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Castelli, Raffaele <1838-1919> Dell’immaginario popolare: scritti vari (1882-1906) / Raffaele Castelli; a cura di Antonino Cusumano - Mazara del Vallo: Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, 2010. 1. Sicilia – Usi e costumi. 2. Folclore – Sicilia. I. Cusumano, Antonino 390.09458 CDD-21 SBN Pal0222942 CIP – Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

© 2010 Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, Mazara del Vallo. Raffaele Castelli, Dell’immaginario popolare. Scritti Vari (1882-1906).


INDICE

Nota introduttiva di Antonino Cusumano Nota del curatore Di un mito moderno. Vincenzo Catinella. Salta le viti Il giuoco fanciullesco ‘a la tortula’ Altri giuochi Formule sanatorie e orazioncelle diverse in Mazzara Modi di dire e consuetudini religiose del popolo Leggende d’impronte maravigliose Leggende bibliche e religiose di Sicilia Leggende evangeliche e devote

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APPENDICE Anonimo, Massime e proverbii morali Tip. Luigi Ajello Mazara 1854.



Nota introduttiva Pitrè e l’antropologia sono stati a lungo in Sicilia, ma non solo in Sicilia, una cosa sola. Tra i fondatori più illustri degli studi italiani di tradizioni popolari, Pitrè ha dato un formidabile e decisivo contributo alla definizione statutaria di quella “demopsicologia” da cui muove la storia del folklore. Nessuno prima di lui – e, in verità, nessuno dopo di lui – è riuscito a dare testimonianza così ampia e sistematica al patrimonio demologico raccolto. Pochi studiosi possono vantare come Pitrè il privilegio di essere identificati come “padri fondatori” della disciplina cui hanno dedicato l’impegno intellettuale di una vita intera. Atlante straordinario dell’universo culturale e folklorico della tradizione siciliana, l’opera monumentale di Giuseppe Pitrè attraversa tutto il complesso delle espressioni e delle manifestazioni della vita popolare e rappresenta una grande e inimitabile impresa scientifica, un ineludibile e fondamentale modello di riferimento per tutti gli studiosi ma anche per i dilettanti che si sono nel tempo cimentati in questo campo destinato ad essere fecondo di frutti e di sviluppi teorici e metodologici. Quanto, prima di Pitrè, veniva rubricato come curiosità, erudizione, idealità sentimentale e vago interesse romantico diventa nei venticinque volumi della sua ciclopica Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane progetto organico e consapevole, autonomo e unitario oggetto di indagine. È appena il caso di ricordare che all’immenso archivio dei materiali e dei documenti etnografici pazientemente


8 recuperati dal medico palermitano hanno attinto numerosissime generazioni di demologi o di semplici illustratori del folklore locale. La Sicilia ha conosciuto un vero profluvio di “nipotini del Pitrè”: corrispondenti periferici che hanno intrattenuto proficui rapporti di collaborazione con lui; allievi che hanno raccolto, approfondito e sviluppato la difficile e ingombrante eredità delle sue ricerche; epigoni che hanno adottato e replicato i suoi schemi di rilevazione e le sue categorie di classificazione, con esiti che variano dalla buona divulgazione alla sterile ed estenuata imitazione. Lungo le direttive tracciate dall’opera pitreana si è formata un’amplissima e originale letteratura specialistica, una solida tradizione scientifica di studi demologici, ma anche una “folkloristica locale e diffusa” che, pur nei limiti delle debolezze speculative e nella frammentarietà del generale impianto teorico, ha tuttavia avuto il merito, se non altro, di produrre un vasto patrimonio documentario e di far da efficace contrappunto a certe storie patrie retoriche ed enfatiche. I vari e diseguali contributi che sono stati elaborati in nome e all’ombra del Pitrè, soprattutto nella prima metà del XX secolo, hanno costituito i mille piccoli tasselli necessari per ricomporre il complessivo mosaico della conoscenza antropologica della Sicilia tradizionale. A guardar bene, sono riconducibili a Pitrè almeno due precisi e, per certi aspetti, opposti orientamenti scientifici, indirizzi di studio ma anche atteggiamenti ideologici ovvero semplici disposizioni intellettuali. Dialetticamente compresenti nelle diverse opere dello stesso etnografo palermitano, queste due anime culturali nell’oltrepassare l’orizzonte ottocentesco percorreranno buona parte delle vicende storiche della demologia siciliana, giungendo fino al nostro tempo attraverso segrete diramazioni carsiche o in forme solo apparentemente nuove. Da un lato, l’idea del folklore rimasta romanticamente associata al “senso comune” delle radici identitarie sembra risalire a quel popolari-


9 smo sentimentale, nutrito di geloso e orgoglioso regionalismo, che ha prodotto e riprodotto all’infinito, con innumerevoli varianti, il mito di un popolo depositario di antiche saggezze e di virtù superiori. A questo filone appartiene una eterogenea e sterminata letteratura tanto più caduca quanto più largamente inficiata dai cliché dell’idoleggiamento sicilianista e dagli schemi di una rappresentazione prevalentemente morale ed estetica del mondo folklorico. Dall’altro lato, la cultura tradizionale può essere identificata come arcaismo, sopravvivenza, in un’ottica sostanzialmente neoevoluzionistica o neostoricistica, qualcosa a cui continuare a guardare con gli strumenti e i modelli di classificazione di matrice positivista o con le sperimentate tecniche del comparativismo spaziale e temporale. Il popolo in questa versione è ancora “volgo” irredimibile, conservatore e superstizioso, chiuso entro una dimensione sociale immobile ed esente da conflitti. Nell’una come nell’altra linea di ricerca demologica la materia popolare oggetto di studio è quasi sempre stata la stessa: le tradizioni orali cantate e non, le testimonianze letterarie, le credenze e gli usi consuetudinari che meglio si prestavano alla rappresentazione di una certa Sicilia da celebrare, di una certa immagine mitica da ribadire. Su questi temi ed entro questi repertori si sono adoperati con onesti e rigorosi lavori di scavo e di ricognizione frequentatori non occasionali del folklore, studiosi seri e metodologicamente scaltriti, acuti e originali intellettuali delle province più remote, nonché una larga massa di raccoglitori più o meno improvvisati, di scrupolosi o generici compilatori, di collezionisti di bizzarrie ovvero semplici dilettanti, «manovali onesti e attenti anche se valorosi»1. La verità è che le tradizioni popolari sono state − e per alcuni versi sono ancora stimate − disci1

G. Cocchiara, Storia del folklore in Italia, (1947), n. ed. con una nota di A. Cusumano, Sellerio Palermo 1981, p. 174.


10 pline marginali, tutto sommato “periferiche” nel panorama delle scienze umane, e per questo aperte al contributo di quanti, pur sprovvisti di specifici saperi critici, mostrano comunque un qualche interesse o una certa sensibilità per il mondo che indagano e descrivono. Nel novero dei collaboratori di Giuseppe Pitrè, corrispondente e suo amico personale, il mazarese Raffaele Castelli (1838-1919) fu significativa figura di intellettuale, folklorista tra i più rappresentativi e avvertiti nel panorama degli studiosi della disciplina e del tempo in cui visse. Non un “nipotino”, dunque, di Pitrè, ma un suo contemporaneo, un fedele estimatore, un umanista stimato e appartato che tuttavia ha dialogato con gli ambienti culturali nazionali ed europei più avanzati e prestigiosi. Con Pitrè ha intrattenuto un lungo e assiduo rapporto epistolare2, che dal 1876 si protrasse con qualche interruzione fino al 1910. Sotto la guida del padre fondatore della demologia italiana, Castelli ebbe modo di collaborare fin dal primo numero con quel glorioso Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, che poteva vantare le prestigiose firme di Sebillot e Muller tra gli stranieri, e di Michele Barbi e Benedetto Croce tra gli italiani, rappresentando in Europa la terza grande iniziativa editoriale, dopo la francese Mèlusine e l’inglese Folk-Lore Record, nati rispettivamente nel 1877 e nel 1879. La rivista fu, in verità, nei suoi ventisette anni di vita (fino al 1909), palestra e scuola per i folkloristi del tempo, e Pitrè fu per loro il maestro autorevole e indiscusso, il sicuro punto di riferimento, il modello teorico e metodologico a cui ispirarsi, 2

L’epistolario Castelli-Pitrè si conserva presso la Biblioteca del Museo Pitrè di Palermo, ai segni P-A-3, consta di 91 lettere, la maggior parte delle quali risale al periodo 1876-1883. Sono depositate soltanto le lettere autografe dello scrittore mazarese, essendo andate disperse le risposte che Pitrè gli inviò. Sulle Lettere di Raffaele Castelli a Giuseppe Pitrè cfr. la tesi di laurea di M. G. Costa, (rel. G. Bonomo), Università di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1969-1970.


11 l’anello di congiunzione con le istituzioni culturali e con le industrie di stampa. «Nell’Archivio si formò una coscienza scientifica, mediante la quale fu possibile arricchire le cognizioni regionali portandole ad un livello comune: il più alto concesso dalle conoscenze di quegli anni»3. In un’epoca e in una regione in cui i mezzi d’informazione e di trasporto erano lenti e precari, i folkloristi siciliani crearono una solida rete di relazioni reciproche, un efficace sistema di comunicazione e di aggregazione mediante il quale, in collegamento con la cultura nazionale ed europea, finirono in molti casi con il superare le angustie, le inerzie e le resistenze della provincia, sperimentando le prime organiche forme di coordinamento e di indirizzo per una più vigile e qualificante attività di ricerca delle tradizioni culturali locali. Se non ci fosse stato un intellettuale instancabile e dinamico della tempra del Pitrè, una mente organizzatrice e animatrice come la sua, «l’architetto che sa costruire, pietra su pietra, il suo mirabile edificio»4, sarebbe probabilmente andato disperso o sarebbe rimasto inespresso un formidabile patrimonio di energie intellettive e di risorse investigative, non sarebbe stato possibile mobilitare quel fervore di ricerche e di studi che coinvolse decine di letterati, di filologi, di dialettologi, di storici o più semplicemente di uomini colti della provincia che si trasformarono in demologi o comunque informatori e collaboratori periferici del medico palermitano. D’altra parte, l’opera pitreana non sarebbe stata quel grande compendio delle tradizioni popolari siciliane, quello straordinario e mirabile caleidoscopio di materiali e documenti folklorici dispiegato nelle pagine della sua sterminata produzione, se il suo autore non avesse potuto contare su una fitta e capillare trama di corrispondenti locali: arcipreti di parroc3 4

G. Cocchiara, op. cit., p.159. Idem, p. 174.


12 chia, insegnanti, piccoli e medi borghesi, eruditi, baroni nostalgici o illuministi, appassionati e volenterosi dilettanti, ma anche acuti e attenti ricercatori. A tutti Pitrè diede pubblica testimonianza della sua gratitudine, riconoscendo il debito contratto con ciascuno, per tutti fu prodigo di consigli, suggerimenti, informazioni, aiuti. Come molti intellettuali del tempo, agli interessi demologici Raffaele Castelli pervenne per le antiche e sperimentate vie della letteratura. Latinista colto e raffinato, esperto di traduzioni e profondo conoscitore dei testi del mondo classico5, egli guardava alle tradizioni popolari con l’ottica evoluzionista di chi vi ritrovava reminiscenze del passato, elementi di un sostrato culturale irriducibile e persistente. Non il popolo romanticamente inteso era oggetto delle sue indagini, quanto piuttosto il volgo con le sue «ubbìe e superstizioni» da documentare come patrimonio collettivo di umanità e di memoria storica. I limiti teorico-metodologici di Castelli erano in fondo quegli stessi entro i quali si muoveva Pitrè: «Troppo spesso – scriverà Ernesto De Martino – l’orientamento della ricerca fu disturbato da un comparativismo senza prospettiva, a caccia di “analogie” nel folklore europeo, nel mondo classico o nel mondo primitivo, senza il controllo di

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Professore per più di quarant’anni presso il locale Ginnasio e Preside dello stesso dal 1887 al 1911, Raffaele Castelli è stato autore delle traduzioni in versi sciolti dei Fasti e del primo Libro delle Tristezze di Ovidio. Per un profilo biografico e bibliografico cfr. A. Cusumano, Raffaele Castelli, un intellettuale periferico, in “Libera Università Trapani”, anno X n. 28, luglio 1991, pp. 27-51; Idem, Raffaele Castelli, in A. Cusumano e R. Lentini (a cura), Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, Sigma Palermo 2004, pp. 363-67. Pagine dedicate ai contributi demologici di Castelli si trovano anche nel saggio di F. Giallombardo, Il Trapanese nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, in A. Calcara (a cura), Demologia e dinamica culturale, ENAL Trapani 1976, pp. 76-92.


13 un ben definito problema storico-religioso»6. Ma pur dentro questi limiti, da studiosi come Raffaele Castelli abbiamo ereditato quella significativa mole di documentazione che ha consentito di preparare la strada alla conoscenza antropologica del mondo popolare siciliano, in un tempo e in una società che negava non solo l’importanza ma perfino l’esistenza della cultura folklorica. Dalle lettere inviate a Pitrè si ricava la consapevolezza delle condizioni di isolamento in cui l’intellettuale mazarese si trovava, in una città che definisce più volte «un deserto», priva com’era di una biblioteca e della strada ferrata, afflitta dall’epidemia del vaiolo prima, e dal dilagare del colera dopo, che infestò anche «la bella e infelice Palermo»7. L’epistolario, se lascia in ombra gli echi delle tensioni sociali di cui si era fatto interprete il movimento dei Fasci dei Lavoratori, getta luce sul percorso umano e culturale di Castelli, che si giovò dell’amicizia con l’insigne maestro palermitano per uscire dalle secche del provincialismo e per maturare una più acuta sensibilità filologica e critica. Dallo spoglio del carteggio apprendiamo le laboriose vicende editoriali, i progetti di ricerca, le assidue forme di collaborazione tra gli studiosi, unitamente alle preoccupazioni familiari, ai crucci e alle soddisfazioni personali. In assenza di altri dati informativi, non essendoci pervenuta alcuna documentazione dall’archivio privato andato disperso, le novantuno lettere conservate presso il Museo Pitrè restano l’unica fonte conoscitiva di cui disponiamo intorno alla vita e alle opere di Raffaele Castelli. Ne esce il ritratto di una personalità che mostra estrema deferenza nei confronti dell’illustre interlocutore, non esita a considerare i suoi scritti «tenui lavori», «scartafacci», «coserelle», «modeste spigolature», «meschini contributi alla sua vasta ope-

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E. De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore Milano 1961, p. 26. Lettera del 16 ottobre 1885.


14 ra», di cui «potrà fare bella e buona cenere da ranno, ma non valgono nemmeno tanto»8. Pitrè mostra invece di apprezzare i materiali di documentazione raccolti dall’amico mazarese, a tal punto da riconoscerne l’interesse scientifico e da utilizzarli pienamente nei suoi testi. Proverbi, indovinelli, giochi popolari attestati da Castelli a Mazara li ritroviamo nei diversi volumi dell’opera enciclopedica del folklorista palermitano che nelle pagine introduttive ricorda con gratitudine i suoi preziosi contributi. Lo stesso Pitrè promuove la stampa su Nuove Effemeridi Siciliane delle Credenze e usi popolari e poi sull’Archivio dei diversi saggi e articoli che Castelli via via andava scrivendo dietro l’incoraggiamento del maestro. Tra i due studiosi si stabilì un solido rapporto di amicizia, anche se quasi sicuramente non ebbero mai modo di incontrarsi. Quando apprende che Pitrè è malato, Castelli si preoccupa della sua salute e lo invita a Mazara: «Non posso tacerle che se vuol mutar aria, la mia povera casa è sempre aperta per Lei»9. Parole di stima e di affetto nei confronti di Pitrè ricorrono nelle lettere di Castelli che s’interessa con sollecitudine fraterna degli eventi familiari e personali dell’amico: la malattia della madre, il suo matrimonio, la nascita della prima figlia, la polemica con Leonardo Vigo10. La corrispondenza si fa più rada a partire dal 1884 fino a cessare del tutto nel 1910. Non conosciamo le ragioni di questa interruzione. Nell’ultima lettera, datata 11 aprile 1910, Castelli lamentava il ritardo con il quale attendeva di ricevere le copie 8

Lettera del 27 aprile 1878. In un’altra, datata 28 marzo 1880, Castelli informa Pitrè di avergli spedito in pari data un suo breve lavoro e rispettosamente aggiunge: «Lo stampi se crede; se no lo consegni al suo camino, che mi ringrazierà di avergli fatto fare un’eccellente fiamma letteraria». 9 Lettera del 3 agosto 1879. 10 «Ho trovato in Lei in quattro anni che La conosco un ottimo cuore ed altre invidiabili qualità» (Lettera dell’11 febbraio 1880); «Io la stimo più che un fratello e con Lei non avrei segreti» (Lettera del 22 dicembre 1880).


15 stampate dei suoi Racconti religiosi. In una missiva risalente a quattro anni prima, si rammaricava dei tagli che il suo manoscritto sulle leggende evangeliche e devote aveva subìto e dichiarava il proposito di pubblicare racconti storici e modi di dire religiosi. La rottura nei rapporti epistolari coincise con la cessazione delle pubblicazioni dell’Archivio e ne è questa probabilmente la causa. Qualcosa nelle relazioni tra i due studiosi si era forse incrinato, e gli ultimi scritti di Castelli non videro mai la luce, andando definitivamente dispersi. Presso la Biblioteca e l’Archivio del Museo Pitrè la ricerca che abbiamo condotto tra le carte e gli appunti del folklorista palermitano non ha prodotto alcun esito. Le pagine di questo volume raccolgono i saggi editi d’interesse folklorico di Raffaele Castelli, ad eccezione delle Credenze ed usi popolari siciliani, tra i suoi testi quello più corposo e quello che ha conosciuto più ristampe, anche recentemente. Si tratta di articoli e contributi pubblicati su riviste, tra il 1882 e il 1906, da allora non più ristampati, e che stimiamo oggi preziosi non solo per la loro rarità. Vi abbiamo aggregato alcune pagine, tra le più significative, stralciate dalle opere di Giuseppe Pitrè, attribuite dallo stesso studioso palermitano all’autore mazarese. Sotto il titolo Dell’immaginario popolare, l’antologia che proponiamo mette insieme gli scritti su miti, preghiere, modi di dire, giochi e leggende, raccolti a Mazara alla fine del secolo XIX: un ricco patrimonio di materiali orali riconducibile all’orizzonte simbolico della cultura popolare. È noto che le forme di rappresentazione agiscono nel fondo di quella memoria collettiva per la quale gli avvenimenti reali contano spesso assai meno delle realtà costruite dall’immaginazione. Del mondo, del suo ordine naturale e di quello etico-sociale, delle sue architetture visibili e ancor più di quelle invisibili, i racconti, siano essi apologhi o affabulazioni, tutte le parole comunque legate alla tradizione orale concorrono a tracciare una straor-


16 dinaria mappa ideale e ideologica. Il narrare abita in verità nello statuto dell’uomo, alle origini dell’umanità. Gli studiosi della mente hanno dimostrato che il racconto è la prima forma del conoscere, che tra noi e il mondo, a fondamento dell’evoluzione e della storia umana, non ci sono che le parole del raccontare. Abbiamo imparato e impariamo a parlare raccontando. «Raccontare e ascoltare racconti – ha scritto Umberto Eco – è una funzione biologica. Non ci si sottrae facilmente al fascino degli intrecci al loro stato puro (…). Ogni discorso ha una struttura profonda che è narrativa o che può essere sviluppata in termini narrativi»11. In principio, dunque, fu il racconto. Se leggiamo i racconti, le leggende, i miti che Raffaele Castelli ha documentato, vi ritroviamo nelle loro articolazioni interne e nella loro intima orditura la natura eminentemente orale dell’arte del narrare, quei modi popolari di organizzare le scansioni temporali e di teatralizzare i fatti con dialoghi, iterazioni, formule recitative. La vita e il mondo che vi sono rappresentati diventano intelligibili proprio perché narrabili. Paradossalmente non siamo noi a raccontare le storie, ma sono le storie a raccontare di noi, delle nostre paure, delle nostre speranze, dei sogni e dei bisogni, del nostro modo di stare nel mondo. Così la narrativa di tradizione orale, all’interno della quale è, a volte, difficile determinare le linee di demarcazione tra i diversi generi (mito, leggenda, fiaba, racconto), rinvia a forme diverse di un unico immaginario sociale, ad un patrimonio simbolico di rappresentazioni collettive che ci informano su quello che gli uomini pensano, dicono, temono, desiderano, immaginano. Sicuramente non del tutto veri nella realtà oggettiva, i fatti narrati lo sono nella realtà costruita, elaborata, concretamente agita e vissuta. «I miti – ha scritto Antonino Buttitta – come opera umana sono altrettanto

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U. Eco, Sulla letteratura, Bompiani Milano 2002, p. 264.


17 veri quanto gli avvenimenti storici. Gli uni e gli altri sono prodotti storici e alla storia appartengono»12. La storia del bandito mazarese Sata li viti è in questo senso esemplare. Come davvero originale e moderna è la lettura che di questo racconto Raffaele Castelli proponeva più di un secolo fa. Vincenzo Antonio Catinella (1675-1706) fu il classico brigante dell’epoca: astuto e violento, agile e audace. Costretto, dopo una lunga serie di furti, a nascondersi per sfuggire alla giustizia, divenne in breve il capo di una feroce banda di fuorilegge, un bandito abbastanza famoso e temuto tra quelli che infestavano in quel tempo le campagne e le città della Sicilia occidentale. Prima di Castelli avevano scritto delle sue imprese Giuseppe Merati13, Giovanni Evangelista Di Blasi14, Antonino Mongitore15 e infine Salvatore Salomone Marino che, nelle Storie popolari in poesia siciliana16, riprodusse il poemetto di origine letteraria sulla storia del bandito, stampato nei primi anni del secolo XVIII. Lo stesso Pitrè17 aveva pubblicato alcuni frammenti di un racconto in versi con protagonista Sata li viti. Vi si narra di una spavalda ruberia compiuta nel 1704 ai danni di un ricco barbiere palermitano del piano di Lattarini, dove fu catturato uno dei suoi uomini più fidati, tale Francesco Vizzini che finì sulla forca il 23 agosto di quel-

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A. Buttitta, Storia mitica e miti storici, in Mito storia società, Atti del III Congresso di studi antropologici (1982), Palermo 1986, p. 39. 13 Vita del servo di Dio mons. Bartolomeo Castelli, vescovo di Mazara, Venezia 1738, pp. 119-124. 14 Storia cronologica dei Vicerè, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, p. 453. 15 Diari di Palermo, Palermo 1871, tomo II, p. 208. 16 Palermo 1875, n. XI, pp. 115-143; e poi in “Nuove Effemeridi Siciliane”, s. III, 1876, p. 326. 17 Canti popolari siciliani, Luigi Pedone Lauriel Palermo 1871, vol. II, pp. 114-117.


18 lo stesso anno18. Ad altri assalti e rapine, consumati nel Palermitano ma anche nell’Agrigentino, si fa cenno nella storia popolare raccolta da Pitrè: ne furono vittime, tra gli altri, una vedova usuraia di Prizzi e l’arciprete di Ravanusa, che fu depredato di ogni avere e poi fatto letteralmente a pezzi19. La fama di Catinella era, dunque, attestata in diverse province della Sicilia, unitamente alla sua straordinaria agilità di spostamenti, che gli fece guadagnare il titolo del popolare soprannome20. Castelli riferisce soprattutto delle imprese del bandito nella sua città natale, descrive il rocambolesco assalto al monastero di S. Michele, dà spazio alle testimonianze delle fonti orali, vive ancora negli anni in cui scriveva. Nel trapassare dalla storia al mito, il malfattore, «più o meno ordinario», è diventato paladino dei deboli e giustiziere dei potenti, «vindice di torti», «protettore di oppressi», al pari del leggendario campione medioevale delle ballate inglesi: Robin Hood. Nella credenza popolare la sua figura è nobilitata da significative azioni di generosità e solidarietà verso gli indigenti, da una sete di giustizia contro ogni abuso e privilegio. Vittima più che autore delle violenze e delle prepotenze, Sata li viti assume nella dimensione folklorica il ruolo di tutore dell’onore femminile, avendo intrapreso la sua carriera di

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L’ottava così recita: «La prima arrubbatina fu on varberi / vicinu di Sant’Anna e Lattarini, / tirannu scupittati a cantuneri, / ppi fari ‘ntimuriri a li vicini: / si lamintau la ceca mugghieri, / a cui arrubbaru l’oru e li zicchini; / Sata li viti satò comu un livreri, / e Vizzini fu ‘mpisu a Lattarini». 19 cfr. S. Lo Presti, Briganti in Sicilia, Gelka Palermo 1996, p. 23. 20 «Mentri lu circavanu a Palermu, Sataliviti cuddava a Missina. Lu nomu Sataliviti facia trimari a tutti, né c’era nuddu chi si putia guardari, pirchì ‘nta lu megghiu si lu truvavanu dintra, ca avia trasutu parti di la finestra, parti di li canali, parti di la porta stacanciatu, e macari di jornu e jornu»: così si legge in un racconto documentato da S. Salomone Marino, Il paese del giudizio, Il Vespro Palermo 1977, p. 68.


19 rapinatore dopo aver ucciso chi aveva sedotto sua sorella e aver così restaurato la dignità e il prestigio del nome familiare. Non è certamente inusuale che nella tradizione orale le storie dei briganti diventino materia di leggende e narrazioni epiche. Si pensi ai banditi Musolino e Giuliano, le cui gesta sono state interpretate a livello popolare come dirette a sovvertire l’ingiusto ordine sociale ed economico. Allo stesso Sata li viti, così fortemente mitizzato, si attribuivano poteri soprannaturali. La leggenda del bandito eroe e redentore si riconnette tradizionalmente al culto delle grotte ove si crede si nascondino tesori incantati. Gli ori e le ricchezze da lui accumulati sono dunque da ricercare in una cavità scavata in una montagna di Castellammare del Golfo. Un’altra trovatura è segnalata presso la contrada San Miceli, nei pressi del fiume Mazaro, poco lontano dal punto denominato «malupassu», dal luogo cioè in cui la banda si appostava per sorprendere convogli e passeggeri. Raffaele Castelli non ha stranamente approfondito i vari aspetti di questa tradizione plutonica locale, che doveva essere diffusa a quell’epoca se è vero che ne è stato vivo il ricordo fino a qualche anno fa21. È certo che il nome di Sata li viti «rimase nei modi proverbiali del nostro popolo per denotare una persona agile, irrequieta e audace»22, qualcuno in grado di compiere azioni per altri impossibili (E chi è Sata li viti?), qualcuno da invocare contro i soprusi e le angherie (Ci vulissi Sata li viti! ). Il saggio di Castelli, dal taglio essenziale e moderno, ha il merito di aver individuato nel racconto popolare le costanti storicoculturali all’origine della fondazione del mito, di aver tentato in qualche modo l’analisi morfologica del sistema narrativo. Egli 21

cfr. G. Norrito, Il vero bandito mazarese e i tesori nascosti, Trapani 1972, p. 18 e ss. 22 F. Napoli, Storia della città di Mazara, Stab. Tip. Hopps Mazara 1932, pp. 171-72.


20 ricostruisce i fatti elaborati dalla memoria e dall’immaginario collettivo, rende conto dei materiali mutuati dalla tradizione, rivendica la verità storica dei miti, fino a chiedersi: «Quanta storia non si nasconde ne’ miti dei popoli antichi e quanta luce non ne acquisterebbero i fatti storici ed i fatti dello spirito umano, se noi potessimo indovinarli con certezza?». A guardar bene, lo studioso mazarese chiama «fatti dello spirito umano» quei modelli ideologici e ideali che muovono a livello profondo le strutture mitiche del pensiero e le azioni pratiche degli uomini, quella forza dei simboli che converte e risolve sul piano utopistico e salvifico le dicotomie inconciliabili della vita quotidiana. Il senso vero del mito, di tutti i miti, sta proprio in questa tensione epica, nella ricerca culturale di dare un orizzonte di speranze alle irriducibili attese, di inventare un nuovo ordine contro il disordine del mondo, di risarcire delle sconfitte della realtà e riscattare le ingiustizie della storia. In questo senso, Castelli accosta opportunamente la figura del bandito Catinella a quella carismatica di Garibaldi, l’eroe che ritiene ancora sul versante dell’immaginario popolare, nonostante le indicazioni contrarie della storiografia, quel po’ di fuorilegge o di sovversivo che lo possono far assimilare ad un bandito, venerato perfino come «un santo che guarisce i bambini, ed ispira tanta riverenza a’ banditi medesimi, da costringerli a risparmiare una vittima, perché trovano in petto dell’infelice un medaglione col ritratto del Generale». Tanto puntuale e originale era la ricognizione critica condotta dallo studioso mazarese che Giuseppe Pitrè ne intuì il valore e si affrettò a far stampare il manoscritto sul primo numero dell’Archivio. Avrebbe dovuto essere pubblicato, in verità, assieme ad un altro articolo dello stesso Castelli su un tale Francesco Frusteri, un contadino che il 5 novembre del 1817 fu giustiziato con la pena della decapitazione per aver ucciso la propria madre a difesa della moglie. A questo personaggio era connessa la pratica di uno speciale culto, attestato a Paceco,


21 che consisteva in un lungo viaggio penitenziale in onore del decollato e in una viva devozione per la sua anima. Quando Castelli inviò il testo della sua ricerca al maestro palermitano, quest’ultimo sollevò alcune obiezioni e consigliò l’amico di apportare qualche non meglio definita modifica23. Ignoriamo le ragioni che spinsero Pitrè a non dare più alle stampe questo scritto. Ciò che conosciamo intorno al Frusteri e alla leggenda popolare che ne celebra i prodigi è attinto dalle pagine degli Usi e costumi24, in cui però l’autore, in questa circostanza, omette di citare la fonte delle sue informazioni. Un’attenta ricognizione condotta presso l’Archivio del Museo Pitrè non ha prodotto purtroppo alcun risultato25. Resta vero tuttavia che se Mazara è fra tutte le città della provincia quella che risulta più largamente e più compiutamente rappresentata nella Biblioteca pitreana, questo lo si deve grazie ai numerosi contributi di Raffaele Castelli. Mentre l’Archivio accolse il prezioso saggio su Il giuoco fanciullesco a la tortula, straordinario studio che incrocia con sorprendente consapevolezza teorico-metodologica dati linguistici e materiali etnografici, nel volume Giuochi fanciulleschi siciliani 26, su un totale di 233 giochi elencati e descritti da Pitrè ben 53 sono quelli che sono 23

«Non so quali modificazioni – rispose Castelli, in una lettera del 12 novembre 1881 – possa io fare alla seconda parte dell’articolo, perché né me le indica V. S. né il sig. Salomone. Io seguirò interamente il parer loro, se pure non istimate Voialtri di farvi que’ mutamenti che vi paiono necessari». 24 G. Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, L. Pedone Lauriel Palermo 1888, vol. IV, pp. 8-9. Sul personaggio di Paceco ha scritto recentemente un breve articolo G. Culcasi, Frusteri tra realtà e leggenda, in “Paceco”, n. 5, aprile 2001, pp. 49-52. 25 Colgo l’occasione per ringraziare Ida Zammarano Tedesco e Patrizia D’Amico, archivisti presso il museo Pitrè, per la collaborazione e la disponibilità offerta. 26 G. Pitrè, Giuochi fanciulleschi siciliani, L. Pedone Lauriel Palermo 1883.


22 stati raccolti a Mazara, esplicitamente attribuiti all’opera di Castelli; alcuni di essi li abbiamo inseriti in questa antologia non solo per restituire all’autore la paternità dei suoi scritti ma anche per attestarne il valore storico-documentario. La lettura di questi giochi di cento anni fa ci offre uno scorcio della grande ricchezza e versatilità della fantasia ludica, costruita sull’assenza o sull’estrema povertà dei giocattoli allora disponibili. A leggere la struttura logica che li sostiene è possibile cogliere le regole interne dei sistemi socioeconomici che li hanno prodotti, l’ordine dei significati e le gerarchie normative che la comunità locale, ancora prevalentemente rurale, veicolava attraverso le dinamiche dei giochi. Riuniti sotto il titolo Formule sanatorie e orazioncelle diverse in Mazzara, gli scongiuri raccolti da Castelli, ancorché di numero limitato, hanno rappresentato materiale di studio e di riferimento d’importanza non trascurabile, tant’è che questi dati sono stati interamente ripresi e riportati da Pitrè27 e da altri dopo di lui28. Si tratta di formule magico-terapeutiche, di invocazioni divinatorie, di historiole che presuppongono spazi, tempi e modalità di recitazione altamente formalizzati. Le parole hanno in queste giaculatorie una tale potenza simbolica da esercitare una fascinazione coercitiva di per sé terapeutica. Agiscono sul mondo invisibile che sfugge al controllo razionale dell’uomo, su quell’insieme di presenze misteriose, di ombre e di fantasmi che abitano l’universo delle nostre paure e delle nostre attese. Innalzano argini e difese contro i mali più oscuri che insorgono nei momenti di maggiore precarietà esistenziale: quando la malattia 27

G. Pitrè, Proverbi, motti e scongiuri del popolo siciliano, L. Pedone Lauriel Palermo 1910, p. 389 e ss. 28 cfr. G. Cocchiara, Scongiuri e orazioni, in Problemi di poesia siciliana, Palermo 1939, p. 21 e ss; G. Bonomo, Scongiuri del popolo siciliano, Palumbo Palermo 1953.


23 si fa beffe della scienza e alla sfera magica o metafisica resta affidata l’unica speranza di guarigione o di liberazione. La complessa dimensione della religiosità popolare ha trovato in Raffaele Castelli un attento osservatore. Lo studioso mazarese ne ha indagato non pochi aspetti, sul piano delle credenze e su quello delle pratiche consuetudinarie. Nel declinare il Calendario popolare la vita quotidiana appare permeata di un intenso sentimento di devozione per i santi protettori, che articolano le scansioni del tempo, vigilano sui lavori nei campi e ne propiziano i frutti. Come gli astri e le costellazioni del cielo, essi orientano i comportamenti degli individui, assicurano il succedersi ordinato delle stagioni, secondano la fecondità della terra e la riproduzione della vita. «Il popolo – scrive Castelli – non sa pensare che colle idee religiose», nella misura in cui l’esigenza del sacro muove dalla necessità di esercitare una qualche forma di controllo sullo spazio e sul tempo. Da qui il calendario delle tradizioni orali e degli usi rituali strutturato secondo le ricorrenze festive e le attività agricole dell’anno. Attraverso un puntale spoglio dei mesi l’autore passa in rassegna i modi di fare e di dire connessi al culto dei santi e al ciclo stagionale delle opere rurali. Apprendiamo dunque quando si seminano le piante e quando si raccolgono i frutti, quando si macellano i suini e quando si fanno coprire gli ovini, quando si tagliano le api e quando si apre la pesca del tonno. Siamo infine informati sulle abitudini venatorie mazaresi, sulle fiere tradizionali locali, sulle usanze alimentari legate a determinate occasioni festive. Ma le pagine più interessanti scritte da Castelli sono probabilmente quelle relative alle leggende di argomento religioso, quasi tutte opportunamente e integralmente riportate in dialetto. Nulla sappiamo sulla metodologia e sulle tecniche di rilevamento dei testi e dobbiamo, in tutta evidenza, supporre che lo studioso mazarese abbia, in mancanza di mezzi meccanici di registrazione, trascritto, e quindi rielaborato, quanto era originariamente


24 nella forma orale. I testi raccolti sulle pagine non sono, dunque, il prodotto di trascrizioni ortofoniche, ma se mai la loro trasposizione mediata da e in altro codice, quello della scrittura, con la quale le leggende tra tutte le produzioni popolari restano quelle più strettamente imparentate e contaminate. Esse sono, del resto, per loro natura narrate in occasioni e contingenze particolari, in contesti nei quali l’informatore è stimolato dal raccoglitore. La loro stessa fonte orale non assicura neppure, come ha notato Cirese, «l’appartenenza a quel mondo che genericamente diciamo popolare (…). Anche in caso di tradizione esclusivamente orale e di fonte assolutamente popolana o popolare, l’oralità della fonte non esclude che i testi abbiano antecedenti extra-folklorici»29. Ciò vale soprattutto per le leggende di carattere religioso, con protagonisti Gesù, la Madonna, san Pietro e altri apostoli, nonché personaggi della Bibbia e santi patroni. In questi racconti è più evidente l’influsso della letteratura colta, è più facile cogliere le contaminazioni tra le fonti scritte e quelle orali, i percorsi, i nessi e i passaggi dall’agiografia maturata in ambienti ecclesiastici alle forme tradizionali della novellistica. Tra le Sacre Scritture e le leggende religiose ci stanno i fogli volanti, le Vite dei santi, gli almanacchi e le stampe popolari, gli opuscoli di pietà, i libretti da pochi soldi della letteratura di colportage, tutte quelle opere di divulgazione delle pagine del Vecchio e del Nuovo Testamento diffuse tra gli strati semicolti dei devoti. A questa copiosa produzione di testi scritti “per il popolo” e destinati a circolare presso gli ambienti da alfabetizzare vanno, dunque, ricondotti i racconti raccolti a Mazara da Castelli, che per la loro brevità hanno i caratteri dell’exemplum, della parabola con intenti didascalici, di ammaestramento etico, a suffragio di una verità morale. Così vanno lette le leggende bibliche e reli29

A. M. Cirese, Introduzione, in D. A. Conci (a cura), Da spazi e tempi lontani. La fiaba nelle tradizioni etniche, Guida Napoli 1991, pp.7-8.


25 giose e quelle evangeliche e divote, che costituiscono varianti locali di un amplissimo repertorio di materiali di affabulazione informati a questi temi di religiosità popolare. Vi si dispiega la visione di un mondo in cui colpe e pene sono governate dall’imperscrutabile volontà della giustizia divina, la cui logica, apparentemente incomprensibile, colpisce indiscriminatamente colpevoli e innocenti, e si giustifica nell’orizzonte dei misteriosi e superiori disegni (l’arcani di Diu), provvidenzialmente ignoti ai mortali. Le leggende mazaresi sono molto lontane da quel sentimento popolare di rovesciamento della morale cristiana che ha ispirato Le parità di Guastella30, non c’è nulla di eretico né tanto meno assimilabile a quell’antivangelo, di cui a proposito di questa opera ha scritto Sciascia31. Traspare piuttosto quella ingenua e mite «confidenza coi celesti» che muove dalla volgarizzazione e rielaborazione dei vangeli apocrifi e spinge ad umanizzare i santi, ad approssimarli alla terra, alle debolezze e agli umori degli uomini. Si scende dalla lettera canonica e solenne delle Sacre Scritture al pianoterra della domesticità del quotidiano, nell’intima frequentazione del Gesù bambino e adulto, dei santi capricciosi e peccatori. Ambientate nel tempo in cui lu Patri Maistru caminava cu l’Apostuli per le strade del mondo, le storie raccontano, infatti, di Gesù e della sua infanzia, della golosità di san Pietro e delle ripetute vedovanze della sorella. Mutuano i temi narrativi della Sacra Famiglia, della Natività e della Fuga in Egitto, della Passione di Cristo e della ricerca del Figlio da parte di Maria. Nella declinazione folklorica le sollecitudini pedagogiche e i motivi edificanti e devozionali si stemperano nelle argu-

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S. A. Guastella, Le parità e le storie morali dei nostri villani, Introduzione di I. Calvino, Ed. Regione Siciliana Palermo 1969. 31 cfr.L. Sciascia, Feste religiose in Sicilia, Leonardo da Vinci ed. Bari 1965, p. 24.


26 zie degli apostoli itineranti che peccano ora d’ingenuità, ora di spregiudicatezza. Di particolare interesse è il racconto che narra del culto per un crocifisso conservato in un imprecisato convento. Lu Signuri di Lùttisi rinvia forse ad un antico e dimenticato toponimo o è piuttosto più ragionevole ipotizzare un refuso tipografico che sta per Lu Signuri di Lucchisi, con riferimento ad una devozione popolare legata ad un crocifisso ligneo conservato a Lucca Sicula (in prov. di Agrigento), la cui leggenda raccolta da Giuseppe Pitrè32 presenta alcune varianti e non poche analogie strutturali con quella documentata da Castelli. Nel comune orizzonte miticoreligioso, si dipana una storia eminentemente simbolica che sviluppa il motivo archetipico del riscatto e della giustizia egualitaria, attraverso la ricomposizione dell’ordine sociale e degli equilibri esistenziali, non meno che un’opera di risarcimento morale e materiale. Il lungo viaggio del devoto pellegrino, che alla sua condizione di povertà aveva strappato un grano per offrirlo al Cristo, si risolve in una restituzione moltiplicata della somma donata pari a 400 onze, secondo la rigorosa logica del dono votivo che si regge sull’implicita promessa della grazia ovvero del contraccambio. Entro lo stesso paradigma della reciprocità sembrano trovare soluzione le preghiere di quanti avevano affidato al viandante i propri problemi: il principe che cercava un partito per la figlia da sposare lo troverà quando avrà imparato a praticare l’elemosina; il giardiniere vedrà fruttificare i suoi alberi se abbatterà il muro di recinzione così da “rinfrescare la bocca” ai passanti; l’ortolano infine sconfiggerà la moria degli animali se cesserà di bestemmiare. Chiarito con Lévi-Strauss che «nello scam-

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G. Pitrè, Fiabe e leggende popolari siciliane, L. Pedone Lauriel Palermo 1888, pp. 215-20. La leggenda raccontata da Angela Puleo è stata raccolta a Bagheria.


27 bio c’è molto di più che non le cose scambiate»33, la leggenda ritiene i suoi significati nella dimensione non solo etica ma anche sociale. La nitida ed essenziale trama del racconto presenta come destinatario del culto il Signore crocifisso, il quale come una sorta di singolare oracolo dispensa responsi e amministra severo la giustizia tra gli uomini, ma appare nel rapporto con il povero devoto figura amica e confidenziale, tanto da accogliere le sue richieste, scendere dalla croce e banchettare con lui. È noto che l’umanizzazione della divinità è dato caratterizzante delle narrazioni popolari volte a rappresentare la trascendenza nelle forme esperite dagli uomini nelle vicissitudini degli accadimenti quotidiani. Ecco perché le leggende non sono mai invenzioni gratuite e arbitrarie ma attraverso l’apparente non senso delle storie immaginate illuminano il senso profondo della vita reale. Tra le opere dell’immaginario popolare le leggende di argomento religioso sono senz’altro quelle che Castelli curò con maggiore predilezione, anche perché l’attento studioso del mondo antico riconnetteva questo patrimonio di novellistica alle origini della civiltà greca e latina. Il filologo umanista vi leggeva i nessi e le ascendenze culturali che dal livello popolare risalgono alla grande letteratura classica. Il demologo vi riconosceva le permanenze di certe credenze ed usanze mediterranee34. Alle leggende edite sull’Archivio e all’interno del volume di Pitrè, qui ripubblicate, altre, secondo le intenzioni di Castelli, ne dovevano seguire di carattere storico, come si desume da una lettera del 5 maggio 1906: «Se l’Archivio continuerà, vorrei pubblicare due o tre raccontini che io chiamo storici, e un buon numero di modi di 33

C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, trad. it., Feltrinelli Milano 1984, p. 109. 34 In una lettera indirizzata a Pitrè il 22 dicembre 1880 Castelli, in ossequio a orientamenti evoluzionisti, confessa: «Io vedo in ogni costume moderno qualche reminiscenza dell’antichità».


28 dire religiosi. È mio intendimento, o piuttosto sarebbe, di occuparmi di certi costumi antichi di Mazara, come fece lei per Palermo». Purtroppo nulla sappiamo intorno alle ragioni che gli impedirono di realizzare i suoi proponimenti. È probabile che siano stati motivi di salute, in particolare una fastidiosa malattia agli occhi di cui a lungo soffrì, a farlo desistere dalla faticosa ricerca d’archivio. Di certo sappiamo che negli ultimi anni della sua vita Raffaele Castelli tornò a coltivare gli amori della sua gioventù: il latino, che aveva insegnato a più generazioni di studenti del liceo, e la poesia che costituì il primo cimento del suo impegno di umanista. I Versi latini, stampati nel 1914 dalla gloriosa tipografia Luigi Ajello e Figli, concludono la sua produzione e ne rappresentano una sorta di testamento letterario che riassume le antiche passioni ideali dello scrittore per il culto degli affetti familiari e del mito dei classici. Castelli si spegnerà cinque anni dopo la pubblicazione di questi versi. Editi dalla stessa tipografia Ajello nel 1854 sono le Massime e proverbii morali che abbiamo voluto allegare in Appendice. Non sono documenti raccolti da Raffaele Castelli e tuttavia passarono sicuramente tra le mani dello studioso mazarese, come del resto furono studiati e utilizzati da Pitrè per la sua opera in quattro volumi sui Proverbi siciliani: si tratta di 735 massime, divise in 29 capitoli, secondo categorie tematiche che saranno convenzionalmente formalizzate e riprese da altri raccoglitori. Anonimo risulta in copertina l’autore ma l’opera può essere ragionevolmente attribuita allo stesso stampatore, che si riprometteva di preparare una successiva edizione che non venne tuttavia mai realizzata. Questi proverbi mazaresi di metà Ottocento costituirono, dunque, un’importante fonte di riferimento documentario per i folkloristi del secolo XIX. Per chi voglia indagare sui modelli culturali e sui sistemi di valore diffusi nella Sicilia di quell’epoca, questi materiali sono straordinari strumenti di conoscenza della


29 realtà e della sua rappresentazione popolare. Densi paradigmi dell’universo ideologico, forme sincopate di ragionamenti ellittici e allusivi, i modi di dire sono, in tutta evidenza, modi di pensare e di essere. Nel sapere empirico compendiato in quelle formule apodittiche spesso contraddittorie si dispiega il profilo di una società, si suggeriscono pedagogie assolute e memorie atemporali. Ma soprattutto quei grumi di accenti e precetti sono ritmi, assonanze, scansioni metriche, sono folgoranti invenzioni linguistiche e retoriche, argute ed icastiche locuzioni di un’impareggiabile espressività. Contengono le iperboli e le ironie dell’oralità, le diverse modulazioni e stratificazioni del parlato, la verve delle voci popolari, il gusto del metaforizzare, del tradurre le parole in figure. A guardar bene, ogni massima ha una sua radice narrativa, un suo intimo legame a miti e racconti non scritti che narrano di consuetudini, moralità, fobie e idiosincrasie. Per questo, anche questi documenti orali appartengono alla grande letteratura dell’immaginario popolare. Per antonomasia i proverbi sono codici che celebrano la parola, atti verbali in cui non contano tanto i significati quanto la forza d’urto dei significanti, immagini che seducono, persuadono, ammaestrano. Nel giuoco delle antitesi e delle allitterazioni, nella loro cifra simbolica si concentra quella potenza semantica che oggi, nelle approssimative forme del nostro comunicare, abbiamo in gran parte consumato. Rileggere a distanza di più di un secolo e mezzo questi proverbi è come tentare di far risalire alla linfa delle sorgenti le voci di una lingua che appare sempre più estenuata ed esangue. È come voler recuperare l’energia vitale di quel dialetto che unn’avi ossu e rrumpi l’ossu, come recita uno dei tanti proverbi raccolti in questa antologia.

Antonino Cusumano


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