ISSN: 2036-6779
Poste Italiane - Spedizione in abb. 45% Art 2 comma 20/B - Legge 662/96 Filiale P.T. di Varese. Reg. trib di Milano n. 3 del 14/01/1995 Periodico trimestrale - Euro 30,00
n. 1 Anno 2009
Sommario Prestazione di servizi «non di revisione»: informativa di bilancio e indipendenza del revisore di Giuseppe Ianniello
La comunicazione economicofinanziaria delle P.M.I. secondo i professionisti contabili. Un’indagine empirica di Rosa Vinciguerra e Nadia Cipullo
Dal fair value al fairy value: coerenza concettuale e condizioni di impiego del fair value negli IFRS di Alberto Quagli
Interessenze di controllo. Recenti linee evolutive e profili di criticità delle regole internazionali di accounting e reporting finanziario di Marco Taliento
Rubriche AUDIT E PROFESSIONI CONTABILI BOOK REVIEW
L’ospedale si è avvicinato molto ai piccoli. I bambini in ospedale possono anche usare la fantasia, divertirsi, giocare e studiare: possono sentirsi proprio come a casa. I volontari di ABIO, Associazione per il Bambino in Ospedale, da 30 anni sono negli ospedali italiani per renderli più caldi e accoglienti.
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Si ringraziano Paolo Cardoni per l’illustrazione e l’editore per la pubblicazione
ABIO, DA 30 ANNI VICINI AI BAMBINI IN OSPEDALE
Numero 1 - I trimestre 2009
Sommario
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Editoriale
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Prestazione di servizi «non di revisione»: informativa di bilancio e indipendenza del revisore
di Alberto Quagli
di Giuseppe Ianniello
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La comunicazione economico-finanziaria delle P.M.I. secondo i professionisti contabili. Un’indagine empirica di Rosa Vinciguerra e Nadia Cipullo
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Rubriche
Audit e professioni contabili a cura di Alessandro Gaetano
83
La Commissione “per le norme contabili ed i principi contabili” del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Gianfranco Capodaglio
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Book Review
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Dal fair value al fairy value: coerenza concettuale e condizioni di impiego del fair value negli IFRS
di Roberto Di Pietra
di Alberto Quagli
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Interessenze di controllo. Recenti linee evolutive e profili di criticità delle regole internazionali di accounting e reporting finanziario di Marco Taliento 3
Numero 1 - I trimestre 2009
coordinatore scientifico Alberto Quagli
Università di Genova
comitato scientifico David Alexander Paolo Andrei Roberto Di Pietra Alessandro Gaetano Francesco Giunta Christopher Nobes Tiziano Onesti Michele Pizzo Alberto Quagli Ugo Sòstero Claudio Teodori Alfredo Viganò Stefano Zambon
The Birmingham Business School Università di Parma Università di Siena Università di Roma Tor Vergata Università di Firenze Royal Holloway University of London Università di Roma Tre Seconda Università di Napoli Università di Genova Università Cà Foscari di Venezia Università di Brescia Università Bocconi di Milano Università di Ferrara
Direttore responsabile Rita Palumbo Responsabile editoriale IFAF Fabio Lampugnani Coordinamento redazionale Rari Comunicazione Tel. 02 89786108/09 ifaf@raricomunicazione.it Progetto grafico Rari Comunicazione
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Stampa Grafica Olona sas Editore IFAF BS srl Largo Schuster, 1 20122 Milano www.ifaf.it
Spedizione in abb. Postale 45% - art. 2 comma 20/B - Legge 662/96 Autorizzazione filiale p.t. di Varese - Reg. tribunale di Milano n.3 del 14/01/1995 Periodico Trimestrale L’abbonamento decorre dal mese di gennaio di ciascun anno. L’abbonamento oltre il mese di gennaio comporta l’invio degli arretrati. Abbonamento 2009 (4 fascicoli) Italia: € 115,00 Estero: € 195,00. Numeri arretrati: € 36,00 cad. Le richieste vanno indirizzate a: IFAF BS srl Largo I. Schuster, 1 - 20122 Milano Tel. 02/72002170 - 02/72001199 Fax 02/72002186 e-mail: riviste@ifaf.it, allegando assegno bancario o circolare non trasferibile intestato a IFAF BS srl, oppure ricevuta di versamento sul c/c postale n. 91684274 intestato a IFAF BS srl. I numeri mancanti devono essere richiesti entro 6 mesi dalla data di pubblicazione (fine trimestre solare).
Da Revisione Contabile a Financial Reporting: un cambiamento sostanziale È un periodo di forti cambiamenti per la ricerca scientifica in Italia ed, in particolare, per quella di matrice economico-aziendale. Dopo lenta maturazione, si è finalmente giunti al varo di riviste scientifiche basate sulla peer review, condizione indispensabile per accedere al riconoscimento da parte dell’Accademia Italiana di Economia Aziendale (AIDEA, vedi su www.accademiaaidea.it). Ma il meccanismo del referaggio sistematico non risponde solo a logiche di funzionamento accademico, quanto all’esigenza di migliorare la qualità degli articoli pubblicati. Ed è in questa prospettiva che la rivista Revisione Contabile si trasforma in Financial Reporting con un Comitato scientifico completamente rinnovato, aperto anche a studiosi europei di chiara fama, con dei contenuti orientati maggiormente su temi di ricerca piuttosto che alla descrizione e mera interpretazione delle novità normative. Il cambio di denominazione in Financial Reporting va ben al di là di un restyling. Rispetto alla precedente rivista si amplia l’oggetto dei lavori pubblicati e il metodo che li caratterizza. Per quanto riguarda gli argomenti discussi la rivista tratterà anzitutto di informativa di bilancio, comprendendo i bilanci di ogni tipo (annuali ed infrannuali, separati e consolidati, di settori regolati e non) e di comunicazione economico-finanziaria d’impresa, tema dalle grandi prospettive. Saranno benvenuti inoltre lavori riguardanti la rendicontazione socioambientale e del capitale intellettuale, le relazioni tra governance e sistemi di rendicontazione. Continueranno ad essere ospitati anche temi sulla revisione aziendale e sistemi di controllo interno, nella continuità con la precedente rivista. Infine la rivista potrà contenere lavori riguardanti i Sistemi informativi, per le loro implicazioni con i temi suddetti. Non saranno invece considerati ai fini della pubblicazione argomenti concernenti i sistemi di controllo di gestione, la storia della ragioneria, temi di natura squisitamente fiscale e di istituzioni di economia aziendale, come anche lavori concernenti problematiche esclusivamente di strategia e politica aziendale. Per quanto riguarda il metodo, i lavori presentati per la pubblicazione potranno evidenziare sia i risultati raggiunti attraverso ricerche empiriche, sia le conclusioni derivanti da ricerche condotte con taglio prevalentemente deduttivo sulle tematiche che costituiscono l’oggetto specifico della rivista; in entrambi i casi, devono essere chiaramente esplicitati gli elementi di novità o di avanzamento delle conoscenze cui il lavoro consente di pervenire. Quanto sopra è la regola per le riviste scientifiche e Financial Reporting vuole essere una di queste. 5
Editoriale
Financial Reporting si articolerà su quattro numeri annuali di cui uno in lingua inglese. Oltre agli articoli, la rivista conterrà anche una sezione dedicata agli aggiornamenti provenienti dagli organismi professionali (“Auditing e professioni contabili” curata dal Prof. Alessandro Gaetano) e una sezione di rassegna bibliografica (curata dai Prof. Roberto Di Pietra, che la inaugura con questo primo numero, e dal Prof. Stefano Zambon). Con questo nuovo indirizzo, ci rivolgiamo a tutti i ricercatori di matrice economico-aziendale affinché individuino in questa Rivista un luogo di discussione scientifica con il quale confrontarsi inviando i risultati delle loro ricerche. Le modalità di invio, le caratteristiche dei lavori e la descrizione del processo di referaggio sono pubblicate in coda alla rivista e disponibili sul sito www.ifaf.it/editoria/pubblicare_articolo.html. Ringraziamenti ai referees I referees sono le persone che lavorano dietro le quinte, ma che rappresentano a pieno titolo l’asse portante di una rivista. Già da questo primo numero hanno interpretato il loro ruolo nel modo migliore, svolgendo la doppia review. Le schede di referaggio e tutto il materiale attinente al processo di review sono a disposizione della Presidenza Aidea. Per questo primo numero si ringraziano i seguenti referees: Paolo Andrei – Università di Parma Nunzio Angiola – Università di Foggia Mara Cameran – Università Bocconi Milano Paola Demartini – Università di Urbino Marco Mainardi – Università di Firenze Tiziano Onesti – Università di Roma Tre Chiara Saccon – Università di Venezia Riccardo Viganò – Università di Napoli – Federico II
Risposta dell’Editore Il lavoro dell’Editore è offrire spazi alle idee innovative e ai progetti qualificati, affinché le idee circolino e i progetti cambino il mondo. Nel suo piccolo, Financial Reporting va proprio in questa direzione. Siamo orgogliosi di sostenere questa nuova avventura scientifica di un importante gruppo di studiosi italiani. E ci auguriamo di essere in grado presto di allargare la famiglia delle riviste professionali e scientifiche che dimostrano la vitalità della ricerca e la qualità della professionalità italiana. Fabio Lampugnani 6
Prestazione di servizi «non di revisione»: informativa di bilancio e indipendenza del revisore di Giuseppe Ianniello – Università della Tuscia di Viterbo L’indagine intende mostrare la recente evoluzione del quadro regolamentare italiano in tema di prestazione di servizi non di revisione e indipendenza del revisore. Di seguito, sono esposte prime evidenze empiriche in merito all’obbligo di presentare nel bilancio informazioni sui corrispettivi per revisione contabile e servizi diversi dalla revisione.
Abstract In Italy, as in the international context, recently, new set of rules have been adopted in order to protect auditor independence that is fundamental to add credibility to published annual reports. This paper, after exploring recent regulatory reforms in Italy, analyzes the first time application of mandatory disclosure in annual reports of audit and non-audit fees. This information can give to the readers of the financial statements an indication of the auditor independence (in appearance). An empirical analysis is conducted on the year 2007 annual reports of 83 Italian listed companies with higher capitalization. The main research objectives are: (1) to provide a comprehensive description of the relative level of nonaudit fees; (2) to investigate the relation between non-audit services and the opinion issued by the auditor. In addition, we illustrate some communicational formats used by the companies to disclose audit and non-audit fees. The evidence shows that the average ratio of non-audit fees (further assurance services, tax advisory services, other non-audit services) to total auditor remuneration is 0.274 (or 37.7% of audit fees). In particular, there are 15 companies (18.1%) which paid their auditor more for non-audit services than for audit services; excluding further assurance services, still there are 7 cases (8.4%) with the ratio of nonaudit fees higher than 0.50. In our sample we observed one qualified opinion and eighty-two unqualified opinions, as a consequence, we could not test the second research objective. However the study’s results show that there is a positive association between the emphasis of matter paragraph in the auditor’s report and non-audit service provision. This finding cannot be interpreted as a clear indication of compromised auditor independence, opening the space to further empirical studies on the use of emphasis of matter paragraph in the auditor’s report. 7
Servizi «non di revisione»
1. Introduzione La questione riguardante la compatibilità dell’attività di revisione contabile con la prestazione di consulenza nei confronti dello stesso soggetto revisionato è sicuramente tra i temi che da qualche tempo interessano il dibattito sull’efficacia e il ruolo svolto dal controllo legale dei conti. In particolare, tale tema è legato anche all’analisi dell’indipendenza del revisore. Su quest’ultimo aspetto, la dottrina e la prassi hanno offerto diverse interpretazioni inevitabilmente legate allo scenario economico, sociale e culturale di riferimento. Una delle prime classificazioni proposte a livello internazionale riguarda la distinzione tra l’indipendenza apparente e reale (Mautz e Sharaf, 1961). La prima fa riferimento all’immagine che il pubblico ha dei revisori considerati come gruppo professionale. La seconda fa riferimento al singolo che, come in altre professioni, dovrebbe esprimere opinioni in modo autonomo senza la pressione del cliente o di altri soggetti. Sul piano generale della percezione del ruolo dei revisori contabili in un determinato contesto socio-economico, assumono rilievo anche i mezzi di comunicazione di massa, le opinioni espresse su giornali o riviste. La questione di fondo riguarda la funzione del controllo contabile percepita come “servizio pubblico” oppure come “attività imprenditoriale”1. Un’altra interpretazione del carattere dell’indipendenza, prevalente nei principi di revisione internazionale e ripresa anche in Italia, sostiene, con implicito riferimento al “singolo”, che “l’indipendenza” comporta due diversi profili: a. “Indipendenza mentale”, da intendersi come l’atteggiamento intellettuale del Revisore nel considerare solo gli elementi rilevanti per l’esercizio del suo incarico escludendo ogni fattore estraneo. b. “Indipendenza formale”, da intendersi come la condizione oggettiva in base alla quale il Revisore sia riconosciuto indipendente, vale a dire il fatto che il Revisore non debba essere associato a situazioni o circostanze che siano di rilevanza tale da indurre un Terzo Ragionevole e Informato a mettere in dubbio le capacità del Revisore di svolgere l’incarico in modo obiettivo (Cspr 2005, §4.2.)2. 1 Ad esempio, Neu e Green (2006) mostrano l’evoluzione di tale duplice profilo nella professione contabile canadese, analizzando gli editoriali della rivista Canadian Chartered Accountant. 2 Ifac (2006: § 290.8) stabilisce che «independence requires: Independence of Mind The state of mind that permits the expression of a conclusion without being affected by influences that compromise professional judgment, allowing an individual to act with integrity, and exercise objectivity and professional skepticism. Independence in Appearance The avoidance of facts and circumstances that are so significant that a reasonable and informed third party, having knowledge of all relevant information, including safeguards applied, would reasonably conclude a firm’s, or a member of the assurance team’s, integrity, objectivity or professional skepticism had been compromised».
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Servizi «non di revisione»
Anche nella Raccomandazione europea del 2002 (Ce 2002) dedicata al tema dell’indipendenza del revisore è scritto che «nello svolgere una revisione legale dei conti, il revisore legale deve essere indipendente dal cliente il cui bilancio è oggetto di revisione, tanto sotto il profilo intellettuale quanto sotto il profilo formale. Un revisore legale non deve accettare un incarico di revisione legale dei conti se tra il revisore stesso e il cliente esistono relazioni finanziarie, d’affari, di lavoro o di altro genere (comprese quelle derivanti dalla prestazione al cliente di taluni servizi diversi dalla revisione) tali che un terzo ragionevole ed informato riterrebbe compromessa l’indipendenza del revisore legale». In tale quadro, si dibatte se la prestazione di servizi non di revisione sia potenzialmente aperta al conflitto di interesse tra la funzione di revisore contabile teoricamente o filosoficamente (Mautz e Sharaf 1961) destinata alla tutela dell’interesse pubblico e l’attività di consulenza aziendale teoricamente svolta nell’interesse dell’azienda cliente. Si pone in embrione il problema dell’indipendenza del revisore: controllore o consulente? La difficoltà di affrontare il tema dell’indipendenza del revisore è provata anche dal percorso seguito in Europa per giungere all’approvazione della VIII Direttiva nel 1984 (Evans e Nobes 1998). La questione non è facilmente risolvibile, tuttavia, è quanto meno curioso ricordare sin da ora che già Aristotele (trad. 2007: 217) nel suo libro dedicato alla Politica, nella parte riguardante le “magistrature” scrive che «… ma poiché talune magistrature, seppur non tutte, maneggiano grosse somme di denaro pubblico, ce ne deve essere un’altra che eserciti il controllo, esiga il rendiconto, e non tratti, per parte sua, nessun altro affare. Tali magistrati alcuni li chiamano “controllori”, altri “revisori dei conti”, altri “ispettori”, altri, infine, “avvocati del fisco”». Il presente contributo intende mettere in evidenza il comportamento seguito dalle aziende italiane quotate in borsa in merito alle forme di pubblicità dei corrispettivi per la revisione contabile e per servizi diversi dalla revisione, secondo quanto previsto dall’art. 149-duodecies (Pubblicità dei corrispettivi) del Regolamento Emittenti n. 11971 della Consob. A tale proposito, sono state oggetto di osservazione le informazioni disponibili per la prima volta nei bilanci di esercizio e consolidati del 2007, in particolare, il campione esaminato è costituito da 83 società italiane quotate in borsa a maggiore capitalizzazione (segmento blue chip del mercato azionario italiano). I prevalenti obiettivi conoscitivi perseguiti sono i seguenti: 1. Documentare la dimensione quantitativa dei servizi diversi dalla revisione. 9
Servizi «non di revisione»
2. Analizzare la relazione tra la prestazione di servizi diversi dalla revisione e le tipologie di giudizio espresse dalle società di revisione3. L’analisi ha permesso inoltre di evidenziare alcuni aspetti formali inerenti la modalità di comunicazione delle informazioni oggetto d’indagine. Il primo punto configura un contributo descrittivo, seppur relativo a una nuova informativa di bilancio. Dal campione esaminato emerge che sul totale dei compensi percepiti dalle società di revisione, mediamente, il 27,4% proviene da servizi diversi dalla revisione. L’analisi in dettaglio mostra delle situazioni meritevoli di attenzione sotto il profilo dell’indipendenza del revisore (in apparenza) in cui i compensi per servizi diversi dalla revisione superano quelli per la revisione contabile. Con riferimento al secondo obiettivo, è opportuno chiarire che nell’ipotesi d’influenza ci aspettiamo che i giudizi senza rilievi siano associati alla presenza di un più ampio ricorso a servizi diversi dalla revisione. Le evidenze raccolte (82 giudizi senza rilievi e un giudizio con rilievi) non permettono di testare tale ipotesi. Tuttavia, è emersa un’associazione positiva significativa tra “richiami d’informativa” nella relazione della società di revisione e la presenza di servizi diversi dalla revisione. Tale evidenza non è interpretabile in modo univoco a supporto dell’ipotesi di perdita d’indipendenza del revisore, aprendo lo spazio a future ricerche tendenti a chiarire l’uso del richiamo d’informativa nell’ambito delle relazioni emesse dalle società di revisione. L’articolo prosegue con una sintesi del dibattito teorico sulla relazione tra indipendenza del revisore e prestazione di servizi non di revisione e, successivamente, con un quadro regolamentare della situazione italiana. Il paragrafo 4, dedicato alla pubblicità dei corrispettivi e alla classificazione dei servizi non di revisione, è seguito dalla verifica empirica e dalle conclusioni.
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Sulle tipologie di giudizio nel contesto italiano, cfr., oltre all’art. 156 del D.Lgs. n. 58/1998, la Comunicazione Consob n. 99088450 del 1 dicembre 1999, mentre per l’espressione in lingua inglese dei giudizi, cfr., ad esempio, International Standard on Auditing (ISA) 700 e 701. In sintesi, possiamo avere: giudizio senza rilievi (unqualified opinion), giudizio con rilievi (qualified opinion), impossibilità di esprimere un giudizio (disclaimer of opinion), giudizio negativo (adverse opinion). Inoltre, senza impatto sul giudizio espresso, è possibile formulare un richiamo di informativa o paragrafo d’enfasi (emphasis of matter paragraph).
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Servizi «non di revisione»
2. Il dibattito sull’indipendenza del revisore e la prestazione di servizi non di revisione La prestazione di consulenze accanto alla revisione contabile è sempre stato oggetto di diverse interpretazioni4. In particolare, le società di revisione pongono la questione che non vi sono sufficienti evidenze empiriche per dimostrare il minor grado di indipendenza del revisore che presta consulenza al medesimo cliente, rispetto al revisore contabile che non presta quel servizio aggiuntivo5. Negli Stati Uniti, la forza di tale posizione è stata fatta propria anche da una parte del «potere politico» in occasione di proposte regolamentari della Sec (Securities and Exchange Commission) tendenti a vietare alcuni servizi non di revisione6. Lo svolgimento di diverse attività da parte di un medesimo soggetto può determinare il perseguimento di un interesse diverso da quello che avrebbe perseguito se avesse svolto in via esclusiva una sola attività: conflitto d’interessi (Rabitti Bedogni 2002, 38-41). Tali argomentazioni toccano con diversa intensità la questione centrale riguardante la credibilità della funzione di controllo contabile in un determinato contesto economico, sociale e culturale7. Il profilo d’indipendenza del revisore in quanto qualità dell’essere umano non è direttamente osservabile e, pertanto, risulta 4
«… there has been growing concern on the part of the Commission and users of financial statements about the effects on independence when auditors provide both audit and non-audit services to their audit clients. Dramatic changes in the accounting profession and the types of services that auditors are providing to their audit clients, as well as increases in the absolute and relative size of the fees charged for non-audit services, have exacerbated these concerns. As the Panel on Audit Effectiveness (the “O’Malley Panel”) recently recognized, “The potential effect of non-audit services on auditor objectivity has long been an area of concern. That concern has been compounded in recent years by significant increases in the amounts of non-audit services provided by audit firms.” We considered a full range of alternatives to address these concerns. Our proposed amendments identified certain non-audit services that, when rendered to an audit client, impair auditor independence. The proposed restrictions on non-audit services generated more comments than any other aspect of the proposals», Sec (2000, Executive Summary). 5 Ricordiamo, per la rilevanza sulla cultura contabile internazionale, una ricerca promossa nel 1978 dall’American Institute of Certified Public Accountants (AICPA) in cui si afferma che «There is no evidence that provision of services other than auditing has actually impaired the independence of auditors. However, the belief of a significant minority of users that independence is impaired creates a major problem for the profession. Decisions on the other services offered and used should be made by individual public accounting firms and boards of directors of the client», Olson (1982, 215). 6 In una lettera inviata al presidente della Sec Arthur Levitt «… dated April 17, 2000, from the House Commerce Committee, the signatories (Tauzin, Oxley, and Bliley) threatened hearings on the SEC proposal if they didn’t get satisfactory answers to a list of 15 multipart, complex questions such as this one, No. 2: “What empirical evidence, studies or economic analysis does the SEC possess that demonstrates accounting firms providing tax advice to audit clients are less independent than those firms that do not provide such advice? Are there any specific administrative findings that have concluded the provision of tax advice resulted in a specific audit failure by the same firm?”», Toffler e Reingold (2004, 177-178). 7 In merito al controllo delle informazioni contabili nel contesto italiano, cfr., tra gli altri, Bruni (1996), Campedelli (1996), Catturi (2000), Cavalieri (1999), Coda (1979), Dezzani, Pisoni, Puddu, Cantino (1998), Di Pietra (2005), Paolone, D’Amico, Consorti (2000), Rossi, Gervasio (2009).
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Servizi «non di revisione»
difficilmente dimostrabile l’esistenza o meno di quel carattere. Si può argomentare che l’indipendenza (come atteggiamento mentale) può esistere anche se si prestano servizi di consulenza aggiuntivi8. Senza rispondere direttamente a tale questione, si può condividere l’idea che controllare la contabilità e il bilancio di un’azienda alla cui predisposizione in qualche modo ha partecipato il medesimo controllore lascia dei dubbi, almeno sotto il profilo della percezione, sulla credibilità del giudizio espresso dal revisore. In questo senso, nella migliore delle ipotesi, il contributo del revisore è quello di aumentare il tasso tecnico all’interno dell’azienda cliente per risolvere questioni contabili controverse e giungere a un auspicabile bilancio attendibile. Diversi studi, in gran parte anglosassoni, hanno affrontato il tema dell’impatto che la prestazione di servizi non di revisione ha sull’indipendenza del revisore. In particolare, possiamo individuare almeno tre direttrici di studio che indagano la prestazione di servizi non di revisione in relazione alla qualità delle informazioni contabili, ai giudizi espressi dal revisore e, nel quadro di un’analisi economica, ricorrendo alla teoria dei costi di transazione. Nel primo approccio, l’indipendenza è osservata indirettamente mediante parametri legati alla qualità delle informazioni contabili (earnings quality, earnings management). I risultati di tali indagini non sono concordanti, lasciando aperta la questione. Ad esempio, alcune evidenze empiriche hanno mostrato che la qualità delle informazioni contabili nei bilanci aziendali si deteriora con l’incremento dell’acquisto dal medesimo revisore di servizi diversi dalla revisione (Ferguson, Seow e Young 2004; Frankel, Johnson e Nelson 2002; Iyengar e Zampelli 2007; Larcker e Richardson 2004). Al contrario, Ashbaugh, LaFond e Mayhew (2003) non dimostrano una relazione positiva tra compensi per servizi non di revisione ed earnings management. Sulla stessa linea è il contributo di Kinney, Palmrose e Scholtz (2004) in cui si sostiene che la prestazione di consulenze fiscali può migliorare la qualità della revisione. Tale posizione è basata sull’idea che la prestazione di alcuni servizi non di revisione permette al revisore di conoscere meglio l’attività aziendale determinando anche un miglioramento dell’efficacia del controllo contabile (Simunic 1984). Quest’ultima ipotesi è supportata nel contesto italiano da una recente indagine basata su questionari somministrati a società di revisione (Rizzotti e Greco 2008).
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Ad esempio, si è sostenuto che «l’indipendenza è un atteggiamento morale e di onestà intellettuale da mantenersi in ogni momento del procedimento della certificazione, atteggiamento che può evidentemente esserci o non esserci a prescindere dalle circostanze in cui uno opera», auspicando un’attenuazione delle «incompatibilità di carattere generale tra revisione ed altre attività professionali», R. Caramel, L’indipendenza del certificatore, Prisma, luglio-sett., 1986, citato in Pauletto (1990, 122).
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Servizi «non di revisione»
Anche le ricerche tendenti a dimostrare una relazione tra servizi non di revisione e giudizio espresso dal revisore non sono concordanti. Alcune evidenze (Sharma e Sidhu 2001; Wines 1994) mostrano tale associazione (unqualified opinions relativamente più frequenti in presenza di più elevato ricorso a servizi diversi dalla revisione), mentre altri studi (Craswell 1999; Craswell, Stokes e Laughton 2002) non rilevano tale propensione da parte del revisore. Lennox (1999), seppur debolmente, sembra dimostrare che la prestazione di servizi diversi dalla revisione non riduce la qualità del controllo dei conti. Dal punto di vista dell’analisi economica, il revisore cerca di offrire anche servizi non di revisione per le sottostanti “economie di scopo” (ottenendo riduzione dei costi quando entrambe le prestazioni sono fornite da un unico soggetto)9. In tale contesto, un’altra interpretazione può essere quella di considerare il servizio di revisione come attività ausiliaria a quella dell’azienda, ipotizzando la possibilità di scelta tra transazioni economiche interne all’organismo aziendale o mediante il ricorso al mercato. I costi di transazione (Coase 1937) si sostengono per realizzare scambi sul mercato. Tali costi si riducono se le transazioni sono spostate all’interno dell’azienda, mediante il ricorso alla “relazione di comando” che lega il lavoratore dipendente alla direzione aziendale. In tali rapporti è possibile osservare diversi gradi di influenza tra “superiore” e “subordinato” che nella sua azione all’interno dell’azienda trova delle linee guida più o meno stringenti come punto di riferimento (Simon 1997). Per tale motivo, si è storicamente ricorso a rapporti con soggetti esterni all’azienda per lo svolgimento del controllo legale dei conti, non ritenendo sufficienti i controlli eventualmente svolti da organi societari interni10. Ciò determina un aumento dei costi di transazione, a beneficio del principio di indipendenza del revisore. In tale approccio, la relazione tra azienda da revisionare e società di revisione appare nominalmente come forma organizzativa di ricorso al mercato. Tuttavia, merita individuare alcuni elementi di tale rapporto che possono far pensare a caratteri comparabili con quelli che si hanno nel rapporto di lavoro subordinato. Ad esempio, 9 «A distinction should be made within these economies of scope between those that originate in the transformation process directed toward the production of information and knowledge, often known in accounting literature as knowledge spillovers, and those arising from making better use of assets or advantages of a contractual nature», Arrunada (1999, 514). 10 Ad esempio, con riferimento al collegio sindacale, è stato scritto che «nella realtà aziendale i sindaci sono espressi, come è noto, dall’Assemblea dei soci. Hanno infatti la stessa matrice degli amministratori, dai quali, in molti casi, finiscono per dipendere. Sono quindi dei controllori dipendenti. Non hanno cioè quel “distacco” dai responsabili della gestione che il controllo (amministrativo) richiede, né hanno quella “autonomia” di esercizio di funzione che solo un diverso meccanismo di nomina può garantire» (Bertini 1996, 13). Lo stesso Autore propone che il controllo legale dei conti «potrebbe essere affidato a “controllori indipendenti” di nomina pubblica, completamente svincolati dalla proprietà dell’azienda», (Bertini 1996, 16).
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Servizi «non di revisione»
incarichi che hanno una lunga durata, come può accadere per un lavoro dipendente, possono trasformare un fornitore di servizi in un elemento che è in qualche modo parte (integrante) dell’attività aziendale. Anche l’assegnazione di incarichi aggiuntivi può determinare una forma di integrazione del revisore in qualche aspetto dell’attività aziendale. In tal modo, la funzione di revisione si sposterebbe dal mercato verso l’azienda, perdendo in modo naturale il principio di indipendenza, ma riducendo i costi di transazione (Ianniello 2003: 166-168) e venendo ridefinita nel suo contenuto (Jeppesen 1998). È evidente che tale situazione non è accettabile; tuttavia, la difficoltà di misurazione dell’indipendenza e, quindi, dell’efficacia della funzione del controllo contabile finiscono per caratterizzare quella medesima funzione come essenzialmente oscura (the essential obscurity) (Power 1997). Nonostante l’assenza di concomitanti evidenze empiriche a supporto dell’idea che la prestazione di servizi non di revisione determini la perdita d’indipendenza del revisore, il “senso comune” potrebbe suggerire che quei servizi minino la “percezione” dell’indipendenza del revisore da parte di terzi11. Su tale tema, un’altra prospettiva d’indagine tende a dimostrare che gli utilizzatori del bilancio percepiscono la prestazione di servizi non di revisione come influente negativamente sull’indipendenza del revisore (Beattie, Brandt e Fearnley 1999; Krishnan, Sami e Zhang 2005). Un’evidenza simile è contenuta in Mishra, Raghunandan e Rama (2005) con particolare riferimento alla prestazione di consulenza fiscale e altri servizi non di revisione. Altri contributi evidenziano che la pubblicazione dei corrispettivi per servizi non di revisione potrebbe avere anche conseguenze negative, generando valutazioni inaccurate da parte degli investitori sull’indipendenza del revisore (Dopuch, King e Schwartz 2003). L’influenza della prestazione di servizi non di revisione sulla percezione dell’indipendenza del revisore può avere effetti anche sugli organi di controllo interni (audit committee) nel senso di determinare pareri sfavorevoli in merito all’acquisto di servizi non di revisione quando queste informazioni devono essere comunicate nei bilanci aziendali (Gaynor, McDaniel e Neal 2006). Nell’ambito dell’articolato dibattito appena riportato, è opportuno sottolineare l’idea che comunque il revisore non debba essere coinvolto nel processo decisionale dell’azienda di cui controlla il bilancio. Per raggiungere tale scopo, si sostiene che si deve dare all’organismo 11
Ad esempio, Bogle (2005:39) ricorda un episodio relativo ad un’audizione tenuta nel 1998 presso la Sec negli Stati Uniti sulla questione relativa alla prestazione di servizi di revisione e di consulenza a favore della stessa azienda, scrivendo: «… I was challenged to find a “smoking gun” in the form of data that linked the provision of consulting services to audit failures. I could only respond, “sometimes statistics cannot prove what common sense make obvious”».
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aziendale l’“opportunità di scegliere tra più alternative ragionevoli”, potendo fornire in tale contesto delle “raccomandazioni motivate”12. Traspare da tale approccio il tentativo di ridefinire una categoria di prestazione di servizi all’azienda non catalogabile come “consulenza” ma come “raccomandazione motivata” nell’ambito di più alternative ragionevoli (Jeppens 1998). L’ipotesi sottostante è che la raccomandazione (advice) è un termine più debole della consulenza (consulting). La raccomandazione può essere accettata o meno, mentre la consulenza implica un’assunzione di ruolo chiave nella decisione aziendale. In effetti, nella tradizione delle società di revisione anglosassoni si nota l’assenza del riferimento letterale alla consulenza aziendale (management consulting). Ad esempio, alcune etichette utilizzate nell’esperienza di alcune società di revisione anglosassoni sono: «management advisory services», «administrative services», «specialized services» (Brewster 2003, 145). In pratica, tali posizioni hanno cominciato a scricchiolare alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, con l’azione intrapresa dall’allora presidente della Securities and Exchange Commission, Arthur Levit, intenzionato a vietare lo svolgimento di alcuni servizi “non di revisione” nei confronti della stessa azienda in cui si è assunto l’incarico di revisionare il bilancio. Tale azione è stata contrastata dalle “big five” di quel periodo, considerato che gran parte degli utili erano conseguiti mediante la prestazione di servizi “non di revisione” (The Economist 2000). In particolare, alcune elaborazioni statistiche evidenziano che i ricavi provenienti dalla revisione contabile rappresentavano circa il 70% nel 1976 e solo il 31% nel 1998 (Brewster 2003, 195)13. Il temporaneo compromesso negli Stati Uniti è stato raggiunto con l’obbligo di informativa sui compensi per la revisione e servizi diversi dalla revisione piuttosto che con rigorosi divieti di specifiche attività (Sec 2000). Dopo il caso Enron, il Sarbanes-Oxley Act del 2002 ha introdotto espliciti divieti relativi allo svolgimento di alcuni servizi diversi dalla revisione (cfr. successiva nota 18). 12
Cspr (2005, §5.7.) prevede che «… In occasione della prestazione di servizi di consulenza o assistenza da parte del Revisore o di un soggetto appartenente alla sua Rete, questi ultimi devono fornire all’Alta Direzione Aziendale del Soggetto Sottoposto a Revisione o di una sua Consociata la possibilità di scegliere tra più alternative ragionevoli. Tutto ciò al fine di evitare qualunque coinvolgimento del Revisore nel processo decisionale dell’Alta Direzione Aziendale del Soggetto Sottoposto a Revisione o di una sua Consociata. In tale ambito, il Revisore o il soggetto appartenente alla sua Rete possono formulare raccomandazioni al Soggetto Sottoposto a Revisione o alla sua Consociata. Queste raccomandazioni devono in ogni caso essere motivate con analisi obiettive e trasparenti affinché il Soggetto Sottoposto a Revisione o la sua Consociata possa valutare tali raccomandazioni prima di assumere la propria decisione». 13 Si ricorda che Enron nel 2000 ha acquisito servizi di revisione contabile per $ 25 milioni e servizi “non di revisione” per $ 27 milioni dalla società di revisione Arthur Andersen (Hirsch 2002).
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3. Evoluzione recente del quadro regolamentare italiano, con particolare riferimento agli interventi della Consob Lo scopo del presente paragrafo consiste nel fornire una visione d’insieme dei momenti regolamentari sul tema oggetto di indagine, in modo da presentare la nuova richiesta di informativa di bilancio sui corrispettivi alle società di revisione, inserendola in un processo di graduale evoluzione normativa tendente a informare il pubblico sui diversi aspetti della vita aziendale. Per tale motivo, un punto di partenza nell’analisi della situazione italiana può essere individuato nella disposizione di legge che ha introdotto in Italia, inizialmente per le società quotate, il controllo obbligatorio sulla contabilità e il bilancio da parte di società di revisione esterne e indipendenti. Si tratta del D.P.R. n. 136/1975 che all’art. 8 prevedeva tra i vari requisiti per l’iscrizione presso l’albo speciale delle società di revisione tenuto dalla Consob quello dell’oggetto sociale limitato all’“organizzazione e alla revisione contabile di aziende, con esclusione di qualsiasi altra attività”14. Tale disposizione lascia o limita (a seconda dei punti di vista) alle società di revisione la possibilità di fornire servizi su due aree: l’organizzazione e la revisione contabile. È chiaro sin dall’inizio della costruzione giuridica che accanto al controllo contabile convive la prestazione di servizi (di organizzazione) alle aziende. Allo stesso tempo, non è chiaro quali servizi possano essere riconducibili nella sfera d’azione della parola “organizzazione”. Inoltre, altra questione riguarda se e in che misura tali servizi (non chiaramente definiti) possano essere svolti nei confronti delle aziende di cui si deve revisionare il bilancio. Proprio l’assenza di una definizione crea lo spazio per comportamenti difficilmente classificabili nell’ottica dell’esclusività dell’oggetto sociale. Nel riferimento all’organizzazione è possibile individuare elementi di “plasticità” (le diverse interpretazioni) ma anche di “robustezza” (la comune idea dell’esistenza di un limite), confermando che dalle classificazioni derivano anche conseguenze sul ruolo svolto dai diversi attori nel mondo economico, come in altri ambiti della vita moderna (Bowker e Star 2000). L’oggetto sociale esclusivo delle società di revisione è comunque interpretabile come rigoroso tentativo di salvaguardare il carattere dell’indipendenza, in quanto si intende limitare giuridicamente il campo di 14
Si ricorda anche il requisito di «indipendenza, organizzazione e idoneità tecnica» della società di revisione, in merito al quale la stessa Consob, nella Relazione del 1980 ha affermato che è stata «particolarmente impegnativa … la valutazione globale di merito in ordine all’indipendenza, organizzazione e idoneità tecnica delle società, una volta completato l’accertamento dell’esistenza dei requisiti di legge. … In qualche caso si è ritenuto di chiedere ad amministratori o soci la rinuncia a particolari incarichi che destavano perplessità sotto il profilo della valutazione dell’indipendenza; come pure la rimozione di inconciliabili situazioni di collegamento tra società di revisione ed altre società», citato in Fortunato (1985, 39-40).
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attività del revisore. Tuttavia, paradossalmente, la definizione generica (servizi di organizzazione) può rendere quella salvaguardia inefficace. Per rispondere in parte a tale problema, l’oggetto sociale è stato limitato alla “revisione e all’organizzazione contabile di aziende” con il D. Lgs. n. 88/1992. A tale proposito, Tezzon (2001) osserva che lo «spostamento dell’aggettivo “contabile” nell’attuale formulazione sgombra il campo da equivoci e chiarisce che l’attività di organizzazione non deve essere intesa in senso lato ma deve attenere strettamente agli aspetti contabili dell’organizzazione stessa. Nonostante ciò permangono delle aree grigie. Se il termine revisione contabile richiama inequivocabilmente una serie definita di funzioni, quando si parla di organizzazione contabile c’è sempre il rischio che la società di revisione svolga un’attività che la pone in una situazione critica. L’esercizio della vigilanza mira ad evitare due rischi: ■
Il rischio che le attività svolte coinvolgano direttamente la società di revisione in aspetti dell’operatività dell’impresa collocati a monte delle manifestazioni contabili, vale a dire in processi e in fatti aziendali che, per loro natura, presentano maggiori profili di delicatezza per le responsabilità di tipo manageriale che essi comportano.
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Il rischio di self review, inteso come il rischio che il revisore, nel corso dell’audit sul bilancio, si trovi a rivedere, e quindi a giudicare senza la necessaria obiettività, un lavoro di organizzazione contabile da lui precedentemente svolto, la cui applicazione ha generato quegli stessi dati contabili oggetto di revisione. È evidente che mentre nel primo caso siamo in presenza di attività sempre escluse, perché esorbitanti l’oggetto sociale, nel secondo la disciplina dell’oggetto sociale è rispettata ma l’indipendenza resta comunque minacciata dallo svolgimento di quell’attività nei confronti dello stesso cliente del quale viene revisionato il bilancio». È opportuno inoltre osservare che nella riformulazione dell’esclusività dell’oggetto sociale del 1992, tuttora in vigore, è stato eliminato l’inciso di carattere rafforzativo (“con esclusione di qualsiasi altra attività”). La normativa italiana si caratterizza dunque per aver stabilito che l’oggetto sociale della società di revisione è limitato alla revisione e organizzazione contabile. L’interpretazione operativa di tale espressione e l’entità dei servizi non di revisione prestati alle medesime aziende conferenti l’incarico di revisione del bilancio è divenuto negli ultimi anni argomento sempre più dibattuto. Ad esempio, Comoli (1996, 40) in un report di ricerca basato su interviste a dottori commercialisti segnala l’«opinione di qualcuno degli intervistati che qualora una società di revisione presti anche servizi di consulenza ad una stessa azienda, si attenui, di fatto, il principio inderogabile dell’autonomia di giudizio del revisore, e, quindi, la 17
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propria indipendenza». Opinione diversa è espressa da parte di esponenti delle società di revisione che, come riportato in una ricerca di Andrei e Ferrari (1996, 126) basata su interviste, giudicano inadeguata la norma sulla limitazione dell’oggetto sociale «sottolineando come lo svolgimento di attività di consulenza non possa essere considerato in contrasto con il raggiungimento degli obiettivi legati all’indipendenza dei revisori». In un quadro interpretativo che può oscillare tra il rigoroso divieto e l’accondiscendenza in merito all’ammissibilità di servizi diversi dalla revisione, si inserisce l’attività della Consob che nel tempo si è occupata della questione in oggetto15. Uno dei primi interventi della Consob dedicati al tema del conflitto di interessi tra revisione contabile ed attività di consulenza è contenuto nella Comunicazione n. 87/01002 del 23 gennaio 1987 con cui si invitano le società conferenti l’incarico di revisione contabile «a non avvalersi della consulenza di organismi, società, studi associati o singoli professionisti che intrattengono un rapporto di fatto a carattere continuativo, mediante le prestazioni di consulenze e collaborazioni con le società di revisione alle quali sia stato conferito l’incarico di certificazione». La questione affrontata in tale prescrizione è quella relativa alla possibilità che il revisore, non potendo svolgere direttamente attività di consulenza, potesse far ricorso ad altre strutture organizzative ed operative appartenenti alla medesima “rete”, per prestare servizi di consulenza alle medesime aziende in cui si era assunto l’incarico di controllare il bilancio. In tal modo, sarebbe riemerso indirettamente il conflitto di interessi e il problema del self review16. Tale riferimento ai soggetti legati alla società di revisione è ripreso in un’altra Comunicazione Consob (n. Dac/Rm/96003558) del 18 aprile 1996 che ha per oggetto il conferimento dell’incarico ed i relativi adempimenti da parte delle società conferenti e delle società di revisione. Per quanto interessa in questa sede, si ricorda, tra gli obblighi previsti per le società conferenti, i seguenti due punti: ■
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Le società conferenti dovranno fornire annualmente, nel corso dell’assemblea di approvazione del bilancio d’esercizio, l’indicazione del numero di ore impiegate e del corrispettivo fatturato dalla socie-
Occorre notare che il tema dell’indipendenza del revisore non può essere compreso solo con il riferimento a profili regolamentari. Windsor e Ashkanasy (2005, 717) osservano nella conclusione della loro ricerca che «auditor independence behaviour is complex, and involves an interaction between personal values, cognitions and the situation. Hence, it would be difficult to find one simple solution, such as giving psychological tests when recruiting auditors. Focusing on one dimension is not sufficient to improve the ethical performance of auditors. Even the autonomous auditors in the present research acquiesced to client power management, especially when they believed in an unjust world. On the other hand, the pragmatic auditors were not as acquiescent as the accommodating auditors with unjust world beliefs». 16 Problemi analoghi sono stati rilevati in Francia da Mikol e Standish (1998).
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tà di revisione per la revisione del bilancio civilistico e del consolidato (p.to D.1.1). ■
Nel corso dell’assemblea dovranno altresì essere comunicate le eventuali modifiche o integrazioni della proposta della società di revisione incaricata, nel caso in cui intervengono fatti eccezionali e/o imprevedibili (p.to D.1.2). Con riferimento alle società conferenti e alle società di revisione, viene prevista la seguente raccomandazione:
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Si invitano le società conferenti l’incarico di revisione contabile a non avvalersi della consulenza di organismi, società, studi associati o singoli professionisti che intrattengono un rapporto di fatto a carattere continuativo, mediante le prestazioni di consulenze e collaborazioni con le società di revisione alle quali sia stato conferito l’incarico di certificazione (p.to D.3.2). È importante sottolineare che la raccomandazione contenuta nel testé menzionato punto D.3.2) è rimasta in vigore fino alla sua abrogazione avvenuta con la Comunicazione n. 15185 del 5 ottobre 2005 che rende applicabile un più ampio principio di revisione dedicato all’indipendenza del revisore, facendo esplicito riferimento al concetto di “rete” (Cspr 2005). Quanto quella medesima raccomandazione sia stata seguita nel tempo è questione di sicuro interesse. A tale proposito, Tezzon (2001) osserva che «da un’indagine recentemente condotta sulle prime 55 società quotate ed i rispettivi gruppi è emersa una diffusa disapplicazione di tale raccomandazione. Non per questo si può affermare che sussiste anche una mancanza di indipendenza o una violazione della norma relativa all’oggetto sociale. Manca infatti la dimostrazione del rapporto causa-effetto. Di certo si tratta di un fenomeno “opaco” sul quale non vi è informazione e che ha dimensioni non trascurabili». La questione dei servizi di consulenza svolti dalla società di revisione o da soggetti a essa legati è stata affrontata dalla Consob anche mediante il coinvolgimento degli organi societari. È il caso di ricordare la Comunicazione n. Dac/Rm/97001574 del 20 febbraio 1997 dedicata al più ampio tema dei controlli societari. In tale documento, tra le altre prescrizioni, si raccomanda che i collegi sindacali integrino rispetto a quanto richiesto da previsioni legislative, il contenuto della relazione, esprimendo in particolare valutazioni e commenti sugli ulteriori incarichi attribuiti al revisore, in aggiunta alla revisione e certificazione del bilancio, e relativi costi. Inoltre, si raccomanda che l’attribuzione al revisore contabile di incarichi diversi dalla revisione e certificazione del bilancio, purché compatibili con l’oggetto sociale della società di revisione, sia deliberata dal consiglio d’amministrazione previo parere del collegio sindacale. In linea generale, come riportato da Marasca (2000, 54), tale 19
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intervento della Consob ha «sollevato numerose critiche da parte sia del mondo professionale, sia di studiosi ed esperti in relazione all’ingerenza dell’organo di vigilanza in un ambito ritenuto estraneo ai suoi compiti». Con l’approvazione del D. Lgs. n. 58/1998 o Testo Unico sulla Finanza (Tuf) si avvia un processo di cambiamento nei meccanismi di funzionamento degli organi societari per le aziende quotate in borsa. Si segnala, ad esempio, l’esplicito riferimento al “sistema di controllo interno” (Cortesi, Tettamanzi e Corno 2009; Marchi 2004; Zanda 2002). I cambiamenti richiesti dal Tuf hanno generato anche una nuova domanda di consulenze professionali cui le stesse società di revisione potevano essere interessate, sempre naturalmente nei limiti dell’oggetto sociale17. Tra le questioni che si sono poste, merita di essere ricordata quella relativa all’ipotesi di affidare proprio a una società di revisione, le funzioni di controllo interno. Su questo problema una Comunicazione Consob (n. Dem/94875 del 2000) non ammette tale possibilità, in quanto, tra le altre motivazioni, la funzione di controllo interno «…si spinge fino allo svolgimento di attività di supporto consultivo ai settori dell’organizzazione aziendale…». Una successiva Comunicazione (n. Dem/3030464 del 2003) conferma che la «contestuale prestazione nei confronti dello stesso soggetto di servizi professionali di auditing e di altra natura da parte della società di revisione incaricata e dei soggetti ad essa legati, costituisce un elemento pregiudizievole dell’indipendenza della società di revisione stessa». Il coinvolgimento del collegio sindacale di società quotate nelle questioni relative all’attribuzione di “ulteriori incarichi” continua nel nuovo quadro giuridico del Tuf, con la Comunicazione n. Dem/1025564 del 6 aprile 2001 riguardante proprio i contenuti della relazione del collegio sindacale. Di interesse per la presente ricerca sono i seguenti due punti: ■
Indicazione dell’eventuale conferimento di ulteriori incarichi alla società di revisione e dei relativi costi.
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Indicazione dell’eventuale conferimento di incarichi a soggetti legati alla società incaricata della revisione da rapporti continuativi e dei relativi costi. Tali informazioni dovrebbero essere inserite nella relazione anche se di segno negativo. Ad esempio, se non sono stati conferiti ulteriori incarichi alla società di revisione, è opportuno indicare tale circostanza, piuttosto che non fare alcun riferimento a tale ipotesi operativa. La richiesta di tali informazioni è stata confermata con la Comunicazione n. Dem/3021582 del 4 aprile 2003. In tale provvedimento la Consob segnala che «gli esiti dell’esame delle schede di controllo hanno mo-
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Si nota che anche successi provvedimenti legislativi sono stati potenziali generatori di «opportunità» per offrire ulteriori servizi da parte delle società di revisione, come, ad esempio, nel caso del D.Lgs. n. 231/2001 e della Legge n. 262/2005.
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strato un buon grado di adesione, ancorché non completo, da parte dei collegi sindacali nonché un conseguente notevole miglioramento rispetto al passato della qualità dell’informazione resa agli azionisti». A seguito della riforma del diritto societario nel 2003, con conseguente adeguamento del Tuf, e dopo l’adozione del principio di revisione dedicato all’indipendenza del revisore (Cspr, 2005), anche le schede riepilogative dell’attività di verifica svolta dagli organi di controllo delle società quotate sono state modificate. Per quanto interessa in questa sede, la Comunicazione n. Dem/6031329 del 7 aprile 2006 segnala che «i quesiti sugli eventuali ulteriori incarichi conferiti alla società di revisione e/o a soggetti legati alla società di revisione da “rapporti continuativi” sono stati riformulati e accorpati per tener conto del nuovo documento raccomandato dalla Consob sui “Principi di indipendenza del Revisore” (delibera 15185 del 5 ottobre 2005) che, da un lato, ha ampliato e meglio definito il novero dei soggetti che, in qualità di fornitori o di destinatari di servizi diversi dalla revisione, possono influire sull’indipendenza del revisore, dall’altro ha individuato nell’organo interno di controllo l’interlocutore privilegiato del revisore per tutte le problematiche in materia d’indipendenza». Si segnala infine che il ruolo dell’organo di controllo (il collegio sindacale, nel modello societario tradizionale) nella valutazione dell’indipendenza del revisore è previsto anche dal Codice di Autodisciplina di Borsa Italiana (2006) che al punto 10.C.5. prescrive che: il collegio sindacale vigila sull’indipendenza della società di revisione, verificando tanto il rispetto delle disposizioni normative in materia, quanto la natura e l’entità dei servizi diversi dal controllo contabile prestati all’emittente ed alle sue controllate da parte della stessa società di revisione e delle entità appartenenti alla rete della medesima. A tale proposito, si osserva anche l’opportunità di ampliare le prerogative del Comitato per il controllo interno (punto 8.C.3. del Codice di Autodisciplina), al fine di individuare un ruolo nel processo di approvazione di eventuali ulteriori incarichi conferiti alla società di revisione o a entità appartenenti alla sua rete. Sul substrato interpretativo predisposto dalla Consob (sintetizzato nella Tabella 1), si inserisce un fattore di cambiamento fornito dalla stessa realtà aziendale. Gli scandali finanziari statunitensi (per esempio, Enron, Global Crossing) ed europei (per esempio, Ahold, Parmalat) succedutisi a partire dalla fine del 2001 hanno contribuito al cambiamento del clima sociale ed economico, rendendolo generalmente più rigoroso nella formulazione di regole e nelle sue interpretazioni. Su tale scia di cambiamento, una svolta significativa nel quadro giuridico italiano si è avuta con la Legge n. 262 del 28 dicembre 2005 (cosiddetta legge per la tutela del risparmio). Tale provvedimento, seguito dal D. Lgs. di coordinamento n. 303 del 29 dicembre 2006 ha innovato il Tuf sui temi 21
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oggetto della presente indagine. In particolare, l’art. 160 (Incompatibilità) del Tuf tratta della questione oggetto di analisi e in parte rinvia a regolamenti della Consob, al fine di assicurare l’indipendenza della società e del responsabile della revisione. Tra i punti di interesse in questa sede, segnaliamo i seguenti: ■
La definizione di criteri per la definizione di «rete» di una società di revisione.
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Le forme di pubblicità dei compensi che la società di revisione e le entità appartenenti alla sua rete hanno percepito, distintamente, per incarichi di revisione e per la prestazione di altri servizi, indicati per tipo o categoria.
Tabella 1: INTERVENTI DELLA CONSOB IN MERITO AGLI «INCARICHI AGGIUNTIVI» RISPETTO ALLA REVISIONE CONTABILE Provvedimento della Consob
Contenuto rilevante in merito agli «incarichi aggiuntivi» rispetto alla revisione contabile
Comunicazione n. 87/01002 del 23 gennaio 1987
Si invitano le società conferenti l’incarico di revisione contabile a non avvalersi della consulenza di organismi, società, studi associati o singoli professionisti che intrattengono un rapporto di fatto a carattere continuativo, mediante le prestazioni di consulenze e collaborazioni con le società di revisione alle quali sia stato conferito l’incarico di certificazione.
Comunicazione n. Dac/Rm/96003558 del 18 aprile 1996
Al punto D.3.2 si invitano le società conferenti l’incarico di revisione contabile a non avvalersi della consulenza di organismi, società, studi associati o singoli professionisti che intrattengono un rapporto di fatto a carattere continuativo, mediante le prestazioni di consulenze e collaborazioni con le società di revisione alle quali sia stato conferito l’incarico di certificazione.
Comunicazione n. Dac/Rm/97001574 del 20 febbraio 1997
Si raccomanda al collegio sindacale di esprimere valutazioni e commenti nella propria relazione sugli ulteriori incarichi conferiti alla società di revisione e relativi costi. Si raccomanda che gli ulteriori incarichi siano conferiti dal consiglio di amministrazione previo parere del collegio sindacale.
Comunicazione n. Dem/94875 del 27 dicembre 2000
L’esercizio della funzione di controllo interno nell’ambito di un’azienda non è riconducibile all’attività di organizzazione contabile prevista nell’oggetto sociale delle società di revisione.
Comunicazione n. Dem/1025564 del 6 aprile 2001 Comunicazione n. Dem/3021582 del 4 aprile 2003
È previsto che la relazione del collegio sindacale fornisca informazioni in merito a: - Ulteriori incarichi conferiti al revisore e relativi costi; - Ulteriori incarichi conferiti a società legate al revisore da rapporti continuativi e relativi costi.
Comunicazione n. Dem/3030464 del 12 maggio 2003
Si conferma che la contestuale prestazione nei confronti dello stesso soggetto di servizi professionali di auditing e di altra natura da parte della società di revisione incaricata e dei soggetti ad essa legati, costituisce un elemento pregiudizievole dell’indipendenza della società di revisione stessa.
Comunicazione n. 15185 del 5 ottobre 2005
Abroga il punto D.3.2 della Comunicazione n. 96003558 del 18 aprile 1996 ed adotta il documento “principi di indipendenza del revisore” (Cspr, 2005).
Comunicazione n. Dem/6031329 del 7 aprile 2006
È previsto che nella relazione dell’organo di controllo si forniscano informazioni in merito a: - Eventuali ulteriori incarichi conferiti al revisore e alla sua “rete”; - Eventuali criticità ed iniziative intraprese per salvaguardare l’indipendenza del revisore.
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Il già menzionato art. 160 del Tuf stabilisce il divieto rivolto alla società di revisione e alla sua rete di prestare alcuni servizi nei confronti delle aziende in cui hanno assunto l’incarico di controllare il bilancio. Riportiamo di seguito l’elenco delle prestazioni che, nell’interpretazione del legislatore, minano l’indipendenza del revisore: a) Tenuta dei libri contabili e altri servizi relativi alle registrazioni contabili o alle relazioni di bilancio b) Progettazione e realizzazione dei sistemi informativi contabili c) Servizi di valutazione e stima ed emissione di pareri pro veritate d) Servizi attuariali e) Gestione esterna dei servizi di controllo interno f) Consulenza e servizi in materia di organizzazione aziendale diretti alla selezione, formazione e gestione del personale g) Intermediazione di titoli, consulenza per l’investimento o servizi bancari d’investimento h) Prestazione di difesa giudiziale i) Altri servizi e attività, anche di consulenza, inclusa quella legale, non collegati alla revisione, individuati dalla Consob con un regolamento. Tale elenco segna un passo importante nell’incerto processo interpretativo delineato precedentemente, riducendo, in tal modo, il grado di «plasticità» nella definizione delle attività non erogabili accanto al servizio del controllo legale dei conti. È opportuno segnalare che l’elenco delle attività vietate è ispirato da un’analoga disposizione statunitense contenuta nel Sarbanes-Oxley Act del 200218. A tale proposito, si ricorda che negli Stati Uniti l’obbligo di fornire informazioni sui compensi per prestazioni di servizi non di revisione è sostanzialmente riconducibile ad un intervento regolamentare della Securities and Exchange Commission del 2000 (Sec 2000)19. 18
La section 201 (Services outside the scope of practice of auditors) del Sarbanes-Oxley Act riporta il seguente elenco di attività vietate: (1) Bookkeeping or other services related to the accounting records or financial statements of the audit client (2) Financial information systems design and implementation (3) Appraisal or valuation services, fairness opinions, or contribution-in-kind reports (4) Actuarial services (5) Internal audit outsourcing services (6) Management functions or human resources (7) Broker or dealer, investment adviser, or investment banking services (8) Legal services and expert services unrelated to the audit, and (9) Any other service that the Board determines, by regulation, is impermissible. 19 Un primo obbligo informativo in tal senso è stato introdotto dalla Sec nel 1978 con l’Accounting Series Release (ARS) 250 ed è rimasto in vigore fino al 1982. Con l’ARS 250 viene proposto anche il calcolo di un indice relativo al peso dei servizi diversi dalla revisione sul totale dei corrispettivi. Si nota, inoltre, che l’obbligo informativo sui corrispettivi per servizi di revisione e non di revisione è stato introdotto in Australia nel 1972 e in UK nel 1992.
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In attuazione della delega contenuta nel Tuf, la Consob ha introdotto nella Parte III, Titolo VI, del Regolamento Emittenti n. 11971, il Capo I-bis (Incompatibilità) che contiene gli articoli da 149-bis a 149-duodecies. Tra i servizi vietati da aggiungere a quelli già elencati nell’art. 160 del Tuf, vengono individuati i “servizi di consulenza legale” definiti come “servizi di consulenza che comportano un’attività di rappresentanza del cliente nonché i servizi di assistenza legale connessi allo svolgimento di procedimenti contenziosi” (art. 149-decies). La questione riguardante la pubblicità dei corrispettivi è trattata nel successivo paragrafo.
4. Informazioni sui corrispettivi per revisione contabile e servizi diversi dalla revisione Il quadro regolamentare italiano discusso nel paragrafo 3 ha messo in evidenza che gradualmente è cresciuta l’attenzione sull’informativa relativa al costo della revisione - comunicata in assemblea in sede di approvazione del bilancio - e alla natura e ai costi di ulteriori incarichi anche con riferimento alla rete del revisore - comunicata nella relazione del collegio sindacale - (per alcuni esempi, cfr. Ianniello 2008: 113-159). Tale percorso giunge a maturazione dopo la Legge 262/2005 con il conseguente art. 149-duodecies (Pubblicità dei corrispettivi) del Regolamento Emittenti n. 11971 (decisione finale assunta dalla Consob con Delibera n. 15915 del 3 maggio 2007) in cui si prevede che: «1. In allegato al bilancio d’esercizio della società che ha conferito l’incarico di revisione viene presentato un prospetto contenente i corrispettivi di competenza dell’esercizio, a fronte dei servizi forniti alla società dai seguenti soggetti: a) Dalla società di revisione, per la prestazione di servizi di revisione. b) Dalla società di revisione, per la prestazione di servizi diversi dalla revisione, suddivisi tra servizi di verifica finalizzati all’emissione di un’attestazione e altri servizi, distinti per tipologia. c) Dalle entità appartenenti alla rete della società di revisione, per la prestazione di servizi, suddivisi per tipologia. 2. Per le società tenute alla redazione del bilancio consolidato, il prospetto di cui al comma 1 è elaborato anche con riferimento ai servizi forniti dalla società di revisione della capogruppo e dalle entità appartenenti alla sua rete alle società controllate». Con tale disposizione si rende obbligatoria nel bilancio l’informazione sui corrispettivi per servizi di revisione e non di revisione prestati nei confronti dall’azienda capogruppo e dell’intero gruppo aziendale. Tale nuova veste comunicativa enfatizza il ruolo che tale informazione può 24
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avere nel valutare il grado di indipendenza del revisore. Si tratta della percezione dell’indipendenza (in apparenza) da parte di terzi. In particolare, un indice che pone in relazione i corrispettivi per servizi non di revisione e quelli di revisione potrebbe essere interpretabile come indicatore di indipendenza in apparenza e, dunque, potrebbe spingere i comportamenti aziendali verso il contenimento di quel parametro, fino alla decisione di non assegnare incarichi aggiuntivi alla società di revisione incaricata del controllo del bilancio (Goldwasser 2002)20. Al fine di comprendere l’informativa di bilancio sui costi della revisione contabile e di altri servizi non di revisione, è opportuno indicare quali sono i pareri o altre prestazioni richiesti da leggi o regolamenti accanto a quelli di revisione contabile. A tale proposito, Mainardi (2004, 9) segnala una tendenza del nostro ordinamento ad assegnare alle società di revisione compiti non sempre riconducibili alla pura e semplice revisione contabile. Tra i principali incarichi previsti da disposizioni legislative o regolamenti si ricordano i seguenti: ■
Revisione (in genere, limitata) della relazione semestrale delle società quotate, in base alla raccomandazione della Consob contenuta nella Comunicazione n. Dac/Rm/97001574 del 20 febbraio 2007.
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Parere di congruità del prezzo di emissione delle azioni in caso di aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione.
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Pareri sul prospetto contabile e sulla relazione sulla base dei quali gli amministratori deliberano la distribuzione di acconti sui dividendi.
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Parere sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni in occasione di una fusione21.
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Relazioni sui bilanci pro-forma presentati nei prospetti informativi e/ o relazioni sulla bontà del sistema di controllo interno, in occasione dell’ammissione in borsa (Regolamento della Borsa Italiana Spa).
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Revisioni o attestazioni relative a prospetti o altre informazioni per la richiesta di contributi pubblici (in base alle norme di particolari settori operativi).
20
Ad esempio, nella Relazione e Bilancio di Esercizio di Enel 2007 (p. 155) è scritto che: «In aggiunta al divieto relativo alla prestazione di specifiche tipologie di servizi, imposto alle società di revisione dal Testo Unico della Finanza (con previsioni introdotte alla fine del 2005), già da tempo il codice etico del Gruppo sancisce l’incompatibilità della revisione contabile del bilancio della Società e del bilancio consolidato con lo svolgimento di attività di consulenza prestata in favore di qualsiasi società del Gruppo, estendendosi tale incompatibilità all’intero network della società di revisione». 21 Mainardi (2004: 148) osserva che «la possibilità di nominare, per la redazione della relazione sulla congruità del rapporto di cambio, la stessa società di revisione incaricata della revisione del bilancio prospetta un potenziale rischio di auto-revisione (c.d. self review). Infatti, il revisore si potrebbe trovare, nello svolgimento delle procedure di revisione del bilancio, a dover attuare verifiche sull’oggetto stesso del proprio lavoro, ingenerando così una situazione in cui sarebbe difficile rimanere obiettivo».
25
Servizi «non di revisione»
■
Procedure di verifica finalizzate alla sottoscrizione delle Dichiarazioni fiscali prevista dalle autorità fiscali.
■
Verifica della valutazione del sistema di controllo interno in base a quanto previsto dal Sarbanes-Oxley Act, nel paragrafo 404, nei casi di quotazione sul mercato statunitense.
Per quanto attiene alla classificazione, la Raccomandazione europea (Ce, 2002: §5, p.ti 3 e 4) fornisce una suddivisione del totale dei corrispettivi in quattro categorie: ■
Servizi di revisione legale
■
Altri servizi di verifica
■
Servizi di consulenza fiscale
■
Altri servizi diversi dalla revisione
I corrispettivi per gli altri servizi diversi dalla revisione vanno ulteriormente suddivisi per sottocategorie finché le voci comprese in una di esse differiscono sostanzialmente tra loro. Questa suddivisione in sottocategorie deve almeno fornire informazioni sui corrispettivi per la fornitura di servizi relativi ai sistemi informativi-contabili-amministrativi-finanziari, al servizio di revisione interna, alla valutazione, all’assistenza nella risoluzione di controversie e alla ricerca di personale. Per ogni voce nell’ambito di una (sotto)categoria va indicato anche l’importo registrato alla voce corrispondente per il periodo di riferimento precedente. Inoltre, va presentata una ripartizione in percentuale delle diverse (sotto)categorie. Nel caso della revisione legale di un bilancio consolidato, vanno pubblicizzati i corrispettivi percepiti dal revisore legale e dagli appartenenti alla stessa rete per i servizi prestati al cliente e alle sue entità comprese nel consolidamento. Nel documento elaborato dalla professione contabile italiana (Cspr 2005), naturalmente ispirato dalla Raccomandazione europea del 2002, con il termine “Revisione” si intendono: i) I Servizi di Revisione che comprendono: a) L’attività di controllo dei conti annuali delle imprese, finalizzata all’espressione di un giudizio professionale. b) L’attività di controllo dei conti consolidati di un insieme di imprese, anch’essa finalizzata all’espressione di un giudizio professionale. c) L’attività di controllo dei conti infrannuali di un’impresa o di un insieme di imprese. ii) I Servizi di Attestazione richiesti dalla legge e da regolamenti o effettuati su base volontaria, aventi ad oggetto informazioni diverse da quelle di cui ai precedenti punti a), b) e c). Per Servizi di Attestazione si intendono gli incarichi con cui il Revisore valuta uno specifico ele26
Servizi «non di revisione»
mento, la cui determinazione è effettuata da un altro soggetto che ne è responsabile, attraverso opportuni criteri, al fine di esprimere una conclusione che fornisca al destinatario un grado di affidabilità in relazione a tale specifico elemento (Cspr 2005, § 2.1.). Anche in questo documento è previsto che il totale dei corrispettivi percepiti deve essere suddiviso secondo quattro categorie: ■
Servizi di revisione
■
Servizi di attestazione
■
Servizi di consulenza fiscale Servizi diversi dalla revisione
■
Nell’ambito di ogni categoria per ogni voce deve essere indicato anche l’importo registrato alla voce corrispondente per il periodo di riferimento precedente. Inoltre, va presentata una ripartizione in percentuale dei corrispettivi suddivisi tra le diverse categorie22. Quanto previsto nei documenti citati in precedenza (Ce 2002; Cspr 2005) non tiene conto dei cambiamenti apportati dalla legge 262/2005 e conseguenti regolamenti Consob. Tuttavia, la classificazione di tipo generale risulta compatibile con il nuovo quadro giuridico. In effetti, anche l’Associazione Italiana Revisori Contabili (Assirevi 2008), per adempiere alla richiesta dell’art. 149-duodecies del Regolamento Emittenti, suggerisce un prospetto che prevede la seguente classificazione dei servizi: ■
Revisione contabile
■
Servizi di attestazione
■
Servizi di consulenza fiscale
■
Altri (da dettagliare)
La verifica empirica contenuta nel paragrafo seguente ha seguito tale classificazione nella raccolta dei dati comunicati nel bilancio23. In particolare, nella presentazione dei risultati, l’accezione dei “servizi non di revisione” è stata considerata in una versione ampia (servizi di attestazione, consulenza fiscale e altri servizi) e in una ridotta, escludendo i servizi di attestazione. In tal modo, si cerca di tener conto di quei casi in cui le aziende, 22
A solo titolo esemplificativo, Cspr (2005, §5.7.2.) riporta una serie di servizi diversi dalla revisione con considerazioni circa la valutazione della significatività della minaccia all’indipendenza del revisore: - Predisposizione delle registrazioni contabili e predisposizione del bilancio - Progettazione e realizzazione di sistemi informativi-contabili-amministrativi-finanziari - Servizi di valutazione - Partecipazione alla revisione interna del soggetto sottoposto a revisione - Attività di patrocinatore legale e consulente tecnico di parte - Prestazione di servizi di ricerca di personale dell’alta direzione aziendale. 23 A titolo comparativo si ricorda che la Sec (2003) richiede alle società quotate di distinguere quattro categorie di compensi: audit fees, audit-related fees, tax fees e other fees.
27
Servizi «non di revisione»
pur seguendo una politica tendente a non assegnare ulteriori incarichi al revisore o alla sua rete, si trovano a comunicare l’esistenza di compensi per servizi di attestazione in conseguenza di disposizioni normative24.
5. Verifica empirica Nei bilanci del 2007 si manifesta sostanzialmente il primo adempimento all’obbligo di pubblicare informazioni sui compensi per incarichi di revisione contabile e per servizi diversi dalla revisione affidati alla medesima società di revisione, secondo quanto previsto dall’art. 149-duodecies del Regolamento Emittenti della Consob. Il campione esaminato è costituito da tutte le società italiane quotate nel segmento blue chip alla data del 31 dicembre 2007. Il numero degli organismi aziendali è risultato pari a 8325. La scelta è stata motivata dalla considerazione che le aziende di maggiori dimensioni quotate in borsa costituiscono un punto di riferimento nell’evoluzione della comunicazione contabile, ma anche per la loro rilevanza economica nella raccolta di prime evidenze empiriche sul fenomeno oggetto di indagine. Dal punto di vista delle modalità utilizzate per comunicare i corrispettivi per la revisione contabile e per servizi diversi dalla revisione, la Tabella 2 evidenzia che la quasi totalità delle aziende (95,2%) utilizza un prospetto nell’ambito di uno specifico paragrafo della nota integrativa o come allegato (50,6% + 42,2%). Complessivamente le informazioni vengono fornite sia nel Bilancio di esercizio che nel Bilancio consolidato (66,3%) oppure, nel rispetto della lettera della norma, solo nel Bilancio di esercizio (27,7%); in quest’ultimo caso vengono comunque elaborati i dati relativi alla capogruppo ed all’integro gruppo aziendale. Il suggerimento derivante da tale osservazione è di ampliare la prassi (già prevalente) di presentare tali informazioni sia nel bilancio di esercizio che in quello consolidato. Si segnala la sostanziale assenza di una ripartizione in termini percentuali tra i diversi tipi di servizi, contrariamente al suggerimento espositivo contenuto in Ce (2002) e Cspr (2005). La presente indagine non si è soffermata analiticamente sulla tipologia di prospetto utilizzata, ma tranne poche eccezioni, la forma della tabella utilizzata è sostanzialmente riconducibile a quella proposta da Assirevi (2008). 24
Si nota che le informazioni disponibili nei bilanci non hanno permesso di «depurare» in modo analitico e sistematico dai “servizi non di revisione” quelli in qualche modo “obbligati” da quelli derivanti da una scelta volontaria. 25 Le aziende del campione operano nei seguenti settori: alimentari (2), assicurazioni (7), auto (2), banche (16), chimici (3), costruzioni (4), elettronici, elettromeccanici (4), finanziarie di partecipazione (5), immobiliari (4), impianti e macchine (1), media (6), minerali, metallurgici, petroliferi (3), servizi di pubblica utilità (13), servizi diversi (1), servizi finanziari (1), tessile, abbigliamento, accessori (6), trasporti, turismo (5).
28
Servizi «non di revisione»
Tabella 2 – FORME DI COMUNICAZIONE DEI COMPENSI PER REVISIONE CONTABILE E SERVIZI DIVERSI DALLA REVISIONE
Tabella / Prospetto
N.
%
79
95,2
Senza Tabella / Prospetto
4
4,8
Totale
83
100,0
Paragrafo nella nota integrativa (note esplicative)
42
50,6
Allegato al bilancio o alla nota integrativa (note esplicative)
35
42,2
Commento ai costi per servizi nell’ambito della nota integrativa (note esplicative)
3
3,6
Paragrafo nella Relazione sulla gestione
3
3,6
Totale
83
100,0
Bilancio di esercizio e Bilancio consolidato
55
66,3
Solo Bilancio di esercizio
23
27,7
Solo nel Bilancio consolidato
5
6,0
Totale
83
100,0
In merito alla dimensione quantitativa del fenomeno oggetto di indagine, la statistica descrittiva è contenuta nella Tabella 3 dove la sezione A evidenzia che il corrispettivo medio con riferimento all’intero campione esaminato è pari a circa € 3,25 milioni (con un’alta variabilità: SD=5,42), somma dei compensi medi per ciascuna delle 4 categorie di servizi, con il 27,4% proveniente dai servizi diversi dalla revisione. In particolare, i servizi classificati come “altri” (16%) e quelli finalizzati all’emanazione di un’attestazione (10,1%) sono i più rilevanti, mentre un ruolo marginale è assunto dalla consulenza fiscale (1,3%). Complessivamente si può ritenere che il peso dei servizi diversi dalla revisione sia mediamente contenuto, anche se superiore alla soglia del 20% (ovvero costi per servizi diversi dalla revisione non superiori al 25% del costo per incarichi di revisione contabile), che in alcune prassi aziendali è ritenuta prudenziale al fine di salvaguardare l’indipendenza del revisore26. Poiché in alcune aziende il corrispettivo per servizi diversi dalla revisione è pari a zero, la sezione B della Tabella 3 riporta i valori medi dei compensi e degli indici del peso delle prestazioni, considerando solo le aziende interessate dai diversi servizi. Anche in questo caso si conferma il ruolo rilevante degli altri servizi che raggiungono un peso medio del 28,1% nei 63 casi interessati pari a circa l’81% del campione esaminato.
26
Ad esempio, la procedura di gruppo per il conferimento di incarichi a società di revisione seguita da Fiat S.p.A. – Allegato alla Relazione sulla corporate governance (febbraio 2008), disponibile su www.fiatgroup.com
29
Servizi «non di revisione»
Tabella 3 - CORRISPETTIVI PER LA REVISIONE CONTABILE E PER SERVIZI DIVERSI DALLA REVISIONE (STATISTICA DESCRITTIVA) Sezione A (N = 83) Minimo
Massimo
Media
Indice medio dei corrispettivi
1° Quartile
2° Quartile
3° Quartile
103.700
25.816.000
2.443.828
0,726
514.000
1.013.000
2.079.000
Servizi di attestazione
0
4.000.000
324.466
0,101
3.142
55.000
251.600
Consulenza fiscale
0
822.000
42.850
0,013
0
0
17.073
Altri servizi
0
5.752.250
442.480
0,160
26.000
163.000
574.500
Revisione contabile
Sezione B (N = vari) N.
% sul totale N.
Media
Indice medio dei corrispettivi
Revisione contabile
83
100,0
2.443.828
0,726
Servizi di Attestazione
63
75,9
427.471
0,133
Consulenza fiscale
22
26,5
161.662
0,049
Altri servizi
67
80,7
548.147
0,281
Al fine di avere un’informazione più dettagliata sull’indice del peso delle prestazioni diverse dalla revisione sul totale dei compensi, la Tabella 4 (lato sinistro), seguendo l’impostazione di Francis e Pollard (1979), riporta in 10 intervalli la distribuzione di tale indicatore e progressivamente la distribuzione cumulata. Si nota che in 2 casi (2,4%) gli altri servizi risultano assenti. Nella situazione opposta si osservano 15 casi (18,1%) in cui i compensi per servizi diversi dalla revisione superano quelli per la revisione contabile, evidenziando una situazione critica dal punto di vista dell’indipendenza in apparenza del revisore. Le altre interpretazioni della Tabella 4 (lato sinistro) dipendono dal giudizio relativo alla soglia che si ritiene rilevante. Ad esempio, se si assume un indice pari a 0,20 come valore prudenziale, 37 aziende (44,6%) soddisfano questo criterio. Se tale soglia viene spostata a 0,25 (cioè, compensi per servizi diversi dalla revisione fino a 1/3 dei corrispettivi per revisione contabile), le aziende rientranti in tale limite sono 43 (51,8%). Nell’ipotesi operativa che alcuni dei servizi finalizzati al rilascio di un’attestazione siano una scelta determinata da leggi, regolamenti o particolarità del settore produttivo, la medesima Tabella 4 (lato destro) riporta i medesimi calcoli considerando solo l’indice del peso dei compensi per consulenza fiscale e altri servizi. In tale situazione, osserviamo che 15 aziende (18,1%) non affidano ulteriori incarichi al revisore e che in 7 casi (8,4%) permane una situazione meritevole di attenzione con un indice superiore a 0,50. Come era ragionevole attendersi, l’indipendenza in apparenza migliora 30
Servizi «non di revisione»
se consideriamo il lato destro della Tabella 4. Ad esempio, adottando una soglia prudenziale dell’indice pari a 0,25, il 71,1% del campione esaminato si colloca in una situazione accettabile, contro il 51,8% precedentemente calcolato ed esposto sul lato sinistro della Tabella 4.
Tabella 4 - DISTRIBUZIONE DELL’INDICE DEI CORRISPETTIVI PER SERVIZI DIVERSI DALLA REVISIONE (Servizi di attestazione + consulenza fiscale + altri servizi) ÷ Totale compensi
N.
0
2
2,4
0,00 – 0,05
9
10,8
0,05 – 0,10
7
8,4
0,10 – 0,15
9
(Consulenza fiscale + altri servizi) ÷ Totale compensi
N.
%
Distribuzione cumulata (%)
2,4
0
15
18,1
18,1
13,3
0,00 – 0,05
11
13,3
31,3
21,7
0,05 – 0,10
13
15,7
47,0
10,8
32,5
0,10 – 0,15
10
12,0
59,0
%
Distribuzione cumulata (%)
0,15 – 0,20
10
12,0
44,6
0,15 – 0,20
8
9,6
68,7
0,20 – 0,25
6
7,2
51,8
0,20 – 0,25
2
2,4
71,1
0,25 – 0,30
8
9,6
61,4
0,25 – 0,30
5
6,0
77,1
0,30 – 0,40
11
13,3
74,7
0,30 – 0,40
9
10,8
88,0
0,40 – 0,50
6
7,2
81,9
0,40 – 0,50
3
3,6
91,6
0,50 – 1,00
15
18,1
100,0
0,50 – 1,00
7
8,4
100,0
La questione relativa all’influenza della prestazione di servizi diversi dalla revisione sull’indipendenza del revisore è oggetto di attenzione in questa sede osservando la propensione a emettere le diverse tipologie di giudizio. Nell’ipotesi di influenza ci aspettiamo che i giudizi senza rilievi siano associati alla presenza di un più ampio ricorso a servizi diversi dalla revisione. La natura dei giudizi espressi non permette di testare tale ipotesi: 82 giudizi senza rilievi e un giudizio con rilievi. Nell’unico giudizio con rilievi, l’indice del peso delle prestazioni non di revisione è pari a 0,345 (versione ampia: servizi di attestazione, consulenza fiscale e altri servizi) e 0,318 (versione ridotta: consulenza fiscale e altri servizi). Tuttavia, la presenza di 21 giudizi senza rilievi ma con richiami di informativa ha giustificato l’analisi dell’eventuale associazione tra peso dei servizi diversi dalla revisione e giudizi espressi dal revisore nella relazione al bilancio di esercizio e al bilancio consolidato. La Tabella 5 riporta le aziende classificate in base all’indice del peso delle prestazioni con le tipologie di giudizio osservate nel campione esaminato27. Si evidenzia un’associazione positiva significativa tra la presenza di richiami di informativa (o paragrafo d’enfasi) e un alto indice (maggiore di 0,50) delle prestazioni diverse dalla revisione nella ver27
Le società di revisione sono tutte appartenenti al gruppo delle cosiddette «big four»; si riporta di seguito la distribuzione degli incarichi (numero e percentuale) nell’ambito del campione esaminato: Deloitte & Touche S.p.A. (21, 25%), Kpmg S.p.A. (13, 16%), PricewaterhouseCoopers S.p.A. (24, 29%), Reconta Ernst & Young S.p.A. (25, 30%).
31
Servizi «non di revisione»
sione ampia (servizi di attestazione, consulenza fiscale e altri servizi) e in quella ridotta (consulenza fiscale e altri servizi). In particolare, nei 15 casi con un indice delle prestazioni diverse della revisione maggiore di 0,50 si osserva la presenza di 7 giudizi con richiami d’informativa (46,7%), mentre nei rimanenti 68 casi, tale presenza è pari a 14 (20,6%). La differenza è significativa applicando il Test esatto di Fisher a due code (p = 0,050)28. Utilizzando l’indice delle prestazioni diverse dalla revisione nella versione ridotta, si osserva che nei 7 casi caratterizzati da tale indicatore maggiore di 0,50 i richiami di informativa sono pari a 4 (57,1%), mentre nei rimanenti 76 casi, tale presenza è pari a 17 (22,4%). La differenza risulta significativa (p = 0,065; Test esatto di Fisher a due code) anche se ad un livello lievemente inferiore rispetto al test precedente. Come noto, i richiami d’informativa (o paragrafi d’enfasi) sottolineano l’esistenza all’interno del bilancio di peculiarità legate a un evento o una circostanza aziendale (ad esempio, difficoltà finanziarie che possono minare l’ipotesi della continuità aziendale) e richiamano l’attenzione sull’informativa resa nel bilancio medesimo (Comunicazione Consob n. 99088450 del 1 dicembre 1999 e, con riferimento all’ipotesi di continuità aziendale, Comunicazione Consob n. Dem/9012559 del 6 febbraio 2009; Cspr 2007). La difficoltà interpretativa dell’evidenza emersa è confermata anche da precedenti ricerche che assimilano i giudizi senza rilievi con “added comments” ai giudizi senza rilievi tout court, in quanto non costituenti “serious qualifications” (Craswell, Stokes e Laughton 2002, 258). Pertanto, in linea teorica, si può trattare di “casi tipici” di paragrafo d’enfasi oppure di “situazioni problematiche” che non sfociano in un giudizio più severo (ad esempio, giudizio con rilievi, o impossibilità di esprimere un giudizio)29. Non è tra gli obiettivi della presente indagine dimostrare che tali situazioni si siano verificate in alcuni dei casi esaminati. Inoltre, poiché si tratta della percezione di indipendenza che non necessariamente si traduce in azione, si può argomentare che la più alta presenza di servizi non di revisione, consente l’accesso ad ulteriori informazioni rilevanti per conoscere l’azienda, permettendo di esprimere richiami di informativa nell’ambito di un giudizio sul bilancio senza rilievi. L’attribuzione di cause specifiche all’evidenza raccolta apre lo spazio per future ricerche tendenti a chiarire l’uso del richiamo d’informativa nell’ambito delle relazioni emesse dalle società di revisione. 28
È stato utilizzato il Test esatto di Fischer, in quanto nella tabella di contingenza ci sono valori attesi inferiore a 5, situazione che non rende significativamente applicabile il Test del chi-quadrato. 29 Si nota che nella versione dell’art. 156 del Tuf modificata dal D.Lgs. n. 32/2007 si è esplicitato che, oltre al giudizio sul bilancio, la relazione del revisore comprende «eventuali richiami di informativa che il revisore sottopone all’attenzione dei destinatari del bilancio, senza che essi costituiscano rilievi».
32
Servizi «non di revisione»
Tabella 5 – ASSOCIAZIONE TRA INDICE DEI CORRISPETTIVI PER SERVIZI DIVERSI DALLA REVISIONE E GIUDIZIO ESPRESSO DALLA SOCIETÀ DI REVISIONE N.
(Servizi di attestazione + consulenza fiscale + altri servizi) ÷ Totale compensi
Pa
Giudizio espresso dalla società di revisione
Senza rilievi
Con rilievi
Impossibilità di esprimere un giudizio
Negativo
Senza rilievi con richiami di informativa
0,50 – 1,00
15
15
0
0
0
7
0,00 – 0,50
68
67
1
0
0
14
Totale
83
82
1
0
0
21
0,50 – 1,00
7
7
0
0
0
4
0,00 – 0,50
76
75
1
0
0
17
Totale
83
82
1
0
0
21
0,050
(Consulenza fiscale + altri servizi) ÷ Totale compensi
a
0,065
Valore di p determinato con il Test esatto di Fisher a due code
5. Conclusioni La ricerca condotta ha mostrato che in Italia, nonostante l’esclusività dell’oggetto sociale delle società di revisione, si sono posti problemi interpretativi e regolamentari in merito alla coesistenza di servizi di consulenza accanto all’attività di revisione contabile. Gli scandali finanziari succedutisi a partire dal 2001 negli Stati Uniti e in Europa, hanno stimolato interventi regolamentari sulla questione dei servizi aggiuntivi. In Italia, oltre al divieto di alcune attività esplicitamente elencate, uno strumento di controllo è stato individuato nella pubblicità dei corrispettivi dovuti al revisore per il controllo dei conti e per servizi diversi dalla revisione. Le prime evidenze raccolte sui bilanci di esercizio e consolidati 2007 delle società italiane quotate a maggiore capitalizzazione, mostrano che la quasi totalità delle aziende utilizzano un prospetto nell’ambito di uno specifico paragrafo della nota integrativa o come allegato. Un miglioramento espositivo potrebbe ottenersi dalla ripartizione in termini percentuali tra i diversi tipi di servizi e dalla presentazione di dati comparativi relativi all’anno precedente. Dal punto di vista quantitativo, il dato medio relativo al campione esaminato mette in evidenza un indice dei compensi per servizi non di revisione (servizi di attestazione, consulenza fiscale, altri servizi) pari a 0,274 (ovvero 37,7% del compenso per attività di revisione contabile). Anche se non esistono delle soglie di valore generalmente ritenute accettabili al fine di salvaguardare la percezione di indipendenza, si può ritenere che tale valore non presenti elementi di criticità, pur essendo superiore a 0,20 (ovvero 25% dei corrispettivi per revisione contabile) assunto come valore soglia di attenzione in alcune prassi aziendali. L’analisi in 33
Servizi «non di revisione»
dettaglio mette comunque in evidenza l’esistenza di 15 casi (18,1%) in cui i compensi per servizi diversi dalla revisione superano quelli per la revisione contabile; escludendo i servizi di attestazione, permangono comunque 7 casi (8,4%) in cui l’indice dei compensi per consulenza fiscale e altri servizi è superiore 0,50. Questi casi sono meritevoli di attenzione sotto il profilo della percezione dell’indipendenza (in apparenza) del revisore da parte di terzi. In merito alla questione dell’influenza dei servizi non di revisione sull’espressione del giudizio da parte del revisore, le evidenze raccolte (82 giudizi senza rilievi e un giudizio con rilievi) non permettono di testare tale eventuale influenza. Tuttavia, è emersa un’associazione positiva significativa tra richiami di informativa nella relazione della società di revisione e la presenza di servizi diversi dalla revisione. Tale risultato non è interpretabile in modo univoco a supporto dell’ipotesi di perdita di indipendenza del revisore. L’interpretazione dipende dalla collocazione teorica del richiamo di informativa nell’ambito dei “casi tipici” di paragrafo d’enfasi oppure in “situazioni problematiche” che non sfociano in un giudizio più severo. L’attribuzione di cause specifiche all’evidenza raccolta apre lo spazio per future ricerche tendenti a chiarire l’uso del richiamo d’informativa nell’ambito delle relazioni emesse dalle società di revisione. La dimensione del campione (limitato alle società con più alta capitalizzazione appartenenti al segmento blue chip) e l’analisi condotta sul solo anno 2007 (prima applicazione dell’obbligo informativo nel bilancio sui corrispettivi alla società di revisione) possono considerarsi dei limiti del presente contributo esplorativo. Future ricerche potranno essere condotte su campioni più ampi e fornendo analisi comparative in senso temporale.
34
Servizi «non di revisione»
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Servizi «non di revisione»
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La comunicazione economico-finanziaria delle P.M.I. secondo i professionisti contabili. Un’indagine empirica di Rosa Vinciguerra e Nadia Cipullo – Seconda Università degli Studi di Napoli
La comunicazione economico-finanziaria è fondamentale per tutte le aziende, anche per quelle di piccola-media dimensione. Queste ultime, definite in base a parametri quantitativi e qualitativi, presentano, tuttavia, delle peculiarità che influenzano i finalismi della comunicazione di bilancio, le sue forme ed i suoi contenuti. Attraverso la ricerca empirica svolta, avente carattere deduttivo e descrittivo, si è tentato di individuare le caratteristiche del mercato dell’informazione contabile proprio delle aziende minori, rivolgendo l’attenzione alla sola categoria dei Dottori Commercialisti, in qualità di migliori depositari delle informazioni oggetto di interesse. Queste ultime sono state individuate, essenzialmente, nella percezione dei parametri che si ritiene possano valere a giustificare una classificazione delle aziende in classi dimensionali che sia rilevante in termini contabili; nell’individuazione degli utilizzatori dei bilanci redatti dalle aziende minori e dei loro fabbisogni informativi; infine, nel livello di adeguatezza dei principi IAS/IFRS rispetto all’universo delle aziende minori. A tal fine si è fatto ricorso alla tecnica del questionario, inviato al campione di riferimento. I risultati ottenuti si sono dimostrati tendenzialmente in linea con le conclusioni cui si è giunti dallo studio della letteratura in materia, ritenendo, quindi, parzialmente inadeguata l’attuale disciplina contabile rivolta all’universo delle aziende di minore dimensione. I commercialisti intervistati sono prevalentemente contrari ad una possibile ipotesi di estensione dell’applicabilità dei principi IAS/IFRS anche all’universo delle aziende minori, concordando, invece, con l’idea di proporre l’adozione di un semplice prospetto dei flussi di cassa. Dall’indagine, inoltre, emerge chiaramente la necessità di fornire informazioni integrative, rispetto a quelle raccolte nel bilancio, in favore di alcune categorie di user. In definitiva, l’indagine ha confermato l’opportunità di ricorrere a forme di differential reporting in relazione alle aziende di piccolamedia dimensione.
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Abstract Financial reporting is of primary importance for all companies, also for small and medium-sized entities. The last ones, defined using qualitative and quantitative criteria, present some peculiarities that influence the purposes of financial reporting, its forms and contents. The purpose of the empirical research – deductive and descriptive - we carried out has been to find out the characteristics of accounting information markets for small companies, addressing our attention to Dottori Commercialisti category, considered as the best trustee of all the relevant information. The last one has been divided in three broad categories: research of the best criteria perceived as useful to class small companies for the purpose of financial reporting; research of small company report users and their information needs; finally, research of the convenience of the extension of IAS/IFRS to small entities. Results are quite in line with conclusions reached by studies of all the relevant literature, concluding that the present discipline for small company financial reporting is partially inadequate. Dottori Commercialisti are mainly against the application of IAS/IFRS to small companies; they, on the contrary, would promote the application of a simplified cash flow statement. Moreover, the research conducted at the knowledge of the importance of additional information in the notes to financial statements for the benefit of particular users. To sum up, the research has confirmed the opportunity to use differential reporting for small and medium-sized entities.
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1. Inquadramento e richiami alla precedente letteratura La comunicazione economico-finanziaria è fondamentale per tutte le aziende. Essa dovrebbe rifletterne, inoltre, le principali peculiarità: i finalismi del bilancio, le sue forme, i suoi contenuti, le modalità di determinazione dei valori che esso racchiude non possono prescindere da alcuni aspetti che qualificano le aziende. Anche la “dimensione” è un carattere dell’azienda, rispetto al quale occorre capire se sia “contabilmente rilevante”. In proposito si tenga presente che, tendenzialmente, gli studi in materia di comunicazione economico-finanziaria sono stati predisposti prendendo come modello di riferimento quello della public company di origine anglosassone (Marasca 1995); marginale (se non per poche eccezioni ed almeno fino a tempi recentissimi) è stata invece l’attenzione che la letteratura accademica e gli organismi contabili hanno rivolto alle aziende minori, nonostante il ruolo notevole che esse giocano nel contesto economico-sociale, sia europeo che anglosassone. Si tratta di una lacuna che diventa sempre più greve: il financial reporting delle aziende minori acquisisce oggi nuova importanza a seguito degli accordi di Basilea 2 e del processo di internazionalizzazione dei mercati che, in maniera diretta o mediata, coinvolge inevitabilmente anche l’universo delle P.M.I. (Paoloni e Demartini 1999; Demartini 1999). La carenza di studi condotti in tal senso e di una disciplina contabile organica rivolta alle aziende minori inducono a riflettere sulla mutuabilità del modello formulato per le grandi aziende (quello dei principi IAS/IFRS o, più in generale, dei G.A.A.P.), oltre che sull’opportunità di implementare processi di differenziazione della disciplina contabile. Lo studio della comunicazione economico-finanziaria delle P.M.I.1, tuttavia, richiede un’analisi propedeutica del concetto di dimensione: l’eventuale implementazione di un processo di differenziazione della disciplina contabile implica che si definiscano preventivamente le diverse classi di “reporting entity” (Cavalieri 1981). La “dimensione” è un carattere complesso (Vinciguerra 2007) della gestione, dinamico (Onida 1989), che ha natura intrinsecamente relativa (Cattaneo 1963; Silvestrelli 1985); si evolve secondo un percorso continuo piuttosto che discreto e rispetto ad essa, dunque, è difficile enucleare le determinanti che la definiscono (Parolini 1983). I parametri che interpretano la dimensione, quindi, non hanno valore assoluto, ma 1
Si parlerà indifferentemente di P.M.I. o di aziende minori, ad indicare comunque una categoria dimensionale di aziende che non si riferisce a quella delle grandi (Marchini 1985).
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acquisiscono significato rispetto allo scopo che si persegue: nella fattispecie, quello di individuare profili di aziende che, per le caratteristiche presentate, possano a ragione proporsi ai propri stakeholder con modelli di comunicazione economico-finanziaria affini. Diversi sono i criteri generali cui gli organismi contabili si sono ispirati per interpretare la dimensione d’azienda: parametri quantitativi, veste giuridica, ricorso al mercato dei capitali pubblici, public accountability, reporting entity (Vinciguerra 2007). Nessuno di essi, tuttavia, è in grado, da solo, di leggere e rappresentare le molteplici sfaccettature della dimensione d’azienda, legittimando, al contempo la preferenza per alcune soluzioni contabili piuttosto che per altre. La ripartizione delle aziende in classi dimensionali, dunque, può avvenire mediante l’adozione congiunta di diversi parametri discriminanti, sia di natura quantitativa (si presume possano descrivere una corrispondente numerosità dei soggetti interessati alle vicende della gestione), sia di natura qualitativa (in particolare, l’attenzione va rivolta ai caratteri della separazione fra la proprietà ed il controllo ed alla condizione di public utility, che valgono a denunciare diversità nelle attese informative dei soggetti che interagiscono con l’azienda). Individuate le principali chiavi di lettura della dimensione, occorre capire se, ed in quale maniera e/o misura, questo carattere sia tale da giustificare il ricorso a profili di comunicazione esterna differenziati, qualora associati ad aziende grandi o minori. Si riconoscono, infatti, differenze importanti fra le condizioni del mercato dell’informazione contabile2 proprio dell’universo delle aziende minori e di quello delle grandi. Almeno in termini di3: A) Utilizzatori della comunicazione economico-finanziaria. Da indagini empiriche condotte in Italia (Paoloni e Demartini 1997; Paoloni e Demartini 1998a; Paoloni, Demartini e Moneva 2000), in Europa (Barker e Noonan 1995; Page 1984; Pratten 1998) e nel Nord-America (Maingot e Zeghal 2006; Chazen e Benson 1978; Nair 2
Quello delle informazioni contabili viene considerato alla stregua di un qualsiasi altro mercato di beni economici, nel quale si riconoscono il lato della: - Offerta, rappresentato dalle aziende che producono i documenti contabili di sintesi. - Domanda, costituito dagli utilizzatori delle informazioni contabili. Il ragionamento è tratto dalla conceptual Framework del F.A.S.B. In proposito si rimanda ai seguenti documenti: F.A.S.B. 1978; F.A.S.B. 1980. 3 In verità, differenze si riconoscono anche nel ruolo riconosciuto alla funzione contabile, che risulta più svilito nelle aziende minori, sia perché essa non è desiderata (l’esperienza aziendale è vissuta come fatto privato), sia perché non è compresa appieno (è evidente una minore cognizione della materia oggetto d’attenzione nei soggetti coinvolti nell’universo delle P.M.I.). Sul punto si rimanda a Vinciguerra 2007.
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e Rittenberg 1983; A.I.C.P.A. 1976; A.I.C.P.A. 1981; F.A.S.B. 1983) risulta che le categorie di interessi coinvolte dall’azienda minore sono circoscritte a poche fattispecie, riconducibili, solitamente, a quelle di seguito richiamate (prescindendo dall’ordine dell’elencazione): ■
Amministrazione finanziaria
■
Banche finanziatrici
■
Proprietari manager
■
Proprietari esterni alla gestione (trattasi, invero, di interlocutori di rado presenti nelle aziende minori e che, per effettuare investimenti per tempi tendenzialmente più lunghi rispetto a quanto non accada nella grande azienda, presentano interessi analoghi a quelli dei proprietari manager).
L’azienda che simbolizza il modello della grande società ad azionariato diffuso costituisce, invece, un centro nevralgico sul quale converge l’attenzione di molteplici gruppi di user, eterogenei, con interessi divergenti fra loro ed i cui obiettivi informativi sono talora di difficile previsione (Gutberlet 1983). Inoltre, la polverizzazione del capitale, tipica di questo modello aziendale, conduce quasi certamente a situazioni di separazione fra la proprietà ed il controllo: tra i fruitori della comunicazione economica si profila, dunque, anche la figura dei proprietari non manager. Infine, la base azionaria può essere fortemente eterogenea, dagli investitori che compongono il “nocciolo duro” agli azionisti di minoranza. B) Fabbisogni informativi degli User. Anche quando le categorie di soggetti interessati alle vicende di un’azienda sono le medesime, non necessariamente esiste analogia nella qualità delle informazioni di cui necessitano per effettuare le loro valutazioni di convenienza economica. In particolare: ■
I “banchieri” affermano una sostanziale analogia dei loro fabbisogni informativi presentati nelle fasi in cui decidono dell’affidamento di un’azienda, prescindendo dalla dimensione di questa (Stanga e Tiller 1983; Nair e Rittenberg 1983; Paoloni e Demartini 1997; Paoloni e Demartini 1998a; F.A.S.B. 1983; I.F.A.C. 2006); opposta risulta essere la percezione dei businessman e dei contabili, secondo cui le banche, nel relazionarsi alle imprese minori, presentano un ridotto fabbisogno informativo, poiché godono di un contatto più immediato con il gruppo manageriale e quindi della possibilità di acquisire, per vie informali, tutte le informazioni di cui hanno bisogno (Nair e Rittenberg 1983).
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■
I “proprietari esterni alla gestione” delle aziende minori tendono ad essere poco diversificati, con la maggior parte delle loro risorse impegnate in una singola azienda. Anche qualora essa sia quotata (elemento che non necessariamente preclude la qualifica di azienda minore), la proprietà rimane concentrata, sono meno numerose le transazioni che riguardano i titoli rappresentativi del capitale ed appare meno chiara la distinzione tra la figura dei proprietari e quella dei manager. Ne consegue che: i. Necessitano di informazioni che consentano loro di valutare il rischio specifico dell’impresa, piuttosto che il rischio sistematico del mercato4. ii. La mancanza di una netta separazione fra la figura dei proprietari e quella dei manager si ritiene valga a denunciare un più facile accesso, per vie informali, alle informazioni concernenti la gestione ed un conseguente minor bisogno che queste vengano inserite nella financial reporting (Paoloni e Demartini 1998b). iii. Il numero contenuto di transazioni che interessano i relativi titoli implica che sia meno necessario fornire informazioni articolate (Nair e Rittenberg 1983) in corrispondenza di intervalli di tempo più ristretti; piuttosto, saranno necessarie informazioni più attendibili, a fronteggiare un mercato dei capitali meno efficiente poiché meno attivo (Lippit e Oliver 1983; Bollen 1995). Gli investitori nel capitale di rischio delle grandi public company, invece, tendono a sviluppare un portafoglio diversificato: si serviranno della financial reporting per valutare l’operato del management (funzione di stewardship), oltre che il rischio di mercato del mix di investimenti che posseggono (funzione di valuation) (Schmidt 1983). ■
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I “proprietari interni alla gestione”, infine, categoria di interlocutori che con minima probabilità si riscontra nella grande public company, forniscono all’azienda non solo risorse finanziarie, ma anche il proprio lavoro manageriale. Queste persone svolgono contemporaneamente diverse mansioni, il che le rende esperte e perfettamente consapevoli circa i molteplici aspetti dell’azienda che gestiscono. Ne consegue che, avendo accesso alle informazioni interne, possono assumere le loro decisioni prescindendo dai contenuti della financial reporting (Lippit e Oliver 1983).
Interessante in proposito è il contributo di Gigli 2005.
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Alla luce delle richiamate diversità, posto inoltre che l’applicazione di una disciplina contabile è giustificabile nella misura in cui contribuisce a produrre, a condizioni economiche convenienti5, una comunicazione che sia utile (relevance) ed attendibile (reliable) (A.I.C.P.A. 1970; I.A.S.B. 1989; F.A.S.B. 1980; A.A.R.F. 1890; C.I.C.A. 2005) per i soggetti interessati alle risultanze della gestione, occorre valutare l’opportunità di suggerire la stessa disciplina contabile indifferentemente a tutte le aziende, prescindendo dalla loro dimensione. In proposito, tuttavia, si sottolinea come il modello di comunicazione economica disciplinato dai princìpi contabili internazionali sia essenzialmente rivolto alle grandi società quotate, il cui principale interlocutore di riferimento è rappresentato dalla categoria degli investitori istituzionali. I contenuti della financial reporting redatta nel rispetto dei princìpi IAS/IFRS si attestano, dunque, sui fabbisogni informativi di questi ultimi (I.A.S.B. 1989; Lionzo 2005), intesi nella duplice accezione di stewardship function e di necessità di formulare giudizi di valutazione degli investimenti di borsa. I fruitori dei documenti contabili delle aziende minori, invece, mirano a conseguire delle informazioni che consentano loro di valutare l’attività degli amministratori e la capacità della gestione di produrre flussi finanziari adeguati a far fronte alle obbligazioni cui l’azienda è tenuta verso l’esterno. Inoltre, i costi connessi alla produzione dei documenti contabili, a parità di disciplina implementata e, quindi, a parità di valore assoluto che essi assumono, si presentano relativamente più alti per le aziende minori piuttosto che per le grandi, a causa delle più contenute risorse di cui dispongono le prime (Vinciguerra 2007). Se tanto vale a peggiorare la relazione costi/benefici, condizione imprescindibile nei giudizi di valutazione che riguardano l’opportunità di imporre l’adozione di una specifica regolamentazione, ad aggravare la situazione connessa all’ipotesi di implementazione dei princìpi contabili internazionali anche nelle aziende minori, interviene la circostanza per cui, in sintonia con le specificità che contraddistinguono le condizioni di domanda di questo tipo di azienda, le informazioni che vengono divulgate nel rispetto degli IAS/IFRS producono un minor livello complessivo di benefici. Per cui l’adozione degli IAS/IFRS anche da parte delle aziende minori genera un effetto sinergico negativo: a fronte del minor beneficio prodotto dall’informativa contabile, risulta amplificato il “peso” delle risorse 5
Al pari di qualsiasi altro bene economico anche per le informazioni contabili vale la logica essenziale, secondo cui, esse saranno auspicabili solo se i benefici che si presume se ne possano derivare siano maggiori dei costi che si rende necessario sopportare per la loro produzione. In tal senso anche i principali organismi di statuizione dei princìpi contabili: I.A.S.B., 1989; F.A.S.B., 1980; A.S.B., 1999; A.A.R.F., 1890; C.I.C.A., 2005.
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che a questa attività vengono dedicate; costo che, si ricorda, ha già un valore relativo più alto per le aziende minori rispetto a quelle grandi. Si sviluppa, dunque, il fenomeno dell’“accounting standards overload” (A.I.C.P.A. 1976; A.I.C.P.A. 1981; A.I.C.P.A. 2005), vale a dire di eccessivo carico connesso all’ipotesi di applicazione, anche da parte delle aziende minori6, della disciplina sancita dai princìpi contabili formulati per le grandi public company (A.I.C.P.A. 1981; Walther 1983; Belkaoui 2004; Thompson e Hurdman 1983; A.I.C.P.A. 1996), fino a concludere in favore dell’opportunità di ricorrere ad un sistema di differential reporting (Keasy e Short 1990). A completamento del lavoro di ricerca si è reputato opportuno procedere mediante la realizzazione di un’indagine di natura empirica, che valesse, ponendo l’accento soprattutto sul territorio nazionale, a confermare i risultati già conseguiti sotto il profilo teorico o a porre in discussione aspetti ritenuti pacifici in dottrina ed, eventualmente, a stimolare nuovi profili di indagine.
2. Obiettivi e metodologia della ricerca La ricerca è di natura quantitativa. Essa è stata strutturata seguendo un’impostazione di carattere deduttivo (Corbetta 1999): tutte le ipotesi teoriche poste alla base dell’analisi sono state tratte da uno studio sistematico della letteratura in materia (Vinciguerra 2007). Si tratta, inoltre, di una ricerca di tipo descrittivo che, attraverso l’analisi empirica, ha mirato semplicemente ad acquisire consapevolezza, con riferimento al territorio nazionale, circa la percezione dei commercialisti su alcune questioni attinenti il mercato delle informazioni contabili proprio delle aziende minori: condizioni di domanda, condizioni di offerta e contenuti auspicabili della comunicazione economico-finanziaria prodotta da queste ultime. In particolare, come sarà più dettagliatamente esposto nel seguito, gli intervistati sono stati chiamati a esprimersi in merito ai seguenti aspetti: ■
Parametri che ritengono possano valere a giustificare una classificazione delle aziende in classi dimensionali, che sia rilevante in termini contabili.
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Utilizzatori dei bilanci redatti dalle aziende minori e dei loro fabbisogni informativi.
■
Livello di adeguatezza dei principi IAS/IFRS rispetto all’universo delle aziende minori.
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In realtà, al problema dell’overload contabile non sono estranee le aziende di grandi dimensioni, anche se quelle minori risultano essere ragionevolmente più esposte: A.I.C.P.A., 1981. Inoltre, contribuiscono al fenomeno altri fattori: Walther 1983; Belkaoui 2004; Thompson e Hurdman 1983; A.I.C.P.A. 1996.
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Si è ritenuto interessante, inoltre, operare un confronto fra la realtà nazionale e quella propria del mondo anglosassone: l’intento è stato quello di evidenziare eventuali punti di contatto o differenze, nelle caratteristiche del mercato dell’informazione contabile proprio delle aziende minori, tra le citate realtà economiche. A tal fine, difficoltà operative, connesse soprattutto alla definizione di una popolazione di riferimento in un territorio che non fosse nazionale, hanno suggerito di seguire una particolare tecnica di confronto: per realizzare la comparazione sono stati presi a riferimento i risultati conseguiti da un’indagine condotta in Irlanda, nel 1996 (Barker e Noonan 1995) (costruita, a sua volta, sull’esempio di una precedente ricerca espletata in U.K., nel 1985 (Page, Carsberg, et al. 1985)), sulla cui scorta è stata strutturata la ricerca attuata in Italia, al fine di facilitare i confronti7. Popolazione di Riferimento e Campione La ricerca è incentrata sul mercato dell’informazione contabile proprio delle aziende minori. Ne consegue che diverse sono le categorie di soggetti potenzialmente coinvolte dal progetto. Nello scegliere la popolazione di riferimento dell’indagine, tuttavia, si è ritenuto conveniente rivolgere l’attenzione alla sola categoria dei Dottori Commercialisti, in qualità di migliori depositari delle informazioni oggetto di interesse di questa ricerca. La maggioranza delle aziende minori ricorre a consulenti esterni per la tenuta della contabilità e per la compilazione dei documenti di sintesi. Si è ritenuto, quindi, che un sondaggio operato focalizzando l’attenzione sui professionisti contabili potesse consentire il conseguimento di informazioni più significative: i commercialisti fungono da interfaccia fra le aziende ed i fruitori dei loro bilanci, acquisendo piena consapevolezza delle problematicità che presentano le une e gli altri in materia di comunicazione economico-finanziaria e mantenendo, in condizioni di normalità, una posizione tendenzialmente neutra, poiché non presentano interessi di parte. Individuata la categoria di operatori oggetto di attenzione, nella delimitazione della popolazione di riferimento, preferenza è stata accordata in favore dei Dottori Commercialisti registrati presso specifici Ordini locali. In particolare, la scelta è caduta su quelli di Palermo, Caserta, Firenze, Brescia e Milano, i cui iscritti, come rappresentato nella Tabella 1, hanno costituito la popolazione di riferimento dell’indagine.
7
Sostanzialmente analoga è la logica di comparazione adottata da Paoloni, Demartini, Moneva, Cuellar 2000.
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Tabella 1 Ordine Locale8
Numero di iscritti
Palermo
811
Caserta
928
Firenze
1066
Brescia
1075
Milano
2979
Totale
6859
8
I ricercatori irlandesi hanno adottato, invece, come popolazione di riferimento, l’elenco dei contabili iscritti presso l’I.C.A.I. – Institute of Chartered Accountants in Ireland. In Italia, tuttavia, l’impossibilità di conseguire un elenco nazionale dei Dottori Commercialisti9 ha spinto verso la selezione di Ordini locali, che potessero ritenersi sufficientemente rappresentativi dell’intero contesto geografico nazionale. Trattandosi di una popolazione ampia, analogamente a quanto effettuato dai ricercatori irlandesi, è stato estrapolato un campione di Dottori Commercialisti da indagare, estratto secondo la tecnica del campionamento casuale10. Per quanto concerne, infine, la numerosità del campione, questa è stata calcolata assumendo, come tipicamente accade per questa tipologia di indagini, un livello di confidenza pari al 5% ed un intervallo di confidenza pari al 95%. Per cui, il campione di riferimento si presenterà composto secondo la numerosità indicata nella Tabella 2.
Tabella 2
8
Ordine Locale
Numerosità del campione
Palermo
43
Caserta
49
Firenze
56
Brescia
57
Milano
158
Totale
363
Gli elenchi degli iscritti, con i relativi indirizzi, sono stati reperiti su internet o inviati direttamente dagli Ordini locali, a seguito di formale richiesta avanzata dal gruppo di ricerca. 9 In merito, si sottolinea come più volte sia stata inoltrata richiesta formale, al Presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, al fine di conseguire un elenco nazionale, aggiornato, degli iscritti all’Ordine. Tuttavia, motivi legati alla privacy hanno impedito la diffusione di un simile documento, lasciando come alternativa quella adottata in questa sede. 10 Secondo cui, ogni elemento della popolazione ha la medesima probabilità, nota e diversa da zero, di essere estratto; i risultati delle estrazioni, inoltre, si stabilisce che siano fra loro indipendenti.
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Composizione del Questionario Al fine di intervistare il campione di riferimento si è preferito lo strumento del questionario, in quanto ritenuto il più efficace ed immediato. Questo è stato articolato nelle seguenti tre sezioni: I Informazioni di carattere generale. La sezione si compone di otto domande, finalizzate a comprendere il prototipo di azienda per la quale il commercialista intervistato offre la propria opera professionale ed il tipo di consulenza che egli svolge. II Utilizzatori e loro fabbisogni informativi. La sezione si compone di quattro domande che mirano ad individuare quali sono le principali categorie di utilizzatori dei bilanci redatti dalle P.M.I., quali sono i loro fabbisogni informativi e, infine, quali sono, qualora esistano, le categorie di user che ricevono informazioni integrative rispetto a quelle rese pubbliche attraverso i documenti contabili. III Aspetti contabili. L’ultima sezione si compone di cinque domande, che puntano ad indagare la percezione circa il costo connesso alla produzione dei documenti di sintesi, circa il livello di conoscenza che gli intervistati reputano di avere dei principi contabili internazionali IAS/IFRS e, soprattutto, circa la loro opinione sull’opportunità di estendere l’applicazione di tali principi (eventualmente semplificati) anche all’universo delle aziende di minori dimensioni. Pre-Test - Invio del questionario – Raccolta dei dati – Tasso di risposta Prima di essere inviato ai soggetti del campione, il questionario è stato testato sottoponendolo all’attenzione di alcuni Dottori Commercialisti dell’Ordine di Caserta. I punti di maggiore debolezza (riguardanti soprattutto alcune forme espositive e l’ordine secondo cui erano state strutturate le domande) sono stati rivisti ed opportunamente corretti sulla base dei suggerimenti raccolti. Successivamente, si è proceduto ad inviare il questionario ai componenti il campione selezionato. Una lettera di presentazione è stata inviata a ciascuno degli intervistati, indicando loro le finalità della ricerca e suggerendo le modalità di risposta al questionario. Per velocizzare i tempi di raccolta dei dati, infine, si è deciso di informatizzare l’intera procedura, ricorrendo ad un software C.A.W.I. (computer assisted web interview): le risposte al questionario sono avvenute direttamente sul web, con contestuale caricamento dei dati su un database precedentemente predisposto. 49
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Dopo 10 giorni dal primo invito ad aderire alla ricerca è stata inviata, a coloro che non ancora avevano risposto, una lettera di sollecito. Tanto ha consentito di raggiungere un elevato livello di adesione all’indagine: 250 pareri, corrispondenti ad un tasso del 68,8%. Tuttavia, le risposte che sono state ritenute valide e che sono state quindi effettivamente analizzate ammontano a 214 (secondo la numerosità esplicitata nella Tabella 3). A tale ammontare si è giunti depurando il database da 36 risposte, che sono state invalidate, poiché considerate non significative11. I dati sono stati quindi elaborati con il supporto di Excel.
Tabella 3 Ordine Locale
Numero di risposte ritenute valide
Palermo
20
Caserta
22
Firenze
29
Brescia
52
Milano
91
Totale
214
3. Risultati dell’indagine 3.1 Sezione I – Informazioni di carattere generale Come già accennato in precedenza, le prime cinque domande rivolte ai Dottori Commercialisti sono finalizzate a delineare il profilo della loro “azienda cliente tipo”. In particolare, agli intervistati, è stato chiesto di collocare la loro “azienda cliente tipo” in una delle “categorie dimensionali” suggerite per ciascuno dei seguenti parametri: ■
Numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio
■
Totale attivo dello stato patrimoniale
■
Livello di fatturato
■
Veste giuridica
■
Struttura proprietaria I primi quattro parametri suggeriti sono quelli presi a riferimento dal
11
Non sono state considerate valide le risposte fornite da quegli intervistati che, dopo aver effettuato l’accesso al database hanno: - Optato sempre per la risposta nulla - Espresso la loro opinione solo in merito ad una/due delle domande proposte, annullando, di fatto, la significatività della loro adesione.
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legislatore civilistico, per distinguere fra aziende di diversa dimensione, al fine di riconoscere loro differenze in materia di disciplina della comunicazione economico-finanziaria12. L’ultimo parametro, invece, non può essere ignorato: esso esprime, seppur parzialmente, le caratteristiche di governance di un’azienda e, quindi, le diversità che ne derivano in termini di sinergie fra diverse categorie di stakeholder e di connessi fabbisogni informativi13. I risultati cui si è giunti nella prima parte della “Sezione I” possono sintetizzarsi come di seguito: a) L’“azienda cliente tipo” dei commercialisti intervistati vanta un “livello di dipendenti occupati in media durante l’esercizio” di rado superiore alle 50 unità; inoltre, si nota anche come la maggior parte di queste aziende abbia un numero di impiegati compreso nell’intervallo 0-10, piuttosto che in quello 11-50. Si rimanda al Grafico 1 per il dettaglio delle percentuali. b) Si presentano, invece, con un livello di variabilità più elevato, le risposte relative al parametro “Totale attivo dello Stato Patrimoniale”. In merito, si può immaginare di avere tre categorie dimensionali di riferimento, quella delle aziende: ■
Piccole (intervallo compreso fra € 0-2.000.000 ed € 2.000.0013.650.000)
■
Medie (intervallo compreso fra € 3.650.001-43.000.000) e
■
Grandi (totale attivo maggiore di € 43.000.001) fra le quali si distribuiscono, in maniera quasi uniforme, le “aziende clienti tipo” degli intervistati. Rientrerebbero nella categoria delle aziende minori, cui verrebbero riconosciute le semplificazioni del 2435-bis C.C., dunque, tenuto conto dei nuovi limiti quantitativi suggeriti dall’O.I.C. (O.I.C. 2006), solo il 35 % delle aziende assistite dagli intervistati. Si rimanda al Grafico 2 per il dettaglio delle percentuali.
12
Si veda, in proposito, l’art. 2435-bis del codice civile e la proposta di modifica avanzata dall’O.I.C. – Organismo Italiano di Contabilità, nel documento: “Ipotesi di attuazione delle Direttive UE 2001/65 e 2003/52, con modifiche al C.C.”, approvato in data 25 ottobre 2006. In proposito si sappia che, con D.Lgs. 173/2008, la proposta in oggetto è stata adottata ed ha modificato i limiti quantitativi contenuti nel Codice Civile. 13 Trattasi di una variabile che incide sulla tipologia di user della comunicazione economicofinanziaria prodotta dall’azienda ed anche sui fabbisogni informativi che essi presentano. Sul punto si rimanda a Vinciguerra 2007.
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c) Si replica lo stesso livello di variabilità anche nelle risposte relative al parametro del “Fatturato” raggiunto dalle aziende clienti. In particolare, considerando i limiti quantitativi suggeriti dall’O.I.C. (O.I.C., 2006), solo il 40% delle “aziende clienti tipo” rientrerebbe nella categoria di quelle minori, cui vengono riconosciute specifiche semplificazioni nella redazione del bilancio d’esercizio. Si rimanda al Grafico 3 per il dettaglio delle percentuali. d) La maggior parte delle “aziende clienti tipo” (più del 60% dell’intero campione), ricorre ad una delle “vesti giuridiche” che rientrano nella categoria delle società di capitali. Per tale motivo esse sono obbligate a rispettare, nella compilazione dei documenti di sintesi, la disciplina civilistica, fermo restando il diritto di avvalersi delle semplificazioni riconosciute dal 2435-bis, qualora ne ricorrano le condizioni quantitative. Si rimanda al Grafico 4 per il dettaglio delle percentuali. e) Le “aziende clienti tipo”, infine, presentano una struttura proprietaria per lo più chiusa (69% dell’intero campione). Si rimanda al Grafico 5 per il dettaglio delle percentuali.
Grafico 1 – NUMERO DI OCCUPATI
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Grafico 2 – ATTIVO DELLO STATO PATRIMONIALE
Grafico 3 – FATTURATO
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Grafico 4 – VESTE GIURIDICA
Grafico 5 – STRUTTURA PROPRIETARIA
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Nella Sezione I sono state quindi proposte altre domande attraverso le quali a ciascuno degli intervistati è stato richiesto di esprimersi in merito a: ■
Il tipo di attività svolta in prevalenza per le aziende clienti.
■
L’utilizzo delle semplificazioni riconosciute dal 2435-bis del C.C. (che disciplina la redazione del Bilancio Abbreviato).
■
I parametri che si reputano più idonei a delimitare i confini fra aziende di diversa dimensione e, contemporaneamente, a giustificare una diversificazione della disciplina che guida la compilazione dei loro bilanci. La prima e l’ultima di queste domande sono state corredate da una serie di possibili risposte, in merito alle quali agli intervistati è stato chiesto di indicare il livello di validità di ciascuna delle alternative proposte, secondo una scala di valori che contemplava le seguenti opzioni di scelta “Alta-Media-Bassa-Nulla”. Con riferimento alla questione del Bilancio Abbreviato, invece, è stato chiesto agli intervistati di esprimere la loro adesione (SI-NO) al 2435-bis C.C., oltre che la percentuale secondo cui essi ritengono di avvalersi delle semplificazioni ammesse dal legislatore civilistico. In relazione al primo punto, si nota come un’altissima percentuale degli intervistati provveda alla tenuta dei conti ed alla redazione del bilancio per le aziende clienti (si rimanda al Grafico 6 per il dettaglio delle percentuali). Questo risultato conferma, quindi, la bontà della scelta dei professionisti contabili quali interlocutori privilegiati al fine di questa indagine.
Grafico 6 – TIPO DI ATTIVITÀ SVOLTA
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L’80% degli intervistati dichiara, inoltre, di avvalersi delle semplificazioni riconosciute dal 2435-bis del C.C. (si veda il Grafico 7).
Grafico 7 – ADESIONE AL 2435-BIS C.C.
In prima approssimazione questo risultato sembrerebbe contrastare le risposte fornite alle prime domande, relative all’inquadramento del target di “azienda cliente” degli intervistati. Dall’analisi di quelle, infatti, poteva desumersi che solo una percentuale, pari circa al 40%, prestasse consulenza in favore di aziende che rientrano nell’ambito di quelle ritenute minori dal legislatore civilistico e, per questo, destinatarie del regime di “differential reporting” italiano14. In questa sede, invece, risulta che ben l’80% degli intervistati adotta le semplificazioni del 2435 bis C.C.. Questa circostanza se, da un lato, sembra ridurre parzialmente la significatività delle risposte raccolte, dall’altro non impedisce di ritenere che anche la percentuale di professionisti che non ha come azienda tipo quella minore possa comunque confrontarsi con aziende diverse da quelle “tipo” e, in tali circostanze, applicare il regime del bilancio in forma abbreviata. La “Sezione I” si chiude invitando gli intervistati a pronunciarsi in merito a quelli che ritengono essere i migliori parametri volti ad interpretare la dimensione aziendale, tali da poter giustificare una differenziazione anche nella relativa disciplina contabile. 14
Trattasi, in particolare, di quelle società (di capitali) che nel primo esercizio o, successivamente per due esercizi consecutivi, non abbiano superato i limiti fissati rispetto a due dei tre parametri quantitativi suggeriti – totale attivo dello stato patrimoniale; numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio; ricavi delle vendite e delle prestazioni.
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In assoluto, gli aspetti che vengono ritenuti più rilevanti in tal senso, in quanto viene loro riconosciuta un’intensità alta/media nel giustificare una diversificazione del bilancio, sono: ■
“Settore di attività dell’impresa”
■
“Fatturato”
■
“Totale delle attività”
A seguire, vengono considerati come rilevanti i seguenti aspetti dimensionali: ■
“Utilizzatori esterni del bilancio”
■
“Responsabilità sociale dell’azienda”
■
“Veste giuridica”
Marginale sembra essere, invece, il riconoscimento dei parametri relativi alla: ■
“Struttura della proprietà”
■
“Mancanza di autonomia” Si rimanda al Grafico 8 per il dettaglio delle percentuali. Diversamente dai risultati conseguiti dai ricercatori irlandesi, più difficile sembra sintetizzare i giudizi espressi da quelli italiani. Mentre i contabili irlandesi qualificano i criteri quantitativi15 e la struttura della proprietà come principali parametri interpretativi del concetto di dimensione aziendale, rimanendo quindi essenzialmente ancorati agli aspetti quantitativi della dimensione, i professionisti italiani forniscono risposte che presentano un maggior livello di variabilità, contemplando contemporaneamente sia i parametri di natura quantitativa che quelli di natura qualitativa. Pare quindi ravvisabile, in questi ultimi, una maggiore consapevolezza della problematica in esame.
15
Secondo il seguente ordine: turnover – total assets – no. employees. In proposito si consulti Barker P., Noonan C., “Small Company Compliance with Accounting Standards - The Irish Situation”, DCBUS Research Papers, op. cit., Table 6.
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Grafico 8 – PARAMETRI INTERPRETATIVI DELLA DIMENSIONE
3.2 Sezione II – Utilizzatori e loro fabbisogni informativi La “Sezione II” del questionario si allontana dagli argomenti di carattere generale per affrontare alcune questioni relative alla comunicazione economico-finanziaria. Ai commercialisti vengono proposte quattro domande, finalizzate a conseguire informazioni su: ■
Quali ritengono essere i principali utilizzatori dei bilanci delle P.M.I.
■
Quali ritengono essere gli scopi per cui i proprietari e le banche si avvalgono delle informazioni contenute nei documenti contabili redatti dalle P.M.I.
■
Quali sono le categorie di user esterni, qualora esistenti, per i quali di fatto risultano insufficienti i dati di bilancio e che riescono a conseguire dall’impresa informazioni integrative sulla gestione aziendale. In linea con lo stile adottato nella “Sezione I”, le prime tre domande (principali utilizzatori del bilancio e quali usi ne fanno proprietari e banche) sono state corredate da una serie di possibili risposte, rispetto alle quali gli intervistati sono stati invitati ad esprimere un loro giudizio, secondo una scala di valori che suggeriva le seguenti opzioni di scelta: “Alta-MediaBassa-Nulla”. Al termine di ciascuna domanda è stato quindi consentito ai commercialisti di esprimere altre soluzioni che, seppur non segnalate, essi ritenessero comunque rilevanti rispetto alla questione posta.
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L’ultimo quesito, infine, diversamente dai precedenti, si presenta sostanzialmente come una domanda di tipo “aperto”. Dopo aver chiesto ai commercialisti se, a loro giudizio, esistono delle categorie di “user esterni” che conseguono informazioni integrative rispetto a quelle acquisite attraverso i documenti contabili compilati dalle P.M.I. (anche in questa circostanza è stato fornito un elenco di possibili categorie di tali soggetti), è stato loro domandato di indicare quali fossero questi dati che, seppur non inseriti nel bilancio, vengono ritenuti utili dagli user per le loro valutazioni economiche. Alla domanda “con quale frequenza tali soggetti utilizzano le informazioni di bilancio delle P.M.I.”, ben il 57% degli intervistati ha risposto che le “banche ed i finanziatori istituzionali” consultano con una frequenza alta i documenti contabili compilati dalle aziende minori (mentre il 24% dichiara che li esaminano con un’assiduità media), qualificandoli, di fatto, come la principale categoria di user delle informazioni divulgate, attraverso i bilanci, dalle P.M.I. A seguire, sono considerate come importanti categorie di utilizzatori del bilancio delle aziende minori i “proprietari coinvolti nella gestione” (frequenza delle consultazioni alta secondo il 46% degli intervistati e media per il 29%) ed il “fisco” (frequenza alta per il 39% e media per il 34% delle risposte esaminate). Risultati che sembrano rispondere pienamente alle caratteristiche di un sistema economico-produttivo che si rivolge quasi esclusivamente al sistema bancario per il conseguimento delle risorse per finanziare gli investimenti, piuttosto che ricorrere al mercato dei capitali. Interessante, inoltre, il giudizio espresso in merito alle società di rating16: queste vengono percepite solo dal 21% dei commercialisti intervistati quali categorie di soggetti particolarmente interessati ai bilanci formulati dalle aziende minori, a dispetto di un 25% che, invece, stima addirittura nullo il loro impiego di questi documenti. Risultato che, tuttavia, sembra essere in controtendenza rispetto all’attuale disciplina imposta dagli accordi di Basilea II, cosicché si ritiene possa essere destinato a subire un’evoluzione in futuro, allorquando sarà più forte, nei professionisti contabili, la percezione dei cambiamenti intervenuti in materia di finanziamenti da parte delle banche. Per quanto concerne, invece, il confronto con la realtà anglosassone, può ritenersi che i risultati conseguiti siano sostanzialmente analoghi a quelli cui sono giunti i ricercatori irlandesi (Barker e Noonan 1995) (oltre che confermare i risultati delle ricerche teoriche17). Anche lì, i più importanti user dei bilanci delle aziende minori sono rappresentati dalle stesse categorie 16
Sul punto si fa notare come questa categoria di utilizzatori non sia stata considerata nella ricerca condotta in Irlanda. Tuttavia, nell’attuale scenario, caratterizzato dalla disciplina Basilea II, non è possibile prescindere dalla loro considerazione. 17 Si rimanda al primo paragrafo.
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di stakeholder suggerite dai commercialisti italiani, anche se classificati secondo un ordine diverso: al primo posto, infatti, si qualificano gli amministratori/proprietari, quindi le banche ed il fisco. Anche rispetto alle categorie di user che vengono considerati di rilevanza marginale, possono ritenersi sostanzialmente analoghi i risultati raggiunti in Italia ed in Irlanda: la classe di user che, secondo i professionisti intervistati, esamina con minor frequenza in assoluto il bilancio delle aziende minori è quella dei “dipendenti”; più frequenti, ma comunque trascurabili, sono le consultazioni effettuate dai “clienti”, dai “fornitori”, oltre che dai “proprietari non coinvolti nella gestione” (quest’ultima categoria non è contemplata nell’indagine condotta in Irlanda, laddove sembra sia stata inglobata in quella più ampia degli owner)18. Solo due intervistati, infine, rispondendo alla domanda “altro”, hanno suggerito l’esistenza di fruitori differenti da quelli proposti dal questionario (secondo l’intensità riportata in parentesi): ■
Finanziatori19 (media)
■
Professionisti e revisori (alta) Per il dettaglio delle risposte raccolte in merito ai principali utilizzatori del bilancio delle P.M.I. si rimanda alla consultazione del Grafico 9.
Grafico 9 – USER DEL BILANCIO DELLE P.M.I.
18
Questi risultati sono sostanzialmente in linea con quelli conseguiti da una ricerca realizzata in Italia, nel 1997. L’indagine fu condotta su 250 piccole imprese italiane, da Paoloni e Demartini e, al pari di quanto effettuato in questo lavoro, i risultati furono confrontati con quelli di ricerche similari condotte in U.K. Anche in quelle ricerche risultava che le principali categorie di riferimento delle aziende minori fossero, seppur secondo un ordine diverso, l’amministrazione finanziaria, i proprietari coinvolti nella gestione, le banche. Sul punto si rimanda alla consultazione di Paoloni M., Demartini P., 1998a. 19 Tuttavia, si ritiene che questa categoria sia già compresa in quella delle banche e dei finanziatori istituzionali.
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Prevedendo un simile risultato (ovvero che i proprietari e le banche risultassero quali principali categorie di fruitori dei bilanci compilati dalle aziende minori), agli intervistati è stato chiesto di esprimersi anche in merito a quelle che reputano essere le principali finalità per le quali questi soggetti si avvalgono delle informazioni divulgate dalle P.M.I. Si è ritenuto, infatti, che queste risposte potessero essere utili a valutare la validità dell’attuale disciplina contabile, o a far emergere la necessità di rivederla, per incoraggiare l’attenzione in favore di alcune tipologie di informazioni, più strumentali alle valutazioni degli stakeholder, piuttosto che di altre. Secondo i commercialisti intervistati, i proprietari delle aziende minori consultano i loro bilanci soprattutto per assumere “decisioni di finanziamento”; a seguire vengono percepite come importanti le “decisioni di investimento”. Considerando congiuntamente le risposte che qualificano come “alto” e “medio” il relativo impiego delle informazioni, si classificano, a seguire, come finalità importanti dell’utilizzo del bilancio dell’azienda minore, la “gestione finanziaria” e la “valutazione dei profitti conseguiti e distribuiti”. I risultati dell’indagine, rispetto a questa domanda, non sono perfettamente allineati con quanto conseguito dai ricercatori irlandesi. Eccetto che per le “decisioni di finanziamento”, impiego percepito, in Irlanda, come il più importante fra quelli cui le informazioni di bilancio delle aziende minori sono strumentali, in quella sede si ritiene che i documenti contabili vengano impiegati dai proprietari soprattutto per “stabilire la remunerazione degli amministratori” e per “le decisioni relative alla distribuzione dei dividendi”. A seguire, si classificano le “decisioni di investimento” e la “gestione finanziaria”. Come osservato anche dai ricercatori irlandesi, tuttavia, si reputa strano un impiego del bilancio, che viene fra l’altro considerato significativo, ai fini delle decisioni in tema di gestione finanziaria: le relative informazioni, infatti, non sono disponibili se non, generalmente, tre-sei mesi dopo la chiusura del periodo amministrativo. Fra le risposte raccolte alla voce “altro”, infine, uno degli intervistati osserva come “le decisioni e le valutazioni sono prese durante l’esercizio o in funzione revisionale, direi mai al bilancio20”; altri due commercialisti, invece, hanno ricordato come i proprietari utilizzino il bilancio anche per: ■
Il controllo di gestione (impiego ad alta frequenza)
■
La politica fiscale (impiego ad alta frequenza) Il Grafico 10 riporta il dettaglio delle risposte relative all’impiego dei bilanci da parte dei proprietari. 20
È stata citata letteralmente l’opinione espressa dall’intervistato.
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Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Grafico 10 – USI DEL BILANCIO DA PARTE DEI PROPRIETARI
Per quanto concerne le banche, invece, i commercialisti ritengono essere quelli di seguito riportati (con le relative intensità) i principali impieghi cui sono strumentali le informazioni della comunicazione economico-finanziaria delle P.M.I.: ■
“Capacità di restituire il prestito – Liquidità - Profittabilità” si qualifica come la principale finalità per cui le banche si avvalgono dei documenti contabili redatti dalle aziende minori, secondo un’intensità alta per il 69% degli intervistati esaminati e media per il 14%.
■
A seguire, il 31% dei commercialisti esaminati ritiene che sia alto (ed il 43% che sia medio) l’impiego da parte delle banche dei bilanci delle aziende minori per valutare la “Stabilità – Trend dei risultati conseguiti - Sicurezza”.
■
Marginale, ma comunque apprezzabile, l’impiego dei bilanci al fine della valutazione della “Assenza di rilievi nella relazione dei sindaci”, (media la frequenza delle consultazioni a tal fine secondo il 36% degli intervistati) e della “Attività svolta dal management”, (media la frequenza delle consultazioni secondo il 37% degli intervistati).
Solo una delle risposte raccolte alla voce “altro”, infine, può ritenersi significativa ed interessante: il commercialista in questione dichiara che le banche si avvalgono dei bilanci delle aziende minori, secondo un’intensità alta, per il calcolo del rating. I risultati sono sostanzialmente in linea con quelli irlandesi. Anche in quella sede, infatti, la principale finalità per la consultazione del bilancio da parte delle banche è rappresentata dalla necessità di valutare la capacità di restituire il prestito, la profittabilità, la sicurezza e, quindi, la 62
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liquidità dell’azienda affidataria (o richiedente un finanziamento). Per il dettaglio delle percentuali delle risposte si rimanda al Grafico 11.
Grafico 11 – USI DEL BILANCIO DA PARTE DELLE BANCHE
Agli intervistati è stato quindi chiesto quali fossero le categorie di soggetti che ottengono informazioni integrative rispetto a quelle fornite attraverso i bilanci e di che tipo di informazioni si trattasse21. Dall’analisi delle risposte è emerso che le “banche” ed il “fisco” rappresentano le categorie di user che in maniera più significativa conseguono informazioni integrative rispetto ai dati di bilancio (sul punto si rimanda alla consultazione del Grafico 12). In particolare, i commercialisti dichiarano che vengono fornite le informazioni integrative di seguito riportate, rispettivamente per ciascuna delle citate categorie di user22: ■
Alle banche - dati in merito alle capacità fidejussorie, alla solvibilità
21
Questa domanda, non contemplata nel questionario condotto in Irlanda, riprende invece una soluzione adottata dal. F.A.S.B. - Financial Accounting Standards Board, nel Financial Reporting by Private and Small Public Companies - Invitation to Comment, op.cit. Si è ritenuto comunque opportuno proporla ai commercialisti italiani poiché lascia spazio, agli stessi, di esprimere un giudizio fondato sulla loro esperienza, apportando un contributo utile ad un potenziale ed auspicabile processo di istituzione di una disciplina contabile volta specificamente all’universo delle aziende minori. 22 Si ritiene poco significativo un confronto fra le risposte raccolte dal F.A.S.B. e quelle fornite dai commercialisti italiani: le prime sono essenzialmente legate alla disciplina cui erano assoggettate le private e le small public negli USA all’epoca in cui fu condotta l’indagine. Tuttavia, per un approfondimento si rimanda a F.A.S.B. - Financial Accounting Standards Board, Financial Reporting by Privately Owned Companies: “Summary of Responses to FASB Invitation to Comment”, op.cit.
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Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
ed al patrimonio dei soci; quindi un maggiore dettaglio dei dati di bilancio; budget previsionali; informazioni di natura finanziaria; bilanci infrannuali. ■
Al fisco - invece, dati di natura reddituale, con particolare riguardo ai costi; dati relativi agli studi di settore; di natura finanziaria. Si ritiene interessante, inoltre, fornire anche il dettaglio delle informazioni integrative che vengono fornite in favore:
■
Dei proprietari non coinvolti nella gestione, che conseguono budget e dati relativi alle prospettive future. Ad essi viene concesso anche di consultare i libri sociali.
■
Delle società di rating, cui vengono forniti dati relativi all’evoluzione storica, alle prospettive future, alle previsioni di budget, alla struttura patrimoniale, alla durata dei prestiti.
Grafico 12 – CATEGORIE DI SOGGETTI CHE CONSEGUONO INFORMAZIONI INTEGRATIVE
3.3 Sezione III – Aspetti contabili La “Sezione III”, infine, approfondisce ulteriormente le problematiche proprie della contabilità delle aziende minori. In particolare, dopo aver acquisito l’informazione circa le categorie di stakeholder che usano i bilanci delle P.M.I. ed i loro fabbisogni informativi, il questionario mira a: ■
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Indagare il “carico” sopportato dalle P.M.I. al fine della produzione della comunicazione economico-finanziaria.
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
■
Acquisire il livello di cognizione degli intervistati in merito alla realtà dei principi contabili internazionali, oltre che la loro opinione sull’opportunità che venga estesa, anche alle aziende minori, l’applicazione di questi ultimi, eventualmente a seguito di un processo di semplificazione degli stessi.
L’interesse in tale direzione è stato destato dal progetto promosso dallo I.A.S.B., volto a formulare una disciplina contabile specifica per le “small and medium entities”. In proposito, si sappia che l’organismo contabile internazionale ha realizzato un’indagine finalizzata ad acquisire suggerimenti in merito all’opportunità di applicare gli IAS/IFRS anche alle S.M.E. ed alla tipologia di semplificazioni che, eventualmente, si dovessero ritenere necessarie al tal fine (I.A.S.B., 2005). Anche i ricercatori irlandesi hanno formulato una domanda analoga, chiedendo ai loro commercialisti quali ritenessero essere i principi contabili che giudicavano dovessero essere applicati anche alle aziende minori. Tuttavia la comparabilità delle risposte raccolte è parzialmente pregiudicata dall’eterogeneità dei documenti che le due indagini hanno preso a riferimento (quelli emanati dall’A.S.B. per gli irlandesi e gli IAS/IFRS per l’indagine condotta dallo I.A.S.B.) e dalla circostanza per cui l’implementazione di un progetto in favore delle S.M.E. è di recente attuazione. In definitiva, quindi, l’ultima parte del questionario propone ai commercialisti altre cinque domande, invitandoli ad esprimersi in merito alle seguenti questioni: ■
Aspetti che ritengono essere più gravosi fra quelli necessari alla compilazione dei documenti di sintesi.
■
Carico connesso al rispetto della disciplina civilistica e dei principi contabili.
■
Livello di conoscenza dei principi contabili internazionali IAS/IFRS.
■
Opportunità di estendere gli IAS/IFRS e di suggerire l’adozione di un prospetto per l’analisi dei flussi di cassa anche alle aziende minori.
Al fine di valutare i “costi” connessi alla produzione della comunicazione economico-finanziaria, agli intervistati è stato chiesto di indicare “quale dei seguenti aspetti comportasse un impegno più gravoso” in tal senso. Dalle risposte raccolte si desume che le attività più impegnative sono, in ordine decrescente, quelle riportate nella Tabella 4. Si rimanda, invece, alla consultazione del Grafico 13 per il dettaglio delle percentuali delle risposte.
65
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Tabella 4 Valutazione
Italia
Irlanda
Attività fiscale
Tenuta della contabilità
2
Tenuta della contabilità
Revisione dei conti
3
Consulenze di carattere generale
Attività fiscale
4
Revisione dei conti
Consulenze di carattere generale
5
Informazioni per le banche
Dichiarazione IVA
6
Gestione paghe ai dipendenti
Informazioni per le banche
7
Dichiarazione IVA
Gestione paghe ai dipendenti
1
Come evidenziato nella tabella, i risultati di questa domanda non sono in linea con quelli conseguiti dall’indagine condotta in Irlanda, evidenziando un maggiore impegno dei commercialisti italiani nel gestire le relazioni con l’amministrazione fiscale, rispetto a quanto non accada nella realtà anglosassone. Si nota, inoltre, come in Italia l’attività fiscale sia addirittura più impegnativa di quella connessa alla tenuta della contabilità in sé e per sé, o alla consulenza di carattere generale fornita dai commercialisti.
Grafico 13 – ASPETTI PIÙ GRAVOSI DELLA COMPILAZIONE DEI BILANCI
Ai professionisti è stato quindi chiesto di esprimere il loro giudizio in merito alla percezione che hanno del “carico connesso al rispetto della disciplina contabile”. Essi giudicano non eccessivamente gravoso né il carico derivante dal rispetto delle regole imposte dal codice civile, né quello proveniente dal rispetto dei principi contabili (sebbene questi ultimi sembra comportino un maggior impegno rispetto alla disciplina civilistica). 66
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Per le percentuali si rimanda ai Grafici 14 e 1523. Interessante, inoltre, il confronto con il responso fornito alla stessa domanda da parte dei professionisti irlandesi: essi ritengono invece eccessivo il carico connesso al rispetto della disciplina contabile, sia quando si abbiano a riguardo i principi contabili (83% delle risposte), sia quando si consideri la disciplina civilistica (secondo il 70% degli intervistati).
Grafico 14 – CARICO IMPOSTO DALLE DISPOSIZONI CIVILISTICHE
Grafico 15 – CARICO IMPOSTO DALLE DISPOSIZONI DEI PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI
Ai commercialisti è stato chiesto se “giustificassero l’adozione di un semplice prospetto dei flussi di cassa per le aziende minori”. 23
Sul punto si nota come appaiano fuori target le risposte fornite dai commercialisti iscritti all’ordine di Palermo. Si tenga presente, tuttavia, la ridotta numerosità di queste ultime, che induce a valutare criticamente la loro attendibilità allorquando si discostino in maniera significativa dal resto del campione, come accade in questo caso.
67
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Come risulta dal Grafico 16, è altissimo il livello di astensione alla domanda; tuttavia, la maggior parte di coloro che hanno risposto (34%) si dichiara favorevole alla compilazione del rendiconto finanziario anche da parte delle P.M.I.; più contenuta, invece, la percentuale di coloro che sono contrari (22% delle risposte esaminate). Il responso rimane sostanzialmente analogo a quello conseguito dai ricercatori irlandesi, anche se, in quella sede, il rendiconto finanziario ha guadagnato maggiori consensi che non in Italia: sono favorevoli ben il 55% e contrari il 38% dei loro intervistati.
Grafico 16 – PROSPETTO DEI FLUSSI DI CASSA PER LE P.M.I.
La maggior parte degli intervistati ha quindi dichiarato di avere una conoscenza media dei principi contabili internazionali IAS/IFRS (come risulta dalle percentuali sintetizzate nel Grafico 17).
Grafico 17 – CONOSCENZA DEI PRINCIPI CONTABILI IAS/IFRS
68
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Quando è stato chiesto, infine, quali IAS/IFRS ritenessero opportuno estendere anche alle aziende minori, i maggiori consensi in tal senso sono stati guadagnati dai seguenti principi rispetto ai quali la percentuale delle risposte favorevoli all’estensione è risultata maggiore rispetto a quella dei contrari24: ■
IAS 40
Investimenti immobiliari
■ ■
IAS 2 IAS 10
Valutazione delle rimanenze Eventi accaduti dopo la data di chiusura del bilancio
■
IAS 38 b
Capitalizzazione di attività di ricerca e sviluppo
■
IAS 17
Leasing (vendita e retrolocazione)
■
IAS 36 a
Perdita di valore delle attività immateriali a vita utile indefinita (in particolare dell’avviamento)
■
IAS 38 a
Attività Immateriali (revaluation model)
■
IAS 11/18
Uso della percentuale di completamento per i contratti di costruzione e per i ricavi provenienti dalla cessione di servizi
■
IAS 23
Oneri finanziari (capitalization model)
■
IAS 37
Iscrizione e misurazione degli accantonamenti e delle passività potenziali
■
IFRS 3
Aggregazioni di imprese
■
IAS 20
Contabilizzazione dei contributi pubblici
■
IAS 16
Immobilizzazioni tecniche (revaluation model)
■
IAS 21
Effetti di variazione dei tassi di cambio
■
IAS 39 b
Misurazioni al fair value
■
IAS 11 IAS 36 b
Contratti di costruzione Impairment per le immobilizzazioni tecniche
■
24
Per il dettaglio delle percentuali si rimanda al Grafico 18. Sul punto si tenga presente, inoltre, che sono state analizzate solo le risposte fornite da coloro che avevano dichiarato di avere una conoscenza media o alta dei princìpi IAS/IFRS. Ne deriva che, se l’intera indagine è stata condotta sulle risposte fornite da 214 Dottori Commercialisti, al fine di indagare sull’opportunità dell’estensione dei principi contabili anche all’universo delle P.M.I sono stati eliminati 95 pareri, quelli dei professionisti che: - Si erano astenuti dal rispondere alla domanda relativa al livello di conoscenza dei principi contabili internazionali. - Avevano dichiarato di avere una conoscenza nulla o bassa degli IAS/IFRS.
69
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
I principi rispetto ai quali, invece, si registrano i maggiori dissensi (rispetto all’ipotesi di estensibilità degli stessi in favore delle aziende minori), sono quelli di seguito elencati, rispetto ai quali si riconosce, invece, un livello di disaccordo superiore ai giudizi favorevoli25: ■
IAS 39 a
■
IAS 41
Valutazioni al fair value per attività agricole
■ ■
IAS 39 e IAS 39 d
Strumenti finanziari: derecognition Derecognition e/o accantonamenti di hedge accounting
■
IFRS 2
Pagamenti basati sulle azioni
■
IAS 19
Criteri di misurazione delle pensioni e di altri benefici successivi al rapporto di lavoro
■
IAS 39 f
Strumenti finanziari: hedge accounting
■
IAS 26
Fondi di previdenza
■
IFRS 4
Contratti di assicurazione
■
IAS 32
Contabilizzazione separata per gli strumenti finanziari strutturati
■
IAS 24
Informazioni sulle entità correlate
■
IAS 39 c
Contabilizzazione di contratti a termine in valuta estera
■
IAS 28/31
Adozione dell’equity method nella contabilizzazione delle partecipazioni in società collegate e in joint venture
■
IAS 30
Informazioni richieste nel bilancio delle banche e degli istituti finanziari
■
IAS 27
Bilanci consolidati e bilanci separati
■
IAS 12
Contabilizzazione delle imposte sul reddito (differenze temporanee derivanti da investimenti in controllate, associate, joint venture).
25
70
Uso dell’effective interest method
Valgono le stesse osservazioni della precedente nota.
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Grafico 18 – ESTENSIONE DI ALCUNI IAS/IFRS ALLE P.M.I.26
26
È stato infine chiesto agli intervistati se, rispetto ad i principi che essi ritengono estensibili anche alle aziende minori, giudicano conveniente, a tal fine, un preventivo procedimento di semplificazione degli stessi27. La percentuale di adesione alla domanda è stata più bassa rispetto alla precedente (per il dettaglio si rimanda al Grafico 19): si può immaginare, infatti, che si siano astenuti dal rispondere coloro che abbiano considerato non estensibili gli IAS/IFRS anche all’universo delle P.M.I. (in linea generale, infatti, il tasso delle risposte è più basso proprio in corrispondenza di quegli standard rispetto ai quali era preponderante il giudizio di non convenienza dell’estensione). Tuttavia, prendendo in considerazione i soli principi rispetto ai quali si 26
La selezione dei principi rispetto ai quali valutare l’estensibilità anche alle P.M.I. è stata effettuata considerando la struttura dello Staff Questionnaire emanato nel 2005 dallo I.A.S.B. Con riferimento ad alcuni dei principi presi in esame, inoltre, le domande sono state formulate in maniera da indagare specifici argomenti da essi disciplinati, cosicché le lettere che accompagnano alcuni degli IAS/IFRS proposti si riferiscono ai seguenti accadimenti: - IAS 36 a: Perdita di valore delle attività immateriali a vita utile indefinita (in particolare l’avviamento); - AS 36 b: Impairment per le immobilizzazioni tecniche; - IAS 38 a: Revaluation model - IAS 38 b: Capitalizzazione delle attività di ricerca e sviluppo - IAS 39 a: Uso dell’effective interest method - IAS 39 b: Misurazioni al fair value - IAS 39 c: Contabilizzazione dei contratti a termine in valuta estera - IAS 39 d: Derecognition e/o accantonamenti di hedge accounting - IAS 39 e: Strumenti finanziari: derecognition - IAS 39 f: Strumenti finanziari: hedge accounting. 27 Valgono le medesime osservazioni formulate nella nota n. 26.
71
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
era giudicata conveniente l’opportunità di una loro applicazione anche da parte delle aziende minori (posti in evidenza nella Tabella 5), si può desumere che i commercialisti ritengano ragionevole, a tal fine, una loro preventiva semplificazione (eccetto che per gli IAS 20 ed 11): la percentuale delle risposte “SI”, infatti è maggiore di quelle “NO”.
Tabella 5 Semplificazione
72
Non risponde
Si
No
Non so
IAS 2
27%
45%
29%
0%
IFRS 3
42%
42%
14%
2%
IAS 17
34%
39%
26%
2%
IAS 40
39%
39%
21%
1%
IAS 23
44%
37%
17%
2%
IAS 11-18
39%
36%
17%
8%
IAS 10
35%
34%
28%
4%
IAS 38 b
39%
34%
28%
0%
IAS 12
44%
33%
21%
2%
IAS 36 a
41%
33%
24%
2%
IAS 38 a
41%
33%
24%
2%
IFRS 2
48%
32%
14%
6%
IAS 21
43%
32%
23%
2%
IAS 37
48%
32%
18%
2%
IAS 39 b
51%
32%
15%
2%
IFRS 4
48%
31%
17%
4%
IAS 16
46%
31%
20%
3%
IAS 27
52%
26%
19%
3%
IAS 20
46%
24%
26%
4%
IAS 36 b
49%
24%
21%
5%
IAS 11
46%
21%
22%
10%
IAS 26
56%
21%
17%
5%
IAS 28-31
54%
20%
18%
7%
IAS 39 c
49%
20%
26%
5%
IAS 30
55%
19%
19%
6%
IAS 24
52%
18%
23%
6%
IAS 32
56%
18%
20%
5%
IAS 19
54%
17%
23%
5%
IAS 39 a
61%
13%
16%
9%
IAS 39 d
59%
12%
17%
11%
IAS 39 f
58%
12%
19%
10%
IAS 41
60%
12%
16%
11%
IAS 39 e
60%
10%
19%
10%
Altro
97%
0%
2%
1%
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Grafico 19 – SEMPLIFICAZIONE DEGLI IAS/IFRS DA ESTENDERE ALLE P.M.I.
4. Sintesi e considerazioni conclusive La ricerca effettuata ha consentito di giungere alle seguenti principali conclusioni (ordinate secondo le sezioni in cui è stato strutturato il questionario). I. INFORMAZIONI DI CARATTERE GENERALE In primo luogo, si ritiene opportuno sottolineare la significatività dei dati raccolti: i commercialisti intervistati hanno dichiarato di esercitare in maniera intensa, per le loro aziende, attività di “Redazione del bilancio” e di “Tenuta dei conti e redazione del bilancio”. Questo aspetto pone in evidenza la loro qualità di essere “tecnici” ed “esperti” delle problematiche proprie della comunicazione economico-finanziaria, avvalorando le risposte da essi fornite alle domande del questionario. Dall’analisi dei dati della prima sezione emerge, inoltre, che i commercialisti: ■
Si avvalgono (ed anche in misura rilevante) delle semplificazioni proposte dal 2435 bis C.C.
■
Riconoscono nel “Settore di attività” il più importante parametro cui legare eventuali processi di semplificazione della disciplina di bilancio.
73
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
II. UTILIZZATORI E LORO FABBISOGNI INFORMATIVI Nell’opinione dei professionisti contabili le informazioni dei bilanci delle aziende minori vengono impiegate soprattutto da: ■
“Banche e Finanziatori Istituzionali”, che se ne avvalgono soprattutto per valutare la “Capacità di restituzione del prestito, Liquidabilità, Profittabilità ” e la “Stabilità, Trend nei risultati conseguiti, Sicurezza” delle aziende affidatarie o richiedenti denaro in prestito.
■
“Proprietari coinvolti nella gestione” per l’assunzione di “Decisioni di Finanziamento” e di “Decisioni di Investimento”.
■
“Fisco”. Dall’analisi delle risposte, tuttavia, emerge che le informazioni di bilancio non risultano sufficienti a soddisfare le attese conoscitive di diverse categorie di user della comunicazione economico-finanziaria delle P.M.I., tanto da giustificare la necessità di fornire loro informazioni integrative. In particolare, la categoria che ne ottiene in misura maggiore è quella delle “Banche e Finanziatori Istituzionali”. I dati, comunque, valgono a confermare, di fatto, la necessità di rivedere la disciplina contabile rivolta all’universo delle aziende minori.
III. ASPETTI CONTABILI Dall’analisi dei dati di questa sezione emerge, che:
74
■
L’impegno più gravoso connesso alla produzione della comunicazione economico-finanziaria è legato alla “Attività Fiscale”, ancor più di quanto non lo sia la vera e propria “Tenuta della contabilità”.
■
La disciplina contabile italiana (sia essa proveniente dal codice, sia quella emanata dall’O.I.C.) non è ritenuta eccessivamente onerosa.
■
I commercialisti intervistati: – Concordano con l’idea di proporre l’adozione di un semplice prospetto dei flussi di cassa anche in favore delle aziende minori. – Hanno una conoscenza tendenzialmente “Media” degli IAS/IFRS.
■
I professionisti contabili (che dichiarano di avere una conoscenza media o alta dei principi internazionali) sono favorevoli all’estensione di alcuni di questi principi anche all’universo delle aziende minori, a patto che però vengano precedentemente semplificati.
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
Le informazioni raccolte inducono a ritenere parzialmente inadeguata - e suscettibile di correzioni - l’attuale disciplina contabile rivolta all’universo delle aziende di minore dimensione. Dall’indagine, infatti, emerge la necessità di fornire informazioni integrative, rispetto a quelle raccolte nel bilancio, in favore di alcune categorie di user; aspetto che, indirettamente, viene confermato anche dai consensi che guadagnano le ipotesi di: ■
Proporre, anche alle aziende minori, la redazione di un semplice prospetto dei flussi di cassa.
■
Estensione alle P.M.I. di alcuni principi IAS/IFRS.
D’altro canto, tuttavia, non convince la possibilità di risolvere la questione semplicemente prevedendo un’estensione dell’applicabilità dei principi contabili internazionali in favore delle P.M.I.: i giudizi favorevoli verso l’ipotesi di una preventiva semplificazione di questi valgono a ritenere opportuna l’implementazione di processi di differential reporting.
75
Comunicazione economicofinanziaria nelle P.M.I.
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Audit e Professioni Contabili a cura del Prof. Alessandro Gaetano - Università di Roma Tor Vergata
Scopo ed contenuti della rubrica La rubrica Audit e professioni contabili vuole rappresentare, nel processo di profonda rivisitazione che ha coinvolto la Rivista Financial Reporting, un elemento di continuità rispetto al passato: infatti, questa costituisce un punto di collegamento con la linea editoriale e l’oggetto specifico della rivista Revisione Contabile, soprattutto, intende mantenere uno stretto legame con i soggetti a cui la Rivista si è rivolta da sempre. Infatti è nostro profondo convincimento che vi sia un grande bisogno di uno “spazio editoriale” in cui si fornisca, con approcci che non siano né esclusivamente teorici, né eccessivamente empirici od operativi, una illustrazione ed analisi dei risultati dell’attività degli organismi che concorrono a produrre, a livello nazionale ed internazionale, regolamentazione contabile o a codificare ed influenzare, anche attraverso le interpretazioni proposte, le scelte ed i comportamenti di chi affronta problematiche amministrativo contabili e contribuisce alla produzione e al controllo dei flussi di informativa esterna di impresa. In questa direzione, la rubrica Audit e professioni contabili vuole fornire, allo studioso, al professionista, ma anche all’operatore, una panoramica sulla produzione e sul contenuto dei principali documenti che condizionano l’operato di coloro i quali si occupano, a vario titolo, di professioni contabili, senza per questo privarsi, ove necessario, di fornire una lettura critica dei documenti esaminati. L’esperienza maturata negli ultimi anni da chi si è occupato di problematiche di regolamentazione di controllo contabile dimostra che spesso vi sia necessità di comprendere a fondo la ratio ed il contenuto dei documenti destinati a disciplinare i comportamenti tecnico amministrativi delle imprese, sia per esaminarli criticamente dal punto di vista teorico e concettuale, sia per applicarli correttamente dal punto di vista operativo (salvo poi essere valutati dai soggetti che devono garantire l’enforcement del sistema di regole e/o di essere oggetto di ricerche empiriche che verificano ex post le modalità di applicazione di tale regolamentazione). A tal fine occorre, inoltre, essere messi a conoscenza dell’iter e delle motivazioni che hanno portato alla redazione dei documenti di regolamentazione contabile e delle varie versioni e modifiche che hanno condotto alla loro formulazione finale, considerando anche le motivazioni dei relativi cambiamenti che, spesso, sono frutto di un dibattito che precede la emanazione di un principio, di un regolamento, di una circolare o di una raccomandazione o a volte anche di un documento di studio o di un 79
Presentazione Auditing
documento operativo. Il pensiero va, ad esempio, a livello nazionale, alle guide operative dell’Organismo Italiano di Contabilità o gli OPI emanati da Assirevi, piuttosto che ai documenti del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti o alle Circolari emanate dal Ministero della Economia e Finanze, dall’Agenzia delle Entrate o dalle Autorità di vigilanza. Gli elementi sopra richiamati possono fornire, pertanto, fondamentali indicazioni in merito alla corretta interpretazione di un documento di regolamentazione contabile, e sono destinati a condizionarne le modalità di applicazione e implementazione dal punto di vista operativo, anche se spesso non sono nella disponibilità e conoscenza dei più. Infatti, per chi si è recentemente occupato di redazione, applicazione, ma anche solo di studio e commento dei principi contabili internazionali, una delle esigenze più avvertite è quella di avere contezza di ciò che accade nelle fasi preliminari di confronto che precedono la pubblicazione del documento definitivo o anche di quello in bozza per la consultazione, non solo per poterlo comprendere a fondo ed eventualmente criticare dal punto di vista concettuale o operativo, ma anche, e soprattutto, per condizionarne il processo di formazione e di eventuale revisione. Tali fasi preliminari avvengono seguendo modalità che assicurano sempre di più la trasparenza informativa, ma precedono spesso la fase di consultazione pubblica, che si avvia in un momento in cui chi emana il documento è giunto ad un elevato grado di consapevolezza e maturità, mentre i soggetti terzi che vengono coinvolti nel processo di consultazione e che presentano le loro osservazioni si trovano spesso nella condizione di avere visto per la prima volta un documento che, invece, è stato oggetto di discussione e approfondito dibattito all’interno, spesso con un confronto anche all’esterno, da parte dell’organismo che lo emana. Inoltre, non si può non considerare che nella maggior parte dei casi il vero dibattito e confronto, che può portare a modificare in modo rilevante il documento, si sviluppa nella fase che precede la pubblicazione dello stesso nella sua versione definitiva e, spesso, in quella ancora antecedente che porta alla predisposizione della versione per la consultazione. Dall’altro lato però, questo modus operandi contiene in sé anche il rischio che i contributi al processo di formazione del documento da parte dei soggetti che sono destinati ad applicarlo correntemente scarseggino; in effetti, mentre gli operatori sono spesso pressati da molteplici impegni e scadenze, anche gli studiosi - cui spetta il compito di dedicarsi a questa attività speculativa - sono esposti al rischio di produrre contributi scientifici che, in quanto riferiti ad un documento non definitivo, possono divenire entro breve obsoleti. Questi soggetti, pertanto, sono spesso costretti, per mancanza di tempo ad affrontare la analisi di un documento, contenente una serie di regole spesso com80
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plesse, destinate a volte a modificare in modo rilevante i loro comportamenti, solo all’atto della sua emanazione definitiva, se non addirittura all’approssimarsi della sua effettiva entrata in vigore. Inoltre, vista la notevole mole di documentazione che viene prodotta, anche a supporto della applicazione dei principi contabili, si corre il rischio di non essere aggiornati, e chi è consapevole di ciò vive nel continuo timore di non essere al corrente di cosa è stato emanato; visto il ridottissimo lasso temporale che, sempre più spesso, intercorre tra il rilascio di un documento e la sua applicazione a volte, pur avendo contezza di cosa sia stato prodotto, ha la sola certezza che nei tempi che si hanno a disposizione per dare soluzione al problema non si sarà certamente in grado di leggere o studiare a fondo la documentazione da applicare, con le ovvie conseguenze sulla bontà delle soluzioni seguite ed i relativi impatti prodotti sulla attività e responsabilità di chi opera e di chi è destinato ad espletare l’attività di controllo. Ad avviso di chi scrive, inoltre, l’applicazione di un sistema di regole nuove ed un differente modo di produrre regolamentazione contabile ha comportato la necessità di modificare gli approcci finora adottati da coloro i quali si occupano dell’attività di controllo; infatti, i sindaci, revisori e addetti ai controlli interni, devono aggiornare il loro modo di fare audit sui processi contabili, le cui risultanze si avvicinano sempre più a quelle dei processi gestionali, con conseguente avvicinamento di approcci e modelli tra audit contabile ed a quelli adottati per espletare l’attività di audit gestionale. Partendo da queste premesse ed esigenze, ampiamente diffuse e condivise tra coloro con cui si è avuto modo di avere un confronto, e che sono stati, a vario titolo, coinvolti nella progettazione e redazione della presente rubrica, l’obiettivo che la stessa intende perseguire è quello di fornire, innanzitutto, una panoramica, (possibilmente completa e sufficientemente approfondita nei limiti dello spazio ad essa concessi) sui principali documenti emanati in tema di informativa economico-finanziaria di impresa da parte degli standard setter nazionali ed internazionali, dalle autorità di controllo e da alcune delle associazioni di categoria (certamente da parte di quelle che raccolgono i professionisti contabili e le imprese di revisione del nostro paese), il tutto tenendo conto della periodicità di uscita della rivista che, non consente certamente di fare di questa rubrica uno strumento di informazione istantanea. Per tale motivo, i colleghi che sono stati coinvolti nella presente iniziativa e che, a partire da questo numero inizieranno a fornire i loro contributi sulle tematiche sopra richiamate, provengono dal mondo dell’accademia, delle istituzioni e degli organismi di produzione della regolamentazione e delle professioni tecnico-contabili, spesso ricoprendo contemporaneamente più di uno di questi ruoli. Tra questi si citano, solo per il fatto che hanno aderito per primi (anche perché la lista dei nomi che è già sufficientemente estesa e, per fortuna 81
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- ciò sembra dimostrare la bontà e condivisione del progetto - con la adesione di nuovi amici e la aggiunta dei loro nomi si sta allungando di giorno in giorno di più) Gianfranco Capodaglio, Professore Ordinario di Economia Aziendale dell’Università di Bologna e Presidente della Commissione per le Norme ed i Principi Contabili istituita presso il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, che “apre le danze” con un suo contributo pubblicato, come primo della Rubrica Audit e professioni contabili, all’interno del presente numero della Rivista; Mario Boella, Presidente di ASSIREVI e membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’OIC; Matteo Caratozzolo, Presidente della Commissione Principi Contabili del’Ordine dei Dottori Commercialisti di Roma, già Membro del Comitato Tecnico, scientifico dell’OIC e Presidente della Commissione Principi Contabili del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti; Simone Scettri, Vice Presidente ASSIREVI e membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’OIC; Massimo Tezzon, che dopo essere stato per anni il Direttore Generale della CONSOB ricopre attualmente il ruolo di Segretario Generale dell’Organismo Italiano di Contabilità ed Enrico Macario, capo Uffici controlli fiscali - DR Liguria - Agenzia delle Entrate. A questi amici - a cui si aggiungono, ovviamente, i colleghi del Comitato di Redazione - vanno i miei più sentiti ringraziamenti per i preziosi suggerimenti e spunti ricevuti nelle varie occasioni di incontro e confronto che, naturalmente, si estendono a coloro i quali hanno dimostrato il loro interesse e disponibilità a partecipare e contribuire a questa iniziativa che oggi vede la luce. Tramite i contributi di tutti questi soggetti, si spera di riuscire a diffondere utili informazioni, sia per la comunità scientifica, sia per i professionisti impegnati ai livelli più alti della professione contabile. Quindi si auspica che questa Rubrica possa assumere, in piena coerenza e totale coordinamento con il contenuto e le linee di sviluppo della Rivista, il ruolo di “terreno neutrale” in cui membri delle Istituzioni, professionisti e operatori dell’area amministrativo contabile, Responsabili delle attività di controllo e governo delle imprese ed esponenti dell’Accademia, anche se dotati di esperienze e approcci differenti, possano confrontarsi in modo costruttivo su tematiche di comune interesse per i professionisti contabili, portando contributi su aspetti e documenti che li hanno visti direttamente coinvolti: ciò al fine di far crescere il grado di consapevolezza e conoscenza delle tematiche relative ai controlli ed all’informativa esterna di impresa nel nostro Paese. Ovviamente i contributi e le opinioni in essi espresse verranno forniti dagli autori a titolo personale senza che ciò impegni le istituzioni e/o Organismi di appartenenza ma, vista la onestà intellettuale dei soggetti coinvolti, ciò costituisce un grande vantaggio, piuttosto che un elemento di limitazione del loro apporto. 82
La Commissione “per le norme ed i principi contabili” del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Gianfranco Capodaglio – Università di Bologna
1. Cenni sul ruolo dei principi contabili in Italia Come è noto, in Italia la legge regola la materia relativa agli obblighi contabili delle imprese ed alla redazione del loro bilancio d’esercizio, nonché del bilancio consolidato dei gruppi di imprese; la normativa detta le regole inerenti il contenuto del bilancio, le sue caratteristiche fondamentali, i principi di redazione ed i criteri di valutazione delle diverse poste, senza però scendere nel dettaglio delle possibili diverse fattispecie. Inoltre, la “clausola generale” contenuta nell’art. 2423 del codice civile prevede l’obbligo di fornire informazioni integrative se le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta e di non applicare una disposizione se, in casi eccezionali, la sua applicazione è incompatibile con la rappresentazione veritiera e corretta. Da quanto sopra si evince che il legislatore italiano ha formulato un implicito rinvio alla tecnica contabile per l’integrazione e l’interpretazione delle norme.
2. L’origine dei principi contabili nazionali Negli studi di Ragioneria e nelle prassi degli operatori contabili si sono sempre potuti individuare criteri e metodi di redazione dei bilanci, ispirati ai sistemi in auge nei diversi periodi di riferimento: in particolare, si è assistito ad una profonda trasformazione intorno alla metà del secolo scorso, allorché si ebbe la massima diffusione su tutto il territorio nazionale della contabilità in partita doppia svolta con il “metodo reddituale” di Gino Zappa, in sostituzione del precedente “metodo patrimoniale”, originato dagli studi di Fabio Besta. Pur potendosi riscontrare i criteri ed i metodi di redazione del bilancio e di valutazione dei suoi elementi più diffusi ed accettati, non si disponeva di 83
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un corpus di principi considerabili “sistema di riferimento”, sino a quando le Associazioni professionali non hanno emanato una serie di documenti, intitolati, appunto, “Principi contabili”. Ciò è avvenuto alla metà degli anni settanta, ad opera del Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti, che ha nominato al suo interno una commissione denominata “Per la statuizione dei principi contabili”, presieduta da Giancarlo Tomasin. L’allora Presidente del Consiglio Nazionale, Giuseppe Salvini, nella presentazione dell’iniziativa1, così scriveva: «la certificazione dei bilanci, che sarà legislativamente obbligatoria per le società le cui azioni sono quotate in Borsa, va diffondendosi presso di noi anche nei confronti di società la cui “certificazione” non è prescritta dalla legge. Ciò presuppone che vengano stabiliti dei principi contabili e di revisione di generale accoglimento affinché, in materia, si parli un unico linguaggio e di conseguenza siano possibili le comparazioni dei dati e dei risultati, nonché l’attendibilità degli stessi». L’attività della Commissione si svolse sino al 1993 e produsse dieci fascicoli, numerati progressivamente, il primo dei quali, intitolato “Bilancio d’esercizio finalità e postulati”, aveva come obiettivo l’esposizione di alcuni concetti fondamentali a cui doveva informarsi la preparazione del bilancio d’esercizio per assolvere la sua funzione informativa. I documenti successivi trattarono principalmente argomenti connessi a singole poste di bilancio. Nel 1993 la Commissione venne rinnovata nella sua composizione2, ma soprattutto venne formata sotto l’egida sia del Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti, sia del Consiglio Nazionale dei Ragionieri. L’insediamento della nuova Commissione avvenne in un momento particolarmente delicato: in quell’anno infatti entrò in vigore il decreto legislativo 9 aprile 1991, n. 127 di attuazione delle Direttive CEE n. 78/660 e n. 83/349 in tema di bilancio d’esercizio e di bilancio consolidato. La Commissione decise di riprendere dall’inizio tutto il lavoro svolto dalla precedente, e di riproporre i documenti, aggiornandoli in conformità alla nuova disciplina. Il documento n. 11, che mantenne il titolo “Bilancio d’esercizio finalità e postulati” fu emanato nel gennaio del 1994, in sostituzione del n. 1. I documenti successivi hanno rivisto il contenuto degli altri precedenti, dal n. 2 al n. 10, ed hanno trattato nuovi argomenti, arrivando sino al n. 30.
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Principi e raccomandazioni per la redazione, revisione e certificazione dei bilanci. Presentazione ed introduzione. Giuffré, 1977. 2 In quell’occasione io venni nominato componente della Commissione, fra gli iscritti agli albi dei Dottori commercialisti.
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3. La situazione attuale Con l’avvento del nuovo millennio, si è aperto in Italia, così come nel resto dell’Europa, un periodo di grandi mutamenti, connessi con la normativa europea in materia societaria e di bilancio. L’Unione europea, infatti, con una serie di regolamenti3, ha obbligato gli Stati membri ad adottare, a partire dal 1° gennaio 2005 i principi contabili IAS/IFRS per la redazione dei bilanci consolidati delle società i cui titoli sono trattati su mercati regolamentati4. Lo Stato italiano, con la legge 31 ottobre 2003 n. 306 (Comunitaria 2003, pubblicata sulla G.U. n. 266 del 15 novembre 2003) e con il decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38, ha inteso aderire all’armonizzazione contabile promossa dall’Unione, andando oltre gli obblighi imposti dal citato regolamento e prevedendo che, in aggiunta alle imprese indicate dal regolamento comunitario, dovranno adottare gli IAS/IFRS anche: 1) Le società quotate per la redazione del bilancio d’esercizio 2) Le società emittenti strumenti finanziari diffusi tra il pubblico per il bilancio d’esercizio e consolidato 3) Le banche e gli intermediari finanziari sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, per il bilancio d’esercizio e consolidato 4) Le imprese assicurative per il bilancio consolidato e, se sono quotate ma non redigono il bilancio consolidato, anche per quello d’esercizio. La normativa, inoltre, prevede la facoltà di redigere il bilancio con i principi contabili internazionali per tutte le altre imprese che non sono autorizzate alla scelta del bilancio in forma abbreviata. Tale facoltà potrà essere esercitata dopo l’emanazione di un apposito decreto, a tutt’oggi non ancora avvenuta. Contemporaneamente abbiamo assistito alla nascita di un nuovo organismo, deputato, tra l’altro, alla redazione dei principi contabili destinati alle imprese che non adottano gli standard internazionali: l’Organismo Italiano di Contabilità (OIC) si è costituito, nella veste giuridica di una fondazione, il giorno 27 novembre 2001. Alla stipula dell’atto costitutivo hanno partecipato, in qualità di fondatori, le organizzazioni rappresentative delle principali categorie di soggetti privati interessate alla materia. Trattasi, in particolare: per la professione contabile, dell’Assirevi, del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e del Consiglio Nazionale dei Ragionieri; per i preparers, dell’Abi, dell’Andaf, dell’Ania, dell’Assilea, dell’Assonime, della Confapi, della Confcommercio e della 3
1606/2002; 1725/2003; 707, 2086, 2236, 2237, 2238 del 2004; 211, 1073, 1751, 1864, 1910, 2106 del 2005; 108, 708, 1329 del 2006. 4 È interessante notare che il Framework non è stato oggetto di omologazione da parte dell’U. E., pur essendo frequentemente citato dai singoli standard.
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Confindustria; per gli users, dell’Aiaf, dell’Assogestioni e della Centrale Bilanci; per i mercati mobiliari, della Borsa Italiana. Questo nuovo organismo ha, fra i propri compiti, quello di svolgere l’attività che precedentemente era affidata alla Commissione per la statuizione dei principi contabili ed ha iniziato dalla revisione del documento 11 (Bilancio d’esercizio finalità e postulati). Contrariamente a quanto è avvenuto in precedenza, però, non ha proseguito nella numerazione, ma ha conservato quella esistente. Attualmente, quindi, l’OIC redige i propri documenti secondo due serie numeriche: la prima riguarda la revisione dei documenti preesistenti, anche alla luce dell’intervenuta riforma del diritto societario5, mentre la seconda tratta argomenti nuovi, il primo dei quali è costituito da “ I principali effetti della riforma del diritto societario sulla redazione del bilancio d’esercizio”.
4. La nuova Commissione del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili Dopo l’unificazione degli Albi delle professioni economico-giuridico-contabili, il nuovo Consiglio Nazionale ed il suo Presidente, Claudio Siciliotti, hanno ritenuto che non fosse venuta meno l’esigenza e l’utilità della suddetta Commissione, che ha assunto il nuovo nome di “Commissione per le norme ed i principi contabili” e si è insediata il 5 giugno 2008. L’opportunità di mantenere in attività la commissione è stata motivata proprio dalla considerazione che le disposizioni contabili stanno subendo un rapido e crescente processo di convergenza verso approcci, schemi e, in taluni casi, regole generalmente accettate a livello mondiale. Le norme comunitarie e nazionali nonché i principi contabili nazionali fanno sempre più riferimento agli IAS/IFRS quale punto di partenza per la predisposizione e l’interpretazione delle norme di legge nazionali in materia. La comprensione delle disposizioni contenute nei principi contabili internazionali appare quindi fondamentale anche per l’interpretazione applicativa delle norme di legge nazionali in materia di contabilità. L’ampio processo di revisione delle norme contabili rischia di rivedere in modo assai significativo il sistema dei principi contabili generalmente accettati a livello internazionale. Il rischio maggiore consta nella previsione di norme che siano estranee alla cultura nazionale ed al sistema economico ed imprenditoriale sottostante e che non risultino quindi in grado di fotografare in modo adeguato la po5
Decreto legislativo 17 gennaio 2003, 6, modificato dal decreto legislativo 28 dicembre 2004, n. 310.
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sizione patrimoniale-finanziaria e l’andamento economico delle piccole e medie imprese nazionali; per questo è importante far sentire la propria voce per illustrare le osservazioni e proposte della professione, che da decenni segue costantemente le imprese in tutte le fasi della loro vita economica. Con queste motivazioni, alla Commissione è stato affidato il compito di: ■
Commentare le bozze ed analizzare specifici aspetti tecnico-applicativi dei principi contabili internazionali
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Commentare gli schemi ed analizzare specifici aspetti tecnico-applicativi delle norme comunitarie e nazionali
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Commentare le bozze e produrre strumenti per l’applicazione pratica di specifici istituti o aspetti dei principi contabili nazionali. In esecuzione dell’incarico ricevuto, la Commissione, subito dopo l’insediamento, ha esaminato il “Documento di consultazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze concernente l’attuazione delle direttive comunitarie 2001/65/CE e 2003/51/CE”. Le relative “Osservazioni” sono state redatte e poi approvate dal Consiglio Nazionale in data 30 luglio 2008: da quel giorno sono consultabili sul sito del Consiglio. Il secondo lavoro svolto dalla Commissione riguarda le novità normative introdotte dal decreto legislativo 2 febbraio 2007, n. 32, in tema di relazione sulla gestione6: il 14 gennaio 2009 è stato emanato un documento intitolato “La relazione sulla gestione art. 2428 codice civile”, che contiene interpretazioni e suggerimenti operativi, in modo tale da costituire una sorta di vademecum per il professionista. Il terzo lavoro è costituito dai commenti alla “Bozza per consultazioni OIC Applicazioni IAS/IFRS impairment e avviamento”. Il relativo documento è stato approvato nell’aprile 2009. L’ultimo lavoro concluso riguarda un documento per consultazione prodotto dall’Unione europea ed intitolato “Working Document of the Commission Services (DG Internal Market) Consultation Paper on Review of the Accounting Directives”. Esso si riferisce ad una proposta di “semplificazione” per quelle che vengono definite le “micro imprese”, per le quali si propone, in pratica, l’abolizione di qualsiasi incombenza relativa al bilancio. Il punto più delicato della questione consiste nella stessa definizione di micro imprese: in molti contesti europei, infatti, la proposta definizione potrebbe comprendere una larga fascia di operatori economici. Le osservazioni formulate dalla Commissione sono state approvate dal Consiglio e rese pubbliche nell’aprile 2009. Tutti i documenti prodotti sono consultabili sul sito del Consiglio Nazionale. 6
La norma si applica ai bilanci dell’esercizio 2008, per le società il cui esercizio coincide con l’anno solare.
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Un “quasi” compendio sul Fair Value a cura di Roberto Di Pietra – Università degli Studi di Siena Alcune riflessioni tratte dalla lettura del “The Routledge Companion to Fair Value and Financial Reporting”, curato da Peter Walton (Routledge, Taylor & Francis Group 2007, pp. i-xviii, 1- 404).
Quanto è stato scritto, affermato e discusso in tema di Fair Value (FV) e di Financial Reporting nel corso degli ultimi 10-15 anni trova riscontro solo nel caso di pochi altri argomenti e temi di ricerca. Forse solo nel caso della “chimera” dell’Accountability è stato raggiunto il numero delle volte nelle quali scrivendo sul FV si è voluto contribuire ad alimentare un dibattito sempre in evoluzione. Sul FV si sono confrontati insigni accademici, schiere di professionisti della contabilità, numerosi esperti di revisione, nonché eccellenti rappresentanti degli standards setters nazionali o dei regulators internazionali. A tale tema sono stati dedicati Convegni, Conferenze e Workshops. Nel contempo, sono stati pubblicati a livello locale e mondiale numerosi volumi ed articoli. Al tema del FV si è guardato con speranza, scetticismo ed aperta ostilità. Le discussioni hanno riguardato sia i profili teorici sia le analisi empiriche (in alcuni casi condotte su profili che hanno rasentato livelli di esasperato tecnicismo). In ogni caso, riteniamo di poter affermare che nessun tentativo è pervenuto ad un momento di sintesi o di soluzione definitiva. In alcuna circostanza siamo giunti alla costruzione di un “compendio” in grado di comporre un dibattito che non può trovare, per sua stessa definizione, una perfetta ed assoluta soluzione. L’attribuzione dei valori nella rappresentazione di Bilancio è questione sulla quale schiere di studiosi di Accounting si sono confrontati e continuano a confrontarsi sia a livello nazionale che internazionale. Allora perché segnalare e portare all’attenzione dei lettori l’ennesimo volume pubblicato in tema di FV? Perché questo ulteriore volume può divenire il “Companion” cui ricorrere per orientare il dibattito sul FV e sull’attività di Financial Reporting? Quale contributo complessivo possiamo associare agli studi proposti nel volume curato da Peter Walton? 88
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A quale “fil rouge” sono legati i 26 saggi che si sviluppano nel volume pubblicato da Routledge nel corso del 2007? L’anno di pubblicazione potrebbe costituire un problema di non secondaria importanza nell’avvicinarsi al “Companion to Fair Value and Financial Reporting”. Agli occhi dei lettori e degli studiosi il 2007 può costituire un periodo già troppo distante dalla fase di recessione economica mondiale avviatasi almeno tecnicamente nella seconda metà del 2008. Il virulento manifestarsi di tale recessione (ancora da comprendere nella sua effettiva estensione e profondità) può porre più di un dubbio sulla validità delle riflessioni proposte prima del 2008. Nella stesura di questa book review ho, in più occasioni, avuto il dubbio se non fosse il caso di procedere alla sua completa riscrittura proprio per tenere conto delle reazioni convulse che alcuni regolatori sembrano avere assunto nei confronti del FV. La transizione alle valutazioni al FV nel contesto dell’Unione europea, per quanto dibattuta, sembrava ormai avviata al superamento della fase di sperimentazione. Il contesto europeo è stato, invece, scosso dalle prime conseguenze della crisi finanziaria, ovvero dalla profonda volatilità dei valori che assumono gli strumenti finanziari. Molti commentatori hanno ripreso argomentazioni e posizioni critiche proposte già da alcuni anni, assumendo toni quasi di soddisfazione per l’avere visto avverarsi i timori ed i rischi paventati. In alcuni settori regolati le autorità di vigilanza hanno di fatto richiesto il ritorno alle valutazioni al costo e tutto questo è passato nella lettura popolare come un passo verso l’abbandono del FV1. Dunque, cosa può dire di interessante un volume sul FV e sul Financial Reporting se è stato pensato e pubblicato prima del terremoto del 2008? La lettura dei contributi che costituiscono il volume curato da Peter Walton e le riflessioni che esse hanno suscitato consentono di apprezzare la profondità di un lavoro che, in alcuni casi, è andato talmente in profondità da riuscire a superare la portata stessa dall’attuale contingenza. L’idea complessiva in tema di FV che il volume in esame contribuisce ad avvalorare è che questo concetto risulta ben lontano dall’essere identificato in modo esaustivo e definitivo. Nei cinque saggi della sezione introduttiva (Section I: Introduction) e nel complesso dei saggi delle altre due sezioni del volume (Section II: Theroetical analysis e Section III: Fair value in practice) il FV è stato oggetto di un’indagine teorica ed operativa 1
In Italia nel corso del 2008 l’eccessiva volatilità che ha caratterizzato i valori degli strumenti finanziari ha creato serissimi problemi sulla possibilità di pervenire alla redazione di Bilanci contenenti informazioni attendibili. Questo soprattutto nel caso dei Bilanci bancari ha indotto la Banca d’Italia a sospendere l’utilizzazione del FV per la redazione del Bilancio d’esercizio relativo al 2008 disponendo in questa fase un ritorno alle valutazioni al costo.
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nella quale sono state adottate differenti prospettive. Le diverse ottiche di indagine hanno permesso di ricomporre una visione di insieme di indubbio valore intellettuale e pratico. Sul FV gli Autori hanno singolarmente assunto una prospettiva storica, di analisi critica, di carattere comparato (rispetto al contesto statunitense, australiano, canadese o giapponese), di confronto con le specificità settoriali (ad esempio, quello dell’industria bancaria) o di riferimento a particolari attività (come nel caso della revisione). La rassegna dei contributi proposti nel Companion curato da Peter Walton è varia a sufficienza per offrire al lettore una visione complessiva sul FV, sulla molteplicità della sua nozione e sulla complessità delle conseguenze legate alla sua utilizzazione. Nel contempo, la somma di tali differenti prospettive sul FV non riesce a completare l’intero spettro delle possibilità. Ad esempio, manca il riferimento alle specificità del contesto europeo, ammesso che sia possibile assumere come unitaria la molteplice espressione delle tradizioni contabili dei Paesi che costituiscono il mosaico culturale europeo. Nella composizione dei saggi del volume in esame certamente manca un esplicito richiamo alla ricca tradizione di studi del mondo tedesco, francese, italiano, spagnolo, olandese, etc. Resta indubbio il punto di forza legato alla scelta di offrire al lettore una molteplicità di prospettive sul FV, nonché la scelta di evitare qualsiasi visione preconcetta su un tema ancora aperto sia dal punto di vista teorico che pratico. Fin dai saggi di apertura del volume lo sforzo compiuto dai diversi studiosi coinvolti nella realizzazione dell'opera è stato quello di sgombrare il campo da tutta una serie di confusioni ed erronee interpretazioni che hanno circondato il tema del FV. In questo senso possiamo richiamare i richiami storici proposti da Peter Walton quando chiarisce come il termine FV “has been in use for over a century in the U.S. meaning the value for which an asset could be exchanged between a willing buyer and willing seller, with knowledge of the market and without compulsion”. Nel contempo, lo stesso autore evidenzia come nel contesto dell’Europa continentale, il ricorso al valore di mercato è stato ampiamente utilizzato e questo con particolare riferimento al caso francese (“market value has a long history in French accounting and was widely used in bilance sheets in the nineteenth century”, Walton p. 5). Poteva a questo proposito essere interessante segnalare come il riferimento ai valori di mercato alternativi al costo storico è ben presente nella tradizione dottrinale di altri Paesi dell’Europa continentale e come nella profondità di questi contributi teorici anche italiani erano stati 90
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segnalati da tempo i vantaggi e le criticità che i valori di mercato potevano determinare in condizioni di incertezza e di turbolenza economica. Ancora più nette e chiare appaiono le conclusioni cui giunge David Cairns, soprattutto quando chiarisce che: “it is not true to say that IFRS require that all assets and liabilities should be measured at fair value. It is also far from true to say that IFRS require all financial assets and financial liabilities to be measured at fair value. The reality is that use of fair value in IFRS for the subsequent measurement of assets and liabilities is very limited – both in theory and in practice. It is true to say that IFRS are placing much more emphasis on the use of fair values to record transactions and to allocate the initial amount of transactions among its constituent parts. This process, begun almost twenty-five years ago, reflects the practice in many national standards” (Cairns p. 23). Oltre all’esigenza di fare chiarezza dalle erronee affermazioni in tema di FV, i saggi presenti nel volume in esame sembrano seguire un percorso comune nel quale viene più volte affermato come il FV sia un concetto che non è stato ancora definito in modo definitivo. A tal proposito, appaiono illuminanti le riflessioni di Michael Bromwich quando afferma che “the one main impressions that no authoritative and detailed analytical case has been provided for the use of fair values. …A second major impression is that the fair value concept arrived relatively fully formed - … - as a definition of fair value in an accounting standard without any attempt to defend this definition. … This and later definitions are fairly bland and seem relatively innocuous, but in fact revolutionize accounting, accounting measurement and income determination when taken together with their necessary operating assumptions” (Bromwich p. 64). Su analoghe riflessioni è stato sviluppato il saggio di Geoffrey Whittington quando, ad esempio, afferma che: “This lack of uniformity and stability in the definition and application of fair value makes it difficult to define alternatives to fair value without first examining the concept itself” (Whittington p. 181). Sugli elementi di debolezza della nozione di FV tornano in più occasioni i diversi saggi del volume curato da Peter Walton. Proprio per le note vicende che hanno caratterizzato l’andamento dei mercati dei capitali nel corso del 2008 riteniamo opportuno segnalare le numerose carenze nella definizione delle caratteristiche che dovrebbero assumere i mercati sui quali si dovrebbe poi giungere all’identificazione di un valore qualificato come fair. Al riguardo ancora Michael Bromwich chiarisce che “… the character of markets, in terms of how well they operate, is fundamental to what results may be expected from using fair values in different situations. Standards-setters have not, as far as is known, 91
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empirically investigated the characteristics of markets. Rather, they have merely listed a number of assumptions that are tantamount to assuming well-organized markets” (Bromwich p. 66). Ed ancora più avanti lo stesso Autore precisa con una certa enfasi che “One major problem is to deal with fair value valuations in situations where markets do not exist. The standards-setters’ approach is to impose an imaginary market”2. Da queste riflessioni derivano una serie di conseguenze che interessano l’utilizzazione effettiva degli IFRS nella redazione dei Financial reports e che creano non pochi problemi di interpretazione ai preparers ed agli users degli standards. A tale tipo di incertezze applicative ed interpretative sono esposte intere categorie di operatori, così come appare evidente nel caso dei revisori “fair value is based on concepts for which judgement is central and there is significant volatility depending on the assumptions made, especially when the assets are not quoted on an active market. In such conditions the auditor, aware of the uncertainties and the factor of volatility, must be able to put the company’s choises in perspective” (Jacquemard p. 299). Il Campanion sul FV e sull’attività di Financial Reporting ha dunque il merito di inquadrare un tema così ampio assumendo una serie di prospettive che nel loro insieme consentono di comprendere meglio la complessità di tale argomento, le potenzialità e le criticità, nonché la continua evoluzione che esso sta tuttora manifestando. In questo senso, assume un particolare valore la scelta di non avere voluto proporre ai lettori dei concluding remarks. L’idea di predisporre non un textbook sul FV, ma una raccolta di saggi ha probabilmente reso naturale la scelta di evitare la redazione di conclusioni. Tali conclusioni avrebbero inevitabilmente costretto all’espressione di un giudizio sul FV che mal si concilia con la varietà di prospettive assunte dal Curatore e dagli Autori dei saggi, nonché nei confronti di un dibattito tuttora in corso e lontano dalla conclusione. Come abbiamo già accennato in precedenza la discussione sul FV è sicuramente in evoluzione ed è oltretutto difficile da fermare in modo 2
Sulla determinazione di valori fair in presenza di mercati dei capitali molto instabili può essere di particolare interesse il saggio di George Benston che offre una lettura del caso Enron dal punto di vista contabile. Nelle sue conclusioni l’autore afferma, infatti, che: “The Enron experience should give the FASB, IASB, and others who would permit (indeed mandate) level 3 fair value accounting, wherein the numbers are not well grounded in relevant market prices, reason to be cautious. One Enron was permitted to use fair values for energy contracts it extended revaluations to a wide and increasing range of assets, …. The result was overstatement of revenue and net income and structuring transactions to present cash flows from operations rather than from financing” (Benston p. 245).
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definitivo. In questo senso, sarebbe lecito attendersi (e questo avrebbe il valore di un auspicio) la pubblicazione di una nuova edizione del Companion sul FV. Su tale tema mancano alcune prospettive sia teoriche che pratiche e l’evoluzione del contesto sembra svelare, anche nel breve termine, sempre nuovi punti di vista. Ad esempio, sarebbe quanto mai utile apprezzare le conseguenze delle turbolenze dei mercati dei capitali sulle valutazioni al FV. Ed ancora, potrebbe essere interessante comprendere se esiste una relazione tra le caratteristiche ed i modelli della Corporate governance e l’utilizzazione delle valutazioni al FV. Meriterebbe specifica attenzione il progetto di convergenza dei conceptual Framework dello IASB e del FASB. Potrebbe essere opportuno offrire maggiore spazio alla discussione del progetto di estensione delle valutazioni al FV al contesto delle SMEs. In definitiva, la visione basata sulle diverse prospettive attorno al FV che costituisce il principale punto di forza di questo Companion rappresenta la necessaria premessa per proseguire su un tema aperto ed ancora lontano dal suo esaurimento.
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Dal fair value al fairy value: coerenza concettuale e condizioni di impiego del fair value negli IFRS di Alberto Quagli – Università degli Studi di Genova
Prendendo spunto dalle critiche mosse a seguito della crisi finanziaria, in questo contributo si valutano le problematiche applicative della logica del fair value nel corpus dei principi IASB avendo riguardo al modo con il quale gli standard internazionali lo hanno implementato nelle valutazioni di bilancio. In particolare, si cerca dapprima di definire la coerenza applicativa di tale approccio valutativo e i vincoli che ne limitano la concreta applicabilità per fornire in chiave normativa una proposta di miglioramento dell’informativa di bilancio. Per l’Italia, tali riflessioni sono molto importanti se si considera il progetto di riforma del Codice Civile secondo la bozza OIC per la parte che riguarda il bilancio di esercizio, con il quale il fair value estende la propria portata anche al mondo, ben più popolato, delle società non quotate.
Abstract The recent financial crisis has cast some doubts on the use of fair value in financial statements and refreshed a theoretical debate concerning the pros and cons of this method, together with a sharper definition of its capability to satisfy the objectives of financial reports. Moving from this stream of literature, this paper (1) analyses the implementation of fair value method over the corpus of IAS/IFRS in order to evaluate the coherence of its application and (2) tries to define the stability of markets as a necessary premise for fair value adoption. From a normative perspective, finally, the paper proposes a more informative disclosure for the financial statement users, based on the uncertainties of fair value implementation.
1. La crisi dei mercati finanziari e il recente dibattito sul fair value In questo contributo si svolgono alcune riflessioni sull’applicazione della logica del fair value nei bilanci redatti secondo i principi contabili internazionali, cercando di valutare nel concreto le problematiche applicative di questa logica. Il concetto teorico di fair value discende da un vasto dibattito protrattosi per decenni e descritto in un’ampia letteratura e non è nostro interesse riesaminarlo; si cerca piuttosto di riflettere sul modo con il quale gli standard dello IASB lo hanno implementato nelle valutazioni di bilancio ed, in particolare, sui vincoli che ne definiscono la concreta applicabilità. 94
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Per l’Italia, tali riflessioni sono ancora più importanti se si considera il progetto di riforma del Codice Civile secondo la bozza OIC per la parte che riguarda il bilancio di esercizio, con il quale il fair value estende la propria portata anche al mondo, ben più popolato, delle società non quotate. Queste riflessioni muovono da un acceso dibattito recente sul ruolo del fair value alla luce della recente crisi economica, che mettono in dubbio l’utilità di questo criterio nelle valutazioni di bilancio. È a partire da questa discussione che svolgeremo le nostre considerazioni. Il dibattito nei confronti della logica valutativa al fair value recentemente è uscito dallo stretto alveo degli specialisti della materia per coinvolgere ampi settori della stampa economica (Forbes 2008; Fortune 2008; per l’Italia: Il Sole 24 Ore 2008). La crisi finanziaria del 2008 ha determinato un forte deprezzamento di molte attività finanziarie associato ad un’elevata volatilità dei corsi, circostanze che hanno suscitato malumori nei confronti del fair value per le ingenti svalutazioni indotte dall’applicazione di questo principio (un buon esempio è Whalen 2008). Questa crisi ha reso inoltre illiquidi alcuni mercati specifici (es. obbligazioni strutturate derivanti da cartolarizzazioni di mutui immobiliari), in modo da rendere molto discrezionale la determinazione del fair value, con conseguenti timori da parte di valutatori e revisori di incappare in pesanti responsabilità qualora le loro stime si rivelino eccessivamente ottimistiche. E sul fair value grava anche la responsabilità di fungere da catalizzatore prociclico, timori prospettati peraltro fin dall’adozione degli IAS/IFRS in Europa (ECB 2004; Plantin et al. 2004), secondo i quali l’adozione dei valori correnti accresce automaticamente la volatilità dei mercati. Si riteneva già da tempo infatti che se il mercato scende, le aziende per evitare di svalutare venderanno prima gli strumenti finanziari valutati al fair value, favorendo ancora di più la discesa dei corsi dei relativi titoli. Tale fenomeno risulta poi aggravato dal forte ricorso alla leva finanziaria che ha caratterizzato molte aziende fino al 20071. In aggiunta a ciò, la svalutazione andrebbe a diminuire il patrimonio netto delle banche, principali attori dei mercati finanziari, e dal momento che il patrimonio netto rappresenta un vincolo per la concessione di crediti alla clientela alla luce delle disposizioni esistenti, una svalutazione rilevante avrebbe finito quindi per restringere gli affidamenti, trasformando così la crisi da finanziaria in crisi reale per mancanza di liquidità (credit crunch), cosa che purtroppo sta 1
Se un’azienda pone un obiettivo di leva pari a 10 (rapporto tra debito e mezzi propri), e ipotizzando che abbia 100 di debiti e 10 di mezzi propri, una svalutazione di 1 di una qualsiasi attività, si rifletterà in una riduzione del netto di 1. A quel punto per ristabilire il rapporto di leva dovranno essere vendute attività per 10 estinguendo 10 di passivo e ripristinando il rapporto di 0 (9 vs. 90). Un obiettivo di leva minore avrebbe comportato vendite inferiori. Pertanto, per gradi crescenti di leva finanziaria, maggiori saranno le svalutazioni, maggiori saranno le vendite.
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avvenendo proprio in questi giorni (OIC, 2008). Ovviamente il meccanismo avrebbe lavorato anche in direzione inversa con dinamiche opposte, ma il problema, come si può intuire, avrebbe avuto risvolti meno drammatici, se non gli inviti, spesso trascurati, ad evitare la formazione di una bolla speculativa per eccesso di leva finanziaria. La prima mossa è stata compiuta negli Stati Uniti dove il 28 settembre 2008 il Congresso ha concesso alla SEC “il potere di sospendere, in casi eccezionali, la valutazione al fair value e, al contempo, l’autorità è stata incaricata di condurre degli studi sull’impatto prodotto da tale criterio sulla crisi e il fallimento di intermediari finanziari. Per effetto di tale norma, la SEC può dunque prevedere la disapplicazione di un criterio di valutazione (fair value) dettato dal FASB. La SEC non ha finora esercitato tale potere preferendo realizzare una stretta collaborazione con il FASB per trovare soluzioni tecnicamente condivise” (vedasi OIC 2008, pag. 3). Di conserva, il FASB il 10 ottobre 2008 ha approvato l’ASB Staff Position (FSP) FAS 157-3, “Determining the Fair Value of a Financial Asset When the Market for That Asset Is Not Active”, con il quale chiarisce come misurare il fair value degli strumenti finanziari in presenza di mercati non attivi. Dopo tale mossa, su pressione dell’Ecofin (insieme dei ministri dell’Economia degli Stati membri dell’Unione europea), lo IASB ha prontamente considerato il problema della recente crisi finanziaria fornendo strumenti per fronteggiare il problema dei titoli illiquidi, area dove il fair value non può essere misurato tramite prezzi scambiati su mercati liquidi ma dovrebbe essere stimato ricorrendo ad altre tecniche, nel complesso più intrise di valutazioni soggettive. Le risposte concrete dello IASB fino ad ora sono state due. La prima è consistita in una correzione (recepita immediatamente con procedura d’urgenza dall’Unione europea con Regolamento 1004/2008) del testo dello IAS 39 (e, correlativamente, dell’IFRS 7) che ha permesso la riclassifica di alcuni elementi valutati al fair value ad altra categoria (ad esempio loans and receivables, valutati al costo ammortizzato). Questa modifica è stata giustificata dall’esigenza di allineare il testo degli IASB agli statunitensi SFAS 65 e SFS 115. In particolare, è permesso lo spostamento dall’originale classe degli strumenti valutati al fair value through profit and loss in quanto oggetto di trading, dove il fair value è rilevato sistematicamente ad ogni reporting date inviando a conto economico le relative variazioni, di un’attività finanziaria che “non è più posseduta al fine di venderla o riacquistarla a breve (sebbene l’attività finanziaria possa essere stata acquisita o sostenuta principalmente 96
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al fine di venderla o riacquistarla a breve)”, ad altra categoria. Questo spostamento può avvenire in generale solo in rare circostanze, come precisa l’Amendment dello IAS 39, oppure se l’attività finanziaria soddisfa i requisiti della classe finanziamenti e crediti (Loans and receivables) e “se l’entità ha l’intenzione e la capacità di possedere l’attività finanziaria nel prevedibile futuro o fino a scadenza”. Quest’ultima possibilità di spostamento agisce anche se l’attività finanziaria era stata collocata nella classe degli available for sale, classe anch’essa valutata al fair value pur se le relative variazioni incidono solo sul patrimonio netto, finché non sono realizzate (caso nel quale vanno a conto economico). In sostanza, lo IASB ammette l’uscita dalla valutazione al fair value di alcune attività finanziarie, sempre che soddisfino i requisiti per la collocazione in altre classi di strumenti valutati al costo ammortizzato. La motivazione per alcune riclassificazioni è specificata (un’attività al fair value through profit and loss è riclassificabile se non si ha più intenzione di venderla o riacquistarla a breve), ma per altre no, come nel caso di spostamenti dalla classe available for sale. Queste modifiche non potranno quindi riguardare le partecipazioni, dal momento che esse non sono collocabili né nella classe dei loans and receivables, né in quella delle held-to-maturity. La seconda risposta è fornita con l’interpretazione Measuring and disclosing the fair value of financial instruments in markets that are no longer active emanata dallo IASB Expert Advisory Panel a fine ottobre 2008, con la quale si danno indicazioni circa la valutazione di strumenti finanziari quando il fair value non può più essere stimato usando i prezzi correnti perché il mercato relativo non è più attivo. Secondo questa interpretazione, le caratteristiche di un mercato inattivo non consistono soltanto in forti riduzioni dei volumi degli scambi o in prezzi non correnti ma anche nella repentina variabilità dei prezzi nel tempo e nello spazio (tra operatori diversi). E tutte queste condizioni possono non essere sufficienti a definire inattivo un mercato perché serve comunque il giudizio dell’azienda a verificare se in tale mercato possono esservi delle orderly transaction, ossia transazioni che non sono forzate. In sostanza, come afferma il documento nel paragrafo 17, il mercato è inattivo se i prezzi che si formano a seguito degli scambi non sono “fair”. Quando il mercato è da considerarsi “inattivo”, l’azienda deve adottare delle tecniche di valutazione basate sulle circostanze correnti di mercato. Queste tecniche di valutazione si fondano sull’impiego di modelli discounted cash flows che considerino sia input osservabili che non osservabili. Per quanto possibile, nel modello di valutazione dovranno prevale97
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re i primi, in modo da rendere più oggettivo e verificabile il modello. Resta comunque salva la possibilità per l’azienda di introdurre elementi non osservabili nel modello. E questa circostanza può condurre, come afferma il documento, a determinare anche per lo stesso elemento differenti fair value a seconda dell’azienda. Inoltre, al dato desumibile dal modello l’azienda deve apportare gli aggiustamenti resi necessari dal rischio specifico dello strumento (come rischio di credito e rischio di liquidità). Per cui i prezzi correnti derivabili da transazioni effettuate possono non consistere nel fair value ma questo deriverà da una valutazione più articolata, frutto di elementi forniti dal mercato, di modelli rigorosi dal punto di vista metodologico e corretti per incorporare ogni elemento valido ai fini della migliore stima del rischio. Basandoci su questi due interventi, non è possibile certo affermare che lo IASB stia rivedendo il concetto di fair value e la sua applicazione, come alcuni commentatori hanno inteso interpretare. Rimangono tuttavia delle forti pressioni circa una restrizione nell’uso dei fair value. La recente lettera inviata dalla Commissione Europea allo IASB (European Commission 2008) chiede che si rivedano le regole dello IAS 39 per permettere: ■
Una riclassificazione degli strumenti già designed at fair value.
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La possibilità di non esplicitare certi derivati incorporati dallo strumento originario.
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L’eliminazione della differenza di trattamento nell’impairment di titoli obbligazionari, test che se gli strumenti sono classificati nella classe available for sale, è basato sul prezzo di mercato, mentre se gli strumenti sono inclusi nelle classi held-to maturity o loans and receivables è fatto in base ai flussi di cassa attesi.
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La possibilità di inviare a conto economico le riprese di valore successive ad una svalutazione di partecipazioni e altri strumenti di capitale inclusi nella categoria degli available for sale, mentre adesso tale rivalutazione è imputata direttamente a patrimonio netto.
L’OIC, inoltre, ricorda (OIC 2008) che sono sul tavolo di discussione proposte volte a eliminare la tainting rule prevista dallo IAS 39 o a limitare la svalutazione delle attività finanziarie solo nei casi di perdita durevole. Per capire ancora meglio il clima di questo periodo, infine si ricorda che il Governo italiano ha in via eccezionale permesso alle aziende che non
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applicano gli IAS/IFRS2 per il bilancio dell’esercizio 2008 (misura procrastinabile anche al 2009 in funzione della decisione del Ministero dell’Economia e delle Finanze) di evitare di svalutare titoli (sia partecipazioni che titoli obbligazionari) compresi nell’attivo circolante, salvo che le perdite non debbano considerarsi durevoli. Tale disposizione rappresenta una palese deroga dal criterio indicato nell’art. 2426 del codice civile. In sintesi, sembra evidente che da parte prima americana, poi europea, infine italiana, vi sia una forte richiesta, più o meno giustificata da questioni strettamente tecniche, di ridurre lo spettro di applicazione del fair value rispetto al campo attuale di azione. E non si può evitare di notare il momento nel quale tali richieste sorgono, di piena crisi finanziaria3. È anche vero, però, che le incertezze non diminuiranno se si restringe l’uso del fair value. Il problema prima facie non sembra risiedere nel fair value in sé, ma nella mancanza di mercati attivi con i quali stimarlo in modo accettabile. Basti pensare alla massa di attività finanziarie classificate come livello 3 secondo lo SFAS 157. In massima sintesi, lo SFAS 157 (Fair value measurements) definisce il fair value come un exit price (prezzo al quale un’attività/passività può essere ceduta) e individua tre gradi di applicazione di questo parametro in base agli input informativi utilizzati nella valutazione. Il livello 1 è costituito da quegli elementi per i quali vi è un mercato liquido, con prezzi significativi formatisi in continuo a seguito di scambi regolari. In questo caso il fair value coincide con il prezzo derivato da tale mercato, che può essere definito a pieno titolo un mercato attivo. Il livello 2 è costituito da casi nei quali si possono simulare prezzi di mercato che, pur non derivando direttamente da scambi di mercato, sono stimabili utilizzando input osservabili (prezzi altri beni similari, tassi di interesse, volatilità, ecc.). Sono i casi in cui operatori esterni (chiamati price providers) possono fornire al management parametri utili per le valutazioni di bilancio. Il livello 3 invece è il caso nel quale mancano input osservabili e il management deve misurare il fair value usando propri modelli (mark to model).
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L’art. 15, comma 13, del Decreto Legge 28 novembre 2008 cita: “Considerata l’eccezionale situazione di turbolenza nei mercati finanziari, i soggetti che non adottano i principi contabili internazionali, nell’esercizio in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, possono valutare i titoli non destinati a permanere durevolmente nel loro patrimonio in base al loro valore di iscrizione così come risultante dall’ultimo bilancio o, ove disponibile, dall’ultima relazione semestrale regolarmente approvati anziché al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, fatta eccezione per le perdite di carattere durevole. Tale misura, in relazione all’evoluzione della situazione di turbolenza dei mercati finanziari, può essere estesa all’esercizio successivo con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze”. 3 Così si conclude la lettera della Commissione Europea: “There may be a need to adjust the timetable of ongoing project to reflect the immediate needs of the current crisis.”
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Allo stato attuale (Forbes 2008), le principali banche statunitensi (Morgan Stanley, Goldmann Sachs, Merrill Lynch, Lehman Brothers – poi fallita -, JP Morgan Chase, Citigroup) avevano in portafoglio attività finanziarie classificate come livello 3 per 540 miliardi di dollari. Citicorp aveva ad esempio classificato in tale livello il 7% dell’intero capitale investito. Anche per l’Italia il fenomeno degli strumenti finanziari nel livello 3 sembra rilevante (Il Sole - 24 Ore 2008) Questa massa di impieghi rappresenta una forte incertezza per i mercati finanziari, timorosi di dover sopportare un’ingente svalutazione. Il valore stimato in bilancio non è un valore di mercato e questo accresce ancora di più i dubbi circa una corretta svalutazione. In questo senso si chiede di fronteggiare tale incertezza con maggiore disclosure. Ad esempio, la SEC, prima in marzo e poi nell’ottobre 2008, ha inviato ai CFO di alcune società quotate una lettera nella quale si richiedeva di fornire in bilancio, per le attività finanziarie di livello 3, anche informazioni circa l’eventuale divario tra valore atteso a scadenza di titoli valutati al fair value e fair value (SEC 2008). Insomma, se da un lato l’applicazione del fair value può indurre a forti svalutazioni e porta a chiedere a livello politico un restringimento del campo di applicazione di tale criterio, dall’altro la mancanza di un fair value attendibile, rappresentato da prezzi quotati nei mercati attivi, avvolge di incertezza i bilanci dei grandi istituti finanziari e contribuisce ad una forte instabilità dei mercati finanziari. E non si può ritenere che valutare questi titoli al costo rappresenti una via di uscita dalla situazione. Il dibattito quindi rimane aperto. La SEC, in un pregevole studio (SEC, 2009), ha esaminato i pro e i contro del fair value. Dopo aver ritenuto che non sia stata l’applicazione di tale criterio nei bilanci a causare i fallimenti di numerosi istituti finanziari statunitensi e aver ricevuto dalle associazioni degli investitori forti conferme circa l’utilità informativa del fair value, è arrivata a invocare il suo mantenimento, nonostante le pressioni politiche. I criteri alternativi considerati sono stati ritenuti peggiori del fair value. Lo studio si conclude con alcune raccomandazioni per migliorare e semplificare le valutazioni al fair value, auspicando un potenziamento della disclosure, delle guide di comportamento in caso di mercati non attivi, dello sviluppo di competenze valutative da parte di redattori e revisori dei bilanci. Resta il fatto che, in sostanza, a pochi anni dalla sua prima applicazione obbligatoria in Europa, la logica valutativa del fair value è stata subito sottoposta ad un serio processo di riflessione. Come profeticamente ha sostenuto Ray Ball in tempi non sospetti: (Ball 2006): “Fair value accounting has not yet been tested by a major financial crisis, when lenders in particular could discover that “fair value” means “fair weather 100
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value (dove “fair weather” si può tradurre in italiano con “inaffidabile, che si fa vivo solo quando le cose vanno bene”). Se si prescinde però dalla cronaca attuale e dai toni drammatici con i quali è dipinto il fair value, si può tentare una valutazione più equilibrata cercando di definire quali sono le condizioni di applicazione del fair value nei principi dello IASB.
2. Il presupposto del fair value: l’azienda come investimento finanziario o combinazione produttiva? 2.1. Le finalità del bilancio Per la dottrina economico-aziendale italiana (si vedano, tra i più influenti, Amaduzzi, 1949; Onida, 1951) il tema che a finalità diverse assegnate al bilancio corrispondano criteri di redazione differenti, è ampiamente noto. Nella logica IASB invece la specifica questione del rapporto tra finalità e criteri di redazione non è contemplata e il dibattito circa la finalità del bilancio è risolto stabilendo che (Framework par. 12) il bilancio deve fornire informazioni utili anzitutto agli investitori attuali e potenziali circa i flussi di cassa che potranno derivare dall’impiego in azienda. Tuttavia, anche tra coloro che hanno contribuito alla stesura di quel Framework, sono sorti di recente alcuni commenti (Whittington 2008) che hanno evidenziato che la diversità di ruoli assegnati al bilancio dovrebbe per logica porre l’accento su differenti logiche di valutazione. Se il fine principale del bilancio è l’informativeness nei confronti anzitutto degli investitori attuali e ancor di più potenziali, il fair value, costituendo un’espressione del valore corrente dell’“investimento - azienda”, è sicuramente un criterio più utile del metodo del costo. Se, al contrario, il fine principale è la stewardship, ossia fare in modo che tramite il bilancio si possa valutare l’operato dei manager, allora il modello del costo, ancorato alle operazioni effettivamente realizzate, porterebbe più informazioni utili per l’accountability di quanto non possa fare il fair value, che esprime valori potenziali in stato patrimoniale e un reddito anch’esso intriso di elementi di potenzialità, peraltro parzialmente indipendenti dal comportamento manageriale (un incremento di valore di un asset, può dipendere solo dal mercato; i manager semmai saranno responsabili solo di aver scelto quell’investimento e non di aver contribuito alla creazione di quel plusvalore)4. 4
Todd Johnson, membro dello staff del Fasb ha affermato (2005) che “The Board has required greater use of fair value measurements in financial statements because it perceives that information as more relevant to investors and creditors than historical cost information. Such measures better reflect the present financial state of reporting entities and better facilitate assessing their past performance and future prospects. In that regard, the Board does not accept the view that reliability should outweigh relevance for financial statement measures.”
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Sia ben chiaro che questa dicotomia nel legame fini del bilancio – logiche di valutazione è fin troppo marcata; entro certi limiti comunque il fair value permette di valutare i manager circa la loro capacità di accrescere il valore dell’azienda (Bradbury 2008), come è pure vero che il modello del costo tramite analisi del conto economico permette di inferire il valore dell’azienda (si veda l’esempio Coca – Cola descritto da Penman 2006). Rimane tuttavia vero che i due metodi si prestano meglio per uno dei due scopi. E il sopravvento del fair value riflette una finanziarizzazione dell’economia, conferendo ampio credito alla capacità valutativa dei mercati finanziari. Il fair value sottende in sostanza una specifica prospettiva di analisi dell’azienda, quella di un investimento finanziario. Lo scenario ideale di applicazione del fair value è caratterizzato da mercati efficienti, ed in particolare mercati finanziari, che incorporano nei prezzi le informazioni riferite all’evoluzione futura delle aziende e dove investitori razionali cercano di massimizzare il valore dei loro investimenti, spostandoli secondo convenienza da un impiego all’altro. I diritti di proprietà sulle aziende sono un investimento come altri strumenti finanziari per loro disponibili. La rapida circolazione di tali diritti rende il mercato attivo e origina dei fair value significativi. Tali investitori non sono particolarmente affezionati a nessun impiego in particolare. Se il valore di un certo impiego, date certe risorse, è inferiore a quello di un impiego alternativo, in teoria essi dovrebbero secondo logica cedere il primo per passare al secondo. Solo con questa prospettiva si può capire il senso profondo dello IAS 36 secondo il quale il valore recuperabile di una cash generating unit (un negozio, uno stabilimento produttivo) è pari al maggiore tra “fair value less cost to sell” (valore di realizzo diretto) e “value in use” (valore di realizzo indiretto). Questa definizione sposa la prospettiva di un imprenditoreinvestitore razionale secondo il quale se il mercato offre un prezzo di acquisto superiore al valore intrinseco del ramo di azienda quale deriva dall’attualizzazione dei flussi di cassa futuri, il valore dell’azienda è quello derivante della cessione e riguardo ad esso si confrontano i valori contabili per decidere se svalutare oppure no. In sostanza, la decisione se continuare la gestione idealmente è successiva alla decisione circa la miglior collocazione delle risorse da investire. È una visione che, estremizzata, porterebbe a considerare gli “spezzatini” (break-up) come pratiche “normali” nella vita di un’azienda. Se una certa area di business ha un valore di mercato maggiore di quello che avrebbe mantenendolo entro i confini aziendali, il valore di realizzo del business è quello di cessione diretta, non quello scaturente dalla 102
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gestione interna. Tale visione, per quanto circoscritta ad un riferimento convenzionale, è tipica di mercati finanziari molto sviluppati, con transazioni frequenti e investitori molto razionali, improntati a massimizzare il valore azionario, ben lontani dall’idea di nostalgici imprenditori attaccati al mantenimento della loro azienda. Come sostiene Ball (2006), vi sono poi anche circostanze di contesto che hanno contribuito ad accrescere fiducia nell’attendibilità dei valori correnti: anzitutto l’accresciuta disponibilità di informazioni, resa possibile dallo sviluppo di ampi database elettronici contenenti prezzi e altri dati di transazioni relative a molte categorie di beni, finanziari e non; quindi l’affermazione anche nel contesto dei principi contabili di tecniche di stima di fair value basati su flussi di cassa (il primo esempio è contenuto nello SFAS 13 sul leasing, dell’ormai lontano 1973) e di metodi di valutazione di strumenti finanziari pur privi di un mercato reale (grazie all’opera di Black e Scholes circa il valore delle opzioni), che hanno portato linfa all’approccio del mark to model, tramite il quale si stimano dei valori correnti anche in assenza di transazioni effettive. Il problema dell’affidabilità delle valutazioni implicato dall’adozione del fair value è ovviamente avvertito tanto da parte dei teorici (Barth-Landsman 1995; Pizzo 2000; Schipper 2005) quanto degli operatori (EY 2005). Una “what-if accounting” esprime certo dati meno verificabili rispetto al metodo tradizionale e le problematiche di controllo indotte si auspica vengano superate tramite lo sviluppo di migliori competenze estimative da parte tanto delle aziende (Schipper 2005), che dei revisori (Martin 2006). Lo sviluppo di modelli sempre più raffinati e, soprattutto, la loro diffusione in modo da far sorgere tecniche di valutazione generalmente accettate anche in assenza di scambi reali, permetterebbero in futuro che la verificabilità dei valori sia perseguita tramite consenso di valutatori indipendenti, più che di “registrazione oggettiva” della realtà. D’altronde, anche nel modello tradizionale, al di là del momento iniziale, si devono stimare comunque dei valori (si pensi all’ammortamento o alle svalutazioni di elementi delle immobilizzazioni o del circolante) senza controprova oggettiva. Il problema della scarsa affidabilità del fair value in effetti ci sembra debba essere inquadrato dentro il più generale atteggiamento prudenziale, nel senso che la critica al fair value è più rivolta contro le possibili rivalutazioni imprudenti a cui può condurre che non alle svalutazioni simmetricamente richiedibili. Non sembra che analoghe critiche siano state sollevate sinora sull’esigenza di svalutare quando il valore di realizzo di mercato è inferiore al costo. Eppure anche il valore di realizzo di mercato è un concetto che suona molto simile al fair value. 103
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2.2. Il ruolo di Stato Patrimoniale e Conto Economico Un’altra riflessione porta nella direzione della visione “finanziaria” dell’azienda. Se si utilizza il criterio informativo preferito dallo IASB secondo il quale il bilancio deve agevolare nel lettore la capacità di stimare i futuri flussi di cassa promanati dall’azienda (prospettiva cara alla preferenza degli investitori quali utenti “privilegiati”), diversi autori (Barth-Landsman 1995; Penman 2006; Ronen 2008; Whittington 2008) hanno messo in evidenza che la logica del fair value pura, ossia con variazione del fair value inviate a conto economico (fair value through profit and loss), tende a enfatizzare il ruolo dello stato patrimoniale come prospetto con maggior contenuto informativo per gli stakeholders in quanto gli elementi in esso contenuti incorporano le prospettive future. Diversamente, il conto economico non acquisisce utilità in chiave previsionale dal momento che risente delle oscillazioni dei fair value registrate nell’esercizio, anche congiunturali e non espressive della capacità futura aziendale di ripetere le stesse prestazioni. Semmai tale prospetto assume la funzione di dimostrare il grado di esposizione al rischio di oscillazione dei fair value. In senso contrario, la logica del costo svilirebbe la capacità informativa dello stato patrimoniale, esaltando invece il ruolo del conto economico, in quanto permetterebbe di rappresentare la performance aziendale attendibilmente ottenuta a prescindere dalle evoluzioni dei mercati. Un tale ragionamento, seppur stimolante, nella realtà è un po’ forzato. Non è detto che valutare il patrimonio al fair value costituisca una base previsionale migliore perché le evoluzioni dei prezzi dei mercati finanziari che vediamo anche recentemente stravolgono in tempi rapidissimi tale valore senza dipendere dalle specifiche capacità o performance aziendali, come è vero anche che il conto economico con la logica del costo tende a contrapporre al ricavo realizzato (a prezzi recenti) un costo del venduto talvolta non espressivo, frutto di ripartizioni di costi storici anche risalenti a molti anni precedenti5. Comunque anche questa diversità di ruoli tra stato patrimoniale e conto economico implica una diversità di punti di vista: finanziario il primo, industriale il secondo, si potrebbe dire. Se si pensa ad un fondo comune di investimento, che acquisisce risparmi e li investe in strumenti finanziari, a parità di risorse investite dai risparmiatori, le sue prestazioni sono legate direttamente proprio al valore dei suoi investimenti. Le variazioni del valore di una quota del fondo 5
In questo senso è stato di recente riproposto (Andrei, 2008) per salvaguardare contemporaneamente l’attendibilità e la significatività dei bilanci, di adottare un modello basato sui costi storici, salvo poi procedere sporadicamente ad adeguamenti di valore sintetici, quando le quote di costo inviate a conto economico, specialmente da parte dei beni pluriennali, perdono significatività nel loro confronto con ricavi espressi a valori correnti.
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sono la tipica misura della sua performance e tale valore dipende dagli investimenti operati sui mercati mobiliari, sistematicamente adeguati ai corsi di borsa. In sostanza, per tale operatore, è il suo stato patrimoniale il documento principale di misurazione delle prospettive. Ma è un gestore di patrimoni creati da altri. Per un’azienda industriale che vive di prodotti da collocare a consumatori, la capacità di creare ricchezza per i suoi azionisti (o valore, che dir si voglia) e la conseguente informazione critica per gli investitori, dipende non dal valore corrente dei suoi investimenti ma dalla capacità di competere efficacemente, che non si incorpora in nessun investimento in particolare, a meno di voler esprimere a bilancio le idee imprenditoriali o il bagaglio di conoscenze acquisite. La si può valutare bene solo a consuntivo, guardando i risultati maturati a conto economico, quanto ha venduto rispetto a quanto è costato produrre e vendere. Il proprio stato patrimoniale, se potesse, sarebbe desolatamente vuoto e niente minerebbe il giudizio circa la validità delle proprie prospettive reddituali. Costringere tali aziende a valutare i loro investimenti a fair value secondo la logica “pura”, ammesso che sia facilmente determinabile tale importo, con invio sistematico delle variazioni a conto economico, implica “sporcare” il conto economico di elementi che hanno meno a che vedere con la capacità competitiva e che anzi, andrebbero in qualche modo isolati per evitare che investitori poco accorti si basino su tali valori. Un esempio emblematico ci è offerto dalle compagnie petrolifere. Storicamente le aziende italiane di questo settore hanno adottato il LIFO quale criterio di valutazione delle rimanenze. In presenza di livelli stabili di scorte il magazzino risultava valutato ad un valore parimenti stabile. Passando agli IAS e dovendo lasciare il LIFO si sono orientate verso il criterio del costo medio ponderato. Per cui anche a parità di quantitativi in scorta, il solo mutare dei prezzi di mercato del petrolio e dei suoi derivati, particolarmente mutevole in questi ultimi anni, ha determinato una forte oscillazione del valore del magazzino che risulta adesso valutato a prezzi più recenti rispetto alla logica LIFO. In tempi di rapido incremento del prezzo del petrolio, tali aziende “facevano utili” semplicemente sul magazzino. Ma proprio per segnalare agli investitori quanto del risultato economico complessivo era da ascriversi alla loro gestione competitiva, esse, nelle presentazioni alla comunità finanziaria, sono solite presentare (a puro titolo di esempio si prenda la presentazione della terza trimestrale 2008 dell’ENI) un risultato operativo al lordo e al netto dell’effetto variazione prezzi sul magazzino, effetto in alcuni molto rilevante (anche un terzo del risultato economico complessivo). E nessun principio contabile li obbligava a ciò. In questo senso si vuol rilevare che dal punto di vista della capacità informativa del bilancio non è il caso di nominare dei vinti o dei vincitori. Il 105
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fair value nella versione pura o il modello del costo offrono entrambi dei dati significativi ma se applicati a contesti diversi. Per un’azienda che gestisce investimenti finanziari, i cui mercati sono tradizionali esempi di efficienza allocativa, il fair value ci sembra molto significativo e funziona bene come parametro di performance con mercati sviluppati ed efficienti. Per un’azienda che vende prodotti ad un mercato di consumatori, se applicato sistematicamente agli elementi principali del patrimonio, questo modello forse funziona meno bene e inquina il conto economico di effetti congiunturali oscurando la performance competitiva dell’azienda. Diverso, almeno in linea puramente teorica considerando le regole attualmente esistenti, sarebbe, come sostengono Barth – Landsman (1995), se fosse possibile rappresentare nello stato patrimoniale tutte le risorse a disposizione dell’azienda comprese gli skills imprenditoriali, la forza competitiva, il patrimonio conoscitivo e relazionale, le opzioni di crescita. In quel caso il fair value dello stato patrimoniale esprimerebbe una misura molto vicina al capitale economico e possiederebbe un’elevata capacità informativa (a prescindere dalla sua affidabilità) anche in aziende industriali, dove gli assets sono impiegabili in modo strettamente congiunto e privi di un autonomo mercato attivo dove sono venduti. Ma a quel punto la questione si sposta su un altro piano, quello del fair value delle risorse sviluppate internamente, di cui le aziende industriali sono ben più ricche rispetto ad un’istituzione finanziaria.
2.3. Le discriminazioni tra sviluppo interno ed esterno: i fair value sono solo “esterni”? In effetti lo IASB ha una visione diversa delle risorse capitalizzabili nello stato patrimoniale, che rappresenta un altro limite intrinseco della logica del fair value secondo il modello degli IFRS che si sostanzia nella diversità di trattamento tra sviluppo interno o esterno di risorse. Questa diversità rappresenta un ulteriore riflesso della concezione “finanziaria” dell’azienda, ben distante dalla tipica impresa “fordista”. Lo IAS 38 limita fortemente il riconoscimento patrimoniale di risorse immateriali sviluppate internamente mentre l’IFRS 3, anche con riferimento ad elementi aventi la stessa natura e la stessa funzione, ne permette la contabilizzazione autonoma. Il caso dei marchi è un tipico esempio. La motivazione di questa diversità di criterio risiede nell’incertezza relativa non tanto sull’utilità del bene (va dimostrata sia nello sviluppo interno che nelle aggregazioni aziendali), quanto all’oggettività dei valori generati. Un’acquisizione dall’esterno si ritiene caratterizzata da valori più oggettivi, mentre uno sviluppo interno è privo di una transazione di mercato e implica la non contabilizzazione di assets. Ora, anche nelle 106
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acquisizioni dall’esterno di un business, tema affrontato dall’IFRS 3, si tratta comunque di scindere un prezzo unitario pagato per il complesso aziendale attribuendo valori agli intangibles specifici acquisiti, anche se non sono stati oggetto di contrattazione autonoma. Al di là del fatto che tale scissione, sebbene prescritta dallo IASB, non sembra avvenire così frequentemente (Di Bella 2006), è evidente che l’attribuzione del valore ai singoli elementi è frutto comunque di ipotesi, di stime relative alla determinazione dei fair values di elementi spesso privi di mercati attivi. D’altronde, se con un’acquisizione esterna è possibile attribuire un fair value ad intangibles specifici, è vero anche, di riflesso, che intangibles sviluppati internamente possano avere un loro fair value. E in questo caso per la determinazione del fair value non ci si riferisce necessariamente ad un mercato attivo, quanto alla possibilità di stimare un valore attendibile e recuperabile successivamente da parte dell’azienda acquirente. Per cui la questione non risiede tanto nella possibilità di determinare il fair value, quanto nella scelta prodromica di non attribuire valenza allo sviluppo interno causa la (presunta) maggiore soggettività nella valutazione. Nella sostanza, insomma, non vi sono molte differenze nelle incertezze valutative tra lo sviluppo interno e quello esterno. Un buon revisore è tranquillamente in grado di valutare se e come il fair value di certi elementi risulta arbitrario o meno e annullare le differenze di valutazione. Se è vero che lo IASB si propone in futuro di allargare le maglie per permettere il riconoscimento di intangibles sviluppati internamente (si veda al riguardo il progetto Intangibles assets sviluppato congiuntamente tra IASB e FASB), allo stato attuale permane una forte differenza tra aziende che sviluppano internamente e altre che procedono per crescita esterna. Le prime, a parità di condizioni, rappresenteranno in bilancio un patrimonio più basso, e trascineranno con sé maggiori asimmetrie informative nella comunicazione al mercato, a discapito della tanto proclamata capacità informativa dei bilanci redatti secondo gli IAS/IFRS. Insomma, i valori sono “fair” anche in funzione della loro fonte di provenienza. E si conferma il vantaggio nella capacità informativa di bilancio di un’azienda che si sviluppa prevalentemente per via esterna. La recente modifica dell’IFRS 3, secondo la quale si può giungere anche a contabilizzare un avviamento non derivante da costo pagato, quanto dall’estensione agli interessi di minoranza della quota di avviamento proporzionale a quella attribuibile alla maggioranza dietro pagamento di un prezzo, rende la diversità di trattamento dei due modi di sviluppo (interno e esterno) ancora più illogica, in quanto anche il processo di acquisizione esterna perderebbe il riferimento ad un valore monetario derivante da una transazione effettivamente avvenuta e potrebbe comportare l’iscrizione di elementi patrimoniali a valori “fair” derivanti soltanto da stime. 107
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2.4. Prospettiva esterna e interna di osservazione dell’azienda negli IFRS Le regole valutative dello IASB sono un compromesso tra significatività e affidabilità del dato contabile, postulati ben descritti nel Framework e posti sullo stesso livello. La significatività, intesa come utilità per il processo decisionale dell’utente – investitore, dovrebbe implicare una valutazione degli elementi patrimoniali che rifletta il loro contributo alla creazione di benefici futuri. L’affidabilità si concretizza invece nella possibilità di rendere credibile il dato, tramite misurazione “oggettiva” dell’elemento patrimoniale. Rendere significativo il dato implica esprimere il contributo fornito dall’elemento patrimoniale alla complessiva gestione d’azienda. Per cui un impianto di un’azienda industriale, privo di un mercato secondario, dovrebbe essere valutato secondo la logica del value in use6, considerando quindi il suo contributo nella strategia futura aziendale, mentre un’attività finanziaria disponibile dovrebbe essere valutata secondo il suo valore corrente, perché si attende la sua vendita nel breve periodo. Tuttavia valutare un impianto al suo value in use basandosi sui piani della direzione aziendale non genera affidabilità, perché il giudizio circa il suo valore non esprime un consenso di molti altri valutatori e potrebbe quindi lasciare dubbi circa la buona fede o semplicemente la capacità del management nell’effettuazione della stima. Per cui in un caso del genere, la valutazione proposta dallo IASB ripiega sul costo ammortizzato e si considera il value in use solo come limite superiore, tale da imporre una svalutazione se il valore contabile si colloca al di sopra di esso. Un’attività finanziaria disponibile invece, se trattata in un mercato liquido per il quale sono disponibili prezzi recenti, può essere valutata al suo valore corrente come prezzo di mercato, dal momento che questo esprime un dato su cui convergono i consensi di molti operatori. In quanto tale è un dato affidabile. È anche vero che se questo prezzo di mercato non è affidabile perché frutto di situazioni di mercato anomale (come quelle esistenti nei mercati illiquidi), le regole IASB ripiegano su criteri alternativi. Insomma le regole IASB dovendo tutelare l’affidabilità del dato, finiscono per ridurre per quanto possibile criteri di valutazione firm-specific, cioè che riflettano la prospettiva “soggettiva” del management per dare spazio a valutazioni fondate sul consenso di molti, valutazioni di mercato insomma. La questione non riguarda invece la contabilizzazione di eventuali plusvalori conseguente alla valutazione. Tale conseguenza sarebbe un ri6
Come ben affermato da Pizzo (Pizzo 2000; si veda anche Penman 2006), per gli elementi destinati ad un utilizzo interno, come input di processi produttivi complessi richiedenti il concorso combinato di molti fattori, è il value in use il criterio che più approssima il valore fair, e necessariamente tale value in use discende dalla attualizzazione dei flussi di cassa frutto di elaborate stime aziendali.
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flesso del criterio della prudenza ispirato alla logica della realizzazione finanziaria dei ricavi, che forse suona familiare per gli aziendalisti italiani, ma non al Framework dello IASB. Insomma la prospettiva di valutazione privilegiata è quella di un osservatore esterno. Siamo ovviamente ben distanti dalla logica tipica della dottrina economico-aziendale italiana che dà ben più peso agli intendimenti del soggetto economico. Ma forse diverso è anche il contesto storico nel quale si formano i principi dello IASB, sia come sviluppo dei mercati, ben più globalizzati e quindi generanti valori più significativi, sia come interessi gravitanti attorno all’azienda, sempre meno “fatto privato” e quindi tale da rendere la prospettiva del management una prospettiva possibile tra le molte. Questi due riferimenti, significatività e affidabilità, finiscono però per negare una portata generale al fair value e impedire quindi un sistema deduttivo di criteri di valutazione incentrati su di esso. Il fair value nei principi dello IASB è per definizione affidabile, ma non significativo per i casi nei quali il contributo dell’elemento patrimoniale dipenderà essenzialmente dai piani futuri del management. E un’azienda industriale normalmente possiede una struttura produttiva naturalmente orientata al lungo termine, difficilmente riorientabile nel breve, e nella quale buona parte degli investimenti possono essere valutati significativamente solo analizzando i piani soggettivi della direzione. La consapevolezza da parte dello IASB che il modello del fair value non può avere valenza universale per ogni classe di investimenti (e quindi per ogni categoria di aziende), si ritrova nella varietà dei criteri di valutazione applicabili alle diverse voci di bilancio. Tendenzialmente le valutazioni di elementi concernenti la gestione caratteristica delle aziende industriali sono più ancorate al criterio del costo, dove il fair value di un elemento patrimoniale non è ottenibile tramite osservazioni di prezzi mercato ma dipende dalle modalità di impiego future previste nei piani aziendali. Consegue che il concetto di fair value come valore corrente derivabile dai prezzi scambiati nei mercati può essere efficace solo se riferito agli investimenti accessori per i quali siano ipotizzabili transazioni dirette di compravendita su mercati attivi. Si finisce quindi per circoscrivere il fair value ad alcune categorie di strumenti finanziari e ad alcune categorie di immobili, quelli rientranti nella categoria investment property. Ovviamente per le aziende “finanziarie” questi elementi rappresenteranno una parte ben più cospicua del loro patrimonio e saranno quindi ben più condizionate dagli andamenti del mercato nelle loro valutazioni di bilancio. Quindi, nonostante il fair value rappresenti il principio ispiratore della recente attività dello IASB, nel concreto coesistono molti criteri che 109
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spaziano dal costo ammortizzato ai valori correnti di mercato in funzione delle caratteristiche dei beni circa il loro impiego futuro. Il valore corrente a seconda dei casi è un fair value less cost to sell (IAS 36), un prezzo di mercato “puro” (IAS 39, IAS 40), un net selling price (IAS 2), un vero e proprio ricavo specifico (IAS 11). Lo IASB stesso avverte l’ampiezza della varietà di criteri di valutazione di determinazione del fair value (vedasi il Discussion paper “Fair value measurements”, vol. I) e sta cercando con il consenso degli interessati qualche sistematizzazione. Nella versione attuale il Framework dello IASB non prende posizione circa uno specifico criterio valutativo, prevedendone diversi (vedi Framework par. 100-101) ed è in corso congiuntamente al FASB un’attività di ridefinizione dei rispettivi Framework per rendere più omogenee le valutazioni di bilancio. Si rileva peraltro una certa incoerenza nella prospettiva di osservazione dell’azienda. Se nelle valutazioni patrimoniali tende a prevalere l’impiego della prospettiva esterna che porti a valori affidabili e che si traduce nell’uso del fair value laddove possibile, in altri ambiti dei principi IAS sembra invece prevalere l’impiego di una prospettiva interna di osservazione. In questo senso si può citare la prescrizione di schemi di bilancio molto flessibili (come previsto dallo IAS 1) e, soprattutto, l’impiego della prospettiva interna nella predisposizione dell’informativa di segmento (nuovo IFRS 8). Con quest’ultimo documento lo IASB ha ridotto i dati obbligatori di cui al precedente IAS 14 e richiesto esplicitamente che l’informativa sia redatta in modo da presentare i risultati per segmenti “through the eyes of management”, decidendo quindi di privilegiare per questo ambito informativo la prospettiva di osservazione tipica del management. Non si vede perché in questo caso la prospettiva interna di analisi debba considerarsi più attendibile. È evidente che la discrezionalità affidata al management potrebbe portare a segment reporting meno attendibili, rispetto ai rigidi schemi del precedente IAS 14. Forse perché si ritiene che così facendo i benefici in termini di significatività eccedano i sacrifici in termini di affidabilità. Prima facie, sembra quindi ravvisarsi una certa variabilità della prospettiva di osservazione privilegiata dalle regole dello IASB: tendenzialmente esterna per molte valutazioni patrimoniali, tendenzialmente interna per molte scelte di format, di presentazione del bilancio.
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3. La discrezionalità valutativa come limite applicativo del fair value ed il requisito della stabilità dei mercati In precedenza abbiamo discusso la coerenza interna al modello IAS/ IFRS del fair value e la sua funzionalità strumentale al soddisfacimento dello scopo del bilancio, in relazione a due categorie di investimenti che contraddistinguono altrettante tipologie stilizzate di azienda, quella “finanziaria” e quella “industriale”. Adesso discuteremo quello che, di recente, sembra essere il limite principale per l’applicazione del fair value e che rappresenta un concreto freno all’estensione di tale criterio: la discrezionalità valutativa. Sembra quasi paradossale, dal momento che il fair value, come esaminato nel paragrafo precedente, risponde anzitutto a esigenze di affidabilità, intesa come osservazione “neutrale”, convergente, del patrimonio di azienda. Ma è vero che diverse ricerche, anche compiute nel contesto italiano, hanno specificato che il fair value lascia spazio proprio a eccessiva discrezionalità7. Gli esempi potrebbero essere molteplici ma limitiamoci agli strumenti finanziari da valutare al fair value come elementi inseriti nella categoria Available for sale o Fair value through profit and loss, e che rappresentano un tema molto discusso a seguito della recente crisi finanziaria. Ricordiamo in proposito che lo IAS 39, al paragrafo 48A: afferma che “La miglior prova del fair value è l’esistenza di quotazioni ufficiali in un mercato attivo. Se il mercato per uno strumento finanziario non è attivo, l’entità determina il fair value utilizzando una tecnica di valutazione” finalizzata a “stabilire quale prezzo avrebbe avuto l’operazione alla data di valutazione in un libero scambio motivato da normali considerazioni commerciali…”. Appaiono evidenti i margini discrezionali presenti nei casi di inesistenza di mercati attivi, come testimoniato dalla ricerca di criteri corretti di valutazione per gli attuali casi di illiquidità (cui abbiamo accennato nel primo paragrafo). Il limite alla discrezionalità consiste nell’utilizzo di metodi di valutazione accettati, che abbiano dimostrato una certa capacità predittiva in passato, come specificato dal sopra citato par. 48 dello IAS 39. Purtroppo quando vi sono situazioni di grave discontinuità nei mercati, come quelle attuali, anche i modelli di valutazione più diffusi perdono di validità proprio perché si trovano di fronte scenari mai ipotizzati. È peraltro tutto da definire che un utilizzo di un modello accettato porti a valori attendibili. I modelli di valutazione delle “dot.com” ai tempi del boom di Internet erano diffusi e, col senno di poi, la loro capacità 7
Teodori – Veneziani (2008) evidenziano nella loro ricerca che tra gli aspetti percepiti come più negativi dalle società che non adottano gli IAS/IFRS appare proprio la maggiore soggettività nelle valutazioni. Altre ricerche (ICAEW 2007) confermano questa sensazione.
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predittiva ha lasciato molto a desiderare. Gli elementi discrezionali da inserire nei modelli di valutazione personalizzati sono molto ampi. Ma ci sembra più interessante esaminare i casi in cui i mercati sono liquidi, attivi, caso nel quale il fair value dovrebbe esplicare la sua massima forza. Se prendiamo oggi un’azione posseduta in una grande banca europea, vediamo che essa dal 2007 al 2008 (Mediobanca 2008) ha perso ben più della metà del suo valore, nonostante gli andamenti operativi non siano così negativi8. Il prezzo oscilla nel giro di una settimana nella misura anche del +/- 10%9. I mercati sono molto liquidi. I volumi scambiati sono molto alti. Ma è questo un valore “fair” con il quale esprimere in bilancio il valore di una partecipazione in tale banca10? Se i margini di oscillazione mutano repentinamente, sembra dura ammettere che il valore adeguato sia il dato istantaneo della chiusura dell’esercizio, pur in presenza di mercati attivi. Probabilmente il valore “fair” sarebbe un altro, quello esistente tra parti “willing and knowledgeable”, caratteristiche che in tempi di crisi sono difficili da ritrovare. Spesso si è forzati a vendere (e quindi non si è “willing”) e, ancora più spesso, manca la consapevolezza tra le parti della transazione, circa il valore del bene scambiato e l’utilità della transazione stessa. Quando domina l’ansia, la razionalità decade e la controparte non è “knowledgeable”. Molti pensano che questa crisi oscuri i reali fondamentali delle aziende e trascini con sé al ribasso interi comparti dell’economia. E i fair values divengono dei fairy values, valori magici, esistenti in un mondo irreale, e la loro misurazione si trasforma in una continua ricerca del Santo Graal. Se si va a vedere meglio, ricollegandoci a quanto discusso nel paragrafo 1, uno dei motivi di forte oscillazione di una partecipazione ipotetica in tale banca, risiede nella presenza tra i suoi investimenti di strumenti finanziari divenuti illiquidi (i famosi “level 3”, secondo la tassonomia dello Sfas 157) e quindi caratterizzati da forti incertezze valutative. Per cui si verifica la situazione che, se un’azienda possiede ingenti investimenti con fair value poco attendibile, il suo fair value sarà poco attendibile e 8
Dalla citata indagine Mediobanca, il risultato economico aggregato del gruppo di venti banche europee è passato dai 71 miliardi di Euro del 1° semestre 2007 ai 29 miliardi del 1° semestre 2008. Scomponendolo, il livello di margine di interesse registra addirittura un incremento (da 98 a 111 miliardi), compensato dai risultati del trading (da + 53 a – 16 miliardi di Euro) e delle svalutazioni dei crediti (da -14 miliardi a – 25). 9 Volatility lab (http://vlab.stern.nyu.edu), centro di ricerca della Stern School of Business della New York University stima nel mese di marzo 2009 la volatilità dell’indice S&P500 delle azioni americane pari al 42,12% (che significa una deviazione standard dell’andamento dell’indice di circa il 3%) quando prima dello scoppio della crisi dei mutui subprime, era ben più bassa, attorno al 10%. 10 “The Chicago School of Economics has been telling us for a century that price and value are identical, i.e. that they are the same number... If we do not recognize the fundamental difference that exists between price and value, then we are doomed.” (Raines 2007).
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se l’azienda è grande e pesa significativamente sul comparto industriale, anche i suoi competitor saranno condizionati dalla stessa incertezza, per il triste gioco dei multipli e i loro fair value diverranno a loro volta “fairy”, eterei, ineffabili. Ed in questo “effetto-domino”, aggiungiamoci pure le pressioni della politica per salvare i bilanci delle grandi aziende, gli echi della stampa economica che ingigantiscono le paure. Oggi questa situazione è vissuta al ribasso, ma se gli IAS/IFRS fossero stati obbligatori già nella fase ascendente del ciclo, sarebbe stata vissuta al rialzo, quando solo isolate Cassandre paventavano timori di bolle speculative (ci piace peraltro ricordare Plantin et al. 2004). Proprio circa la determinazione del fair value basato sui prezzi, la recente interpretazione fornita dall’Expert Panel dello IASB sulla determinazione del fair value nei mercati illiquidi induce ad una riconsiderazione dell’oggettività del fair value e quindi della sua attendibilità11. In particolare, ci interessa sottolineare alcuni punti di questa interpretazione. Anzitutto la circostanza che un indicatore dell’illiquidità del mercato consiste non solo nella scarsità di scambi ma anche nell’ampia oscillazione dei prezzi. Tale indicatore non è di per sé sufficiente a giudicare un mercato illiquido, rimanendo tale giudizio una valutazione complessiva, ma sicuramente introduce un elemento importante nell’analisi che va nella direzione che abbiamo in precedenza indicato. Oscillazioni violente e repentine denotano una forte incertezza tra gli operatori del mercato riguardo al valore di un bene. In questo modo la fairness viene a mancare, specie nel senso di attendibilità, di verificabilità di tale valore in quanto riconosciuto anche in altri scambi. In secondo luogo, l’affermazione che la definizione di mercato illiquido, che, si ricorda, permette di svincolare la determinazione del fair value dai prezzi scambiati nel mercato, dipende in ultima analisi non da caratteristiche del mercato (volumi) ma dalla possibilità che il prezzo sia rappresentativo del valore “fair”12. Tale circostanza, sembrerebbe attribuire al ragionamento un profilo circolare (nei mercati non liquidi si determina 11
È interessante notare, peraltro, che questa Interpretazione adotta la definizione di fair value contenuta nello SFAS 157 (price at which an orderly transaction would take place between market participants at the measurement date), nonostante questa nuova definizione di fair value sia ancora ufficialmente in discussione con il progetto “Fair value measurements” (progetto non ancora concluso: dopo aver raccolto i commenti al Discussion Paper, si attende infatti un nuovo documento per il 2009). 12 Afferma così il paragrafo 17: “There is no bright line between active markets and inactive markets. However, the biggest distinction between prices observed in active markets and prices observed in inactive markets is typically that, for inactive markets, an entity needs to put more work into the valuation process to gain assurance that the transaction price provides evidence of fair value or to determine the adjustments to transaction prices that are necessary to measure the fair value of the instrument. The issue to be addressed, therefore, is not about market activity per se, but about whether the transaction price observed represents fair value”.
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il fair value usando dei modelli valutativi e non prendendo automaticamente il prezzo delle transazioni, ed i mercati sono non liquidi quando i prezzi che esprimono non rappresentano il fair value). Infine la riflessione che adottando dei modelli valutativi almeno in parte basati su input non osservabili, due aziende possano giungere a stime diverse del fair value dello stesso elemento13. Dall’esame di questi spunti, emerge un certo relativismo nel concetto di fair value. Relativismo sia riguardo ai casi nei quali discostarsi dal prezzo di mercato quale parametro espressivo del fair value, sia, ancor più, alla sua determinazione tramite modelli. L’interpretazione dello IASB affida pertanto alla disclosure di corredo il compito di esplicare i margini di soggettività insiti nella valutazione. Da un lato, è inevitabile che questa sia la posizione logica che lo IASB deve assumere nei confronti di queste situazioni. Dall’altro, però, emerge con evidenza che la pretesa di oggettività del fair value viene gradualmente a diluirsi, intorbidita dalla varietà e numerosità dei modelli valutativi utilizzati. Con ciò si vuole dire che la presenza e la misurazione del fair value è una condizione che non può prescindere da condizioni di intero sistema economico. Serve che i mercati siano stabili, con ridotte oscillazioni, i cui attori possiedano per lo più investimenti prontamente liquidabili in modo conveniente, con ridotto impiego dell’indebitamento come strumento di crescita, e possibilmente molto differenziati tra loro, sia nel senso di scarsi collegamenti reciproci (altrimenti l’incertezza valutativa dell’uno condiziona gli asset dell’altro), sia come specificità dei modelli di business, altrimenti gli operatori del mercato possono sempre pensare che ciò che è accaduto al primo, accadrà anche al secondo. La liquidità del mercato evidentemente non è l’unica condizione generale per garantire il fair value; serve anche la stabilità. È inevitabile peraltro che assumendo la prospettiva di osservazione “esterna” dell’azienda, come discusso nel paragrafo precedente, per la valutazione del patrimonio aziendale, le condizioni “esterne” assumano un peso determinate nel garantire affidabilità alle valutazioni. Laddove si introducono forti elementi di incertezza circa le prospettive future per un intero sistema economico, la capacità informativa del fair 13
Così recita il paragrafo 27: “Some seem to hold the view that two entities valuing the same instrument should always arrive at the same answer when measuring fair value and, if they arrive at different answers, then one or both entities are wrong. However, it is possible that entities will arrive at different estimates of the fair value of the same instrument at the same measurement date, and the valuation techniques and inputs used by both entities can still meet the objective of fair value measurement and be in compliance with the accounting guidance. The fact that different estimates of fair value exist reflects the judgement and assumptions applied and the inherent uncertainty of estimating the fair value of instruments that do not have prices quoted in an active market. A single entity, however, applies judgement consistently (across time and by type of instrument) when measuring fair value.”
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value si riduce significativamente, dipendendo molto dall’attendibilità della valutazione, che potrebbe a quel punto essere sganciata dai prezzi di mercato e dipendere da modelli sviluppati in house. E l’esistenza di eventuali differenze tra un fair value ottenuto dal modello estimativo e i prezzi di mercato rappresenterebbe comunque un serio problema da affrontare per conferire credibilità alla valutazione, cosa che questa crisi ha purtroppo messo in evidenza. In quei casi, il fair value si configura come un ideale tanto nobile quanto irraggiungibile. Se si sceglie un modello valutativo basato sul mercato, è ovvio che il suo significato poggi sull’efficienza informativa dei mercati medesimi. E questa è una condizione che in alcuni momenti può venire meno. Affermare ciò, non significa in senso inverso attribuire al metodo del costo il merito di fornire anche in tali situazioni informazioni più utili. Anche con il criterio del costo sorge il dubbio se, in tempi di repentine oscillazioni, vi saranno svalutazioni da compiere e queste svalutazioni andranno operate avendo stimato un fair value. Però tale metodo non ha la pretesa di fornire comunque informazioni più significative. Esso semmai tende a rovesciare sull’utente l’onere di riconciliare il dato di bilancio con i valori di mercato, giovandosi peraltro della maggiore neutralità nelle fasi ascendenti del ciclo economico.
4. Una proposta operativa Nel pregevole studio della SEC sui problemi indotti dal mark-to-market (SEC 2009), sono tratteggiate alcune possibili alternative per alleviare i problemi indotti dall’uso del fair value in periodi di crisi dei mercati finanziari e reali. Accantonando subito come irrealistica la proposta di ritornare a valutazioni basate sul costo o altre proposte che rimettano in discussione l’intero impianto concettuale (p. es., Ronen 2008), le alternative più concrete consistono: 1) Nella definizione di un fair value ottenuto non come valore puntuale ma come media dei prezzi scambiati nei mercati, con l’implicito limite connesso all’incertezza sull’ampiezza del periodo da usare per calcolare la media, e 2) Nel potenziamento della disclosure circa le incertezze nella determinazione del fair value. In merito a questo secondo filone, nonostante molti studi dimostrino come l’informativa nelle note risulti meno rilevante del dato contabile nelle decisioni dell’investitore (Aboody 1996; Ahmed et al. 2006), si ritiene che su di essa possano esservi ancora margini di miglioramento. In particolare, già diversi principi dello IASB prescrivono una disclosure del fair value di singoli elementi anche quando in bilancio essi sono con115
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tabilizzati al costo (come nel caso degli immobili IAS 40 valutati al costo o dei titoli che sono stati riclassificati dalla classe Fair Value Through Profit and Loss alle categorie Held-To-Maturity o Loans & Receivables ai sensi della recente modifica dello IAS 39). Ad avviso di chi scrive, il problema di una disclosure siffatta consiste nella mancanza di sintesi. In questo senso ci pare utile la predisposizione di un prospetto riepilogativo a tre colonne, che mostri sulle grandezze complessive di bilancio, patrimonio netto e risultato economico, l’effetto causato dalle problematiche di valutazione al valore corrente riferibili alle diverse classi di elementi componenti il capitale. Nella prima colonna si potrebbe esporre il patrimonio e il risultato economico “contabili”, possibilmente distinti per macrocategorie, così come presenti negli schemi di Stato Patrimoniale e di Conto Economico del bilancio approvato. Nella seconda colonna dovrebbero essere mostrati, per le categorie di elementi non valutate in bilancio al valore corrente alla chiusura dell’esercizio, i corrispondenti dati desumibili da una valutazione a valori di mercato correnti, che siano ritenuti “fair” o meno. Le due colonne possono differire ad esempio: ■
Nei casi in cui l’azienda non impieghi il valore corrente nelle valutazioni di bilancio e le regole IASB richiedano comunque la disclosure del fair value (come nel caso dello IAS 40, dove l’alternativa è il costo o dei titoli spostati dalla classe FVTPL o AFS come permesso dal recente amendment dello IAS 39).
■
Nei casi in cui, come da paragrafo 48 dello IAS 39, l’azienda ritenga il valore corrente di mercato non “fair”, in quanto il mercato non è ritenuto liquido e le valutazioni siano quindi basate su modelli estimativi (i “level 3” dello SFAS 157) o su prezzi di strumenti similari (i “level 2” dello SFAS 157).
Nella terza colonna infine, specularmente, dovrebbero essere mostrati per le categorie di elementi valutate in bilancio al valore corrente alla chiusura dell’esercizio, i corrispondenti dati desumibili da una valutazione a valori ritenuti “fair” dall’azienda, pur non coincidenti con il valore corrente. Questa terza colonna può differire dalla prima quando l’azienda ad esempio ha partecipazioni incluse nella categoria AFS che sono quindi valutate al valore di mercato di chiusura (e che non possono essere riclassificate nella classe HTM o L&R in quanto partecipazioni) ma il cui valore fondamentale è ritenuto ben diverso dal management.
116
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A pure titolo esemplificativo, quanto sopra è riepilogato nel seguente prospetto (prescindiamo per semplicità dal riflesso fiscale):
Elementi critici
Investimenti immobiliari
1) Bilancio 2008
2) Bilancio 2008 a valori correnti, anche se non usati
3) Bilancio 2008 a valori ritenuti fair, anche se non correnti
800
910 (a
800
1.000
730
1.150
di cui partecipazioni
300
300
450 (b
di cui obbligazioni
500
230 (c
500
Tot. capitale investito
5.000
4.840 (d
5.150 (e
Tot. Patrimonio netto
2.500
2.340
2.650
Tot. Ricavi
3.000
3.110 (f
3.000
Tot. Costi
2.000
2.270 (g
1.850 (h
Tot. Risultato economico
1.000
840
1.150
Attività Finanziarie
a): Valore di mercato degli investimenti immobiliari, quando l’azienda applica il criterio del costo. b): Valore ritenuto “fair” dall’azienda per la partecipazioni AFS, nonostante siano state svalutate di 150 per effetto di valore corrente alla chiusura dell’esercizio (300) inferiore al costo (450). c): Valore corrente di obbligazioni AFS dove il mercato è stato ritenuto illiquido e l’azienda ha quindi usato un modello estimativo per determinare il valore a bilancio (500 anziché 230) evitando una svalutazione di 270. d): Effetto complessivo sul patrimonio netto dei valori correnti non impiegati a bilancio (5.000 + 110 – 270). e): Effetto netto complessivo sul netto dei valori fair ma non correnti, pur non impiegati a bilancio (5.000 + 150). f): Ricavi ipotetici qualora si fossero rivalutati al valore corrente gli investimenti immobiliari. g): Costi ipotetici qualora si fossero svalutati titoli illiquidi usando solo il prezzo di mercato. h): Costi ipotetici qualora non si fossero svalutate partecipazioni disponibili per le quali il mercato è attivo.
Un prospetto del genere fornirebbe al lettore un’immediata visione delle deviazioni rispetto ai valori di bilancio delle principali grandezze dovute all’utilizzo “pieno” dei valori correnti quando le regole contabili ne permettevano l’esonero e, alternativamente, dei valori che l’azienda ritiene “fair” ma che non ha potuto inserire in bilancio in quanto obbligata diversamente dai principi contabili. In altre parole fornirebbe la fascia di oscillazione del patrimonio netto e del risultato economico considerando le incertezze valutative connesse all’uso di valori correnti.
117
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5. Conclusioni In questo lavoro si è preso spunto dal dibattito sorto a seguito della recente crisi finanziaria per esaminare la coerenza concettuale del modello del fair value nei principi dello IASB, le premesse logiche dalle quali scaturisce e le condizioni operative che permettono una sua efficace applicazione. In conclusione, il modello del fair value presuppone una certa prospettiva di analisi delle aziende, quella di investimenti finanziari e si basa sull’esistenza di mercati (finanziari e non) efficienti dal punto di vista informativo e allocativo. Ha quindi un campo di azione privilegiato per gli elementi patrimoniali che sono scambiati in mercati attivi e, in quanto tale, mal si presta, o comunque è meno significativo nel valutare le performance delle aziende industriali, sia come flussi trascorsi, sia come potenzialità di flussi futuri, mutando i risultati a cui giunge anche in funzione del percorso di sviluppo aziendale (interno/esterno). La ricerca dell’affidabilità porta a privilegiare una prospettiva “esterna” di osservazione dell’azienda, cercando di ridurre le valutazioni entity specific, pur con qualche sacrificio in termini di significatività dei valori rappresentati e le condizioni esterne divengono quindi ancora più importanti per le valutazioni di bilancio. La concreta applicabilità del fair value richiede infatti non solo la “attività” dei mercati ma anche la loro stabilità, intesa non tanto come staticità ma come chiarezza della tendenza evolutiva (rialzista, ribassista). Altrimenti il fair value sfuma nel fairy value. In questo senso è un metodo contabile che dai primi esiti di questa crisi potenzia significativamente il collegamento bidirezionale tra risultati di bilancio e andamenti macroeconomici, esaltandone la reciproca influenza. E forse questa forza che si è mostrata adesso in tutta la sua irruenza sta inducendo i regulators ad attenuare la portata di questo criterio. E le alternative di valutazione al fair value lasciate dallo IASB, previste in alcuni casi come momenti di passaggio come per abituare le aziende con la pratica del fair value14, adesso come mai prima mostrano appieno la loro utilità. Entro la cornice concettuale di tale modello, un miglioramento dell’informativa del bilancio non può che passare da una disclosure più ampia ma soprattutto più capace di mostrare l’effetto complessivo delle incertezze dovute all’impiego di valori correnti, che lasci quindi al lettore esterno del bilancio il compito di apprezzare la fairness dei valori rappresentati.
14
Nelle Basis for conclusions dello IAS 40 è proprio questo il motivo addotto per lasciare ancora in vita l’alternativa del costo.
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Interessenze di controllo. Recenti linee evolutive e profili di criticità delle regole internazionali di accounting e reporting finanziario di Marco Taliento – Università degli Studi di Foggia
L’articolo ripercorre i passaggi salienti relativi al trattamento contabile e al reporting finanziario da riservare alle interessenze partecipative di controllo conformemente ai principi internazionali emanati dall’International Accounting Standards Board (già International Accounting Standards Committee) e recepiti nell’ordinamento europeo e nazionale. In particolare, il contributo rivisita e analizza – in chiave sia retrospettiva che prospettica – l’evoluzione e le innovazioni registrate negli ultimi anni dallo Ias n. 27 (Bilancio consolidato e separato) in termini di modifiche/emendamenti, proposte e improvement, alla luce dell’attuale contesto di riferimento (normativo e di mercato). Lo scopo è quello di rintracciare il relativo (e per alcuni versi mutevole) paradigma contabile-valutativo ed affrontare talune nuove criticità interpretative e operative. Il lavoro si articola secondo la seguente struttura: dopo alcune premesse, si inquadra in breve la nozione di controllo propedeutica alla qualificazione dei rapporti di gruppo e del consolidamento. Successivamente, si investigano dapprima i profili – più che altro formali o di procedimento – afferenti a condizioni e modalità di rappresentazione delle subsidiary nei bilanci consolidati e separati; si addiviene quindi alle problematiche – questa volta di sostanza – inerenti alla valutazione economica delle partecipazioni di controllo (determinazioni del fair value, full goodwill, deemed cost, ecc.), specialmente in considerazione delle più recenti innovazioni da ultimo avanzate, tenuto anche conto di standard aggiornati ricollegabili allo Ias n. 27 quali ad es. l’Ifrs n. 3 sulle aggregazioni aziendali, l’Ifrs n. 5 sulle attività non correnti possedute per la vendita e le attività operative cessate, e l’Ifrs n. 1 sulla prima adozione degli International Financial Reporting Standard (senza trascurare che è in discussione l’Exposure Draft n. 10 polarizzato sulla costruzione dei soli consolidated financial statement).
Abstract The article points out the main accounting and financial reporting changes introduced through the (once more) revised Ias 27, trying to find the relating theorical and operational paradigma and criticisms. Among the major aspects of the present analysis (whose approach is both retrospective and perspective, in order to focus the dynamics in recent evolution lines for consolidated and separate statements), there are: criteria for exemption from preparing consolidated financial statements; exemptions based on temporary control (or scope exclusion); existence of several accounting methods for separate statements and 121
Interessenze di controllo
alternative valuation treatments; progressive adoptions of the international principles endorsed in the European contest; comparisons with Italian accounting standards, etc. In particular, the study emphasizes firstly the revised (2003) version of Ias 27 and the amendments and effects on application produced by Ifrs n. 5 (2005). Then, attention is paid to the determination of consolidated goodwill accordingly to the international rules, in particular, to the recent amendment to Ifrs 3 that regards the optional ‘full goodwill’ method (with the consequence that a part of goodwill would be attributable to non-controlling interests). The article also refers to: a) the effects of the modified Ifrs 1 on subsidiary entities’ investments (i.e. on the possible deemed cost choice); b) how the choice for entity theory could be de facto affected just by the new version of Ias 27 (effective from July 2009, together with the very last version of Ifrs 3); c) important environmental variables that should be taken into account (as the recent turbulent markets scenarios and relating perils carried by the mark to market approach to shares’ fair valuing) in the light of a growing modernisation and new more improvements (see ED n. 10 issued in Dec. 2008).
1. Premesse Il presente articolo esamina le principali problematiche legate alla contabilizzazione nei bilanci annuali (di gruppo e separati) delle partecipazioni detenute in società controllate (subsidiary), in considerazione dello Ias n. 27 “Consolidated and Separate Financial Statements”. Quest’ultimo è scrutato alla luce delle sue recenti (e tuttora vigenti, nei limiti specificati) modifiche (revision 2003) e, incidentalmente, dell’Ifrs n. 5 “Non-current Assets Held for Sale and Discontinued Operations” (in forza dal 2005); alcuni importanti profili di rilievo qui in commento sono stati peraltro successivamente (ri)toccati a mezzo degli amendment del gennaio 2008 e del maggio 2008 (in connessione alla first time adoption), efficaci rispettivamente dal luglio e gennaio 2009 (salvo libero, ma limitato, impiego anticipato)1. Pure, come è facile appurare, assai notevoli sono le interrelazioni con l’Ifrs n. 3 “Business Combinations” 2. Scopo del presente scritto è, in breve, quello di percorrere in chiave sia retrospettiva che prospettica l’insieme delle modifiche dianzi richiamate, ritraendone il relativo (e per alcuni versi mutevole) paradigma conta1
Lo Ias n. 27 è stato adottato in ambito europeo con il Reg. (CE) n. 2238/2004, poi modificato con i Regolamenti n. 2236/2004 e 1358/2007; valga, da ultimo, il Reg. (CE) n. 1126/2008, come modificato con Reg. (CE) n. 69/2009 e n. 70/2009. 2 Acquisire una partecipazione di controllo significa acquisire – in tutto o in parte – un’azienda in funzionamento. In tale ottica, la partecipazione si configura come un bene di secondo grado (Onesti 1990).
122
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bile-valutativo di riferimento ed affrontando talune criticità interpretative e operative. Le anzidette modifiche non sono che il risultato dell’implementazione di quell’improvements project intrapreso dall’Organismo internazionale a partire dal 2001 nell’obiettivo generale – invero non sempre realizzato – di ridurre o eliminare in modo sistematico alternative contabili, ridondanze e conflittualità interne all’impianto Ias-Ifrs, con ciò favorendo tanto gli elementi di innovazione e avanzamento sul piano del reporting finanziario delle imprese (metodologie attendibili) quanto i requisiti di trasparenza informativa e comparabilità a beneficio degli user (metodologie comprensibili). Nondimeno, a dimostrazione del fatto che si tratta di un processo di rinnovamento continuo, tutt’altro che ultimato, è utile precisare che lo standard setter internazionale ha licenziato nel dicembre 2008 l’Exposure Draft ED 10 (intitolato Consolidated Financial Statements). Il programma, in definitiva, sembra quello di dedicare in futuro lo Ias 27 ai soli bilanci separati, enucleando i principi – da inserire in un Ifrs ad hoc, in uscita probabilmente entro il 2009 – relativi ai conti consolidati. Del resto, nonostante i vecchi propositi, allo stato attuale non appaiono sempre chiare le motivazioni dell’applicazione delle diverse metodiche (più avanti riferite) riservate al bilancio separato e a quello consolidato, per cui è senz’altro da accogliere con plauso ogni sforzo teso a un miglioramento ulteriore dei criteri applicativi vigenti. La metodologia del contributo si sviluppa lungo due direttrici ideali: da un lato si indaga direttamente il sistema dei principi internazionali relativi alle interessenze di controllo (considerabili quali best practice) e gli svariati regolamenti comunitari avvicendatisi nel tempo per l’omologa e l’adozione a livello europeo, documenti interpretativi inclusi (viste le loro successive modifiche foriere di non poche incertezze); dall’altro lato si rivisita la letteratura nazionale ed internazionale in tema di controllo e partecipazioni di controllo. Il lavoro presenta la seguente struttura: dopo le premesse, si inquadra in breve la nozione di controllo, che è, ad evidenza, fondamentale ai fini della qualificazione dei rapporti di gruppo e del consolidamento (par. 2); il corpo vero e proprio è nel terzo e quarto paragrafo: l’uno tratta i profili – più che altro formali o procedimentali – afferenti alla rappresentazione delle subsidiary nei bilanci consolidati e separati, l’altro approfondisce le problematiche – di sostanza – inerenti alla valutazione delle partecipazioni di controllo (specialmente alla luce delle più recenti innovazioni raccolte). Chiudono il lavoro alcune osservazioni finali di sintesi (par. 5).
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2. Note introduttive sul “controllo” negli aggruppamenti aziendali Come è noto, rispetto all’attuale disciplina interna (v., in generale, art. 2359 c.c. e, nell’ottica del bilancio consolidato, art. 26 del D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127), nel modello internazionale risultano in linea di massima più ampi i casi di controllo partecipativo e di consolidamento3. Il tema del controllo è invero ampiamente dibattuto in dottrina (tra gli altri: Cairns 2005; Epstein e Jermakowicz 2008, 2009; Kivi et al. 2004; Nobes e Parker 2008). Nell’ottica specifica degli standard internazionali di generale accettazione, il “controllo” – che è accepito (al di là di quelle situazioni recanti astratta titolarità formale) quale concreto potere di determinare le politiche finanziarie e gestionali di un’entità, per ritrarre i benefici derivanti dalle sue attività – è presumibile che esista quando una società possegga, anche indirettamente, più del 50% dei voti esercitabili in assemblea. Tale presunzione potrebbe pur essere rigettata ma solo in casi eccezionali, dimostrando chiaramente che il possesso dei voti non costituisca controllo. Il controllo, in particolare, è supposto anche (Ias 27, par. 13) nel caso di possesso di una quota di voto pari o inferiore al 50%, ove: vi sia un accordo con un altro investitore tale da garantire più della metà dei diritti di voto; una clausola statutaria o contrattuale affidi il potere di determinare le scelte amministrative e gestionali dell’impresa; sia assicurato il potere di nominare o revocare la maggioranza degli amministratori (organo di governo); si ottenga il potere di indirizzare la maggioranza dei voti alle riunioni del CdA (organo di governo). Il documento interpretativo Sic n. 12, Consolidation - Special Purpose Entities, poi, chiarisce i vari casi di controllo in assenza di legami partecipativi. Va notato, in proposito, che secondo una visuale nettamente economica il modello internazionale enfatizza in special modo proprio le situazioni annoverabili quali controllo di fatto4. In linea generale, infatti, nell’architettura Ias/Ifrs gioca un ruolo di primo piano il principio della prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica (substance over form principle), nel convincimento che i legami economici prevalgono sui parametri giuridici. Pertanto, appare legittimo credere 3
Si sottolinea che l’art. 26 del citato decreto legislativo contempla, accanto ai casi previsti dai primi due commi dell’art. 2359 c.c., il controllo per contratto e clausola statutaria, ed ancora, il controllo in base ad accordi tra soci. 4 Il controllo, naturalmente, può essere esclusivo o congiunto; per determinare il controllo (ma non per misurare le interessenze sul piano contabile) si computano anche diritti potenziali di voto (riscontrabili in presenza di option di tipo call, warrant, strumenti convertibili in azioni et similia, ecc.), i quali, si badi, siano però effettivamente esercitabili (dunque vanno fatti esclusi quelli che ad es. potrebbero essere esercitati solo condizionatamente a dati eventi futuri). In senso opposto valgono i diritti di veto. Situazioni di “controllo di fatto” emergono laddove si presenti il fenomeno della dispersione dei voti.
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che la sussistenza di espliciti legami partecipativi non sia condizione né necessaria né sufficiente alla qualificazione del controllo inteso come esercizio del governo economico. Ciò detto, si analizzano a seguire gli aspetti salienti riconnessi al trattamento delle subsidiary nell’ambito dei bilanci consolidati e separati, rintracciando le sottostanti linee di sviluppo delle regole internazionali di riferimento susseguitesi nel tempo. Per quel che concerne il bilancio del gruppo (costituito dalla capogruppo e da tutte le sue controllate), è da constatare come mentre nella disciplina interna esso rappresenti una sorta di corredo o estensione formale del bilancio d’esercizio della controllante (Tartaglia Polcini 2008), nella prospettiva internazionale sembra assurgere a vero e proprio bilancio di quest’ultima entità (rappresentativa di una realtà allargata), dacché maggiormente utile e significativo agli occhi degli stakeholder e per i loro processi decisionali.
3. Profili di rappresentazione delle subsidiary nei bilanci consolidati e separati Tanto fissato, venendo al trattamento contabile delle partecipazioni di controllo (in subsidiary), ha solo interesse storico la distinzione tra controllate consolidabili e non consolidabili (visto che – come più avanti chiarito – nel modello internazionale, dal 2005 tale ultima ipotesi non è più percorribile)5. Le partecipazioni di controllo (oggi sempre) consolidate, vengono trattate nel bilancio di gruppo – beninteso, ove l’impresa partecipante sia tenuta a redigerlo – secondo le regole di consolidamento racchiuse appunto nello Ias 27. In questa sede, va in breve notato che a differenza delle regole nazionali6, espresse nel citato D. Lgs. 127/91 e nell’interpretativo e integrativo Documento n. 17 del Cndc – Cnr (come modificato dall’Oic nel settembre 2005 in ragione della riforma del diritto societario del 2003): ■
Vengono consolidate le imprese anche esercitanti attività dissimili (nell’ordinamento interno, almeno fino all’entrata in vigore del D. Lgs. 2 feb-
5 Il Sic-12 “Consolidamento - Società a Destinazione Specifica (società veicolo)” integra le regole dello Ias 27, soffermandosi sul consolidamento delle special purpose entity, costituite per raggiungere un obiettivo limitato e ben definito (per esempio, realizzare un contratto di leasing, attività di ricerca e sviluppo o una cartolarizzazione di attività finanziarie). Va notato che una SDS deve essere consolidata quando la sostanza della relazione tra un’impresa e una SDS indica che quest’ultima è controllata dall’impresa. Si ricorda che l’Organismo internazionale ha sviluppato il progetto Consolidation – Including Special Purpose Entities (confluito nella bozza di principio ED 10). 6 Cfr. Prencipe e Tettamanzi (2005).
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braio 2007, n. 32, art. 3, esse dovevano essere escluse dal perimetro di consolidamento in virtù dell’art. 28, comma 1, del decreto 1277). ■
I casi di esclusione obbligatoria fanno in un primo momento richiamo a un controllo temporaneo o soggetto a restrizioni (così fino al 31.12.2004). Si precisa che detta previsione rappresenta ipotesi di esclusione facoltativa nel nostro Paese.
■
È ammesso il consolidamento con data differente (purché la differenza non superi i tre mesi), mentre in Italia - più rigorosamente - ciò non è consentito.
■
Il PN di terzi è indicato distintamente sia dal PN del gruppo sia dalle passività (dal luglio 2009 le interessenze non di controllo vanno però esposte come parte, pur separata, dell’equity). In Italia, il PN di terzi è incluso in una voce del PN.
■
Si lascia in un certo senso più spazio alla possibilità di utilizzare criteri di valutazione difformi anche da quelli della capogruppo (salve poi le necessarie rettifiche di preconsolidamento per la redazione del bilancio consolidato).
Nel bilancio consolidato, com’è noto, vanno integrati i bilanci delle controllate “voce per voce” sommando i valori dell’attivo, del passivo, del patrimonio netto, dei ricavi e dei costi, tra loro e con quelli della capogruppo o parent (metodo del consolidamento integrale)8. In questo approccio sono indispensabili operazioni rettificative del seguente tenore (par. 22 ss.): ■
Il valore contabile delle partecipazioni della capogruppo in ciascuna controllata e la corrispondente frazione del patrimonio netto posseduta dalla holding devono essere cancellati, allo scopo di evitare fenomeni di duplicazione o annacquamento (Azzali 2003)9.
■
Occorre individuare la quota di pertinenza di terzi al valore dell’utile (o perdita) d’esercizio delle controllate consolidate.
■
La quota del capitale e delle riserve di pertinenza di terzi nelle controllate va identificata separatamente dal patrimonio netto di tali imprese afferenti al gruppo (si intende sia il valore di quelle interessenze di terzi alla data dell’acquisto della partecipazione, sia la quota di pertinenza di terzi delle variazioni nel patrimonio netto dalla data di acquisizione).
7
L’Oic (2005) auspica che vengano escluse le imprese quando esse operino per conto di un’impresa, diversa da quelle incluse nel consolidamento, la quale goda della maggior parte dei benefici e sopporti la maggior parte degli oneri o dei rischi che derivano dalla loro attività. Dai casi di esclusione si differenziano i casi di esenzione ai sensi dell’art. 27 del decreto 127 (limiti dimensionali). 8 Le imprese a controllo congiunto sono invece oggetto di consolidamento proporzionale o, in alternativa, sintetico (equity method); ma nel bilancio separato sono iscritte al costo o al fair value. In merito alla teoria della proprietà sottostante alla tecnica del pro-rata consolidation, v. Baker et al. (1993, 140-141). Si rinvia inoltre a D’Amico (2007). 9 In particolare, p. 103. Cfr. anche Lai (2003, 178) e Zattoni (2000, 124).
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Saldi, operazioni, ricavi e costi “infragruppo” sono integralmente eliminati (par. 24)10.
È appena il caso di osservare che i bilanci consolidati sono preparati avvalendosi – secondo una previsione formulata forse in modo troppo elastico – di uniform accounting policies per operazioni e fatti analoghi come riscontrabili in circostanze similari (Elliot e Elliot 2007). Vista la complessità del processo di omogeneizzazione dei bilanci, sul piano pragmatico, si crede assai proficuo che la capogruppo possa diffondere alle imprese facenti parte del gruppo preziose indicazioni in ordine ai criteri da seguire (le cui rettifiche, ad evidenza, originano fenomeni di differimento d’imposta ex Ias 12). Da quanto sopra, possono emergere delle “differenze da consolidamento”, per il cui trattamento – anche alla luce di alcune importanti novelle pronunciate in tema di avviamento ex Ifrs 3 (Onesti et al. 2006) – si rinvia al paragrafo successivo. Si rivisita ora la contabilizzazione delle partecipazioni di controllo ritenute ‘non consolidabili’ nell’ambito del bilancio Ias-Ifrs di gruppo (fino al 31.12.2004). Invero, secondo lo Ias 27 previgente, le partecipazioni in controllate escluse dal consolidamento dovevano essere iscritte, nel bilancio del gruppo, così come indicato dallo Ias 39 quali attività finanziarie disponibili per la vendita (in una sorta di default category). In generale, una partecipazione in un’impresa, la si sarebbe contabilizzata secondo quanto previsto dallo Ias 39 dacché avesse cessato di rientrare nella definizione di controllata e non fosse divenuta una associate (Ias 28). Più precisamente, si escludeva una controllata dal consolidamento – così nella vecchia versione dello Ias, al par. 16 (Pierce e Brenman 2003) – soltanto quando: a) Il controllo era da ritenere temporaneo perché la controllata era stata acquistata e posseduta esclusivamente in vista della sua dismissione in un prossimo futuro; oppure, b) Essa operava in presenza di gravi e durature restrizioni che ne pregiudicavano significativamente la capacità di trasferire fondi alla controllante.
10
I saldi e le operazioni infragruppo, compresi i ricavi, i costi e i dividendi, sono integralmente elisi. Così, gli utili e le perdite derivanti da operazioni infragruppo compresi nel valore contabile di attività, quali le rimanenze e le immobilizzazioni, sono integralmente eliminati. Ove le perdite infragruppo però segnalassero una necessaria riduzione di valore, in tal caso la rettifica dei margini negativi infragruppo non sarebbe opportuna. Infine, per quanto concerne le differenze temporanee derivanti dall’eliminazione di utili e perdite originate da operazioni infragruppo, valga lo Ias 12 (Ias 27, par. 25).
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Non va sottaciuto che lo Iasb, già con la revisione del dicembre 2003, optava nello Ias 27 per l’eliminazione del requisito di cui sub b), evidentemente nel convincimento che le dette restrizioni finissero con il non precludere l’effettiva capacità di controllo (invero, lo Iasb all’epoca prevedeva ancora di escludere il consolidamento di entità dove la direzione aziendale fosse attivamente alla ricerca di un acquirente); con riferimento al requisito di cui sub a), invece, sostituiva l’espressione poco chiara (quindi suscettibile di evitabili fraintendimenti di sorta) “in un prossimo futuro” (in the near future) con “entro 12 mesi” (within 12 months)11. Tra le regole previste nella versione successivamente emendata dall’appendice c dell’Ifrs n. 5 (del marzo 2004), che è la versione vigente dello Ias 2712, risulta invece prescritto al nuovo paragrafo 12 senza ambiguità: “Consolidated financial statements shall include all subsidiaries of the parent”. Lo stesso par. 16 dello Ias 27, dinanzi citato, relativo all’esclusione del consolidamento, è stato abrogato. Ne deriva inequivocabilmente che finanche l’esclusione di scopo di cui al revised punto a) – e cioè lo scopo di rivendita – è oramai venuta meno: dunque, dal 2005, nel bilancio di gruppo Ias-Ifrs vanno consolidate tutte le partecipazioni di controllo senza esclusione alcuna (fatta ovviamente salva l’ipotesi di sopravvenuta perdita di controllo – peraltro possibile anche a prescindere da mutamenti negli assetti proprietari13 – con naturale fuoriuscita dal perimetro di consolidamento). Va da sé che qualora una subsidiary fosse classificata “as held for sale” ai sensi dell’Ifrs 5 (ove acquisita con l’intenzione di cederla entro l’anno, ovvero se ne fosse pianificata la vendita e fossero iniziate le attività per individuare a breve un acquirente), i suoi risultati economici e net asset andrebbero senz’altro consolidati, tuttavia, detta subsidiary sarebbe trattata (anche nel profilo della disclosure) ai sensi l’Ifrs 5. È superfluo dire che tutte le sopracitate problematiche di rappresentazione concernenti i bilanci consolidati non hanno ragion d’essere laddove operino, a monte, i casi di esonero previsti (ove esercitati). E, nella prospettiva internazionale, le ipotesi di esenzione del bilancio consolidato per una controllante sono cristallizzate nel par. 10 dello Ias 27 (una controllante non è tenuta alla presentazione del bilancio consolidato se e soltanto se): i) La controllante stessa è a sua volta una società interamente controllata (dunque una sub-holding), o parzialmente controllata, da un’al11
Analogamente, l’Oic propone l’esclusione dal consolidamento di imprese le cui azioni o quote siano possedute al solo scopo della successiva alienazione “entro dodici mesi dalla fine dell’esercizio; se l’alienazione nel tempo indicato non è avvenuta, l’impresa deve essere inclusa nel consolidamento”. Oic (2006a, 4). 12 Salvo quanto si dirà in tema di Ifrs 1. 13 Si pensi al subentro di un organo di controllo esterno di natura pubblica (organo di governo, tribunale, ecc.).
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tra entità, e gli azionisti terzi, inclusi i non aventi diritto di voto, sono stati informati del fatto che la controllante non redige un bilancio consolidato e non oppongono alcuna obiezione. ii) Gli strumenti rappresentativi di debito o di capitale non sono quotati in un mercato regolamentato (in una borsa valori nazionale o estera ovvero in un mercato ristretto, compresi i mercati locali o regionali). iii) La controllante non ha depositato, né è in procinto di farlo, il proprio bilancio presso una commissione per la borsa valori o altro organismo di regolamentazione al fine di emettere una qualsiasi classe di strumenti finanziari sui mercati regolamentati. iv) La capogruppo o controllante principale o qualsiasi controllante intermedia redige un bilancio consolidato rivolto al pubblico che risulti conforme (compliant) agli Ias o Ifrs. Più esattamente, in presenza di tutte e quattro le condizioni assieme, la capogruppo non è obbligata a redigere il bilancio consolidato. Ciò implica, a ben vedere, che pure in tale evenienza la capogruppo può comunque presentare facoltativamente il bilancio consolidato. Se opta per l’esonero, potrà presentare unicamente il bilancio separato. Infine, allo scopo di dare evidenza contabile del rapporto partecipativo di controllo nei conti annuali non consolidati della controllante, va tenuto presente il cruciale paragrafo 37 dello Ias 27 revised 2003 (come ora migliorato dallo Ias 27 revised 2008), appunto inerente ai separate financial statement. Si badi che il bilancio separato è quello presentato da una controllante (ma pure da una partecipante in una società collegata o da una partecipante in un’entità a controllo congiunto o joint venture) in cui le partecipazioni vengono contabilizzate con il metodo dell’investimento diretto piuttosto che in base ai risultati conseguiti e al patrimonio netto delle società partecipate14. La sua funzione precipua è quella di informare in merito ai rendimenti espressi dai dividendi sulle partecipazioni detenute dalla società che redige il bilancio (giusta Reg. CE 69/2009, è stata recepita la nuova regola (par. 38A) che prevede la rilevazione di un dividendo della controllata nel prospetto dell’utile o perdita d’esercizio del bilancio separato una volta accertato il diritto a percepirlo15).
14
Il bilancio individuale è invece il bilancio di una società che possiede solo partecipazioni in imprese collegate (e quindi non redige il bilancio consolidato) e che, inoltre, non ha una controllante (di primo o successivo livello) che pubblica un bilancio consolidato. 15 Ma derivando da utili conseguiti ante combinazione esso andrebbe scomputato dall’interessenza. È stato altresì cancellato, nelle definizioni dello Ias 27, il parallelo riferimento al metodo del costo.
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Ebbene, le partecipazioni nelle società controllate trovano iscrizione nel bilancio separato della partecipante al costo oppure secondo i dettàmi dello Ias 39 “Strumenti finanziari: Rilevazione e valutazione” (ma di ciò si dirà meglio a seguire). È ovvio che qui non si procede ad alcuna operazione di preconsolidamento e di consolidamento, bensì all’opportuna valutazione della voce accesa alle partecipazioni in oggetto come allocate nel prospetto della situazione patrimoniale-finanziaria separata (i cui riflessi sul risultato d’esercizio sono riportati nel prospetto di conto economico complessivo, c.d. comprehensive income statement). Nel passare al piano economico-valutativo (con il paragrafo seguente che si sofferma principalmente sulle nuove problematiche di stima che interessano le partecipazioni di controllo ai fini dei bilanci Ias/Ifrs), si crede qui doveroso un rinvio, in tema di modalità di rappresentazione dei bilanci, al novellato Ias 1 (v. Reg. (CE) n. 1126/2008, come rettificato con Reg. (CE) n. 1274/2008, n. 53/2009 e n. 70/2009).
4. Problematiche inerenti alla valutazione delle partecipazioni di controllo. Nuove prospettive. A partire dal 2005, lo Iasb ha implementato un progetto di riscrittura dello Ias 27 (e del connesso Sic 12), affrontando diverse questioni di grande interesse. Tale progetto, in particolare, oltre a far luce sulla definizione di controllo, da verificare nella “sostanza” e “caso per caso” (si pensi ad es. al controllo via contract senza la necessità di detenere un livello minimo di proprietà, o all’influenza dei potential voting agganciati al possesso di opzioni o titoli convertibili), ha inteso: ■
■
Armonizzare il più possibile i criteri valutativi internazionali di bilancio a quelli statunitensi (UsGaap/Sfas) in relazione alle aggregazioni/aggruppamenti aziendali.
Innestare nel bilancio consolidato le nuove norme in tema di business combination, come ad es. quelle riguardanti la contabilizzazione dell’avviamento di gruppo (goodwill) e dei minority interest (‘ribattezzati’ più efficacemente non-controlling interest). In proposito, i più recenti cambiamenti dello Ias 27 vanno letti in combinazione proprio con le novità avanzate riguardo al trattamento delle aggregazioni aziendali mediante il nuovo Ifrs n. 3 (versione del gennaio 2008, efficacia luglio 2009): è qui palese il richiamo alla cosiddetta “fase II” del progetto incentrato sulle business combination peraltro svolto all’unisono proprio da Iasb (standard setter internazionale) e Fasb (standard setter statunitense) assieme (Watrin et al. 2006). 130
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In particolare, rebus sic stantibus, viene ammessa la possibilità di emersione nel bilancio di gruppo a far data dal luglio 2009 del c.d. full goodwill in alternativa all’attuale configurazione nota in letteratura (Henning et al. 2000) e nella prassi aziendale con la vecchia etichetta di purchased goodwill. Più in generale, nel modello internazionale di bilancio il purchase method cede esplicitamente il passo all’acquisition method (sua versione voluta), il quale ora si snoda nelle seguenti fasi: a) identificazione dell’acquirente; b) determinazione della data di acquisizione (in cui l’acquirente ottiene il controllo dell’entità acquisita); c) riconoscimento e misurazione delle attività identificabili, delle passività assunte e di ogni NCI (non-controlling interest); d) riconoscimento e misurazione dell’avviamento o del guadagno per buon affare (quest’ultimo da imputare a conto economico dopo necessario re-measurement tanto del costo dell’aggregazione quanto del valore degli elementi patrimoniali attivi e passivi consolidati). Da ciò, è di tutta evidenza come giovi sia sul piano cognitivo che su quello pragmatico-operativo esaminare accuratamente e in ottica evolutiva le varie problematiche - ricomponendole a sistema - afferenti alla valutazione delle partecipazioni in società controllate, oggetto d’aggregazione, alla luce dei mutevoli e in certo modo fluidi standard internazionali, soprattutto in considerazione delle revisioni e degli emendamenti via via apportati, e che tuttora continuano a essere presentati. In special modo, è possibile – come visto – individuare una prima recente transizione dalla versione dello Ias 27 in vigore fino al 31.12.2004, a quella revised dec. 2003 efficace dal 2005 (ancora vigente ma con parziali modifiche ulteriormente intervenute), passando per gli amendment introdotti con l’Ifrs n. 5 e, infine, approdando al perfezionamento della phase II delle business combination avvenuta nel gennaio 2008 ed efficace dal luglio 2009. È da dire che in relazione alle partecipazioni non consolidabili iscritte anteriormente al 2005, se nel bilancio separato valeva alternativamente il criterio del costo, il metodo del patrimonio netto, o il criterio del fair value, nel bilancio consolidato occorreva adottare il solo criterio del “valore equo”. Tuttavia, come anticipato, con l’applicazione delle regole veicolate mediante l’Ifrs n. 5 non ha più senso oggi distinguere controllate consolidabili da controllate non consolidabili (Nobes e Parker 2008), secondo un’impostazione che può ritenersi condivisibile fintantoché siano fornite adeguate informazioni con le note al bilancio, pena la non realizzazione della true and fair view. Venendo ora agli effetti economico-finanziari delle procedure di consolidamento da seguire per la corretta presentazione del bilancio di grup131
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po, si ritiene utile mettere in evidenza alcune divergenze fondamentali rispetto alla disciplina interna per quel che concerne la valutazione del goodwill; ci si riferisce al: ■
Riconoscimento iniziale dell’avviamento positivo scaturibile dalla differenza da consolidamento: mentre le regole interne ammettono solo l’avviamento derivativo attinente alle posizioni di controllo acquisite, le regole internazionali accordano – come anticipato – la possibilità di iscrivere, piuttosto che il purchased goodwill, il full goodwill comprensivo anche dell’avviamento spettante alle interessenze non di controllo detenute da terzi (in pratica: minoranze azionarie possedute da terze economie esposte in aderenza alla teoria detta entity theory – invero dalle antiche radici (Moonitz 1942; Hendriksen 1970; Kam 1990) – la quale vede il gruppo come insieme di risorse unitariamente e finalisticamente impiegate (Zambon 1996)).
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Trattamento successivo del goodwill: mentre le regole domestiche lo ammortizzano (art. 2426 c.c., punti 6, 1 e 3), l’Ifrs n. 3 e lo Ias 36 vietano apertamente la tecnica dell’ammortamento in favore del test di impairment16 da condurre a livello di unità generatrice di cassa (Epstein e Jermakowicz 2008 413 ss.).
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Riconoscimento delle contingent liability, o passività potenziali, come richiesto dall’Ifrs n. 3 (se ne deduce che ciò faccia aumentare – a parità di costo d’aggregazione – il valore residuale d’avviamento).
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Obbligo di separata individuazione di intangible asset diversi dall’avviamento ((Lev 2001; Bini 2008a), il che questa volta farà diminuire – sempre a parità di costo d’aggregazione – il residuo valore d’avviamento17).
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Riconoscimento e trattamento contabile della differenza negativa imputabile ad avviamento negativo: mentre le regole interne ne prevedono, in ultima istanza, l’allocazione in un fondo rischi ed oneri o in una riserva del netto, le regole internazionali lo considerano – qualora resista dopo adeguate verifiche estimative – quale componente positivo del reddito d’esercizio girandolo immediatamente a conto economico (gain from a bargain purchase)18.
Altra discordanza di rilievo si ha nella valutazione delle interessenze di terzi al fair value (piuttosto che a book value). A onor del vero, vista la nuova opzione d’iscrizione del full goodwill, le interessenze di minoranza (rectius, non di controllo) fair valued potrebbero de facto inglobare d’insieme pure la quota parte di avviamento teoricamente spettante alle 16
Si rinvia al recente contributo di Romano (2007). Esistono approcci diretti e indiretti di determinazione del goodwill. Peraltro, sotto talune condivisibili condizioni valutative, la tecnica di stima autonoma e quella residuale possono convergere (Haaker 2008; Taliento 2006). 18 Cfr. sull’argomento Gelmini (2007), Romano e Taliento (2006). 17
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stesse, con tutte le difficoltà e criticità sul piano conoscitivo, metrico e del controllo agevolmente intuibili, dacché per esse non si è sostenuto un costo di acquisizione (teoricamente valutato as a whole) esplicito (Della Bella 2005; Mechelli 2006; Taliento 2007); senza contare i rischi di una possibile inadeguata imputazione in capo alle quote di minoranza di eventuali premi di controllo o di maggioranza. Ancora sul piano valutativo sono stati apportati nel gennaio 2008 - questa volta direttamente allo Ias 27 (improvement) - emendamenti di sostanza in ordine a: ■
I cambiamenti nelle proporzioni fra interessenze di controllo e non di controllo: ogni successivo acquisto di quote addizionali non di controllo (step-up) è da contabilizzare come equity transaction, senza il bisogno di rimisurare – conformemente al nuovo acquisition method of accounting – il fair value degli elementi patrimoniali attivi e passivi sottostanti interessati, né di riconoscere conseguenti oneri o proventi, o ricalcolare il goodwill; in quest’ottica, la rilevazione di ulteriori quote marginali della subsidiary ad opera della controllante implica, come se ne desume, la contabilizzazione di un acquisto (o di una vendita per possibili rettifiche in minus, fintantoché lo stepdown non significhi loss of control quindi estromissione dal perimetro di consolidamento) di azioni proprie (treasury stock).
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L’attribuzione delle perdite (loss) afferenti ai non-controlling interest: se nell’attuale versione dello Ias 27 le perdite che eccedono le interessenze partecipative non di controllo vanno dedotte dalle interessenze di controllo, e ogni utile prodotto dalle prime successivamente viene imputato alle seconde finché le perdite non siano assorbite, la versione emendata richiede che ogni perdita relativa alle interessenze non di controllo sia allocata esclusivamente sulle stesse (quantunque ciò possa pure comportare deficit per esse).
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La perdita del controllo di una subsidiary (conservando comunque una quota partecipativa minoritaria): sul piano contabile, la relazione parent-subsidiary cede il passo alla relazione investor-investee; più in dettaglio, questa nuova relationship deve essere riconosciuta e misurata al fair value alla data in cui è perso il controllo della partecipata. Soprattutto, un’innovazione di spicco risiede nella derivante rilevazione di una perdita o di un utile per l’adeguamento al fair value del valore contabile risultante della partecipazione.
Passando ai profili valutativi che riguardano i bilanci separati, le partecipazioni nelle società controllate trovano iscrizione nei conti della partecipante – si è accennato – al costo oppure secondo le regole dello Ias 39 “Strumenti finanziari: Rilevazione e valutazione”, e cioè al fair value 133
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(se attendibile). Tale regola, si sottolinea, riguarda non solo le controllate (subsidiary), ma anche le collegate (associate) e le joint venture. Nei suddetti casi colpisce soprattutto l’introdotto divieto – dal 2005 – di utilizzo del metodo del patrimonio netto (equity method), peraltro previsto nell’attuale punto 4 dell’art. 2426 c.c. (e sostanzialmente confermato nelle ipotesi di attuazione delle direttive comunitarie n. 2001/65 e n. 2003/51 stilate dall’Oic19). In proposito, giova rammentare che lo Ias 27, nella versione in vigore fino al 31.12.2004, ammetteva che le partecipate potessero essere contabilizzate con il metodo del patrimonio netto prescritto nello Ias 28, “Contabilizzazione delle partecipazioni collegate”. L’Ifrs n. 5, in merito all’eliminazione dell’equity method (che in effetti altro non è che una tecnica di consolidamento sintetico (Alfredson et al. 2005), la quale mal si concilia con i fini di un bilancio separato), ha corretto il tiro del citato par. 37, poi migliorato nel 2008, prevedendo dunque che nel redigere un bilancio separato l’entità controllante possa contabilizzare le partecipazioni di controllo: a) Al costo, o b) In conformità allo Ias 39. Si badi che l’entità deve applicare lo stesso criterio per ciascuna categoria di partecipazioni (incluse pure quelle in associate e joint venture). Nel caso in cui le partecipazioni fossero contabilizzate in base allo Ias 39 (piuttosto che al costo), tali investimenti continuerebbero a essere misurati applicando il citato standard – il che implica una valutazione economica di quegli impieghi – anche ove fossero classificati “as held for sale” in accordo con l’Ifrs n. 5 (in pratica, la valutazione degli investimenti contabilizzati conformemente allo Ias 39 non potrà essere modificata in tali circostanze). In proposito, si segnala che, in virtù dello Ias 39, le partecipazioni in subsidiary potrebbero essere trattate come attività finanziarie del tipo FVTPL (cioè classificate al fair value through profit and loss, quindi con effetto reddituale)20 o come attività disponibili alla vendita (questa volta imputando le variazioni di fair value a patrimonio netto, non nel conto economico separato – ma con successivo rigiro nella nuova sezione adibita ai componenti di risultato non redditualizzati –, finché i titoli non siano dismessi). Gli investimenti espressi al costo (ovvero iscritti inizialmente al fair value del corrispettivo dato per acquisire i titoli de quibus), invece, saranno contabilizzati conformemente all’Ifrs 5 allorché le partecipazioni siano classificate come possedute per la vendita (o siano incluse in un gruppo in dismissione classificato come posseduto per la vendita). 19
È previsto nell’ipotesi di nuovo articolato Oic che: “5) le partecipazioni in società controllate […], possono essere iscritte […], secondo il metodo del patrimonio netto […].”. Oic (2006b, 12). 20 L’Oic puntualizza, in generale, che la valutazione al FVTPL (Fair Value rilevato a conto economico) è applicabile alle partecipazioni solo se le relative azioni sono quotate in un “mercato attivo” o il relativo fair value è determinabile attendibilmente. Oic (2005, 82; 2008, 101 ss.).
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Pertanto – nell’evenienza in cui il valore della partecipazione sia recuperabile principalmente attraverso una transazione economica anziché con il suo uso continuativo (Ifrs 5, par. 6), trattandosi di non-current asset disponibile ad una vendita immediata ed assai probabile –, l’investimento de quo andrà contabilizzato al minore tra il valore contabile e il fair value al netto dei costi di vendita (Ifrs 5, par. 15). Va da sé che ogni impairment loss o svalutazione (write-down) della partecipata in questo senso effettuato andrà a segnalare un componente negativo del reddito d’esercizio da iscrivere nel conto economico separato della partecipante (tenendo presente che poi son sì consentite riprese di valore ma non oltre i cumulativi impairment loss operati ai sensi dell’Ifrs n. 5 o dello Ias n. 36).
5. Osservazioni finali Da quanto riportato nei paragrafi precedenti, oltre a vari punti di differenziazione rispetto all’attuale trattamento contabile italiano (peraltro destinati ad essere presto assorbiti perlomeno parzialmente mediante attuazione – rectius: recepimento – del processo di modernizzazione a valere sulle direttive comunitarie, settima e quarta, in materia di bilanci societari), si evincono agevolmente importanti elementi di novità nel trattamento contabile internazionale delle subsidiary entity, di seguito riassunto in breve forma tabellare. Rilevazione delle partecipazioni in subsidiary entity
• nel bilancio consolidato
• nel bilancio separato
Regole di consolidamento integrale: - Aggregazione dei valori - Eliminazione delle partecipazioni interessate - Elisione delle partite infragruppo reciproche (crediti/debiti, ricavi/costi speculari) - Rettifica redditi infragruppo (non realizzati ma effetto di politiche di gruppo, con differimento d’imposta; salvo che si tratti di perdita espressiva di un’effettiva riduzione di valore).
Costo o ex Ias 39 (valore equo o fair value). L’Ifrs 1, come emendato nel maggio 2008 (efficacia gennaio 2009), prevede la facoltà di nuova iscrizione al deemed cost; v. Reg. CE n. 69/2009.
n.b. Sono regole pressoché analo- n.b. Se una subsidiary è classificata “as held for sale”, la sua rimisurazioghe a quelle previste nel Principio ne – solo ove fosse valutata al costo contabile nazionale n. 17, salvo e non invece ex Ias 39 – avviene ai alcune fattispecie come ad es. sensi dell’Ifrs 5 (detta controllata è l’allocazione e il trattamento delle comunque consolidata); v. Reg. CE differenze da consolidamento o n. 70/2009. l’esposizione delle interessenze, data l’opzione del full goodwill.
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Giova rimarcare che, a monte, è ormai da tempo eliminata dallo Ias 27 ogni causa di esclusione di una partecipazione di controllo dal perimetro di consolidamento (i cui confini risultano perciò allargati). Peraltro, l’applicazione del nuovo Ifrs n. 8 “Settori operativi” sembra possa riuscire mediante il c.d. full management approach (Angiola 2008) ad assicurare le informazioni necessarie ad un adeguato reporting esterno delle differenti attività svolte dalle imprese incluse in gruppi diversificati. Tuttavia, benché non sia prevista neppure l’esclusione per irrilevanza ai fini della rappresentazione veritiera e corretta (invece esplicita nell’art. 28 del decreto 127, sub a)), si potrebbe valutare se forse tale possibilità non sia implicita nel principio di materiality riferito nel Framework (invero, non omologato neppure con il Reg. CE 1126/2008 ss.). Un criterio non chiarito dal principio internazionale – nell’ambito delle regole sulle procedure di consolidamento – si rinviene poi nel possibile, o auspicabile, diverso trattamento da riservare ai redditi infragruppo, a seconda che siano maturati dalla capogruppo oppure dalle subsidiary. Nel silenzio dello Ias, si può pensare che nel caso in cui quei redditi afferiscano alla controllante essi debbano comportare rettifiche soltanto a valere sul patrimonio netto e sull’utile di pertinenza della capogruppo; mentre nell’ipotesi in cui si rapportino alle subsidiary, siano da rettificare anche le interessenze detenute dai terzi. Nella contabilizzazione delle partecipazioni di controllo, poi, le interferenze con l’Ifrs 3 appaiono cosa inevitabile se solo si considera che il fenomeno del gruppo è essenzialmente un fenomeno aggregativo (fatte salve le costituzioni per enucleazione, dove l’aggregazione è puramente formale). Lo standard novellato sulle business combination, notoriamente, non disciplina specificamente le operazioni under common control (cioè di mera natura riorganizzativa o, per così dire, d’interna gestione); nondimeno, queste ultime operazioni non rilevano ai fini del bilancio di gruppo essendo elise nella fase del consolidamento. Ed è da dire che è ora regolamentata un’ipotesi in più nello Ias 27: quella di una capogruppo che riorganizzi la struttura del gruppo mediante l’istituzione di una nuova entità quale sua controllante, con scambio di strumenti rappresentativi del capitale. Nella fattispecie, la nuova controllante dovrà contabilizzare nel suo bilancio separato la partecipazione nella capogruppo originaria in conformità al nuovo paragrafo 38(a); più esattamente, la nuova controllante valuterà il costo in base al valore contabile della propria quota di elementi di patrimonio netto come riportati nel bilancio separato della capogruppo originaria alla data della riorganizzazione. Si reputa però che tale ipotesi – assimilabile in certo modo a un pooling – probabilmente non riscontrerà una casistica reale molto vasta.
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Ancora, in relazione alla phase II sulle combinazioni interaziendali (restando al tema delle citate reciprocità tra standard diversi), non è da sottacere che le riforme da ultimo innestate nel corpo dello Ias 27 sono suscettibili di influenzare materialmente gli amministratori della holding nella scelta opzionale in ordine al full goodwill method (che si pone quale sorta di estrinsecazione d’un approccio contabile unitario o unificante “di tipo entity”, per così dire, multi-shareholder). Infatti, a ben vedere, da un lato l’iscrizione del full goodwill ex nuovo Ifrs 3 avrebbe l’effetto di proteggere l’equity del gruppo, dal momento che l’acquisto di interessenze di minoranza addizionali volte a rafforzare una situazione di controllo già esistente andrebbe a significare acquisto di azioni proprie. Proprio grazie al full goodwill method, peraltro, non si registrerebbe il gap tra il costo della quota marginale acquisita e il carrying amount delle interessenze terze espresse semplicemente a fair value (come invece previsto nel vigente Ias 27). Dall’altro lato, non va trascurato che il full goodwill – ove adottato con opzione esplicita – soffrirebbe del fisiologico rischio di incorrere in potenziali considerevoli impairment loss anche a cagione del deterioramento del valore (per giunta di non semplice determinazione) afferente agli interessi di terze economie (dunque in capo al goodwill relativo alle posizioni non di controllo)21. Circa le problematiche scaturenti dalla transizione ai principi internazionali in tema di partecipazioni, occorre tenere presente invece che nel maggio 2008 è stato emendato l’Ifrs n. 1 “First-time Adoption of IFRSs”22 per la parte che concerne la valutazione del costo di una controllata nel bilancio separato della parent. In particolare, è consentito al neo-utilizzatore (e cioè all’entità che presenta il primo bilancio redatto in conformità agli Ifrs) di adottare quale sostituto del costo (c.d. deemed cost) o il fair value (determinato in conformità allo Ias 39 alla data della transizione) o il valore contabile risultante in base alla legislazione locale/nazionale fin là rispettata, al fine di misurare il valore iniziale dell’investimento in subsidiary da esporre nel nuovo bilancio separato (in alternativa al costo ex Ias 27 se di non semplice determinazione). In conclusione, tutte le regole dianzi sintetizzate vogliono trovare ricomposizione in seno al più ampio processo di modernisation dei principi contabili internazionali, coniugando in modo il più possibile razionale impostazioni già consolidate (ad es.: criterio del costo) con logiche innovative (ad es.: fair value o full goodwill). La stessa bozza del nuovo standard sui bilanci di gruppo appena licenziata – Exposure Draft ED 10, tuttora in discussione – si prefigge di fare maggiore chiarezza sulle 21
Cfr. Bini (2008b, 32). Si osservi che nel novembre 2008 lo Iasb ha emanato una nuovissima versione dell’Ifrs 1, con improved structure, ma in pratica scevra di modifiche tecniche.
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molteplici regole concernenti i consolidated financial statement, divincolandole da quelle relative ai bilanci separati (che sole rimarrebbero, in futuro, nello Ias 27). Non diversamente, da alcuni anni si può assistere ad un percorso di ammodernamento anche per quanto concerne le direttive europee in materia di bilanci societari, con ovvio riverbero nella prospettiva degli ordinamenti contabili dei Paesi membri. Nei prossimi mesi (com’è noto), tra i compiti più caldi inseriti nell’agenda del governo italiano vi è proprio quello della statuizione di nuove norme civilistiche delegate tese ad accorciare le distanze (gap) – talvolta ancora piuttosto ampie per quelle imprese di dimensioni più modeste (pmi) non obbligate a redigere i bilanci Ias-Ifrs compliant – con gli standard internazionali (nell’attesa degli Ifrs ‘light’ per le small and medium-sized entity). Si pensi ad esempio, tra le altre, alla proposta dell’Oic (2008a) di inserire un comma ulteriore all’art. 26 del D.Lgs. n. 127/91, nell’obiettivo di affrontare il problema del trattamento, in sede di consolidamento, delle c.d. società veicolo (peraltro, è bene trarre insegnamento – pur non intendendo entrare troppo nel merito eziologico di talune recenti grosse crisi aziendali – che una delle più credibili cause dell’improvviso crack Enron stava proprio nell’esclusione dal consolidamento di tali speciali società; il colosso infatti perfezionava transazioni in perdita i cui risultati venivano esclusi dal bilancio giacché deviati a svariati veicoli di comodo). Ciò può comportare verosimilmente una migliore approssimazione tra il perimetro di consolidamento e il gruppo effettivo (ovverosia le coordinazioni economiche che effettivamente lo compongono), in ossequio al principio di prevalenza degli aspetti economico-sostanziali su quelli giuridico-formali e al principio di significatività (anche con l’effetto di ridurre ai minimi termini eventuali politiche di bilancio o scelte discrezionali dei redattori e arricchire l’informativa della nota integrativa). Le problematiche segnalate, in definitiva, appartengono specialmente alla sfera economico-valutativa di analisi; e in ordine ai criteri di volta in volta introdotti o emendati, non si può qui non rilevare che se da un lato essi possono essere considerati aderenti a quelle teorie contabili che nelle loro evoluzioni meglio interpretano la realtà aziendale e i mercati mondiali, dall’altro comportano costi amministrativi addizionali per le imprese più o meno elevati (per non dire delle presumibili difficoltà sul piano dell’aggiornamento e della capacità tecnica – nel senso della comparazione temporale delle informazioni – per gli user dei bilanci).
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I criteri applicativi di valutazione richiamati, nondimeno, devono essere oggi governati in modo meditato e conveniente anche alla luce delle vieppiù minacciose nubi che incombono dietro alle turbolenze dei mercati finanziari mondiali23; da ciò la necessità – perlomeno in periodi eccezionali come quello presente, manifestamente dominato da incertezza – di riconsiderare o ripensare il paradigma del fair value (Coronella 2008)24 viste le sue potenzialmente pericolose modalità mark to market, a beneficio sia degli approcci mark to model (stima del valore economico dei pacchetti partecipativi, piuttosto che del valore di mercato riflesso da depresse o ipervolatili quotazioni di borsa; sulla scia dei nuovi intenti del Fasb (2008)), sia del meno aleatorio, più rassicurante e perciò stabilizzante cost model.
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Si rinvia al documento dell’Oic, “Il fair value e la crisi dei mercati finanziari”, emanato nell’ottobre 2008. 24 A onor del vero, a quest’ultimo riguardo, l’Organismo internazionale ha adottato – sul finire del 2008 – un provvedimento eccezionale (emendamento allo Ias 39 immediatamente omologato con Reg. CE 1004/2008) che consente in rare circostanze (come ad esempio in corso di una crisi finanziaria su larga scala) di riclassificare i titoli detenuti per la negoziazione (trading o vendita) valutati al fair value con rilevazione di utili e perdite a conto economico (Fair Value through Profit and Loss) alla (più rassicurante) categoria dei finanziamenti e dei crediti (LR, Loans and Receivables), invece valutati al costo ammortizzato.
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