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Giuseppe Inzerillo
Nino Sammartano Un pezzo di diavolone olivastro
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Š 2008 Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, Mazara del Vallo. Giuseppe Inzerillo, Nino Sammartano. Un pezzo di diavolone olivastro.
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Il fascismo non soltanto colpa degli italiani peggiori ma errore dei migliori; e l’antifascismo non esattamente il contrario del fascismo Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia
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INDICE
Nota dell’ambasciatore Bruno Bottai Album Sammartano Ricostruzione di un carattere. Né redento né nostalgico nell’Italia repubblicana Le seduzioni della guerra risorgimentale Un pezzo di diavolone olivastro Dalla Sicilia alla Nazione Riforma Gentile e interpretazione di Sammartano Elaborazione della Carta della scuola La Sicilia ricercata di Giuseppe Pitrè e la piccola Patria di Salò Società Editrice Siciliana e la svolta pedagogica Genesi e tempi dell’educazione stradale Ritorno ai classici: il ruolo del teatro antico Interventi sommessi e polemiche rispettose Il bel Gorgorosso di Mazara: Sammartano pellegrino torna a casa Indicazioni bibliografiche Documenti: cultura Documenti: politica Documenti: scuola
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Introduzione Nino Sammartano è un personaggio originale che solo la Sicilia e la temperie culturale dell’inizio del Novecento potevano forgiare. Ancora studente il 24 maggio 1915, al momento dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, aveva partecipato con entusiasmo giovanile all’ondata interventista, che si proponeva di completare il Risorgimento combattendo per Trento e Trieste, in contrasto con la prudenza e le rettifiche territoriali che l’Austria sembrava disposta a concedere a Giolitti. Viene ben presto richiamato. Il servizio militare, l’invio al fronte (gli sarà conferita una Croce di guerra) se possibile accrescono il suo fervore patriottico. Ha il senso esaltante di trovarsi, insieme a tanti giovani, al centro di una grande impresa comune di risveglio nazionale. Finita la guerra, prima completa saggiamente gli studi e poi fonda a Palermo una rivista di critica d’arte, nella quale sostiene la linea di rinnovamento che sta diventando quella di Mussolini e del fascismo. Questa la sua vivace ideologia. Ma a molti decenni di distanza, ciò che oggi ci appare esemplare è il suo successivo lavoro per la Scuola, la sua dedizione all’insegnamento, nei decenni della maturità. Le dispute ideologiche, gli accanimenti politici non devono sovrastare e confondere il serio impegno di lavoro che ogni generazione ha il dovere di portare avanti, in una continuità che costituisce una grande speranza. Questa è la lezione molto attuale che possiamo trarre dalla vicenda umana di Sammartano.
aprile 2008
Ambasciatore Bruno BOTTAI
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Album Sammartano
Ritratto giovanile
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Pescara. Adunata di fascisti negli anni ’30 (Nino Sammartano è al centro della foto)
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Siracusa 1962. Nino Sammartano (a sinistra) accompagna l’on.le Amintore Fanfani, presidente del Consiglio dei Ministri, in visita al teatro Greco
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Siracusa 1964. Nino Sammartano (a centro) insieme al Presidente della Repubblica on.le Antonio Segni in visita a Siracusa in occasione dell’inaugurazione del XVIII ciclo delle rappresentazioni
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Venezia 1944. Il ministro della cultura popolare Mezzasoma insieme ai piĂš alti funzionari del Ministero in occasione del giuramento di fedeltĂ alla Repubblica Sociale Italiana. A destra si nota il direttore generale Nino Sammartano
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Riproduzione della lettera di lode sincera indirizzata da Cividale del Friuli, in data 13 novembre 19, dal generale del XXII Corpo d’Armata Emilio De Bono – il futuro quadrumviro del fascismo – per una “bella commemorazione” meritevole di essere distribuita a tutti i corpi militari, svolta da Nino Sammartano un anno dopo la conclusione della prima guerra mondiale
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Ricostruzione di un carattere. Né redento né nostalgico nell’Italia repubblicana Quando nella seconda metà dell’Ottocento il grande storico tedesco Ferdinand Gregorovius traccia il ritratto di Lucrezia Borgia, personaggio com’è noto assai controverso nella rappresentazione storiografica di ieri e di oggi e nella produzione artistica (teatrale e cinematografica), non esita a sottolineare, invero con qualche venatura ironica e molta saggezza intellettuale, le soverchie difficoltà che si frappongono ad una compiuta ed onesta realizzazione di una persuasiva descrizione. Gli uomini del passato – egli scrive – non sono altro che problemi per chi giudica su di loro. Se già nell’opinione che ci facciamo dei contemporanei a noi noti commettiamo gravissimi errori, tanto più siamo esposti all’errore non appena ci figuriamo la natura di uomini che ci stanno davanti ormai solo come ombre. Tutte le condizioni della loro vita personale, l’intero intreccio di natura, tempo e circostanze da cui si sono formati, e i segreti più intimi del loro essere si trovano davanti a noi come una serie frammentaria di dati di fatto, partendo dai quali noi dobbiamo ricostruire un carattere. Se ci si affida alla legge della casualità, la storia è il tribunale del mondo: ma la storiografia stessa spesso è solamente il tribunale che meno di ogni altro sa. Molti caratteri storici dichiarerebbero una distorsione il ritratto fattone dai libri e riderebbero del giudizio su di loro formulato.1 1
Ferdinand Gregorovius, Lucrezia Borgia, Firenze, Le Monnier, 1874, p. 338. Nello stesso anno il libro venne pubblicato anche a Stoccarda.
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È questa una pagina pertinente e illuminante per chi tenta di ricostruire il “carattere” di Nino Sammartano con la necessaria onestà intellettuale, tanto più che si è in presenza di una personalità ricca e complessa formatasi nelle temperie drammatiche delle due guerre mondiali di un Novecento attraversato dalle crisi dei regimi liberali e dai sinistri effetti di opposte trionfanti ideologie totalitarie, in Italia come in Europa. Perciò, senza tenere conto dell’intreccio complesso di natura, tempo e circostanze – che a quel carattere diedero origine, continuità e discontinuità nel corso di una vicenda umana molto distesa negli anni (era nato a Mazara del Vallo il 17 gennaio 1897, dove concluse la sua esistenza il 30 luglio 1986) – sarebbe davvero impossibile restituire a Sammartano tutta la ricchezza delle sue diverse sfaccettature umane ed intellettuali (letterarie, politiche, religiose, affettive, patriottiche e pedagogiche). Non è però irrilevante osservare che una onesta quanto completa ricostruzione di una biografia intellettuale, né settaria né agiografica, appare spesso compromessa dai prolungati silenzi dello stesso protagonista su momenti significativi del suo lungo e tormentato itinerario esistenziale. Né agevola il compito di un biografo volenteroso la lunga e alquanto tardiva adesione del Sammartano ad un complesso movimento politico – la galassia fascista – che al suo interno conteneva, sin dalle origini, diverse linee ideologiche e politiche, «una serie di elementi eterogenei» (l’espressione è del Palmiro Togliatti delle Lezioni sul fascismo) che non formavano una cultura originale, al di là di una straordinaria capacità di “selezionare”, reintegrare, utilizzare ai propri fini la tradizionale cultura dell’Italia liberale.2 In altri termini, in quel magma culturale, che fascista riteneva di essere Sammartano? E che fascista in realtà 2
Luisa Mangoni, La cultura e il fascismo, “Notizie C. P. P. L.”, n. 4, Bologna, 1975.
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fu? Si può oggi pensare che egli, come tanti giovani, ritenesse di trovare nel fascismo – come si ricorderà definito subito da Piero Gobetti “autobiografia della Nazione” – una sorta di utopia rigeneratrice da contrapporre alle degenerazioni della democrazia parlamentare, corrotta e parolaia; un guazzabuglio all’interno del quale potevano vivere e convivere dialetticamente molte alterità culturali, dall’idealismo autoritario al totalitarismo limitato, imperfetto ed incompiuto. Ognuno perciò poteva ritagliarsi un suo spazio personale, tra suggestioni della Roma imperiale e nostalgie delle Signorie rinascimentali, tra futurismo e ritorno all’ordine, tra Premio Bergamo e Premio Cremona,3 tra liberismo ed intervento pubblico nell’economia. E Sammartano, dopo un’alquanto oscura iniziale esitazione, incomincia allora ad immaginarsi un “suo” fascismo, talvolta critico e tal’altra legato ad un vero e proprio culto della personalità del Duce. C’era infatti in lui, e per lungo tempo, la convinzione profonda che non le leggi inesorabili del materialismo dialettico scrivono la Storia, e nemmeno le grandi masse, ma soprattutto la scrivono le grandi personalità, quasi uscite dalla penombra perché spinte dalla necessità e dalle circostanze e che riescono a trasformare le circostanze nel destino fatale di una Nazione. Benito Mussolini appunto era la grande personalità a lungo attesa, forse addirittura il Veltro dantesco come si favoleggerà successivamente, che anche Sammartano con impazienza giovanile attendeva e con piena convinzione sosterrà negli anni della maturazione culturale. Restano tuttavia molti punti non chiariti nell’impervio itinerario biografico di Sammartano perché egli, negli anni più fecondi 3
Il premio di pittura Bergamo, istituito dal Ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, nasce in difesa dell’arte moderna con espliciti intenti di contrapposizione al premio Cremona, patrocinato da Roberto Farinacci e Ugo Ojetti, e ispirato da una immarcescibile e celebrativa estetica fascista (il premio Bergamo premiò artisti come De Pisis, Mafai e Guttuso).
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di scritti del secondo dopoguerra, non fece ricorso a quella letteratura memorialistica che forse avrebbe aiutato a capire il “suo” fascismo, le lacerazioni dell’anima sua nel giudicare quel movimento politico e nel giudicarsi senza reticenze in esso, anche in quella fase del disperato dissolvimento finale all’interno dell’effimera e tragica avventura della Repubblica Sociale Italiana. È risaputo ampiamente che nell’immediato dopoguerra degli anni ’40 era estremamente difficile parlare e dire la propria verità senza correre il rischio dell’emarginazione e dell’ostracismo; ma più tardi, quando la furia vendicativa si era lentamente affievolita, qualche pagina – almeno sul biennio 1943-1945 – poteva essere consegnata alla riflessione critica delle nuove generazioni, magari come alternativa a quella meschina letteratura diseducativa prodotta da tanti intellettuali ansiosi di cancellare le tracce del precedente fascismo con scritti reticenti, falsi e insinceri.4 Costoro invero, immersi nella voluttà della cortigianeria, con lo stesso fervore di quando marciavano in camicia nera, continuarono a scrivere sotto la protezione di chi ora godeva di straordinari poteri battesimali di riabilitazione, proprio come quando ai giovani nobili alquanto turbolenti e scapestrati antichi ordini religiosi restituivano, a certe condizioni, per colpe presunte o reali, una sorta di immunità. Sammartano invece si rifiutò di far parte di queste confraternite e si limitò di tanto in tanto, in alcuni sparsi frammenti, a fornire vaghi personali accenni fuori contesto delle sue esperienze durante il periodo fascista. A questo punto sembra opportuno chiarire, per evitare fraintendimenti a proposito dei “redenti”, che qui non è in discussione 4
Per un ricco repertorio di intellettuali reticenti si consultino i libri di Pierluigi Battista (Cancellare le tracce, Milano, Rizzoli, 2007) e di Mirella Serri (I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005).
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la legittimità civile, morale e storica della modifica del proprio pensiero e dei propri convincimenti politici, che un’opinione pubblica primitiva e sterilmente immobilista ritiene addirittura atto riprovevole mentre la Storia scorre incessantemente modificando parametri ideologici e punti di riferimento culturali. Qui si vuol fare riferimento a quella foltissima schiera di intellettuali che, come ebbe a scrivere Concetto Marchesi,5 si tuffarono nella piscina miracolosa dell’antifascismo per uscirne purificati; perseguirono un’abile prolungata strategia di occultamento del passato dedicandosi alla scrittura autoreferenziale della propria esperienza sotto il fascismo e si inventarono, al di là di ogni ragionevole rappresentazione, persino oasi di libertà, zone franche, vivai e rifugi antifascisti nella stampa, nell’editoria, nel cinema, nella vita scolastica ed universitaria. Oppure, senza pudore, fecero ricorso, quando finalmente più tardi scoperti, alla speciosa distinzione tra dimensione pubblica segnata dall’ortodossia e un foro interiore spiritualmente in opposizione (il nicomedismo assunto come vessillo difensivo).6 Alcuni di questi maestri del costume democratico poi, nel descrivere ora dall’alto delle cattedre morali ambiguamente conquistate, non esitarono a fare ricorso alla manipolazione delle date e ai ritocchi cronologici; a sostenere di avere scritto sotto il fascismo ad inchiostro simpatico per giustificare ogni forma di libidine di servilismo; a dichiarare ex post che la lezione dissimulatrice era il lascito dell’insegnamento secolare di Torquato Accetta sulla dissimulazione onesta; a utilizzare maldestramente un’espressione di Cartesio (“larvatus prodeo”) per significare che si era costretti a procedere masche5
Intervista al quotidiano comunista “L’Unità” del 13 dicembre1944. Il nicomedismo è una forma di dissimulazione ragionata che consiste nella giustificazione dottrinale della prassi di quanti, come il fariseo Nicodemo che andava da Gesù di notte temendo di essere riconosciuto, aspettano la cessazione del timore del martirio.
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rati; a nascondere l’offerta di oboli encomiastici spontanei al regime, dietro il velo di una incredibile – la definizione è di Nino Borsellino, valoroso critico letterario – “dissidenza preterintenzionale”; a diventare camaleonti senza pudore che cambiano colore e pelle oppure salamandre pavide ed insincere che si acquattano per attraversare indenni il momento del pericolo. In questo osceno, estenuato balletto di simulazione e dissimulazione gravemente diseducativo per la Nazione sotto il profilo civile, pochissimi ebbero il coraggio di ammettere, come fece subito Federico Chabod (“primis peccavi”), che c’era stata una evidente compromissione della cultura italiana nei suoi rapporti col fascismo (ma vissero veramente due volte, come ritiene Mirella Serri, oppure una sola volta e sempre sotto la medesima malia totalitaria?).7 Probabilmente ha ragione un altro “redento”, lo storico Cantimori, quando invita tutti ad una lettura non stereotipata del fenomeno fascista: «Non si può parlare storicamente, cioè criticamente, di “fascismo” come se il fascismo fosse stato una specie di balena che tutto inghiottì indiscriminatamente, o che tutto portò satanicamente alla perdizione, come Moby Dick, ma occorre discernere la varietà di correnti, movimenti, tendenze, persone, interessi economici e finanziari ecc. ecc., e anche illusioni, fantasie, incoscienze, ecc. ecc. che permisero a Mussolini e ai suoi di conquistare in quel tal modo il potere, di tenerlo, di conservarlo».8 In questo immenso confessionale laico, dove trovò posto anche una memorialistica orgogliosamente protesa a dimostrare le varie ragioni della militanza in camicia nera, non si registra la voce di Sammartano, che volle vivere preferibilmente le nuove 7
Cfr. Paolo Mieli, Le storie, la storia, Milano, Rizzoli, 1999, p. 312, «Togliatti si preoccupò, con successo, di fare del PCI un partito con poteri battesimali e, diciamo così, di riabilitazione». 8 Delio Cantimori, Conversando di storia, Bari, Laterza, 1967, pp. 137-139.
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ed antiche esperienze pedagogiche e culturali,9 rifiutando atteggiamenti nostalgici ed evitando di scivolare senza angosce dal fascismo all’antifascismo.10 Con i suoi silenzi purtroppo ha impedito una comprensione più completa e significativa di un’avventura intellettuale straordinaria, sia pure all’interno di un’illusione tramontata con foschi bagliori nella primavera del 1945.
Le seduzioni della guerra risorgimentale Frequentava ancora il Liceo classico statale “Leonardo Ximenes” di Trapani (nella sua Mazara in quel periodo le scuole superiori ad indirizzo umanistico si fermavano al livello di licenza ginnasiale) quando venne sedotto dal richiamo della Patria entrata in guerra contro l’Austria e la Germania nel maggio del 1915. Del resto, non a caso, aveva iniziato il suo apprendistato lettera-
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Un’eccezione rispetto al lungo silenzio sulle questioni politiche è costituita dall’accettazione nel 1953 di una candidatura al Senato della Repubblica nelle liste del M. S. I. 10 Cfr. Sergio Romano, L’equivoco della cultura antifascista, “Nuova Storia Contemporanea”, n. 4, 2000, pp. 5-10. In questo saggio l’autore non manca di rilevare che le firme dei collaboratori di una rivista come “Primato”, fondata e diretta da Giuseppe Bottai, riapparvero pochi anni dopo sul “Politecnico”, il periodico di Elio Vittorini, fiancheggiatore della politica culturale del PCI sino alla “scomunica” togliattiana. Questa trasmigrazione di firme costituì un passaggio naturale che, oltretutto, era garanzia d’impunità, «la certezza che negli archivi nessuno a sinistra avrebbe ricercato le prove delle loro collusioni e complicità». In fondo, «erano piaciuti all’Italia fascista, sarebbero piaciuti all’Italia antifascista».
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rio e politico dirigendo una rivistina interventista, “Fiammata”,11 la prima di tante altre pubblicazioni che avrà modo di proporre o di realizzare nel corso di tanti decenni di intenso fervore creativo ed organizzativo.12 Dirà molti anni dopo, in occasione di una pubblica cerimonia:13 «…i miei primi ricordi trapanesi rimontano al 1915 quando, sui banchi del vostro glorioso Liceo “Ximenes”, ascoltammo in un radioso mattino di maggio, per bocca di un vecchio professore garibaldino, il professore Cappellani, il messaggio che, dallo scoglio di Quarto, Gabriele D’Annunzio lanciava agli Italiani e annunciava quasi l’imminente partecipazione dell’Italia alla prima grande guerra mondiale…». «E non passarono che pochi mesi che anche noi, ancora imberbi lasciammo i banchi della scuola e, a nostra volta, partimmo per la guerra ove, come ci avevano ammonito, facemmo tutto il nostro dovere». Parole ancora commosse rivolte ad un compiaciuto pubblico trapanese e che del resto erano in perfetta sintonia storica e psi11
Cfr. Antonino Cusumano, Da “Il giardino letterario” ad “Astarotte”. La stampa periodica locale, in Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, a cura di A. Cusumano e R. Lentini, Palermo, Sigma, 2004, pp. 163-185. Sul numero 27 del 1° luglio 1955 di Sicilia-Roma, settimanale indipendente dei siciliani, la Fiammata è definita goliardica, poetica, letteraria, interventista. 12 Nel Liceo “Leonardo Ximenes” di Trapani Sammartano ebbe a maestro, tra gli altri, un fervente socialista, Mariano Costa, discepolo del Pascoli, uomo di gusto, parlamentare e primo membro trapanese della Direzione Nazionale del suo Partito. In una pagina del secondo dopoguerra (Un equivoco. Libertà nella scuola e della scuola, “Nuova Rivista Pedagogica”, a. I, n. 3, novembre 1951, estratto, p. 4) egli ricorda, con ammirazione tuttavia spericolata nei confronti degli alunni a rischio di plagio, che quel maestro «in ogni lezione, facesse storia o italiano o latino o geografia, non mancava mai di ridurre tutto al principio suo, che era quello socialista». 13 Cerimonia di consegna del “Mulino d’oro” per il 1969 al Sammartano da parte del Lions club di Trapani (rivista “Trapani”, a. XV, maggio 1970, p. 27).
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cologica con quanto pochi anni prima, e con non inferiore commozione, aveva affermato in occasione della celebrazione del centenario del Ginnasio statale “Gian Giacomo Adria” di Mazara:14 «Il nostro vecchio e glorioso Ginnasio e i vecchi maestri che ci educarono e ci accostarono non solo allo studio delle lettere – egli disse – ma soprattutto – quel che più conta – ai superiori valori morali della vita, insegnandoci con la parola e con l’esempio ad amare la Patria e la famiglia, la religione e le istituzioni ed essi che, quando scoccò l’ora fatale della Patria, che ci colse tutti sui banchi della scuola, ci additarono la via che noi dovevamo percorrere per la salvezza, la grandezza e, come allora si diceva, per l’onore dell’Italia». Parole che risuonano oggi retoriche e alquanto deprivate da tanti più complessi ed articolati motivi economici, politici, culturali e religiosi che spiegano più compiutamente i motivi dell’entrata in guerra dell’Italia e che tuttavia nulla tolgono alla purezza del sentimento patriottico di un giovane che va incontro al pericolo nel nome di un ideale da affermare e sostenere tra tante coscienze sonnacchiose, proprio mentre una condotta quotidiana alquanto meschina produce noia, ribellione e favorisce l’esplosione degli umori della cosiddetta antipolitica fra i giovani. Nessuno comunque può escludere che l’anima giovanissima di Sammartano fosse allora infiammata anche dalle risonanze delle pagine patriottiche di una singolare pubblicazione, “Il giornalino della domenica” diretto da Luigi Bertelli (Vamba), che, attraverso gli scritti di Grazia Deledda, Luigi Capuana, Salvatore Di Giacomo e le splendide tavole disegnate da grandi illustratori, teneva accesi gli ideali e lo spirito del Risorgimento contribuendo a svolgere un’efficace opera educati-
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I cento anni del “Gian Giacomo Adria” (1863-1963), Trapani, 1963 (curiosamente non compare il nome di Sammartano nel lungo elenco degli ex allievi del Ginnasio riportato nel volume).
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va nella direzione della formazione civile della classe dirigente italiana.15 È ben vero che durante gli anni dell’egemonia fascista Sammartano aveva fatto ricorso ad un vocabolario più risoluto e maschio, forse anche per rivendicare una primogenitura combattentistica nell’“invenzione” e nell’affermazione del suo movimento antidemocratico. «Senza la guerra e la Rivoluzione – egli scrive – la vita italiana si sarebbe accasciata, estenuandosi in un bizantinismo senza ideali e sarebbe deviata verso concezioni fuori della nostra sensibilità e civiltà. La guerra è il limbo che molti sentono di non poter attraversare; al di là c’è l’aria quieta e morta, al di qua c’è una generazione in tumulto, che chiede, che freme, che ha trovato o meglio cerca un mondo suo e nuovo. La guerra è un dono fatale dato agli uomini per trionfare o per cadere, per affermare e subire un diritto o una civiltà». Perciò – aggiunge – «accettammo la guerra quasi istintivamente: sentimmo allora improvvisamente, lo comprendemmo più tardi, che c’era nelle nostre scuole, nella nostra cultura, nella nostra vita qualcosa che non era nostro. […] e abbracciammo la guerra perché sentimmo, forse confusamente, che la guerra ci avrebbe liberato di quel mondo che era in noi ma che non era nostro».16 C’è in queste parole non soltanto la lucida consapevolezza di una scelta decisiva per un nuovo assetto politico dell’Italia, ma soprattutto la rivendicazione orgogliosa di un gesto romantico capace di mettere tutto in discussione mentre perduravano le degenerazioni del costume democratico ormai estraneo ai valori ri15
Nel 1911 la rivista aveva cessato temporaneamente le pubblicazioni ma è da presumere che la diffusione dei valori dei Padri della Patria continuasse ad esercitare un’influenza tra i ragazzi che frequentavano le aule scolastiche. 16 Nino Sammartano, La funzione della scuola media in Italia dalla Marcia su Roma, Roma, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Serie quinta III-IV, 1935, p. 17.
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sorgimentali. Sotto questo profilo è proprio compito di chi scrive di Storia, come insegna ancora il De Felice,17 studiare e capire gli stessi aspetti assurdi del fascismo «senza negare a priori la buona fede e l’impegno di chi ne fu partecipe», rifiutando persistenti interpretazioni che nulla hanno di scientifico e soggiacciono invece a strumentali non disinteressate impostazioni ideologico-politiche. A determinare il giovanile entusiasmo interventista non si può escludere il ruolo degli scritti di Giovanni Gentile,18 quasi un concittadino, che aveva parlato della guerra come una sorta di “dramma divino”, e nemmeno quello dettato dall’atteggiamento di persone di diverso ed anche opposto indirizzo politico (socialisti minoritari, mazziniani, nazionalisti, democratici-liberali che con accenti ed obiettivi particolari erano favorevoli all’entrata in guerra dell’Italia.19 Ma in Nino Sammartano c’era anche un motivo in più che può spiegare il suo precocissimo interventismo: la guerra a suo convincimento poteva contribuire a forgiare in linea 17
Renzo De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, Universale, 1983, introduzione, p. 22. 18 Giovanni Gentile, Guerra e fede, Napoli, Ricciardi, 1919. 19 Come tanti intellettuali sedotti dal mito della grande guerra (D’Annunzio, Slataper, Prezzolini, Alvaro, Baldini, Barzini, Cecchi, Jahier, Papini, Serra, Bacchelli, Panzini, Saba, Comisso, Soffici, Ungaretti e tanti altri), partiti con l’idea di una guerra concepita come farmaco idoneo a contrastare ad un tempo l’avanzata del pensiero socialista e la decadenza della società borghese, Sammartano verosimilmente si è trovato a scoprire la tragica realtà delle trincee e della guerra di posizione dove, per dirla proprio con il Bacchelli di Un amore in guerra (Padova, Edizioni di AR, 2007), soffiava “un vento di cimitero”. Come osserva Antonio Piromalli («Studi sul Novecento», Firenze, Leo S. Olshki Editore, 1969, introduzione p. V) «quasi tutti gli scrittori della prima metà del Novecento passano attraverso l’esperienza della guerra e con la guerra si conclude la crisi degli ideali ottocenteschi». Il testo di Piromalli si fa inoltre apprezzare per la ricchissima bibliografia sui fermenti sociali, popolari e spirituali legati alla tematica della prima guerra mondiale.
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generale una massa diseredata, analfabeta ed inerte in un popolo italiano finalmente libero, unito, cosciente, responsabile e padrone del proprio destino; liberando tra l’altro la sua Sicilia dalla «vita politica corrotta e miserabile, inceppata dal tornaconto, nelle maffie e nella disonestà».20 Erano illusioni giovanili dell’ottimismo della volontà, destinate a scontrarsi con gli atteggiamenti mediocri ed opportunistici della vita quotidiana di sempre degli italiani più meschini che popolano le diverse contrade, dal Lilibeo alle Alpi. Già quando egli incomincia la vita militare riceve la prima delusione. «Soldato da pochi giorni, dislocato in una sezione di artiglieria, comandata niente di meno che da un caporal maggiore, cialtrone e fannullone, si passava le giornate nell’ozio, tra gli sbadigli, una lettura distratta, la noia, e qualche esercizio svogliato che valesse a salvare le apparenze. Dormiva lui, il caporal maggiore, si annoiava lui, e ci annoiavamo tutti. Lui ne era contento come di un merito: ostentava questo modo di fare – punto militare – e se ne gloriava, ne gioiva, quasi volesse dirci: con me non direte che la vita militare è pesante. Ma con tutto questo noi non eravamo contenti».21 Poi, un giorno, arriva all’improvviso un sergente energico e vigile e tutto cambia e quei soldati incominciano a lavorare sul serio, con gioia quasi. Francamente c’è da dubitare di una gioia collettiva così intensa da parte di tutte le reclute e piuttosto tutto lascia immaginare una sorta di orgoglio assopito che Sammartano scopre nei suoi commilitoni, molti anni dopo, ma per ragioni di “pedagogia” di regime e di carità di Patria. Tanta è vera questa supposizione che, passata la carneficina bellica, Sammartano avrà modo di osservare amaramente: «La guerra a 20
Nino Sammartano, La Sicilia fuori dalla Rivoluzione fascista, Edizione “La Rivoluzione Fascista”, Pisa, 1924, p.15. 21 Nino Sammartano, La scuola media e il fascismo, Edizioni di “Critica Fascista”, Roma, 1930, pp. 65-66.
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costoro non ha sfiorato né il cuore né la mente. È passata come una tempesta passa sulla testa del pastore senza disperdere il gregge».22 Nonostante il gravoso impegno dettato dal servizio militare, il giovane Sammartano continua a scrivere su giornali e riviste, quasi per ritrovare nella scrittura le motivazioni profonde della sua scelta interventista e di capire anche le ragioni delle sue oscillazioni culturali. In un articolo apparso sulla “Nuova Gazzetta Letteraria” (n. 28 del 16-31 dicembre 1916) ritiene di dover assicurare la sua adesione al “presentismo”, un nuovo inizio d’arte per coloro che, rifiutando ad un tempo il futurismo più estremo e il passatismo lacrimevole, si ritrovavano senza un distintivo e un appellativo e comunque pronti ugualmente a vincere le battaglie d’inchiostro (mentre al presente, egli aggiunge con enfasi militaresca, «vinciamo quelle di fuoco»). Un Sammartano quindi pronto a nuove esperienze letterarie e tuttavia legato sentimentalmente a momenti significativi della tradizione poetica di stampo risorgimentale. Celebrando a modo suo Giosuè Carducci nel decimo anniversario della morte immagina il poeta maremmano come alfiere della guerra in atto. «La Patria lanciata ne la sua corsa d’ascensione morale e d’espansione economica, non canta forse nel ritmo dei cannoni e nel canto de le legioni i carmi dei suoi poeti? Perciò – aggiunge – la poesia carducciana è la fonte più pura, dove gli italiani tutti, di tutti i partiti, di tutte le idee dovrebbero attingere per consentire all’Italia un’espansione morale e politica».23 Si tratta evidentemente di un ancoraggio che oggi si potrebbe definire pluralista, non ancora contaminato da dommatiche concezioni totalitarie, perché egli afferma, «molto abbiamo appreso dalla guerra». Ma l’ombra del Carducci ora «vagherà dal 22
Nino Sammartano, Idee e problemi della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1932, p. 3. 23 “Lo Staccio”, n. 4 del 15 febbraio 1917.
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Campidoglio all’Aquilino24, a Bologna la dotta, a Ferrara l’epica, a l’Erice celeste». Un’ombra che canterà al mondo, certamente, Giustizia e Libertà. Passata la bufera della guerra (tra le doline del Carso e lungo le rive arrossate del Piave intanto aveva conquistato una Croce di guerra e i gradi di sottotenente di artiglieria), Sammartano sembra entrare in una specie di crisi esistenziale, a somiglianza di Rubè, il protagonista del romanzo del siciliano Antonio Borgese, deluso nel pieno della gioventù dai miti eroici della grande guerra. In quella stagione allora, per poco tempo, Sammartano ritiene più saggio ritornare agli studi scolastici bruscamente interrotti. Nel marzo del 1919 quindi supera a Palermo, presso il Regio Liceo governativo “Vittorio Emanuele II”, l’esame di alcune discipline della Licenza liceale che viene completata e conseguita nello stesso anno, nel mese di settembre, presso il Regio Liceo classico “Ludovico Ariosto” di Ferrara. In questa terza sessione egli sostiene gli esami insieme ad altri giovani ferraresi ex combattenti. Restano ancora misteriose quelle annotazioni riportate nei registri dell’istituto scolastico estense “residente a Bondeno” (un importante comune tra il Po e il Panaro distante una ventina di chilometri da Ferrara) e “proveniente da istruzione privata”. In mancanza di idonea documentazione o di significativa testimonianza orale non si comprende perché in quel 1919 Sammartano lascia Palermo per Ferrara e perché subito dopo ritorna in Sicilia. Nell’Isola fonda ben presto una rivista di critica d’arte – “La Rondine”25 – che, almeno nel primo numero, uscito nel mese di 24
Refuso per Esquilino. È abbastanza curioso osservare che nelle pagine pubblicitarie della rivista, accanto ai prodotti vinicoli ed alimentari di alcune ditte mazaresi (HoppsFavara; Giammarinaro; Catania) compare anche la ditta Giuseppe Sarti di Bondeno, “premiata fabbrica di nevole, l’unica e la migliore d’Italia”: forse un 25
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giugno del 1920 a Palermo, costituisce la spia delle delusioni e delle amarezze di una generazione dopo una lunga e feroce guerra. Con questa rivista, scrive, non si vuole «rinnovare il mondo e fargli cambiare faccia»; non sa nemmeno perché nasce, senza grandi indirizzi né tante presunzioni, senza un programma d’arte e di lotta, che non vuole abbaiare alla luna, che non ha rimedi e farmaci per le difficoltà presenti nella letteratura («Non apparteniamo né a cricche né a combriccole letterarie»), ma «presto sarà l’alba», presto sarà giorno e «ci vedremo tutti sulle facce e, vi assicuro, rideremo…». Parole, come si vede, alquanto enigmatiche e sibilline e toni in ogni caso minimalisti che riflettono netta incertezza di prospettive culturali e politiche. In contraddizione però con quanto scriverà più tardi:26 «…quando ritornammo ritrovammo il libro che avevamo lasciato aperto: quell’Arcadia sonnacchiosa non arrivava più al nostro spirito: corremmo verso altre fonti e ci piacquero i maestri di vita». E ancora: «La guerra ci aveva lanciato nel suo crogiolo da letterati e noi ne tornammo politici». E infine: «Da classe combattente divenimmo classe dirigente, da letterati politici». Riferimenti ed affermazioni, com’è facile intuire, autoreferenziali nel 1935, cioè nella fase di massimo consenso al fascismo da parte degli italiani, e che forse costituiscono una tardiva copertura a mesi di incertezze subentrate alla drammatica sconvolgente esperienza militare. È vero anche che quella misteriosa malinconia letteraria risulterà alla fine di breve durata perché appena un anno dopo, nel tardo autunno del 1921, ritroviamo Sammartano impegnato a Mazara a dare vita
retaggio della permanenza misteriosa di Sammartano nella cittadina del ferrarese in occasione degli esami conclusivi e tortuosi della Licenza liceale non ancora riformata dal Gentile. 26 Nino Sammartano, La funzione della scuola media in Italia dalla Marcia su Roma, cit., p. 18.
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alla prima sezione fascista della provincia di Trapani.27 Ne diviene subito Segretario. E forse non è inutile sottolineare che mentre Mussolini fondava il 23 marzo del 1919, in piazza S. Sepolcro a Milano, il movimento dei fasci, Sammartano a Palermo sosteneva le prime prove della Licenza liceale: una conferma indiretta di una scelta indirizzata verso gli studi e non nella direzione di un impegno politico attivo, come accadrà due anni dopo. Come che sia, ora il volo libero della rondine palermitana lascia spazio all’aquila mussoliniana che tra i primi rilievi montuosi dell’Appennino tosco-romagnolo aveva già spiccato il volo fatale verso Roma.
“Un pezzo di diavolone olivastro” Stanco quasi subito delle contraddizioni e delle inerzie del fascismo in Sicilia, Sammartano cerca nuovi approdi, in particolare un fascismo pragmatico e vitalista. L’Isola, infatti, gli appare del tutto fuori dalla Rivoluzione fascista28 e vittima del tradizionale politicantismo democratico insensibile al nuovo corso rivoluzionario nato nella Valle Padana. Osserva in proposito: «Difatti se fascismo significava antibolscevismo, la Sicilia poteva benissimo 27
Nel dicembre del 1941, ricorrendo il ventennale del fascio di Mazara, nella città pavesata a festa “come nelle giornate di gloria” scriverà il cronista del “Giornale di Sicilia”, alla presenza delle autorità dello Stato del Partito, di quelle religiose e di un imponente folla convenuta anche da altri centri della provincia, tra canti patriottici e sventolio di bandiere, Sammartano tenne il discorso celebrativo “dotto e preciso”, accolto da una “ovazione di applausi” (come compiaciuto registra l’anonimo cronista, forse l’amico avvocato Leonardo Bonanno, studioso di questioni locali). 28 Nino Sammartano, La Sicilia fuori della Rivoluzione fascista, cit.
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fare a meno di questo movimento, perché già la borghesia agraria siciliana aveva pensato a tempo opportuno a liberarsi del sorgente bolscevismo tagliando la testa alla bestia esotica, col fare uccidere gli organizzatori più appassionati e più abili come Orcel, Mormina, Alongi, ecc… Ma se fascismo voleva dire inserire il nuovo stile di politica nello stile della regione e purificarla da qualcosa di pesante ed ingombrante, allora la Sicilia aveva ed ha bisogno del movimento salutare che in Italia si chiamò e si chiama fascismo».29 Si avverte in queste parole l’amarezza di chi inaspettatamente si sente tradito proprio dalle persone vicine, mentre la sua terra sembra essere destinata in maniera irredimibile alla discordia permanente e alla corruzione invereconda delle coscienze. Perciò il movimento fascista in Sicilia sfugge alla mentalità locale e gli stessi dirigenti appaiono del tutto inidonei ad affrontare i problemi ideali e politici in tutta la loro totalità, perduti nel circolo morto di una lotta interna fratricida e meschina. Fare attenzione nella scelta dei quadri dirigenti, suggerisce, e sarà necessaria molta oculatezza giacché certi «agglomerati sociali» hanno l’accortezza di non lottare il partito dominante o governativo, «ma di accostarvisi non già per servirlo, ma per servirsene».30 Questa manifesta denuncia di incipienti degenera29
Ibidem, p. 9. Ibidem. È interessante osservare che nel mese di settembre del 1923 i contrasti tra fascisti trapanesi nell’ambito dell’azione di penetrazione della vecchia classe dirigente per continuare a dominare la vita politica ed economica siciliana portano allo scioglimento della sezione di Mazara del Vallo perché, come scrive il “Giornale di Sicilia”, in occasione della riapertura delle iscrizioni ai fasci furono presentati «a personaggi influenti di Trapani e Castelvetrano un certo numero di domande» proprio da «coloro che stavano assenti in tutte le manifestazioni patriottiche, che strappavano i nastrini tricolori e deridevano tutti gli atti di questa giovane associazione» (la notizia è riportata da Pietro Lauro in Classe dirigente, mafia e fascismo 1920-1924, Palermo, Sellerio, 1988, pp. 92, 100, 101). 30
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zioni verrà poi ribadita – è ormai nel Continente – in un articolo apparso anonimo in un periodico pisano (“L’Idea Fascista”, n. 13 del 20 maggio 1923): il fascismo siciliano «che quantunque e comunque tenti di svilupparsi sulla stessa intelaiatura del fascismo settentrionale prenderà una fisionomia tutta sua speciale». Giacché la Sicilia, rimasta nel dopoguerra fuori da una vera azione socialista, «non vedeva e non vede nel fascismo che un movimento borghese ed agrario, senza cogliere l’essenza mistica e spirituale di cui esso è impregnato, e ciò perchè la Sicilia non ha vissuto tutta la passione e tutta l’ansia fascista». Sono queste affermazioni che, al di là di certi contorsionismi lessicali e di una ingenua vaghezza ideologica, fanno pensare ad un Sammartano che rifiuta sudditanze nei confronti dei borghesi e degli agrari e che, mentre critica insufficienze e subalternità nell’azione del movimento socialista siciliano, rilancia e propone come movimento innovatore, progressista e autenticamente rivoluzionario il fascismo alla stato aurorale sviluppatosi prepotentemente e in maniera capillare nel Nord dell’Italia. È necessaria però la nascita in Sicilia di una “nuova aristocrazia”, cioè di una nuova classe dirigente, capace di traghettare i siciliani nella vita della Nazione.31 Come questa operazione politica attesa da Sammartano 31
Ibidem. Più tardi, negli anni del consenso al fascismo da parte del popolo italiano, Sammartano sembra assumere un atteggiamento meno risentito nei confronti dei siciliani: recensendo ad esempio sul “Vomere” di Marsala (n. 2001 del 27 gennaio 1935 e n. 2002 del 3 febbraio 1935) un libro del concittadino Leonardo Bonanno (L’urbanesimo in Sicilia, Adria, «Tempo nostro», stampa 1935) afferma risolutamente che la Sicilia risorge nel Fascismo anche contrastando efficacemente la piaga antica e triste dell’urbanesimo. Nella circostanza Sammartano azzarda qualche previsione sulla mafia, che purtroppo gli anni successivi si incaricheranno di smentire: «La maffia non sarà morta solo e tanto per i molti ed ottimi funzionari di P. S. quanto e soprattutto perché la maffia, venutale meno la cittadella dello Stato, si è ridotta alla campagna, dispersa, senza capi, senza fiducia, senza mezzi, senza protezione. La maffia morirà perché mentre da un lato è stata troncata l’arteria che la portava
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possa realizzarsi, al di là dell’ottimismo delle buone intenzioni, resta però un mistero che soltanto un miracoloso intervento demiurgico è in grado di accollarsi per intero. Una classe dirigente, infatti, si crea e si forgia nel vivo di una lotta lunga e travagliata per affermare, con chiarezza, principi e valori condivisi che poi stanno alla base della convivenza civile nelle varie articolazioni della vita di un popolo, così come l’ha plasmato il flusso della Storia. Al di fuori di queste condizioni si resta nel campo delle illusioni e delle delusioni più cocenti, come egli avrà modo di sperimentare amaramente. Praticamente sconfitto in Sicilia, ora Sammartano trasferisce altrove il suo spirito indomabile e sempre fremente. Va a Pisa, a quell’epoca né grande né piccola città, ricca di grandi tradizioni culturali e campo aperto per la dialettica delle idee nella letteratura, nella vita politica e nelle discipline scientifiche. Pisa diventa la città della sua scelta ideale e sentimentale. Qui consegue la laurea nelle materie letterarie discutendo la tesi su Emilio De Marchi, uno scrittore trascurato dalla critica contemporanea e sul quale il tempo aveva posato la sua mano di polvere “con indifferenza ed oblio”.32 Eppure De Marchi, nella fase postrisorgimentale della storia italiana, aveva scritto romanzi significativi come Demetrio Pianelli, Arabella, Giacomo l’idealista, al cuore dello Stato, dall’altro le buone leggi, moralizzando gli strati più bassi della società, ne accelerano quel processo di scomposizione che è in atto da qualche lustro». Era, purtroppo, un ottimismo militante e superficiale di un fenomeno criminale e di un costume civile primitivo, non riconducibile soltanto “agli strati più bassi della società”. Si trattava semplicemente di morte apparente mentre persisteva, antagonista, un altro potere totalitario che di ludi cartacei, di riti elettorali e di complicità clientelari non sapeva che farsene. Del resto poteva soccorrere, per capire la situazione di sonno e non di decesso, la stessa pregnante espressione “calati juncu chi passa la china” che in Sicilia traduceva in qualche modo il motto spavaldo “mi piego ma non mi spezzo”. 32 La tesi di laurea venne pubblicata nel 1926 dall’editore Remo Sandron, con dedica alla memoria del padre.
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Col fuoco non si scherza, Il cappello del prete, raccolte di novelle d’ambiente lombardo, molti libri educativi e di erudizione, e diversi testi teatrali. Era il cantore sommesso di un mondo morale e sociale che aveva attirato in precedenza l’attenzione di B. Croce, L. Russo, A. Panzini, G. Mazzoni e della prestigiosa Casa Editrice Treves che si era assicurata i diritti di edizione in lingua italiana. Lo stesso Sammartano ne aveva scritto (“Giornale dell’Isola” di Catania; “L’epoca” di Roma; “Sicilia nuova” di Palermo, “I libri del giorno” di Milano, Fratelli Treves), anticipando parte del primo capitolo della tesi di laurea. Chi oggi legge il libro su De Marchi ricava l’impressione di una scelta letteraria molto lontana dalle passioni tumultuose che ultimamente agitavano il suo animo. In questo caso infatti non opera una scelta di campo tranciante: De Marchi è uno scrittore eminentemente “oggettivo”; non sente il bisogno di dirci che questo è un bene e quest’altro un male; il bene e il male sono nelle cose, nella vita e nell’azione di tutto il suo mondo drammatico; il mondo terreno è un luogo di passaggio, «come se le sofferenze e i dolori fossero necessari ad una aspirazione superiore». Sammartano così ci dice di raccoglierci intorno ai vecchi scrittori, più sani ed onesti («È come dissetarsi ad una fonte di acqua viva») e non sarà un lavoro né inutile né improficuo. Probabilmente la scelta di un autore come De Marchi, dimesso e crepuscolare, con quei personaggi stanchi e vinti, vittime di un destino beffardo, tutti incapaci di suonare il piffero della rivoluzione in marcia, e di respirare il clima surriscaldato della città toscana in quegli anni, appartiene alla fase momentanea e transitoria subentrata all’addio alle armi del 1918. Una sorta di trascinamento letterario e psicologico che, in contraddizione anacronistica, riaffiora con il suo pregnante significato minimalista proprio mentre infuria una guerriglia urbana armata di penna ed inchiostro (e di strumenti sinistri e letali). Una guerriglia combattuta non soltanto contro
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socialisti ed anarchici ma, soprattutto, all’interno del movimento fascista. A Pisa egli aveva incontrato un giovanissimo Gherardo Casini che a 24 anni portava ancora il rimorso di essere nato troppo tardi e di non aver potuto partecipare agli eventi bellici. Proprio Casini, destinato a diventare poi un importante personaggio della editoria, nel 1928 ricorda sulla stampa nazionale Sammartano e l’avventura del periodico “Rivoluzione Fascista”: «E fu così che decisi di fondare una rivista […]. A Pisa mi mancavano soldi e amicizia per fare questo. Un giorno, a forza di cercare, conobbi un pezzo di diavolone olivastro, piovuto sui lungarni pisani dalla natia Sicilia, pieno di volontà e d’entusiasmo, ma scarso anche lui di quattrini. È un amico che ricordo volentieri: Nino Sammartano. Con lui feci alla meglio i primi numeri di “Rivoluzione Fascista”. Il titolo era già un atto di audacia, e la rivista coraggiosa e dignitosa, ebbe subito un’accoglienza che sorpassò di molto le mie speranze. Mi ero incamminato così per la strada che percorro da 4 anni».33 Perché nasce quella rivista, che nel titolo “audace” mostra il proposito di una decisa rivoluzione italiana e di una più compatta solidarietà nazionale? Non si è lontani dal vero se si sostiene che la nuova, tra le tante imprese editoriali, mirasse ad influire sull’esito della crisi politica attraversata in quel torno di tempo dal fascismo. Casini e Sammartano ritenevano urgente e necessario trasformare la rivoluzione da autoritaria e conservatrice in totalitaria, magari percorrendo una terza via tra liberalismo e comunismo, restando però contrari alla violenza priva di ogni prospettiva politica. Su questa piattaforma ideologica era nei fatti 33
Gherardo Casini, Autobiografia di scrittori ed artisti del tempo fascista, n. 19: Gherardo Casini (fotocopia di un articolo apparso alla fine degli anni venti su un quotidiano nazionale di cui al presente non è possibile precisare nome e data).
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la contaminazione con le tesi moderate di “Critica Fascista”, il periodico di Giuseppe Bottai, e con quelle radicali di “Conquiste dello Stato” di Curzio Malaparte, in dissenso netto rispetto alla politica mussoliniana normalizzatrice e restauratrice.34 Nell’ottobre del 1924 però Casini lascia Pisa e va a Firenze, portandosi con sé la Rivista, alla quale assicurano la loro collaborazione Longanesi, Pavolini, Soffici, Maccari, Pellizzi e tanti altri. Ma questa fase della vita rumorosa ed intensa di Sammartano era ben presto destinata a concludersi. Preferisce rifugiarsi nel suo orto letterario, favorito peraltro dalla scelta professionale nel mondo della scuola. Aveva nel 1922 pubblicato un saggio sul poeta Lionello Fiumi e ora rivolge la sua attenzione su Giovanni Meli, un poeta dialettale siciliano sul quale tornerà più volte nel corso della sua esistenza. Occorre aggiungere che l’intensa e quasi frenetica iniziale partecipazione di Sammartano alla vita pubblica pisana non si era esaurita certamente nella pur esaltante avventura editoriale con Gherardo Casini. Più volte, infatti, nelle diverse occasioni, aveva ripreso con rinnovato vigore polemico il tema della genesi del movimento dei fasci, figlio di una generazione, a suo giudizio, «che si apre al Paese determinando l’intervento in guerra e perciò legittimando moralmente la funzione storica dei combattenti». Non aveva mancato tuttavia di apporre qua e là qualche annotazione autocritica: «Perché noi combattenti quando tornammo dalle trincee sfuggimmo al momento storico che l’Italia attraversava, volemmo rimanere apolitici, mentre la politica stroncava ed esasperava la nostra anima, non sapemmo afferrare l’anima martoriata o spasimante della povera Italia, e ci smarrimmo nei sentieri torti della vita nazionale».35 Ora invece si è consapevoli che «la nuova classe dirigente
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Cfr. Paolo Buchignani, Fascisti rossi, Milano, Mondadori, 1998. “L’Idea Fascista”, cit, n. 18 del 1 luglio 1923, p. 1.
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nascerà dalle trincee e dall’ansia di otto anni di guerra».36 Un primato dei combattenti rivendicato e ribadito più volte37 nei confronti degli ultimi arrivati, che appartengono alla generazione del dopoguerra, che “eredita”, non “crea”.
Dalla Sicilia alla Nazione Nelle non infrequenti incursioni letterarie Sammartano talvolta si lascia andare a qualche abbandono autobiografico. Arrivato a quasi quarant’anni di età sembra volgersi indietro per un bilancio intellettuale e sentimentale. Due libri di Marpicati, peraltro autorevole esponente della Corporazione della scuola, gli appaiono come pretesti preziosi per questa funzione e allora si premura di recensirli. Scrivendo del primo volume, Nella vita del mio tempo,38 a proposito della ricerca tumultuosa di nuove forme di vita spirituale da parte di una generazione in gran parte smarrita, si mette in sintonia con la vicenda biografica di Marpicati: «La guerra che ci mise a contatto con una realtà dura e cruenta ci insegnò molte cose, tra l’altro a guardare la vita senza veli che potessero deformare o attutire la reale visione; ci insegnò a par36
Ibidem. La funzione storica dei combattenti, “L’Elmetto”, organo ufficiale della Federazione pisana dell’A. N. C., n. 20 del 15 ottobre 1923; La funzione storica dei combattenti, “L’Idea Fascista”, cit; I combattenti fuori dalla loro funzione storica, «Critica Fascista», cit., n. 20 del 15 ottobre 1924; Generazione mussoliniana, «Critica Fascista», cit., del 15 ottobre 1929 (con nota redazionale); Nel V anniversario della Vittoria, “L’Elmetto”, cit., n. 23 del 4 novembre 1923. 38 Arturo Marpicati, Nella vita del mio tempo, Bologna, Zanichelli, 1933. Recensione di Sammartano, “Critica Fascista”, cit., n. 2 del 15 gennaio 1934. 37
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tecipare e ad amare la vita con un senso più concreto e più storico; ci fece in una parola da letterati politici; ci disse che l’uomo è tale se egli sa abbracciare tutta la vita nella sua realtà concreta; ci manifestò anche che arte, letteratura, cultura, scienza sono un nulla se noi non vi agitiamo dentro una passione, se non le pieghiamo ad un bisogno umano, se non le arricchiamo di un contenuto». Parla di Marpicati, ma soprattutto di se stesso. Scrivendo del secondo volume, Saggi di letteratura,39 l’identificazione diventa ancora più pregnante: «Ma Marpicati letterato ci piace, perché Marpicati, come tutti gli uomini della guerra e della Rivoluzione, ha ricomposto in sé l’unità del suo spirito, e in lui letteratura e vita, pensiero e azione trovano la loro armonia e il loro equilibrio». Anche qui parlava di Marpicati ma rifletteva su se stesso che avvertiva lo stesso bisogno coniugando vita ed arte, «due esigenze di uno stesso tormento». Sotto questo profilo ebbe perciò modo di mantenere un costante rapporto con la letteratura, a cominciare dall’amato “povero abate” Giovanni Meli, al quale per tutta la vita portò costante e devota attenzione.40 Secondo Sammartano il Meli, non nato con un cuor di leone ma costretto a vivere «in una società frivola e superba e di forti disuguaglianze sociali», fu capace di ritrarre uomini ed animali parlanti con le diverse palpitanti sfumature psicologiche in un paesaggio arioso 39
Arturo Marpicati, Saggi di letteratura, Firenze, Le Monnier, 1934. Un libro di Marpicati. Saggi di letteratura e di vita, recensione di Sammartano, “Critica Fascista”, cit., n. 8 del 15 febbraio 1935. 40 Nino Sammartano, In occasione delle onoranze ai grandi siciliani: Giovanni Meli. Estratto da “Il libro italiano”, Roma, maggio 1939. Altri interventi di Sammartano sullo stesso autore: Prefazione a Giovanni Meli, Poesie, Mazara, S. E. S., 1947; Profilo della vita e dell’arte di Giovanni Meli, saggio riportato nel volume Studi in memoria di Carmelo Sgroi. (18931952), Torino, Bottega d’Erasmo, 1965, pp. 191-197; Introduzione a Giovanni Meli, Poesie scelte, Milano, Carlo Signorelli Editrore, 1930; Giovanni Meli. La sua vita e la sua opera, “Siracusa Nuova”, n. 40 del 18 ottobre 1969.
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e caldo e di suggestiva bellezza; ci mette innanzi un’Arcadia «trasportata di peso sulle rive dell’Oreto», il fiume che allora rendeva ridente tanta parte della Palermo di fine Settecento. Eppure, rileva, al Meli non fu ignoto il vario fermento di idee degli scrittori dell’Encyclopédie francese e di tanti altri – anche di nascita siciliana – che obiettivamente reagiva ad un mondo frivolo e convenzionale descritto insistentemente con l’armamentario di pastori e pastorelle, di greggi e zampogne. Perciò nella poesia dell’abate Meli, tolto l’involucro esteriore, è possibile ritrovare colori ed anima di palpitante realtà in una campagna finalmente aperta che «spazia libera dal monte al piano al mare». Sicuramente egli era portato più alla «contemplazione idillica del mondo che alla lotta» (“Scurra l’Oceanu / L’Inglisi audaci, / Ch’eu vogghiu in paci, / Starimi cca”), ma se non fu un rivoluzionario non fu nemmeno un reazionario, come del resto si capisce leggendo le Favuli morali e il Don Chisciotti e Sanciu Panza, due lavori con maggiore tendenza «a trattare di cose sociali». Perciò, conclude Sammartano, poeta della grazia e della natura, il Meli «vivificò l’Arcadia, l’accostò alla realtà, vi animò dentro una fantasia agile e calda, un sentimento nuovo e spontaneo, quasi religioso, delle cose. Come tale egli supera la scuola e l’Arcadia, e la sua poesia trascende la sua terra e il suo tempo». Se a queste conclusioni Sammartano perviene in maniera definitiva, sia negli scritti del primo come in quelli del secondo dopoguerra, a diversa valutazione invece egli approda quando si cimenta con una personalità più complessa come quella di Francesco De Sanctis. C’è qui una profonda differenza nella interpretazione del pensiero politico e pedagogico se si leggono l’opuscolo del 1928 e l’introduzione agli scritti pedagogici del secondo dopoguerra. Un capovolgimento vero e proprio del pensiero dell’insigne
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letterato di Morra Irpina. Mentre nell’opuscolo del 1928,41 che peraltro riassumeva precedenti interventi apparsi sulla rivista romana “Augustea” e su “Critica Fascista” (“Risorgimento ed Antirisorgimento”), il De Sanctis viene descritto come uno spirito in lotta contro la democrazia e le sue degenerazioni e addirittura come araldo del movimento fascista, nel saggio di alcuni anni dopo, crollato il regime mussoliniano,42 il linguaggio si fa più cauto e il giudizio sul sistema democratico si stempera e si articola attraverso riflessioni puntuali e penetranti, finalmente depurate da forzature anacronistiche e strumentali. Nella prima interpretazione la politica desanctisiana viene accolta «non solo perché essa risponde pienamente a tutto l’attuale rinnovamento morale e politico della Nazione, ma anche perché porta in sé molte di quelle che sono le nostre idee maestre». Ci sono «i segni di un disorientamento e di una profonda crisi morale provocata, oltre che da incapacità culturale della nostra classe dirigente, da tutto un vario complesso di fatti storici e sociali». Per le classi infime il suo uomo «è colui che promette minor lavoro e più guadagno; per quelle che si dicono intelligenti domina una mezza cultura peggiore dell’ignoranza; si legge poco e si studia meno: non abbiamo capito che l’istruzione non è nulla quando non abbia azione sopra tutta la vita. La stessa politica è trattata come un mestiere da cui si ricavano onori e guadagni, con la conseguenza inevitabile che i buoni si disgustano e i ribaldi si fanno innanzi. Per cui al di sopra delle masse e in nome di esse si forma uno strato di falsa democrazia che le sfrutta, che prende da quelle vizi e abito plebeo, e dalle altre classi la vanità e le cortigianerie. Così in poco tempo si è formato un corpus iuris giudicato inappellabile e indi41
Nino Sammartano, Un democratico contro la democrazia. Francesco De Sanctis e la crisi del liberalismo italiano nella seconda metà dell’Ottocento, Milano, stampa in proprio, 1928. 42 Nino Sammartano, introduzione a Francesco De Sanctis, Scritti pedagogici, Roma, Armando Editore, 1959.
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scutibile che va sino alla confisca dei beni e alla demolizione della famiglia e della Patria e si tira appresso le multitudini tanto più fanatiche quanto più ignoranti». In definitiva al De Sanctis «tutto appariva come una grande Babele, dove la confusione, l’ambizione, la corruzione di tutte le classi sociali, il più sfrenato arrivismo, facevano della politica lo specchio immorale del nuovo costume di vita morale e sociale degli italiani». Una crisi quindi non contingente del sistema politico italiano, a cui diede risposta il fascismo nato dallo “spirito nuovo” promosso dal combattentismo e da una nuova visione della politica e dell’Italia. Nel secondo dopoguerra Sammartano, come si è detto, elabora un’altra interpretazione del pensiero desanctisiano, non più avviluppata nei canoni strumentali della propaganda. Prevale ora una lettura puntuale dei testi di natura pedagogica e didattica, a cominciare da una rivalutazione, a cento anni di distanza, del metodo fondato sull’interesse, senza il quale l’allievo non si fa e non si tiene desto. Perciò Francesco De Sanctis ha cura delle lezioni sulla lingua, sullo stile, sulla retorica, sulla lirica e sulla grammatica; ma è pure fortemente consapevole della necessità di combattere il male che vedeva via via nascere da una libertà che maturava troppo precocemente frutti spesso avvelenati. Sapeva che «ogni progresso è vano quando non trova le sue ragioni nella coscienza del popolo e non si fa costume e moralità». Era inconcepibile quindi una scuola che fosse solo di notizie, che non fosse capace di mettere lo scolaro in condizione di acquistare il sapere e non soltanto di riceverlo, giacché il maestro non dà la scienza bella e formata ma aiuta a cercarla. Non si tratta qui di riduzione della scuola nell’ambito della didattica e del pedagogese. Lo stesso De Sanctis, per quanto preso dall’amore e dalla passione per gli studi, non fu distratto dalla diretta partecipazione alla vita pubblica «alla quale diede il meglio delle sue energie e del suo ingegno». E proprio quando s’intrattiene sul rapporto letteratura-politica nel letterato irpino, Sammartano sembra fornire
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velatamente qualche indicazione autobiografica: denunciare una libertà spesso manomessa e vilipesa non può significare una scelta di campo conservatrice quando lo spirito resta aperto alle più ardite riforme sociali e politiche, proprio come aveva scritto De Sanctis: «io voglio andare avanti nei limiti dello Statuto e della legge e non con mezzi rivoluzionari e violenti che ci portano all’anarchia e alla reazione; e perciò non ho niente di comune con quelli che si chiamano progressisti e sono rivoluzionari». È il perenne dilemma che sulla scena politica si ripropone tra riformismo e rivoluzione, che attraverso la citazione Sammartano assume in maniera inequivocabile superando, nei tempi nuovi, l’apprendistato rivoluzionario della sua gioventù. Ora egli non vuole lacerare il rapporto letteratura-politica ma anzi tende ad una ricomposizione di arte e vita in una concezione unitaria capace di contemplare la distinzione fra le due attività. Si riconoscano pure le istanze che potevano essere salutari alla vita dello spirito, attingendo nella vita reale e concreta del popolo; ma guai a quella Nazione che precipita per poca serietà di studi e di vita nell’Accademia, nell’Arcadia e nell’enfasi della retorica, apparenza della vita e priva di sostanza; e si guardi bene il popolo italiano da un ingannevole cosmopolitismo di maniera mentre si ha lo straniero in casa: mirando agli ideali lontani si rischia di non vedere quelli più vicini e doverosi. È indispensabile quindi, sia per l’interprete come per l’autore, «un’educazione che ci avvicini alla natura, ci induca al lavoro, ci ispiri tenacità e coerenza di propositi, ci avvezzi alla disciplina e al sacrificio». Parole come si vede impopolari in una società senza lode e senza biasimo, e che avrebbe tanto bisogno, ancora oggi, di riflettere sulle pagine del De Sanctis. A ben vedere, quell’autore che nel primo dopoguerra poteva spiegare, secondo Sammartano, le degenerazioni del sistema democratico e anticipare la genesi del fascismo rivoluzionario, venti e più anni dopo tornava d’attualità per indicare una
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precettistica politica, sociale e pedagogica idonea alla nascita e all’affermazione di uomini autenticamente democratici.43
Riforma Gentile e interpretazione di Sammartano Con il consolidarsi del regime mussoliniano comincia ad affievolirsi – sembra addirittura esaurirsi – il vigore polemico insistito con il quale Sammartano, e quanti con lui esibivano la stessa convinzione, aveva per anni sostenuto la tesi alquanto autoreferenziale della genesi di un fascismo come diretta filiazione di una giovane generazione che aveva combattuto e vinto nella grande guerra mondiale. In effetti un siffatto espediente dialettico ormai non appariva efficacemente spendibile nella polemica interna per la supremazia nel Partito e nello Stato: avevano vinto, come sempre in Italia, coloro che, per dirla con Ennio Flaiano, corrono in soccorso del vincitore. Ora sono altri i temi in discussione e la scuola è sempre stata, prima e dopo il fascismo, il terreno ideale per la contrapposizione polemica sui diversi versanti in cui si poteva anarchicamente declinare. Senza dimenticare peraltro la sua provvidenziale funzione di diversivo o di pretesto rispetto ad altri temi difficili ed urgenti della vita politica nazionale. Inoltre, nella nuova situazione storica dell’Italia, la pioggia di decreti-legge che in regime 43
In uno scritto apparso su “L’università urbinate” del 1951, n. 6, pp. 1-2, Sammartano scriverà che non c’è letteratura avulsa dalla storia, cioè dalla vita degli uomini. Negato il principio della unità si nega il principio stesso della vita e senza la ricerca del principio unitario nella cultura la pagina del silenzio viene colta soltanto «come frammento, come fiore che muore troncato sullo stelo e non trova l’humus in cui affondare le sue radici che non ha».
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di pieni poteri aveva dato origine alla Riforma Gentile assicurava molteplici argomenti di dotta o mediocre discussione, a cominciare dal suo impianto selettivo e rigoroso, espressione di una Nazione prevalentemente agricola pur se sottoposta ad iniziali dinamismi di sviluppo industriale. Poche scuole ma buone aveva raccomandato Gentile, vivificate da docenti incarnazione dello Spirito, convinti perfettamente che andavano combattute ed escluse forme di agnosticismo relativistico e quelle prossime al plagio ideologico. Ma questa visione élitaria della scuola era compatibile con le richieste di facilitazioni dei piccoli borghesi e del varipinto mondo popolare che avevano dato vita al fascismo? Incompatibile semmai era Gentile che, appunto dopo alcuni mesi, fu costretto a lasciare il suo incarico di Ministro della Pubblica Istruzione, indebolito da una insistita quanto immediata richiesta di “ritocchi” da apportare alla sua Riforma, non disgiunta in seguito da una perentoria ed acritica imposizione volta alla completa “fascistizzazione” dell’insegnamento. Sammartano, che proprio dopo il conseguimento della laurea aveva incomiciato ad insegnare nelle discipline storico-letterarie, avverte subito, almeno dal suo punto di vista di pugnace rivoluzionario, i limiti liberal-conservatori della Riforma dalla quale non poteva nascere l’uomo nuovo di Mussolini, anche se quest’ultimo, incautamente ed improvvidamente, l’aveva definita “la più fascista delle riforme” (salvo a ricredersi anni dopo, confessando l’errore di prospettiva commesso). Così Sammartano si colloca in prima fila, su giornali e riviste e all’interno del variegato associazionismo degli insegnanti, sia pure in maniera felpata, a fornire argomenti polemici e critici volti alla demolizione lenta ed inesorabile della creatura gentiliana, concepita faticosamente in anni di dibattiti nell’Italia prefascista. C’è comunque da osservare che il processo di rigetto della Riforma, se iniziò durante il regime fascista, ebbe a proseguire in seguito sino ai giorni nostri attraverso atti, comportamenti e provvedimenti
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legislativi: dal riordino dell’istruzione tecnica alla emanazione della Carta della scuola; dallo stravolgimento concettuale degli esami di maturità alla unificazione dei primi tre anni della scuola d’istruzione secondaria; dall’ampliamento degli accessi universitari al trasferimento di poteri e funzioni di controllo ad organi periferici dello Stato e di molteplici sovrapposti enti territoriali; dall’esaltazione della carità didattica e di un facilismo grottesco al tramonto delle responsabilità a vari livelli; dalla confusione normativa nella disciplina degli alunni al reclutamento ope legis del personale direttivo e docente.44 Nel 1927, a quattro anni di distanza dall’approvazione della Riforma, Sammartano, attraverso un’analisi a volte parziale ed incompleta, ritiene di ritrovare nel binomio uomini-denaro un ostacolo al passaggio dalla scuola dell’agnosticimo precedente (prima di Gentile cioè) a quella della “passionalità politica”. E invece c’era molto ancora da fare perché la Rivoluzione fascista era rimasta sulla soglia, gli insegnanti erano sempre gli stessi e l’Italiano sognato dal regime non era ancora nato. Un anno dopo, scrivendo su “Critica Fascista”,45 approda a conclusioni fideistiche e perentorie: «Scuola e fascismo non sono due organismi che hanno bisogno di innestarsi per vivere e prosperare, sono una cosa sola, risultato omogeneo di una stessa coscienza e di una stessa vita spirituale». Occorre però che il Partito favorisca con crescente consapevolezza la nascita di un’organizzazione politica 44
Molti anni dopo, con un pizzico di arguzia, a proposito dei professionisti delle riforme, Sammartano ebbe a scrivere: «I Romani sulla soglia delle loro case solevano scrivere: cave canem. Se ne avessimo la possibilità sulla soglia dell’odierna “Minerva” ci piacerebbe incidere: guardati dai riformatori», (premessa all’articolo Appunti e considerazioni per la riforma – o meglio – per il riassetto della scuola italiana, “Nuova Rivista Pedagogica”, n. 4-5, luglio-dicembre 1972). 45 Nino Sammartano, Ancora di scuola e fascismo, “Critica fascista”, n. 14, 15 luglio 1928.
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tra gli insegnanti proprio per «accostare tutta la scuola a tutto il regime». A cominciare dall’Opera Nazionale Balilla. Inoltre non può trascurarsi la questione della scuola tecnicoprofessionale dispersa tra le competenze di diversi Ministeri e quasi dimenticata dal Gentile. Eppure i bisogni di crescita produttiva dell’Italia, con relativa necessità di dirigenti tecnici qualificati e non soltanto di geometri e ragionieri, dovrebbero essere assunti nel campo scolastico con maggiore determinazione e pensosa consapevolezza. Una scuola tecnico-professionale riguardata non come un’alternativa agli studi classici ma come una «fucina dove formerà la sua personalità morale e spirituale, oltre che tecnica, l’italiano nuovo che nella cultura e nel lavoro ritroverà i termini della sua fatale affermazione».46 Nasce così la proposta della unificazione dei tre tipi di scuola post-elementare e la creazione di una scuola secondaria di avviamento al lavoro, con il sostegno dei Consorzi provinciali obbligatori per l’istruzione tecnica appena istituiti. Un tentativo, come mette in evidenza Sammartano, per ridurre il grave fenomeno, dannoso per l’agricoltura e l’industria, a cui si sottraggono braccia e menti, di tanti laureati che con il loro politicantismo tennero angustiata per più di mezzo secolo tutta la vita italiana (viene immediatamente in mente quel gustoso ed amaro saggio di Gaetano Salvemini su “Cocò all’Università di Napoli”, analfabeta e laureato).47 È questa la premessa per una serie di interventi centrati sullo stesso argomento. Agli inizi degli anni ’30 pubblica, per le edizioni di “Critica Fascista”, La scuola media e il fascismo, un vo-
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Nino Sammartano, Riforma tecnica della scuola, “Il lavoro fascista”, n. 24 del 27 gennaio 1929. Sul medesimo tema Sammartano torna a scrivere su vari periodici. 47 Gaetano Salvemini, Cocò all’Università di Napoli o la scuola della mala vita, “La Voce”, a. 1, n. 3 del 3 gennaio 1909.
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lumetto48 che abbraccia in una ripetuta visione unitaria e totalitaria, la questione scolastica, rimasta, nonostante la Riforma, al di sotto delle aspettative dei fascisti più estremisti: non c’è l’uomo professore; la scuola non è ancora fascistizzata; donne e preti, in maggioranza nella scuola, non sono in grado di attuare la volontà e la missione educativa dello Stato (l’elemento femminile è il meno adatto alla formazione virile e spirituale dei giovani studenti e i sacerdoti portano nelle aule una mentalità che non è quella statale). Eppure, aggiunge, le intenzioni di Giovanni Gentile, «l’uomo più preparato in Italia e fuori non soltanto intorno ai problemi dello spirito ma anche intorno a quelli della scuola», erano eccellenti e la passione assai accesa, pur sapendo di parlare ad una folla di ciechi che non vedono e di sordi che non odono. Ma la Riforma era stata fatta «senza mezzi di attuazione» e avversata da spiriti opachi «che non ricevono luce e non danno luce». Comunque sia, ora il professore fascista deve diventare un apostolo della missione educativa che lo Stato, nella prospettiva di raggiungere il monopolio di tutti i mezzi di comunicazione di massa, assume nella scuola; il professore deve essere fascista al cento per cento; la Nazione si deve dare una coscienza scolastica, cioè la capacità di comprendere le finalità della scuola, implicite nella nuova denominazione del Ministero (dell’Educazione Nazionale e non più della Pubblica Istruzione). In altri termini era necessaria una scuola non soltanto capace di curare l’intelligenza ma tutto l’uomo. Il saggio di Sammartano riscosse una certa notorietà in quegli anni e costituì la base per una ponderosa monografia alla quale si è fatto cenno in precedenza49 e che, per altri versi, si fa ancora apprezzare, almeno per gli studiosi dell’evoluzione del sistema 48
Nino Sammartano, La scuola media e il fascismo, cit. Nino Sammartano, La funzione della scuola media in Italia dalla Marcia su Roma, cit. 49
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formativo italiano, per la ricchezza di informazioni sulla scuola tecnico-professionale riformata dal Ministro Belluzzi intorno agli anni ’30. In quel torno di tempo Sammartano pubblica presso l’editore Vallecchi un altro volume50 nel quale riprende e ripete i medesimi concetti sulla scuola elaborati per diversi periodici e forse rivela una più decisa riaffermazione di una linea antiparlamentare ed antidemocratica contro ogni tentativo, palese od occulto, di valorizzazione del costume e degli istituti della fallimentare e deludente democrazia rappresentativa; «…e siamo fascisti, e perciò antidemocratici, non perché siamo contro il popolo – siamo popolo noi stessi – ma perché nella democrazia vediamo trasformarsi – meglio – deformarsi la nostra vita tutta di uomini e di italiani, di popolo e di Stato». Attraverso questo filtro antidemocratico – comune del resto, non bisogna dimenticarlo, a larga parte della cultura europea – ora egli legge La storia d’Italia di Benedetto Croce,51 interpreta il sindacalismo educativo che crea “organismi etici” e tanti altri temi della vita collettiva italiana di quegli anni. La professione di insegnante porta Sammartano a Pescara e in riva all’Adriatico egli dà vita a “Tempo Nostro”, un mensile di varia umanità nel quale assai accentuato si manifesta l’interesse per le questioni di natura politica generale e per le problematiche specifiche della cultura e della scuola.52 Gli accade così di re50
Nino Sammartano, Idee e problemi della Rivoluzione fascista, cit. Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928. 52 Su “Tempo Nostro”, di tanto in tanto, vengono pure ricordati, per la loro attività o per la loro produzione artistica e letteraria, tra gli altri, alcuni personaggi della natia Mazara del Vallo: Francesco Bascone, Orazio Napoli, Leonardo Bonanno, Filippo Napoli, Giuseppe Boscarino (di quest’ultimo, scrive Sammartano, fu un «bel dono» decorare e affrescare il Palazzo del Podestà e che i suoi concittadini avrebbero dovuto raccogliere ora tutte le sue opere in segno di gratitudine. Invece, aggiungiamo noi, si sono limitati semplicemente a distruggere, in tempi recenti, tutto il Palazzo del Podestà e gli affreschi 51
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spingere tra l’altro la negazione frettolosa ed empirica del passato sostenuta cocciutamente da chi crede di poter interpretare o esaltare il proprio presente: l’Ottocento ad esempio è una delle espressioni più fervide e rigogliose della nostra coscienza e quindi è necessario distinguere tra le varie correnti di quel secolo, su alcune delle quali peraltro si erano rivolti i suoi strali polemici.53 Anche nella nuova situazione storica dell’Italia è necessario respingere ogni banale e volgare disprezzo della tradizione e tentare invece di studiarla e comprenderla, e forse per imparare «di tra quegli errori molte cose». Nominato successivamente Preside del Liceo classico di Adria, trasferisce anche “Tempo Nostro” nel centro polesano dove è possibile continuare la medesima battaglia culturale e politica, magari sotto il segno di una “vis polemica” non conformista. Tra l’altro non manca di esprimere disprezzo per la «valanga cartacea» prodotta da tanti sfaccendati concorrenti che partecipano alla «curiosa Bengodi delle lettere e delle scienze» innalzato dal Regime (si tenga presente il fatto che di Adria era Marinelli, potentissimo amministratore del PNF, successivamente fucilato nel cortile di Castelvecchio a Verona per il voto espresso contro Mussolini nella notte del 25 luglio del 1943). Sammartano chiede quindi, con accenti perentori, l’abolizione di tutti i premi, il controllo statale della produzione dell’ingegno, il trasferimento col piccone e con la vanga ai luoghi di bonifica di oziosi accattoni o dell’illustre concittadino, ulteriore conferma del degrado culturale di una città). 53 Nino Sammartano, Educazione e tradizione, “Tempo Nostro”, Pescara, a. I, n. 9, p. 1. Nel secondo dopoguerra ritorna spesso su “Valore e significato di cultura e tradizione”. In un articolo apparso il 22 febbraio 1959 sul n. 8 de “La fiera letteraria”, ricordando i maestri dell’Università di Urbino, spiega il significato della sua ricerca pedagogica, che «ci riporta nel vivo della nostra tradizione educativa più vera che è, soprattutto, umanistica in quanto si lega ad un ideale di vita che io chiamo classico e cristiano insieme».
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avventurieri annidati nelle redazioni di giornali, riviste e agenzie letterarie. Porte aperte, invece, soltanto ai letterati integrali che non vogliono campare «con la carta o con l’opera di inchiostro». Anche ad Adria la scuola resta al centro degli interessi politici, e naturalmente professionali, di Sammartano, essendo numerosi gli spunti offerti anche dalle cronache e dai nuovi interventi normativi.54 Quando la cultura militare, ad esempio, fa la sua apparizione nelle scuole secondarie e nell’Università, egli esprime tutta la sua soddisfazione perché, dice, la nuova materia arricchisce la preparazione degli studenti attraverso una nuova palestra di disciplina, carattere e volontà. Proprio per rendere ancora maggiormente esplicita la soddisfazione, pubblica un volume ad uso delle scuole, presentato da Giuseppe Bottai, nel quale, con parole di avvolgente umanesimo retorico, vengono illustrate, dopo una iniziale descrizione del cammino del fascismo dalla Marcia su Roma sino alla proclamazione dell’Impero, strutture e articolazioni del nuovo Stato55 nel quale l’uomo nuovo avrebbe dovuto somigliare, in un futuro ormai prossimo, ad una replica del legionario romano. Sammartano è consapevole tuttavia che la nuova disciplina (nell’età positivistica sarebbe stata chiamata “materia”) avrebbe potuto appesantire l’offerta formativa complessiva. Del resto qualche tempo prima, sull’argomento, si era intrattenuto su “Tempo Nostro”:56 «le discipline sono troppe, per ogni disciplina la materia è troppa»; la scuola era diventata una specie di omnibus dove «viaggiano tutte le discipline e tutto il 54
Nino Sammartano, La scuola e la guerra, “Tempo Nostro”, Adria, a. IV, n. 33, gennaio 1935. 55 Nino Sammartano, Corso di cultura fascista, Firenze, Le Monnier, 1935 (ripubblicato dallo stesso editore, in una veste grafica più gradevole, nel 1939; questa volta l’autore viene presentato non più come Preside ma come “Libero docente in pedagogia nella Regia Università di Roma”). 56 Nino Sammartano, Problemi politici della scuola. La cultura fascista nella scuola media, “Tempo Nostro”, Adria, a. IV, n. 33, p. 6, gennaio 1935.
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sapere», in una selva di programmi incrostati. Ma l’insegnamento della cultura militare, rispetto alla nuova funzione politica della scuola e all’evidente ignoranza delle nuove generazioni intorno alla portata della Rivoluzione, trova ampia giustificazione (agli esami di maturità un ragazzo, «richiesto su quale fosse il giornale del Duce» … affermò: L’Avvenire d’Italia!). In ogni caso, per quanto riguarda l’insostenibile pesantezza degli orari d’insegnamento, non c’è problema: basta togliere un’ora o dall’italiano o dal latino, o da altrove o addirittura aggiungerla … Coerentemente con tale visione della missione politica della scuola, nel 1935 rivolge nella sua qualità di Capo d’Istituto un importante discorso ad alunni, familiari e docenti,57 che costituisce la sintesi efficace di un pensiero politico e pedagogico maturato sotto il segno di una concezione totalitaria. L’Italia ormai è tutta in piedi e in armi contro le “sanzioni” adottate da 50 Nazioni («ululato cupo di iene fameliche») per l’intervento italiano in Abissinia e perciò per Sammartano la scuola vive questo momento storico «eccezionalissimo» adeguandosi alla «realtà». È giusto quindi, ed urgente, l’intervento in Africa Orientale, contro l’insofferenza preoccupante del Leone di Giuda, da parte di un’Italia che non vuol gemere sotto il tallone di un mercante arricchito come l’Inghilterra. Un’Italia che ora finalmente comprende l’esortazione foscoliana del ritorno «alle istorie», i fremiti patriottici di Vittorio Alfieri «irato ai patrii numi», l’insegnamento di Giuseppe Parini («osare»), il sacrificio dei primi martiri del Risorgimento, la testimonianza morale e politica di Mazzini, Garibaldi, Mameli, Pellico, Menotti, fratelli Bandiera, sino a Battisti, Sauro e Filzi, per non parlare del «fiore della giovinezza italiana balzata nel 1915». Non più quindi un’Italia immobile nella sua mediocrità, bensì protesa a vendica57
Nino Sammartano, Meditare la storia, discorso alla scuola, Adria, 1935.
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re Custoza, Lissa ed Adua e a contraddire quel diplomatico russo che a Bismarck aveva ribattuto: «Come mai l’Italia chiederebbe nuovi territori? Ha forse perduto qualche altra battaglia?». Il discorso di Sammartano, naturalmente, contempla qualche parola riconoscente nei confronti di Enrico Corradini, uno dei protagonisti del Nazionalismo italiano, e qualche obolo encomiastico offerto sia al giovane lungimirante Mussolini che al Marinetti futurista, entrambi lodati per il ruolo svolto nella grande guerra, assai diversi dagli inetti uomini politici che portarono la Nazione all’umiliazione del Trattato di pace firmato a Versailles. La scuola, se pienamente consapevole delle cause delle difficoltà presenti, è chiamata a disporsi alla lotta con intransigenza assoluta. Anche i genitori degli alunni non possono del resto stare alla finestra ma anzi devono contribuire a formare in maniera integrale i giovani che stanno nelle aule, naturalmente sotto la guida intellettuale e morale di quegli autentici padri spirituali che sono i professori. Punti e registri restano roba effimera, con qualche valore pratico, ma quello che veramente conta sono principi, idee, istituzioni e svolgimento spirituale. Certo bisogna aiutare i ragazzi ad abituarsi ad affrontare le piccole come le grandi difficoltà: «Come volete che imparino il latino o il greco, l’italiano o la storia giovani che non si sono sottoposti per una, due ore davanti alle difficoltà di un periodo da tradurre, di una regola da comprendere, davanti alla interpretazione di un passo, di una poesia?». Sembra anche questo passaggio una risposta polemica a quanti si agitavano ad annacquare il rigore selettivo della Riforma gentiliana e sposavano orientamenti di improduttivo pietismo sociale nettamente in contraddizione con le prediche sulla società della conoscenza. A ben vedere sono concetti questi che, nella solitudine della sua prigionia, proprio in quegli anni, esprimeva Antonio Gramsci a proposito dell’esigenza di un nuovo principio pedagogico, con la piena consapevolezza che era ingannevole accogliere richieste di facilitazioni che inevitabilmente avrebbero
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portato a modificare la natura specifica della scuola e il suo ruolo fondamentale.58 Il discorso di Adria, nella parte finale, offre a Sammartano ancora una volta l’occasione per ricordare con orgoglio la sua avventura di giovanissimo interventista: «Dalla scuola italiana sempre è uscita la giovinezza più bella ed ardimentosa e dalle nostre scuole sempre uscirono i primi canti di guerra e i primi segni del combattimento. Ed io rivedo la mia scuola del 1915, quando, giovinetti, corremmo anche noi a chiedere e ad imporre la guerra; e tutti, chi prima chi poi, partimmo per andare al nostro posto di combattimento; e rivedo nella vecchia aula del mio Liceo ‘quel posto’ lasciato vuoto: un compagno era partito; e risento la trafitta al cuore, quando, una mattina, all’appello, che, per consuetudine o per errore, i professori facevano, non dicemmo più ‘al fronte’, ma ‘caduto’; e allora il posto vuoto non era più davanti a me, a noi, ma lassù tra il Carso e l’Isonzo, posto che molti di noi corsero, ancora imberbi, a colmare». Qualcosa del genere, in una linea di continuità ideale, Sammartano ritiene di ritrovare nella vicenda di un giovane alpino, già studente del Liceo classico di Adria e ora volontario in Africa Orientale, un Liceo che forse ha il merito di avergli insegnato a combattere per la Patria, in quella Patria che quando chiama «è dolce accorrere alla sua voce come al richiamo della madre».
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Antonio Gramsci, Per la ricerca del principio educativo (riportato in Giuseppe Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 150).
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Elaborazione della Carta della scuola Nel 1935 avviene una svolta nella vita professionale di Sammartano: consegue la libera docenza in pedagogia. Un anno dopo da Adria viene “trasferito” a Roma e assegnato al Ministero della Cultura Popolare con la qualifica di Ispettore Generale. Contemporaneamente diventa redattore capo della rassegna bibliografica mensile “Il libro italiano”, diretto dall’amico degli anni pisani Gherardo Casini e da Edoardo Scardamaglia. Abbandona quindi il Liceo polesano ma comunque, come vedremo, il mondo scolastico resta sempre al centro dei suoi interessi culturali, pedagogici e politici. Ed è proprio per questo riconosciuto impegno dispiegato attraverso pubblicazioni e conferenze che il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai lo chiama a far parte del ristretto numero di esperti incaricati, in sostanza, di modificare la Riforma Gentile con la Carta della scuola, un insieme organico di 29 dichiarazioni di principio rivolte al legislatore del tempo per l’adozione di successivi provvedimenti, dalla scuola dell’infanzia sino all’Università, coerenti con i nuovi approdi totalitari del fascismo. Una testimonianza del ruolo importante di Sammartano nella elaborazione della Carta della scuola, prosecuzione nel tempo della Carta delle Corporazioni, è messa in rilievo proprio da Bottai che nel suo Diario59 registra alla data del 14 febbraio 1939: «Mussolini, ricevendo Vecchietti e Sammartano della ‘Scuola Italiana’, dice della Carta della scuola: ‘una riforma che darà lavoro alla scuola per altri 30 anni’».
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Giuseppe Bottai, Diario 1939-1944, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, 1982, p. 142.
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Com’è noto, il Consiglio dei Ministri approverà il 1° giugno dello stesso anno la Carta.60 Ma, a causa degli eventi bellici subito sopravvenuti, fu possibile realizzare, con la legge del 1° giugno 1940, soltanto l’unificazione dei primi tre anni degli istituti di istruzione secondaria (restando così nel loro limbo giuridico le classi di avviamento professionale). Nelle intenzioni di Bottai e dei suoi collaboratori, come correttamente ebbe modo di anticipare un concittadino di Sammartano, l’amico onorevole Francesco Bascone, il nuovo complesso articolato disegno riformatore aveva il compito immane di segnare il passaggio “dalla fascistizzazione della scuola alla scuola fascista”,61 cioè alla fine dei ritocchi tortuosi e ipocriti a vantaggio di una scelta d’impronta decisamente totalitaria. Anche Sammartano prende parte, immediatamente, ad una straordinaria strategia pedagogica-politica destinata a creare l’uomo fascista nel suo concreto operare a contatto con insegnanti finalmente alieni da forme di astrattezze, intellettualismi e perniciosi individualismi.62 Senza attardarsi però nella contemplazione inerte dei nuovi principi espressi nella Carta della scuola perché si poteva rischiare il medesimo naufragio della Riforma Gentile «che se vinse la guerra perdette la pace» nell’impatto della sua Riforma con la realtà specifica 60
Giuseppe Inzerillo, Giuseppe Bottai e la sua riforma a Ferrara. Dalla Carta della scuola alla scuola di carta, introduzione a Una scuola nella guerra. La scuola media a Ferrara. 1940-1945, a cura di A. Quarzi, Ferrara, Corbo Editore, 1996. 61 Francesco Bascone, Dalla fascistizzazione della scuola alla scuola fascista, “La Diana scolastica”, a. XI, n. 6, 28 febbraio 1939, Bologna. È curioso osservare che Sammartano, qualche anno prima, nella sua rivista “Tempo Nostro” aveva condiviso la tesi, invero alquanto bizzarra, sostenuta dal Bascone, di creare negli Istituti magistrali, popolati generalmente da ragazze, un “criterio di pariteticità” con gli alunni: una sorta cioè di quote azzurre o di pari opportunità maschili, come si direbbe oggi. 62 Nino Sammartano, Il nuovo insegnante, “La scuola italiana”, a. II, n. 7, 15 aprile 1939.
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italiana. Nuove discipline (lavoro, educazione fisica, cultura militare, economia domestica) ed Esame di Stato rinnovato, espressioni di una scuola nuova autenticamente formativa erano lì per esercitare immediatamente e senza sosta la loro funzione.63 Tuttavia bisogna fare particolare attenzione, scrive ancora Sammartano, a proposito della funzione e del concetto di lavoro nella scuola: alcune iniziative che anticipano la V Dichiarazione della Carta già sembrano fraintendere la capacità educativa del lavoro nella scuola. Il lavoro, infatti, si differenzia e si stacca nettamente dalla “fatica”, mera materialità e non attività intelligente e cosciente. Esso rifugge da improvvisazioni e facili entusiasmi, come anche dal gaio divertimento di alunni ed insegnanti proiettati fuori dalle aule. La Carta invece prescrive un lavoro “più simile a quello dell’ape industre, che alla fatica dell’asino paziente”.64 Il nuovo importante incarico al Ministero della Cultura popolare amplia gli orizzonti degli interessi di Sammartano. Ora si accosta, per ragioni professionali, alle complesse vicende culturali ed economiche dell’editoria nazionale, sovente distratta, a suo giudizio, dalle grandi questioni contemporanee, nonostante l’esistenza di temi importantissimi come la guerra mondiale, la Rivoluzione fascista, l’Impero, argomenti tutti di vasto respiro e idonei ad impegnare due generazioni buone di scrittori.65 Riaffiora ancora una volta, in questa osservazione-direttiva, l’idea di una cultura a comando, naturalmente conformista, che già in quel periodo storico, con feroce rigore poliziesco ed inquisitorio, ve63
Nino Sammartano, Scuola formativa, “La scuola italiana”, 20 dicembre 1939. 64 Nino Sammartano, Il lavoro rinnovatore della scuola, “La scuola italiana”, 25 gennaio 1940. 65 Nino Sammartano, Testimonianza a Bottai, “Tempo Nostro”, a. VI, n. 1, 1937 (riportato anche da “Il giornale d’Italia”, n. 309 del 29 dicembre 1936, ma non firmato).
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niva sperimentata nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica comunista. Qui in Italia comunque la prosa di Sammartano appare assai meno cupa nella sua perentorietà. Per lui il ritorno alla nostra cultura significa che tutti gli Enti si debbono piegare a questo bisogno, vale a dire ai bisogni di operai e contadini, del popolo, e non a quello, forse superfluo, di professori e «di troppe signore». Una concezione nazional-popolare esplicitamente dichiarata, in linea del resto con l’invito mussoliniano ad «andare verso il popolo». Oppure tardivo riflesso dell’antica e mai dimenticata lezione dell’amato De Marchi, cantore padano della povera gente; o anche suggestioni di pittori ed incisori di stampo naturalistico, a cominciare dal concittadino Giuseppe Boscarino autore efficace di immagini dolenti di popolani stanchi e sfiniti dalla miseria. Da questo punto di vista allora non sembra sbagliato o reticente sostenere, anche sul piano lessicale, che l’espressione “Rivoluzione fascista” da Sammartano frequentemente utilizzata corrispondeva, al di là dei significati successivi con i quali la Storia s’incaricò di caricarla e deteriorarla, ad uno stato d’animo sincero e ad un vago proposito o progetto politico alternativo al conservatorismo agrario ed industriale e alle tante grettezze egoistiche di molti borghesi.
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La Sicilia ricercata di Giuseppe Pitrè e la piccola Patria di Salò A conferma di un crescente prestigio culturale conquistato nella scuola, nell’Università66 e nelle sfere dell’alta burocrazia ministeriale, Sammartano viene anche chiamato, con R. D. 22-61939. n. 1015, a far parte del Comitato incaricato di curare l’Edizione Nazionale delle opere di Giuseppe Pitrè, medico e demologo, uno dei più autorevoli ed apprezzati cultori di studi sulle tradizioni popolari siciliane, autore di un’infinità di libri e di articoli, scrittore di vena, simpatico, forse uno dei più schietti rappresentanti della Sicilia folklorica, «della Sicilia bella non pur di luce e di marine, ma di un’anima ardente e generosa, ammirata ed amata da tutte le genti».67 Il Comitato, presieduto da un siciliano illustre, Giovanni Gentile,68 ha il compito di ristampare una cinquantina di volumi già pubblicati, molteplici memorie sparse qua e là, e di raccogliere e dare alla luce tutte le opere inedite. L’accettazione della nomina forse costituiva una indiretta conciliazione con la Sicilia, dalla quale molti anni prima era fuggito con pessimistico rancore e che probabilmente nel frattempo, per 66
La sua carriera universitaria incomincia nel 1938 con l’insegnamento della pedagogia presso la Facoltà di Magistero della Libera Università di Urbino e proseguirà quasi ininterrottamente per oltre trent’anni. Negli anni 1940-42 e 1945-48 viene chiamato a insegnare pedagogia nell’Istituto Universitario “Maria Santissima Assunta” della Città del Vaticano; inoltre dal 1945 al 1962 tiene un corso pareggiato di pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma. 67 Giovanni Gentile, Profilo di Giuseppe Pitrè, in Giuseppe Pitrè, Canti popolari siciliani, v. I, Roma, Società Editrice del Libro Italiano, 1940, introduzione, pp. X-XI. 68 Del Comitato fanno parte Maria D’Alia Pitrè, Giuseppe Cocchiara, Raffaele Corso, Paolo Toschi e, appunto, Nino Sammartano.
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dirla con il Gentile (Il tramonto della cultura siciliana, Firenze, Sansoni, 1963), s’era venuta spogliando del suo carattere regionale. Come prima si è detto, nessun nuovo impegno ebbe mai l’effetto di allontanare Sammartano dalle antiche e sempre nuove problematiche scolastiche. Anzi le nuove postazioni sembrarono agevolare e favorire i suoi interessi pedagogici. Semmai fu un evento tragico della storia italiana, la nascita della Repubblica Sociale e la divisione in due dell’Italia, ad affievolire ed annullare temporaneamente il suo rapporto con la scuola. Perchè Sammartano, come tanti italiani, nel 1943 fu posto davanti ad una drammatica lacerante scelta di natura politica, militare e psicologica. Che fare? Non rifiuta, alla fine, l’adesione alla Repubblica di Salò ma ancora oggi non si è in grado di sapere i motivi che lo spinsero ad aderire al nuovo Stato mussoliniano, peraltro in evidente e subitaneo debito di credibilità. Gli storici si interrogano sulle ragioni che portarono tanti italiani di diversa tempra culturale e morale a giocare una partita persa in partenza. Erano militari, intellettuali, ragazzi ancorati ai miti della guerra e della Patria, persone oneste oppure sanguinarie, nostalgiche o confuse, convinte o rassegnate alla ricerca della bella morte. Forse per scommessa, o per sentimento dell’onore; per gratitudine, per disperazione, per odio contro il capitalismo e il mondo borghese, per una sorta di corteggiamento della morte liberatrice. Ma Sammartano, come si è detto, non ha lasciato traccia di questa drammatica esperienza, preferendo insistere, nei molteplici interventi pubblici, sui motivi della sua scelta giovanile allo scoppio della prima guerra mondiale, senza minimamente lasciare intuire le ragioni di un’avventura travagliata in età adulta. Come se una memoria presbite gli avesse impedito di vedere con lucidità e distacco critico gli avvenimenti autobiografici più recenti, privilegiando quelli lontani. Ma non si può nemmeno escludere l’ipotesi che il suo pudore orgoglioso gli abbia impedito di rive-
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lare una fedeltà prolungata agli ideali risorgimentali sfibrati e infine negati dall’esperienza politica che egli stesso aveva alimentato e sostenuto.69 Qualunque sia stato il motivo della sua terribile scelta del 1943, va sottolineato comunque che la sua presenza all’interno delle strutture amministrative della Repubblica Sociale restò sempre confinata nell’ambito culturale – per come le circostanze consentivano – e mai tracimò nelle vicende operative della guerra civile del biennio di sangue 1943-45 (e della efferata appendice post-bellica). Quando si procede all’articolazione interna70 del Ministero della Cultura popolare (Decreto 6 novembre 1943, n. 438) il Ministro Mezzasoma, giovane dell’ala intransigente e devota a Pa69
Nino Sammartano, Guelfi e ghibellini - Francia o Spagna - Fascismo - antifascismo, in Nuovi saggi pedagogici, Urbino, Argalìa Editore, 1974, pp. 350356. Qualche volta, come si è in precedenza detto, Sammartano torna a parlare, in maniera alquanto succinta, sfumata ed indiretta, di fascismo ed antifascismo, storica prosecuzione delle liti degli italiani «divisi su due fronti o su due frazioni, ovvero su due barricate». Ma il fascismo era figlio della prima guerra, con una dottrina «che si può riconoscere in uno Stato accentrato o gerarchico o autoritario». Nella seconda guerra mondiale «il fascismo fu travolto ed annullato» e finì lì; «anche se molti adepti del fascismo, che qua e là nei lunghi vent’anni del suo corso si erano fatti suoi esegeti e maestri, passarono nelle file dei vari partiti costituitisi nella restaurata democrazia, il fascismo storicamente è finito». Ed è finito «anche se nuclei dispersi del vecchio regime ritrovarono tra le sue ceneri delle faville che potevano essere ravvivate». Ma attenzione, c’erano delle idee che non erano fasciste (la Patria, il lavoro «che non può nascere da una lotta accanita e continua delle classi, la pace sociale») che rispondono «ad esigenze storiche e politiche». Purtroppo, egli conclude, fascismo ed antifascismo restano due parole che ciascuno volta ed interpreta come meglio gli garba e gli conviene e secondo da quale punto di vista si colloca. Bisogna perciò uscire e superare il dilemma fascismoantifascismo. 70 Vittorio Paolucci, La stampa periodica della Repubblica Sociale, Urbino, Argalìa Editore, 1982.
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volini segretario del Partito Nazionale Fascista, non si dimentica di Sammartano, già funzionario di grado elevato. Lo nomina quindi Direttore Generale per gli scambi culturali,71 che inizialmente comprendono anche le questioni trattate dall’Ufficio razza (dal marzo del 1944 però questo Ufficio viene affidato a Giovanni Preziosi, alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio, cioè di Mussolini). Dalla sede del Ministero, a Palazzo Volpi di Venezia, egli ora può registrare giorno dopo giorno la lenta e disperata agonia della piccola Patria in cui era finito ristretto e il crepuscolo delle sue illusioni politiche dentro il fascismo. E probabilmente a Venezia decise di chiudersi nel suo lungo silenzio di vinto. Scampato per una serie di circostanze fortunose al tragico dopoguerra delle vendette e sormontate gradualmente le difficoltà economiche in cui era precipitata la sua famiglia, finalmente può attendere le faticose conclusioni delle epurazioni avviate dai vincitori. Non più
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Ora il ruolo di alta amministrazione politico-amministrativa nell’interno del Ministero porta inevitabilmente Nino Sammartano a confrontarsi spesso con personaggi di vario spessore culturale e di interessi editoriali e propagantistici non sempre realisticamente declinate con le drammatiche vicende belliche, finanziarie e diplomatiche del biennio 1943-45. Tra questi personaggi un posto a sè occupa Ezra Pound, ritenuto da qualcuno il grande fabbro della poesia moderna, con il quale Sammartano, proprio per il suo ruolo dirigenziale, ebbe ad intrattenere, a partire dal febbraio del 1944, una prolungata e faticosa corrispondenza (si veda in proposito il libro di Tim Redman Ezra Pound and italian fascism, N.Y., Cambridge University Press, 1991), Alla fine, nel gennaio del 1945, le edizioni popolari di Venezia, pubblicano di Ezra Pound il libro CHUNG YOUNG, l’Asse non vacilla di li a poco, con l’arrivo degli Alleati, mandato precipitosamente al macero per manifesta infondatezza dell’assunto, e forse anche per un disperato tentativo di cancellare qualche connivenza politico-editoriale. È curioso osservare, infine, che Nino Sammartano viene definito ispector of the radio for the RSI da Ronald Bush, autorevole professore di letteratura presso l’istituto di tecnologie della California e autorevole studioso di Ezra Pound.
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in fuga o nelle clandestinità, può finalmente riprendere l’insegnamento universitario.
La Società Editrice Siciliana e la svolta pedagogica Heri dicebamus, ma con accenti nuovi e senza soverchie illusioni. Magari con una rinnovata propensione nei confronti dell’attività editoriale sperimentata parzialmente per tanti anni. È così che Sammartano trova una sorta di saldo ancoraggio psicologico proprio nella terra madre mazarese. Nella città natale, nel 1946, ricomincia un’impresa editoriale che ancora oggi, nelle condizioni difficili dei tempi economici e politici di allora, non può che destare meraviglia. Con il sostegno di alcuni giovani e meno giovani concittadini (Nino e Franz Vaccara, Mario Barracco ed altri) e con un capitale sociale di appena 200.000 lire fonda la Società Editrice Siciliana (S. E. S.).72 Ne chiarisce subito l’intento: promuovere i valori della cultura siciliana, in sintonia però con quelli nazionali italiani. Naturalmente s’impegna subito a trovare un motto adeguato e una rappresentazione grafica di effetto immediato. L’esito alla fine appare brillante: una lampada accesa, posta sotto un carro siciliano in movimento, che illumina il verso dantesco “dopo sé fa le persone dotte”, che, com’è noto, si ritrova nel XXII canto del Purgatorio. Si tratta di quel canto in cui Publio Papiniano Stazio, autore della Tebaide e dell’Achilleide, spiega a Virgilio la sua redenzione dal peccato in 72
Nino Corleo, Quel catalogo della S. E. S., “L’Arco”, Mazara del Vallo, a. IV, n. 3, 1991.
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virtù proprio della sapienza e della poesia del suo interlocutore mantovano: «facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo di sé fa le persone dotte». C’è in questi versi, come ha osservato una volta Natalino Sapegno, una trepida malinconia nell’immagine del lampadoforo «che porta il lume dietro e sé non giova». Si potrebbe tentare qui un’interpretazione più estesa ed intrigante, quasi un messaggio criptico di un uomo tenacissimo come Sammartano, assai provato dalla vita e dalle delusioni e tuttavia ancora sensibile al tema della purificazione dal peccato politico attraverso una iniziativa editoriale non appiattita ad una sola dimensione culturale. Un Sammartano lampadoforo discretamente autobiografico, e pronto a confrontarsi questa volta con le diverse matrici della cultura del mondo, antico e moderno. Non inficia la saldezza del messaggio dantesco, e di Sammartano per riflesso, il fatto che ad esso in definitiva mancava il pregio dell’assoluta originalità visiva, avendone accennato in passato Cicerone, S. Agostino, Ennio, Onorio di Autun e Paolo Zoppo da Castello. È che in quel confuso e violento dopoguerra macchiato di sangue e di risentimento bisognava urgentemente esaltare il dovere del dotto nella lotta contro le tenebre dell’ignoranza, anche con il ricorso ad una semplice rappresentazione grafica della lampada a petrolio collocata sotto un carro siciliano dall’incerto e lento procedere. Per questo motivo assai diversi risultano i filoni di intervento editoriale, come del resto si può agevolmente riscontrare nelle copertine dei libri pubblicati e nei due cataloghi (del 1952 e del 1960) che è stato possibile rinvenire e consultare: storia, filosofia, testi per le scuole, poesia, teatro, teologia, demografia, eco-
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nomia.73 A volte però resta l’impressione di una certa casualità nella programmazione editoriale, al di là delle intenzioni dei direttori delle varie collane, tutti uomini di indubbio prestigio culturale (Biagio Pace, Calogero Di Mino, ecc.). Comunque sia, ben 150 titoli74 testimoniano di una vitalità favorita dal fervore culturale, mai più ripetuto, di una città come Mazara protesa nella fase ascensionale del suo sviluppo economico e civile. Tuttavia appare doveroso registrare che gli interessi professionali di Sammartano, in definitiva, restano sul Continente, a Roma e ad Urbino. Proprio in quest’ultima città, nel cuore del Montefeltro operoso e colto, egli dà vita nel 1951 ad un’altra iniziativa editoriale, la “Nuova Rivista Pedagogica”, che sino al 1980, quando cessa le pubblicazioni, diventa palestra di opinioni diverse e contrastanti sulla politica scolastica dei governi centristi e del primo centro-sinistra. Qualche numero appare addirittura come una specie di confessionale di tante persone in dialogo con i grandi pedagogisti del passato, dai quali si riteneva possibile ricevere preziosi alimenti e nutrimenti civili ed etici nell’Italia smarrita ed incerta del secondo dopoguerra. Ha modo di emergere in Sammartano sempre più frequentemente la preoccupazione 73
Il catalogo del 1952 è stato ristampato dall’Istituto Euro Arabo contestualmente al presente volume. 74 Tra i titoli più significativi, purtroppo riproposti in catalogo con qualche imprecisione, ci piace ricordare: - La guerra del Vespro di Michele Amari; Poesie di Giovanni Meli; Le poesie e un profilo di Ibn Hamdis (a cura di Francesco Gabrieli); ora in F. Gabrieli, Ibn Hamdis, Mazara del Vallo, Istituto Euro Arabo, 2000; Storia della matematica, dai primordi a Leibniz di Michele Cipolla; ora in M. Cipolla, Storia della matematica, dai primordi a Leibniz, Mazara del Vallo, Istituto Euro Arabo, 2001; Voci della città di Dio di Danilo Dolci; Memorie di Nunzio Nasi; Il cipresso alla riva di Gianni Di Stefano; Il caso di Sciacca di Ignazio Scaturro; Sicilia ed Inghilterra di Lina Whitaker Scalia; Alessio Di Giovanni di Carmelo Sgroi; Legislazione della scuola elementare di Francesco Bascone; La Sicilia spagnola di Virgilio Titone; Poesie di Pietro Fullone.
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per gli atteggiamenti permissivi ad oltranza, la perdita di autorità dei padri, l’oblio di antiche parole come severità, educazione, disciplina, mentre prende campo prepotentemente, in un contesto sociale deprivato di principi e valori, un vacuo, cieco ed inerte didatticismo. Per queste considerazioni gli sembra necessario ed urgente riprendere il discorso pedagogico sul rapporto maestroscolaro, con l’aiuto e i suggerimenti di autori che sentivano ai loro tempi le sue stesse preoccupazioni e i medesimi “bisogni” spirituali (Platone, Clemente Alessandrino, Tommaso d’Aquino, Rousseau, Lambruschini, Capponi). Non a caso allora, in un saggio apparso nel 1953,75 egli s’interroga sull’incontro dell’uomo con l’uomo, partendo dal presupposto che la pedagogia, pur avendo problemi specifici, apre le sue strade «nell’infinito mondo della cultura». Guai allora se l’indagine pedagogica perdesse di vista l’uomo nella sua unità e nei suoi fini che gli sono propri e cessasse di avere fiducia nelle sue facoltà «che nel largo rapporto col mondo storico sono in grado di salire ad una superiore vita morale e spirituale». In questo saggio, che può forse apparire privo di sistematicità, Sammartano chiama in aiuto, tra gli altri, G. G. Rousseau nel quale si realizza concretamente una pedagogia dei rapporti «ove la libertà, che è il fine dell’uomo, è una conquista che l’uomo stesso fa dell’incontro con l’uomo». Anche con Lambruschini Sammartano contrae un debito inconfutabile perché in questo autore si concentra tutta la pedagogia del Risorgimento italiano avendo inserito il problema educativo in una più ampia circolazione umana «che dalla scuola sale a tutta la vita
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Nino Sammartano, Il rapporto maestro-scolaro come problema fondamentale della pedagogia, 1953. Questo saggio verrà pubblicato, rivisto ed ampliato, all’interno del volume Teoria e storia di una pedagogia dei rapporti, Bologna, L. Cappelli, 1960. Alcuni capitoli poi sono stati utilizzati come testi di conferenze o come introduzioni ad alcune antologie pedagogiche.
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complessa dell’uomo». Da parte sua S. Tommaso d’Aquino,76 con il De Magistro e la Summa Theologica, è dell’avviso, secondo Sammartano, che l’insegnamento costituisce un atto attraverso il quale si svolge la vita spirituale, intellettuale e morale degli uomini , a condizione che l’insegnamento si svolga in armonia con i principi della Chiesa e nel rispetto delle facoltà “insegnative” dell’uomo. Ma bisogna fare attenzione. Esiste un’evidente analogia tra Dio e l’agricoltore: certo l’agricoltore non fa l’albero ma l’aiuta nel suo sviluppo vegetativo; così il maestro non fa lo scolaro in quanto uomo ma l’aiuta nel suo processo formativo. Ora si può fare a meno di questo o di quel maestro, mai del maestro perché la soluzione autodidattica è operazione difficile, faticosa ed incerta. In questa sua indagine egli ritorna spesso su Rousseau, il fantasma della democrazia autoritaria di derivazione giacobina, trovandosi spesso in sintonia, come quando sostiene che il maestro deve insegnare il mestiere di vivere all’alunno e la sua arte consiste nel sapere fare a tempo e luogo, intervenendo quando la sua azione è richiesta e può essere giovevole non per insegnare i pensieri ma per insegnare a pensare. C’è contraddizione perciò tra rispetto della libertà dello scolaro e l’insegnamento dottrinario ed ideologico, mentre libertà ed autorità si possono incontrare in un armonico rapporto da costruire con molta onestà intellettuale. Di Raffaello Lambruschini Sammartano in questa circostanza ama sottolineare la pratica del castigo, attraverso il quale l’alunno riconquista la sua libertà e il suo equilibrio interiore. Occorre però, per quest’atto chirurgico, vera medicina dell’anima, giusta misura e tempo appropriato, se si vuole raggiungere l’obiettivo di fare l’uomo idoneo a servire Dio, la società e la Patria. Purtroppo timori e preoccupazioni di Sammartano 76
S. Tommaso d’Aquino, Il Maestro, con introduzione e note di N. S., Mazara, S.E.S. (s. i. d.).
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non erano infondati, come dimostra la resistibile ascesa di una scuola diseducativa e violenta, spesso distesa sul conformismo e sul plagio ideologico, che si rispecchia in una società del disordine e del malcostume, senza maestri all’altezza morale di quelli evocati in queste ultime pagine.
Genesi e tempi dell’educazione stradale L’imponente sviluppo della motorizzazione civile, che caratterizza alcuni aspetti del cosiddetto “miracolo economico italiano” degli anni 50-60, incomincia a lasciare dietro di sé una drammatica scia di sangue sulle strade. Morti, deformazioni e mutilazioni del corpo di tante persone suscitano drammatici ed inquietanti interrogativi a pubblici amministratori, operatori sanitari, psicologi, giornalisti e semplici cittadini, impressionati ogni giorno di più dall’aumento degli incidenti stradali. Anche il mondo della scuola inizia a riflettere con insistenza crescente, spesso sotto la spinta di fattori esterni, sugli aspetti pedagogici del rapporto tra l’uomo, la strada e il motore. Qualcuno avanza l’ipotesi di introdurre nell’insegnamento una nuova disciplina, l’educazione stradale, che peraltro in qualche maniera era stata appena sfiorata nei recenti programmi d’insegnamento della scuola elementare del 1955 e che vagamente era contemplata all’interno dell’intervento sull’educazione civica del 1958 (un manifesto astratto, inerte ed inefficace e del tutto inconsistente sul piano operativo). Più che altro, in quel momento storico, l’educazione stradale diventa motivo di esercitazione elegante nei costosi convegni ospitati in amene località turistiche. Sammartano, come al solito, prende sul serio il nuovo richiamo che drammaticamente dalla società viene rivolto a tutto
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l’apparato educativo della scuola. Naturale quindi che si schieri, insieme a pochi altri pedagogisti, per un autonomo insegnamento dell’educazione stradale, purché collocata all’interno di una maturata riflessione scientifica. Anzi la circostanza gli suggerisce di affrontare quel dibattito ancora aurorale ed incerto in connessione sia con i suoi precedenti punti di vista pedagogici che con quanto, faticosamente e tra tanti compromessi, la politica scolastica italiana incomincia ad elaborare per le nuove generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale. Non crede più nelle palingenesi scolastiche e sociali e preferisce un sano scetticismo e un approccio empirico, almeno in via ordinaria, quando mancano forti richiami ideali e più vasti orizzonti culturali.77 E non manca di sottolineare, con amarezza e risentimento: «Ma da parte degli organi preposti all’educazione non si provvede, non si sa per pigrizia o per incomprensione, o perché altri maggiori e più assillanti problemi urgono nella nostra vita politica e sociale. Noi per molti aspetti, in Italia, abbiamo perduto la visione di una scuola di formazione, di educazione».78 «Tutti appresso alle nozioni ci lasciamo sfuggire quella che è la sostanza, cioè l’uomo».79 Non gli sfuggiva certamente l’importanza dei dati, delle informazioni e delle notizie: le nozioni, diceva, sono necessarie al conoscere e al costituirsi della persona, ma «a patto che via via si leghino a principi ed idee, inserite e via via inserentesi in un sistema organico ed unitario».80 Ma in una situazione politica e culturale incerta e tutto sommato sempre precaria sul piano degli ordinamenti scolastici, prima o poi l’Italia dovrà pur trovare un approdo soddisfacente: «Noi non sappiamo quali saranno le linee 77
Nino Sammartano, L’educazione stradale e i compiti dello Stato, “Noi e la strada”, Roma, a. X, 1960-61, VI bimestre. 78 Ibidem. 79 Ibidem. 80 Ibidem.
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fondamentali di una possibile prossima riforma della scuola. Per vari segni però dobbiamo pensare che alla scuola, pur proclamata scuola d’istruzione, vorrà anche darsi un contenuto e una finalità educativi … Se la scuola tradisce questo bisogno umano non merita più il nome di scuola».81 In questa scuola, sostanzialmente senza un centro unitario e dove tutto è spezzato nelle varie materie, il nuovo che si manifesta come necessario purtroppo lacera e rompe «ogni legame con l’antico», quasi che fosse nocivo alla nostra stessa educazione. È il caso appunto dell’educazione stradale, affrontata nelle aule con atti sporadici e marginali mentre l’impressionante numero degli incidenti stradali, frutto spesso di intemperanza e scarsa educazione, reclama ed impone un rapido intervento della scuola. Sammartano confessa che prima ignorava l’esistenza del problema,82 particolarmente difficile e complesso, e che comunque «può avere una possibile soluzione solo nell’educazione, e perciò nella scuola», che è la sola istituzione capace di provvedere alla sistemazione del sapere. Ma attenzione: mancano ancora programmi e orari di questa nuova materia, complementare all’educazione fisica, condotta non in mezzadria con gli altri insegnanti («un insegnamento che sia opera di tutti gli insegnanti finisce per non essere di nessuno»). Però tutti gli altri insegnanti, nell’organizzazione sistematica della scuola e quindi del sapere, non sono elementi estranei o passivi perché è compito di tutti tutelare e salvaguardare l’anima dai contatti spesso non buoni e, nello stesso tempo, il corpo. L’uomo ha inventato la macchina e la velocità, ma quest’ultima non può essere un’arma. Va piegata invece alle necessità e al bene degli uomini, in uno sforzo di 81
Ibidem. Nino Sammartano, introduzione a L’uomo e l’ambiente. Le strade sono piene di sangue. Cinque saggi per l’educazione stradale, Roma, Edizioni Nuova Rivista Pedagogica, 1961. 82
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conciliazione con la strada (Socrate discuteva con i suoi interlocutori proprio sulla strada; D’Annunzio cantava la «deserta bellezza di Ferrara con le sue strade piane, grandi come fiumane”, e “quel loro silenzio ove stanno in ascolto tutte le porte»). Quindi a questa nuova disciplina d’insegnamento non può mancare l’apporto scientifico degli altri docenti per affrontare complessi aspetti culturali, tecnici, giuridici, educativi e morali, nella consapevolezza tuttavia che una siffatta questione non può risolversi con una somma di informazioni (il catechismo non fa il cristiano né la precettistica morale fa l’uomo morale). L’insegnante d’italiano perciò insisterà con la lettura di prose e poesie sulla strada mentre quello di storia e geografia s’intratterrà sulle strade antiche o di come si viaggiava una volta; il docente di educazione artistica potrà far disegnare strade alberate, cartelli infortunistici, semafori, e quello di educazione tecnica farà costruire palette di segnalazione; gli insegnanti di scienze e di geometria potranno parlare del motore, della benzina, del gas, dei costi del carburante, delle distanze. E così via, in un intreccio di materie che, come gli amanti dell’Inferno dantesco, mai si potranno “separare o disgiungersi”. In questo sforzo «di fondare un programma» di educazione stradale,83 Sammartano sembra ritrovare una superiorità da antiche e tumultuose esperienze politiche, didattiche e pedagogiche. Non ripete ancora l’alternativa Roma o Mosca. Preferisce semplicemente affermare: «Ancora oggi tutte le strade conducono a Roma, perché Roma non può essere che simbolo di pace e di fratellanza. La scuola impegnata in questo compito di educazione morale può e deve far sì che – dopo due lunghi ed immani conflitti – su tutte le strade che ancora portano a Roma, gli uomini
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Nino Sammartano, Necessità dell’educazione stradale e suo incontro con l’educazione fisica, “Noi e la strada”, a. X, IV bimestre, 1960-61.
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s’incontrino e si avvicinino per suscitare la vita, la prosperità, il lavoro».84
Ritorno ai classici: il ruolo del teatro antico Senza alcun dubbio la direzione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (I. N. D. A.), di cui fu Commissario straordinario a partire dal 1952, costituì una fase molto importante per l’inserimento attivo di Sammartano nella politica culturale italiana del secondo dopoguerra. Dirigere una prestigiosa istituzione come l’Inda, che a Siracusa aveva mosso i primi passi nel 1914, significava per lui rinnovare il messaggio di poesia e d’arte che l’antica tragedia greca di Eschilo, Sofocle ed Euripide recava con sé attraverso rappresentazioni che suonavano del tutto contemporanee al cuore e alla mente di migliaia di spettatori attenti e partecipi. Non si trattava di riscoprire nel senso letterario o filologico o storico quei testi superstiti del dramma antico greco e gli altri legati al teatro comico, o alla stessa ricca tradizione in lingua latina, ma di riproporre un vasto repertorio teatrale spettacolare in un fecondo «contatto con il popolo».85 Certamente a Siracusa, ma anche a Palazzolo Acreide, Selinunte, Urbino, Pompei, Ostia antica, Tindari, Taormina, Gela, Agrigento, Segesta, Palermo, Fiesole, Roma, Padova, Vicenza, Luni, Gubbio e Trieste. Perché, scriveva allora Sammartano, lo spettacolo classico «richiama a sé come ad un rito 84
Nino Sammartano, Studio e programmi d’insegnamento dell’educazione stradale. Relazione pronunciata nel ciclo di studi per ispettori scolastici delle scuole elementari, Ischia, 13-20 aprile 1959. 85 Nino Sammartano, Gli spettacoli classici in Italia: 1914-1964. Urbino, Argalìa Editrice, 1965, p. 5.
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il popolo nei suoi strati più diversi e più vari: dall’operaio all’erudito, dal maestro ai contadini».86 In questo rito collettivo è presente uno sforzo culturale inteso a cogliere il «peculiare segreto» della popolarità del teatro antico, greco e romano, perché anche se muore Giove, l’inno del poeta resta per sempre, con la sua drammaticità oppure con la sua irrefrenabile comicità, continuando a parlare anche alla coscienza moderna. Giacché lo spettacolo antico non è cronaca o racconto di fatti ma «manifestazione di tipi, di simboli, che nella loro fissità stanno quasi ad indicare, con il valore e la misura di una civiltà, la voce stessa, l’espressione dell’animo umano nei suoi bisogni più profondi e più radicati al suo stesso essere».87 Non a caso, quindi, al teatro antico si ispirarono D’Annunzio, Molière, Hebbel, Brecht, Kleist, Goethe, Racine, Cocteau, Giraudoux, O’Neil, Hoffmanstal e tanti altri, atteso che «l’uomo non ha dato una risposta ai molti interrogativi che la coscienza greca si era posta».88 Anche se lo spettacolo antico si rivolgeva nello spazio e nel tempo agli spettatori di allora – pur se ispirato ad un mito remoto – non si può negare che quasi per magia tutto appare contemporaneo anche a distanza di secoli. Forse perché «la tragedia cade nella sua parabola verso la catastrofe con il cadere e il morire del giorno» e «tutta l’umanità par che si fissi a quella vicenda che l’autore ha saputo cogliere nell’acme della sua crisi in una mirabile ed inscindibile unità e pare che tutto, cielo, aria, sole, e la natura stessa, si pieghi su quella vicenda e vibri con essa». Anche nel campo, invero assai più ristretto, della commedia Sammartano rivela attenzione penetrante e atteggiamenti comunque sicuramente lontani da ogni forma di compiacimento volgare nei confronti degli spettatori. Nessun disimpegno banale anche quando 86
Ibidem. Ibidem. 88 Ibidem. 87
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si mettono in scena le opere più significative di Aristofane, Le nuvole, La pace e Le donne in Parlamento. Perché Aristofane, anche quando si nega ad un linguaggio castigato, resta pur sempre il poeta delle istanze morali, politiche e religiose, lodatore sconfitto del tempo e dei costumi di una volta (ordine, disciplina, senso dello Stato, antica educazione «che aveva preparato e dato gli eroi di Maratona»), mentre trionfano dappertutto corruzione e relativismo etico. Unica uscita di sicurezza, in questo contesto degradato, resta la satira feroce contro tutti e, quando capita, l’ironia cruda e il sorriso amaro come grido di verità di fronte alla moltitudine che la nega. Singolare metamorfosi morale di un autore che, con un linguaggio peculiare, da poeta comico diventa tragico. Non è difficile immaginare l’identificazione di Sammartano con queste parole, mentre nella società nazionale incominciavano ad affermarsi pulsioni egoistiche e condotte civili non incensurabili. Anche Le donne in Parlamento gli fornisce lo spunto per rifiutare con fermezza «l’impostazione tutta di ordine razionale della società platonica», dove impulso, sentimenti, amori, passioni vengono banditi a favore di semplici e primitive funzioni biologiche. La commedia è, in definitiva, «una satira alla società comunista negli aspetti, si capisce, più semplici e primordiali come li poteva vedere la coscienza antica».89 L’ammasso delle ricchezze non dà che un misero povero piatto a ciascuno e i beni in comune portati allo Stato sono preda dei più furbi e il libero amore si riduce in una beffa. In linea con questa conclusione appare quindi l’annotazione di Sammartano: «Commedia anche questa restauratrice di un ordine naturale e perciò razionale, di una razionalità pratica ove la pura ragione astratta aveva portato disordine, confusione, squilibrio». Anche in un testo come Le Troiane si ritrovano le stesse ansie e gli stessi sentimenti della coscienza moderna, e si unificano infine in una sola disperazione: la Patria perduta, la gente dispersa, la ser89
Ibidem.
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vitù, l’obbrobrio, l’ignominia. E allora non è difficile cogliere, nel valore eterno e catartico della grande tragedia greca, cicatrici di ferite mai rimarginate nel cuore di Sammartano. Invece è nell’Edipo Re di Sofocle che egli manifesta il valore in precedenza sottaciuto della libertà: Edipo, fatto cieco per il peccato, diventa ora consapevole «che dove non c’è libertà non ci può essere responsabilità o colpa, né peccato. E la sua anima si ricongiunge con Dio».90 L’anima umana, lacerata alla radice dal dolore e dal mistero della vita, può trovare conforto nel dono di sé agli altri, nella solidarietà e nell’amore, come suggerisce il Teseo della tragedia Eracle furente che odia «gli amici dove invecchia la gratitudine», giacché gli «amici veri sentono se gli dei ci sono funesti». Questo valore assoluto dell’amicizia risulta avvertito o rimpianto da Sammartano, che tante volte lo ripropone nei suoi scritti. Come quando ricorda l’incontro di Renzo (I promessi sposi, capitolo XXX), tornato al suo paese durante la peste, con un amico desolato che non vedeva da tanto tempo: ai due «eran toccate di quelle cose che fan conoscere che balsamo sia all’amico la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri». Del resto Sammartano, in maniera più diretta, dopo il 1945, aveva avuto modo di sperimentare sia il comportamento di chi «non cura navigare con lui nella sfortuna», e sia quello dell’amico per il quale non invecchia la gratitudine. Vanno ricordate, infine, alcune iniziative nell’ambito della valorizzazione dell’Inda: i convegni di studio, la pubblicazione della rivista Dionisio, la scuola di perfezionamento nel settore dell’archeologia classica (d’intesa con l’Università di Catania) e le memorabili Orestiadi degli anni ’60 con l’incontro tra Pier Paolo Pasolini e Vittorio Gassman.
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Ibidem.
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Interventi sommessi e polemiche rispettose Innumerevoli davvero sono gli interventi di Sammartano sui vari temi che la prassi scolastica, le sollecitazioni editoriali, le agitazioni studentesche e sindacali, le riforme scolastiche straniere, lo sviluppo del sistema economico e le sue ripercussioni sulla scuola, la progressiva perdita di ruolo dei docenti e del sistema formativo italiano, la disgregazione dei nuclei familiari, l’eclisse dell’autorità e della meritocrazia pongono incessantemente ad un’opinione pubblica spesso disorientata o distratta. Ma non è possibile, in questa occasione, riportare per esteso il suo pensiero, che manifestava dalle pagine della sua rivista. È indicativo comunque qualche spunto sui temi pedagogici recenti, molto spesso rivestiti con abiti di modernità impropria dai “nuovisti” ad ogni costo, soprattutto se il costo ricadeva sugli alunni e sulla società. Dinanzi all’enfasi sull’attivismo pedagogico sbandierato in tutte le salse didattiche, Sammartano, ad esempio, preferisce ricondurre la questione piuttosto all’antica tradizione che, almeno in alcuni principi, va da Platone sino al Pestalozzi:91 vera educazione, vero sapere, è ciò che noi acquistiamo, partendo dal centro del nostro spirito, anche dalla nostra diretta esperienza, dall’osservazione diretta, dalla ricerca personale, dalla stessa attività manuale. Gli occhi e le mani, più che l’udito, perciò contribuiscono all’apprendimento e l’esperienza infine ammaestra meglio dei precetti predicati. Contrariamente a quanto pensa tanta gente imbevuta di “nuovismo”, il sapere nel pensiero antico della pedagogia è un atto della diretta ricerca del fanciullo, che così segna al suo attivo una personale conquista intellettuale e 91
Nino Sammartano, Nota sull’attivismo pedagogico. Valore attivistico della nostra tradizione pedagogica, “Nuova Rivista Pedagogica”, a. I, n. 2, agosto 1951.
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culturale. Sotto questo profilo allora si può affermare che la scuola attiva è virtualmente sorta persino nella tradizione di G. G. Rousseau. Sempre nel 1951,92 fingendo di scrivere ad un amico lontano, egli si confronta su un progetto di riforma dell’istruzione secondaria di secondo grado, che peraltro ancora oggi risulta largamente irrisolto.93 Nella lettera egli si dichiara d’accordo, soprattutto «con l’organamento e la visione della scuola secondaria articolata in 3 tipi diversi di scuola, la normale, la tecnica, la classica, differenziate in vista di una loro diversa finalità, pur nella possibilità di reciproca integrazione». Il progetto, com’è noto, fece naufragio in Parlamento, come tanti altri in seguito. Ma quello che si vuole sottolineare è che nella lettera Sammartano affronta il delicatissimo e controverso tema della libertà nella scuola e della scuola, e s’intrattiene sull’equivoco della libertà: «anch’io penso che la scuola debba essere libera, perché, e l’abbiamo detto anche in altre epoche, la scuola senza libertà non è scuola, perché dire scuola vuol dire spontaneo farsi ed attuarsi dello Spirito, il quale non si fa e non si attua che nell’assoluta libertà di se stesso, in quanto in sé è se stesso». Ma la libertà non cammina da sola e può vivere soltanto con il principio di autorità, perché in definitiva lo Stato non è un’azienda amministrativa (tanti ancora oggi ripetono acriticamente che la scuola è un servizio!), ma qualcosa di più solenne e più grande, con cultura e 92
Nino Sammartano, Un equivoco. Libertà nella scuola e della scuola, “Nuova Rivista Pedagogica”, a. I, n. 3, novembre 1951. 93 Chi scrive queste note ricorda ancora il cortese invito rivoltogli proprio dal Sammartano, nella qualifica di Presidente dell’Associazione per la diffusione della cultura, al fine di intrattenere nella giornata del 30 aprile 1977, nei locali del Circolo Mokarta di Mazara del Vallo, un vasto e composito uditorio interessato ad esaminare il testo di un nuovo disegno di legge sulla riforma dell’istruzione secondaria di secondo grado. Utopia o realtà Sammartano aveva voluto intitolare significativamente il testo della conversazione!
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tradizioni. Perciò libertà nelle scuole ma a condizione che la libertà si cali in alcuni fondamentali principi «ove risolvendosi riconosca la responsabilità del suo operare».
“Il bel Gorgorosso” di Mazara: Sammartano pellegrino torna a casa Chi ha scritto queste note non è sicuro di aver ricostruito, per restare all’interno del vocabolario di F. Gregorovius, un “carattere” autentico e preciso. È certo tuttavia di aver sottratto Sammartano ad una sorta di tribunale della storia che giudica in contumacia per pregiudizio ideologico, magari senza nulla sapere di un uomo che ci sta davanti ormai come un’ombra. Al di fuori di qualsiasi interpretazione manichea si è cercato di sfuggire alle tentazioni volte alla demonizzazione del personaggio come anche alla ricostruzione angelicata ed acritica. Luci ed ombre, illusioni ed errori, slanci ideali e tardive riflessioni di un carattere ardimentoso e di un intellettuale del Novecento sono confluiti in una biografia complicata nella quale non tutti i momenti significativi hanno potuto trovare spazio e spiegazione. Resta la soddisfazione di aver cercato di rappresentare ciò che è vivo e ciò che è morto nel pensiero di una persona che ha attraversato le tragedie del Novecento da uomo capace di vivere intensamente la sua avventura intellettuale e morale sulla terra. E pare allora non privo di significato terminare con un frammento lirico di Sammartano, “un atto di fede”, quasi un epitaffio: ATTO DI FEDE (frammento lirico) Ecco sul mar d’Africa
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il mio bel Gorgorosso. Tra scirocco e tramontana mentre sbatte la risacca la mia torre di ponente dice a quella di levante: “Bon tempo e malo tempo non dura tutto tempo”.∗ Noi siam fatte, si, di pietra ma su, alla vetta, c’è un’idea, io mi tengo stretta all’Orsa, tu sta ferma alla Polare. Sono stelle e son di Dio. E se il mondo si inabissa nella turpe sua follia, ogni fede s’abbia a Lui Lui ci ponga la sua mano. Cessa il pianto. Torna l’uomo alla sua casa, una barca è alla marina, dalla terra sorge un canto. Cade il velo della notte chiaro spunta già il mattino. Nino Sammartano 2 aprile 1972 - Pasqua di Resurrezione
∗
sentenza siciliana o – forse – mazarese.
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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Pubblicazioni di Nino Sammartano
- Lionello Fiumi, studio critico, Palermo, Santi Andò Editore, 1922. - La Sicilia fuori della Rivoluzione Fascista, Pisa, “La Rivoluzione Fascista”, 1924. - La Nazione e la sua orma (Scritti politici), Pisa, “L’Idea Fascista”, 1924 - Emilio De Marchi (saggio critico), Palermo-Roma, Remo Sandron Edit. Tip., 1926. - Un democratico contro la Democrazia. Francesco De Sanctis e la crisi del liberalismo italiano nella seconda metà dell’Ottocento. Milano, stampa in proprio, 1928. - La scuola Media e il Fascismo, Roma, “Critica Fascista”, 1930. - Poesie scelte di Giovanni Meli, introduzione ed esplanazione in prosa, Milano, Carlo Signorelli Editore, 1930. - Arnaldo Mussolini, Pescara, L’Adriatico, 1932. - Idee e problemi della rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1932. - Prefazione a Leonardo Bonanno L’urbanesimo in Sicilia, Adria, “Tempo nostro”, 1934. - La funzione della scuola media in Italia dalla Marcia su Roma, Roma, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Serie quinta III-IV, 1935. - Meditare la storia, Adria, Arti Grafiche A. Zanibelli, 1935.
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- Corso di cultura fascista: ad uso delle scuole medie, prefazione di Giuseppe Bottai, Firenze, F. Le Monnier, 1935 e 1939. - Giovanni Meli, In occasione delle onoranze ai grandi siciliani, estratto da “Il libro italiano”, Roma, Casa Editrice Ulpiano, fascicolo V, maggio 1939. - Antologia per le scuole dell’Ordine Medio, a cura di Domenico Fares e Nino Sammartano, Palermo, Ed. Ciuni e Trimarchi, 1940. - Traduzione di L’antireligione comunista: 1917-1939 di J. De Bivort de La Saudee, Milano, F.lli Bocca, 1940. - Il mondo del Meli, Palermo, Palumbo Editore, 1941. - Il lavoro Manuale nelle scuole elementari di Pasquale Villari, nota introduttiva, Urbino, Argalìa Editore, 1943. - Fanciullezza dei grandi: Scritti autobiografici per la gioventù, a cura di, Roma, F. Cinni, 1944. - Introduzione a Scritti pedagogici di Raffaello Lambruschini, Padova, Cedam, 1946. - Introduzione a Giacomo Tauro: la sua vita e il suo pensiero di Giovanni Impedovo, Mazara, Società Editrice Siciliana, 1946. - I pedagogisti dell’età umanistica, Mazara, Società Editrice Siciliana, 1949. - Introduzione e note a Il Maestro di Tommaso d’Aquino, Mazara, Società Editrice Siciliana, 1949. - Un equivoco. Libertà nella scuola e della scuola. Discorso intorno al progetto di riforma scolastica, Urbino, “Nuova Rivista Pedagogica”, a. I, n. 3, novembre 1951. - Commemorazione di Giacomo Tauro, Roma, “Nuova Rivista Pedagogica”, a. II, n. 3, settembre 1952. - Al di là del Problematicismo Pedagogico. Verso la sintesi pedagogica, Urbino, Steu, 1952. - Crisi e problemi della scuola. Decadenza e rinascita della scuola italiana, Urbino, Steu, 1953.
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- Il rapporto maestro-scolaro come problema fondamentale della pedagogia, Mazara, Società Editrice Siciliana, 1953. - Per una pedagogia dei rapporti. Educazione “nuova” e tradizione e l’equivoco del Cousinet, Urbino, Argalìa Editore, 1954. - I Maestri di Porto-Reale, Mazara, Società Editrice Siciliana, 1956. - Educazione nuova e tradizione. Idee e problemi di pedagogia contemporanea, Roma, “Nuova rivista pedagogica”, 1958. - L’educazione stradale come insegnamento a sé. Criteri organizzativi, Roma, 1959. - Scritti pedagogici di F. De Sanctis, a cura di N. Sammartano, Roma, Armando Editore, 1959. - L’uomo e l’ambiente: Le strade sono piene di sangue: cinque saggi per l’educazione stradale, Roma, “Nuova rivista pedagogica”, 1961. - La pedagogia di Rousseau e i presupposti della scuola attiva, Marsala, 1962. - Cinquant’anni di spettacoli classici in Italia, Marsala, Grafiche G. Corrao, 1962. - Introduzione e note al Menone di Platone, Urbino, Argalìa Editore, 1964. - Gli spettacoli classici in Italia: 1914-1964, Urbino, Argalìa Editore, 1965. - Introduzione agli scritti pedagogici di A. Gabelli, Urbino, Argalìa Editore,1965. - Profilo della vita e dell’arte di G. Meli, saggio riportato nel volume Studi in memoria di Carmelo Sgroi. (1893-1952), Torino, Bottega d’Erasmo, 1965. - Introduzione al Teeteto o della conoscenza di Platone, Urbino, Argalìa Editore, 1966. - Introduzione e note a Scritti pedagogici di Raffaello Lambruschini, Urbino, Argalìa Editore, 1966.
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- Teoria e storia di una pedagogia dei rapporti, III ed., Urbino, Argalìa Editore, 1967. - La restaurazione dell’uomo in Rousseau ed altri saggi e questioni di pedagogia, Urbino, Argalìa Editore, 1967. - Il piano annuale di lavoro, Scuola di base, Roma, 1967. - Discorso inaugurale del III Congresso Internazionale di Studi sul Dramma Antico, Roma-Siracusa, Istituto nazionale del dramma antico, 1969. - Nota sulla riforma degli esami di Stato, Urbino, Steu, 1969. - Il XXI ciclo di rappresentazioni classiche nel teatro greco di Siracusa, Roma, 1970. - Il principio dell’interiorità nella visione pedagogica di Agostino, estratto da Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura, Urbino, 1971. - Scuola “chiusa”, in “Nuova rivista pedagogica”, Roma, febbraio 1972; poi in “Nuovi Saggi pedagogici”, Urbino, Argalìa Editore, 1974, pp. 117-127. - Nuovi Saggi pedagogici: la scuola tra contestazione e restaurazione, Urbino, Argalìa Editore, 1974. - Note sull’attivismo pedagogico, Urbino, Steu, 1975. - Odissea, a cura di, Catania, (s. i. d.).
P. S. Si omettono gli innumerevoli articoli apparsi su riviste e quotidiani.
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Riferimenti bibliografici
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- Giuseppe Inzerillo, G. Bottai e la sua riforma a Ferrara. Dalla Carta della scuola alla scuola di carta, Ferrara, Corbo Editore, 1996. - Giuseppe Inzerillo, La scuola a Ferrara dal 1920 al 1940. Dall’idealismo autoritario al totalitarismo imperfetto ed incompiuto, Ferrara, «Quaderni della Dante», 2005. - Mario Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979. - Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Bologna, Il Mulino, 2007. - Pietro Lauro, Classe dirigente, mafia e fascismo (1920-1924), Palermo, Sellerio Editore, 1988. - Emilio Lussu, Un anno sull’altopiano, Parigi, Edizioni Italiane di Cultura, 1938 (e poi Roma, Einaudi, 1945). - Emilio Raffaele Papa, Fascismo e cultura, Venezia-Padova, Marsilio, 1974. - Edmondo Rossoni, Le idee della ricostruzione. Discorsi sul Sindacalismo fascista, Firenze, Bemporad e figlio editori, 1923. - Sandro Setta, Profughi di lusso. Industriali e manager di Stato dal fascismo all’epurazione mancata, Milano, F. Angeli, 1993. - Tina Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1969. - Gabriele Turi, Lo Stato educatore, Roma-Bari, Laterza, 2002. - Hans Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia. 194348, Bologna, Il Mulino, 1997. - Gioacchino Volpe, Storia del movimento fascista, Milano, Ispi, 1939.