. Li vai si li va circannu cu la cannilicchia Si parla di un individuo intrigante e odioso che mette il naso nei fatti altrui e che si mette sempre nei guai. Scrivitillu na lu cuddraru Questo si dice all’amico che fa credito ad un noto imbroglione: scrivilo nel colletto in modo che alla prima lavata si cancella tutto, dimentica in pratica la cosa. Lavari lu culu a lu porcu


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Si dice quando il bene che si fa viene ricompensato con l’indifferenza, come appunto fa il maiale che dopo essere stato lavato si rituffa nel pantano. C’era beddru lu piddrusinu, ci ji la atta e ci piscià Ci si riferisce a persona che già provata dalla cattiva sorte subisce ulteriormente delle ostilità. Avi cosi di cèrniri e munnari Ci si riferisce a chi è impegnato in un lavoro lungo ed estremamente faticoso. Cu è cannilivaru? Iddru o cu ci va d’appressu? Chi è carnevale? Lui o chi gli corre dietro? Rimprovero che si rivolge a chi si lamenta che la cattiva compagnia di un tizio lo porta moralmente fuori strada. La colpa non è del tizio ma di chi lo segue. Me patri è cucciddratu e iu moru di fami Così si lamenta un servitore di padroni agiati che vive tra libagioni e tavole imbandite che però gli sono vietate. Aìsati sta punta di firriolu Alzati la punta del mantello che, strisciando per terra, si è sporcato. Si dice al tizio che si vanta di essere immune di qualsiasi immoralità. Sapi dunni ci dormi lu lebbru Chi sa dove dorme la lepre appartiene a famiglia agiata e può dormire sonni tranquilli. Acqua a li pàpari e vinu a li mmriachi A ognuno quel che predilige. Fari càriri cantuneri Elogio esagerato che si fa alla vista di una donna particolarmente bella. Un nni la senti Navarra sta canzuna Si dice per dimostrare che qualcuno fa finta di non sentire. Iri comu la cascia di Narduzza Andare sbilanciata, senza stabilità in fatto di costume.


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Frìiri li pisci cu l’acqua Si allude a persone poverissime. Marinaru d’acqua ruci Si indica persona che non sa fare il proprio mestiere. Cchiù sosizza e pocu addrauru Meno apparenza e più sostanza. Nutricari lu scursuni ntra la manica Nutrire la serpe nella manica. Essere tradito da chi hai aiutato. Iucari a futti cumpagnu Giocare a gabba compagno. Si dice quando un giocatore fa di tutto per far perdere il compagno. Affucàrisi a la cura Smettere di trattare un affare portato quasi a termine in modo egregio. Livàmuci lu velu a lu crucifissu Parliamoci chiaro, finiamola di prenderci in giro, mettiamo le carte in tavola. È na truscia di roba lorda Come dire una persona poco dignitosa e poco apprezzabile. È na stràula, tuttu lu jornu unn' avi risettu Si dice di persona poco seria e di costumi leggeri, che passa le giornate tra i vicini perdendosi in chiacchiere. Ogni cura d’asinu ci pari un arcipreti Persona poco intelligente che stravede o s’inganna per paura. Aspittàrisi na cosa cu la varca di lu carvuni Aspettare una cosa che non arriva mai. Pàmpina assumigghia a trunzu Come la foglia rassomiglia al torsolo, così avviene per i figli di genitori scostumati. Sonnu Catarina! La matura zitella rivelò alla propria madre di avere sognato che presto sarebbe andata in sposa. “Sogna Caterina!”, fu la risposta laconica piena di scetticismo. Così ogni qualvolta qualcu-


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no esprime un desiderio irrealizzabile, la risposta pronta è sempre quella. Ci l’aju tuttu lu jornu peri peri Si riferisce a persona d’intralcio, sempre tra i piedi. Nni fa scumazza a la vucca Riferito a persona che parla troppo per elogiare amico o parente. Carta di musica, ricetta di dutturi e discursu di marinaru Di tutti e tre non ci si capisce niente. A l’acchianata di lu Zanu si vìrinu li scecchi cùrriri Alla salita della contrada Zano si vedono gli asini correre. Per dire che il valore degli uomini sta nel saper superare le prove più difficili. Dunni arrivau lu addru di Sciacca! Esseri pizzicatu di la ciocca Dov’è arrivato il gallo di Sciacca! Essere beccato dalla chioccia. Si dice di persona con un passato prestigioso e che ora, in decadenza, è deriso anche da individui insignificanti. Dici chi lu pirocchiu avi la tussi Dicesi a proposito di colui che vuol darti a bere panzane. Ề l’àrvuru di lu beddru vìriri Ề l’albero del bel vedere, cioè di bell’aspetto ma senza cervello. Cca sutta nun ci chiovi La frase si accompagna con il gesto della mano sinistra tesa con sotto puntato l’indice della destra. Significa che si è al coperto da qualsiasi maldicenza o insinuazione. Ncasa di Piruccheddru sunatura? Lo dice chi ricevendo la visita di qualcuno che lo vuole raggirare, lo avverte che ha sbagliato casa perché ne sa più di lui. Ci levu li scarpi mentri camina È il vanto di un lestofante per dire quanto è furbo. Mastru Paulu è tuttu tortu comu nna scala a babbaluci È storto come una scala a chiocciola. Cu ttia semu veramenti abbirsati Con te filiamo con il verso giusto. Espressione ironica.


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Betta a so maritu lu fa a bugghiuneddru Se lo lessa a suo piacimento, cioè a fuoco lento, lo fa agire a suo piacimento A chissu nun lu vogghiu mancu si mi lu stricanu mussu mussu Un tipo come questo non me lo prendo nemmeno se me lo stropicciano in bocca, come un boccone prelibato. Si unn'è Masi è mastru Masi Come dire, l'uno vale l'altro, non c'è differenza. Turuzzu, fa vèniri lu cori Salvatore, a guardarlo, solleva ogni cuore in letizia, tanto è bello, pulito e pieno di salute. La addrina fa l’ovu ma lu addru dici chi ci abbrucia lu culu Si dice quando un nullafacente si lamenta a vedere una persona lavorare. Lu muluni mi ntuppàu favazza Così si parla di persona che si scopre falsa e inaffidabile. Mi lassà ntririci Mi ha lasciato in asso. Si parla dell’idraulico, del vetraio o del muratore, il quale dopo aver cominciato i lavori non si fa più vivo lasciando disordine in casa. Truvau la scarpa pi lu so peri Si dice parlando di persona con atteggiamenti malandrini la quale, dopo tante malefatte e prepotenze, trova finalmente chi con maniere forti la costringe a desistere da ogni attività camorristica. Beddru spicchiu di mènnula amara Si riferisce a persona poco raccomandabile. Quannu camina pari chi cerni canigghia Riferito a donna che nel modo di camminare muove esageratamente braccia, ventre, seno e natiche, come se fosse impegnata a cernere la crusca dalla farina. Chiuvì e scampà


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È piovuto, ma subito è tornato il sereno. Questo detto è rivolto a persona coinvolta in un caso increscioso per dirle che l’accaduto è stato un episodio passeggero da dimenticare al più presto. Ogni ficateddru di musca è sustanza Anche di poco bisogna accontentarsi. Cchiù scuru di mezzanotti nun po’ fari È la risposta di un disperato, stanco della vita e che non ha più niente da perdere, ad un amico che voleva dissuaderlo dal compiere un’azione azzardata e pericolosa. Marcuzzu è figghiu di don Mosè Si dice così per non pronunciare vocaboli più volgari e offensivi. Si allude al fatto che nel pollaio delle donne piacenti e benevoli di Mazara razzolava un gallo chiamato Mosè, un donnaiolo attivo e intraprendente al quale numerose donne del popolo si davano volentieri. I “figli di nessuno” erano pertanto additati come “figli di don Mosè”. Don Pippinu fa l’òrvicamorti e spusaziti Per dire di un individuo affaccendato in ogni luogo e in ogni evenienza, che mette mano dappertutto. Ammiscari l’Agnusdei cu la cubaida Si dice di persona confusa, che parla a vanvera, che mette insieme cose inconciliabili. Ficu fatta càrimi mmucca Espressione fatalista di chi attende l’evoluzione delle cose, diffusa attitudine mazarese. Con questo detto si vuol rimproverare l’inettitudine e l’apatia. Si licca la sarda Sta a indicare persona avara o estremamente povera. Cu va a la marina e pisci nun trova, a lu puddraru s’attacca cu l’ova Alla sfortuna nella pesca si supplisce con i prodotti della terra. Mi voli beni quantu lu rizzu npettu


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Espressione ironica per sottolineare un sentimento ambiguo. Jornu curtu, pisci longu; jornu longu pisci curtu Il pescato varia a secondo delle stagioni. Iccari lu nìvuru comu la siccia È riferibile ad una persona malvagia che intende sfogare il suo livore o confondere il ragionamento. È na svirgugnata, pari lu cani di Mastru Jacu Pare che la cagna di mastro Jaco fosse sempre disponibile alle profferte sessuali. Haiu cosi di cuntari a lu mèricu Lo dice un povero cristo, in seguito a fatti dolorosi che frequentemente gli accadono. Fatti la nòmina e va cùrcati Guadagnata una certa notorietà, il destino è ormai segnato, nel bene o nel male. È la to casa chi ti strinci e ti vasa S’intende che soltanto nella propria casa ognuno si trova a suo agio. A chissu nun lu vulissi mancu pi cumpagnu di pricissioni Così si dice a proposito di persona antipatica e sgradita. Lu primu zuccu è muscateddru Modo sarcastico di chi comincia la giornata incontrandosi con qualcuno che non lo soddisfa per niente, sia egli un cliente moroso o un importuno abituale. Mi fici fari lu giru di la zita Era usanza che gli sposi, dopo la cerimonia nuziale celebrata alle prime ore del mattino, usciti dalla chiesa e accompagnati da uno stuolo di parenti ed invitati, al suono di un’orchestra di ottoni, facessero un lungo giro della città per la distribuzione di confetti e biscotti. Espressione usata quando si preferisce allungare il percorso piuttosto che imboccare la via più breve. Sugnu statu un misi all’àncora


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Così si esprime un pescatore locale con il suo linguaggio marinaresco, per dire che durante un mese intero non è potuto uscire da casa per malattia. Agghiutti partìculi e caca riàvuli Inghiotte ostie e defeca diavoli. Si parla di persona apparentemente pia e timorata e in realtà pronta a qualsiasi perversità. Voli la rariceddra pi ruttari Si dice di persona alla quale basta una piccola spinta o un lieve incoraggiamento per prendersi certe licenze. Avemu scutulatu carrubbi? Si ricorre a questo interrogativo quando si è costretti a ripetere quel che si è già ampiamente detto. Tumazzu vecchiu rattalora nova A persona anziana è conveniente associare una compagna giovane. Cu è lu megghiu è vaddarusu Non c'è nessuno che può vantare un buono stato. Chista è la zita Così stando le cose dobbiamo essere realisti. O tintu suli o tinta luna Questo è il commento del vicinato abituato a sentire violenti litigi tra coniugi, non sapendo precisare chi dei due è il cattivo. Mèttisi l’acqua rintra Non avere più bisogno della fontanella pubblica per attingere l’acqua, ovvero mettersi economicamente al sicuro. Mi la vonnu jttari nsacchetta a mia Senza che io sappia alcunché di questa scabrosa faccenda, qualcuno mi vuole ingiustamente coinvolgere. Lu Signuri duna viscotta a cui unn’avi denti Spesso si fa del bene a chi non sa trarne profitto. Mi pari lu spiziali Di Giorgi Così dice un commensale di famiglia rivolto a chi distribuisce le pietanze con avarizia, memore delle piccole dosi di polverina


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medicinale che il vecchio farmacista Di Giorgi preparava per i malati. Nun mèttiri puddricini a lu suli Si suol dire così a chi vuol sfoggiare discorsi inopportuni o avanzare pretesti. Aviri lu porcu rintra Significa avere acquisito sicurezza, essendo stato esaudito nella propria aspirazione. Ciccu mi tocca, tòccami Ciccu Si rimprovera, con questo detto, chi con qualunque mezzo stuzzica il proprio vicino tanto da provocarne la reazione, al fine poi di venire a vie di fatto e sfogare il proprio istinto rissoso. Partì comu na baddra allazzata Si dice di chi, dopo aver capito di essere poco gradito in una casa, gira sui tacchi con la stessa velocità di una pietra scagliata con la fionda. Iri fiddricculiannu Andare a caccia di folaghe, cioè andare per donne, cercando avventure galanti. Fari zàmmatu e cuffinu Fare sciacquo e nello stesso tempo mettere nel cesto la biancheria lavata, ovvero fare maldestramente due cose in una volta. Aviri l'ovu sbutatu Essere di cattivo umore, contrariato. Ci carìu caramela pi cannarozzu Si dice quando capita a proposito un evento felice inaspettato. A chissu l’haiu comu catapràsimu Si allude a persona molesta, scostante, pesante. Mèttici lu ìritu ’mmucca Sovente è la risposta ironica di chi indica persona apparentemente ingenua e inconsapevole. Aceddru di malauguriu Si definisce così persona che porta cattive notizie.


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Nna lu ulfu pigghiasti li sardi La frase è pronunciata con ironia, come per fare il verso a qualcuno che vuole ingannare o millantare. Pare che abbia origine dal fatto che i rivenditori di sardine, per invogliare gli acquirenti a comprare, reclamizzassero la merce dicendo che era stata pescata nel golfo, luogo ricco di pesci nutrienti e gustosi. Mi riri comu un attu cu culu arsu Mi ride in modo ambiguo, come fanno i gatti in sofferenza, fra il ghigno e il sorriso. Ci resi na certa nzimma Gli ho dato un certo accenno, un indizio, gli ho fatto capire in qualche modo come potevano essere andate le cose. Allianàrisi ntra li bròcculi Distrarsi tra i cavoli. Far finta di non vedere, non accorgersi di niente, agire con sotterfugi. Lu sceccu avi a tràsiri pi la cura Si usa dire quando ci si ostina testardamente a non arrendersi all’evidenza. Beddri amici chi avi mastru Aitanu! Questa frase ricorre ancora, scaturita da un fatto realmente accaduto. Tanuzzo, il sarto che abitava in via Sferracavallo, una notte sentì bussare alla sua porta. Scese dal letto e domandò chi fosse. «Amici», fu la risposta dal di fuori. Ma appena il povero diavolo dischiuse la porta una scarica di pallottole lo colpì in pieno. L’indomani la gente, commentando, diceva appunto: «Belli amici che ha don Gaetano!». Quannu scura haiu fattu un gniornu Così si esprime chi è stanco e rassegnato e senza nessuna velleità vede passare i giorni in completa indifferenza. Cu è fissa si sta a la casa Lo dice sempre chi si accinge a commettere qualche trasgressione alla legge. Leva di puppa e metti a prua


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Ci si riferisce a operazioni inconcludenti e inutili. Cu n’appi n’appi cassateddri di Pasqua Frase che accompagna la conclusione affrettata e sperequata di un’operazione di spartizione. Va duna la trippa! Vai al diavolo!


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CAPITOLO 2

I LUOGHI

Piazza Chinea, una volta centro pulsante e vivace di un’economia povera e luogo d’incontro prevalente dei mazaresi del ceto medio impiegatizio ed artigiano, quasi un’anticipata visione dei non lontani mercati tunisini, è idonea a rappresentare l’inizio di un variegato itinerario cittadino, laico e religioso, rivissuto nelle voci, nei colori, negli odori, nelle architetture e perfino nei silenzi improvvisi di strade e piazzette. È preferibile a questo punto riassumere con Lorenzo Inzerillo, viaggiatore instancabile e appassionato di una città assaporata sino agli angoli riposti, le tracce di una possibile personale topografia di sentimenti nascosti per naturale pudore. Il percorso che suggerisce l’autore si sviluppa da Piazza Chinea per strade, vicoli, piazze, monumenti della fede, luoghi di lavoro.


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Piazza Chinea «Mastru Filippu è un veru caniotu, di la matina a la sira, nun fa àutru che vuciari». A Mazara si dava l’appellativo di caniotu a tutti coloro che abitavano o frequentavano la piazza Chinea, posta al centro della città antica; la piazza era per la sua ubicazione preferita da tutti coloro che vivevano di commercio. Vi sorgevano botteghe varie, ambulanti e stabili per cui era un continuo vocio, un richiamo ai clienti, un frastuono, un baccano da stordire. Ricordiamo: la zì Dianeddra D’Angelo fruttivendola, Nino Nuccio idem, Calorio Rallo macellaio, Nino Mannina pasta e giornali, Vincenzo Bucca macellaio, Vito Cusumano che con un nichel (20 centesimi) ti dava una cartata di miscu (fillata, salame e i suoi affini), Rubieli con la sua cicoria di montagna, Cola Surciteddru cu li purpa maiulini, lo zù Peppi Catania venditore di fichidindie sbucciate, Vito Pisciotta lu caliaturi, c’era anche Peppi Ramunno cu la fussetta.

Mastranza Era chiamata così via Garibaldi, una volta vera processione di negozi eleganti ed affollati, gestiti con impeccabile professionalità ed orgoglio da tanti artigiani. Vi si trovavano le migliori sartorie della città, i più bravi barbieri, cappellai, orafi e altri lussuosi negozi di artigiani. Le luci delle vetrine davano alla strada un tono aristocratico. Il basolato si prestava benissimo alle passeggiate dei mazaresi che erano sicuri di non incorrere in qualche pozzanghera, come spesso accadeva nelle altre vie a terra battuta.


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Lu Chianu Esteso spiazzo pianeggiante, oggi denominata Piazza della Repubblica. Due viaggiatori francesi della fine del ’700, Desprez e Berthault, hanno disegnato e inciso una splendida immagine della piazza, dove insistono, in decorosa armonia architettonica, cattedrale, seminario diocesano e palazzo vescovile, una sequenza oggi rovinata dall’accostamento imposto dalla protervia estetica di pubblici amministratori con la costruzione nella piazza di un edificio di stampo teutonico. Chissà se un giorno, a futura memoria, non si riuscirà a collocare una lapide di marmo con i nomi, in ordine alfabetico, degli artefici del misfatto compiuto qualche decennio addietro; ma la memoria, si sa, non ha purtroppo futuro.

Lu Culleggiu Piazza del Plebiscito, dove sorgono le antiche chiese di S. Egidio e S. Ignazio. Prende nome dal Collegio dei Gesuiti, una volta cittadella degli studi e ora desolato Centro polivalente in cerca d’autore, presentatori e radi visitatori. In una stradina stretta che dà nella piazza si ricordano due celebri taverne, meta assidua di artigiani mazaresi che numerosi accorrevano dai Fratuzzi e dalla za Chiara.

Sutta lu toccu Nella stradina, che fiancheggia da un lato le mura del Seminario e dall’altro il palazzo Burgio e conduce dalla Piazza della Repubblica in via Molini oggi Tortorici, era collocato sotto l’arco un orologio che con i suoi rintocchi dava l’ora ai residenti. Da qui la denominazione. A Porta Palermo invece c’è ancora


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l’ultimo orologio con pubbliche funzioni, sostitutive di significativi momenti liturgici, ma resta in silenzio, soddisfatto della sua eleganza decorativa ottocentesca.

La strata di lu silenziu Corrisponde a via dell’Arco: dal palazzo vescovile conduce alla palestra delle scuole elementari maschili, come venivano chiamate ai tempi delle distinzioni di genere.

A lu purteddru Era la porta più piccola che immetteva nella città, oltrepassata l’antica cinta muraria, dalla riva sinistra della foce del Mazaro. Ora prende nome dal sacerdote G. B. Quinci (Patri Spaccarizzi), tra l’altro autore di una pregevole opera sul porto mazarese negli anni Trenta del Novecento. Lu curtigghiu di lu ’nfernu Cortile particolarmente rumoroso e rissoso, in via S. Giovanni, dinanzi “a la scinnuta di li inglisi”, che operavano nel settore enologico dalla fine del Settecento. Era abitato da gente che si accapigliava quotidianamente. Un vero inferno!

A ddra banna la chiatta Quando il Trasmazaro era tutto orti e campagna e solo poche casette sorgevano attorno ad uno stabile adibito al salato delle sar-


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de, chi doveva attraversare il fiume Mazaro si serviva della chiatta, un vecchio pontone che traghettava persone e animali da una riva all’altra. Il proprietario era il signor Bua che teneva a suo servizio un certo Marco Tumbiolo, il quale aveva il compito di far pagare il pedaggio a chi si serviva del traghetto. I singoli viaggiatori pagavano due soldi, per gli animali il loro padrone pagava “a muzzu”, cioè un tanto senza fare la conta, mentre i pescatori di sarde che portavano il loro pescato agli stabilimenti di salatura dei fratelli Bruno lasciavano la “manata”. Infatti, l’attento zu Marco, da preciso doganiere, affondava la mano nel cesto che il pescatore portava a braccio, per asportare quanto più sarde poteva.

A lu Priatoriu È la piazza Immacolata, una specie di zona residenziale per la gente di antico casato che vi abitava. Vi si affacciavano le finestre munite di valide inferriate, attraverso le quali si potevano intravedere le suore del vicino monastero di San Carlo, che impartivano lezioni di taglio e cucito alle avventizie.

La vaneddra di li corna Oggi è via Paolo Ferro. Dell’origine di questa denominazione troviamo pareri discordi: c’è chi dice che tempo fa in questo budello di strada gestivano la loro attività alcuni macellai, i quali per insegna esponevano la testa completa di corna di bovini macellati. Altri invece sostengono la tesi che essendo la stradina priva di sole e umida, era infestata da miriadi di lumache. Altri ancora e sono la maggioranza la spiegano così: siccome le spose


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che abitavano il vicolo erano delle provette lavoratrici in amore, quando i mariti erano lontani facevano lo straordinario.

La strata di li scarpara Così si chiamava la popolosa via Bagno, dove si concentrava la gran parte dei calzolai di Mazara. Riguardo alla denominazione, gli storici ci dicono che lungo tutto il suo percorso sorgeva un fossato d’acqua adibito a lavatoio pubblico. Sovente si assisteva a violenti litigi per un posto ove porre i panni da lavare, tra donne arabe provenienti dalla vicina casba e donne ebree che scendevano dalla via Goti, nei pressi della quale sorgeva la loro sinagoga.

La strata di la cursa Già via del Popolo e oggi Vittorio Veneto, era chiamata così perché in occasione di ricorrenze significative vi si svolgevano con grande concorso di pubblico rumoroso ed agitato le corse dei cavalli senza fantini.

Lu Carmineddru In via Ospedale Vecchio, non lontana da tanti contenitori della fede, in tempi immemorabili era stata collocata un’icona della Madonna del Carmine, forse per redimere tante anime peccatrici. Tuttavia i risultati non pare siano stati esaltanti se la gente definì quel quartiere (decisamente malfamato) la strada “di li fìmmini tinti”. Tenutarie storiche delle case di tolleranza furono le sorelle Mummina e Petricchia, Anna la custariota e Pippina Fungia. Tra


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le lavoratrici autonome lasciarono ricordo Vitina la pani e ficu, Concettina la nanfarusa e Rosa La Lumia, in concorrenza per gli sconti favolosi che praticavano a giovanissimi neofiti ed anziani in cerca di infarti.

Lu curtigghiazzu Intorno a via Goti era la Giudecca, un agglomerato urbano con al centro la Sinagoga, soppressa dopo il 1492 e trasformata in chiesa cattolica (S. Agostino) in seguito all’espulsione degli ebrei dai territori sottoposti alla giurisdizione spagnola come la Sicilia. Lu curtigghiazzu dava il nome a tutto il rione.

Lu picu Labirinto di case e cortiletti, di vicoli e patii, di impianto architettonico islamico, nel cuore della casba mazarese: la Pilazza, lu Bomminu, ecc.

La Maddalena La strada anticamente non aveva sbocco. Solo un vicolo stretto e tortuoso portava il passante in piazza S. Veneranda. Questo labirinto era frequentato soprattutto da coloro che lontani dalle proprie dimore avevano urgente necessità di soddisfare i propri bisogni corporali. Ancora oggi a qualcuno che ti importuna o ti fa dei discorsi e proposte insulse, gli si dice: «vai a cacare alla Maddalena». Come dire: «levati davanti ai miei occhi».


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A la batieddra Nelle vicinanze della chiesa di S. Agnese era aperta una piccola Badia accudita da poche povere monache, non si sa di quale ordine, mentre nelle aree circostanti si innalzavano i ricchi monasteri di S. Michele, S. Veneranda, S. Caterina. Negli ultimi tempi però sorsero nel quartiere delle case malfamate.

Santamaraggesu Nel XVII secolo sorse a Mazara nell’estrema periferia lungo il fiume Mazaro, a metà strada tra il centro abitato e la contrada Miragliano, un convento di frati e l’attigua chiesa di Santa Maria di Gesù. A poco a poco negli anni successivi, si costruirono le abitazioni al posto degli orti. Il Crocifisso, che in primavera inoltrata è portato in processione, inevitabilmente provoca una insistente pioggia. Perciò il Crocifisso di Santamaraggesu.è entrato nei modi di dire mazaresi. «E chi niscìu lu Signuri di Santamaraggesu?», si usava dire quando pioveva a maggio. La chiesa e l’annesso convento nell’Ottocento furono ritratti in una incisione di F. Vanzel e A. Vianello.

A li Cappuccini Il quartiere prese nome dal convento eretto dai frati Cappuccini nei secoli scorsi, con annessa chiesa, in origine assai appartata e col tempo circondata da povere case costruite alla destra di via Salemi. Era meta di viaggi fuori porta, di pellegrinaggi che si svolgevano ogni lunedì per una preghiera speciale alle anime sante del Purgatorio. Sotto la chiesa, come in tutte le chiese diret-


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te da frati di ogni ordine, si poteva visitare la cripta dove venivano sepolti i Cappuccini. Questi, come voleva l’usanza, erano appesi alle nicchie, previo trattamento di mummificazione. Nel pomeriggio del giorno di Pasqua si usava compiere la rituale caminata a li Cappuccini.

A Turribianca Intorno svettava una torre di avvistamento che ha dato nome all’attuale piazza Matteotti. Si trattava di una torre superstite dell’antica città murata. Fino a poco tempo fa sorgeva al centro della piazza una fontana abbeveratoio.

Arrè li mura Case costruite dietro le mura cittadine, dalle parti delle vie Tenente Gaspare Romano e Callimaco Monteverde. Si indicava con la denominazione tutto il quartiere comprensivo delle viuzze circostanti.

Arrè lu cozzu Forse prende questa denominazione perché la zona di via Leto, una sorta di campo franco abusivo per duellanti, fu teatro di una sfida nel corso della quale un tizio, evidentemente poco coraggioso ed alquanto distratto, si esibì con un coltello di cucina brandito dalla parte opposta al taglio (lu cozzu). Quando due scapestrati venivano a diverbio, si dicevano: «ti aspetto arrè lu cozzu stasira».


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La fiureddra Così era chiamato quell’agglomerato urbano, che va dalla via mons. Graffeo a via Figurella, oggi Boscarino, nonché da via Perez a via Abate Vito Pugliese. L’origine della denominazione è da ricondurre all’effige sacra collocata in uno slargo.

A la rota Nella zona di corso Calatafimi, tra orti e sparsi casolari, si ammirava una senia con una grossa ruota agganciata alla quale vi erano dei contenitori di zinco per attingere acqua da un pozzo e quindi versarla nell’invaso della gebbia. Quest’acqua ovviamente serviva agli ortolani per irrorare gli ortaggi.

A lu jardinu di Maccagnuni Le case della contrada tutt’attorno all’attuale ospedale erano alternate a ricche ville, mete di soggiorno estivo dei signori di Maccagnone. Un giardino sontuoso che era un’opera d’arte, circondava il gioiello del fabbricato, le cui vestigia ancora oggi dicono della sua nobile signorilità.

La campagneddra Era così chiamato quel terreno che dalla chiesa del Santo Padre arriva fin dove oggi sorge l’hotel Hopps. Allora di case ve ne erano poche fra gli orti, con tanta vegetazione di campagna fino al mare. Il luogo all’aperto era frequentato dai ragazzi che venivano anche da rioni lontani per giocarvi a li ciappeddri, gioco


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parente povero delle bocce. Ciappeddri erano dei pezzi di mattoni di terracotta.

A lu rùzzulu Con questa espressione si identificava lo slargo tra via Torino e via Fiorentino, dove c’era spazio sufficiente per piazzarvi lu rùzzulu, quel macchinario a forma circolare come una grossa ruota che serviva ai funaioli per fabbricare le corde.

A lu mulinu a ventu Nella via per Marsala, all’estrema periferia della città, accanto al fondaco e a poca distanza dagli stazzuna, ove si fabbricavano tegole e mattoni di terracotta, sorgeva un maestoso mulino a vento che ha dato il nome alla zona. Nei dintorni i più romantici avevano modo di ammirare i mulini di Miragliano e della famiglia Bonacasa. Gli abitanti del quartiere erano rinomati per la manifattura delle scope di giummara.

A lu bagghiu Era così chiamato quel tratto lungo il Mazaro, fra piazzetta dello Scalo e via Isola delle Femmine, ove a mezzo cammino s’innalzava un grande fabbricato a forma circolare, con una corte spaziosa. Era composto da un palazzetto signorile con ai lati altre costruzioni meno eleganti dove alloggiavano le famiglie della servitù. Il plesso apparteneva alla famiglia De Maria. Chi si trovava a passare di là poteva ascoltare la musica di un pianoforte,


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suonato dalla signora Ida che si accompagnava cantando, da buon soprano, le arie verdiane, di Rossini o Donizetti.

A la cruci di ferru Sorgeva questo imponente monumento sormontato da un’enorme croce di ferro alla periferia della città, sulla strada per Castelvetrano. Nei paraggi si potevano ammirare i villini dei benestanti, dove abbondavano oleandri, palme e pinete.

A la Cruci Dove finiva la via del Popolo (oggi Vittorio Veneto), all’angolo con via S. Maria di Gesù, si erge ancora una grande croce di legno, come tante che sorgono ai margini di ogni agglomerato urbano. Nei dintorni abitavano le famiglie dei nassaioli, dei pescatori che andavano a mare con le nasse per la pesca del pesce azzurro. Il rione sembrava a festa quando le nasse erano esposte al sole per le riparazioni.

A lu jardinu di Fileccia Localizzato nella via oggi denominata Val di Noto, l’orto dava il nome alla zona, in passato aperta campagna. Così pure l’ortu di Picciuni, situato dalle parti di via Unità, l’ortu di lu baruni Bonu, tra via Amalfi e via Mandina, e l’ortu Ntruneri, nei pressi della piazza delle Tre Giornate, erano designati quali luoghi di riferimento per orientarsi nello spazio urbano fuori le mura.


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A li cammareddri Con questa denominazione erano identificati lo stabilimento balneare in legno e il luogo di insediamento: di fronte alla via Punica.

A la luci elettrica Si indicava comunemente, ancora fino a qualche anno fa, la via Toscanini, dove sorgeva la prima centrale elettrica.


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CAPITOLO 3

I MESTIERI

C’erano una volta i mestieri tipici di una economia precapitalistica assai povera, caratterizzata spesso dalla vendita porta a porta e perfino da forme di scambio dei prodotti. Con lo sviluppo del mercato, l’avanzamento della scienza e la diffusione di nuove tecnologie nei sistemi di produzione e di scambio, questi mestieri erano destinati a scomparire e con loro anche gran parte dei proficui rapporti interpersonali e il divertente rito della dialettica sul prezzo dispiegato con abilità allenata tra venditore e acquirente. E chi oggi avverte freddezza nell’incontro anonimo tra domanda ed offerta nei supermercati non può che nutrire una vaga sensazione di nostalgia, recuperata nel teatro della memoria, per artisti valorosi del lavoro senza diritti.


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Lu vinnituri di scupi In via Scopari, fra le famiglie ivi abitanti che confezionavano scope, vi era quella dei Dado, composta da padre, madre, la figlia Concetta e il figlio Raffaele. In paese, questo nome era tutto un programma. Quando si diceva Raffaele equivaleva a goffaggine e ottusità. Papà Dado andava in campagna nelle sciare (terreni rocciosi) a raccogliere l’erica, la moglie faceva la curdiceddra, Concetta che era svelta di mano confezionava le scope, mentre Raffaele aveva il compito di venderle per la città. Il nostro, dopo aver fatto il carico, riceveva dal padre la raccomandazione severa che ogni scopa si doveva vendere due soldi. «Scupi fotti» gridava Raffaele per le strade. Alle volte capitava qualche burlone che, chiamatolo e fatto scendere il carico dalle spalle, tastate le scope una per una, chiedeva quanto costassero. Immancabilmente il venditore rispondeva: «due soldi ognuna». Allora il finto acquirente offriva tre soldi, facendo andare in bestia Raffaele che gridava: «a lu burdellu!». Anche nel rione del Mulino a vento fiorivano laboratori di scope, le quali venivano consumate a centinaia, tenuto conto che le nostre massaie per pulizia nelle case non le supera nessuno.

Lu vinnituri di carvuneddru manzu Girava con un carrettino, tirato a mano, carico di carbonella. Con due soldini ne dava un quartu. Si chiamava così il contenitore di latta che serviva a misurare la merce e che corrispondeva a circa un chilo e mezzo di peso. Il commercio era ovviamente d’inverno, specie nei giorni più freddi. I clienti in maggioranza erano le vecchiette che “si cuvirnavano lu cufuneddru”, si prepa-


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ravano lo scaldino, attizzando la carbonella per riscaldarsi e collocando il fuoco, poi, sotto la veste, così da non disperdere il calore. In ogni casa le persone anziane, comprese gli uomini, avevano il loro scaldino personale. Lu carvuneddru manzu lo compravano anche le giovani mamme per preparare il trabiccolo, con il quale asciugavano i pannolini dei loro bambini nelle giornate piovose o nel corso della notte.

Lu sinsali di vinu Giravano con le tasche piene di bottigliette contenenti vino. Li prelevavano presso i burgisi che avevano da vendere qualche botte di vino. Turi Amato era il migliore sensale della piazza, simpatico e molto attivo, rispettoso, vecchia maniera e persuasivo. Si recava dai venditori di vino dicendo loro: «vedi questo campione? È del vigneto del Carmine di Masi Russo, vedi com’è ambrato? Assaggia la pastosità. Questo vino come gradi si avvicina ai 15° e poi non è caro, il proprietario chiede duecento lire la botte, ma io te la lascio passare per 180 ». E così presso le altre bettole. La sera, la moglie gli chiedeva secondo l’abitudine: «Turi, oggi nascìu Gesù Bambino?».Voleva sapere se la giornata era stata proficua.

Lu tavirnaru Di taverne a Mazara se ne contavano parecchie e tutte fiorenti poiché luoghi di ritrovo di tutti i lavoratori che, cessata la diuturna fatica, si riversavano nelle bettole per giocare al tocco o a carte. La posta naturalmente era un bicchierone di vino genuino. Qualche taverniere era provetto nel preparare gli schiticchi, cioè cenette piccanti e succulente che facevano tanta sete. Il menù era


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composto di curateddri fritti (fegato e dintorni di agnello), ghiotta di pisci (lesso di pesci vari), milinciani chini (melanzane ripiene), gamberetti fritti, olive schiacciate con aglio e prezzemolo e altri piatti attira-cannatuna che sarebbero dei contenitori di vino che i clienti svuotavano come se fosse diluvio. Fra questi schiticchiari i più noti erano i Fratuzzi con esercizio al Collegio, la Za Chiara a S. Teresa e donna Pasqualicchia la trummittera in via del Popolo. Fra quelli che vendevano solo vino e gassose citiamo: Vanni Palmieri, Pietro Angileri, Peppi Bianco e Vinceddru Scurciddra.

Lu sunaturi di pianu a lu cìnima mutu Si chiamava Tittinu Alagna, di poca statura fisica ma di gran talento nello strimpellare il piano. Suonava ogni sera nell’unico cinema del paese. Si era ancora al muto, ma il bravo Tittino con il suo piano, situato sotto lo schermo, divertiva gli spettatori. Quale vero ausiliare indispensabile per lo spettacolo, adottava magistralmente i ritmi musicali secondo lo svolgimento sul telone bianco. Se per esempio si svolgeva un assalto di cavalleria, allora il maestro Alagna faceva uscire dal suo pianoforte una musica di crome punteggiate che facevano galoppo e carica. Se si svolgeva una scena d’amore, allora nella sala si udiva un valzer languido e armonioso. Se poi capitavano casi di delitti o calamità o morte una marcia funebre faceva al caso.

Lu conza piatti e lemmi Veniva da un paese del Belice, zu Nnirìa Gianconteri. La sua figura si notava da lontano essendo caratterizzata da un incedere a statura alternata, avendo il buon uomo una gamba deficitaria di


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un mezzo palmo rispetto all’altra. Per cui ora lo vedevi in altura, ora rasoterra, portava con sé una borsa tracolla con dentro un trapano, dei fili metallici e della calce. Lu Zu Nnirìa girava per le strade pi cunzari piatti e lemmi rutti o ciaccati, per acconciare e riparare i piatti e i contenitori di terracotta per lo sciacquo della biancheria, lemmi appunto, sia che erano spaccati in due pezzi sia che erano lesionati. Prima d’incominciare, quasi sempre, si discuteva con i clienti sul prezzo: «questo piatto, diceva Andrea Gianconteri, ha bisogno di otto buchi che a due soldi a buco fanno sedici soldi». Se la clientela non aveva la somma richiesta, il nostro artigiano cuciva tanti punti quanti erano le possibilità pecuniarie della clientela stessa. La riparazione consisteva nel fare i buchi occorrenti, col trapano, nelle due parti dell’oggetto spaccato, dove infilava il filo di ferro che veniva poi stretto e attorcigliato con della calce liquida per camuffare tutto. Lo Zu Nnirìa era atteso con impazienza nelle case dove era accaduta una vera calamità (sic), dove cioè si era rotto il piatto grande, quello dove mangiavano la minestra, appaiati, marito e moglie. Guai se uno dei coniugi si rifiutava di mangiare nello stesso piatto “matrimoniale”; succedevano ammazzatine, cioè litigi a non finire. Era come essere disonorati!

Lu sapunaru Era lo Zu Vicenzu Pipituni, chiamato Pippineddru per via della sua breve statura. Don Vincenzino esercitava in via del Popolo, commerciando sapone molle che prelevava da un grosso contenitore di latta, con una cazzuola, per depositarlo poi su un vistoso foglio di carta blu, di spessore consistente. Alle massaie lavandaie che venivano al suo negozio regalava lisciva, levatacchi e azzolo, con grande contento delle clienti, poiché altrimenti dovevano, per risparmiare, ricorrere al vecchio sistema della cenere


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colata per togliere il ruvido della biancheria. Il commercio del sapone molle è stato nel passato molto redditizio per la grande quantità di smercio.

Lu ficurinniaru Sceglievano i punti strategici della città per esporre in capaci ceste di vimini i loro friscarelli, così chiamati i succosi fichidindia di Santa Margherita Belice. Lu ficurinniaru aveva cura di disporre la merce, mettendo in bella mostra i frutti più belli, più coloriti e più grossi, mentre quelli piccoli e sbiaditi li metteva un po’ in ombra. I fichidindia si vendevano “a taglia e mangia”, volendo significare che il consumo avveniva sul posto. Bisogna dire, per la storia, che prima di mettere mano al coltello il rivenditore, dopo aver pattuito il prezzo, un soldo al pezzo, imponeva al cliente una clausola: «una la comandi tu – diceva – e una la comando io». Naturalmente l’acquirente sceglieva la più grossa e il venditore sbucciava la più piccola. Si racconta, per inciso, che una volta un cliente burlone, non appena ebbe mangiato il più bel frutto del cesto, disse: basta! E pose il suo soldo al trasecolato ficurinniaru.

Lu crivaru Per lo più questi venditori di setacci venivano dai paesi di montagna dalla Valle del Belice. Calavano carichi fino all’inverosimile di questi accessori tanto utili e necessari nelle case. Ne portavano di tutte le qualità e dimensioni per cernere la farina o i cereali. Anche qualche ambulante locale si vedeva circolare per il paese. Fra questi spiccava la figura di don Turi Emmola, uomo serio, amico degli amici ma nemico delle mosche,


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proprio così, specie se una di queste mosche aveva voglia di saltargli sul naso. Reclamizzava la sua merce con la sua inequivocabile cantilena: «Accattativilli li me criva, criva fini, criva d’occhiu. Quannu mi circati, nun mi truvati».Turi aveva un figlio chiamato Calcedonio, rinchiuso nel carcere di S. Francesco. L’avvocato difensore espresse l’auspicio che il detenuto si attenesse sempre alla dichiarazione resa davanti al giudice. Poiché era impossibile stabilire un contatto diretto con il figlio per definire una linea difensiva, Turi Emmola, quando andava in giro per la vendita quotidiana, passava nelle vicinanze del carcere e quindi con voce stentorea, magnificando la bontà della sua merce, inseriva abilmente la raccomandazione dell’avvocato, e cioè: «Calcedonio figlio mio, sempre un dittu a fari. Accattati, accattati li me criva!».

Li purtaturi di ghirlandi Erano dei poveri diavoli malvestiti, qualche volta invalidi. I capi sciacalli erano i fratelli gemelli Scaccianoce che, di buon mattino, facevano il giro delle chiese per incontrarsi con gli amici sacrestani, onde apprendere se per quel giorno “ci fussi ficateddru”, se cioè fosse deceduto qualcuno e si stessero quindi preparando i funerali. Quando la risposta era affermativa, si informavano del domicilio del morto e ivi si recavano piantonando la casa. Man mano che arrivavano le corone dei fiori inviate da parenti ed amici, gli Scaccianoce le allineavano vicino all’ingresso, facendone la conta, per poi avvertire in tempo gli amici portatori. All’orario stabilito questa pletora di miserabili si poneva alla testa del corteo funebre in una disordinata e indecorosa processione. I due gemelli Scaccianoce, al termine della cerimonia funebre, ricevuto il compenso, andavano a festeggiare in una taverna di


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Porta Palermo, da Vanni Palmeri con il quale brindavano con la frase: «Alla salute del morto!».

Li muzzunara Più che un mestiere quello dei raccoglitori di cicche poteva chiamarsi un commercio. Abbastanza nota era la famiglia Tapparello, padre e figli. Tutto il giorno muniti di bastone con spilla raccoglievano quante più cicche potevano. La sera aiutati dalle donne cominciavano il lavoro di sminuzzatura, cioè toglievano la carta dalle cicche e il trinciato di risulta veniva poi incartato a piccole dosi e venduto ai clienti affezionati, poveri e incoscienti.

Lu panneri cu la tagghia Girava per i quartieri popolari carico di scampoli di stoffa che vendeva a credito. Ad affare stabilito, il panneri tirava fuori dalla tasca due pezzetti di venti centimetri circa di ferula su cui incideva un taglio se i debiti erano di una lira. Tanti tagli quanti erano le lire del debito. Le incisioni erano eseguite su tutte e due i pezzetti di ferula, poiché uno restava al cliente e uno al venditore per un controllo alla prossima trattativa. Assidui lavoratori di questo commercio erano don Tano Buscemi e don Ciccio Lombardo. Quest’ultimo era alquanto intraprendente con le belle clienti. Alle donne incinte insegnava come si poteva sapere prima se il nascituro fosse stato maschio o femmina. Spiegava: «chiamate una puerpera del vicinato, fatele versare qualche goccia di latte su una moneta, che applicherete sul ventre della gestante: se la moneta resta appiccicata vuol dire che sicuramente il nascituro sarà maschio». La cosa singolare era che il nostro vegliardo galante voleva assistere dall'A alla Z dell’operazione.


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Lu distribuituri di chininu Erano in tanti a distribuire il chinino nelle contrade dell’agro mazarese, quando era infestato dalla malaria. Ma il personaggio era Ludovico La Grutta, figura caratteristica molto nota in città e ancor più nelle campagne. Trasandato nel vestire mezzo borghese e mezzo militare, bracciale della Croce rossa, divorava chilometri da San Nicola a Sicomo, dai Margi a Pignolo, con il suo incedere allampanato e i suoi occhiali spessi per la forte miopia. Ludovico, infermiere erudito in medicina, benché alquanto scontroso, era amato dai concittadini, ai quali distribuiva il farmaco antimalarico, sempre prodigo di consigli sulla salute.

Lu vinnituri di carcucciuliddri Con un cestone di vimini colmo di piccoli carciofi spinosi, raccolti nelle sciare allo stato spontaneo, lu carcucciularu occupava i punti strategici della città, per vendere la sua merce accuratamente bollita e cosparsa di sale. I ragazzi con due soldi potevano riempirsi le mani. Anche le persone adulte erano buoni clienti: dopo aver spizzuliatu il carciofo salato, l'affogavano con il vino.

Lu ugghiaru Fra i rivenditore di olio d’oliva al minuto, don Cola Asaro, che esercitava in via S. Giovanni, era l’uomo più frequentato e conosciuto in città. Alla sua bottega sempre linda e ordinata veniva gente da tutte le parti, e non solo per la sua bonorietà, ma anche per una sua caratteristica nel lasciare contenti i clienti. Chi di soldi ne aveva pochi si recava da don Cola che sicuramente per quel giorno il condimento per il pranzo non mancava. Infatti il


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bravo bottegaio l’olio lo vendeva anche “a misureddra” (a decilitri) o addirittura a mezza misureddra. C’è da aggiungere che nel modo di misurare faceva l’abbuccatura, riempiva cioè la misuredda fin sopra l’orlo. E ancora, quando la misura era versata attraverso un imbuto nella bottiglietta del cliente, questa non veniva tolta all’istante ma era fatta “riposare”, in modo che sgocciolasse fino all’ultima stilla, mentre don Cola artatamente raccontava una barzelletta. Dicevano le donne: «Diu lu binirica, ci fa la abbuccutura e la sculatura». Don Cola era noto anche per le sue cartate di muddricheddri di tumazzu che sovente regalava ai clienti. Era persona davvero onesta e generosa, un vero gentiluomo.

Lu lantirnaru Ogni tardo pomeriggio, il sig. Tumbiolo, austera figura con barbetta alla Mazzini, si recava puntualmente alla “punta di la banchina” (così era chiamato il molo di levante alla foce del fiume Mazaro), per accendere la lanterna, ovvero il faro, per poi spegnerlo la mattina seguente.

Lu spiccialana Dalla sua abitazione di via Cortigliazzo Turi lo Voi si partiva ogni mattina per recarsi di casa in casa munito di apposito cardaturi per districare la lana che le massaie avevano comprato grezza dai pastori, dopo la tosatura delle pecore. Turi lo Voi, sempre avvolto nel suo logoro ferriolo, durante il suo lavoro raccontava, fra una sigaretta e un’altra, come i padroni tenevano schiavi i poveri lavoratori. Il piccolo Turi era nato decisamente “buttato a sinistra”.


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Lu tincituri Con laboratorio in piazza Porta Palermo, don Vincenzo Norrito, di corporatura piĂš larga che alta, era un vero mago. Riportava a nuovo ogni indumento che aveva fatto il suo tempo. Da sbiadito, logoro, rattoppato, il mago don Vincenzino ti presentava un capo di vestiario rinnovato.

Lu cirinaru Tanti anni fa, i fiammiferi si potevano fabbricare e venderli in libertĂ , non essendo ancora assoggettati al monopolio di Stato. Don Pippino di mestiere era corriere, nei ritagli di tempo arrotondava. Si era costruita nella sua abitazione della Giudecca, un groviglio di cortili e viuzze, una fabbrichetta per la confezione dei cerini. Questi zolfanelli, Peppino non li iscatolava ma li vendeva a mazzi, senza metro nĂŠ peso.

Lu tunninaru Nei mesi invernali chi transitava dinnanzi ai pochi spacci di verdura poteva vedere sulla soglia delle loro botteghe dei pentoloni fumanti, contenenti del tonno bollito che si vendeva dal mattino alla sera inoltrata. Fra i venditori di questo prelibato companatico, il signor Girolamo Pernice, detto Mommo lu tunninaru, vendeva di piÚ, dato che il suo punto di vendita era ubicato a S. Antonio, un posto molto transitato. Al cliente che, avendo solo due soldi, chiedeva la buzzonaglia, ovvero la parte meno pregiata del tonno, lo zu Mommo non incartava la merce ma l’avvolgeva in una semplice foglia di cavolo. Quando si dice la lotta di classe!


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Lu vardaru Prima dell’avvento dei mezzi di trasporto meccanizzati, i sellai o bastai facevano buoni affari. Questi “sarti di cavalli” erano fanatici e facevano a gara a chi bardava meglio le cavalcature dei loro clienti, bardature smaglianti e multicolori, ciancianusi, con campanelli dappertutto, sul collare, sul basto, nel paraocchi, ricami e lanerie a non finire. Pippino Capurali, Neddru Liuni e Vitu Ruppiddru erano i vardari mazaresi più noti.

Lu pittacarretti Un provetto pittore di carri agricoli fu Vito Trummitteddra, il quale con diletto e perizia descriveva con pennello e colori le gesta epiche dei paladini di Francia o i dei tre moschettieri, nonché la rappresentazione di fatti di cronaca relativi al brigante Sata li viti, questo assaltatore di monasteri che sfuggiva alle guardie con la sua agilità nel saltare asperità di ogni genere.

Lu gnuri I cocchieri erano in servizio presso i signori locali. I più noti erano i fratelli Scaletta e Vannuzzu Cammarata, mentre Vartuliddru Scattiolo lavorava in proprio. Portava da e per la stazione i viaggiatori carichi di valigie, gli ammalati e i detenuti in trasferimento. Quella di Bartolomeo era l’unica carrozza da nolo che c’era in città. Faceva tutti i servizi necessari di trasporto persone, portava in chiesa, per il battesimo, neonato, genitori, mammana ovvero l’ostetrica e perfino i compari. Portava il pretore sul luogo dell’assassinio per gli accertamenti di legge, il medico


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all’obitorio per l’autopsia. Vartuluzzu Scattiolo risetto non ne aveva, non stava mai fermo, il lavoro non gli mancava. L’affittaseggi Ricordiamo Matteo “la signa” e Pippinu “la morti”, affittaseggi sempre in attività. In occasione di feste di matrimonio che si tenevano in casa , erano loro che fornivano le sedie per gli invitati, e così per battesimi, cresime e fidanzamenti. Nelle funzioni religiose di rilievo, le sedie occorrenti erano portate da Matteo e Pippinu. Così pure nei locali all’aperto, dove si tenevano i comizi o alla villa comunale, dove si svolgevano i concerti bandistici, unica ricreazione popolare.

Lu bicichittaru Negli anni prima della Grande Guerra, coloro che possedevano una bicicletta si contavano sulle dita della mano. Per cui don Biagino Alagna pensò bene di aprire un negozio di biciclette vecchie, che affittava ad orario quattro soldi l’ora, pur nella certezza che i ragazzi, non possedendo l’orologio, l’ora stabilita la lasciavano passare presi com’erano dall’entusiasmo. Ma don Biagino non si arrabbiava mai, ci sapeva fare. Nel suo originale commercio era all’altezza, anche se in fatto di statura lasciava a desiderare.

Lu vinnituri di caffè strati strati Fra gli ambulanti che scorrevano in lungo e in largo la città, il primo della giornata era il venditore di caffè, munito di un reci-


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piente con incorporato un tubo a collo d’oca per la fuoriuscita del miscuglio nero, composto da un quarto di caffè e tre di cicoria macinata. Lo zu Miccioni, di buon mattino, con la sua voce a cantilena che sovente s’incrociava con quella del gallo dei pollai vicini, girava per le strade, per vendere la nera bevanda. Pare che gli affari non erano poi disprezzabili.

La sinsali di matrimoni Si chiamava Catarineddra la bùbbita e faceva la mezzana di nozze. Corpulenta e prosperosa, d’aspetto dignitoso, vestiva bene ed era ossequiosa. Quando un giovane si innamorava di una ragazza, lo confidava alla propria madre che, a sua volta, ricorreva alla signora Caterina per prendere informazioni sulla ragazza e la sua famiglia. In poco tempo il fidanzamento era combinato, dato che la bùbbita come ambasciatrice era abile e diplomatica. Sfoggiava tutta la sua eloquenza per elogiare le doti degli aspiranti, presentandoli sempre come buoni partiti: «famiglia onesta, buon lavoratore, figlio unico, imparentato con il cav. Caio o con l’avv. Sempronio». L’abilità di Catarineddra stava soprattutto nel rendere accettabili i pretendenti. Se era, per esempio, di corta statura, diceva che le persone non vanno misurate col metro ma col cuore. Se era claudicante, diceva che col tempo sarebbe passato. Se era gobbo, diceva che oggi vi sono i sarti che con accorgimenti rendono quasi invisibile il difetto. Finiti i primi approcci, Caterina portava alla ragazza la pittinissa che, donata dal fidanzato, era subito acconciata tra i capelli in bella mostra, per significare ai giovani ronzanti che ormai era impegnata. Caterina la bùbbita intascava la ricompensa in denaro per il suo prezioso lavoro di intermediazione.


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Lu vinnituri di pagghia longa Figura povera di ambulante che si arrangiava a vendere dopo la mietitura la paglia lunga raccolta in grossi fasci. La paglia serviva a riempire i materassi dei letti matrimoniali.

Lu vinnituri di nassi pi li puddricini In passato non vi era casa senza che sulla soglia non vi fosse la stia dove si allevavano pulcini e quindi galli e galline. Durante l’anno le massaie con le uova ricavate dall’allevamento e i galletti venduti per la mensa festiva contribuivano in qualche modo al bilancio economico familiare. Mastro Turi Clemenza, una specie di falegname, faceva affaroni nell’allestire le nasse per i pulcini, con strisce di canne o di legno ottenute da casse da imballaggio. Lui stesso girava poi per le strade dei quartieri popolari a vendere le nasse.

Lu tabbacchinu Così chiama ancora oggi il popolo i gestori di rivendite di tabacchi. Un tempo vendevano soltanto generi di monopolio. Oggi sono degli empori che vendono di tutto. Fra i tabbacchini quello che faceva la “livata”, ovvero il prelievo dei tabacchi, più consistente era don Vitino Carmicio, un po’ perché la rivendita era nella popolosa piazza Porta Palermo, vuoi perché aveva un modo speciale di attirare la clientela. Infatti a coloro che avevano qualche soldo per comprarsi le sigarette o il mezzo sigaro, don Vitino veniva loro incontro. Per ovviare alla mancanza di cerini, che in gran parte molti non erano in grado di comprare, teneva in un angolo dell’esercizio un lucignolo sempre acceso, e sul banco un


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cestino di vimini pieno di striscette di carta, già tagliate in modo che il fumatore attraverso il lucignolo potesse attizzarle per poi accendere comodamente la pipa o il sigaro. Le sigarette, dato i tempi non proprio prosperi, si vendevano a dettaglio e qualcuno scomodava addirittura la matematica: con un soldo si poteva comprare un’indigena (3 centesimi), e una popolare (2 cent.), oppure con due soldi una nazionale (4 cent.) e una macedonia (2 cent.). A don Vitino ogni tanto piaceva celiare. Si ricorda di una vecchietta che, recatasi nella “privativa”, chiese al gestore un francobollo «di ccà a Trapani». Don Vitino tra il serio e il faceto rispose: «Mi dispiace, zia mia, ma io francobolli così lunghi non ne vendo!». Il carrabbineri era invece soprannominato il tabaccaio di via Porta Palermo, angolo via Sferracavallo. Don Antonio aveva militato nell’arma benemerita e per questo lo Stato gli procurò un lavoro dopo il congedo. A quei tempi i servitori dello Stato trovavano sicuro lavoro dopo aver lasciato il servizio: un posto di putineri, tabacchino, ferroviere o stratunaru non glielo toglieva nessuno.

Li tammurinara Nelle processioni aprivano il corteo con i tamburi grandi come una botte. Erano in due. Mentre uno faceva il rullo, l’altro faceva l’accompagnamento. C’era aria di festa al loro passaggio. Certe volte il rullo dei tamburi serviva a raccogliere la folla nelle piazze, dove poi un banditore annunziava un avvenimento, un’adunata, uno spettacolo. I tamburinai accompagnavano anche i questuanti di qualche comitato cittadino, che giravano per la raccolta di fondi necessari alla festa stabilita. Tammurinaru capostipite e provetto suonatore era a Mazara Giovanni Buffa. Di generazione in generazione la famiglia Buffa si è trasmesso il mestiere e ha partecipato alla banda musicale locale che, diretta


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dal valente maestro Scorrano, era chiamata ad allietare le feste anche fuori Mazara. Il figlio di Giovanni e di Mìnica, Turi detto appunto Vannimìnica, era apprezzato soprattutto per la sua magistrale rullata. Mezz’ora di rullio strepitoso, in un continuo crescendo, un’esibizione da vero campione del tamburo. L’abbanniaturi Il più noto banditore della città è stato Pietro Nasca. Lo si vedeva spesso girare con un pezzo di carne di vitello di bassa macelleria, cioè di animale infortunato che si vendeva a prezzo ridotto. Altre volte lo si vedeva con le patate arrivate da Napoli o con le castagne calabresi. Per piazze e vie sostava e con voce stentorea reclamizzava la merce. Pietro per questo lavoro non era di solito pagato, ma era autorizzato dai commercianti che se ne servivano a portarsi i campioni a casa. Tra gli astatori del rudimentale mercato all’ingrosso del pesce rimane nella memoria di molti Peppe Baddra. La mattina di buon’ora si trovava, primo tra i primi, al suo posto di lavoro, a fianco della grossa stadera, immobile, serio, quasi compisse un rito sacro. Lo zu Peppi, man mano che i capibarca deponevano i pesci sulla bilancia, incominciava ad astare: «Sunnu trigghi e mirluzzi», poi ritmava il prezzo: «dieci liri, ùnnici liri» e guardava gli abituali compratori, i quali con un piccolo impercettibile gesto della bocca o delle ciglia facevano capire all’astatore che aggiungevano un’altra unità al prezzo finora raggiunto: «trìrici liri, trìrici, trìrici, quattordici ci rugnu?». Poi faceva il nome dell’aggiudicato e passava ad astare muddrami: polipi, seppie etc. Dritto e impalato, lo zu Peppi s’inchinava verso le spaselle e ad ogni aggiudicazione prendeva una manata di pesce e la buttava nel suo paniere che poi portava a casa. Non appena il locale si svuotava di gente e di merce, diceva la rituale frase: «A la via!» e usciva anche lui.


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L’assuliaru Bidone in mano e relative misure, il venditore di petrolio girava per i quartieri popolari, per vendere il prezioso minerale per uso di illuminazione. A quei tempi era un lusso avere in casa un lume a petrolio. I più usavano la picchiusa, cioè il lucignolo ad olio. Nelle botteghe l’illuminazione avveniva tramite l’acetilene, ovvero il carburo di calcio. L’ultimo assuliaru ambulante per le strade di Mazara fu Vannuzzu, il quale vendeva anche liscivia. Si faceva sentire dalle massaie con la sua abbaniata caratteristica: «Fìmmini puliti, accattàtivi la liscìa».

Le lavanneri Nelle famiglie facoltose, nei giorni del bucato, si chiamavano le lavandaie di mestiere. Il primo giorno riempivano d’acqua di pozzo le pile, le vasche di pietra dove immergevano la biancheria sporca. Strofinavano con forza i panni, li sciacquavano e li ncuffinavanu, ovvero li mettevano in un largo catino di terracotta. L’indomani, di buon mattino, scuffiavanu, toglievano la roba lavata dal recipiente, per immergerla un’altra volta nella pila piena d’acqua, questa volta filtrata attraverso una stoffa colma di cenere. Con questo trattamento la biancheria diventava bianca e dopo uno sciacquo si sciorinava al sole. Infine si preparava la stiratura. Tutto questo per qualche lira e un po’ di pane.

Lu stimaturi In occasione di matrimonio, nelle case della sposa, otto giorni prima della cerimonia nuziale, si usava mettere la dote esposta. Prima che fosse definitivamente conservata, era puntualmente


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stimata. Per questo rito era chiamato un esperto, il quale alla presenza di amici e parenti, incominciava con voce solenne a contare i manufatti e a valutarli. Questi stimatori erano tutti sarti. Tra questi ricordiamo Nino Vento, Nonò Rubino e don Giovannino Savasta, sarto in via Porta Palermo. Quest’ultimo era persona seria e affabile, una figura simpatica con i baffetti spioventi. Portava occhiali a stanghetta. Prendeva uno alla volta i capi di abbigliamento da stimare e faceva la conta a voce alta: «Dieci lenzuola di flanella, lire 500; cinque coperte, lire 1000; quindici sottoveste, una cuttunina, venti mutandine ricamate.... ». Le mamme delle spose, particolarmente orgogliose, si vantavano poi dicendo ai vicini: «Io a mia figlia la dote gliela feci a dieci a dieci, oppure a quindici a quindici». Lu mastru r’ascia d’òpira grossa Costruivano carri, carrimatti, carrozzini e prosperavano, perché questi veicoli erano i soli che transitavano per le vie, vuoi per diporto vuoi per trasporto. Fra questi artigiani ricordiamo Mommo Accardi, Nzulu Agate detto Pizzuluni, Barracco e Vito Graffeo, detto Caifasso.

Lu vinnituri di aschiteddri Col suo carretto a mano il venditore di pezzetti di legno (aschiteddri) raccoglieva la merce presso le botteghe dei mastri d’ascia, i quali si prestavano con benevolenza ad aiutare questo piccolo e povero commercio. Appena riempito il carrettino, l’ambulante si arrangiava a rivenderli alle famiglie che li usavano per fare fuoco ai fornelli.


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L’annettapuzzi Nei tempi andati, solo pochi privilegiati usufruivano di acqua corrente. La stragrande maggioranza della popolazione attingeva l’acqua dai pozzi scavati nello stesso terreno dove sorgeva l’abitazione. Per quella potabile si andava alla fontanella più vicina. Ogni tanto questi pozzi avevano bisogno di essere puliti. A questo scopo girava per le vie, gridando la propria disponibilità, Matteo Piccone, il quale con grande destrezza si calava nei pozzi a piedi nudi, facendo piazza pulita di fango e detriti vari.

Li ncinseri Si vedevano nei cortei funebri di prima classe, due per ogni lato del carro di gala. Giovannino occhi d’aremi con altri tre compagni sagrestani, provvedeva lungo tutto il percorso del corteo ad alimentare gli incensieri o turiboli, contenenti la resina dell’incenso che bruciando emanavano profumi e fumi per onorare il feretro.

Lu chiattaru Per raggiungere il Trasmazaro, i cittadini del centro urbano si servivano di un pesante pontone manovrato a corde. Il proprietario della chiatta era Michele Bua, e il suo collaboratore, Marco Tumbiolo, aveva il compito di far pagare il pedaggio: pedoni 2 soldi, carri 4 soldi, con un gregge si faceva a forfait; i pescatori se la cavavano pagando in natura, una manata di pesci. La chiatta perdette molti dei suoi clienti, quando nel 1932 sorse il ponte un po’ più a monte.


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Lu braccialaru Prima dell’introduzione dell’asfalto, le strade cittadine, fuori dal centro storico, erano sistemate alla macadam, cioè a terra battuta. Pertanto, per corrosione dei carri agricoli che vi transitavano, le vie presto si riducevano piene di fossi con gravi pericoli per la circolazione. Da qui l’esigenza di ricorrere molto spesso alle riparazioni con brecciale di pietra dura, portata in grossi massi e ammucchiata in cumuli sparsi per tutta la via in riparazione. Dopo si procedeva all’appalto dei mucchi onde ridurli di volume. A questa bisogna erano chiamati i capi braccialari e, dopo trattative d’obbligo, chi vinceva l’appalto (un tanto a muzzeddru) chiamava a raccolta i suoi operai con mazze e martelli, per iniziare la frantumazione delle grosse pietre di roccia dura (balatuna). Per alcuni giorni chi abitava nelle vie ove operavano i fratelli Tornabene o i Bianco, poteva assistere ad un concerto infernale, ritmato e incessante per tutto il giorno, una sarabanda di colpi, un rumore assordante.

Lu capraru e lu vaccaru Scendevano dalle loro stalle di periferia, di buon mattino, per vendere il latte. Il vaccaro portava con sé due o tre vacche e il vitello, il quale succhiando faceva calare il latte alla madre. I caprai, invece, le capre se le portavano in maggior numero. Andavano di casa in casa, spremendo il latte caldo e profumato nelle ciotole dei clienti, i quali immediatamente le porgevano ai figlioletti che lo bevevano all’istante. Come dire dal produttore al consumatore. Il pagamento avveniva “a muzzu”, cioè a calcolo approssimativo: le misure vennero in un secondo tempo. Caprai e vaccari erano solidali fra loro in un trucco. Spesso e volentieri infatti, nel mungere il latte, avevano cura a tenere i contenitori


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ben distanti dai capezzoli degli animali, per cui la clientela mugugnava: «Zu Luigi, stamattina tutta schiuma m’ha dato».

Lu canciacapiddri Girava per i quartieri e portava con sé a tracolla la sua bancarella con la merce da barattare. Le donne lo attendevano pronte allo scambio dei capelli che il pettine portava via nell’atto di pettinarsi. A secondo della voluminosità delle ciocche accumulate, le massaie realizzavano una cartata di aghi o di bottoni o addirittura una matassa di lana.

Lu carrimattaru Conduceva un carro senza sponde e con un pianale particolarmente lungo, trainato da un cavallo robusto. Si chiamava carrumattu ed era usato soprattutto per il trasporto di botti di vino. I proprietari di questo speciale carro erano il pimpante Battista Patrantono e Vito Parrinello.

Lu fumiraru Un tempo, le vie del centro urbano erano percorse da una grande quantità di animali. Equini e ovini per ragioni di lavoro erano condotti in città e si assisteva spesso allo sconcio di dover calpestare i loro escrementi sparsi dappertutto. Lo sterco però aveva una sua preziosa utilizzazione in agricoltura come concime. Raccoglievano gli escrementi i fumirara che, forniti di scope e contenitori capaci, spazzavano in lungo e largo la città fino a sera per arrivare a vendere il raccolto in quantità più alta possibile.


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Sorsero così le cataste, luogo in cui i commercianti accumulavano il concime che i fumirari vendevano loro. Fra questi lavoratori si ricordano due fratelli: Marco e Ciccia, i quali guadagnavano abbastanza, essendo attrezzati a dovere con un carretto trainato da un asino. Tutte e tre, fratello, sorella e asino, facevano spettacolo. Al loro passaggio la gente si divertiva, i ragazzi rincorrevano il carretto guidato dai due. Brutti, lerci, fumeri nel fumeri.

Lu salaru Lo chiamavano Turiddu Mannino lu salaru, girava per le strade col suo carretto dipinto con le storie di Orlando e Rinaldo nei portelli e tirato da un ronzino mezzo addormentato come lui. Berretto sulle ventitrè, occhi socchiusi e una cantilena quasi incomprensibile ma assai riconoscibile, una nenia senza soluzione di continuità, per annunciare il suo passaggio con il carico di sale: «Biancu e finu, cu voli lu sali». Con quattro soldi il buon Salvatore te ne versava un misurone che ti facevi la nchiusa, ovvero la riserva per tutto l’anno.

Lu carritteri Fiero, pimpante, di facile eloquio, coppola storta e cravatta a pàmpina (a fiocco), il carrettiere nostrano era orgoglioso di condurre un cavallo bardato e ciancianusu, ornato di campanelli, guidato da una zotta di rumaneddru cu la scocca, ovvero una frusta di spago lavorato con la nappa rossa, che tirava un carro pitturato con la storia dei Paladini. Nelle gare a chi portava più carico nelle salite, i fratelli Bianco avevano sempre la meglio. Erano dei fuoriclasse, questi compari.


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La calapanza Quando in casa un bambino accusava mal di pancia, la madre in apprensione apriva la porta e scrutava in fondo alla strada. Aspettava che passasse donna Ciccina. Era una donna di precarie condizioni economiche, con il marito endemicamente disoccupato e ovviamente carica di figli. Usciva di casa di buon mattino, girava nei quartieri popolari, portando con sé una sporta di erica con dentro i ferri del mestiere: una tovaglia e una bottiglia piena di olio d’oliva. Ciccina faceva la calapanza, massaggiava lo stomaco dei piccoli sofferenti. Di lei dicevano un gran bene: qualcuno diceva che aveva le mani fatate, perché gli ammalati solitamente guarivano in poco tempo. Finito il lavoro, rimetteva nella sporta la tovaglia che serviva a coprire il sesso durante l’intervento, e l’ampolla con l’olio per calari la panza. Oltre a questi ferri, la donna Ciccina, nella capace borsa metteva quanto ricevuto in dono: una cuddruredda di casa, quattro uova o della frutta. Quindi riprendeva il giro in cerca di altre pance da “calare”.

Lu turtularu Si chiamava Vitino Certa. La sua bottega di tornitore di via Bagno era sempre affollata di ragazzi che compravano le trottole di legno, tanto in voga a quel tempo. I più esigenti chiedevano la trottola cu lu piringu puntutu, cioè con la punta di ferro molto aguzza, in modo che, quando gareggiava con altri giocatori nell’eseguire la lazzata, la trottola dell’avversario era spaccata in due. Qualche altro pretendeva che don Vitino, fra il legno e il ferro di punta, mettesse una mosca morta. «Così, mentre mi gira in mano, la trottola, la sento leggerissima», diceva.


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Lu putinaru Peppino Safina girava per l’abitato con il carrettino tirato da un asino ornato da vistosi paramenti multicolori, fermandosi di porta in porta e trattando con le casalinghe. Vendeva trine, ricami, nastri, faceva credito accontentandosi che pagassero ogni tanto i debiti pregressi.

Lu pisaturi Così era chiamato il mediatore di frutta all’ingrosso. Il più conosciuto era Ciccio Bucca, soprannominato Barruzza (piccola barra) per la piccola distanza che intercorreva dalla testa ai suoi piedi. Correva voce che don Ciccio qualche volta, trattandosi di un bottegaio amico, lo favoriva, lasciando scorrere il romano, il contrappeso di piombo, oltre il bìlico della stadera.

Lu cuffaru Zu Guglielmo Lanza, con bottega di manufatti ubicata a pochi passi dalla Madonna della Porta, vendeva coffe da lui stesso confezionate, collaborato dai suoi familiari: il figlio Ciccio, la moglie Aticchia, e la figlia Sannicchia. Le coffe si vendevano tutto l’anno. Quelle di curina (palma nana) servivano per i fichi secchi e per le olive molite, quelle di giunco per le vinacce.

Lu piddraru Era conciatore di pelli ovine Vanni Pachica con chianca in via Umberto 14, ove era appena tollerato dagli abitanti dei dintorni a


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causa della puzza emanata dalle pelli in essiccazione al sole. La gente, però, temeva Vanni che, quando parlava in piedi, divaricava le gambe e metteva le braccia ai fianchi. Pare che Vanni soffrisse di incubi notturni: sognava che gli agnelli abbaiavano!

Lu pasticceri Tra i tanti va ricordato don Sariddu Celano, titolare di una pasticceria in via Garibaldi, noto in città per due particolarità: alla età dello sviluppo Celano cresceva in larghezza più che in altezza, per cui all’età di sessanta anni e con cento chili di peso, geometricamente lo si poteva paragonare ad un parallelepipedo. L’altra caratteristica era di carattere artigianale: nella sua pasticceria si elaboravano i pezzetti di gelato bicolori (rosella-verdino) e si confezionava una impareggiabile granita al gelsomino.

Lu curdaru Il posto preferito per il suo lavoro che richiedeva molto spazio era il quartiere Makara. Con il suo rùzzulu, ovvero con la grande ruota nella quale si arrotolava la canapa per confezionare la corda, il cordaio andava avanti e indietro tutto il giorno, percorrendo senza accorgersene chilometri di strada. Vito Parrinello, l’ultimo dei cordai in ordine di tempo, era un maratoneta.

Li apparaturi Erano chiamati dai parroci per addobbare le chiese nei riti festosi e nelle funzioni funebri. Conosciuti e assai abili furono don Pippino Messina e don Pippino Dado, fantasiosi artigiani, ai quali il


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lavoro non mancava mai. A quei tempi, tutti i santi del calendario venivano solennemente festeggiati, mentre le esequie funebri in chiesa erano perlopiù privilegio di gente facoltosa.

La mammana La più antica mammana che ricordano i mazaresi era donna Maria di Giorgi, una vera signora, affabile e responsabile. Era lei che dopo il parto compiva il rito di buttare sulla strada l’acqua sporca di risulta, accompagnando il gesto con la spiegazione del sesso del neonato. Se era maschio, come era usanza, donna Maria gridava ad alta voce «masculiddru!», mentre rovesciava l’acqua sul selciato. Se era di sesso femminile, la voce «fimmineddra» era debole e sommessa.

Lu caliaturi Un alacre lavoratore, il sig. Fratello, lavorava in un cortile ampio e adatto allo scopo, di via S. Francesco, dove abbrustoliva e insalinava i ceci (la calia), i semi di zucca (la simenza), i nuciddri americani, detti anche caccameli. Vendeva lo scacciu all’ingrosso ai vari rivenditori, come Vito lu checcu, Donna Niculina, Pepè e Luigina Pacchianella e lu zu Vanni. Da Fratello venivano perfino a rifornirsi rivenditori dei paesi vicini.

Li firrara Erano in molti i fabbriferrai in città. Il veterano di questa categoria era mastro Titta Alagna, con fucina al largo della Figurella.


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Turi Mauro, mastro d’Angelo e i fratelli Ballatore lavoravano soprattutto nella costruzione dei carri agricoli.

Li vinnitura di cosi frischi Aprivano i loro locali nelle prime ore del giorno. Operai e contadini mattinieri, prima di recarsi al lavoro, andavano dall’erbaio, zu Vicenzu Angileri o da don Mariano Fortunato, per tracannare a digiuno un buon bicchiere di cannavusa, a base di semi di canapa, o di gramigna oppure di cicoria calda. Nel suo locale di via Porta Palermo, Angileri accoglieva gli avventori che sedevano attorno ai tavolini con le superfici in marmo. Erano quasi tutti beoni, che la sera si ubriacavano nelle taverne e la mattina correvano dello zu Vicenzu per purificarsi lo stomaco.

Li consa ossa Per lo più erano dei vecchi pescatori che praticavano in casa, ricevendo numerosi pazienti traumatizzati da lussazioni muscolari e distorsioni articolari, provocate da botte o cadute. Bisognava vederli questi fisioterapisti con quanta serietà accudivano alla bisogna e molte volte con esito positivo, tanto che la loro fama aveva varcato i confini della città. Così molti forestieri venivano a trovare i vari Scorcidifora o Beddrasantamaria, che erano i soprannomi dei più noti.

Lu varveri tuttufari Il barbiere del principio di questo secolo non si limitava al taglio di barba e capelli, ma esercitava altri lavori ausiliari per arroton-


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dare i miseri proventi che il salone gli procurava. Operava, per esempio, i salassi: la cacciatura consisteva nell’applicare una macchinetta a scatto sulle spalle degli ammalati di polmonite. Tale macchinetta aveva incorporate tante lamette che penetravano nelle carni del paziente, non appena toccato il bottone, scattando simultaneamente. Il sangue che ne sgorgava era raccolto dalle ventose applicate sulle spalle mediante riscaldamento con cotone idrofilo bruciato. I barbieri tiravano anche i denti cariati, toglievano calli e duroni. Si ricorda che un giorno, dopo aver estirpato il dente, il barbiere Sicurella, all’atto di essere pagato, non avendo il resto propose al cliente di farsi togliere un altro dente. A completare questa loro molteplicità di servizi, che potremmo definire paramedici, i barbieri vendevano mignatte e olio di neve che si spalmava sulla pelle colpita da pitinia o scabbia. Qualcuno che non aveva i soldi per comprare l’olio di neve, si curava sputando, a digiuno, sulla cute ammalata. I barbieri erano chiamati anche nelle case dove si svolgevano i ricevimenti e le feste di matrimonio, con il compito di distribuire i dolci in capaci vassoi. Erano incaricati altresì di sbrigare i preparativi per le funzioni funebri: fiori, prete, incensori ecc. Per finire, diciamo che i barbieri erano molto abili nel combinare matrimoni e nell’aggiustare ogni cosa quando vi era maretta tra due famiglie. Per questo si sono guadagnati anche l’appellativo di ruffiani. C’è da dire infine che tra le attività eclettiche dei barbieri c’era anche quella di portacorona e di maschera nel cineteatro. Il prestigio della categoria fu tenuto alto da don Ciccio, con bottega in via Roma, dotato di un naso molto pronunciato di cui andava orgoglioso con la frase: «tali nasu, tali fusu», dal significato molto malizioso. Un personaggio minuto, don Guglielmo detto “piringu”, con bottega in via Garibaldi, si faceva non solo rispettare ma addirittura temere per il suo sarcasmo rivolto ai


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passanti, tanto che si diceva: «cu passa di la Mastranza e unn’è nuciutu, o don Gugliermo dormi o è ammalatu». Fino a pochi anni addietro si ricordavano ancora episodi accaduti in un salone: Giovannino Settitesti si vide richiedere per il taglio dei capelli non una lira, secondo la tariffa ufficiale, ma addirittura sette lire, che erano corrispondenti aritmetici del soprannome; Cola Passalacqua, con bottega in Porta Palermo, era chiamato Ntunuzzu perché da piccolo giocava in mezzo alle pozzanghere e si riduceva come un porcellino (evidente il richiamo a S. Antonio del deserto che nella pittura era raffigurato insieme ad un maiale). C’era poi Nino, che lavorava di buona lena in via del Popolo, che si faceva pagare cinque soldi a prestazione, mentre i colleghi richiedevano mezza lira. Un noto barbiere del tempo, soprannominato Fallù, era un tipo gentile e remissivo sino al punto, interpellato per l’onorario, di replicare: «fa lui», faccia lei. E così la ngiuria si appiccicò per sempre sullo sventurato. Teneva bottega in piazza Serraglio e aveva come insegna una bacinella sul frontespizio.


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CAPITOLO 4

I PERSONAGGI E LE STORIE

Non sono ritratti definiti ma soltanto squarci improvvisi di microstorie bizzarre, ingenue o patetiche, che tuttavia rispecchiano abitudini di gente in sofferenza. Una piccola antologia dunque, insieme amara e divertente, di lontani concittadini che reclamano qualche sprazzo di rinnovata notorietà , rimasti senza lapide nella toponomastica menzognera. Tutte queste anime in sofferenza, è bene precisarlo, sono avvolte da una pietas laicamente religiosa di rispetto e di affezione, quasi di identificazione.


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Va suca Peppino Signorello barbiere in via Garibaldi, era una figura molto nota in città. Sagoma media, pancia alquanto pronunciata, portava gli occhiali a stanghetta e catena d’argento in mostra tra un taschino e l’altro del suo gilet. Gestiva inoltre un paio di baffi alla bebè, come a dire a zazzera, spioventi, alla Cristaldi per intenderci, ma più autarchici, tanto da non avere problemi ai pranzi in liquido. Parlava in posa con affettazione di superiorità, interloquiva da saccente, un vero oracolo! Guai se qualcuno tentava di contraddirlo, specie se l’interlocutore era persona dell’età al di sotto della sua. «Tu non capisci niente – ribadiva paternamente don Peppino – sei ancora piccolo, va suca ». E va suca oggi, e va suca domani, andò a finire che la frase uscita che fu da via Garibaldi e quindi di dominio pubblico, colpì don Peppino Signorello, come una tragedia per lui e un vero passatempo per i mazaresi. Lo chiamavano tutti Pippinu va suca. Si raccontava anche di lui un episodio che sa di barzelletta. Un giorno il barbiere, transitando per piazza Mokarta, sentì una voce lanciargli da un balcone la ormai celebre frase: «Va suca». Alzando gli occhi verso il terrazzino, Signorello vide una ragazza, di nobile lignaggio, ma notoriamente di non eccelsa intelligenza. Nel silenzio della piazza, rintronò forte la reazione dell’apostrofato, con voce stentorea: «Anche tu puttanella?». Anche questa frase rimase celebre e divenne un modo di dire.

Mamma scupitta Per l’anagrafe era Giovanni Rallo, per la gente Vannuzzu Raffina. Era costui notoriamente di non eccelso sviluppo mentale. Chi


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lo vedeva per la prima volta aveva precisa l’impressione che Raffina fosse un oriundo afro-asiatico, perché tali erano i tratti somatici del viso, mentre la pelle scura lo faceva un nigeriano. Girava per le vie cittadine con atteggiamento dinoccolato e con le mani attorcigliate dietro la schiena, mentre dalle sue labbra pronunciate di funciutu sibilava una marcetta memorizzata, allorquando la banda musicale cittadina usciva per il paese in occasione di qualche festività, nel cui corteo non faceva mancare mai la sua presenza. Abitava con la madre vedova in un cortile in via Goti, con seconda uscita per rue della Giudecca. Era di età sulla trentina, dal modo di esprimersi però si evidenziava subito che i ventotto anni della nascita non gli avevano fornito molto acume. Infatti parlava ridotto, telegrafico, razionato al minimo, come fanno i bambini. Diceva: «mamma, acqua» quando aveva sete; «mamma, dormire» quando aveva sonno. Vi fu un giorno in cui chi passò per via Goti sentì delle grida provenienti dal cortile Rallo. Erano della madre, adirata contro Vannuzzu colpevole di aver nascosto la spazzola per pulire i vestiti. Passata la sfuriata e dimenticato l’incidente, quando venne l’ora di andare a dormire, si coricarono come al solito insieme madre e figlio, una alla testa e l’altro ai piedi del letto. Improvvisamente, in piena notte, la donna si svegliò di soprassalto alle urla del figlio, il quale gridava: «Mamma scupitta». Era successo che durante la notte i piedi di Vannuzzu si erano ritrovati in un anfratto fra le gambe di donna Mariannina, a contatto di qualcosa di ispido e villoso: dedusse lì per lì di avere rinvenuto la spazzola smarrita e novello Archimede gridò: «Eureka! L’ho trovata!».


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Nardu aìsa li peri Un tipo goffo, tracagnotto, collo esente, naso camuso con due buchi pelosi e bocca da gorilla con incisivi alternati: quattro caduti e quattro superstiti. Proprietario anche di due occhi a pupille convergenti. Era strabico. L’aspetto del suo viso era arcigno, ghignante, ceffuto, un vero Polifemo uscito fresco fresco o meglio caldo caldo dall’Etna. Leonardo Di Giovanni, questo era il suo nome, era tuttavia d’indole opposta a quella che il suo aspetto poteva far credere. Era mansueto, docile, ammammolato, credulone. Viveva con la famiglia in un casolare dell’estrema periferia della città. Per la mamma, Leonardo era il suo cucciolone di 55 anni. Godeva delle sue premure, di particolari riguardi. Ogni volta che usciva di casa per andare al centro, la mamma lo pregava di far presto, poi lo seguiva con gli occhi fino alla svolta del viottolo, infine lanciava l’ultima raccomandazione: «Nardo, aìsa li peri!». Doveva alzare i piedi, nel senso di far presto. Ma Polifemo questo non lo capiva. Però si sforzava, questo sì, di dare alle parole della madre una spiegazione. Si disse: «La mamma amorosa non vuole che io mi stanchi troppo e quindi il suo consiglio va seguito». Infatti, ogni volta, dopo aver percorso circa un chilometro di strada, Nardo si fermava ed alzava un piede. Dopo aver fatto riposare per alcuni minuti il piede, lo sostituiva a mezz’aria con l’altro, quindi proseguiva il suo cammino, interrompendo di tanto in tanto per eseguire la pausa. Operazione che eseguiva anche in città, con grande sollazzo della ragazzaglia di passaggio, che non perdette molto tempo nel dare la baia a Polifemo. «Nardo, aìsa li peri!», gli gridavano al suo passaggio. Nardo girava così per la città, gironzolava tra le baracche della fiera baloccandosi a guardare la merce esposta, che toccava e soppesava, mentre i commercianti irritati assistevano, senza osare rimproverarlo, intimoriti dal suo aspetto.


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Addiu Peppi. Ti salutu Peppi Santoro Calcara era un pezzo d’uomo che sprizzava salute da tutti i pori, di viso liscio e rubicondo, di origine contadina. Ad un certo punto pensò di lasciare la zappa e di fare il sensale di vino. Fin qui nulla di strano. I guai arrivarono per lo zu Santoro quando, alla stregua di quanto avveniva nei funerali della gente di una certa importanza, ove alla fine del percorso ufficiale del corteo funebre, qualcuno salito su una sedia leggeva in un foglio le virtù morali e intellettuali del defunto, il signor Calcara, preso da fervore di equità, si disse: «Perché i poveri che muoiono vengono privati anche di un elogio funebre? Forse un c’è lu mèricu di li scarsi? (medico condotto), forse nun c’è l’avvocatu di li puvureddri? (avvocato d’ufficio). Per i nullatenenti nessuno s’interessa di lèggiri la vita. Ebbene io sono disposto a farlo». Presa questa decisione, di punto in bianco lo si vide salire pericolosamente, data la mole, su di una sedia, per parlare della virtù di un defunto. «Padre di famiglia esemplare, lavoratore instancabile, povero sì ma onesto e laborioso. Ti ricordi - aggiungeva quando lavoravamo insieme a San Nicola nna la chiana di Sapuritu? Ti ricordi quantu timpi rumpìamu di scuru a scuru? Quanti massi spezzavamo dall’alba al tramonto? Mentri lu pani davanti e nniàvutri darrè nun lu putìamu piscari». Queste ed altre locuzioni del genere erano spifferate dall’ex contadino ogni qualvolta gli si presentava l’occasione per una orazione funebre. La frase che però, lo rese celebre, l’oratore la pronunciava nel finale: «Addiu Peppi, ti salutu Peppi. Requiescati npaci, vale. Cacciamu, gnuri, andiamo, cocchiere». Gli eventi precipitarono quando a Santoro Calcara venne la felice idea di istallare, nel suo appartamento, il telefono, il quale squillava in tutte le ore del giorno e della notte. Il poveretto correva al telefono con la speranza di ricevere qualche ordinazione


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di vino e, alzata la cornetta, gridava: «Pronto!» ma sistematicamente la risposta era: «Addiu Peppi – ti salutu Peppi». Dal giorno in cui fu istallato il telefono non ebbe più pace. Sperava sempre in una ordinazione di vino, ma la risposta era sempre quella: «Addiu Peppi – ti salutu Peppi». Un giorno, piangendo, staccò il telefono dal muro e lo gettò dalla finestra. Solo così tornò a dormire tranquillo.

Raffaele Nuttatapersa La famiglia Dado abitava in via Scopari e viveva confezionando scope. Il loro figlio Raffaele era un po’ sciocco e i genitori erano coscienti del suo sviluppo ritardato, tanto che il marito rivolgendosi alla moglie usava esclamare: «Abbiamo perduto una nottata!». E Nuttatapersa fu il soprannome di Raffaele per tutta la sua infelice esistenza. Nella piazzetta Marchese (ora Modica) vi era una fontanella frequentata da Raffaele per fornire acqua ai clienti del rione. Un giorno, un monello per divertimento buttò della sporcizia nel contenitore già pieno, che il nostro doveva consegnare al committente. Raffaele, perduta la pazienza, raccolto un grosso ciottolo, lo lanciò in direzione del disturbatore, senonché, maldestro com’era, invece di colpire lu picciuttazzu andò a colpire il grande vetro di esposizione del negozio di Nzulu Spina, mandandolo in frantumi. Al frastuono che ne seguì, si fece sulla soglia il proprietario che, edotto subito della situazione, non potendo ovviamente prendersela con il lanciatore di pietre, raggiunse il monello e gliele diede di santa ragione, mentre Raffaele gongolava. Un’altra volta in un altro quartiere, mentre Raffaele accudiva al suo lavoro, un ragazzaccio ripeté il gesto di sporcare l’acqua.


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Questa volta Nuttatapersa non si adirò, e disse: «Ora vado a rompere la vetrina a Nzulu Spina e vedi cosa ti succederà».

Petru Nasca Statura media, viso scarno, spolpato, naso piccolo camuso, stempiato, giallo di colorito, Pietro Nasca era un teschio posato sul corpo. Abitava in una casa della casba in un patio del Pico. Faceva il mestiere del banditore e tutti coloro che avevano bisogno di vendere qualcosa si rivolgevano a lui, soprattutto le donne del quartiere che confezionavano le reti da pesca in casa per arrotondare il magro guadagno dei loro uomini a mare. Le reti, le tratte e i puzzali erano portati ogni mattina a spalle da Pietro in piazza Regina, centro nevralgico della marineria mazarese. La sua voce cadenzata si udiva fino a mezzogiorno: «Sciabica, rizzagghiu, stràscico, filu forti e a prezzu bonu!». Pietro Nasca lavorava anche la domenica, collocandosi a Porta Palermo, ove una folla di jurnateri aspettavano di essere addruvati dai burgisi o pagati per il lavoro svolto in settimana. Davanti al sagrato della chiesa della Madonna della Porta, dal brusio della folla si levava il grido di Pietro, l’abbanniaturi, che metteva all’incanto un asino, un puledro o un mulo a lui consegnato da un proprietario che voleva venderlo. «Lu sceccu vi lu purtati pi venti liri e puru vi purtati la vardeddra». Anche qui il nostro gridava fino a mezzogiorno. Dovendo andare a nozze, Pitruzzu la sera precedente si recò dal parroco “pi li cosi di Diu”, per il catechismo e, quando il prete gli chiese quanti sono i comandamenti, il futuro sposo rispose che erano 35. Naturalmente patri pàrracu lo rimandò a casa. La madre, edotta della cosa, disse a Pietro di ritornare dal parroco e dire che i comandamenti erano 10. «Ma come – disse Nasca – con 35 mi cacciò via e ore vuoi che si accontenti di 10?».


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I gemelli Scaccianoce Nella pletora dei personaggi caratteristici Giacomino e Angiolino Scaccianoce erano i più noti. Erano gemelli e si assomigliavano come due fotocopie. Il mestiere ufficiale era il ciabattino ma poi arrotondavano la giornata con altre “fatiche”. Vendevano per strada “tappine” americane, portavano corone di fiori nei cortei funebri e facevano pure le ambasciate per combinare matrimoni. La loro perfetta rassomiglianza dava adito qualche volta ad esilaranti equivoci, provocati da loro stessi per speculazione. Un giorno Angelino, ironia dei nomi, entra nella barberia di Ciccio Nasone, si siede in poltrona e chiede di essere rasato. Don Ciccio, premuroso, lo serve subito. Dopo averlo insaponato per benino gli fa la prima passata e per il contropelo si reca nello sgabuzzino per un’affilatina al rasoio. Al ritorno trova il cliente con la barba nuovamente lunga e pronto a dire, benevolmente preoccupato, al barbiere: «Ciccio, ti devi far curare, perdi colpi». Era successo che Angiolino, approfittando della momentanea assenza del barbiere, aveva lasciato il posto in poltrona allo spudorato e linguacciuto Giacomino, già nascosto nelle vicinanze. Un’altra burla più eclatante i due la combinarono ai danni di di un venditore di fichidindia. Dal suo punto di vendita di piazza Torrebianca una sera lo zu Battista Rapardu si vide dinanzi uno dei fratelli Scaccianoce che gli chiese che prezzo doveva pagare per saziarsi di fichidindia. «Mezza lira» fu la risposta e così Giacomino incominciò a mangiare uno dopo l’altro i frutti. Ad un certo momento domandò di soddisfare un impellente bisogno fisiologico. Infatti dopo due minuti ritornò il cliente per il “taglia e mangia”, ma in realtà questa volta era Angiolino a sostituire Giacomino. Assai meravigliato, ad un certo punto, lo zu Battista guardò la gran quantità di bucce sparse per terra e non poté trattenersi dall’esclamare, ingenuo: «ma che culo hai?».


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Ma non sempre il gioco della staffetta portava bene, come quando donna Maria la Rasta, stiratrice e inamidatrice di colletti, richiese a Giacomino il saldo di un vecchio pagamento, minacciandolo non solo che avrebbe sporto denuncia ai carabinieri ma che avrebbe subito informato un suo temuto parente, zu Vàrtulu, «c’avia la còppula storta e lu cuteddru facili». A sentire quest’ultima minaccia Giacomino, che davvero era all’oscuro dell’impresa verosimilmente condotta dal fratello Angiolino, preferì pagare immediatamente.

Mangogna e Maranzano In uno spiazzo della villa Garibaldi, proprio davanti allo specchio d’acqua ove ogni anno nei mesi estivi i fratelli Lumia erigevano lo stabilimento balneare in legno che i mazaresi chiamavano li cammareddri, sorgeva una fontana circondata da sedili di marmo. Poi al suo posto fu collocato un soldato di bronzo, simboleggiante tutti i mazaresi morti ammazzati da sconosciuti austromagiari. Durante la seconda guerra mondiale il fante di bronzo partì anche lui per poi essere liquefatto. Chi passava di mattino da quel posto, seduti cavalcioni uno di fronte all’altro sul sedile di marmo, poteva vedere Ciccio Mangogna e Gino Maranzano giocare a carte. Immobili, muti, due statue, due pesci. Ciccio era un tipo tozzo, abbondante di spalle, vestiva dalle scarpe al berretto sempre di nero, quasi in armonia col viso scuro da immigrato turco. Ruminava sempre come un bue. Le sue tasche erano un vero ripostiglio dove erano pezzi di pane, olive salate, fichi secchi, castagne, carrube e altro. Lo avevano soprannominato “Ciccio la fame”. Gino era l’opposto. Figura distinta, svettante sui suoi 188 centimetri d’altezza, aveva i lineamenti


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delicati, occhi cerulei e capelli biondi. Di salute malferma, deambulava a serpentina. Al mattino, appena seduti sulla panchina, senza rivolgersi alcun saluto, Ciccio Mangogna tirava fuori dalle tasche un mazzo di carte siciliane e cominciavano a giocare. Ognuno posava dieci soldi della posta. Alla fine della scopa chi vinceva intascava la vincita automaticamente, mentre l’altro, sempre in silenzio e rapidamente, riponeva altri dieci soldi. Non un muscolo del viso tradiva in loro qualche emozione, non un gesto fuori posto, non una parola, una distrazione, niente! Il punteggio, durante la giocata, veniva da ciascuno perfettamente memorizzato, senza bisogno che fosse dichiarato. Durante la maratona nessuno dei curiosi che vi assisteva ebbe mai modo di sentire una contestazione. Silenziosi, muti, impassibili, Gino e Ciccio nemmeno nella conta dei punti di ogni mano, come primiera, oro, scope, perdevano del tempo. Bastava uno sfuggente colpo d’occhio e i conti tornavano sempre. A mezzogiorno, senza consultare orologi né parlarsi tra loro, senza un commento, se ne andavano per i fatti loro, così come erano venuti, senza salutarsi.

Lu zu Vito Fileccia e la za Purificata Lu zu Vito Fileccia proseguiva l’esistenza al suo quinto ventennio, ancora arzillo e ben portante. Sembrava nei lineamenti essere stato intagliato di fino nel rovere. Còppola sulla ventitrè, per via del ciuffo in uso ancora a quei tempi, consistente in una certa quantità di capelli, lasciati di proposito più lunghi sul lato sinistro della testa dai barbieri provetti, i quali li arrotondavano poi con il palmo della mano, tanto da farne risultare un cespuglietto riccioluto ben piegato e gonfio, che dava gagliardia.


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Lo zu Vito era parco di parola. Ogni tanto, sulla soglia della sua bottega di fruttivendolo con annessa dimora, in quell’angolo n.5 di piazza S. Bartolomeo, lo si sentiva canterellare un ritornello: «Accattàtivi lu muscaloru pi lu focu. Nun vidu e mancu sentu!». Si diceva in giro che Vito Fileccia fu tra i picciotti a Calatafimi al seguito di Garibaldi. Ma lui di ciò non parlava mai, solo una sbiadita camicia rossa e un berretto dello stesso colore, che facevano bella mostra appesi ad un chiodo in una parete della sua bottega, davano o potevano dare una conferma di quel che si diceva. Si chiamava Purificata la moglie di Vito, un nome ancora più antico di Vènnera, Mercuria e Vittoriana, di moda nei primi del Novecento. La za Purificata, alta, allampanata, con la faccia color mattone cotto, costellata da due occhi acquosi a pupille immobili, con il marito ingaggiava una battaglia quotidiana, un alterco continuo. Un giorno, nella piazzetta San Bartolomeo si radunò una folla di curiosi, passanti ma anche abitanti del luogo, affacciati sui balconi o sulle soglie dei loro negozi. C’erano Peppe Ramunno e sua figlia Margherita, Paolo Ingargiola e la figlia Lucrezia, i pastai Matteo e Ciccio Castelli, Angela Vento, sorella del Ciantro, il fotografo Ignazio Bascone, la modista Tina Di Salvo, la più ciarliera. Tutti commentavano quel che era accaduto in casa Fileccia. La sera prima la za Purificata si era rifiutata di mangiare nello stesso piatto del marito: un rito che svolgevano dal primo giorno di matrimonio, assai rispettato in passato nelle famiglie contadine. Mangiare assieme nel piatto coniugale era per i nostri avi segno d’amore e di fedeltà. Il rifiuto della moglie aveva provocato le reazioni del marito che per la rabbia ridusse a pezzi le suppellettili di casa, mentre Purificata, novella Erinna, tentava di tenere lontano zu Vito agitando tra le mani una pesante trave di legno.


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Pippinu Tartaruni Era un personaggio curioso. Tutto da ridere! Piuttosto basso di statura, viso incartapecorito, arso dal sole e dalla salsedine, occhi mobili che scrutavano nel vuoto, camminava a passettini frettolosi, dimenando esageratamente le chiappe con le gambe e i piedi divaricati. Se si aggiunge che sovente aveva fra le mani una bacchetta o un bastoncino, vi siete fatti l’idea di aver visto uno Charlot sud-europeo. Pippino Tartaruni lavorava in qualità di mozzo nello schifazzo della Gianquinto che trasportava cereali e derrate varie dalla Sicilia orientale e dalla Calabria. Lo chiamavano Tartaruni dal nome di una rete che pesca rasentando il fondo del mare. Infatti, Pippino il mozzo, durante il viaggio di ritorno del bastimento, lo si vedeva spesso entrare nella stiva dove c’era riposto il carico e riempirsi le saccocce di castagne secche, di carrube, di fave e ceci, roba che in poco tempo divorava con avidità, proprio un vero tartaruni. La ciurma, scherzando, diceva qualche volta a Pippino: «Com’è che da quando siamo partiti da Reggio col carico pieno, ora che siamo in vista del porto di arrivo, notiamo che la barca è molto più leggera?». Alludevano evidentemente alla grande quantità di mercanzia divorata dal mozzo! Bisogna pur dire che Pippinu Tartaruni era uno sgobbone. Quando c’era da lavorare non si tirava mai indietro ed era anche altruista. Si alzava prestissimo per recarsi in plancia a sostituire il marinaio di guardia, fino all’arrivo del titolare di turno. Poi correva da poppa a prua, scaricava sul ponte cento secchi di mare per lavarlo. Pensava anche alle vele: mollava la scotta a prua, s’arrampicava sull’albero di trinchetto per sciorinare il pappafico, ammaestrava la mezzana, controllava la maestra e qualche volta si metteva al timone. Per queste sue agili prodezze l’armatore chiudeva gli occhi e perdonava volentieri Tartaruni e la sua “lupa”, ovvero la sua permanente e incontenibile fame.


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Lu prufissuri U Del professore U al secolo non sappiamo l’origine di questo ridotto soprannome. Sappiamo che era una figura singolare. Vestito dignitosamente di scuro, aveva un aspetto distinto. Faceva l’orologiaio e nella via Bagno dove aveva bottega correva voce che spesso il professore nel rimontare un orologio si ritrovava con una rotellina d’avanzo. Per arrotondare la giornata, il nostro la sera trasformava la bottega in sala da ballo per coppie di uomini. A quei tempi di donne se ne vedevano ben poche per le vie del paese. Il professore che suonava il violino era aiutato da un piccolo parente che suonava il triangolo e da un certo Ciolla, il quale aveva il compito di mettere ordine in sala ed incassare anticipatamente i soldi dai ballerini. A dire il vero, la sala del professore dal soprannome autarchico era ben frequentata dai giovanotti che non avevano altro modo di passare la serata in svago, e anche perché una suonata durava a lungo. Quando un cliente si rivolgeva al violinista perché cambiasse motivo, l’interpellato immancabilmente rispondeva che poteva allungarla, ma cambiare motivo no. L’orologiaio violinista sapeva suonare soltanto una canzonette: Ciribin. Però aveva la virtù di cambiare il ballabile in valzer o in polka o in mazurca, che erano le più richieste, avendo l’accortezza di ricominciare daccapo, ora dal refrain, ora dalla coda. Un vero prestigiatore il nostro Paganini!

Giuseppinu Pecuraru D’aspetto insignificante, striminzito, smunto, incurvato nella persona piuttosto bassa, gambe malferme e piedi strabici. Come ogni appartenente al regno animale, Giuseppino si procurava il


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cibo necessario lottando con le proprie forze e la propria ancor più limitata intelligenza. Puliva i vetri dei negozi, raccoglieva cartone, faceva il porta pacchi. Ma poiché tutti questi mestieri non bastavano, faceva anche, per arrotondare, l’attore ambulante. Infatti dove vedeva gruppi di persone che conversavano in piazza, vi si introduceva nel bel mezzo e incominciava a declamare con enfasi, più con i gesti che con la voce, essendo questa fonicamente poco percepibile, per caduta denti, avendo perduto almeno tre quarti della sua dotazione dentaria. Recitava Romeo di Verona o Turiddru di Catania nella parte del brindisi, lui che di brindisi col vino spumeggiante nelle bettole ne faceva sin troppi. Da queste esibizioni, Giuseppino, riceveva sempre qualche applauso d’incoraggiamento e qualche soldino. Ma il capolavoro dove l’attore Pecoraro superava se stesso, il suo cavallo di battaglia, era “La morte civile”. Infatti dopo alcuni monologhi del dramma, prendeva dalla tasca una bottiglietta e se la portava in bocca fingendo di avvelenarsi. Indi, immedesimandosi nella scena, dopo aver annaspato, cadeva pericolosamente a terra. Più perfetta è la caduta, pensava il nostro, più consensi avrò e più proficua sarà la questua.

Ninu e Nina Cillipuci Ninu e Nina Cillipuci “sunnu di l’acqua salata”, cioè vivono di mare. Infatti lui fa il nassaloro e va a pesca di pesci bianchi con le nasse di giunco e lei lavora a confezionare reti per la pesca a paranze. I coniugi, bisogna dirlo subito, erano d’intelligenza “a trasi e nesci”, cioè a barlumi alterni: del resto, dice il proverbio, nuddru si pigghia si nun s’assomigghia. Hanno pattuito che, riguardo a spese per indumenti personali, ognuno doveva pagarsi il suo.


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Un giorno si partirono dalla loro dimora, sita a lu bagghiu, ovvero presso la casa Di Maria lungo il fiume, per recarsi a lu chianu di lu Priaturi, in piazza Purgatorio dove sorgeva la panneria gestita da don Pietro Salemi. Dopo aver scelto la roba da comprare, il marito ne chiese il prezzo. «Sìrici liri – rispose don Pietro – dieci pi li causi e sei pi la vesta». A questo punto Nino si avvicinò al negoziante e sottovoce gli fece: «Pi favuri, don Pitruzzu, ci faccia pagare otto lire per ognuno: a me mi cala i pantaloni e a mia moglie le alza la sottana».

Diuzza Margiotta Accompagnava le studentesse a scuola. Di mattina presto si faceva il giro del paese per prelevare le ragazze, una decina, e poi accompagnarle a scuola. Finita la quale, puntuale e attenta, si faceva trovare dinanzi all’istituto, per riconsegnare alle famiglie le signorinelle. Un secolo fa erano poche le ragazze che proseguivano gli studi oltre le elementari. E queste poche non andavano mai sole a scuola. A quell’epoca era vergogna vedere una dodicenne per la via se non accompagnata da un parente o da una Dorotea Margiotta, di mestiere accompagnatrice remunerata. L’omu cani Tommaso sceso dalle brume del Piemonte, dopo aver errato per tutta la penisola, non si sa perché, stabilì il proprio domicilio sulle nostre spiagge, dinanzi al continente detto nero per la pelle e il destino della sua gente. A chi lo vedeva per la prima volta l’emigrato dava l’impressione di una figura carismatica, protagonista di documentari, una figura nella quale Tommaso pareva di


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essersi reincarnato: un mahatma, un filosofo dell’antica Grecia, un santone. In realtà Tommaso Lipari non era che un barbone, magari enigmatico, strano, eccentrico, ma sempre un barbone. Si cibava frugando nell’immondizia, contendendo a pappataci e gatti randagi gli avanzi delle mense. Dormiva tra i gufi dell’arco del Castello normanno. Non disturbava nessuno, non si interessava di ciò che succedeva attorno a lui, ignorava uomini e cose. Soprattutto non accattonava, anzi rifiutava quasi sdegnoso ogni offerta di denaro. Il nostro ospite doveva reputare il denaro più sudicio, più batterico del pattume dal quale traeva nutrimento. Se qualcuno insisteva e gli buttava ai piedi qualche moneta, lui ad una certa ora della giornata, raccoglieva tutta l’elemosina e andava a buttarla a mare, con grande letizia dei ragazzi presenti che tuffandosi in acqua pescavano le lire dal fondo. Capelli e barba lunghi ed incolti con addosso un pastrano vecchio di molte generazioni, piedi calcati di stracci, cotto di sole o umido di pioggia, appoggiato ad un fagotto-armadio-capezzale, se ne stava tutto il giorno seduto sui gradini della statua del Patrono nella piazza grande. Lo sguardo assente, ieratico, fisso nel vuoto restava per ore e ore immobile come un bonzo, muto come un asceta, statua nella statua! Un giorno un passante si fermò dinanzi a lui e fece questa riflessione: «E ora Santu Vituzzu, di cani ne ha tre!». Una frase più cinica che blasfema. Tuttavia di carisma fra i mazaresi Tommaso ne aveva acquistato. Prova ne fu che, dopo aver rotto da tempo col passato e rotto col presente, dietro la sua bara vi era una gran folla. Diremo per inciso che per le spese del funerale dignitoso e solenne con musica e discorsi se ne fece carico un comitato di persone civili: dal disoccupato allo studente, dal parroco allo spazzino, dal maestro di scuola al bottegaio, un gruppo, cioè, residuo che purtroppo va assottigliandosi, con ancora il


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senso dell’umanità. A somme tirate il cittadino del mondo Lipari Tommaso faceva parte del genere umano.

Lu putineri Maniscalco Il gestore della ricevitoria del banco Lotto di via Bagno era don Totò Maniscalco, tipica figura dello scrivano antico, serio, sempre vestito di scuro, barbetta a pizzo e occhiali da naso, che era un vizioso di tabacco da naso, come denunciavano copiose tracce biondastre che pitturavano il suo panciotto. Impassibile, quasi ieratico, dall’alto del suo sgabellone, ascoltava come un confessore i sogni delle donnette per poi smorfiarli in ambi, terni, ecc. L’affluenza al botteghino era alquanto cospicua e fra i clienti più assidui vale la pena ricordare Catarina Ruppiddru, Rosa Capacità, Maria la Rasta, la Cantanaru, la Cirinara e Pippinu Bottaritta. Un venerdì giorno di punta entrò nella ricevitoria Vito D’Annibale, dettu Vitu la fami per via che si portava appresso calia, caccamele, castagne secche e perfino olive e tonno salato per un bicchierotto di vino. Raccontò il suo sogno: «Mi sono ubriacato – quattordici –; un ragazzo mi diede una pedata nelle cose – ottantotto –; divenni cieco – tredici –; poi mi apparve mia moglie morta l’anno scorso e mi parlò – trentuno e quarantasette – per dirmi di non fare rivoluzione – quarantotto – perché lei prega Cristo– trentatrè – e San Giuseppe – diciannove – perché ti facciano trovare denaro – cinquantacinque – in modo da festeggiare bene il Natale – venticinque». Infine chiese di smorfiargli un ambo da pagare al ritiro della vincita. A questo punto Maniscalco prese Vitinu la fami per il collo, lo buttò fuori dal botteghino e gli sferrò un poderoso calcio nel sedere – ventitrè – appunto.


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Cicciu Giattinu Magro, scarnificato, viso da sparviero a digiuno, naso adunco, pupille furbe, mobilissime, nelle occhiaie incavate atteggiamento diffidente e guardingo, guardava la gente di sbieco. Francesco Giattino era noto per la sua eccentricità: vestiva alla Giattino! Proprio così. Per il fatto di essere stato per qualche tempo apprendista sarto, a Torino, autoelettosi stilista e anticipando Valentino, creava modelli di abiti che solo lui poteva sfoggiare. Portava una giacca bizzarramente lunga e stretta ad un bottone, con maniche corte e spacchi plurimi; un gilet stringatissimo dalle estremità inferiori bislunghe e spezzate; pantaloni anch’essi stretti e corti con quattro dita di risvolti. Completavano l’abbigliamento una strettissima cravatta a farfalla e un fazzoletto bianco che emergeva dal taschino della giacca, in armonia con i polsi della camicia. Lo chiamavano don Ciccino l’ardito, il filosofo, il sagrestano (perché, precorrendo i tempi, usciva con il capo scoperto e, come i sagrestani, pur indossando il camice bianco, non portava il tricorno). In compenso portava una folta capigliatura scapigliata alla Beethoven, Ma mentre il compositore tedesco a 25 anni era già sordo, il nostro compaesano per orecchio e percezione era un fenomeno. Suonava indifferentemente il trombone cantabile, il bombardino, oppure la tromba, il flicorno o il pistonino: gli bastava dare una sbirciatina alla parte assegnatagli e poi ne faceva a meno. Era l’eclettico degli ottoni, il virtuoso del pentagramma, addirittura il Cimabue della musica secondo l’enfasi siciliana. Tuttavia per il maestro Antonucci, direttore del corpo musicale cittadino, Giattino diventava un’ira di Dio quando era in vena di stramberie, capace di un assolo, di trasformare una croma in minima, allungare una semiminima in una semibreve. A quel punto l’Antonucci, ‘lu barisi’, sospendeva la prova e si ricominciava daccapo.


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Per queste sue stramberie una volta mancò poco che non venisse linciato dai mazaresi presenti alla villa Margherita di Trapani, dove si svolgeva una gara fra le bande musicali della provincia: durante l’esecuzione di una composizione di Gaetano Rossini, ‘La gazza ladra’, quando lo spartito presenta un segno di corona che dà via libera al solista di tenere la nota coronata in un grazioso e prolungato decrescendo, Giattino, nel finire l’allungo, aggiunse arbitrariamente una secca biscroma punteggiata che indusse la giuria a cancellare impietosamente Mazara dalla gara. Sapeva suonare anche gli strumenti a corda: il violino, la chitarra e soprattutto il mandolino. ‘La serenata’ di Silvestri era davvero il suo capolavoro di esecuzione ricca di virtuosismi, come ancora qualcuno ricorda. Portava sempre con sé, nei vicoli e nei cortili, un garofano, una rosa o un mazzetto di gelsomini quasi con l’intento di ridurre gli odori sgradevoli delle persone, delle case vecchie ammuffite e degli animali conviventi. Quando poi si recava nelle case di tolleranza pretendeva sempre che le donne venissero da lui spogliate, con perversa lentezza, indumento dopo indumento, sino alle scarpe che lanciava lontane per sentire l’impatto con il pavimento. Rimasta nuda, la donna prescelta o disponibile nella circostanza, era sollevata in braccio e adagiata dolcemente sul letto del peccato. Col passare degli anni don Cicciu, ormai quasi privo di energie, si diede da fare per sopravvivere, collocandosi magari in qualità di posteggiatore tollerato davanti a circoli e pasticcerie in attesa di qualche misera mercede. Una mattina d’inverno gelido lo trovarono, adagiato senza vita, davanti alla porta della sua casa: aveva con sé un povero fagotto di cenci e un mandolino, sua unica famiglia. Moriva così, nell’indifferenza generale, un geniale estroso personaggio, Francesco Ballatore nei documenti ufficiali.


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La Signora Miseria Anche questo nei primi anni del Novecento era un personaggio molto conosciuto tra gli operai e i contadini. Era presente in ogni casa di questi lavoratori come una malattia endemica, maledetta, ossessiva, ostica. Nelle famiglie la pasta si cucinava ogni settimana, la domenica. Il sabato, il figlio che andava a comprare “la ruttami”, la pasta spezzata, a metà costo da donna Aticchia, la fiorentina, a Porta Palermo, ritornava giulivo a casa canticchiando: domani è festa e si mangia pasta! «Pasta e sùsiti» si soleva dire. Salvo quando questa ruttami era condita con dei cavolfiori, allora la madre cuoca ci faceva uscire un bel secondo e perfino la frutta dal torsolo. La carne la si vedeva nelle grandi festività, o quando moriva un parente, in occasione del quale si riceveva il cùnsulu dai vicini di casa. In ogni avvenimento festivo o feriale che fosse il menù era composto da carne capuliatu, il tritato, in questo modo si potevano fare tutte le porzioni che si voleva, bastava un quarto di chilo di carne e un chilo di pane stantio. Se per caso nelle feste suddette all’ultimo momento si avevano delle scuppature, cioè dei parenti autoinvitati, la buona massaia non si perdeva d’animo, aggiungeva mollica e sale al capuliato, e le porzioni tornavano sempre. Quando vi era poi un ammalato in casa, dal macellaio si andava a comprare un pezzo di piede di bue per fare un buon brodo. Nei giorni feriali il menù era composto di cicoria, fave e porri, giri e fagioli e altre verdure selvagge e qualche uovo di tanto in tanto per gli uomini che lavoravano. Quando si friggeva un uovo, la friggitrice aveva cura di togliere l’olio di risulta per conservarlo, onde consumarlo in un’altra occasione. Di pesci nemmeno a parlarne. Era un avvenimento quando si riusciva a comprare un po’ di “sputa e getta”, cioè pesci piccoli, più spine che polpa.


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L’indomani dell’evento della pasta in una famiglia toccata dalla miseria, questo nebbione che ti avvolge e ti lascia senza respiro e a cui tu facilmente ti ci assuefai senza scampo, come un castigo di Dio che ti plagia, ti circuisce, il marito chiama la consorte e le dice: «Oggi è capu di lunnirìa, il caposettimana, eccoti una lira, è figghia unica, cioè la sola che abbiamo in casa, cerca di cumpanaggiàtilla, cerca di spenderla con parsimonia, diluita nel tempo». Più tardi la donna chiama il figliolo a cui dà dei soldi da spendere in questo modo: «Quattro soldi per una misureddra d’olio (mezzo decilitro) da comprare presso don Cola Asaro a San Carlo. Poi passi di lu zu Nofriu Cucchiara, a la strata di la cursa, e ti fai dari dui soldi di “muddricheddri” (mollichelle di formaggio). Poi vai a la Cruci, da don Aspaneddru Fasulu e ti fai dari na falittata di tappareddri e vampugghi (piccole tavolette e trucioli che il bravo falegname regalava a chi gliele chiedeva, per accendere il fuoco in cucina). E non dimenticare di passare da don Pippinu Mustazzeddru e vedi se puoi racimolare un po’ di cartone di scatolame, perché mi serve per turare i buchi delle suole delle tue scarpe che per risuolarle non se ne parla per ora. E per oggi basta, domani fammi ricordare di comprare tre soldi di zucchero per fare la puppatella a lu nutricu». La puppatella era un nodo al fazzoletto fatto a forma di capezzolo con dentro dello zucchero da mettere in bocca al lattante, per farlo stare quieto quando la madre era affaccendata. Questo personaggio Miseria, che non ti puoi scrollare d’addosso, incollato com’è al tuo destino, fa di te, perennemente, un miserabile, un pidocchioso, un centesimaru, uno che bada al centesimo in ogni manifestazione della tua vita. Parliamo ancora della madre di famiglia che ha il compito di badare al governo della casa, mentre il marito è al lavoro, dall’alba a sera inoltrata. Dialogando sempre col figliolo più svelto dice: «Stasera metto li robbi a mollo che domani c’è la lavata. Siccome il sapone non mi


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basterà, tu oggi ti rechi a lu stazzuni e mi porti un pezzo di creta. Poi vai alla spiaggia e raccogli un sacco di alga asciutta per riempire i cuscini che debbo lavare. Nel pomeriggio vai al giardino della Santa Monica e dirai a don Tanu Ntruneri di darti due chili di aranci di nterra che costano a poco prezzo. Fai tutto per benino, caro figliolo, dice ancora la madre, e ti prometto che se uno di questi giorni pioverà, tu ti rechi a cercare li jurischi e appena avrai vendute le lumache io ti regalo due soldi per affittare una bicicletta da don Biagio Alagna, per divertirti un po’. Se disgraziatamente non dovesse piovere, tu andrai a raccogliere il carbone che i fuochisti dei treni gettano infuocato lungo la strada ferrata e te lo vendi per conto tuo». Se qualche volta uno della famiglia aveva la pitinia (eczema) e si lamentava per il forte prurito, la mamma interveniva rassicurante: «Mèttici la sputazza a diunu chi ti passa subitu». Come gli altri personaggi anche questo ha la sua storiella: una mattina di domenica il marito esce di casa. Appena in strada gli si avvicina una zingara, smunta, olivastra con un bambino cencioso e tracomatoso in braccia che dice: «Dammi una mano che ti leggo il destino». Risponde l’uomo: «Non ti sforzare gitana. Basta leggere la tua stessa mano, per sapere tutto su di me. Io sono la tua fotocopia, stessa miseria, stesso destino!».


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CAPITOLO 5

USI E COSTUMI

I barbieri festeggiavano a settembre i santi protettori della categoria, Cosma e Damiano. I calzolai san Crispino il 25 ottobre e i picconieri san Vito nel mese di giugno. Naturalmente tutta la cittadinanza, ricchi e poveri, bambini ed adulti, uomini e donne, correva con gioia ad assistere alle corse dei sacchi, al gioco della padella e alle altre manifestazioni di contorno, senza dimenticare le processioni di rito alle quali erano interessati maggiormente gli artigiani della corporazione. Tra i numerosi scritti di varia umanità (sulla condizione degli anziani, sulle attività sportive, sui dialoghi femminili nei cortiletti arabo-normanni, su handicap e vita familiare) sembra utile riportare qualche documento indicativo delle tradizioni popolari e dello stile di vita di una piccola comunità, educata sia al valore dell'associazionismo nel segno dell'amicizia che al rispetto delle opinioni politiche degli avversari. Lorenzo Inzerillo non si iscrisse mai alla petulante confraternita dei “laudatores temporis acti”, ma avendo avuto modo di osservare il balletto di uomini nuovi “senza idee e senza fede” era portato a riconoscere negli uomini politici di una volta atteggiamenti e comportamenti tipici di uno stile sobrio e parsimonioso sedimentato da pudori amministrativi e lunghe frequentazioni culturali. Del resto sapeva bene che in politica la scelta non è tra bene o male ma tra due mali, tra i quali scegliere alla


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fine il minore attraverso un severo approccio pragmatico e realista; che la crescita democratica di una vasta comunità non si poteva misurare dall’assenso passivo dei cittadini, portati sempre a sollecitare sprechi e dissipazioni delle risorse economiche di tutti; che senza stimoli esterni chi gestisce il potere è portato all’autoreferenzialità acritica sulle scelte adottate. S’inventò allora, cessato il suo mandato pubblico, un ruolo inedito, quello del quarantunesimo Consigliere comunale, che si portava in giro per le strade di Mazara per poi fornire suggerimenti ai quaranta amministratori ufficiali. Non si sentiva tuttavia componente di un incongruo Tribunale della Storia; anzi era subentrato nel suo animo una forma di propensione verso l’indulgenza, oppure di fatalistica rassegnazione. Perciò, stanco degli spettacoli che si svolgevano nelle chiese sconsacrate, preferiva tornare alla dialettica politica dei suoi tempi giovanili, come si osserva dalla lettura dell’articolo “Guelfi e ghibellini: la politica a Mazara tra le due guerre”. Avverte che il popolo in maggioranza è fatalista, sbadato, superficiale, incurante delle brutte cose e si convince che lo stesso rispetto delle leggi può essere garantito se i mazaresi acquisteranno la consapevolezza della loro storia e dei beni culturali ed ambientali che stanno attorno a loro. Sulla misura poi del suo equilibrio politico valga questo episodio. La città ancora una volta è alla ricerca di un Sindaco ma resta immersa nei suoi bizantinismi pretestuosi. In un articolo di giornale afferma spazientito che quella poltrona “spetta a Cola Cristaldi, che rappresenta la maggioranza dell’elettorato locale”. E poi aggiunge: “Non gridino allo scandalo gli amici della sinistra per questa affermazione per certi versi fantascientifica, anche un appartenente alla sinistra pur non tradendo i propri principi collaudati da 70 anni di militanza, quando ha la convinzione di dire cose giuste, deve avere il coraggio di buttarle fuori, anche per il collo della bottiglia”. Si può sostenere che, a scoppio ritardato di an-


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ni, la sua onestà intellettuale in anticipo con i tempi lo rese alquanto profetico. CosÏ andavano le cose nel XX secolo. Voleva fare i tempi supplementari per assistere al miracolo, cioè alla scomparsa della polvere e a percepire la sensazione gradevole del profumo intenso del gelsomino, in tutte le stagioni. Non gli fu consentito. Forse ora gli resta la soddisfazione postuma di non essere dimenticato.


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La festa di lu pirtusu Si svolgeva la domenica successiva alla festa del Corpus Domini, che cadeva sempre di giovedì. La processione usciva dalla chiesa di S.Nicolò, la parrocchia del rione marinaro, e percorreva quel dedalo di straduzze della casba che si chiamano Pico, Bambino, Pilazza, Barca, ecc., tortuose e anguste fra cento cortiletti. Perciò era chiamata “la processione di lu pirtusu”, ovvero del buco. Nei giorni antecedenti la festa i parrocchiani di ogni strada raccoglievano la somma necessaria a sostenere le spese necessarie per innalzare, ognuno per conto proprio, l’altare e gli addobbi, rami d’albero e palme, nei muri; altre risorse economiche venivano utilizzate per le bandierine di carta, l’incenso e l’obolo al parroco, che doveva retribuire direttamente la banda musicale. In attesa che giungesse la processione si svolgevano vari giochi: la corsa dei sacchi, l’antenna della cuccagna e altri passatempi. Verso sera finalmente appariva, preceduto da chierichetti salmodianti, la ieratica ed imponente figura dell’officiante, don Accardi, parroco di S.Nicolò, che eseguiva la benedizione fra incensi, luminarie e l'inno reale della banda.

Lu chiummu di S. Giovanni La gente durante l’anno raccoglieva qua e là, ma soprattutto nelle vicinanze delle reti dei pescatori stese al sole, pezzettini di piombo da bruciare nel giorno di San Giovanni, il 24 giugno. Dopo averlo ridotto allo stato liquido, il piombo veniva rimescolato in apposito contenitore e quindi coagulato e raffreddato. Da questa operazione uscivano delle statuette con rassomiglianze varie che gli operatori leggevano per capire il futuro, benigno o avverso.


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La cursa di li giannetti Così era chiamata la corsa dei cavalli senza fantini che si svolgeva “na la strata di la cursa”, allora denominata via del Popolo e poi via V. Veneto. Ciò accadeva in occasione di feste principali: San Vito e Madonna del Paradiso. I cavalli venivano portati dai loro proprietari provenienti da ogni parte della Sicilia occidentale e poi affidati agli uzzuna, cioè a coloro che avevano il compito di badare ai cavalli e tenerli a freno in attesa del segnale di avvio. Questi uzzuna hanno lasciato a Mazara una sorta di proverbio. Si usa dire ancora in città: «Si sciarrìanu comu li uzzuna», si disputano come i palafrenieri, per dire che fanno finta di venire a vie di fatto, ma poi finiscono con il recarsi alla taverna per un’amichevole bevuta. Infatti, questi signori, all’atto della partenza dei cavalli, tentavano di rubare mezzo metro di vantaggio tra le contumelie e le parolacce degli altri, inviperiti. Poi finita la corsa, si vedevano scambiarsi pacche sulle spalle allegramente. Fra i cavalli che godevano della simpatia del popolo c’è da segnalare l’aceddru di Marsala e la saitta di Sciacca. Infatti i due cavalli volavano come un uccello e sfrecciavano come una saetta. La festa di l’Ascinzione La sera che precedeva il giorno festivo incominciava l’esodo della gente verso le campagne, ove nella notte si accendevano dei grossi falò attorno ai quali grandi e piccini davano vita a festosi girotondi. All’alba, prima che il sole sorgesse, le donne si portavano sulla spiaggia più vicina, ove immergevano i piedi nudi nell’acqua per un pediluvio propiziatore. Nel frattempo i giovanotti iniziavano la marcia a piedi per la tradizionale gita alla lanterna, cioè al faro di Capo Granitola, posto all’estremo lembo di


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Europa, dove il Mediterraneo si restringe fino a Capo Bon, in Tunisia. Nel pomeriggio, poi, il popolo si riversava verso l’acchianata di Lu Zanu, sita all’estrema periferia della città, lato est, nella contrada che porta il nome del vescovo cappuccino Lo Zano (1656-1668). Lì si svolgeva la cursa di li scecchi. Ogni proprietario di un asino quel giorno cercava la gloria, cavalcando il suo animale bardato a festa, il quale, povero quadrupede, di festa ne vedeva ben poca, poiché allo scopo di aizzarli i cavalieri menavano colpi di bastone a ritmo sincopato, in quanto più che al premio i padroni ambivano a essere festeggiati come i proprietari dell’asino più valoroso. L’acchianata di lu Zanu in quei tempi era considerata una prova impegnativa. Infatti la salita alquanto ripida e i fossi lungo il percorso facevano della gara una vera corsa ad ostacoli.

Lu Nannu e la Nanna Il martedì grasso, cioè al termine del Carnevale, per le vie cittadine, appesi ad una corda sospesa tra un balcone e l’altro, apparivano due fantocci con sembianze di vecchietti, chiamati il nonno e la nonna. A tarda sera, tra l’entusiasmo piromane della gente convenuta, si dava l’addio malinconico al Carnevale appiccando il fuoco e lasciando bruciare assieme ai fantocci tutte le vanità della terra.

La visita a li sepurchi La visita ai Sepolcri si effettuava il Giovedì Santo, dopo che in mattinata il Vescovo aveva lavato i piedi agli “apostoli”, poveri diavoli raccolti qua e là che per un piccolo compenso, fungendo


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da “apostoli”, avendo per quel giorno il pranzo assicurato. Con queste funzioni si entrava nel clima delle feste pasquali. La sera la gente animava le vie cittadine per recarsi nelle varie chiese dove si preparava il “sepolcro”. Lo spazio antistante l’altare maggiore era cosparso di lu furminteddru, cioè piatti dove per mesi i fedeli avevano seminato del frumento tenuto al buio fino al Giovedì Santo. Quindi, portati in chiesa, insieme ai vasi di vetro con acqua colorata, addobbi di carta policroma, luce fioca diffusa dai lumini e bambagia confezionata con sembianze di agnellini, creavano un insieme suggestivo e mistico.

Fistinu di Miragghianu La conca rocciosa e scoscesa che dal mulino ad acqua giù fino alla grotta di S. Bartolomeo (luogo di preghiera dei primi cristiani di Mazara), dove scorre il fiume Mazaro, si chiama Miragliano. Nel giorno del Lunedì dell’Angelo, nell’antico giardino dell’Emiro, a piedi, su carri, in bicicletta o risalendo in barca il fiume Mazaro, tra canti, cori, balli e musiche tradizionali, si radunavano migliaia di persone in festa per dare luogo ad un picnic familiare, gioiosamente allietato dalla somministrazione delle cibarie preparate in precedenza: uova bollite, carciofi arrostiti, pesci fritti, fave verdi bollite e pizzicate, olive scacciate, pasta al forno e dolci col sesamo e miele. Infine, come momento spettacolare, si dava vita al gioco delle pignate, attaccate ad una corda tesa tra le due sponde del fiume, che gli equipaggi delle imbarcazioni a turno rompevano con una grossa pertica, trovandovi all’interno animali da cortile, oppure, se sfortunati, coriandoli e cenere. L’ilarità e il divertimento del popolo aumentava quando qualcuno nella foga di colpire perdeva l’equilibrio e precipitava in acqua.


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La caminata a li Cappuccini Nel pomeriggio di Pasqua la gente si riversava nella chiesa dei Cappuccini. Lì si visitava la cripta sottostante ove si potevano vedere gli scheletri, vestiti ancora dei panni antichi in uso all’epoca del loro decesso, appesi alle nicchie, mentre i teschi privi del resto del corpo erano allineati su tavole disposte in giro in alto attorno alla cripta, piccola catacomba nella quale il visitatore curioso provava rispetto e paura nello stesso tempo. Uscito dal tetro luogo, il popolo riempiva il sagrato pieno di bancarelle dove si vendeva calia e simenza e gazzose in gran quantità. Al calar del sole un’orchestra composta di strumenti di rame, cioè uno spezzone della banda cittadina, eseguiva delle marcette allegre che ricreavano gli astanti. Una nota curiosa era data dagli uomini del rione dei pescatori che andavano al pellegrinaggio giocando con le arance come se fossero bocce, per non fare apparire troppo lungo il cammino.

Lu iornu di li morti Notte agitata per i bimbi, quella che precedeva il 2 novembre, il giorno della commemorazione dei defunti. All’alba si alzavano e con gli occhi assonnati incominciavano ad aprire tiretti, cassettoni e ripostigli vari, cercando febbrilmente “li cosi di morti”, il regalo cioè dei parenti morti, previa preghiera della sera prima, dedicata a loro. «Manciari i morti» si diceva, forse retaggio di antiche concezioni animistiche. Era comunque un affannoso rincorrersi nelle prime ore del mattino per scoprire i luoghi fantasiosi dove i defunti avevano nascosto i regali, riservati però ai bambini buoni, come sottolineavano con elementare pedagogia i premurosi genitori. Nella ricerca i bimbi erano assistititi dai geni-


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tori che, a dire il vero, facevano di tutto per far perdere loro ogni giusto orientamento, per allungare l’ansia dei ricercatori. Quando eravamo poveri i morti portavano frutti della terra (mele di Napoli, noccioline, fichi d’India, melograni, melacotogne, arance) e un pupo di zucchero (paladino di Francia, galletto, pavone, ballerina) collocato al centro di un paniere dove era stata sistemata la frutta. Se il defunto aveva disponibilità economica, non si dimenticava di aggiungere anche qualche monetina. La fase conclusiva di quella festività, incerta tra vita e morte, che accosta viventi e defunti, si concludeva nelle strade in una sorta di competizione tra i panieri. Poi, dopo il miracolo economico italiano, la competizione divenne ricca di regali tecnologici, chiassosa e senza anima. La festa-ricordo aveva perso il suo fascino.

La fanfara di li militari Ogni festa nazionale, il 24 maggio, il 2 giugno, il 20 settembre, il 4 novembre, la fanfara dei militari in congedo, impettiti, gagliarde piume al vento, al comando del capo trombettiere Matteo Savona, percorreva le vie principali al suono di marcette, creando attorno al loro marziale incedere un'atmosfera allegra e goliardica.

Le leccornie delle feste La cuccìa di Santa Lucia si preparava perché, come voto, il 13 dicembre si digiunava, fatta eccezione del frumento non macinato ma cotto nell’acqua, sostitutivo di pane ed acqua. In famiglia si preparava la sera prima con una lunga bollitura e poi veniva condito con vino cotto e cannella.


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Per il giorno di S.Martino, l’11 novembre, si impastavano i biscotti di San Martino, fatti con farina maiorca e aromi che li rendevano particolarmente deliziosi. Il giorno dell’Immacolata si preparavano i mufuletti, panini sfornati alla prima cottura, e poi conditi con ricotta e zucchero. Una vera festa del palato! Anche per l’Immacolata si facevano li spingi. Per Natale si confezionavano li cassateddri, con pastone e fichi secchi, dando ad ognuna forme varie di uccello, foglia, fiore. Poi venivano infornate nelle teglie con grande gioia dei piccoli. Anche i ravioli facevano la loro comparsa nelle mense in quei giorni. Il giorno, anzi la notte della Madonna dell’Alto, cioè il 15 agosto, festa dell’Assunzione, si bollivano calderoni colmi di granoturco e patate fra un falò e l’altro. Per Pasqua si preparavano i campanara, con le uova bollite, e poi colorate e la cubàida, fatta con sesamo e zucchero prima bollito e poi passato in padella. Per la vendemmia infine si confezionavano i mustazzoli con farina e vino cotto.

Guelfi e ghibellini: la politica a Mazara tra le due guerre Il fulcro della vita politica mazarese era la Piazza del Vaticano. Così alcuni chiamavano la piazza della Repubblica. Era divisa in due schieramenti: bianchi e neri. Alla maniera dei guelfi e ghibellini. I primi erano capeggiati dall’avv. Sansone, coadiuvato da una schiera di signorotti del paese, persone carismatiche che, come si diceva allora, avevano voce in capitolo. L’avv. Sansone, valoroso e brillante penalista, oltre ad avere attorno a sé i D’Andrea, i Norrito, i Mandina, aveva un seguito popoloso di popolani che lo stimavano come un padre. Lo chiamavano


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l’avvocato “di li puvireddri”. Quando un artigiano, un contadino, un impiegato, aveva bisogno di essere difeso, Mimì Sansone non presentava parcella. La postazione dei bianchi era il Circolo dei civili ubicato nei locali a piano terra del Palazzo Vescovile. Dirimpettaio dei civili, proprio sotto il seminario, era il Circolo Umberto (dei neri) il cui capo politico era l’avv. Tortorici, un galantuomo di razza, di origine partannese, deputato e poi Sottosegretario di Stato alla Marina Mercantile. Anche lui era circondato da signorotti come i Burgio, i Barracco, i Raja. In quest’ultima famiglia spiccava Giovan Battista, un avvocato notevole per la sua oratoria intelligente e persuasiva. Era ritenuto un politico energico e battagliero. C’è da rilevare che i due schieramenti erano di tendenza socialista. I sansonari erano un partito popolaresco, mentre i Tortorici erano più conservatori. Per la cronaca spicciola, diciamo che cameriere dell’Umberto era Ninu Paparecianni, attivo e sagace galoppino dei neri, mentre al lato opposto, nel Circolo civile, si prodigava Luzzo-Titoni. Quando questi camerieri si incontravano erano schermaglie orali e coloriti sarcasmi, inerenti ai rispettivi partiti fra il sollazzo dei casuali astanti. E non erano i soli a guardarsi in cagnesco. Durante ogni campagna elettorale la propaganda, oltre che dai balconi, si faceva con i fogli locali pieni di vignette con barche naufragate cariche di merce fasulla, botti di vino con le ali, forme di cacio di gesso, ecc. Gli strilloni venivano certe volte alle mani perpetuando quello che per millenni gli uomini della periferia della società fanno, e cioè disputare senza movente avverso, ma per un diverso padrone.


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Svaghi dei giovani nella Mazara del primo Novecento Non c’era da scegliere granché in fatto di divertimento, per la gioventù locale nei primi anni del XX secolo. Lo svago principale era costituito da “lu giru di lu paisi”, che incominciava di prima sera per finire a sera inoltrata. Il giro, in comitiva, di solito partiva da piazza Porta Palermo dove era fissato l’appuntamento e consisteva nel percorrere il solito quadrilatero: via del Popolo, corso Umberto, via S. Giuseppe, via Garibaldi e via Porta Palermo. I “girini” questo quadrilatero lo percorrevano 10-12 volte, a passo lento nella speranza d’incontrarsi con persona dell’altro sesso, coetanea, ovviamente scortata. Erano felici quando questo avvenimento si avverava. A tarda sera, con le gambe indolenzite, si salutavano con il proposito di rivedersi la sera successiva. Il sabato si presentava qualche diversivo, come il cinema Mannina dove si programmavano le gesta di Tom Mix, le straordinarie avventure di Tarzan, le comiche di Tontolino e di Harold Hold. Si poteva anche giocare al tocco da don Sarino Celano, con pasticceria alla Mastranza, conosciuto dai mazaresi per i suoi scherzi, le barzellette e il pallino del gioco del lotto. Non perché don Sarino faceva delle puntate alla “bisca dello Stato”, ma soprattutto per offrire ai clienti un possibile terno o una quaterna da giocare, come un veggente dilettante. A Mazara il tocco era molto giocato nelle bettole di Porta Palermo soprattutto dalle persone adulte. I giovani preferivano il tocco a base di tetù, moscardini e dolci secchi, tralasciando vino e gassosa. Da don Sarino Celano si apprezzava la granita al gelsomino. Il sabato sera si faceva una capatina nella sala di ballitto gestita da Iachinu Rizzo, suonatore di organetto e azzarino in via del Popolo. Il ballo, esclusivamente tra uomini, costava due soldi. La domenica, dopo il giro mattutino e la pausa pranzo, si andava da don Vito Curuna detto zaccaruteddru, che gestiva una


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sala di biliardo. Si giocava a carambola e alla puglia sino a tarda sera. Quindi la giornata domenicale si concludeva alla Villa comunale dove la banda cittadina eseguiva i suoi concerti su musiche di Verdi, Donizetti, Mascagni. Il vero scopo della visita non era però la musica, ma l’opportunità di guardare con sguardi intensi o imploranti le belle ragazze che i parenti conducevano a passeggio.

Circolo cacciatori e Museo ornitologico Siamo stati a visitare il Circolo dei cacciatori di Mazara, eretto sotto il patrocinio del Comune con delibera del 15 ottobre 1984. Questo Museo, che molti cittadini di altre città vengono a visitare e ci invidiano, è quasi sconosciuto ai mazaresi. Il visitatore, appena entrato, viene a godere la vista di circa 350 esemplari, esposti negli scaffali del vasto salone. I pennuti imbalsamati sembrano come usciti dalle mani di un mago, posti ed allineati in bell’ordine nel gruppo della propria specie. Per la loro naturalezza danno l’impressione che sono ritornati dai loro voli anarchici nell’infinito. Eccoli! Fieri, maestosi, superbi, usi come sono a guardare dall’alto in basso. Li puoi ammirare estasiato, sognando coreografie di terre lontane, disinquinate e libere. Eccoli dietro i vetri. Sono trampolieri, rampicanti di passo, rapaci, quasi tutti migratori. Trovi dal cigno reale al fringuello; dalla cicogna all’otaria; dall’Ibis sacro alla gazza ladra; dall’airone al marzaiolo; dal gallo fagiano al pignattaro; dall’inca alle tortore; dalla dentrocittà allo zigolo, alla sterna, all’ucarino, al bucero, all’allodola. È lecito supporre che appena terminato il suo lavoro, l’artefice dell’imbalsamazione, postosi dinanzi ad un fenicottero, gli abbia gridato in faccia: «Perché non fai il tuo verso?». Accanto alla popolazione ornitologica il visitatore può ammirare anche la fauna dei mammiferi imbalsamati. Sono quasi tutti


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dell’agro mazarese: volpi, conigli, lepri e simili. Fra questi fa notizia a sé una martora, che si potrebbe scambiare per una faina oppure una lontra. Alla fine si è appurato che si trattava di una genetta, carnivoro dell’Africa, fuggita da un circo equestre e uccisa da un cacciatore in contrada S.Nicola perché ritenuta volpe. Una volta quella contrada rappresentava una specie di Paradiso dei cacciatori. Abbondava la selvaggina e i laghetti collinari dei dintorni costituivano comodo ristoro di anatre e folaghe in attesa di raggiungere i caldi africani. I terreni limitrofi erano di proprietà delle famiglie Lentini e Mocata e ora in parte sono diventate zone protette, interdette alla caccia. I soci del Circolo hanno da raccontare le loro gesta di caccia. Sono avventure, storie avvincenti, vicissitudini attorno ad una preda. Sono astuzie, sotterfugi dei neofiti e veterani, proseliti della dea Diana, impegnati a portare a casa un cimelio venatorio. Il Circolo-Museo di Mazara per la sua numerosa collezione rappresenta uno fra i più importanti d’Italia. Sia resa lode al signor Severino Mauro, imbalsamatore provetto di questi animali, studiati con precisione in modo da rendere naturale la posa di ciascuno. Il museo inoltre è provvisto di antichi strumenti ausiliari della caccia come il misurino confezionatore delle cartucce, le scatolette di polvere e congegni misteriosi. I soci più anziani continuano a raccontare mirabolanti esperienze di caccia antica, mentre altri, meno anziani, si danno alla lettura di giornali e riviste, senza rinunciare di tanto in tanto a qualche partita con le carte da gioco. Il circolo venne fondato nel 1925, con sede provvisoria nella vicina via SS. Salvatore. Riconosciuto dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste, mantenne la sua gelosa autonomia rispetto all’ordinamento politico esistente allora in Italia. Il primo Consiglio direttivo era così composto: Severino Mauro Presidente; Francesco Giammarinaro, Giuseppe Cafiero, Signorino, Dado e i fratelli Costanza Consiglieri. L’odierno Direttivo è così composto: Vito Lentini, Presidente; Giuseppe Crisafulli, Salvato-


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re Ciotta, Aurelio Burgio, Francesco Ferro, Carmelo Isaia e Vincenzo Occhipinti Consiglieri. Potrà suscitare poi qualche motivo di curiosità conoscere i nomi dei vari Presidenti che si sono succeduti nel tempo: Francesco Giammarinaro, Col. Cafiero, Girolamo D’Andrea, Luciano Tumbiolo, Aurelio Burgio, Giovanni Barracco, Vito Hopps, Mario Alagna, Leonardo Pinta, Ruggero Sammartano, Cola Sammartano, Nicolò Sammartano, Nicolò Marino. Giova segnalare infine alcuni nomi di amanti della caccia mazarese: Giuseppe Caravaglios, Giuseppe Burgio, sac. Ciccio Cimiotta, Ferrantello, Cocò e Ciccino Genna, Peppi Torre, Gaetano Patrì, Villani, Tonino Bono, Luigi Ballatore, Ignazio Fasulo, Vito Ramo, Nenè di Marco, Peppino Gallo, Michele Gandolfo, Biagino Alagna, Santino Buscemi, M.Gallo, Vito Fiorentino, Martino Annibale, Lorenzo Bonsignore.


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APPENDICE


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GLOSSARIO

ossia piccolo vocabolario secondo l’interpretazione dei mazaresi

È un compendio ristretto della sotto-lingua mazarese all’interno del più vasto impasto linguistico siciliano, un mini-vocabolario di pronto soccorso composto da 622 parole distribuite in 31 pagine dattiloscritte. Al di fuori dei confini municipali certo può apparire in parte criptico se perfino la diversità del linguaggio si rileva tra le categorie professionali cittadine e i rioni di appartenenza, dalla Makara al Villaggio dei pescatori, da lu Curtigghiazzu a lu Carmineddru. Ovviamente questa breve rapsodia, che pure contribuisce a documentare parte della vita cittadina, non può competere con il monumentale Dizionario siciliano italiano di Vincenzo Mortillaro, fiore, come egli scrisse, del dialetto“universalmente parlato in Sicilia” che risplende nei 29.690 vocaboli della seconda edizione del 1853. Eppure la raccolta specifica e geograficamente delimitata di Lorenzo Inzerillo, anche quando le generazioni voltano veloci le pagine dei ricordi, svolge un’apprezzata funzione comunicativa, integrativa o sostitutiva, soprattutto nei confronti di chi, residente altrove per lungo periodo, ha perso confidenza con l’antico nativo eloquio, spesso di specifica intensità gergale.


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A Abbaddratu: persona cagionevole di salute o demoralizzato; cadente come un muro. Abbalucchiri: perdere tempo, curiosare senza interesse. A baniddruzza: porta o finestra socchiusa. Abbisaturi: indovino. Abbruscatu: bruciacciato. Abbuattàrisi: mettersi a letto per dormire. Abbuddratu: impregnato d’acqua. Persona grassa e gonfia. Abbullatu: inteso come precisione d’orario. Abbutturatu: satollo,sazio. Accapàrisi: ricorrere all’arte della lusinga per farsi amici e confidenti. Accaparràrisi: prenotarsi. Acchittu: di primo colpo. Accimari: partecipare alla ripartizione di denaro e di oggetti; accettare regali. Accucciàrisi: rannicchiarsi. Accuddràrisi: accollarsi un debito, un’obbligazione. Accunutu: costipato, sfinito. Accurzatu: ridotto, diminuito. Accuturatu: persona lenta, senza energie. Aceddru di malutempu: gabbiano, procellaria, ecc. Addicari: affamato; esausto per lungo digiuno. A diunu: digiuno di alimenti e conoscenza. Addruvari: trovare un’occupazione o oggetti smarriti. Affumata: iniziativa mal riuscita. Affunciati: tenere il broncio; accostare oggetti o persone. Aggattatu: acquattato; nascosto. Agghialoru: bugigattolo. Agghicari: arrivare alla meta. Agghiòmmaru: gomitolo. Aggiuccatu: accovacciato.


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Aggughiari: abbottonare. Allaccanatu: debole, appassito. Allallatu: stralunato, svanito. Allamicusu: piagnucolante. Allannatu: intontito. Allapazzatu: finestra o porta rattoppata alle fessure. Allazzari: allontanarsi velocemente. Allicchittari: lubrificare. Alliddraratu: persona esile. Allittratu: istruito. Alluccutu: sbalordito. Allunghiuniusu: inutilmente prolisso. Allupatu: affamato. Allustrari: corteggiamento amoroso a distanza. Ammantiddratu: ben coperto, riparato dall’inclemenza del tempo o dalle ostilità. Ammariari: disturbato fisicamente nella navigazione. Ammastratu: abile e solerte. Ammàtula: inutilmente. Ammogghiu d’agghia: semplice preparato gastronomico (acqua, olio, sale e aglio pestato e pane raffermo). Ammuccaficu: credulone, ingenuo, riferito spesso alla cittadinanza mazarese come segno di auto-commiserazione. Ammuccia-ammuccia: gioco di ragazzi a nascondiglio. Ammugghiari: inzuppare pane o biscotti in una bevanda. In senso figurato significa contribuire a discussioni accese o ironiche. Ammuttari: spingere. Ammuttunatu: Imbottito. Ancugnari: accostare. Animella: persona pavida. Anìmmulu: inquieto e vivace come certe immaginarie figure di leggende marinare; strumento rotondo per dipanare particolari matasse.


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Annacari: dondolare, indugiare, perdere tempo, andare per le lunghe nelle trattative. Anticchia: un poco. Appigghiatu: principio di incendio; persona particolarmente suscettibile. Appiramentu: fondamenta. Appiricari: toccare il fondo del mare con i piedi senza la necessità di nuotare. Appiuncatu: moscio, scoraggiato. Appizzatu: appeso. Appizzusu: noioso, appiccicaticcio. Appuzzari: attingere acqua dal pozzo. Arantu-arantu: lavorare con metodo nei campi. Argia: gabbia per uccellini. Argiutu: goloso. ArÏanu: origano. Àrica: alga. Armatura: gomena di attracco di un natante. Arramatu: senza denari ma ossessionato dal desiderio di un oggetto. Arramazzari: cadere pesantemente. Arrapacchiatu: rugoso; grinzoso. Arrobbanisi: ladruncolo. Arrunnatu: corrucciato. Arrusciaturi: innaffiatore. Arruzzuliari: ruzzolare; utilizzare argomenti stravaganti. Arzu: amante. Arzuni: garzone di bottega. Aciddrara: carrucola. Asciluccatu: spossato dallo scirocco e dal caldo. Asciuchenti: tempo favorevole per asciugare bene e presto la biancheria. Assapanatu: inzuppato dalla pioggia.


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Assicutaparrini: letteralmente baciapile, ma era termine usato dai ragazzi nel gioco della trottola, quando questa, priva di equilibrio, sbandava. Assinnatu: reso inservibile; sciupato. Assòliu: petrolio. Astimari: lanciare imprecazioni di maledizione. Astutatu: Spento (talora definitivamente se trattasi di persona). Atta ncinnirata: gatta o persona sporca di cenere; donna trascurata nella cura della persona. Attarina: pesce o persona di poco pregio. Attia: richiamo per attirare l’attenzione di qualcuno. Attimpari: andarsene inaspettatamente. Attuppari: otturare, chiudere. Atturrari: brustolire, riferito anche a chi è stucchevolmente ripetitivo. Attusa: gattina appena nata. B Babbasuni: allocco. Bacalanzita: altalena. Baddrariata: dispiacere intenso. Baddruzza: pallina; essere presi in giro con sotterfugi. Bagghiera: di donna che abita in un baglio e che spiffera in giro fatti e indiscrezioni. Baggianu: vanitoso; narcisista. Baia: galleggiante luminoso per segnalare pericoli alla navigazione. Balanzata: Quantità e peso soddisfacenti. Bannettu: propalare notizie riservate attraverso un bando di natura privata. Bardascia: immaturo e inaffidabile. Di donna poco rispettabile. Basciarìa: adulazione a scopo di raggiro futuro.


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Batarollo: persona grossa e tarchiata. Bisurco: incivile. Bobò: inizio ninna-nanna per addormentare i bambini. Boiacani: accalappiacani. Bozza: riferita ad una parte anatomica delle galline dove è trattenuto il cibo prima di passarlo all’intestino. Bozzu: ematoma, gonfiore. Bromu: animale marino ma anche persona senza spina dorsale. Buatta: barattolo. Buccetta: forchetta. Burruni: precipizio. Busciareddra: spiga leggerissima che cresce in mezzo al grano; di persona che trema di paura. Busi: verghette di rame per confezionare calze o una particolare pasta fatta in casa. Buttiari: pulsare spasmodico del sangue in una vena. Buttunera: sistemazione ordinata dei bottoni nei pantaloni. C Cabbasisi: testicoli. Cabibbu: strabico. Càcaciu: sabbia di tufo. Cacalupu: località fantasiosa e poco distante. Cacamarruggiu: basso di statura e con pretese di comando. Cacareddra: diarrea. Caccamella: noccioline americane. Caccariari: verso trionfante della gallina dopo aver prodotto l’uovo. Caiuni: pigro; scansafatiche; assenteista. Calunia: pretesto giustificativo. Cama: fango, come di persona priva di credito morale. Campiari: barcamenarsi.


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Camurriusu: intrigante e prepotente. Cannilicchia: piccola candela. Cantarata: sterco; azione sbagliata. Càntaru: recipiente di argilla utilizzato in famiglia per smaltire i rifiuti del corpo; può indicare una persona spregevole. Capuzzuni: tuffo a testa in giù nell’acqua della piscina o nel mare. Caravigghiaru: commerciante che vende a prezzi alti. Carcarazza: gazza, oppure donna priva di grazia. Cardacìa: brama, desiderio sessuale esasperato. Carrapipari: abitanti delle zone interne della Sicilia. Carruseddru: salvadanaio. Carùttulu: tombino. Casarìa: vaso che contiene fiori e piante (rasta). Cascavaddraru: individuo che pronuncia tante promesse ed è già pronto a disattenderle. Cascittuni: delatore. Catapràsimu: cataplasma ovvero persona lenta, inutile e dannosa. Catasta: discarica di rifiuti. Catraiu: scaricatore di porto. Di persona rozza. Cattiva: vedova. Cattùbulu: scarafaggio. Càvuciu: calcio; pedata. Cazzicatùmmila: capriola. Cazzuliari: rimproverare aspramente. Centesimaru: spilorcio. Checcu: balbuziente. Chiacchiarari: discorrere intorno a futili argomenti. Chiaia: ferita; piaga. Chianca: trave ma anche antica macelleria. Chiattiari: presa in giro, dileggio. Chiesaranni: cattedrale.


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Chirca: tonsura di religioso. Ciacculiari: andare a caccia notturna di uccelli o pesci con una fonte luminosa, oppure di donne (o uomini). Ciancianusa: donna appariscente, bardata come una cavalla con tanti campanelli (cianciane). Ciappeddra: pezzo di mattone nei giochi dei ragazzi. Ciaraveddru: piccola capra. Ciatatina: affanno. Ciariari: annusare. Ciolla: vezzeggiativo dell’organo genitale del bambino. Còccanu: modulazione del tono della voce di chi parla a lungo in maniera stentorea. Cocciu: frammento di terracotta; dare ascolto a qualcuno. Coddra: colla. Conzu: palangrese, ossia lunga lenza plurima per la pesca pregiata lungo la costa. Corcu: uncino. Cucchiulicchia: persona rattrappita e di altezza ridotta rispetto agli anni della maturità. Cufulalari: intrigare, fare ambasciate imbarazzanti e contrattare affari oscuri o disdicevoli. Cufuliari: sussurrare maldicenze al femminile. Cufuneddru: scaldino, altrimenti detto mariteddru. Cugghiuneddru: prendere in giro. Culammoddru:pescatore. Culummina: donna intrigante. Cumèrdia: aquilone. Cummattusu: persona o discorsi bizantini e capziosi. Cuncumeddru: riunione di persone che congiurano contro altri. Cunortu: conforto. Cùnsulu: pranzo funebre predisposto da vicini di casa per rifocillare i parenti del defunto resi inappetenti dal dolore. Cuppulittuni: persona insignificante.


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Cuppuluni: cuffietta per neonati. Curri-currennu: in fretta, velocemente. Cusciuta: donna poco casalinga che affatica le gambe passeggiando per le vie della città. Cussaluti: auguri per ottenere una mancia dal cliente di una bottega. Cuttunina: coperta imbottita di bambagia. Cuzzuluni: taglio di capelli a pelo radente. D Disangatu: senza sangue nelle vene, ingrato. Fazzittuni: scialle. Fialeddru: uomo velocissimo, come un razzo. Fiddrèccula: folaga. Fillata: mortadella, salame affettato. Filusa: introverso, suscettibile. Fimmineddra: omosessuale. Fratta: erbaccia. Fuciuni: sgorgo d’acqua impetuoso. Funciata: picchiare sul viso altrui. Funnutu: profondo. Furrìu: far girare a vuoto qualcuno. Futticumpagnu: tradire la fiducia di parenti o amici. G Gangarusu: cavilloso. Giniusu: simpatico. Graniari: oculato nelle spese.


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I Immu: gobba. Immurutu: che porta la gobba. Ìnchiri: riempire. Iritalaru: che raggira il prossimo. Iscari: mettere l’esca nell’amo. Iuriscu: lumacone. L Laccagnuni: scansafatiche. Lanzata: persona stomachevole. Làusu: ricevere apprezzamento. Lavanna: clistere. Lena: fiato, forza, voglia. Licchettu-licchettu: spedito, lesto. Liffia: pellicola della cipolla, ma anche sottilissima fetta. Lisineddra: introdursi sottilmente nella discussione, come la lesina del calzolaio. M Malacunnutta: malavitoso. Malafiurista: non affidabile. Mammaranni: nonna. Mangiatura: greppia privata o pubblica. Mangìu: prurito. Marruggiu: bastone. Masculiata: fase ultima dei giochi d’artificio, simultanea e fragorosa per lancio di mortaretti. Mastriari: fare il saputello. Matacubbu: zappa.


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Matalotta: pasta condita con pomodoro pelato. Matalottu: giacca molto antiquata. Maturdu: testardo, insensibile, ostinato. Mazzafrancu: sospensione temporanea del gioco. Mercu: segno in qualche gioco particolare. Miraculusu: enfasi esagerata di chi vuole sottolineare le qualità di una persona ma anche le sue piccole ingiustificate paure. Miruddra: cervello. Mafarata: grande piatto di terracotta. Mmasatu: sbigottito. Mmeci: invece. Mmicchiuto:ragazzo precoce nei ragionamenti e nell’operare. Mmìria: invidia. Mbrogghi: imbrogli. Mmutatu: cambiato di biancheria intima. Motu: maledizione. Mpappugghiari: balbettare, confondersi nel discorso. Mpigna: faccia tosta. Mpignatu: accaparrato. Mpignusu: tenace. Mpistatu: contagiato da malattie veneree. Muccigghia: di poco valore. Muccunata: regalie date o ricevute in cambio di favoritismi. Muddrami: molluschi, pesci invertebrati. Muffutu: spione. Munaceddru: polline di frumento che diventa moscerino. Murdiatu: che poltrisce a letto. Murritusu: sempre in movimento, anche per disturbare. Murvusu: bamboccio. Mussinu: museruola. Muzzicunaru: che dà morsi. Muzzu: vendere o acquistare ad occhio, con approssimazione.


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N Narvuliari: scaricare un carro agricolo con le stanghe rivolte verso l’alto. Nanticchia: un poco. Naschiari: fiutare, respirare in modo rumoroso all’indirizzo di qualcuno, per ironia, sarcasmo o sufficienza. Ncagghiari: restare intrappolato. Ncannistreddru: disabile o piccola creatura accudita con molta attenzione. Ncarmari: aumento di febbre, di rancore, di pena. Ncasciatu: morto; nel gioco delle carte può significare fortuna. Ncazzatu: pieno di rancore. Nchianu: in uno spazio all’aperto. Nchiappari: imbrattare. Ncozzu: a testa nuda. Ncriticchiutu: cresciuto tra molti disagi. Ncucciari: accalappiare i cani; rimescolare la semola del cuscus. Ncunocchiu: concludere felicemente un affare. Ncurcchittari: agganciare gli uncinetti alle asole di certi indumenti; stringere amicizie. Ngarzati: coppie di fatto conviventi. Ngasciata: rafforzare il ragionamento. Nghiappuniari: lavorare con disordine. Nginagghia: inguine. Niari: negare. Nnirizzatu: sistemato. Nsignari: sfregiare un viso. Ntipatu: colmo. Ntracchilleri: intrigante con allegria. Ntrunatu: stordito, disperso in mille pensieri. Nuciusu: molesto. Nzanzania: diceria per seminare discordia.


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Nzèmmula: insieme. Nzuliata: raffica di vento; anche di botte, date o ricevute. Nzuppilu: a poco a poco. O Ossabinirica: forma di saluto antico, all’inizio o al termine dell’incontro. P Palimentu: luogo per pigiare l’uva con scarponi chiodati. Pampera: visiera. Pampineddra: guardare con gli occhi socchiusi, quasi per addormentarsi. Panzalenta: chiacchierone che non sa mantenere un segreto. Pappantella: gioco di ragazzi. Papparina: papavero. Papuzzana: insetto dei legumi. È riferito a bambini poco sviluppati. Parlapicca: di chi preferisce il silenzio o è comunque reticente. Partuallu: arancia. Partutu: fuori di mente. Pastigghia: castagna secca. Peri-peri: di chi sta sempre inopportunamente presente. Peritozzu: camminare con difficoltà riconoscibile. Piconia: sofferenza d’animo. Pinoria: lamento continuo su tutti e tutto. Piragna: zerbino posto davanti all’appartamento. Piricuddru: peduncolo. Piringu: divertimento. Pirricchiu: elegante nell’abbigliamento. Piruni: a piedi scalzi.


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Piscari: acciuffare. Piscialoru: orinatoio pubblico. Pisciareddra: avere fretta, come per un'urgenza fisiologica. Pista: notevole quantità di botte. Pitazzu: documento. Pizzichiddriari: pioggerellina sottile. Pizzu: denaro pagato al mafioso per supposta protezione oppure per minacce pericolose. Pizzutu: persona altera. Privativa: tabaccaio. Puddra: somiglianza. Puddricinaru: venditore di pulcini. Puisiari: recitare poesie improvvisate. Pumatusu: che si dà tante arie. Purpania: buca per piantare la barbatella della vite. Pusteddra: vaccino contro il vaiolo. Putìa: bottega. Putiggiari: barcamenarsi quando c’è il mare agitato. Putriddru: puledro. Q Quacchiarutu: tarchiato. Quagghiata: giornata afosa e senza alito di vento. Qualeddra: ginestra selvatica dal sapore acidulo. Qualeru: collera. Quaquariari: quando l’acqua bolle. Quarara: calderone. Quartiàrisi: stare vigile dinanzi ad eventuali pericoli. Quasatu: mettersi al sicuro.


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R Racanu: uragano. Rais: comandante della pesca. Rancata: unitĂ temporale di lavoro. Ranfiari: armeggiare con destrezza per rubare. Ranni: grande, largo. Rarigghia: graticola. Rascaddrusu: ruvido. Rattalora: grattugia. Resta: acerba. Reviu: cibo scipito o persona scostante. Rica: appetito. Rifardu: avaro incallito. Riminavinturi: fattucchiere. Ripisu: chi, timido, sta in soggezione. Risettu: quiete Rispusteri: linguacciuto, polemico. Risubulari: rinfrancare. Riuncatu: appassito come un ortaggio, stantio. Rizza: rete da pesca. Rugnusu: che ha la rogna; si usa anche in senso dispregiativo. Ruppu: nodo. Rurimentu: dispetto, angoscia. S Sapituri: persona informata. Satettu: piccolo salto. SĂ utu: salto. Sbagnari: cerimonia di inaugurazione; festeggiamento per qualche evento felice. Sbardatu: restare senza moneta.


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Sbarrari: versare in altro contenitore. Sbasulatu: povero in canna. Sbiddricatu: uomo con la cintura sotto l’ombelico. Sbinnari: deteriorare. Sbrazziari: nuoto a farfalla. Sbriatizzu: poco rassicurante, inelegante. Sburdiari: incedere incerto per la strada. Scacchiatu: persona con le efelidi. Scaliari: razzolare alla ricerca di qualcosa. Scanazzatu: sbandato. Scannaliari: ravveduto dopo una punizione o una contrarietà. Scannaturi: asse di legno per impastare. Scapisari: calpestare. Scapuzzari: togliere la testa al gambero. Scarculari: deprezzare. Scasari: fase della preparazione del pane. Scascittari: propalare notizie riservate. Scattìu: vampata di caldo provocata dal sole a picco. Schettaranni: zitella. Scialanca: avere fame arretrata. Sciamari: avere ardente desiderio. Sciaramùcia: lucertola. Sciarria: rissa. Sciarrienti: litigioso. Scichiddri: semi privi di valori nutritivi. Scìddricu: risata incontenibile; avere la diarrea. Sciddricaloru: scivolo. Sciurbari: togliere le erbacce dalla vite. Scògnitu: sconosciuto o appartato. Schiticchiu: tavolata tra amici. Schittu: cibo senza condimento. Scuppatura: arrivo improvviso di persona non invitata alla festa. Sdilliquiu: perdere i sensi.


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Senia: noria. Sgàmmaru: storpio. Sgangalatu: sdentato. Sgangari: spezzare parzialmente un oggetto. Sghiddrari: sfuggire come un’anguilla dalle mani. Sichinenza: cosa da poco. Smangia: scherno. Smannu: disoccupato. Spicciaturi: pettine. Spillacchiu: giovane benestante. Siloccu: filo sottile. Spincia: frittella di pasta. Spirugghiàrisi: sbrigarsi. Spunnata: sfondata. Spusi: monete di piccolo valore. Squacchiatu: persona viziata e sdegnosa. Squagghieri: chi sperpera i propri averi. Squaratu: senza condimento. Squartariari: squartare, lacerare. Stinnicchiu: essere preda a convulsioni. Strazzasali: mangiare senza gusto, in fretta. Stròlacu: che non connette più. Strùmmula: trottola. T Tacimaci: parlare in confidenza. Tantuni: camminare con prudenza. Tappina: ciabatta Tappinara: scostumata. Tataranni: nonno. Tavuliddra: banchetto rustico per festicciole gastronomiche. Tiatrista: commediante.


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Tignusu: calvo. Timpagnolu: parte di un concio di tufo. Tinturìa: cattiveria. Tiragna: bretella. Tiratàppiti: parapiglia, baccano assordante. Trabugghiu: confusione, panico. Tramazzatu: frastornato. Tronu: tuono. Trubberi: tovaglia da tavola. Trubbuliatu: turbato. Truscia: fardello di panni o altro. Tubuluni: antica moneta che corrispondeva a due soldi. Tuffu: residuo di caffè e dei suoi surrogati. Tuffuni: persona inetta e vile. Turilla: trambusto. U Ungiata: tirata di fumo da tabacco. Ùmmira: ombra. Urfu: golfo del litorale. Urmu: nel gioco del tocco è colui che resta senza bere. Usci-usci: istigazione alla rissa. Uttaru: bottaio. V Vàddrara: ernia dei testicoli. Valenti: tagliente, affilato; solerte ed abile. Vampugghi: trucioli di legno. Vardaru: bastaio, sellaio Varvarozzu: mento. Vasuneddru: bacetto.


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Vavaciu: spavento. Vèrtuli: bisacce; si dice delle donne col seno vistoso. Vintannaru: affitto di un terreno agricolo per la durata di 20 anni. Viria: piccola verga. Vuccaranni: incapace di mantenere una confidenza. Vuciazzaru: chiassoso. Vureddra: budella. Vùvitu: gomito. Z Zabbina: latte quagliato per la produzione del formaggio. Zacquariari: agitare un liquido all’interno di un recipiente. Zammariari: risciacquare il bucato. Zaurdu: zotico, rustico. Zicchiari: scegliere nel mucchio le cose migliori. Zìddruli: escrementi di topi, capre, conigli. Ziffata: soffio di vento attraverso una fessura; spiata. Zzuccu: alberello della vite.


168 Istituto Euro Arabo di Studi Superiori di Mazara del Vallo. Via Antonino Castiglione 61/B – 91026 – Mazara del Vallo (TP) Tf: 0923-908421; 091-961661; fax: 0923-908421 www.istitutoeuroarabo.it; e-mail: iea@istitutoeuroarabo.it

Volumi pubblicati: 1. – F. Gabrieli, Ibn Hamdìs, 2000 Ristampa del saggio dell’illustre arabista Francesco Gabrieli (1904-96) su Ibn Hamdìs (Siracusa 1053-1133), il più famoso poeta arabo siciliano. Prefazione di A. Borruso dell’Università di Palermo. 2. – M. Cipolla, Storia della Matematica, 2001 Ristampa del ciclo di conferenze tenute dall’insigne matematico Michele Cipolla (1880-1947) dell’Ateneo palermitano presso la Biblioteca filosofica di Palermo nel 1933. Prefazione di U. Bottazzini e P. Nastasi dell’Università di Palermo. 3. – F. Napoli, Diario 1943-44, 2002. Tratto da uno zibaldone manoscritto conservato presso la Biblioteca Comunale di Mazara, descrive gli avvenimenti e lo stato di vita a Mazara negli anni 1943-44, uno dei periodi più drammatici e dolorosi della storia recente della città. Introduzione di S. Costanza. 4. – F. Napoli, Folklore di Mazara, 2003. Ristampa del saggio pubblicato dallo studioso mazarese nel 1934. Vi sono illustrati usi, credenze, feste locali e tradizioni popolari. Introduzione di A. Cusumano. 5. – F. Bascone, Le Scuole Serali di Mazara, 2003. A cento anni esatti dalla sua pubblicazione (1903), ristampa di un saggio che, in forma di appassionato pamphlet e con accenti di desolante attualità, ci invita a riflettere sulla funzione eminentemente sociale della scuola. Nota introduttiva di G. Inzerillo. 6. – M. Ghachem, Nouba, poesie, 2004. Raccolta di poesie, per la prima volta tradotte in italiano, di uno tra i più noti autori contemporanei della letteratura arabo-francofona. Traduzione e cura di S. Mugno. Introduzione di G. Toso Rodinis.


169 7. – O. Napoli, Poesie scelte, 2005. Antologia del poeta mazarese che ha avuto un ruolo di primo piano nella storia letteraria del Novecento. Introduzione di L. Greco. Contributi di M. Bettini e S. Mugno. 8. – S. Nicastro, Episodi, tendenze e figure della storia del Risorgimento, 2006. Studio sulle origini del Risorgimento italiano. La vicenda risorgimentale appare come il naturale epilogo del lungo e contraddittorio processo di formazione di quel sentimento nazionale senza il quale né l’indipendenza dallo straniero, né la creazione del nuovo Stato unitario avrebbero trovato concreta attuazione. A cura di S. Costanza e R. Lentini. 9. – A. M. Ripellino, Oltreslavia. Scritti italiani e ispanici (1941-1976), 2007. Antonio Pane, uno dei più attenti studiosi dell’universo letterario ripelliniano, ha curato una preziosa antologia di scritti rari del grande intellettuale, siciliano di nascita e mitteleuropeo per cultura. Nell’introduzione, Antonino Cusumano firma un ritratto inedito di Ripellino a Mazara. 10. – G. Inzerillo, Nino Sammartano. Un pezzo di diavolone olivastro, 2008. Attento profilo storico-critico di un insigne intellettuale del Novecento: letterato e pedagogista, uomo politico e animatore culturale. In appendice una significativa antologia dei suoi scritti. Nota dell’ambasciatore Bruno Bottai. 11. – R. Castelli Dell’immaginario popolare. Scritti vari (1882-1906), 2010. Ampia rassegna di miti, preghiere, modi di dire, giochi, leggende e altri documenti di cultura popolare, raccolti dal folklorista mazarese alla fine dell’Ottocento. Nota introduttiva di Antonino Cusumano. 12. – Antichi vuci, canti, nenie e memorie mazaresi di mare e di terra, a cura di Antonino Gancitano, 2011. Canti dedicati al mare, alla terra, all’amore; nati presso pescatori e contadini, sono stati pazientemente raccolti, nel tempo, dal curatore. Nota introduttiva di Mario Cajazzo. 13. – Eva Carlestål, La famiglia. Un’indagine su una comunità di pesca in Sicilia, 2012. Notevole ricerca d’antropologia sociale condotta dalla studiosa svedese nall’ambito della comunità di pescatori di Mazara. Nota introduttiva di Gabriella D’Agostino. 14. – Lorenzo Inzerillo, Una città di polvere e gelsomini. Le Mazarisate, 2013.


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La presente edizione si compone di mille esemplari numerati

Esemplare n ……………..


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Finito di stampare ottobre 2013


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