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Rivista di educazione, formazione e cultura 2008_XII_2 - â‚Ź 9

Universi giovanili

Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559 In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Alessandria che si impegna a pagare la tassa di restituzione



Rivista di educazione, formazione e cultura

anno XII, n째2 - Aprile, Maggio, Giugno 2008


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Rivista di educazione, formazione e cultura esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni

Anno XII, n° 2 - Aprile/Maggio/Giugno 2008 Direttrice responsabile Maria Piacente maria.piacente@pedagogia.it Redazione Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta, Coordinamento pedagogico Coop. Stripes. Comitato scientifico Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro Modini, Antonio Erbetta, Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa Hanno collaborato Carmen Leccardi, Maurizio Merico, Stefano Gastaldi, Enrico Miatto, Francesca Sartori, Francesco Pasetto, Raffaele Mantegazza, Alberto Terzi, Anita Gramigna, Marcello Dei, Elena Bruschi, Stefania Bartoli, Walter Brandani, Manuela Tomisich, Nadia Murgioni, Sara Cillani

Responsabile testata on-line Igor Guida - igor.guida@pedagogia.it Progetto grafico/Art direction Raul Jannone - raul@studioatre.it Promozione e diffusione Fabio Degani, Federica Rivolta Pubblicità Clara Bonfante Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45% ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - issn 1593-2559 Stampa: Impressionigrafiche S.c.s. Acquiterme (Al) - Tel. 0144-313350 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano Fotografie di Alberto Stanga

Edito da Stripes Coop. Sociale Onlus - www.stripes.it Direzione e Redazione Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057 e-mail: pedagogika@pedagogia.it Sito web: www.pedagogia.it

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Pedagogika.it/2008/XII_2/sommario

s o m m a r i o 5

Editoriale Maria Piacente

../temi_ed_esperienze 64

Emigrati in Patria Francesco Pasetto

../dossier/universi_giovanili 7

Introduzione

68 Una poetica della comprensione del mondo Anita Gramigna

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ra presente e futuro. T Nuove strategie biografiche giovanili Carmen Leccardi

73 Le ragioni della filosofia Salvatore Guida

21 La costruzione sociale del “giovane-adulto” Maurizio Merico 28

Il tempo precoce Stefano Gastaldi

34 Giovani al lavoro Progettualità esistenziale Enrico Miatto 44 La costruzione del genere tra i giovani Francesca Sartori 51 Assente ingiustificata Raffaele Mantegazza 55 I giovani: mondi possibili da scoprire Alberto Terzi

78 Luci ed ombre sul volto femminile di Cosa Nostra Elena Bruschi 86 Il laccio visibile. Stefania Bartoli 91

Perchè progettare? Walter Brandani, Manuela Tomisich

98 Integrazione e disabilità Nadia Murgioni ../cultura 104 108

A due voci Angelo Villa, Ambrogio Cozzi Scelti per voi Ambrogio Cozzi (a cura di)

116 Arrivati in redazione 62 Interviste doppie a cura di Gianluca Salvati

../In breve 119 Notizie fatti, eventi

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Numero di c/c postale 36094233 intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) L’abbonamento annuale per 4 numeri è: € 30 privati € 60 Enti e Associazioni € 90 Sostenitori Pedagogika.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al seguente indirizzo: Redazione Pedagogika.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi)

4 Per informazioni: Redazione Pedagogika.it Tel. 02/93.16.667 - Fax 02/93.50.70.57 - www.pedagogia.it - pedagogika@pedagogia.it


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Dopo tanto tempo Maria Piacente

E’ difficile dopo tanto tempo approdare a cambiamenti, soprattutto quando la propria identità oramai ben definita e riconoscibile viene da noi stessi, e dagli altri, riconosciuta ed apprezzata ed ha nel tempo lasciato segni e riscontri attraverso una fitta rete di incontri, scambi, relazioni che hanno fatto diventare Pedagogika.it quello che è. Ma noi sappiamo che l’identità è qualcosa che è sempre in divenire, che per aprirsi al mondo ed a quello che di nuovo si impone per tutte e per tutti occorre uscire fuori, andare per le strade, bagnarsi quando piove, volgersi al sole quando brilla, ascoltare e contaminarsi. Insomma vivere ed essere capaci di uscire dagli stereotipi: aprirsi alle nuove relazioni e cambiare per divenire quello che si è. Quello che noi abbiamo ascoltato e capito ci ha dato la spinta per ragionare e riflettere su cosa potevamo fare di meglio in considerazione delle nostre possibilità e delle nostre competenze, tenendo presente che il nostro filo rosso, il filo conduttore, è stato finora, e così vogliamo che sia in futuro, quello dell’ascolto, aperto alla relazione. Cerchiamo ogni volta di cogliere qualcosa del mondo che ci riguarda tutti e tutte, cerchiamo anche, a volte senza riuscirci, di tenere le distanze da quella parte dell’accademia che insiste nel parlare di, in luogo di parlare con. E non è una mera questione linguistica in questo numero troverete la recensione fatta all’ultimo saggio scritto da Luce Irigaray La via dell’amore che invito a leggere e permettetemi di anticipare che è meglio non lasciarsi trascinare a commenti del genere: “... si, l’amore... ma la vita quotidiana è un’altra cosa...”. No, invece, la vita è proprio quello! Se si vuole, veramente, viverla occorre cercare di sapere ascoltare e cogliere quello che è davvero importante per noi. Un anno fa, in un nostro Dossier dal titolo “Sapere ed esperienza”, ci siamo interrogati sullo iato che ancora oggi, a fronte del lavoro e degli insegnamenti di tanti pedagogisti, persiste tra quello che si sa e quello che, di quel sapere, riusciamo a mettere in pratica nella nostra vita quotidiana: saperi che dovrebbero trovare cittadinanza nelle case, nelle piazze, nei contesti politici, sociali, sindacali. Per ognuna e ognuno di noi. Per migliorare la nostra vita. Noi abbiamo cercato, sperando di migliorare, attraverso lo spazio più ampio consentito da questo nuovo formato della rivista, di offrirvi uno strumento che si occupa di “cose di pedagogia”, più agile nella veste editoriale e più corposo nei contenuti, affrontati ora con maggiore approfondimento e riflessione. La gioia con la quale hanno lavorato tanti nostri fidati collaboratori sia nel corso di questi dodici anni di pubblicazione, sia attraverso la cura sollecita ed attenta di molti di noi, ha permesso l’uscita di questo numero che avete ora nelle vostre mani. In itinere ci

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saranno ancora piccoli cambiamenti e miglioramenti che potrete suggerirci anche voi, scrivendo alla nostra redazione della quale potrete trovare l’indirizzo e-mail sul colofon a pagina 2 vi assicuriamo che troveranno la giusta attenzione. Abbiamo anche un desiderio... Cosa ci aspettiamo ? Come sapete la rivista è edita dalla Cooperativa Sociale Stripes Onlus che da più di venti anni si occupa di formazione e gestione di servizi educativi, per la prima infanzia e per gli adulti. Molte e molti, educatori, psicologi, pedagogisti, assistenti sociali lavorano con noi e contribuiscono al successo della rivista. Abbiamo, però, bisogno di ampliare il numero dei nostri abbonati; sappiamo di tante fotocopie fatte nelle varie università, ma chi di noi, da studente, non l’ha fatto? Abbiamo anche fatto in modo, per spirito di militanza culturale, che tante biblioteche e Centri di documentazione continuassero a ricevere puntualmente la rivista per molto tempo. Ora vi chiediamo uno sforzo: abbonatevi, sosteneteci per la pubblicazione. Vogliamo contribuire a migliorare la nostra società, anche nei vari contesti educativi. Questo nuovo numero, di 120 pagine, abbiamo scelto di dedicarlo ai più giovani. Agli Universi Giovanili che devono essere attraversati dai giovani e dalle giovani del nostro tempo perché possano lasciare i loro segni nel Mondo. Vi ringrazio e vi ringraziamo.

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Universi giovanili “Dio è morto, Marx è morto... e anch’io non mi sento molto bene”. La battuta di Woody Allen, posizionata nel dibattito sulle nuove generazioni, potrebbe essere usata per descrivere la condizione giovanile, secondo l’immagine che viene normalmente data dai mass-media, da numerosi studi e maitre à penser: le ideologie, con il loro bagaglio di valori, sogni e attese per la propria vita e per quella della società, si sono dissolte, la politica e la religione sono in fondo alla scala degli interessi dei giovani, il loro grado di sfiducia nelle istituzioni è sempre più elevato, la loro partecipazione ai processi democratici, storicamente e tradizionalmente intesi, è invece sempre più bassa; siamo in presenza di una generazione di giovani sempre più disincantati-disillusi-delusi dalle promesse di cambiamento, di una vita migliore e di una società più giusta, fatte dalle generazioni precedenti. Il futuro, visto dai loro occhi secondo una tale ottica, appare come un orizzonte completamente incerto, aperto, peraltro, alle ipotesi peggiori. Ma non è che questa visione delle cose è frutto principalmente del pessimismo di una società adulta fortemente in crisi, incapace di adottare nuovi e diversi strumenti interpretativi e operativi? Su queste basi allora il dibattito sui giovani, sul loro presente e futuro può svilupparsi sul tema “i giovani come problema o i giovani come risorsa”: il pessimismo “tradizionale” della ragione, costruito sulla scorta di un pensiero legato a categorie e valori storici, e, secondo alcuni, intriso di un “eccesso di psicologia nella vita quotidiana”, focalizza l’attenzione sulle questioni del disagio giovanile e propone soprattutto interventi di prevenzione; l’ottimismo (sempre e comunque della ragione), muovendo da una critica profonda alla visione precedente e al mondo attuale degli adulti, dà invece credito alle nuove generazioni: bisogna però essere capaci di reinterpretare il loro bisogno di partecipazione alla vita sociale e di promuovere il loro benessere come elemento propulsivo dell’intera società.

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Tra presente e futuro Occorre chiedersi se e in che misura la relazione fra progetto, tempo biografico e identità che il differimento delle gratificazioni presuppone possa essere ancora considerata valida in un clima sociale, come quello contemporaneo, dove la componente dell’incertezza tende a dominare, e dove i vissuti di contingenza lievitano.* Carmen Leccardi*

Il meccanismo definito “differimento delle gratificazioni” – la repressione degli impulsi edonistici, la determinazione a rinviare in là nel tempo la possibile soddisfazione che il presente può garantire in vista dei benefici che il futuro può garantire – è stato tradizionalmente alla base dei processi di socializzazione. Se consideriamo quella giovanile una fase biografica di preparazione alla vita adulta, il differimento delle gratificazioni appare come la chiave di volta per garantirne il successo. In questa prospettiva, infatti, è grazie alla capacità di vivere il presente in funzione del futuro, utilizzando il tempo quotidiano come essenziale strumento per la realizzazione dei progetti che il processo di transizione può avere esito positivo. Qui il presente non è soltanto un ponte tra il passato e il futuro, ma la dimensione che ‘prepara’ il futuro. Allo stesso modo il tempo di vita giovanile, grazie alla relazione positiva con il presente costruita intorno al divenire che esso prefigura, può essere rappresentato come un tempo di attesa attiva, una fase che deve consentire una transizione a sua volta positiva all’età adulta. L’identità personale, come conseguenza, si costruisce intorno ad una proiezione di sé in là nel tempo (Chi voglio diventare?) grazie alla quale non solo il passato ricava luce, ma viene anche tollerata l’eventuale frustrazione che può accompagnare le esperienze nel presente. Se dunque il futuro è considerato come la dimensione depositaria del senso dell’agire; se è rappresentato come il tempo strategico nella definizione di sé, il veicolo attraverso il quale, in diretta congiunzione con il passato, prende forma la narrazione biografica, allora la posticipazione della gratificazione può essere accettata. In questa prospettiva, il futuro è lo spazio per la costruzione di un progetto di vita e, insieme, per la definizione di sé: progettando che cosa si farà in futuro si progetta anche, in parallelo, chi si sarà. In sostanza, la prospettiva biografica cui il differimento delle gratificazioni rinvia implica la presenza di un orizzonte temporale esteso, una forte capacità di autocontrollo, una condotta di vita in cui la programmazione del tempo risulta cruciale1. Il tempo quotidiano va accuratamente investito e fatto fruttare in analogia al denaro, va programmato e il suo uso razionalizzato. Max Weber ha scritto pagine memorabili su questo specifico orientamento all’azione ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo2. * Una diversa versione di questo articolo è stata pubblicata in La società degli individui, n.25, 2006. 1  A. Cavalli, ‘La gioventù: condizione o processo?’, Rassegna Italiana di Sociologia, n. 4, 1980. 2  M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965 (ed. or. 1922).

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Continua ad accadere che questo meccanismo venga dato per scontato e che le nuove condizioni temporali dell’agire, benché evocate sovente nel discorso comune e anche nella comunicazione mediatica, non siano adeguatamente messe a tema nella riflessione sulle costruzioni biografiche giovanili3. Occorre chiedersi, ad esempio, se e in che misura la relazione fra progetto, tempo biografico e identità che il differimento delle gratificazioni presuppone possa essere ancora considerata valida in un clima sociale, come quello contemporaneo, dove la componente dell’incertezza tende a dominare, e dove i vissuti di contingenza lievitano4. Quando infatti l’incertezza aumenta oltre una certa soglia e si associa non solo all’idea del futuro, ma alla stessa realtà quotidiana mettendone in discussione la dimensione data-perscontata, allora al ‘progetto di vita’ viene sottratta la sua propria base. Inoltre, là dove il mutamento, come accade ai nostri giorni, è straordinariamente accelerato e il dinamismo, la capacità di performance sono imperativi; dove l’immediatezza è un parametro per valutare la qualità di un’azione, investire sul futuro a lungo termine finisce per apparire tanto poco sensato quanto procrastinare la soddisfazione. Più che rinunciare alle gratificazioni che il presente può offrire conviene allora addestrarsi a ‘cogliere l’attimo’, non chiudere le porte all’imprevisto, disporsi mentalmente in termini positivi nei confronti di un’indeterminatezza che si carica di potenzialità. In questo orizzonte temporale compresso, il significato stesso dell’età giovanile si trasforma. Chi la vive tende ad apprezzarla più per quello che può offrire nel presente piuttosto che per il tempo futuro che essa virtualmente dischiude. Come conseguenza, i desideri e le esigenze si strutturano intorno al presente: la ‘buona vita’ non è più basata su impegni di lunga durata, l’idea di stabilità perde di valore5. Per comprendere in modo adeguato la profondità di queste trasformazioni, concentrerò qui la mia attenzione in primo luogo sugli accenti e i tratti semantici nuovi che caratterizzano la dimensione del futuro, avendo cura di chiarire preliminarmente le modificazioni di significato che hanno investito la concezione dell’avvenire nella traiettoria verso la modernità. In un secondo momento, mi soffermerò sulle trasformazioni contemporanee nel modo di concettualizzare il corso di vita giovanile e il progetto biografico. Utilizzando anche i risultati di una recente ricerca condotta in Italia sulla relazione tra giovani e temporalità a cui ho personalmente preso parte6, rifletterò infine sulle nuove forme di progettualità giovanile, frutto della crisi sia della concezione della gioventù come fase di transizione all’età adulta sia del meccanismo del differimento delle gratificazioni che ne è alla base. 3  Mi permetto di rinviare, a questo riguardo, a C. Leccardi, ‘Facing Uncertainty. Temporality and Biographies in the New Century’, Young. Nordic Journal of Youth Research, vol. 13, n. 2, 2005. 4  Vedi M. Rampazi (a cura di), L’incertezza quotidiana. Politica, lavoro, relazioni nella società del rischio, Milano, Guerini, 2002 oltre all’ormai classico Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, il Mulino, 1999. 5  Cfr. H. Rosa, ‘Social Acceleration: Ethical and Political Consequences of a Desynchronized HighSpeed Society’, in Constellations, vol. 10, n.1, 2003. 6  I risultati della ricerca sono pubblicati in F. Crespi (a cura di), Tempo vola, Bologna, il Mulino, 2005.

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Futuro e coscienza del tempo Gli orientamenti temporali sociali possono essere considerati un indicatore delle differenti “epoche cognitive” dell’umanità, dei diversi modelli del mondo che si susseguono nel corso del processo di civilizzazione. Come Norbert Elias ha chiarito7, la coscienza temporale, il modo di concepire e di vivere il tempo non è né un dato biologico né un dato metafisico. Si tratta, piuttosto, di una dimensione sociale che muta con il succedersi delle generazioni, in accordo al loro diverso habitus, alle diverse condizioni di sviluppo delle società in cui esse si trovano a vivere. La capacità di temporalizzare, in accordo a questa interpretazione, sarebbe l’esito di un lungo e faticoso percorso evolutivo, su scala plurisecolare, che procede dal concreto in direzione dell’astratto. Più le società si differenziano, in altre parole, più i concetti temporali tendono all’astrazione, ad un più alto grado di sintesi concettuale. In questo processo, anche il modo di interpretare e di correlare il passato, il presente e il futuro appare come una variabile. Esso si trasforma, secondo Elias, sulla base di un’analoga tendenza, in base alla quale il baricentro dell’attenzione si sposta dalla concretezza del presente ad una dimensione, come quella del futuro, non immediatamente sperimentabile, solo immaginaria, ma capace di esercitare una forte influenza su tutte le attività. In epoca moderna è in effetti il futuro a diventare il nuovo centro della prassi umana, la posta in gioco, il rischio e la sfida con cui confrontarsi8. Per la prima volta, con la modernità, vengono meno istanze extra-storiche a cui deputare la sua creazione: il futuro è sottoposto al dominio umano, dipende interamente dall’agire dei soggetti. Lo stesso accade per la storia. L’uno e l’altra vanno costruiti e progettati. In questa cornice, il progresso (mondano) prende il posto della perfezione (spirituale). In accordo al profondo ottimismo dell’ideologia del progresso, un’ideologia che ha permeato in modo massiccio, dalla metà del Settecento alla metà circa del Novecento, la vita dell’Occidente, il controllo sull’avvenire è dato per scontato. Il tempo aperto, irreversibile del futuro procede, senza incertezze, in direzione di un indiscusso miglioramento. E’ da questo tempo aperto alla ‘novità’ e all’innovazione che origina la nuova identità temporale delle società occidentali. L’attenzione converge ora sull’autonomia dell’individuo: non più la sua posizione ascritta, come nelle società pre-moderne, ma la sua capacità di progettazione personale diventa fonte primaria di identità e principio organizzatore della biogra7  N. Elias, Saggio sul tempo, Bologna, il Mulino, 1986. 8  L’idea moderna di futuro alla quale siamo soliti riferirci – una dimensione separata dal presente e distinta dal passato, controllabile e pianificabile – nasce in epoca relativamente recente, a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo, con l’affermarsi della concezione lineare del tempo nella regione culturale europea. Cfr. A. J. Gourevitch, Le temps come problème d’historire culturelle, in P. Ricoeur et al., Les cultures et le temps, Paris, Payot/Unesco, 1975.

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fia. Il futuro si delinea qui come un orizzonte temporale influenzabile soggettivamente, come uno spazio di sperimentazione. Il divario fra “ciò che accade e ciò che si può fare”, l’esigenza di colmarlo è del resto, come è stato sottolineato, alla base dell’idea stessa di individuo moderno9. A partire dal secondo dopoguerra, e con una progressiva accelerazione, questo vissuto di incertezza si trasforma in vero e proprio atteggiamento difensivo. Il futuro inizia ad essere più temuto che vagheggiato; il suo pensiero finisce spesso per essere esorcizzato. L’espressione ‘crisi dell’avvenire’ sintetizza bene questo diffuso malessere10. Rischi globali e crisi del futuro Nella modernità contemporanea questo nuovo sentimento del futuro si consolida. E’ questa infatti l’epoca dei rischi globali11: crisi ambientale, terrorismo internazionale, minacce economiche di tipo planetario, nuove modalità di diseguaglianza sociale, a partire dalla povertà crescente di aree sempre più vaste del pianeta e, ad essa intrecciate, nuove forme di sottoccupazione e precarizzazione del lavoro dai riflessi devastanti sul piano esistenziale. In questo scenario incerto e globalizzato c’è sempre meno spazio per principi come la sicurezza, la controllabilità e, soprattutto, il miglioramento costante che hanno concorso a disegnare il profilo sociale della ‘prima’ modernità. A differenza di questa modernità, che può essere considerata espressione del progetto illuminista di superamento dell’idea di limite – di ogni limite, a partire da quelli legati alla conoscenza - la modernità contemporanea ci obbliga a confrontarci con l’irrealizzabilità dell’idea di controllo12. Se il futuro cui guarda la prima modernità è il futuro aperto, il futuro della nostra modernità è il futuro indeterminato e indeterminabile, governato dal rischio. Soffermiamoci brevemente su questa dimensione, che si rivela di importanza strategica per comprendere la portata dei mutamenti intervenuti nell’interpretazione e nel vissuto del futuro. Il rischio appare, in questo scenario, più come esito della perdita di relazione fra intenzione e risultato, fra razionalità strumentale e controllo piuttosto che, nell’accezione scientifica comune, come relazione fra un evento e la probabilità che esso si verifichi. Mentre per una lunga fase sociale con il termine rischio veniva sostanzialmente concettualizzata una modalità di calcolo di conseguenze non prevedibili, nella modernità dei nostri giorni la riflessione sui rischi impone strumentazioni concettuali di altro tipo. Questi rischi non appaiono infatti governabili attraverso i metodi della razionalità strumentale; sono rischi di 9  Z. Bauman, Searching for a Centre that Holds, in M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson (a cura di), Global Modernities, London, Sage, 1995. 10  Vedi K. Pomian, La crisi dell’avvenire, cit. 11  Cfr. U. Beck, World Risk Society, Cambridge, Polity Press, 1999. 12  C. Leccardi (a cura di), Limiti della modernità. Trasformazioni del mondo e della conoscenza, Roma, Carocci, 1999.

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portata globale, umanamente prodotti, di difficile prevenzione e dunque particolarmente minacciosi. Da terra promessa, l’avvenire si trasforma in uno scenario a tinte fosche, quando non apertamente minacciose. Nuove forme di temporalizzazione Se intendiamo, con il termine temporalizzazione, quella prospettiva in base alla quale passato e futuro, esperienze e aspettative, debbono essere continuamente rapportate le une alle altre e coordinate sempre di nuovo, non è difficile rendersi conto che in un’epoca di crisi del futuro la capacità di temporalizzare tende a frammentarsi. Analizzando i riflessi temporali delle condizioni di incertezza contemporanea afferma ad esempio Zygmunt Bauman13: “In passato, i periodi di tempo ricevevano il proprio significato dall’anticipazione di nuovi segmenti, ancora a venire, del continuum temporale; ora ci si aspetta che traggano il proprio senso per così dire dall’interno: che si giustifichino senza alcun riferimento al futuro, o con riferimenti soltanto superficiali. Gli intervalli di tempo sono disposti l’uno accanto all’altro piuttosto che in una progressione logica; non c’è una logica preordinata nel loro succedersi; possono cambiare posto facilmente, senza trasgredire alcuna regola ferrea: i settori del continuum temporale sono in teoria intercambiabili. Ogni singolo momento deve autolegittimarsi e deve offrire la massima soddisfazione personale”. Questa polverizzazione dell’esperienza del tempo porta con sé un’attenzione speciale nei confronti del presente14. Ancora una volta, i giovani sono un termometro particolarmente sensibile di queste trasformazioni. Già a partire dagli anni Ottanta del Novecento le ricerche sul tempo dei giovani15 registrano, ad esempio, il passaggio dal futuro al presente, in particolare il ‘presente esteso’, come area di potenziale governo del tempo sociale e individuale. Con il termine ‘presente esteso’ si intende quello spazio temporale che bordeggia il presente, uno spazio che acquista crescente valore via via che l’accelerazione temporale si diffonde in tutti gli ambiti della vita sociale, favorita, tra l’altro, dalla velocità dei tempi tecnologici e dall’esigenza di flessibilità che fa loro da corollario. Secondo Helga Nowotny, che ha approfondito questo concetto16, abolita la categoria ormai poco funzionale di futuro diventa necessario riformulare il concetto di presente, costituendolo come referente centrale degli orizzonti temporali contemporanei. In questa prospettiva, non più il futuro ma il presente più prossimo – quel lasso temporale sufficientemente breve da non sfuggire al dominio umano e sociale, ma anche sufficientemente ampio da consentire qualche forma di proiezione in là nel tempo – può diventare il nuovo tempo dell’azione. Nei quadri temporali di fine Novecento, in sostanza, il presente 13  Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 83. 14  S. Tabboni, Le radici quotidiane della rappresentazione del tempo storico, in M.C. Belloni ( a cura di), L’aporia del tempo, Milano, Angeli. 15  Vedi, per l’Italia, A. Cavalli (a cura di), Il tempo dei giovani, Bologna, il Mulino, 1985. 16  H. Nowotny, Tempo privato. Origine e struttura del concetto di tempo, Bologna, il Mulino, 1993.

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(ora più, ora meno esteso) appare come la sola dimensione temporale disponibile per la definizione delle scelte, un vero e proprio orizzonte esistenziale che, in un certo senso, include e sostituisce futuro e passato. In questo contesto appare chiara la consunzione cui è sottoposta l’idea stessa di progetto – possiamo definire qui il progetto come una forma di selezione, soggettivamente costruita, fra i molteplici “futuri virtuali” disponibili, capace di distillare, dalle fantasie e dai desideri che li sostanziano, obiettivi perseguibili, dotati di una chiara cifra temporale17. Ma si può ancora parlare di biografia in senso proprio in assenza di progetto? La prima modernità ha delineato uno scenario in cui non solo i due termini si presuppongono a vicenda, ma progetto collettivo e progetto individuale rappresentano due facce della medesima medaglia. Gli obiettivi del progetto collettivo - libertà, democrazia, uguaglianza, benessere economico - appaiono come le condizioni base per la realizzazione del progetto individuale. Le biografie, a loro volta, si strutturano intorno a questa coincidenza. La modernità contemporanea tende a cancellare, con l’idea di continuità temporale, anche quella di progetto. Ci troviamo così di fronte a costruzioni biografiche di carattere inedito, esterne a forme progettuali tradizionalmente intese. Una nuova semantica del futuro I riflessi di questi processi sui modelli di azione, sui modi di interpretare la realtà, sugli stili di vita e i modi di definizione dell’identità possono essere facilmente intuiti. In accordo al tema affrontato in questa sede, vorrei in particolare richiamare l’attenzione sul ruolo che questi mutamenti giocano nel rimettere a tema la stessa fase di vita giovanile. Per definizione, infatti, quest’ultima ha una doppia connessione con il tempo: da un lato è considerata una condizione temporanea, destinata a venir meno con lo scorrere del tempo; dall’altro, come abbiamo ampiamente sottolineato, i giovani sono socialmente richiesti di costruire forme di relazione positiva tra il proprio tempo di vita e il tempo sociale. Questa relazione si sostanziava, fino a qualche decennio fa (per i soggetti di sesso maschile), in fasi biografiche lineari e ben riconoscibili: dapprima la preparazione al lavoro attraverso la formazione scolastica; poi l’esercizio del lavoro remunerato, sorgente centrale di identità e contrassegno indiscusso dell’età adulta; infine il ritiro dal lavoro18. Oggi questa traiettoria biografica, capace di garantire una traiettoria prevedibile per l’ingresso nella vita adulta, costituisce non più la regola, ma l’eccezione. Per i giovani il processo di de-istituzionalizzazione del corso di vita, che trascina con sé anche la fine del concetto di ‘biografia normale’, comporta il venir meno 17  Ho approfondito il tema del progetto nel volume Futuro breve, dedicato allo studio delle forme progettuali delle giovani donne. C. Leccardi, Futuro breve. Le giovani donne e il futuro, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996. 18  Vedi M. Kohli, ‘Die Institutionalisierung des Lebenslauf. Historische Befunde und theoretische Argumente’, Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie, n. 37, 1987.

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di un aspetto sin qui determinante nella riflessione sulla condizione giovanile: l’identificazione della gioventù con un insieme di tappe, socialmente normate, che conducono progressivamente verso il mondo adulto. Queste tappe, abitualmente sintetizzate attraverso il termine ‘transizione’ identificavano la fase di vita giovanile con un ‘attraversamento’ guidato di passaggi di status. Qui la relazione tra individuo ed istituzioni era garantita dall’intreccio tra tempo di vita e tempo sociale, sulla base di una sequenza lineare ben riconoscibile. Si diventava adulti in senso pieno una volta coperto quel percorso che prevedeva, in rapida successione, ‘tappe’ quali la conclusione degli studi, l’inserimento nel mondo del lavoro, l’abbandono della casa dei genitori per una soluzione abitativa indipendente, la costruzione di un nucleo familiare autonomo e la nascita dei figli19. Oggi, sebbene questi eventi siano destinati prima o poi a verificarsi, è venuto meno tanto il loro ordine e la loro irreversibilità quanto la cornice sociale che ne garantiva il senso complessivo. Prima ancora che dalla sequenzialità, linearità e rapida successione delle singole tappe, questa cornice di senso era frutto del valore simbolico che, nel loro insieme, esse rivestivano nella vita dell’individuo giovane. Per loro tramite, infatti, mentre trovava conferma il carattere ‘a termine’ della fase di vita giovanile, potevano entrare in positiva congiunzione i due poli dell’autonomia (interiore) e dell’indipendenza (sociale). La gioventù concepita come fase di transizione, in una parola, permetteva di pensare il rapporto tra identità individuale e identità sociale come a quello tra due dimensioni non solo complementari, ma sovrapposte in modo praticamente perfetto. La certificazione della raggiunta autonomia interiore era garantita dal progressivo passaggio a gradi sempre maggiori di indipendenza, resi possibili dalla relazione con istituzioni sociali sufficientemente credibili e non frammentate. Oggi lo scenario generale è mutato. Le istituzioni sociali continuano a scandire i tempi del quotidiano, ma è venuta meno la loro capacità di garantire ai soggetti una dimensione fondamentale nella costruzione dell’individualità: il senso di continuità biografica. Come si è detto, nella ‘società del rischio mondiale’ una traiettoria socialmente normata verso l’età adulta si è smarrita20. Il punto di arrivo di questa traiettoria, a sua volta, è incerto non meno degli itinerari per raggiungerlo. La continuità biografica diventa allora frutto della capacità individuale di costruire 19  Vedi C. Buzzi, A. Cavalli e A. de Lillo, Giovani del nuovo secolo, Bologna, il Mulino, 2002. 20  La letteratura su questo aspetto è ormai vastissima. A titolo indicativo, cfr. J. Bynner, L. Chisholm L. e A. Furlong (eds.) Youth, Citizenship and Social Change in a European Context, Aldershot, Ashgate, 1997; A. Cavalli e O. Galland, (a cura di), Senza fretta di crescere L’ingresso difficile nella vita adulta, Napoli, Liguori, 1996; A. Furlong A. e F. Cartmel, Youth and Social Change. Individualization and Risk in Late Modernity, Buckingam-Philadelphia, Open University Press, 1997; C. Wallace e S. Kovatcheva, Youth in Society. The Construction and Deconstruction of Youth in East and West Europe, Houndmills - Basingstoke, Palgrave, 1998; J. Wyn e R. White, Rethinking Youth, London, Sage, 1997. Vedi anche C. Leccardi e E. Ruspini (eds.), A New Youth?, Aldershot, Ashgate, 2006. Per un’analisi dettagliata dei processi di trasformazione della condizione giovanile in Italia vedi i volumi curati dall’Istituto IARD negli ultimi vent’anni.

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e ricostruire sempre di nuovo cornici di senso, sempre nuove narrazioni nonostante la cornice temporale presentificata. L’obbligo all’‘individualizzazione’ delle biografie – alla ricerca delle soluzione biografiche più adatte per risolvere le contraddizioni sistemiche del momento – caratterizza, come conseguenza, la fase storica in cui viviamo21. Questo implica una nuova enfasi sull’auto-determinazione, sull’autonomia e sulla scelta (senza cancellare, ovviamente, i solchi profondi tracciati dalle differenze di classe, di appartenenza etnica e, su un piano forse meno appariscente ma non meno potente, quelle di genere). Per i giovani, tutto ciò si traduce nella conquista di nuovi percorsi di libertà e spazi di sperimentazione, ma anche nella perdita del carattere dato per scontato di una relazione positiva con il tempo sociale. Se è vero che l’allungamento della fase giovanile di vita ne costituisce certamente oggi l’aspetto più appariscente, la trasformazione decisiva consiste tuttavia nel venir meno della possibilità di ancorare le esperienze che i giovani compiono - in questa fase, come sappiamo, esse si susseguono con un’intensità esistenziale e un ritmo quasi irripetibile - al mondo delle istituzioni sociali e politiche. La crisi del futuro, e del progetto, che abbiamo preso in considerazione in queste pagine è diretta espressione di questa difficoltà. I giovani di fronte al futuro nella ‘società del rischio’ Al centro di questa crisi, per i giovani, c’è la deconnessione tra traiettorie di vita, ruoli sociali e legami con l’universo delle istituzioni capaci di dare forma stabile all’identità. Così, ad esempio, si può entrare nel mercato del lavoro, uscirne poco dopo e ancora rientrarvi senza poter identificare in questi ingressi una progressione verso l’assunzione dei ruoli adulti; o, per quel che riguarda gli studi universitari, interromperli, riprenderli e poi concluderli senza che l’acquisizione di credenziali educative superiori rappresenti una vera e propria ‘svolta’ sul piano biografico, un empowerment capace di aprire la via a situazioni esistenziali di segno nuovo: non solo sotto il profilo della stabilità del lavoro ma anche, ad esempio nell’Europa mediterranea, per quel che riguarda la scelta di vivere soli o con un partner, oppure di costruire un proprio nucleo familiare. In una parola, l’autonomia esistenziale si dissocia dall’acquisizione della indipendenza sociale ed economica. E’ tuttavia essenziale non limitare la riflessione esclusivamente agli aspetti di perdita, di riduzione delle possibilità di azione, associati ai processi di ridefinizione temporale della modernità contemporanea. Esiste infatti anche un diverso versante di questi stessi processi, una faccia in luce che occorre analizzare con altrettanta attenzione. Su di essa sono disegnate le strategie che i soggetti costruiscono per fare fronte a queste trasformazioni e, fin dove possibile, controllarle. Come anche la recente ricerca sui mutamenti dei modi di vivere la relazione con il tempo da parte 21  U. Beck e E. Beck-Gernsheim, Individualization. Institutionalized Individualism and its Social and Political Consequences, London, Sage, 2003.

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dei giovani – ricordata in apertura di queste riflessioni – ha messo in luce22, l’esito di questi importanti processi di ri-strutturazione della relazione tra giovani, tempo biografico e tempo sociale non si riduce all’assolutizzazione del presente immediato o alla glorificazione del qui-e-ora. Le identità non si declinano esclusivamente al presente. Diversi giovani sembrano ad esempio impegnati nella ricerca di modalità di relazione nuove tra il processo di creazione personale che al futuro è comunque associato e le condizioni di incertezza specifiche in cui esso è oggi vissuto. Il futuro viene dunque messo in relazione sia all’apertura potenziale - il futuro costituisce, oggi più che mai, lo spazio del divenire possibile - sia, al contempo, a un’indeterminazione associata sempre più frequentemente all’insicurezza. Dentro la virtualità che, per definizione, caratterizza l’avvenire (ciò che è in potenza, ma non in atto), si delinea, in altre parole, un intreccio peculiare tra l’ ‘anarchia del futuro’ , per utilizzare l’espressione di Elizabeth Grosz23, e l’esitazione, l’ansia, il desiderio, ora più, ora meno sotterraneo, di sostituire al progetto il sogno. Di fronte alla crescita di questi tratti ambivalenti del futuro, appare fondamentale la capacità di ciascuno/di ciascuna di elaborare strategie cognitive in grado di garantire il controllo sul tempo di vita nonostante l’aumento della contingenza: ad esempio sviluppando l’abilità di mantenere una direzione o una traiettoria anche se la destinazione finale non può essere anticipata. In una recente ricerca condotta tra giovani francesi e spagnoli dove un analogo orientamento biografico è emerso, esso è stato efficacemente definito “strategia dell’indeterminazione”24. Con questo termine si è inteso sottolineare la crescente capacità dei giovani con maggiori risorse riflessive (ad esempio gli studenti) di leggere l’incertezza del futuro come moltiplicazione delle possibilità virtuali, e l’imprevedibilità che all’avvenire si associa come potenzialità aggiuntiva invece che limite dell’azione. In altre parole, di fronte ad un futuro sempre meno ricongiungibile al presente attraverso una linea ideale che li unisce potenziandone reciprocamente il senso, una quota di giovani - forse non maggioritaria, ma certo culturalmente trainante - elabora risposte capaci di neutralizzare il timore paralizzante dell’avvenire. In modo analogo, una parte dei nostri intervistati, ragazze e ragazzi nella medesima misura, esprime in modo netto la tendenza ad aprirsi in positivo all’imprevedibilità, mettendo anticipatamente in conto la possibilità di cambiamenti di rotta anche repentini, di risposte da costruire in ‘tempo reale’, via via che le ‘occasioni’ si presentano. Il training alla velocità che i ritmi sociali impongono viene, in questo caso, ‘sfruttato’ al meglio: essere veloci diventa un atout, permette in positivo di ‘cogliere l’attimo’, di avviare una sperimentazione che può avere favorevoli ricadute sul tempo di vita nella sua interezza. 22  Vedi, in particolare, C. Leccardi, I tempi di vita tra accelerazione e lentezza, in F. Crespi (a cura di), Tempo vola, Bologna, il Mulino, 2005. 23  E. Grosz (ed.), Becomings. Explorations in Time, Memory and Futures, Ithaca and London, Cornell University Press, 1999. 24  A. Lasen, Le temps des jeunes. Rythmes, durée et virtualités, Paris, L’Harmattan, 2001, p. 90.

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Per questi giovani, l’incertezza del futuro significa allora disponibilità all’incontro con l’accidentale, con il fortuito – il ‘caso’ di cui molti tra i nostri intervistati e le nostre intervistate appaiono estimatori. Qui il controllo sul tempo biografico non si identifica con la capacità di portare avanti progetti specifici neutralizzando gli eventuali imprevisti che si incontrano sul cammino. Piuttosto, controllo equivale alla volontà di raggiungere gli obiettivi generali che ci si è posti - gran parte dei giovani, pur in assenza di veri e propri progetti esistenziali, possiede uno o più obiettivi di ampio respiro collocati nel futuro: per quel che riguarda il lavoro, la vita privata o, piuttosto, la ‘cura di sé’ à la Foucault25. L’aspetto innovativo di questa nuova costruzione biografica – che ha al proprio centro la tensione verso un ‘futuro senza progetto’ - è la capacità di accettare la frammentazione e l’incertezza dell’ambiente come dato non eliminabile, da trasformare in risorsa grazie ad un esercizio costante di consapevolezza e riflessività. Va subito sottolineato che coloro che esprimono questa strategia temporale appaiono specialmente ricchi di risorse – culturali, sociali e economiche. Se i soggetti dominanti della nostra epoca sono coloro che si differenziano in virtù della capacità di fare buon uso, a fini di potere, della velocità e della mobilità, questi giovani sembrano inserirsi sulla loro scia. Chi invece possiede risorse sociali e culturali scarse sembra soprattutto patire la perdita del futuro progressivo e della progettualità tradizionale della prima modernità. Per questi giovani, il futuro, fuori controllo, può essere soltanto azzerato, cancellato per far posto a un presente privo di fascino. Nel loro caso, come ha descritto bene Robert Castel riflettendo sull’individualismo contemporaneo, siamo di fronte a una forma di individualismo ‘per difetto’: qui l’individuo non possiede i supporti necessari per costruire la propria autonomia, ed è schiacciato su un’identità senza spessore temporale26. L’accelerazione sociale diventa allora, in modo palese, fonte di esclusione sociale, si traduce in una staticità patita. La maggior parte dei giovani, ragazzi e ragazze, in risposta alle condizioni sociali di forte insicurezza e di rischio trova soprattutto rifugio in progetti a breve e brevissimo termine, che prendono come area temporale di riferimento il ‘presente esteso’. Essi reagiscono al ‘tempo corto’ della società dell’accelerazione con una progettualità sui generis, che si esprime su archi temporali minimi e, anche per questo, appare decisamente duttile. In alcuni casi essa sembra configurarsi essenzialmente come reazione all’inquietudine che l’idea stessa del futuro evoca; in altri, assume la caratteristica di forme progettuali improntate alla concretezza – per lo più legate al portare positivamente a termine le attività già avviate – capaci di dare risposta sia al bisogno di padronanza sul tempo biografico in un ambiente veloce e incerto sia alla pressione sociale per risultati a breve termine. In quest’ultimo caso, la tipologia dei ‘progetti corti’ appare come una sorta di ‘terza via’ fra la speciale capacità di gestione della complessità propria del primo tipo di orientamento biografico preso in considerazione, capace di relazionarsi al futuro senza formulare progetti, 25  M. Foucault, Le souci de soi, Paris, Gallimard, 1984. 26  R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale, Paris, Fayard, 1995.

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e il riferimento esclusivo al presente di chi non riesce a costruire reazioni adeguate alla crescita di indeterminazione dell’avvenire. Questa ‘strategia della via di mezzo’ appare specialmente attraente perché, mentre non impedisce del tutto una proiezione nel futuro attraverso il progetto, risulta in sintonia con l’orientamento duttile reso necessario da un’epoca in cui i processi di mutamento sono rapidi e spesso imprevedibili. In conclusione: in un tempo in cui il futuro a medio-lungo termine non può essere messo a tema senza suscitare preoccupazione e spesso un sentimento di vero e proprio timore, un metodo di azione fondato sul ‘valutare di volta in volta’, sul ‘quando mi si aprono delle porte cercare di non chiuderle’, sul ‘cogliere le occasioni appena si presentano’ può rappresentare una strategia razionale per trasformare l’imprevedibilità in una chance di vita, per trasformare l’opacità del futuro in un’opportunità per il presente. Per disporsi in positivo verso il divenire. Se, in questo scenario, il meccanismo del differimento delle gratificazioni conferma la propria inadeguatezza come standard di riferimento per l’agire sociale, un numero crescente di giovani appare tuttavia capace di sostituirlo con modelli di azione costruiti intorno a nuove forme di disciplina temporale (ad esempio per periodo brevi, ma intensi, ‘a termine’), di programmazione e di controllo attento del tempo quotidiano. *Docente di Sociologia della Cultura, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Milano Bicocca

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La costruzione sociale del “giovane-adulto” Il sempre più frequente riferimento alla categoria di “giovane-adulto”, registrato negli ultimi anni, rischia di restituire una nuova immagine omologante di ampie fasce di popolazione. Il pericolo è quello di dare vita a un contenitore utilizzato, forse, perché “di moda”, ma che si fa fatica a riempire, in quanto la realtà con la quale ci si confronta non si lascia plasmare. Maurizio Merico*

In-coerenze La ricerca sociale ha spesso descritto l’universo giovanile ricorrendo a rappresentazioni e categorie omogenee. Questo si è verificato soprattutto in coincidenza con le fasi storiche in cui la presenza giovanile ha richiamato maggiormente l’attenzione degli adulti e delle istituzioni. Ciò ha prodotto, in misura sempre consistente, un corto circuito in cui il voler (e dover) individuare i tratti unificanti di una generazione ha distolto l’attenzione da ciò che, invece, si è manifestato in forme articolate e non preordinabili. Si è così delineato un percorso in cui ossessioni e silenzi hanno finito per fecondarsi mutuamente1. Pur non senza contraddizioni, a partire dagli anni ‘70 si è affermata la consapevolezza che le esperienze giovanili (e, più in generale, individuali) non possono essere ricondotte a un quadro coerente e unitario, poiché si articolano in percorsi plurali, ognuno dei quali ha la propria specificità e legittimità. Questo ha permesso alla ricerca sociale di analizzare sfere dei vissuti giovanili sino ad allora taciute. Il sempre più frequente riferimento alla categoria di “giovane-adulto”, registrato negli ultimi anni, rischia, però, di ricacciare indietro questo percorso e restituire una nuova immagine omologante di ampie fasce di popolazione. Il pericolo è quello di dare vita a un contenitore utilizzato, forse, perché “di moda”, ma che si fa fatica a riempire, in quanto la realtà con la quale ci si confronta non si lascia plasmare, non si fa ricomporre, rimane sfuggente. Il solo modo di poter utilizzare questo contenitore è, così, di recidere alcuni caratteri, lineamenti, sfumature della realtà analizzata, pur di dare coerenza al discorso. Si finisce, in modi certo diversi dal passato, per operare processi di omologazione che svuotano di senso le storie dei soggetti con cui la ricerca si confronta. Eppure, solo il riconoscimento della pluralità di quelle storie permette di comprenderne la profonda eterogenità2 e di analizzarne le complesse articolazioni3. 1  Merico M. (a cura di), Giovani come. Per una sociologia della condizione giovanile in Italia, Liguori,

Napoli, 2002; Merico M., 2004, Giovani e società, Carocci, Roma 2  Introini F., Pasqualini C., Compless-età. Dentro le storie degli adulti giovani, Carocci, Roma, 2005 3  Egris, “Misleading Trajectories: Transition Dilemmas of Young Adults in Europe”, in «Journal of Youth Studies», vol. 4, n. 1, 2001, 101-118.

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Tornano di estrema attualità le parole con cui Antonio Faeti4 nel 1981 apriva un numero monografico di Inchiesta: «A chi studia i giovani […] offro […] un invito alla cautela, all’attenzione, ad accettare il senso più profondo delle sconfitte esplorative, perché forse è più appagante una decifrazione cauta, sommessa, ma poco remunerativa, di una capace di aggredire e di modificare sapientemente addirittura l’oggetto (i giovani, il loro mondo) della ricerca». Per recuperare il significato di quelle parole: è così necessario cercare di mettere ordine? O è forse più utile (e, probabilmente, più coerente con i caratteri della società contemporanea) rappresentare la complessità per come essa è, dare spazio alle contraddizioni e alle incoerenze, anziché cercare di silenziarle in improbabili letture unidimensionali? Un compito non semplice, certo, ma pur sempre l’unico capace di restituire piena dignità alle vite quotidiane che attraversano le nostre riflessioni5 e alla stessa ricerca sociale. Appunti per una genealogia Proviamo, allora, a riannodare i fili, partendo dallo stesso concetto di “giovaneadulto”. La riflessione sviluppatasi negli ultimi anni attorno a questa categoria sembra essere viziata da una forma, in ogni caso non grave, di miopia. Molti ritengono, infatti, essa sia relativamente recente e ne individuano la nascita nella seconda metà degli anni ’80. Per rintracciarne le origini è, invece, necessario ritornare agli anni ’40, quando si è diffusa la consapevolezza di dover riconoscere ai soggetti non ancora adulti un periodo di formazione e sperimentazione dei ruoli più lungo rispetto al passato, al fine di permettere loro di acquisire le crescenti responsabilità richieste dalla società. Questo tema è stato ripreso dalle scienze sociali all’interno di un dibattito, proseguito sino agli anni ’60, incentrato attorno alla volontà di individuare gli strumenti più efficaci per garantire l’equilibrio tra la struttura sociale e i processi di trasformazione in atto. I giovani sembravano rappresentare l’anello debole di una dinamica attraversata dall’erosione dei tradizionali meccanismi di socializzazione e segnata da una distanza sempre più marcata tra il patrimonio culturale trasmesso dalle generazioni adulte e le competenze richieste a quelle più giovani6. Lungo questa impostazione, la “moratoria psico-sociale”7 e il prolungamento della giovinezza non erano solo coerenti con i caratteri assunti dalla struttura sociale ma erano anche ritenuti aspetti necessari a garantire il mantenimento dell’ordine sociale8. 4  Faeti A., “Un occhio di riguardo”, in «Inchiesta», vol. XI, n. 54, 1981, 1-11. 5  Gouldner A., 1975, La sociologia e la vita quotidiana (a cura di R. Rauty), Armando, Roma [1997] 6  Davis K., “The Sociology of Parent-Youth Conflict”, in «American Sociological Review», n. 5, 1940, 523-35; Parsons T., “Age and sex in the Social structure of the United States”, in «American Sociological Review», n. 7, October, 1942, 604-616; Eisenstadt S. N., 1956, Da generazione a generazione, Etas Kompass, Milano [tr. it. 1971]. 7  Erikson E., 1968, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma [tr. it. 1974] 8  Parsons T., 1962, I giovani nella società americana (a cura di M. Merico), Armando, Roma [2006]; Musgrove F., 1964, Youth and the social order, Routledge & Kegan, Londra

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L’introduzione della categoria di “giovane-adulto” nel lessico delle scienze sociali va, dunque, collocata in questo percorso di riflessione, all’interno del quale è stata utilizzata per identificare il crescente numero di individui accomunati dalla segregazione in processi formativi sempre più lunghi, dal differimento dell’ingresso nel mondo del lavoro e alla procrastinazione del matrimonio e della genitorialità9. Non sembra, comunque, possibile individuare, sino a tutti gli anni sessanta, un uso sistematico del termine10. Per una lunga fase, esso ha rappresentato una cornice di riferimento all’interno della quale comprendere le ragioni per le quali ampie fasce di popolazione ritardavano il loro ingresso nell’età adulta, dando vita a quella che Kenneth Keniston ha definito “gioventù post-moderna”: una condizione nella quale «il più lungo indugio possibile prima di fare un salto in uno specifico ruolo sociale finisce con l’essere la cosa più saggia da farsi»11. D’altro canto, quella lunga moratoria concessa ai giovani era ulteriormente legittimata da una considerazione (per certi versi, un ideale) che ha per lungo tempo attraversato il dibattito pubblico: “i giovani sono il futuro della società”. Una formula che ha funzionato da esortazione rivolta alla società degli adulti affinché fornisse alle nuove generazioni le risorse necessarie a crescere, ma anche come un’ingiunzione nei confronti degli stessi giovani, nel tentativo di legarli indissolubilmente ad un vincolo intergenerazionale12. Ricostruire, seppur brevemente, questo scenario è essenziale per verificare le modalità attraverso le quali si è poi tornati, due decenni dopo, a utilizzare la categoria di “giovane-adulto” nel dibattito delle scienze sociali, in special modo in Italia. Questo è accaduto proprio quando l’ideale della giovinezza come immagine del futuro ha visto venire meno il sostrato (sociale, economico e culturale) che lo sosteneva e comunque in un contesto radicalmente diverso: se, come abbiamo visto, negli Stati Uniti dei primi anni ’60, il termine era stato proposto in una società che cercava di tenere testa alla trasformazione, a partire dagli ‘80 lo si usa in riferimento ad una società che sembra quasi essere alla rincorsa di se stessa, incapace di garantire e dare sostanza ad una forma, anche provvisoria, di solidarietà tra le generazioni. Come ha ricordato Roberta Bonini13, con specifico riferimento al nostro Paese, «con la locuzione giovani-adulti si indicano quei giovani che protraggono la coabitazione con i genitori» nella famiglia lunga sino ed oltre i trent’anni14. Si è cioè 9  Mead M., “The young adult”, in Ginzberg E., Values and Ideals of American Youth, Columbia University Press, New York, 1961, 37-51 10  Cicchelli V., Merico M., Pugeault C., Le mots pour le dire. Généalogie des catégories d’adolescence et de jeunesse aux Etats-unis, en Grande Bretagne, en France et en Italie (1940-2000), Cnaf, Parigi, 2002. 11  Keniston K., 1968, Giovani all’opposizione, Einaudi, Torino [tr. it. 1972]. 12  Cicchelli V., “Les jeunes adultes comme objet théorique», in «Recherches et prévisions», n. 65, 2001a, 5-18 13  Bonini R., Una transizione generativa. I giovani-adulti volontari, LED, Milano, 2005 14  Eugenia Scabini e Pierpaolo Donati (a cura di), La famiglia lunga del giovane adulto: verso nuovi

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utilizzato un termine specifico, sebbene non nuovo, per identificare quella che si riteneva fosse una nuova età della vita. Se però analizziamo le modalità attraverso le quali si è articolato storicamente il corso di vita in Italia, possiamo evidenziare come il fenomeno della lunga permanenza nella famiglia dei genitori non costituisca una novità assoluta: esso si era già manifestato nella prima metà del 1900, sino agli anni ’40, prima di registrare una inversione di tendenza tra gli anni ’50 e ’7015. Occorre, perciò, interrogarsi sulle specificità di quanto è accaduto nell’ultimo trentennio, per evitare di assimilare situazioni e contesti profondamente diversi. Intrecci Proviamo a fermare l’attenzione sulle dinamiche attuali, partendo da alcuni dati generali. In Italia il fenomeno della lunga permanenza in famiglia è ampiamente diffuso e coinvolge, secondo i dati Istat16, il 60% (poco meno di otto milioni) dei soggetti di età compresa tra i 18 e i 34 anni, con una significativa prevalenza dei maschi (66%) rispetto alle femmine (53%). Si tratta di un fenomeno che ha fatto registrare una crescita costante nel corso degli ultimi tre decenni, sebbene si inizi a intravedere una prima inversione di tendenza17. Inoltre, se analizziamo i dati relativi ai tempi di permanenza nella casa dei genitori, l’Italia si colloca al primo posto della graduatoria europea, seguita dai Paesi dell’est e dell’area mediterranea, quindi dai Paesi centro-europei e, infine, dai Paesi del Nord-Europa18. Dietro i dati sopra ricordati si nascondono, però, una realtà profondamente eterogenea ed alcuni elementi peculiari: se un terzo dei 18-34enni che vivono con i propri genitori è ancora nella condizione di studente, uno su sei è in cerca di occupazione; la metà ha, invece, un’occupazione. D’altra parte, man mano che si scende dal Nord al Sud della penisola la proporzione di giovani che vivono in famiglia tende a crescere (sebbene le differenze non siano poi eccessivamente pronunciate). Allo stesso modo, tale proporzione cresce progressivamente passando dai piccoli centri alle città di medie dimensioni sino a quelle con più di cinquantamila abitanti, in particolare nelle aree periferiche. Queste macro-differenze sono, a loro volta, ulteriormente segmentate. Valga come esemplificazione emblematica il dato relativo ai soggetti occupati e in cerca di occupazione che vivono con i propri genitori: compiti evolutivi, Milano : Vita e Pensiero, Milano, 1988 15  Schizzerotto A., (a cura di) Vite ineguali. Disuguaglianze e corsi di vita nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2002 16  Istat, Indagine multiscopo sulle famiglie. “Famiglia e soggetti sociali”. Anno 2003, «Informazioni», n. 18/2006. 17  Buzzi C., Cavalli A., de Lillo A., (a cura di) Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione in Italia, Il Mulino, Bologna, 2007 18  Saraceno C., Olagnero M., Torrioni P., First European Quality of Life Survey: Families, work and social networks, Eurofound, Dublino, 2005

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essi sono rispettivamente il 60 e il 10% al Nord, il 30 e il 27% al Sud19. In ogni caso, si conferma la tendenza secondo la quale i giovani italiani lasciano la casa dei genitori solo in coincidenza con il matrimonio e seguono in larga maggioranza una biografia “normativa” (o “tipica), ovvero una traiettoria che prevede il superamento delle soglie di ingresso all’età adulta secondo un ordine tradizionale: fine degli studi, ingresso nel mondo del lavoro, indipendenza abitativa e matrimonio, genitorialità20. Fermarsi alle sole dimensioni strutturali sarebbe estremamente riduttivo. È necessario interrogarsi anche sulle ragioni che inducono i giovani a fermarsi a casa. Su questo il pericolo di fraintendimenti o, peggio, di demistificazioni è sempre presente. Indubbiamente, i giovani italiani dimostrano un attaccamento alla dimensione familiare molto pronunciato, confermato dalle numerose analisi sui loro modelli valoriali: la famiglia costituisce, infatti, un riferimento irrinunciabile, attorno al quale ruota la costruzione identitaria dei singoli. Rispetto a questo, le trasformazioni delle relazioni familiari, ovvero «la presenza di stili educativi tolleranti e collaborativi, l’ampia autonomia concessa ai figli e il ridotto controllo esercitato sul loro tempo libero, le scarse richieste provenienti dai genitori riguardo alla gestione domestica della casa e alla partecipazione alle spese familiari [...] possono in parte spiegare la “pigrizia” delle nuove generazioni ad accollarsi gli oneri della vita adulta»21. D’altro lato, lungo queste dinamiche i genitori riconquistano una centralità nella vita dei propri figli che era sembrata venire meno nei decenni precedenti. All’interno della famiglia si viene così a determinare un “reciproco scambio” tra le due generazioni conviventi, ognuna delle quali cede e ottiene qualcosa dall’altra, in termini di affetto, sostegno (economico e materiale) e riconoscimento22. Affinché le rappresentazioni sui giovani che vivono in famiglia non si trasformino silenziosamente in stereotipo (il riferimento è, nello specifico, all’immagine del giovane italiano “mammone”) occorre prestare, dunque, attenzione alla pluralità dei fattori che entrano in gioco. Si tratta, cioè, di tenere presente che alla base dell’espansione del fenomeno della famiglia lunga vi sono anche processi strutturali più generali: le caratteristiche dei mercati del lavoro (lungo le molteplici articolazioni territoriali) e del sistema di istruzione (nel quale i giovani italiani spendono molto più tempo dei loro coetanei in Europa), ma anche il costo crescente degli alloggi e la più generale dinamica dei prezzi, la trasformazione dei ruoli di genere, dei modelli familiari e di quelli riproduttivi23. 19  Istat, 2006, Indagine multiscopo sulle famiglie. “Famiglia e soggetti sociali”. Anno 2003, cit. 20  Schizzerotto A., (a cura di) Vite ineguali. Disuguaglianze e corsi di vita nell’Italia contemporanea, op. cit. 21  Buzzi C., Cavalli A., de Lillo A., (a cura di) Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione in Italia, cit. 22  Cicchelli V., La construction de l’autonomie. Parents et jeunes adultes face aux études, Paris, PUF, 2001b 23  Santoro M., A casa con mamma. Storie di eterni adolescenti, Unicopli, Milano, 2002; Facchini C., (a cura di) Diventare adulti. Vincoli economici e strategie familiari, Guerini, Milano, 2005; Cesareo V., (a cura di)

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Aspetti di natura culturale, strumentale, normativa e strutturale finiscono, così, per intrecciarsi in modo inestricabile, rendendo la scelta di continuare a vivere «a casa con mamma» profondamente razionale e, forse, l’unica alternativa possibile: un percorso che emerge in modo evidente quando si chiede ai giovani di indicare le ragioni per le quali non vanno a vivere per proprio conto24. Sembra quasi di trovarsi di fronte a una generazione per la quale l’ingresso nell’età adulta si realizza lungo due binari divergenti: da un lato una piena autonomia nella definizione dei propri stili di vita, dall’altro la totale assenza di forme di indipendenza (economica, abitativa, ecc.). Individui, dunque, per tentare una definizione, caratterizzati da un’autonomia senza indipendenza25. Contraddizioni La categoria “giovane-adulto” restituisce l’immagine di condizioni giustapposte che tendono a con-fondersi26. Essa unisce e contrappone due dimensioni, giovinezza ed età adulta, che sfumano l’una nell’altra senza permettere di individuarne le caratteristiche specifiche27 e i cui confini diventano mobili28. La condizione giovanile si fa progressivamente «inafferrabile»29, sembra quasi scomparire30, e “giovane” smette di essere utilizzato come sostantivo, assumendo il ruolo di aggettivo, potenzialmente aperto a tutte le fasce d’età31. D’altra parte, la riflessione scientifica non riesce a definire univocamente il concetto di “età adulta”32 e i soggetti fanno fatica ad indicare a quale età della vita sentono di appartenere33. In modo paradossale, proprio quando la “linea d’ombra” che separava la giovinezza dall’età adulta si è affievolita ulteriormente, abbiamo assistito alla moltiplicazione di ricerche sul “giovane-adulto” e, più in generale, all’ingresso del termine nel senso comune. Non solo: nella sua nuova accezione fondata sull’esperienza italiana, la categoria ha superato i confini nazionali ed è stata assorbita dal dibattito scientifico europeo ed internazionale. Ricomporre la vita. Gli adulti giovani in Italia, Carocci, Roma, 2005 24  Istat, 2006, Indagine multiscopo sulle famiglie. “Famiglia e soggetti sociali”. Anno 2003, cit.; Buzzi C., Cavalli A., de Lillo A., (a cura di) Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione in Italia, cit. 25  de Singly F., “Penser autrement la jeunesse”, in «Lien social et politiques», n. 43, 2000, 9-22. 26  Donati P., Colozzi I., Giovani e generazioni, Il Mulino, Bologna, 1997 27  Wyn J., White R., Rethinking Youth, Sage, Londra, 1997 28  De Luigi N., 2007, I confini mobili della giovinezza. Esperienze, orientamenti e strategie giovanili nelle società locali, Angeli, Milano 29  d’Eramo M., 2001, “L’inafferrabile giovinezza”, in dal Lago A., Molinari A., (a cura di) Giovani senza tempo, ombre corte, Verona, 2001, 27-41. 30  Gillis J., “Vanishing Youth”, in «Young», vol. I, n. 1, 1993, 3-17. 31  Santambrogio A., Giovani e generazioni in Italia, Margiacchi, Perugia, 2002 32  Saraceno C., (a cura di) Età e corso della vita, il Mulino, Bologna, 1986; Cavalli A., “Gli occhiali appannati degli adulti” in Diamanti I., La generazione invisibile, Il Sole-24 ore, Milano, 1999, 253-257 33  Cesareo V., (a cura di) Ricomporre la vita. Gli adulti giovani in Italia, Carocci, Roma, 2005

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Il paradosso sembra essere, tuttavia, solo apparente. Come ogni ossimoro, il termine “giovane-adulto” segnala l’emergere di contraddizioni irrisolte. Sembra quasi di trovarsi di fronte, ancora una volta, al meccanismo evidenziato da Tamara Haveren34: un’età della vita si istituzionalizza nel momento in cui si pone il problema della sua integrazione nella struttura sociale e, più in generale, del suo governo. Il riferimento alla categoria di “giovane-adulto” può essere, allora, compreso solo a condizione di tenere presenti le difficoltà incontrate nel definire un nuovo patto tra le generazioni. Le contraddizioni alle quali facciamo riferimento investono tutta la società, a molteplici livelli: dalla famiglia, alle istituzioni educative, ai governi locali e nazionali. Non è casuale, nello specifico del nostro Paese, la ormai cronica assenza di serie politiche per i giovani35 e la sostanziale incapacità di definire, da destra e da sinistra, misure capaci di riannodare i fili di una solidarietà tra le generazioni ormai erosa nei suoi fondamenti36. In questa direzione, i “giovani-adulti” non rappresentano (soltanto) un problema per sé: sono il segnale, evidente e drammatico, di una società che non può più rinviare una riflessione attenta rispetto alla sua stessa riproduzione. A meno che non si voglia insistere sull’ipotesi di una nuova pacificazione tra le generazioni, facendo finta che il silenzio dei giovani contemporanei sia l’espressione di un’apatica soddisfazione e trascurando i segnali capaci di rivelare una stanca rassegnazione. Docente di Storia del pensiero sociologico e Sociologia dei processi culturali, Dipartimento di Sociologia e Scienza della politica, Università di Salerno *

34  Haveren, T. K., 1976, “L’ultimo stadio: l’età adulta e la vecchiaia”, in Erikson E., L’adulto, Armando, Roma [tr. it. 1981], 285-308. 35  Boeri T., Galasso V., Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni, Mondadori, Milano, 2007 36  Livi Bacci M, “Il paese dei giovani vecchi”, in «Il Mulino», n. 3, 2005, 409-421.

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Il tempo precoce L’ansia evolutiva e le pressioni sociali eccessive, così come gli impedimenti dovuti a modelli educativi scadenti o malati tendono ad uccidere l’idea che si possa decidere con calma di sé e del proprio futuro, seguendo la voce delle inclinazioni e sperimentando le potenzialità del proprio essere. Stefano Gastaldi*

La spinta a crescere è un fatto naturale, che affonda nel soma e nella psiche di ogni essere umano. Come tale, permea la cultura e subisce variazioni importanti in relazione ai cambiamenti sociali ed economici del mondo in cui viviamo. Negli ultimi trent’anni essa è divenuta uno dei più evidenti e importanti fattori della cultura educativa, spinto da innumerevoli ragioni: l’impegno lavorativo e sociale delle madri che emancipa i bambini precocemente dalla relazione domestica; la visione di un futuro complesso nel quale non vi sono certezze di occupazione stabile; la caduta dell’ideale del titolo di studio come garanzia per il lavoro. Queste ragioni, insieme a molte altre, rendono l’educazione dei bambini ricca di stimoli di ogni tipo, volti a fornire loro una base eclettica e ricca, potenzialmente aperta allo sviluppo futuro di abilità ampie e multiformi, intellettuali, relazionali, materiali, e così via... L’attuale generazione di adulti è passata per grandi cambiamenti, molti dei quali traumatici: la perdita della stabilità economica, la riduzione delle garanzie lavorative, la scomparsa o quasi dell’idea di una protezione previdenziale per la vecchiaia, la preoccupazione per il destino stesso del Pianeta, messo a rischio da logiche di sviluppo sregolate e miopi, quando non ingorde e criminali… Le prospettive incerte e la riduzione dei fattori di protezione per le nuove generazioni hanno spinto i genitori prima e gli adolescenti poi a cercare nuove strategie per la crescita, in vista di possibili adattamenti a condizioni di vita poco prevedibili. Ma la spinta a crescere e l’indeterminatezza del futuro sono in sé anche fattori di una sorta di sindrome ansiosa che affliggono la cultura educativa e la cultura della crescita e ne determinano storture e patologie. Durante l’adolescenza, ad esempio, il ricorso a comportamenti fortemente anticipati rispetto alla vera età e alle reali competenze rappresenta una parte consistente della fenomenologia del cosiddetto “disagio” (si pensi a comportamenti troppo precoci in campo sessuale o nella libertà personale ecc…). Inoltre l’ansia è sicuramente una delle emozioni implicate nel diffuso consumo di sostanze, prevalentemente descritto dagli adolescenti stessi come un mezzo per facilitare i rapporti sociali, per rilassarsi e potersi divertire. In questi anni gli studiosi, e ultimamente anche i giornalisti, hanno rivolto molta attenzione ai comportamenti di prevaricazione, il cosiddetto bullismo, che hanno assunto, al di là dei fenomeni più gravi, rientranti in una casistica di vera e propria devianza, il carattere di problema sociale in adolescenza. Il termine bullismo è stato introdotto in Italia come traduzione del termine anglosassone “bullying”, il cui significato peculiare è quello di descrivere una situazione

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in cui c’è contemporaneamente qualcuno che prevarica e qualcun altro che è prevaricato; ricerche condotte da Ada Fonzi hanno suggerito l’opportunità di utilizzare in italiano il termine “prepotente” piuttosto che “bullo”, in quanto più familiare e comprensibile nel condurre indagini con bambini, e portatore di significati più univoci. Che relazione c’è tra comportamenti di prevaricazione, ansia e anticipi evolutivi? Per sondare un terreno così difficile, noto ai clinici ma meno facile da descrivere in termini di ricerca clinica ed epidemiologica, vorrei riportare alcuni dati da una ricerca recentemente svolta insieme ad alcuni colleghi1 sulla popolazione di bambini e preadolescenti della comunità montana della Valcuvia, in provincia di Varese. La necessità di anticipare gli studi epidemiologici in età antecedenti l’adolescenza è motivata dall’idea che sia proprio negli ultimi anni scuola elementare e durante la scuola media il periodo in cui, uscendo dalla protezione data dall’infanzia, i piccoli siano fortemente esposti all’ansia di crescita, trasmessa dai modelli sociali e dalle culture familiari, nonché dalla prossimità dello sviluppo. Innanzitutto alcuni dati. Lo studio ha mostrato che i fenomeni di prevaricazione sono una realtà per i ragazzini fra gli 8 e i 13 anni della Valcuvia. Circa il 50% dei ragazzi subisce prevaricazioni e una quota pari a circa il 20% denuncia prevaricazioni continue: sebbene la natura delle prevaricazioni possa variare (dalle offese verbali alle percosse), si tratta di un dato cui prestare attenzione. I dati distinti per sesso evidenziano che le ragazze tendono a dichiarare di aver subito prepotenze in misura leggermente superiore a quella dei ragazzi (il dato va interpretato tenendo conto che – quando questo accade - le ragazze denunciano di più dei ragazzi, che invece sono meno inclini ad avvertire l’adulto). Le differenze tra maschi e femmine riguardano sia il modo di prevaricare sia il significato che si attribuisce al gesto di prevaricazione sia la rappresentazione del bullo. Tra i maschi prevalgono i fenomeni di aggressività fisica, tra le femmine più sottili forme di violenza psicologica; i maschi attribuiscono ai gesti di prevaricazione il senso prevalente di testimoniare rabbia, forza, successo, mentre le femmine vedono in questi gesti più una manifestazione di tristezza, debolezza, solitudine. Le ragazze mostrano una maggiore “distanza” dalle azioni di prepotenza rispetto ai maschi: denunciano di più, reagiscono con sentimenti più negativi, hanno un’idea più negativa del bullo. Le prepotenze sembrano intrecciarsi con alcune dimensioni importanti dello sviluppo dell’identità maschile e femminile: i maschi esprimono con esse il tentativo di manifestare la capacità di controllare l’ambiente attraverso manifestazioni di forza (i prepotenti sono spesso visti come ragazzi che ottengono quello che vogliono), mentre le femmine le indirizzano molto di più sul versante della competenza relazionale. I gesti di prevaricazione appaiono inoltre associati in modo evidente a una tendenza importante, sin da età ancora molto precoci, ad assumere le insegne di ragazzi e ragazze più grandi. Il successo sociale, l’autonomia, la libertà sono valori che presentano un “conto” salato a ragazzini e ragazzine così giovani. 1  La ricerca è stata effettuata insieme a Katia Provantini ed Elena Buday dell’Istituto Minotauro, nonché a Francesco Della Beffa di Flag

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La prevaricazione appare quindi come il frutto di un senso di inadeguatezza rispetto a richieste di crescita troppo anticipate rispetto agli strumenti reali a disposizione dei ragazzi. Queste richieste provengono dal mondo interno degli stessi e potrebbero, vista la loro consistenza, derivare dall’interiorizzazione di elementi culturali “diffusi”. Le prevaricazioni avvengano prevalentemente a scuola e ciò non deve stupire: a questa età la scuola è infatti il luogo di aggregazione per eccellenza. In realtà possiamo pensare che le prevaricazioni avvengano a scuola soprattutto perché esse sono un fenomeno che si manifesta sulla scena della socialità tra pari. Non abbiamo un dato diretto che ci racconti le dinamiche della prevaricazione a scuola, ma da quanto ci hanno raccontato gli adulti nella prericerca qualitativa, in particolare gli insegnanti e i bidelli, esse avvengono in prevalenza negli spazi e nei momenti in cui l’adulto non è direttamente presente. Tuttavia gli adulti ne sono consapevoli, al punto che, secondo i ragazzi, tendono a intervenire in misura maggiore alle denunce ricevute. La scuola è il luogo in cui si sperimentano il confronto, la competizione, il sentimento di successo o insuccesso, di adeguatezza o inadeguatezza. Lo studio mostra anche che vi è una relazione significativa tra gesti di prevaricazione e dinamiche evolutive che contengono l’interiorizzazione precoce di ideali di crescita stressanti e in parte ancora impossibili rispetto agli strumenti a disposizione dei ragazzini. Ulteriormente, il fatto che gli ideali derivino da suggerimenti ambientali diffusi (bisogna avere successo, essere competenti e forti ecc…) e che l’inadeguatezza sia, rispetto ad essi, necessaria e ampia, rende la prevaricazione un fatto in qualche modo “inevitabile”, avvertito come un elemento stabile della vita dei ragazzini che crescono. Esiste un gruppo costituito da ragazzi che più degli altri subiscono vessazioni pesanti e continue; esso è caratterizzato da una maggiore identificazione empatica con le vittime e da una maggiore vicinanza con gli adulti. Questo gruppo in realtà si pone in una posizione pericolosa, che attiva involontariamente i gesti aggressivi poiché tende a rappresentare proprio ciò che i ragazzini temono: restare piccoli, dipendere dagli adulti, non sapersela cavare, essere deboli. La “posizione” di questi ragazzini e ragazzine nel campo evolutivo è quindi in qualche modo la più adatta per ricevere rifiuto, aggressività, esclusione secondo una dinamica psichica profondamente abitata da scissioni e proiezioni che consiste, come sempre nei fenomeni umani di guerra ideologica, nell’uccidere nell’altro il male che c’è in sé2 . I dati di ricerca sono quasi impressionanti e svelano un substrato di emozioni e pensieri molto agguerrito in una popolazione di “piccoli” che tra pochi istanti si appresterà a diventare adolescente. La domanda che forse conviene porsi è se sia veramente una garanzia per il futuro interiorizzare la necessità di dover essere così bravi e forti. Durante l’adolescenza la possibilità di compiere con successo il compito di separarsi dall’originaria condizione filiale e via via soggettivarsi per avviarsi a un futuro creativo e autentico di adulti, passa per mille porte, alcune più esplicite e sociali, molte altre più intime segrete, che richiedono la possibilità di darsi un tempo e sviluppare pensiero e sentimento di sé. 2  F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano, 1966

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L’ansia evolutiva e le pressioni sociali eccessive, così come gli impedimenti dovuti a modelli educativi scadenti o malati (familiari ma anche degli intorni sociali, scolastici ecc…) hanno effetti critici su questi processi delicati e tendono ad uccidere l’idea che si possa decidere con calma di sé e del proprio futuro, seguendo la voce delle inclinazioni e sperimentando le potenzialità del proprio essere. In questo contesto, i maschi più che le femmine appaiono penalizzati, perché più esposti ai rischi dell’angoscia e della dispersione per via della necessità di dare corpo ai simboli della virilità (forza, successo, dominio, controllo). In un’altra recente ricerca, compiuta con alcuni dei colleghi già indicati3 e con Demoskopea sui giovani adulti, i maschi appaiono incerti e chiusi, ancorati a bisogni di dipendenza e di piacere, mentre le giovani donne sembrano più intraprendenti, emancipate, centrate sul lavoro e meno orientate a cercare la rassicurazione del “divertimento”. La tendenza ad attivare il pensiero, anziché l’azione, come strumento di controllo dell’ansia di crescita favorisce, durante l’adolescenza, le femmine rispetto ai loro coetanei maschi. L’attivazione del pensiero e la creazione di spazi ove collocare, con minori ansie e con maggiore speranza, i cantieri della propria crescita, sembrano essere due capisaldi del successo evolutivo. Anche per questa ragione sono importanti le formazioni sociali dei giovani (il gruppo degli amici, la band musicale, l’aggregazione politica, …) che accolgono, contengono e producono incessantemente simboli dell’identità personale, sessuale, emotiva, ideale degli adolescenti. Esse offrono uno spazio dove mettersi al mondo è un processo creativo e al tempo stesso non arbitrario, libero ma soggetto a regole, sottratto al controllo degli adulti e alle loro ansie per il futuro ma non immoto e afinalistico. Rispetto al passato (anche recente) e ai modelli educativi che esso ci ha trasmesso, le cose si sono molto complicate. Se infatti in passato la crescita è stata pensata soprattutto come acquisizione di strumenti in vista dell’adeguatezza sociale, oggi a tale visione dobbiamo anche associare l’idea di una crescita adolescenziale tutta protesa a sondare le imperscrutabili profondità del sé per trarne risorse che evitino la vergogna attraverso atti creativi e scoperte originali. La famiglia edipica, etica, regolata, è impallidita; la famiglia affettiva ha preso il sopravvento da almeno due generazioni. Non vi è dunque nulla di strano se per i giovani sia un dilemma, talvolta un vero rompicapo, trovare la soluzione al problema di non sapere bene se essere adeguati per il mondo sia una questione di saper stare alle regole o di far contento qualcuno. La possibilità di sottrarre queste generazioni di adolescenti alla grave ansia di crescita non è solo correlata al mutamento dei fattori strutturali, economici, ecologici e politici che la determinano, ma anche alla capacità degli adulti di pensare che, proprio perché il futuro è incerto, bisogna lasciare ai giovani il tempo per arrivarci con maggiore speranza e con più fiducia nella propria capacità di incontrare la vita in modo autentico e generativo. *Psicologo, Psicoterapeuta, Cooperativa Sociale Minotauro - Istituto di analisi dei codici affettivi 3  La ricerca è stata effettuata insieme a Katia Provantini dell’Istituto Minotauro, nonché a Francesco Della Beffa di Flag e a Caterina Bocchi di Demoskopea

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Giovani al lavoro e progettualità esistenziale il nodo gordiano che caratterizza oggi il mutamento di relazione che intercorre tra i giovani e i vissuti legati all’esperienza della formazione e del lavoro, non pare essere rappresentato dall’instabilità e/o dall’eterogeneità contrattuale esistente, ma da come queste si insinuano nei percorsi esistenziali dei giovani, intrecciandosi con le loro aspettative per il futuro e con le logiche progettuali che li contraddistinguono Enrico Miatto*

La gioventù da sempre si connota come quel centro da cui nasce il nuovo. A partire da una suggestione che proviene dal pensiero dalla Metafisica della gioventù di Benjamin, questa particolare età della vita è inscrivibile lungo le traiettorie della novità, dell’ingenuità, dello slancio vitale, nonché dell’energico sforzo di esistere e del desiderio di essere1. Così intesa, quella giovanile si caratterizza come una esperienza di crescita peculiare, tutta tesa al futuro, sulla base di un presente soddisfacente e in funzione di un dover essere che richiama l’idea di maturità, di responsabilità e di una vita possibile da condurre in autonomia rispetto allo spazio relazionale che rappresenta la famiglia di origine. Una esperienza determinata da una forte carica progettuale, verso l’età adulta e verso la realizzazione piena del proprio essere. In special modo, come succede per i grandi passaggi da una età della vita all’altra recuperabili lungo il corso dell’esistenza, anche la giovinezza pare essere impensabile se svincolata da due dimensioni fondanti che permettono ai giovani di distinguersi in tutta la loro “novità”: la temporalità e la progettualità. Si tratta, infatti, di due imprescindibili umani tra loro interconnessi, nei quali la realtà biologica, psicologica e socio-culturale che connota il giovane soggetto, diviene e si trasforma lungo una prospettiva che coinvolge, non solo il qui e ora, ma tutto l’arco della vita. Invero, se il tempo è definibile come una categoria al di fuori della quale non è possibile lo svolgersi della vicenda umana, il progetto che nel tempo si concretizza, si caratterizza come uno spazio soggettivo di possibilità dal quale prende vita l’opportunità di realizzarsi dentro a una realtà, individuale e sociale, inizialmente data e successivamente scelta. Tanto l’azione umana spontaneamente intesa, quanto l’azione prevista e preventivata secondo una progettualità personale, si radicano nella temporalità che è nel contempo sfondo e motivo di fondazione dell’agire. Lo stesso percorso di costruzione di identità personale che si rafforza attraverso 1  C. Xodo, Capitani di se stessi. L’educazione come processo di identità personale, La Scuola, Brescia, 2003 p. 205.

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l’autostima e il riconoscimento di sé presso gli altri si intesse attraverso la durata, la continuità e la persistenza del tempo. Così come, in una dimensione dell’esistenza quale possibilità di essere qualcosa che ancora non ha preso una forma definitiva e che, in quanto tale, è ancora in fieri. In tal senso, il giovane in quanto precisa identità, è definibile oltre i caratteri evolutivi della crescita e del cammino che lo contraddistinguono. È identificabile, infatti, con un progetto nel tempo che accompagna la crescita e lo sviluppo del soggetto verso il divenire e il prender-forma, inizialmente in modo eterodiretto e successivamente in maniera autonoma e autodeterminata. È, infine, considerabile nella sua complessità, per le continue oscillazioni tra la permanenza e il mutamento, la ripetizione e la novità, l’essere e il diventare, la continuità e la discontinuità2. Di fatto, come afferma il filosofo Pareyson, nel percorso che riguarda il diventare persona, l’essere personale è situabile o all’interno del tempo o oltre il tempo stesso secondo un’attribuzione di senso che trascende l’hic et nunc della storia3. Pertanto, o l’essere trova una collocazione nella storia oppure nell’eternità, che in quanto tale appartiene a un Essere supremo definibile per i suoi caratteri di radicale trascendenza e di assoluta incommensurabilità. Tuttavia, è l’essere nel tempo che caratterizza la persona e che la situa in un orizzonte storico preciso, dal quale “l’uomo fa costantemente il mondo”4 forgiando il proprio orizzonte di senso dentro al quale è stato generato. A muovere da tale dimensione che avvalora la storicità dell’esistere, l’identità personale del giovane si disloca dunque nell’orizzonte del “già” e del “non ancora”5, recuperando i varchi aperti dall’esperienza vissuta nel tempo passato e tratteggiando gli spazi di possibilità che sono intravedibili nell’apertura al futuro. Attraverso questo processo, che richiama tanto l’unità che l’unicità del soggetto, la dialettica tra tempo e progetto, quale dinamica del farsi dell’identità umana e del suo dispiegamento, risponde ad esigenze di ricerca dell’essere nel suo costante tentativo di essere e stare nel mondo. In tal modo il giovane, impegnato a diventare grande, impara ad esistere attraverso un percorso di accompagnamento nel quale trova sua ragione d’essere l’educazione che è, per eccellenza, occasione di perfettibilità umana e di attenzione dell’uomo sull’uomo attraverso la sollecitudine, nonché la cura agli aspetti legati allo sviluppo, all’apprendimento, all’autonomia, alla socialità e alla cultura. Così intesa l’educazione, e gli spazi relazionali che la sottendono, assume i toni di un percorso di personalizzazione che introduce al senso della realtà e dell’utopia come progetto e perfezionamento interiore. Un progetto di crescita e di sviluppo personale che chiama in causa tanto l’accompagnamento da parte dell’adulto a valoriz2  B. Rossi, Tempo e progetto. Saggio sull’educazione al futuro, La Scuola, Brescia 1999, p. 29. 3  L. Pareyson, Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 2002, p. 151. 4  J. Ortega y Gasset, Aurora della ragione storica (tit.orig.: En torno a Galileo, 1933; Meditación de la técnica, 1933; Ideas y creencias, 1934; Historia como sistema, 1935), SugarCo, Milano 1983, p. 48. 5  P. Zonca, Progetto e persona. Percorsi di progettualità educativa, SEI, Torino 2004, p. 49.

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zare il giovane soggetto, non solo per ciò che è qui e ora ma per quello che riuscirà a diventare, quanto il giovane stesso nei modi dell’auto-gestione e dell’auto-direzione, quali capacità dinamiche tese al perseguimento dei personali obiettivi di crescita6. Pertanto, racchiusa in questa possibilità di essere, si cela il valore intrinseco della persona del giovane per il quale l’educazione e l’autos dell’educazione7 diventano il motivo di esortazione dell’umano in tutti i luoghi in cui è possibile l’esistenza. In altro modo, l’educazione in quanto proposta eterodiretta e manifestazione di una soggettiva adesione, nasce da una precisa idea che si ha dell’uomo e di ciò che può diventare ma, nel contempo, in quanto atto di libertà, rimanda “alla scommessa-rischio che il transito imprescindibile per finalità e fini non può esaurire la ricchezza della progettualità umana”8 poiché questa è funzionale a criteri di creatività e di adattamento personale al contesto di vita, mai del tutto conoscibili a priori. Ciò che invece è possibile conoscere è la particolarità del progetto di essere. Esso è categoria dell’ex-sistere e in quanto tale si inserisce a pieno nella temporalità caratterizzandosi attraverso gli elementi costitutivi della dimensione progettuale umana. La progettualità, infatti, si presenta all’uomo come una pluri-dimensione connaturale, integrata, unitaria ed evolutiva che porta con sé i caratteri del possibile e dell’eventuale, in grado di resistere alle forze esterne date dall’esser-ci nel mondo, e di promuovere nella persona, in un continuum, la crescita e l’espansione della propria identità. Ciò avviene valorizzando il momento della differenza creativa che contraddistingue la singolarità dell’essere contro il pericolo costante della massificazione9, ma può anche verificarsi, superando le pressioni dell’esistente e del contingente a favore dello sviluppo integrale di un piano esistenziale che metta in conto la possibilità, il mutamento e la complessità del reale. Giovani verso il lavoro A partire da premesse che muovono da istanze filosofico-educative sul farsi della progettualità esistenziale presso i giovani, ciò che ci preme sottolineare è come il divenire adulti, seguendo le linee evolutive del cambiamento identitario, si renda esplicito in vista del superamento di quei marcatori, individuati dalle analisi sociologiche10, che segnano il passaggio dalla giovinezza all’adultità, attraverso l’assunzione progressiva di un livello di autonomia che consolida la propria identità personale e sociale. 6  M. Pellerey, Dirigere il proprio apprendimento, La Scuola, Brescia 2006, p. 71 e seg. 7  G. Pineau, Moments de formation de l’autos et ouvertures transdisciplinaires in Education permanente-L’autoformation: actualité et perspectives, n. 168, 2006, pp. 5-18. 8  G. Vico, I fini dell’educazione, La Scuola, Brescia 1995, p. 134. 9  G.M. Bertin, M. Contini, Costruire l’esistenza. Il riscatto della ragione educativa, Armando, Roma 1983, p. 89. 10  C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo (a cura di), Giovani del nuovo secolo. V rapporto IARD sulla condizione giovanile, Il Mulino, Bologna 2002, p. 19 e seg.

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L’immaginario comune sulla realtà del giovane e del giovane adulto colloca tale età della vita in una situazione di costante balia e di pessimismo. A proposito dei giovani, non molto tempo fa si poteva leggere, in un settimanale nazionale, che i giovani “sulla carta, sono quelli che hanno avuto tutto. E senza lottare come hanno fatto i loro genitori. Sono nati quando le battaglie erano terminate e le guerre non erano ricominciate. Quando il boom economico era già scoppiato e la minigonna era ormai datata. E la tv - in piena espansione - era a colori, come il mondo che li circondava. Erano destinati al successo, alle soddisfazioni. Alla felicità insomma. Invece non la trovano i trentenni in Italia. Sono giovani, apparentemente liberi, cresciuti nel segno del benessere economico. Eppure si dichiarano insoddisfatti, smarriti e pessimisti riguardo al futuro”11. Pare rappresentare, questo, un nuovo profilo del divenire adulti che, a più riprese, in questi ultimi anni, ha smosso il pensiero comune e la sensibilità scientifica nel tentativo di descrivere, spiegare e comprendere le peculiarità di un’età della vita che sembra essere attraversata da nuove difficoltà e da caratteristiche di frammentarietà che ne allungano, sul piano cronologico, la durata. I contributi che demografia, economia, sociologia e psicologia hanno apportato allo studio della giovinezza fanno emergere una cornice concettuale che raccoglie numerose letture e molteplici riflessioni e che mette in evidenza, rispetto al passato, il mutamento di relazione che intercorre tra i giovani e i vissuti legati all’esperienza della formazione e del lavoro. Pare essere infatti, questo, un cambiamento sul piano della possibilità di essere e di esperire che caratterizza la realtà giovanile, tesa oggi a crescere verso l’età adulta in un contesto di conoscenza ampio e caratterizzato da scenari professionali in continua modificazione12. In particolare, ciò che viene evidenziato su scala internazionale, a livello europeo, è che in questi ultimi anni, alcuni cambiamenti avvenuti sul piano strutturale delle politiche sociali, formative e del lavoro hanno contribuito alla sostanziale modificazione delle forme e dei modi, prima di accedere al lavoro e successivamente di occupare in maniera stabile e continuativa il mondo delle professioni13. La prospettiva che si inserisce nelle esistenze giovanili richiama, infatti, ad un esercizio quotidiano di flessibilità e, apparentemente, di continua modificazione della rappresentazione del sé nel futuro a breve termine. In tal senso, il nodo gordiano che caratterizza oggi il mutamento di relazione che intercorre tra i giovani e i vissuti legati all’esperienza della formazione e del lavoro, non pare essere rappresentato dall’instabilità e/o dall’eterogeneità contrattuale esistente, ma da come queste si insinuano nei percorsi esistenziali dei giovani, 11  F. Brunini, Trent’anni di solitudine in L’espresso, n. 37, 2006, pp. 174-179. 12  G. Alessandrini (a cura di), Pedagogia delle risorse umane e delle organizzazioni, Guerini Studi, Milano 2004. 13  A. Supiot (a cura di), il futuro del lavoro: trasformazioni dell’occupazione e prospettive della regolazione del lavoro in Europa (tit.orig.: Transformation of labour. Law and the future of labour in Europe, 1999), Carocci, Roma 2003.

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intrecciandosi con le loro aspettative per il futuro14 e con le logiche progettuali che li contraddistinguono. Ciò che appare come oggettiva evidenza è che i percorsi e le dinamiche di accostamento allo studio e al lavoro non sono equiparabili a quelle della fine del secondo Novecento. Affermazione, questa, che così data, appare scontata e riduttiva. Tuttavia porta con sé ricadute qualitative importanti sul piano esistenziale del vissuto e della progettazione del sé. Il lento superamento dei drammi della forte disoccupazione giovanile e del pesante drop-out che ha caratterizzato ampie zone del nostro Paese alla fine del secolo scorso, grazie alla messa in atto di logiche decentrate di azione politica, formativa e lavorativa a favore del localismo, nonché la radicale apertura all’orizzonte europeistico che ha determinato la messa in atto di adattamenti normativi sul piano legislativo della formazione e del lavoro, hanno permesso il configurarsi di una nuova geografia per l’occupazione giovanile. Di fatto, l’esigenza di uguaglianza tra i lavoratori (mai trascurabili sono le uguaglianze di genere, razza e cultura), una rinnovata attenzione alla tutela e alla sicurezza del lavoratore considerato nel suo aspetto di risorsa umana, l’istanza di garanzia di mantenimento dei diritti collettivi e, nel contempo, l’avvento di significative trasformazioni nel mondo lavorativo corrispondenti al declino dei sistemi della grande produzione standardizzata e all’emergere di logiche di decentramento per le imprese e, infine, l’insediarsi di nuove reti aziendali e della net-economy, hanno contribuito a generare un forte cambiamento sulla realtà che connota l’essere e il diventare professionisti oggi. Si è trattato di una modificazione di carattere strutturale che ha coinvolto il mondo del lavoro, attraverso la quale si sono venute a configurare nuove realtà economiche ed aziendali che hanno assecondato le vie della flessibilità proponendo nuove soluzioni per l’occupazione giovanile. Tale scenario ha portato a configurare una visione alternativa della prospettiva temporale anche per i giovani. I percorsi di costruzione delle loro identità professionali assecondano oggi logiche di lifelong education e di lifelong learning, attraverso le quali il soggetto in crescita e il giovane soggetto al lavoro, non smette mai di separare il tempo dell’occupazione dal tempo della formazione e dell’auto formazione. Pertanto, colui che si accosta a tale fenomeno con una vocazione educante può rendersi conto come, dal punto di vista educativo e formativo, una delle necessità primarie sia quella di sviluppare, presso i giovani, un pensiero in grado di fornire letture possibili del reale perseguendo le vie della pluri-informazione e dell’interdisciplinarietà tra le conoscenze e i saperi, sia in chiave teorica, sia operativa. Pare essere questa una via percorribile per favorire l’acquisizione e il consolidamento di quelle competenze personali15 utili all’inserimento dei giovani, possibilmente stabile, nel mondo del lavoro in un contesto particolarmente mobile e flessibile. 14  G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro, Il Mulino, Bologna 2004, p. 164. 15  C. Maulini, Pedagogia della competenza. Epistemologia modelli e tecniche, Anicia, Roma 2006, p. 76.

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Verso la promozione di un pensiero che ri-formi Approfondire sul piano teorico la relazione che intercorre tra i giovani-adulti e il mondo del lavoro, comporta la trattazione di tale tematica perseguendo un’ottica capace di tenere insieme, considerandoli, plurimi aspetti che compongono un quadro storico ed esistenziale peculiare. In particolar modo, lo specifico del pedagogico spinge alla trattazione di tale fenomeno perseguendo le vie dell’educazione e della formazione senza, tuttavia, prescindere dalle questioni psicologiche, socioeconomiche, giuridico-politiche ed etiche, che aiutano a tratteggiare una condizione esistenziale particolare e, più di ogni altra cosa, rimandano ad una visione interdisciplinare e federativa della conoscenza dell’umano sull’umano. Prendendo in esame le ultime indagini che hanno trattato il tema dei giovani in relazione al lavoro16, è possibile rendersi conto come la via della crescita che li conduce verso l’età adulta sia connotata da un’apertura al futuro che coinvolge, in qualche modo, tutte le dimensioni dell’esistere. Pare essere questa un’apertura che non coincide tanto con la sicurezza e la certezza di diventare adulti sul serio e una volta per tutte, piuttosto pare convergere con una caldeggiata disponibilità da parte dei giovani ad essere aperti e disponibili a qualsiasi opportunità, alla globalità delle esperienze e dei percorsi, ivi compresi i vissuti di marginalità e vulnerabilità umana laddove non è garantita a pieno, per ragioni personali o contingenti, la realizzazione personale. Così intesa, la giovinezza diventa un tempo in cui si esplorano le possibilità della vita adulta mantenendo aperte le opzioni e massimizzando le alternative17, senza tuttavia avere la certezza che il transito per questa età della vita non passi per situazioni ed esperienze in grado di attaccare l’identità propria sul piano dell’autostima e dell’auto-efficacia, non vedendo riconosciute, presso i giovani, le competenze specifiche per cui è stata spesa tanta parte della formazione personale, e orientata molta pratica sul piano occupazionale. Percorrendo le vie che accompagnano in alternanza lo studio e il lavoro dei giovani e più in generale, le questioni giuslavoristiche sulle formule elastiche di occupazione quali staff leasing, job sharing, job on call, lavoro a progetto, accessorio, a termine, intermittente, occasionale… pare opportuno chiarire quali possono essere le direttive da seguire verso un pensiero della realtà giovanile che “ri-formi” tanto 16  C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo (a cura di), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 2007; E. Miatto, Giovani, lavoro e progettualità esistenziale, Dottorato di ricerca in Scienze Pedagogiche e Didattiche, Università di Padova, a.a. 2006/2007; Lavorare da precari. Effetti psicosociali della flessibilità occupazionale, Fondazione E. Zancan, Padova 2006; V. Cesareo (a cura di), Ricomporre la vita. Gli adulti giovani in Italia, Carocci, Roma 2005; C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo (a cura di), Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 2002. 17  D.J. Levinson, La struttura della vita individuale, in C. Saraceno (a cura di), Età e corso della vita, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 123-142.

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i giovani, quanto il contesto socio-culturale, e non per ultimo occupazionale, che li accoglie. A questo proposito, una prospettiva del nuovo in grado di riformulare la realtà su una base positiva è rintracciabile lungo una linea di pensiero che, valorizzando la formazione umana in tutte le sue componenti, qualifica l’esperienza della complessità dell’esistere e del pro-gettarsi verso il futuro secondo un’ottica unitaria e ologrammatica in grado di rendere armonico il crescere del giovane anche di fronte l’evento della crisi e gli sforzi di esistere richiesti dal superamento di una sfida. In altro modo, ciò che si vuole sostenere è che la capacità di far fronte agli elementi d’incertezza e sfidanti dati da un contesto societario in continua modificazione e aperto al rischio, implica la necessità di sviluppare un dialogo costante con ciò che si presenta come incerto. Ciò comporta, per il giovane che si presta a concludere il proprio percorso di formazione e ad effettuare l’entrata nel mondo del lavoro, il recupero di un pensiero in grado di ri-formare ed eventualmente di ri-orientare la scelta di azione professionale attraverso un duplice atteggiamento nei confronti del reale. Per il giovane chiamato a staccarsi dal contesto formativo formale appare infatti sempre più necessario, da una parte imparare ad apprendere e a conoscere la realtà e gli orizzonti di possibilità che questa cela e dall’altra attivare un pensiero e un agire, a un tempo creativo e riflessivo, in grado di separare e collegare i saperi e le esperienze ma anche, di analizzare e sintetizzare insieme i vissuti, considerando i fenomeni e le cause che li costituiscono. Ciò nella consapevolezza che “un modo di pensare capace di interconnettere e di solidarizzare delle conoscenze separate è capace di prolungarsi in un’etica di interconnessioni e di solidarietà tra gli umani”18. Come, infatti, sostiene la studiosa Franchi in commento ai dati Almalaurea, il percorso dei giovani verso la definizione del proprio progetto professionale e ancor prima esistenziale non è attraversato da un evento puntuale, bensì da una serie combinata di esperienze, prove e scelte. Gli esiti di tale percorso vanno pertanto a collocarsi in un ambito di “equilibri multipli che si costruiscono durante la transizione e dipendono dalle esperienze effettuate, dalle risorse disponibili, ma anche dai progetti di vita personali”19. Ne consegue che nell’attesa del lavoro desiderato, la possibilità, per il giovane, di effettuare molteplici e plurali esperienze di vita e di formazione e lavoro che aggiungono alle competenze già acquisite in ambito occupazionale altre competenze, si trasforma in una occasione di dialogo attivo e mai unidirezionale, con una realtà generativa e foriera, anch’essa, di elementi di novità. A partire dall’esigenza di rinvenire l’unità di un vissuto giovanile, frammentario e talvolta slegato nelle sue dimensioni interne di natura motivazionale, affettiva e valoriale, appare opportuno dunque recuperare quel dialogo con l’incerto attraver18  E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (tit.orig.: La tête bien faite, 1999), Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 101. 19  M. Franchi, Mobili alla meta, Donzelli, Roma 2005, p. XII.

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so la promozione di un pensiero capace di intendere e concepire le unioni e le unità tra l’incertezza e gli elementi di complessità del reale. Si tratta della promozione di una forma mentis in grado di contribuire alla formazione del carattere e dell’interiorità giovanile attraverso le forme dell’esame del sé, dell’auto-esame, dell’auto-critica, e per mezzo dell’irrompere dell’esperienza del nuovo e dell’incerto, che caratterizza il vissuto personale dei giovani. Una forma mentis rintracciabile lungo i percorsi di personalizzazione, attraverso la sperimentazione riflessiva in grado di elaborare alternativamente, tanto i vissuti relativi ai percorsi di studio, quanto quelli legati alla dimensione occupazionale e del lavoro. Pare essere questa, infatti, una via costruttiva per ricondurre ad unità, secondo la logica delle “carriere esterne”, il vissuto personale giovanile, verso una direzione che porta al concretarsi del nuovo e soprattutto di una progettualità personale e professionale precisa e realizzante, assecondando i modi e le modalità dell’accompagnamento e dell’autoformazione. *Dottore di ricerca in Scienze pedagogiche e didattiche Collaboratore alla cattedra di Pedagogia generale e sociale Facoltà di Scienze della Formazione - Università di Padova

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La costruzione del genere tra i giovani In famiglia e spesso anche nella scuola, dunque nei due ambiti socializzativi centrali – prevalgono ancora orientamenti educativi di tipo tradizionale che contrastano con i principi della parità nel rapporto tra i sessi Francesca Sartori*

Dalle numerose indagini empiriche sia quantitative che qualitative svolte nell’ultimo ventennio emerge una tendenza che indica come i rapporti tra i sessi siano oggi, nel mondo giovanile, maggiormente egualitari di quanto non lo fossero alcuni anni fa1. Tuttavia in famiglia e spesso anche nella scuola (Sartori 2007) – dunque nei due ambiti socializzativi centrali – prevalgono ancora orientamenti educativi di tipo tradizionale che contrastano con i principi della parità. Ad esempio la maggiore richiesta alle figlie piuttosto che ai figli di partecipare alle faccende domestiche mette in evidenza la persistenza in famiglia di disuguaglianze di genere che rivelano modelli socializzativi differenziati sessualmente: esigere infatti dalle ragazze, e non dai ragazzi, una collaborazione nelle attività familiari significa crescerle nell’idea che queste siano naturalmente a loro destinate; come del resto porre maggiori divieti e controlli alle figlie induce alla convinzione che le mura domestiche siano un luogo più sicuro per loro, mentre l’esterno sia più consono all’uomo. Passando alla scuola è ancora diffusa – non solo nelle famiglie ma anche tra gli insegnanti – l’opinione che i percorsi di studio a valenza scientifica siano meno adatti alle femmine piuttosto che ai maschi. Non si devono, inoltre, dimenticare le difficoltà che spesso le giovani incontrano nel contrapporsi e nel tentare di superare i modelli tradizionali che diventano particolarmente prescrittivi in coincidenza con la creazione di un nuovo nucleo famigiare e con la conseguente assunzione del ruolo di moglie/ compagna e poi di quello ancor più stringente di madre. Come sappiamo in questi ruoli si enfatizza la diseguale divisione dei compiti di cura, divisione che sembra persistere anche tra le nuove generazioni nel momento in cui si forma una famiglia. Proprio a causa delle contraddizioni che si vanno creando tra le scelte scolastiche e le aspirazioni professionali delle giovani donne – da una parte – e la persistenza di una cultura ancora prevalentemente tradizionale che tende invece ad ancorarle al mondo familiare e al ruolo procreativo – dall’altra – aumenta potenzialmente il rischio di ampliare le distanze tra le aspettative reciproche di 1  Si vedano le ricerche condotte dall’Istituto Iard dal 1983 al 2004 (cfr. in bibliografia)

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maschi e femmine. Il maggior rischio sta infatti nella difficoltà dei maschi a riconoscere, comprendere ed accettare come compagna, una donna così diversa rispetto a quello che si aspettavano e si erano prefigurati in base ai propri modelli socializzativi. Tutto ciò in contrasto con il progressivo accrescersi tra le ragazze di valori ed aspirazioni che nell’ambito dell’istruzione e del lavoro si pongono sempre di più su una dimensione paritaria. Interessante metodologicamente ed utile dal punto di vista delle interpretazioni sul fenomeno appare il tentativo dell’Istituto Iard che dal 1996, nelle ultime tre edizioni del rapporto quadriennale sulla condizione giovanile italiana, ha inserito un set di indicatori riferiti ad alcuni stereotipi maschili o femminili, rispetto ai quali è stato chiesto ai campioni intervistati di esprimere il grado di accordo. Le affermazioni sottoposte a valutazione colgono alcuni aspetti relativi ai ruoli di genere quali il potere economico e quello decisionale all’interno del nucleo famigliare, le valenze autorealizzative del lavoro e della maternità, l’importanza della bellezza femminile, la predisposizione della donna al sacrificio e alla cura dei bambini piccoli. Nel contempo si sondano le opinioni sulla partecipazione maschile alle faccende domestiche e sui ruoli genitoriali in presenza di bambini piccoli oppure sul fatto che la donna possa scegliere da sola di procreare. Ciò che emerge dai giudizi raccolti è una concezione dei rapporti tra i sessi sostanzialmente paritaria e innovativa rispetto all’interpretazione tradizionale dei ruoli di genere. Come può essere visto nella tabella riepilogativa presentata (tab. 1) tra giovani maschi e giovani femmine vi sono più punti di contatto che opinioni divergenti. Persistono ancora alcune sacche tradizionaliste, ma sembrano residuali rispetto a quanto emerge nel complesso. Gli intervistati, nella grande maggioranza, danno ad esempio per scontato che le faccende di casa vengano svolte anche dagli uomini e che entrambi i membri della coppia partecipino alle decisioni importanti nonché al mantenimento della famiglia. Se l’orientamento generale propone un’immagine egualitaria della coppia, l’identità della donna permane tuttavia ancora maggiormente legata alla sfera domestica rispetto a quella maschile. Per converso, però, l’uomo non viene più esclusivamente identificato nell’ambito pubblico: si pensa che debba collaborare attivamente e condividere le responsabilità familiari ed inoltre prevalgono coloro che non sono d’accordo sul fatto che per il maschio, più che per la femmina, sia prioritario il lavoro; tale dato si può leggere come un riconoscimento che il lavoro sia un ambito anche di affermazione femminile. Le figure genitoriali sono sempre state diversamente caratterizzate secondo logiche stereotipate e rispondenti ad obiettivi educativi specifici e complementari, soltanto negli ultimi anni si sta verificando un superamento della figura tradizionale soprattutto del padre ma anche della madre. Ciò non toglie che sia solo una minoranza – tuttavia in forte aumento negli ultimi anni – che riconosce alla donna la facoltà di decidere da sola se avere o non avere figli. Alla donna vengono attribuiti alcuni compiti legati principalmente al

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suo ruolo materno di cura ed educazione dei figli; ad essa si riconoscono capacità e disponibilità decisamente maggiori a sacrificarsi per la famiglia tanto da giungere alla rinuncia del lavoro quando i figli sono piccoli. Il campione si divide, invece, circa a metà di fronte all’affermazione che la maternità sia l’esperienza che consente la completa realizzazione della donna: i giovani, in misura simile maschi e femmine, da una parte riconoscono dunque l’alta valenza della maternità nel percorso femminile, dall’altra non vogliono escludere altre possibilità autorealizzanti. Una elevata percentuale, pari a più dei due terzi dei maschi e più della metà delle femmine, giudica, infine, molto importante la bellezza per la donna che, quindi, oltre a svolgere compiti sempre più complessi e impegnativi in ambiti diversificati, deve cercare di rispondere, o quanto meno confrontarsi, con i canoni estetici imposti dalla moda. D’altronde la logica dell’immagine oggi prevale in ogni campo, e non esclusivamente per le donne, le quali tuttavia devono spesso subordinare la possibilità di emergere e farsi accettare dalla società anche attraverso l’onere di apparire e mantenere un aspetto esteriore attraente. Alcuni elementi, rintracciabili nelle risposte, mostrano comunque che l’interpretazione tradizionale dei ruoli di genere non è del tutto tramontata all’interno delle culture giovanili: la funzione esercitata dal maschio di procacciatore principale delle risorse economiche necessarie al nucleo familiare da cui gli deriva il potere di decidere e comandare è ancora sostenuta da minoranze che ritengono d’altra parte il ruolo della donna interamente dedito alla casa, alla famiglia e alla cura dei figli. Dalla tabella in questione è possibile ricavare due altre informazioni, la prima è di tipo comparativo confrontando le opinioni delle ragazze con quelle dei loro coetanei, la seconda offre una prospettiva diacronica mostrando l’evoluzione negli ultimi anni di tali atteggiamenti. Si diceva poc’anzi che gli elementi di convergenza superano quelli divergenti, tuttavia alcune differenze non sono trascurabili. Ad esempio, riferendoci ai dati dell’ultima indagine dell’Istituto Iard le ragazze più dei ragazzi (+ 18,1%) rivendicano il diritto alla parità nello svolgimento dei compiti della quotidianità domestica, mentre contestano maggiormente l’idea che sia del maschio la funzione di mantenimento della famiglia (-22,3%) e di comando nelle decisioni (-17,4%). I maschi tendono invece a considerare maggiormente l’importanza della bellezza femminile (+15,9%), a sostenere che sia meglio che la moglie non vada a lavorare in presenza di figli piccoli (+12,0%) anche perché valutano più importante per sé la realizzazione attraverso il lavoro (+10,4%). Per quanto riguarda il mutamento delle opinioni nel breve periodo i dati sembrano un po’ contraddittori: le opinioni dei maschi sembrano più statiche di quelle delle loro coetanee, si afferma tuttavia nel tempo l’idea che il lavoro non sia centrale solo per l’uomo e che la donna possa decidere da sola la maternità.

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Tab. 1 Grado di accordo su alcune affermazioni relative ai ruoli di genere per sesso (%, 15-29 anni) 1996 Maschi Femmine •

Sarebbe giusto che anche gli uomini aiutassero a fare le faccende domestiche Una donna è capace di sacrificarsi per la famiglia molto di più di un uomo

Per una donna è molto importante essere attraente

In presenza di figli piccoli è sempre meglio che il marito lavori e la moglie resti a casa a curare i figli La maternità è l’unica esperienza che consente la completa realizzazione della donna Dato che la donna ha la responsabilità maggiore dei figli è giusto che debba decidere da sola se averli o non averli Per l’uomo, più che per le donne, è molto importante avere successo nel lavoro

• •

2000 Maschi Femmine

2004 Maschi Femmine

81,3

92,7

79,4

91,4

70,1

88,2

71,1

78,2

63,4

69,8

65,7

74,3

69,1

57,1

75,3

63,7

69,8

53,9

66,6

63,4

67,0

54,7

65,8

53,8

nr

nr

47,4

46,0

47,7

49,1

nr

nr

14,3

17,1

34,6

45,3

51,5

43,3

50,5

39,7

46,8

36,4

E’ soprattutto l’uomo che deve mantenere la famiglia

40,4

23,8

42,6

22,1

41,8

19,5

E’ giusto che in casa sia l’uomo a comandare

20,7

6,1

18,7

3,7

24,0

6,6

Fonte: indagini Istituto Iard

n. 2500

n. 2297

n. 1496

Data la presenza di tendenze eterogenee sia di tipo innovativo che maggiormente rivolte a concezioni tradizionali dei ruoli maschili e femminili, non è difficile immaginare che vi siano gruppi di giovani prevalentemente orientati a sentimenti paritari ed altri gruppi invece ancorati ad una concezione di genere ancora prevalentemente diseguale, o comunque marcata da profonde differenze attribuite alle caratteristiche, agli obblighi e ai doveri legati ai ruoli all’interno della coppia. Un po’ più complesso è invece cercare di “pesare” la loro consistenza tra le nuove generazioni. Disponendo dei dati Iard, ciò però è possibile2. Attraverso una opportuna pro2  Il metodo più semplice per classificare i modi prevalenti con cui i giovani si pongono nei confronti dei ruoli di genere è quello di eseguire una cluster analysis, basata su sette dei nove item proposti. A

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cedura sono stati individuati due gruppi che al loro interno comprendono soggetti con orientamenti omogenei rispetto all’interpretazione dei ruoli sessuali. Da una parte quello che potremmo considerare come prevalentemente “tradizionalista” (il 52,8% dei giovani), dall’altro quello che chiameremo dei prevalentemente “paritari” (47,2%). Si può notare subito un grande equilibrio dimensionale, anche se i primi prevalgono per qualche punto percentuale, segno che l’eguaglianza di genere deve affrontare ancora diversi ostacoli e superare molti stereotipi che ancora resistono (cfr. tab. 2). Il primo gruppo comprende i giovani per i quali la divisione dei ruoli è molto netta. Ad esempio non viene messo in discussione il principio che la madre debba stare a casa ad accudire i bambini, d’altronde si afferma la convinzione che la maternità sia l’esperienza che maggiormente può realizzare la donna, mentre per l’uomo, a cui la grande maggioranza attribuisce il compito di guadagnare per la famiglia, la realizzazione e il successo si concretizzano attraverso il lavoro. Il modello di pensiero sottostante è quello di un’immagine della coppia e della famiglia in cui alla partner viene affidata la responsabilità dei compiti educativi e domestici; al partner è attribuito invece il ruolo di protezione e di sostentamento. Visto dall’ottica femminile tale interpretazione dei ruoli di genere equivale all’accettazione dell’immagine più classica della donna-madre che ne esalta le funzioni di cura che divengono per lei elemento di prestigio e sicurezza; il fatto di essere relegata, con poca autonomia, nell’ambito domestico non le evita l’onere di essere all’altezza dei canoni estetici correnti che lei stessa persegue anche perché la rende apprezzata all’interno e al di fuori dall’ambito familiare. La maggioranza di chi sostiene questa posizione complessiva, che potremmo definire conservatrice, manifesta tuttavia alcune aperture innovative: da una parte si sviluppa un orientamento verso la condivisione delle attività domestiche e dall’altra una concezione “democratica” nella gestione della famiglia e nei processi decisionali connessi. Non è comunque per tutti così: una minoranza di giovani tradizionalisti (un po’ meno del 30%) lo è in modo radicale sostenendo la legittimità che la guida e il comando all’interno della famiglia sia prerogativa maschile e che il lavoro domestico sia un compito esclusivamente femminile. Al contrario, nel secondo gruppo individuato, la concezione paritaria dei ruoli di genere è largamente diffusa e comprende giovani che nella quasi totalità sono convinti sostenitori della compartecipazione di entrambi i membri della coppia alle attività domestiche; essi rifiutano nettamente la supremazia maschile nei processi decisionali in famiglia come d’altronde all’uomo non viene attribuita una differenza di quanto proposto da Iard (2007), limitandoci qui alle fasce di età comprese tra i 15 e i 29 anni, non sono state prese in considerazione le affermazioni relative alla capacità della donna di sacrificarsi per la famiglia e alla possibilità di decidere da sola l’avere o non avere figli in quanto non tratteggiano in modo definito e in senso unidirezionale l’immagine del ruolo femminile ed hanno presentato, probabilmente per questa caratteristica, una certa ambiguità di comportamento tra i due sottogruppi.

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posizione necessariamente prevalente nel sostentamento economico della famiglia. Viene sostanzialmente negato che l’ambito professionale offra all’uomo più opportunità realizzative rispetto alla donna e sono in molti a contestare che la maternità sia l’unica esperienza che consenta la piena soddisfazione del ruolo femminile. Come tra i tradizionalisti abbiamo rintracciato alcuni fattori innovativi, anche tra chi sembra convinto della parità di ruolo troviamo qualche elemento conservatore; ad esempio quasi la metà sostiene l’importanza dell’aspetto fisico per la donna e più di un terzo si dice favorevole ad una netta divisione di compiti in presenza di figli piccoli. Quest’ultimo risultato conferma che la maggiore criticità che si infrappone alla vera parità all’interno della coppia è relativa al ruolo materno che, del resto, risulta essere la componente femminile più complessa e delicata in quanto coinvolge aspetti profondi e ad alto contenuto emozionale. Tab. 2 Tipologia relativa ai ruoli di genere e grado di accordo sulle affermazioni che l’anno generata (%, 15-29 anni) Tipologia • • • • • • •

In presenza di figli piccoli è sempre meglio che il marito lavori e la moglie resti a casa a curare i figli Per una donna è molto importante essere attraente Sarebbe giusto che anche gli uomini aiutassero a fare le faccende domestiche La maternità è l’unica esperienza che consente la completa realizzazione della donna Per l’uomo più che per la donna è molto importante avere successo nel lavoro E’ soprattutto l’uomo che deve mantenere la famiglia E’ giusto che in casa sia l’uomo a comandare

Tradizionalisti

Paritari

81,7 75,1

35,3 46,7

69,0

90,5

65,8

28,9

63,6 53,6 27,9

16,3 4,9 1,2

Fonte: Iard 2004 n. 1496

Le due tipologie emerse si distribuiscono in modo fortemente differenziato in base al sesso e ciò in un certo qual modo rende molto relative le argomentazioni a favore del maggior egualitarismo delle recenti nuove generazioni. Infatti se tra le ragazze il tipo paritario è diffuso nel 60,7% dei casi mentre il 39,3% delle giovani donne può essere ricondotto al tipo tradizionale, tra i ragazzi il rapporto è quasi invertito: il 66,5% si riconosce in una sensibilità conservatrice, mentre solo il 33,5% appare orientato all’innovazione dei rapporti. Ma sarebbe riduttivo pensare che sia solo il sesso ad esercitare una forte influenza nell’indirizzare le concezioni sottostanti i ruoli di genere. Il background culturale della famiglia sembra infatti altrettanto decisivo nel ridurre gli stereotipi convenzionali e nel sostenere una nuova idea di parità nei rapporti tra uomini e donne. All’aumentare del capitale culturale dei genitori figlie e figli manifestano in modo più accentuato atteggiamenti ed

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opinioni progressivamente paritarie. I grafici 1 e 2 ben rappresentano il fenomeno, da esse si evince che tra i giovani di bassa estrazione culturale il genere poco discrimina nell’assegnare una forte valenza agli orientamenti più tradizionali e che tra i maschi ad alto capitale culturale prevale comunque il tipo paritario. Ciò non toglie che ancora molta strada deve essere fatta per colmare anche nella cultura giovanile il gap che divide l’immagine che i ruoli di genere hanno nei rapporti di coppia. Graf. 1 Distribuzione dell’idea tradizionale dei rapporti di genere per sesso e capitale culturale familiare

Graf. 2 Distribuzione dell’idea paritaria dei rapporti di genere per sesso e capitale culturale familiare

*Docente di Sociologia della disuguaglianza di genere, Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale e pari opportunità, Università di Trento Bibliografia Leccardi C., 2002 “Ruoli di genere e immagini della vita di coppia”, in C. Buzzi, A. Cavalli e A. de Lillo (a cura di), Giovani del nuovo secolo, Bologna, Il Mulino. Leccardi C., 2007 “Stereotipi di genere”, in C. Buzzi, A. Cavalli e A. de Lillo (a cura di), Rapporto giovani, Bologna, Il Mulino. Piccone Stella, S. e Saraceno, C. (a cura di) 1996 Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, Il Mulino. Sartori, F., 1997 “Ruoli di genere e vita affettiva”, in C. Buzzi, A. Cavalli e A. de Lillo (a cura di), Giovani verso il Duemila, Bologna, Il Mulino. Sartori, F., 1998 “Diventare adulti: prospettive di responsabilità e atteggiamenti nei confronti della vita e delle scelte future”, in C. Buzzi (a cura di), Essere giovani in Lombardia, Milano, Guerini. Sartori, F., 2002 “Famiglia, coppia e ruoli di genere”, in P.D’Egidio e M.Da Fermo (a cura di), Giovani in Abbruzzo, Milano, Franco Angeli. Sartori, F., 2003 “Dalla famiglia d’origine alla famiglia acquisita”, in F.Sartori (a cura di), Scelte di vita e cultura giovanile in Toscana, Pisa, Edizioni Plus Sartori, F., 2007 (1) “La vita con la famiglia d’origine”, in C. Buzzi, A. Cavalli e A. de Lillo (a cura di), Rapporto giovani, Bologna, Il Mulino Sartori, F., 2007 (2) “Immagine di genere: gli insegnanti tra tradizione e innovazione”, in “Maschi e femmine a scuola: stili relazionali e di apprendimento” C.Tamanini (a cura di), Studi e ricerche 37, PAT-Iprase, Trento

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Assente ingiustificata. I giovani, il desiderio della politica, la latitanza adulta Educare alla politica significa tornare a mostrare a tutti ma soprattutto ai giovani che “fare politica” può e deve essere qualcosa che riguarda ciò che più è prossimo, che tocca e cambia le abitudini quotidiane Raffaele Mantegazza*

Qualunque discorso sui giovani e la loro disaffezione nei confronti della politica deve partire second noi dalla constatazione che la politica è la grande assente all’interno dei processi formativi. Non nel senso che in essi non si parli di temi che apparentemente hanno in qualche modo a che fare con la politica: si propongono certo le biografie più o meno intime dei grandi leaders (e sembra che anche tra coloro che si pongono in atteggiamento critico nei confronti della politica attuale vi sia chi non riesce ad uscire dalle secche di questo deleterio biografismo trionfalistico -scandalistico), gli insulti che in Transatlantico si sono scambiati due onorevoli , o le percentuali di gradimento del governo o dell’opposizione in base all’ultimo sondaggio . Solo che, come negli esempi riportati, la politica entra nelle scuole e nei servizi educativi, come del resto nelle case, come tema premasticato dall’industria della cultura, servito nella salsa un po’ stucchevole del gossip o dei nuovi culti della personalità, o ancora, nell’universo banalizzante e livellante dei blog, ridotto a mero scambio di slogan, come una partita a pelota nella quale quello che serve realmente è rimandare indietro la palla all’avversario; non importa come, basta che sia con violenza. Spesso in queste discussioni ad essere in gioco sono due appartenenze quasi di clan: c’è lo stesso livello di approfondimento e di argomentazione che troviamo in una discussione calcistica, nella quale non si vuole dimostrare cifre e statistiche alla mano che l’Inter gioca meglio del Milan, ma solo che i milanisti sono scemi, ladri e puzzolenti (quando non “ebrei”, visto che il bavoso insulto antisemita fa sempre presa). La discussione on line scivola quasi automaticamente nelle secche dell’insulto e dello slogan, dello “sfottò” e dell’attacco personale; abbiamo sempre ritenuto poco serio e un po’ ridicolo il qualunquismo che cercava di convincere che “destra e sinistra sono uguali”, e non cambiamo idea; ma certo nel capo dei blog cosiddetti politici la struttura stessa della tecnologia e la povertà linguistica, lessicale, argomentativa di coloro che discutono affratella in modo davvero preoccupante gli schieramenti politici. Lo si vede bene nei dibattiti televisivi ma anche ascoltando le discussioni pseudo-politiche al bar o al mercato. Se gli argomenti di discussione sono raramente politici nel senso reale del termine (almeno così come lo definiremo in seguito), stretti come sono nelle secche dell’industria dell’informazione e del suo scandalismo (si discute di un tema solo se e fino

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quando resta di moda nei talk show o nei notiziari televisivi; qualcuno ricorda ad esempio l’esistenza di un signore che si chiamava Ocalan, e che ha fatto discutere per settimane?), il linguaggio e lo stile discorsivo sono quasi sempre legati a logiche da stadio e da evento sportivo o da insulto puro e semplice piuttosto che al riconoscimento dell’arena politica come campo nel quale l’argomentazione sostituisce la mera persuasione e la dialettica subentra al posto dello scontro fisico. Il campo della politica è ormai invaso: da una parte dai personalismi spettacolari importati dalla politica statunitense degli ultimi decenni, dall’altra dal mero insulto, dall’altra ancora da una sportivizzazione del discorso che non per nulla ha fatto la fortuna di un movimento politico preciso, Forza Italia che proprio sulla colonizzazione della politica da parte dei codici sportivi ha fondato parte della sua immagine e del suo successo. I giovani e i giovanissimi frequentano questo modo di dire e di fare politica, anzi spesso questo è il loro primo ed unico incontro con la politica; un incontro senza crescita, senza formazione, senza codici adulti, senza cambiamento, dove il tutto viene lasciato all’anonimo livellamento del blog e della comunità virtuale, dove si può dire tutto e il contrario di tutto senza che ci si preoccupi di mettere in fila argomentazioni convincenti, dove le dinamiche relazionali della pre-adolescenza (“parla pure tanto non ti ascolto”, “sei sempre una volta più scemo di me” ecc.; manca solo “io lo dico alla mia mamma”) sono erette a modello di normalità nelle discussioni tra pseudo-adulti; per questo motivo siamo molto critici nei confronti delle analisi che parlano di un massiccio ritorno delle masse alla passione per la politica: se è vero che le elezioni politiche del 2006 hanno fatto registrare un record di affluenza alle urne occorre anche ricordare che la campagna elettorale che le ha precedute è stata forse la più povera del dopoguerra quanto a programmi, progetti per un Paese nuovo, dibattiti sulla reale sostanza dei problemi, tutta giocata invece sulla contrapposizione personale tra i leaders nelle arene televisive più o meno ufficiali. Forse le elezioni del 2006 hanno costituito il punto più basso dello svuotamento di senso dei luoghi tradizionali e popolari della politica (le piazze, le sezioni di partito, le aule consiliari, i luoghi di aggregazione fisica e corporea dei soggetti) e la partecipazione della popolazione alla campagna elettorale ha ricordato per lunghi tratti gli scontri verbali tra le tifoserie prima dell’inizio di un derby. Ovviamente la politica vissuta a livello popolare ha sempre incrociato le dimensioni del goliardismo o dello scherno fino ad arrivare alla violenza verbale; ma quando queste dimensioni costituiscono l’essenziale della discussione, quando si arriva per settimane a contrapporre la “mortadella democristiana” al “nano piduista pelato”, i “comunisti che vogliono i transessuali al potere” ai “servi sciocchi del duce di Arcore” e solo sulla base di queste rappresentazioni prepuberali decine di migliaia di persone scelgono i propri rappresentanti in Parlamento, allora c’è qualcosa di sbagliato al nucleo del discorso politico e del modo in cui la politica viene presentata soprattutto dai giovani; c’è una formazione all’anti-politica e alla politica spettacolo che non è smentita ma semmai confermata dalle percentuali di affluenza, trattate demoscopicamente come fossero indicatori di share di una

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trasmissione di successo. La mia tesi è allora la seguente: per una democrazia l’esercizio del voto è decisivo ma non è il solo indicatore della maturità popolare, è condizione necessaria ma assolutamente insufficiente per una reale crescita democratica, e non è sempre di per sé sintomo di una compiuta educazione alla politica. Educare alla politica allora significa tornare a mostrare a tutti ma soprattutto ai giovani che “fare politica” può e deve essere qualcosa che riguarda ciò che più è prossimo, che tocca e cambia le abitudini quotidiane, che concerne lo stare insieme, la morte e l’amore, il sesso e il gioco, il lavoro e il riposo; e che l’esercizio del voto è solo la punta preziosa di un iceberg che ha alla sua base concetti come partecipazione, collettività, senso delle istituzioni, impegno quotidiano per il cambiamento. Ci rendiamo conto che “educare alla politica” sembra uno slogan provocatorio, degno di altre stagioni, quelle della contestazione e dei movimenti studenteschi e operai; ed è propriamente a quelle stagioni che occorre rifarsi criticamente, non per averne nostalgia o per riproporle in modo dogmatico, ma per capire che cosa stesse per accadere, soprattutto in Italia, negli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, e cosa invece è accaduto successivamente. Se anche allora infantilismi, giovanilismi, facili adesioni a tesi non capite erano tipiche di una certa partecipazione (e qui occorre chiedersi se non sia nella struttura del fatto politico questa asimmetria tra una èlite consapevole e una maggioranza non del tutto illuminata; o se questa analisi odori di giacobinismo stantio e occorre invece osare il sogno di una moltitudine consapevole e critica o perlomeno non assopita; o, infine, che la prima posizione rappresenta una descrizione scoraggiante ma reale della situazione in atto da molti decenni, e la seconda una speranza fondata per l’avvenire); se anche allora l’icona di Che Guevara era portata in piazza anche da persone che ne conoscevano solo i connotati; è però innegabile che in quel periodo storico erano in campo anche e soprattutto differenti concezioni del mondo e della vita, riconoscibili e forse un po’ troppo nette ma che molto avevano da dire rispetto ai miei problemi personali come singolo, come giovane, come studente, lavoratore, disoccupato, come uomo o donna. Pur nei suoi slogan (ma è possibile una politica che ne faccia a meno?) la politica in quegli anni, soprattutto per i giovani, era qualcosa che toccava le corde profonde dell’anima e del corpo: essere di destra o di sinistra, militare tra i neofascisti o in “Avanguardia Operaia”, piangere politicamente la morte di Giannino Zibecchi o di Sergio Ramelli significava mettere in gioco le proprie concezioni della quotidianità; ho problemi nei rapporti con mio padre? Il mio ragazzo mi chiede di fare sesso e non mi sento pronta? Non capisco il senso vero per la mia vita di ciò che studio a scuola? Ho paura di fallire, di soffrire, di morire? La politica, fatta insieme, fianco a fianco, quotidianamente e fisicamente, non dava certo risposte definitive a queste domande, ma certamente le reinquadrava, faceva cioè quello che la politica deve fare e oggi non sa o non vuole fare: partire da domande di senso individuali e soggettive sui grandi temi della vita (il dolore, la gioia, la morte, la passione, il sesso, l’aborto) e mostrarne il lato sociale e collettivo; mostrare come la solitudine davanti ai grandi e angosciosi interrogativi dell’adolescenza e dell’età adulta possa

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essere sconfitta inventando insieme un nuovo modo di vivere; mostrare come non esista problema che non abbia una lettura, se non una soluzione, che coinvolge potenzialmente tutti gli attori sociali; mostrare, per citare Lorenzo Milani che “il tuo problema è uguale al mio. Uscirne da soli è l’egoismo. Uscirne insieme è la politica” Il prepolitico è il nome del campo di battaglia all’interno del quale si combatte per la costituzione di determinati tipi umani, ovvero la battaglia per le antropogenesi possibili; la costruzione del soggetto politico, inteso come soggetto critico, democratico, partecipante e conflittuale, parte dunque dallo stesso punto di aggancio utilizzato da chi costruisce il soggetto apolitico; il campo di battaglia non può essere scelto dai due combattenti ma è dato a priori; il che significa che si può deridere o snobbare finché si vuole chi ha utilizzato la discoteca, lo stadio, per fare politica, ma se non si coglie la politicità latente specifica di quei luoghi, ovvero la politicità del prepolitico, è ben difficile se non impossibile contrapporre un discorso democratico ai discorsi desolidarizzanti che spesso vi si annidano; occorrerebbe allora partire non necessariamente da quei luoghi fisici ma dalle emozioni, spesso allo stato quasi animale e irriflesso, che in quei luoghi sono ospitate e attraverso di essi transitano e si riverberano sul sociale; piuttosto che fare politica allo stadio occorre allora sceverare il politico che è implicito e latente nelle curve e nei cori degli ultras. Uno dei motivi della sconfitta dei socialisti tedeschi da parte dei nazisti fu l’insistenza dei primi sul fatto che “la politica seria era fatta di appelli razionali e risultati positivi”, principio assolutamente sottoscrivibile ma che in nessun caso può essere dato per scontato. La politica come scontro nonviolento tra differenti opinioni e confronto tra argomentazioni può solamente essere un risultato che deve essere conseguito partendo da quel terreno nel quale vale la legge del più forte, la violenza, la brutalità e la volgarità (terreno al quale le forze della reazione e del fascismo vogliono, oggi come ieri, ridurre tutta la politica) E’ dunque una zona delle emozioni, o meglio una zona mista, non più solo emozione, non ancora politica, che costituisce il campo d’azione di una educazione alla politica; che rifiuta la facile alternativa del fermarsi al prepolitico ma che cerca invece di farlo crescere, prendendone sul serio le istanze proprio nel momento in cui le critica, affrontandone le dimensioni irrazionali e prerazionali per condurle almeno in parte all’ambito caratterizzato dall’esercizio della ragione. *Docente di Pedagogia generale sociale, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Milano-Bicocca

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I giovani: mondi possibili da scoprire La ricerca e la valorizzazione delle energie e della capacità di risposta dei singoli cittadini e delle comunità è il settore di investimento più importante per uscire dal disagio e contemporaneamente dalla crisi del welfare Alberto Terzi*

Le ricerche classiche sulla condizione giovanile stanno ai giovani italiani come la musica classica. Impeccabili nella descrizione dei fenomeni, intriganti nell’utilizzare indici confrontabili con il recente passato, sostenute da una scientificità di tipo accademico, ma dimostrano un forte limite per la chiave di lettura impiegata, che corrisponde a un punto di vista tipico del mondo adulto. I giovani, invece, non sono forse più vicini al rock? E’ persino illusorio dire che esiste una generazione giovanile ben distinta, non potendoci dimenticare che lo studio sociologico di questa fascia d’età è in continua evoluzione, visto che il range osservato negli ultimi anni si è sempre di più dilatato raggiungendo i 34enni. Proviamo a immaginare cosa possano condividere oggi i quindicenni con i trentenni. Parlare di generazione diventa quindi difficile o perlomeno rischioso, anche perché storicamente si assiste piuttosto a una sovrapposizione di generazioni. Ci sembra interessante sottolineare, come hanno sostenuto nel loro libro Contro i giovani Tito Boeri e Vincenzo Galasso che “non esiste uno scambio esplicito” a livello sociale tra le generazioni, tranne in famiglia. Si configura, inoltre, nel nostro Paese la persistenza di una sorta di egoismo pubblico a fronte di un forte altruismo privato, fattori che vanno ad incidere negativamente sulla condizione giovanile. In effetti, nel nostro sistema di welfare quanto è destinato ai giovani in termini di protezione è un compito lasciato in modo esclusivo alla famiglia, mentre a livello generale gravano su ogni ragazzo circa 80.000 euro di debito pubblico e 250.000 euro di debito pensionistico. Queste cifre, più di tanti discorsi retorici, pesano come un macigno sulla possibilità di volare da parte dei giovani e sulla volontà di pensare con un pizzico di speranza al futuro. Che la famiglia sia l’unico luogo di scambio tra le generazioni è un dato di fatto, così come l’innalzamento del debito pubblico è frutto di una progressiva deresponsabilizzazione della classe dirigente del Paese, la quale ha scelto di dopare lo Stato, trovando un modo di continuare a correre, anzichè fare i conti con la realtà e rimediare ai propri difetti. C’è una frase molto significativa nella cultura pellerossa che dice: “la terra non è ereditata dai genitori, ma presa in prestito dai figli”. In questo invito c’è una nuova visione della politica che potrebbe guidare le scelte di governo dei prossimi anni. Basti pensare a un tema attuale e impegnativo come quello dell’ambiente e al suo rapporto col futuro. Eppure solo negli ultimi tempi, timidamente, qualcuno sta mettendo sul tavolo l’urgenza di cambiare radicalmente l’approccio ai problemi e lo stile di far politica per iniziare a pensare più seriamente a costruire il futuro piuttosto che subirlo come destino ineluttabile. Mi sembra utile sottolineare anche il pericolo che sussiste al fenomeno

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prima identificato come “altruismo familiare”. Se da un lato la famiglia va promossa, sostenuta e rientra tra i valori fondamentali condivisi dai giovani, nel rovescio della medaglia, un eccesso di “aiuti”, piccoli e grandi, offerti ai figli produce una forte disabilità giovanile sia a livello individuale che sociale e si rafforza il significato del detto: “spesso un tetto sul capo non permette alla gente di crescere”. La famiglia mammona e pappona favorisce una dipendenza deleteria e persino alcune scelte economiche che il senso comune considera molto positive, in realtà consolidano degli immobilismi. Si pensi alla consuetudine di aiutare i figli nell’acquisto della casa. Si tratta di un investimento non generativo di mutamenti, di cultura, di creatività. Oggi c’è bisogno di investire in formazione qualificata, in progetti imprenditoriali e invece ci si rifugia nel mito della sicurezza e della stabilità: l’immobile, lo dice la parola stessa, non favorisce la mobilità, il cambiamento. Dunque, non deve essere scandaloso affermare che, per i giovani, la sicurezza è la cosa più pericolosa al mondo. Al contrario, la gioventù dovrebbe essere riscoperta come periodo privilegiato per l’esplorazione e il rischio, quel tipo di rischio che fa crescere molto di più che l’iperprotezione. Al riguardo, forse, bisognerebbe investire nella valorizzazione dei fallimenti, condizione propedeutica per crescere veramente, per sfuggire alle false sicurezze che proteggono dal rischio di vivere, infatti:”solo chi ha il coraggio di affrontare i grandi insuccessi puo’ ottenere grandi successi” Il disagio come chiave di lettura In questo periodo, diventa una consuetudine ritrovarsi immersi in molte letture depressive della società. Il sociologo F. Furedi nel suo libro Il nuovo conformismo (Feltrinelli 2005) imputa all’invasione di “troppa psicologia nella vita quotidiana” questa visione negativa che, nel suo proliferarsi, finisce per incrementare sempre più numerose risposte di tipo terapeutico, facendo innalzare vorticosamente la richiesta di servizi e generando nuovi business correlati a presunte nuove tipologie di disagio. Effettivamente le ricerche dicono che negli ultimi anni “si va diffondendo un’etica terapeutica per cui basta che un bambino sia un po’ vivace e turbolento che subito viene etichettato come affetto da un disturbo da deficit di attenzione con iperattività”. “Che dire poi degli studenti che si apprestano a fare l’esame di maturità, che si definiscono stressati per aver studiato durante l’anno per una media di un’ora al giorno?” Dopo tali affermazioni, Umberto Galimberti (Donna di Repubblica 2005) si chiede ”cosa c’è sotto questo cambiamento linguistico, per cui esperienze ritenute fino a ieri normali oggi vengono rubricate tra le sindromi psicologiche?” Forse “la patologizzazione delle esperienze umane… serve a creare un senso di vulnerabilità e quindi un bisogno di protezione, quando non addirittura di cura e …risponde all’esigenza di omologare gli individui, non solo nel loro modo di pensare, ma soprattutto nel loro modo di sentire.” “Non si fatica a scorgere, sotto l’imperativo terapeutico, l’intento di promuovere non tanto l’autorealizzazione, quanto l’autolimitazione degli individui che, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura la gestione della loro esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per il potere”. Questa, che potremmo

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definire “etica della salvezza”, ben configura la rappresentazione sociale dell’adolescenza oggi, probabilmente per nascondere che “ la crisi individuale, psicologica risulterebbe –secondo Benasayag e Schmit- inscritta in una crisi più generale… tipica dell’epoca delle passioni tristi… dove la crisi non è più l’eccezione, ma è essa stessa la regola… e dove la medicalizzazione conduce a considerare l’essere umano come un assemblaggio più o meno riuscito di molecole e i farmaci come unica risposta” (M. Benasayag, G. Schmit- L’epoca delle passioni tristi-Feltrinelli 2004). La nuova visione di welfare giovanile Immaginando l’adozione di una visione differente di welfare, dove i giovani possano essere considerati come mondi possibili da scoprire, cambierebbe anche la lettura della realtà e dei fenomeni ad essi collegati. Infatti, pur non ignorando le difficoltà sociali che oggi ci troviamo di fronte, è ben diverso educare in una società in crisi che vive nella paura piuttosto che nella fiducia rispetto al futuro. Tanto più questo vale per le nuove generazioni che, in qualche modo, sono state espropriate dei desideri e dei sogni ritenuti inutili rispetto alla minaccia che viene dal domani. Per uscire da questa situazione di stallo e di crisi, occorre avere il coraggio di ricercare e valorizzare innanzitutto le risorse personali e sociali. Si tratta, in effetti, di una nuova visione: quella di non concentrare tutto l’impegno progettuale e finanziario sul versante emergenziale e riparativo. L’ipotesi che rafforza questa visione è la seguente: la ricerca e la valorizzazione delle energie e della capacità di risposta dei singoli cittadini e delle comunità è il settore di investimento più importante per uscire dal disagio e contemporaneamente dalla crisi del welfare. Il nuovo welfare, che potrà coinvolgere i giovani come co-protagonisti, non sarà quindi una sommatoria di servizi da erogare, ma un progetto, il più partecipato possibile, dove le risposte vengono costruite con l’apporto dei cittadini come singoli e come nucleo familiare, ma soprattutto come risultato di una rete identificabile nelle comunità solidali. Si tratta, in poche parole, di un welfare non assistenziale, bensì generativo sia di adeguate personalizzazioni, sia di scelte orientate verso il bene comune. L’investimento in educazione Non è troppo strano pensare che per lo stato sociale del futuro occorra puntare molto di più, rispetto a quanto non si sia fatto sino ad oggi, su scuola e cultura e più in generale sull’educazione, quindi sulle giovani generazioni. Insieme alla dimensione della cura e a quella dell’inclusione, l’educazione è l’elemento portante del nuovo welfare che si vuole prefigurare. Questo significa che dentro le politiche di welfare sono inserite anche quelle socio educative, caratterizzate da una prerogativa centrale: quella di investire in capitale umano per mettere in condizione ciascun individuo e la comunità a cui appartiene di produrre ricchezza sociale, quella ricchezza che renderà sostenibile, anche finanziariamente lo stato sociale del domani. Ciò significa altresì portare una visione umanistica e non solo scientifica

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nel dibattito sul nuovo welfare che rischia di essere ridotto a un puro meccanismo, fatto solo di tecnicismi. Detto in altro modo, vi è l’urgente necessità di riaffermare la centralità della persona e di potenziare il sistema socio educativo: questo non solo perché è giusto ma anche perché è intelligente in quanto queste due linee portanti possono creare, nel medio-lungo periodo, sviluppo, innovazione e capacità redistributiva. Tutto questo potrà avvenire solo lavorando per incrementare il livello di consapevolezza dei cittadini singoli e associati, sapendo coniugare i diritti con le priorità e la sostenibilità delle scelte. Si tratta di tradurre il concetto di sussidiarietà come occasione di partecipazione e di protagonismo, superando l’eccessiva dipendenza dallo Stato e integrando piuttosto le ricchezze di ciascuno. Il Welfare di Comunità, o meglio il benessere della comunità non si dovrà fondare su una maggiore attività assistenziale o sanitaria, ma dovrà innanzitutto incidere su nuovi modelli di produzione e sulla società dei consumi .In poche parole, è questa l’occasione per iniziare a ripensare gli stili di vita, gli obiettivi sociali e le modalità per raggiungerli. Il benessere non dovrà essere concepito come un prodotto a disposizione sul bancone dei supermercati, ma come il risultato di una progettazione e co-costruzione che veda coinvolti i cittadini, le imprese profit e no-profit e le istituzioni. Anche il ruolo delle istituzioni dovrà essere ridefinito in questa visione moderna del welfare. Agli enti locali spetterebbe naturalmente un ruolo di regia politica, ma questo ruolo dovrà essere conquistato sul campo con autorevolezza visto che il termine “pubblico” non necessariamente coincide con gli enti pubblici, ma misura la capacità di essere di un servizio che i cittadini e le comunità riconoscono come proprio. Questi sono probabilmente i presupposti per una nuova concezione dell’economia più legata a un concetto di qualità della vita diffusa e fondata sul principio che l’incremento della felicità individuale non può prescindere dall’incremento della felicità sociale. E’ in questa prospettiva che si potranno invitare i giovani, per primi, a diventare protagonisti di un nuovo welfare mirato allo sviluppo sociale, attento contemporaneamente al benessere individuale e comunitario e pienamente inserito in una nuova concezione di economia. Per aprire un dibattito nel paese Troppo spesso si collega la parola giovane al concetto di futuro dando per scontato che l’unico protagonismo possibile è quello riservato agli adulti. Diventa urgente oggi mutare atteggiamento e mettere all’ordine del giorno il loro tempo presente, la possibilità concreta di essere riconosciuti e protagonisti da subito, nell’ oggi, per poter esercitare la propria soggettività generazionale. Il paradosso che si verifica all’inizio del terzo millennio è l’appropriazione diffusa del giovanilismo a fronte di un’espropriazione di ruolo di chi, almeno per età, ha diritto a chiamarsi tale. Questa riflessione non prelude a nessun tipo di rivendicazione attorno alle priorità. Si tratta piuttosto di una sottolineatura che, ci auguriamo, possa favorire un riequilibrio tra le diverse generazioni quale condizione per aprire un dialogo nella comunità e per ridefinire il ruolo sociale di ciascuno.

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Verso le politiche giovanili Dopo un periodo non breve di sperimentazione di numerosi progetti mirati ai giovani, in cui soprattutto gli enti locali hanno dimostrato tutta la loro vivacità, sembra giunto il momento di favorire il coordinamento delle politiche giovanili a livello nazionale. La storia più recente ci dice che agli inizi degli anni ’90, con la legge 309 sulle tossicodipendenze, sotto la dicitura prevenzione primaria siano state elargite ingenti risorse agli enti locali per i progetti giovani. Nel ’97, invece, la legge 285 ha introdotto un nuovo approccio promozionale, ma il suo raggio d’azione era limitato ai minori fino a 18 anni, e col tempo si è ridotta anche la sua iniziale forza innovativa. Infine, la legge 328, che ha riordinato le competenze nel campo sociale, ha aperto il tema del territorio e del coinvolgimento dei diversi soggetti sociali nella progettazione dei servizi. Pur non trattandosi di una legge specifica per i giovani, certamente potrebbe stimolare significativi cambiamenti. Ma per ora ci fermiamo al potrebbe perché questa occasione non ci sembra sia stata colta. Se questo è il recente passato, sembra tornata all’ordine del giorno la possibilità di emanare una legge specifica sulle politiche giovanili. Tralasciando per il momento la difficoltà a livello nazionale di poter coordinare con efficacia gli interventi rivolti ai giovani, vista l’eccessiva frammentazione delle competenze ministeriali, proviamo a elencare alcune riflessioni e stimoli che, secondo la nostra opinione, dovrebbero essere presi in considerazione nel percorso legislativo. - la prima riflessione è anche identificabile come un obiettivo: la promulgazione di una legge sui giovani deve essere il risultato di un itinerario di partecipazione che li veda coinvolti in prima persona in un dialogo aperto e franco con la generazione adulta. Si potrebbe immaginare un percorso di progettazione partecipata della legge come esempio di metodologia da adottare per incrementare il livello di cittadinanza attiva - il tema della partecipazione richiama immediatamente il delicato argomento della rappresentanza. L’universo giovanile è in continuo movimento e spesso chi pretende di rappresentarne una parte anche consistente, come le grandi organizzazioni, alla prova dei fatti ne rappresenta a mala pena il vertice. Sarà necessario trovare modalità idonee a garantire coloro che vogliono prendere parte al processo di coinvolgimento al di là delle sigle classiche, conciliando l’esigenza di un’equa rappresentanza territoriale con la necessità di aprire spazi di ascolto diffuso. - la legge deve essere l’occasione per un riordino e un effettivo coordinamento di competenze e di azione tra i diversi ambiti che interessano i giovani quali la scuola, la formazione, il lavoro, la cultura e il tempo libero, ambiti che non devono essere staccati dagli interventi mirati di integrazione sociale e di prevenzione o recupero. - Il capitolo giovani, nei bilanci delle amministrazioni pubbliche, pur avendo una sua specificità, dovrà essere affrontato in modo interdisciplinare, dovrà uscire dai confini limitati dell’ambito sociale per interessare tutti gli assessorati (dall’urbanistica ai lavori pubblici, dallo sport e alla cultura, ecc.). - L’apertura culturale di una legge veramente innovativa dovrebbe introdurre anche il confronto con il mondo delle imprese profit e no-profit, per sollecitarle a collaborare sul tema del lavoro, del tempo libero, dell’ambiente e per capire i van-

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taggi e gli svantaggi della globalizzazione. Le imprese potrebbero diventare delle palestre di allenamento e di sperimentazione per i giovani scegliendo alcuni ambiti di investimento come la creatività. - Un’attenzione particolare dovrebbe essere prestata alle imprese sociali di comunità che sono l’evoluzione delle cooperative sociali radicate nel territorio e interessate a rafforzare e ricostruire i legami di comunità. Forse sono queste le realtà più interessanti in cui i giovani stessi possono sperimentarsi in un ambiente di tipo cooperativo, mettendosi in gioco e vivendo concretamente il concetto di cittadinanza attiva. Associarsi, partecipare alla vita democratica, fare impresa, progettare, avere delle relazioni, essere in contatto con un territorio, lavorare, fare comunità. Anche prevedere un periodo limitato, ma significativo in questo tipo di realtà risulterebbe un importante investimento sociale. - La legge dovrebbe prevedere l’apertura di un canale privilegiato di collaborazione con le istituzioni scolastiche. Questo consentirebbe la possibilità di promuovere progetti mirati sul alcuni temi quali la creatività, le arti espressive, le esperienze di cittadinanza attiva, gli scambi culturali nazionali e internazionali, il tempo libero. Le scuole superiori e le università sono dei bacini fertili dove sperimentare le innovazioni. Per un cambio di paradigma e di modelli di intervento L’attenzione che sta ricevendo la condizione giovanile oggi in Italia può essere l’occasione per programmare un investimento pluriennale a redditività differita nel tempo. E’ necessario essere consapevoli che questa scelta politica richiede un cambio di paradigma, il mutamento dell’approccio verso i giovani cittadini. Ecco, in sintesi, i punti principali che dovrebbero caratterizzare le proposte e le azioni del futuro: a) i giovani non sono un problema sociale, sono dei cittadini in crescita che possono diventare attivi nella costruzione del presente e del futuro b) le politiche giovanili e qualsiasi provvedimento che li riguardi deve prevedere l’ascolto delle loro opinioni e un loro coinvolgimento attivo c) i giovani possono collaborare creativamente sul versante della coesione sociale, del rapporto intergenerazionale, per iniziare a ricostruire le nuove comunità possibili d) le metodologie di studio e di ricerca devono innovarsi ed essere arricchite di strumenti che siano in grado di cogliere la varietà e le peculiarità del mondo giovanile. E’ necessario adottare nuovi approcci nelle indagini, anche per sondare le risorse invisibili piuttosto che le presunte carenze. Un maggiore coinvolgimento di gruppi giovanili nelle indagini, in qualità di ricercatori, potrebbe garantire nuove scoperte e nuovi approfondimenti e) le chiavi di lettura legate al disagio e al rischio non sono idonee per leggere la condizione giovanile nel suo complesso e producono stereotipi negativi. f ) La scelta culturale di considerale la prevenzione come proposta forte da somministrare innanzitutto al pubblico giovanile è controproducente e illusoria

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in quanto alimenta il mito della sicurezza assoluta, che non esiste e solleva la realtà adulta dalle sue responsabilità educative. g) I servizi tradizionalmente pensati e realizzati per gli adolescenti e i giovani possono essere riprogettati alla luce del nuovo paradigma. Alcuni potranno persino essere considerati superati, altri, invece, potranno essere sperimentati per la prima volta. h) Gli operatori impegnati nei servizi rivolti ai giovani devono essere coinvolti in questa fase di cambiamento e probabilmente dovranno essere rivisti i profili professionali e i programmi di formazione. i) Un’attenzione costante al tema e alla pratica della valutazione dell’efficacia degli interventi deve far parte integrante del nuovo paradigma anche in considerazione del fatto che i ritardi e la scarsa considerazione riservata finora alla valutazione ha certamente limitato la possibilità di raggiungere risultati più ambiziosi. j) il vero cambio di paradigma avverrà quando, e questo è il paradosso, si investirà di più sugli adulti, sul loro rapportarsi ai giovani, sulla centralità del fattore educativo come scelta di reciprocità e non come obiettivo riservato ai minori e ai giovani. Tutti, attraverso le relazioni, sono degli educatori, ma gli adulti lo sono in primo luogo, sia che facciano gli imprenditori, gli insegnanti o i genitori. La proposta della cooperazione sociale La cooperazione sociale, nella sua accezione moderna di impresa sociale di comunità, si candida a svolgere un ruolo rilevante sulle politiche giovanili come soggetto di mediazione e di stimolo creativo che mette a disposizione le sue competenze e i suoi luoghi per offrire ai giovani delle opportunità di crescita e di protagonismo individuale e collettivo. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che: a) il campo di azione non sia ristretto ai cosiddetti servizi sociali, ma consenta di rimettersi in gioco globalmente nell’ambito socio-economico. Si tratta di una scelta cruciale per uscire dal ghetto del sociale e ampliare le possibilità di interconnessione per tutti i giovani, compresi quelli con problemi di effettivo disagio. b) Il concetto di servizio pubblico sia rivisto e possa essere esercitato da più soggetti possibile nel rispetto di regole predefinite, e con l’obiettivo di allargare l’assunzione di responsabilità sociale e di rafforzare il senso di appartenenza al territorio. Queste sono le condizioni che potranno stimolare i giovani a prendersi cura del bene pubblico e a capire cosa significa essere comunità. c) La progettazione e la gestione dei servizi promuova il coinvolgimento dei fruitori e sia l’occasione per migliorare il livello di consapevolezza rispetto agli obiettivi e ai costi socio-economici. I giovani dovranno diventare co-costruttori del welfare di comunità. d) Il modello cooperativo sia sostenuto e diffuso come scuola di partecipazione e dialogo e come scuola di imprenditorialità sociale dove i giovani sperimentano concretamente cosa significhi essere cittadini attivi. *Sociologo, Centro Studi Prospettive, Luoghi per crescere - Consorzio CGM

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Interviste doppie Il tentativo rappresentato dalle interviste rivolte a giovani e adulti è quasi scontato ma “nobile”: parlare dei giovani partendo dalla loro voce. Voce espressione di uno spazio giovanile per eccellenza, la strada, e setting di quel particolare servizio educativo definito, appunto, educativa di strada. Pensieri che, con un paradosso caratteristico dei processi formativi, vengono ascoltati, valorizzati ma ritenuti anche costitutivamente insufficienti a definire se stessi. Con atteggiamento di sperimentazione, abbiamo rivolto le stesse domande agli adulti che, insieme alle loro risposte troverete, per ragioni di spazio, sul sito internet della rivista, www.pedagogia.it. Le interviste così composte diventano narrazione e rielaborazione delle storie di formazione di adulti oggi professionalmente impegnati in qualità di educatori o insegnanti. Dal confronto sulla “carta”, come da quello “reale” di ogni giorno, si sviluppano i processi formativi e si delinea lo spazio di azione del soggetto “educante” nonché il percorso di crescita e di cambiamento del soggetto “educando”. Alla elaborazione dell’intervista hanno collaborato gli educatori Gianluca Salvati, Sabrina Trinca e Davide Crivelli

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Nome & Soprannome Età Numero di scarpe -

Francesca 18, 40

Anonima 18, 38 1/2

A cosa ti serve la scuola?

A imparare il lavoro che voglio fare

In teoria a niente. In pratica ad avere un pezzo di carta che mi permette di essere assunta prima di quelli che hanno solo la terza media

Hai un minuto. Racconta un episodio legato alla scuola che ti ha fatto crescere -

C’era un ragazzo con un handicap e i soliti bulletti lo prendevano in giro e gli facevano gli sgambetti. Lì ho capito la cattiveria e che mai avrei voluto essere come loro.

lo stage che ti fanno fare a scuola ti fa vedere sia le cose belle che quelle brutte del mondo del lavoro

Parliamo di modelli di riferimento: a chi vorresti assomigliare? Perché?

Paola Barale, perchè è una donna con gli attributi

Ai miei genitori. Sono le persone che mi hanno fatto crescere e hanno dato i valori giusti sia a me che a mio fratello


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Qual’è la persona fidata a cui confidi i tuoi segreti o parli dei tuoi problemi?

Mia mamma

Le mie amiche e mio fratello

Scatti una fotografia della tua vita: quali sono gli adulti presenti?

Mamma, papà, nonna

I miei nonni, i miei genitori e mio fratello

In una classifica dei valori, chi occupa i primi tre posti?

1-famiglia 3-amicizia

Famiglia, amici , scuola

Cosa conta per i giovani?

Penso ci sia un passaggio nel quale pensiamo di spaccare il mondo. Ci mettiamo contro tutti e l’amicizia è la cosa che in quel periodo conta di più.

Il divertimento e trovare qualcuno che li capisca IN TUTTO

Ora occupiamoci di politica: dicono che i giovani non sono interessati. Tu cosa ne pensi?

A me interessa, però sto cominciando ora a capirne qualcosa.

Io sinceramente non me ne intendo, vorrei solo che non ci fossero stranieri

Ti senti arricchito dall’idea di poter votare?

Mi sento più partecipe

no

Trasgredire significa... Una ragazza/o trasgredisce perché...

perchè non si da ascolto agli altri e si fa come si vuole

Non viene capito dagli adulti e non ci sono spazi in cui può passare il tempo.

Per finire uno sguardo al futuro: come lo vedi? Di che colore è?

Azzurro e giallo: sole e mare

Pieno di stranieri anche se spero proprio di no

Salutaci con i versi di una canzone

come saprei amarti io, nessuno saprebbe mai.... Io ci metterò tutta l’anima che ho...

I sogni son desideri... (cenerentola)

2-amore

Dossier

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Emigrati in patria Fra i tanti “universi giovanili” che compongono la nostra società c’è anche questo: un universo formato da ragazzi normali, costretti a emigrare, sponsorizzati solo dai genitori, per completare la formazione a cui pure hanno diritto Francesco Pasetto*

Esiste ancora un genere di emigrazione interna che viene considerata un fatto ordinario. Potremmo definirla una specie di transumanza moderna, imposta a una parte considerevole della popolazione giovanile. Nelle frazioni rurali o montane, scampate all’urbanizzazione forzata, all’inizio di ogni autunno i diciottenni che vogliono frequentare l’università devono lasciare la casa paterna, i luoghi di origine, i compagni dell’età spensierata, il loro modo abituale di vivere, per inurbarsi. Fra i tanti “universi giovanili” che compongono la nostra società c’è anche questo: un universo formato da ragazzi normali, costretti a emigrare, sponsorizzati solo dai genitori, per completare la formazione a cui pure hanno diritto. Noi questo universo giovanile lo conosciamo bene, perché abitiamo a Lonnano (Pratovecchio): una frazione di 200 abitanti, collocata sui 700 metri di altitudine, nell’alto Casentino, a 50 chilometri da Arezzo e 60 da Firenze, priva di qualsiasi collegamento pubblico diretto con i centri urbani. In queste condizioni la vita di pendolare non solo è scomoda: è impossibile. Non resta che trapiantarsi. Ma quanto spende una famiglia di montagna per mantenere il proprio figlio all’Università? Quali problemi si trova ad affrontare un giovane che per completare gli studi deve emigrare, senza neanche il vantaggio di apprendere una nuova lingua? è molto svantaggiato rispetto ai compagni di città? In che senso? E le scuole medie periferiche forniscono una preparazione adeguata? Queste le domande che gli universitari del circolo ACLI di Lonnano si sono poste nel 2007, mediante un questionario e due incontri molto partecipati. Non si può dire che i dati emersi siano tutti sorprendenti. Servono comunque a far conoscere i problemi di una categoria di giovani non esigua, e a richiamare le istituzioni a una presenza più incisiva. Nella consultazione sono stati coinvolti diversi studenti, distribuiti tra Firenze, Bologna, Arezzo in quattro facoltà: ingegneria, lettere e filosofi, fisica, lingue. Sul capitolo oneroso delle spese incide molto l’affitto: da 250 a 300 euro al mese. In un anno una famiglia dell’alto Casentino spende più di 3000 euro per offrire al figlio universitario una camera più uso di cucina, in alloggi condivisi con 2 o 3 compagni d’avventura, dove di regola è impossibile dedicarsi a un serio studio personale. Si avvia così uno spostamento considerevole di ricchezza dalle aree sovente depresse della campagna o della montagna alle aree sviluppate della città. Per il vitto un giovane costretto a vivere lontano da casa sborsa mensilmente dai

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100 ai 200 euro: dipende da quanto spesso uno torna in famiglia nei fine settimana e dalla reale possibilità di ricorrere a mense scolastiche e simili. Le tasse universitarie variano anch’esse, soprattutto in base al reddito familiare. Nel 2007 si collocavano fra i 900 e i 1500 euro all’anno. La ricerca del materiale didattico ha sempre stimolato l’inventiva: i testi costano troppo e le biblioteche non riescono a soddisfare la domanda di prestiti. Vengono così adottati mezzi discutibili: fotocopie, dispense, internet, appunti compilati dagli studenti stessi… Eppure, nonostante il ricorso sistematico al metodo di arrangiarsi, alcune centinaia di euro all’anno il materiale didattico le richiede. Consistente la spesa per i viaggi. Gli spostamenti legati alla frequenza universitaria o al ritorno periodico in famiglia vengono a costare mediamente 600 euro annuali. Ma c’è chi, muovendosi con l’auto propria, in un anno ha speso 1300 euro. In conclusione, solo calcolando le spese strettamente necessarie, una famiglia dell’alto Casentino per mantenere il figlio all’Università nel 2007, ha dovuto accantonare dai 6000 agli 8000 euro annuali. E se un nucleo familiare ha più di un figlio? E se l’unico reddito è quello di un pensionato? Per essere completo, il bilancio di un universitario di montagna o di campagna costretto a vivere in città deve tener conto dell’impatto psicologico causato dal brusco sradicamento. Giusto dunque interrogarsi sul rapporto con la famiglia e il luogo d’origine. Nei riguardi sia dell’una che dell’altro, il sentimento più diffuso è la nostalgia. L’ammissione sembra tanto ovvia da essere banale. Sennonché le parole usate dagli interessati dimostrano l’intensità delle emozioni. La «vera casa» (cioè quella del paese d’origine), i «monti» rivestiti del verde dei boschi e dei prati, l’«unione sanguigna» con i familiari continuano a esercitare una forte attrazione in chi di colpo si ritrova nel grigiore dai panorami fatti di muri e dell’anonimato. Per fortuna il tempo è un’ottima medicina. Le visite in famiglia si rarefanno. I genitori si sentono per telefono. E un po’ per volta si finisce con l’accettare la nuova esistenza, anche se appare «sdoppiata in due semivite». Qualcuno arriva a scoprirsi «fortunato». Il motivo è presto detto «Più amici, più opportunità, più mondo! E più uomo di mondo chi lo abita!». Balena allora l’idea che un ritorno al paese natale, lontano dal “mondo”, potrà non sembrare più così indispensabile. Accanto alla famiglia, grande importanza è attribuita alla scuola. Quale giudizio merita l’operato degli insegnanti, che nelle scuole periferiche cambiano troppo spesso? Sono riusciti a fornire gli strumenti culturali necessari a superare le prove per l’ammissione e a seguire i corsi universitari? Insufficiente è valutato l’insegnamento della matematica sia da chi ha frequentato l’istituto professionale, sia, ma in misura meno grave, dagli allievi del liceo o dell’istituto industriale. Specialmente per superare gli esami fondamentali di analisi, tutti, chi più chi meno, hanno dovuto ricorrere a un duro lavoro personale o a lezioni private. Molto meglio si sono trovati gli iscritti alle facoltà letterarie e linguistiche.

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Valida è ritenuta la formazione umana, meno che da due, i cui giudizi suonano come monito per tutti. Uno rimprovera agli insegnanti di essersi limitati a fornire nozioni. L’altro, che pure risulta un ragazzo molto disinibito, nota che «la disciplina non fa più parte dell’educazione scolastica: dappertutto c’è mancanza di rispetto per le regole, anche le più ovvie». E si rammarica che gli abbiano lasciato fare tutto quello che voleva «a casa e a scuola». L’organizzazione della giornata di uno studente ruota attorno all’orario delle lezioni ed allo studio. Ma quando si è lontani da casa bisogna provvedere alle pulizie, ai pagamenti, alla spesa, alla preparazione dei pasti: impegni che in una famiglia riempiono di solito la giornata di una donna. Eppure, stranamente, nessuno degli universitari si lamenta, nessuno dice di sentirsi sfavorito rispetto ai compagni che, vivendo con i genitori, trovano tutto pronto. è anzi molto apprezzata la possibilità di «autogestirsi». E poi per un giovane la vita bohémienne ha il suo fascino. Non è male poter «studiare, mangiare e dormire in ordine più o meno casuale». La sera si trovano sempre compagni con cui conversare davanti a una birra, e modi di ricaricarsi. Per le spese extra è facile trovare un lavoretto. Lo stesso ingaggio in una squadra di calcio rende qualcosa. Senza contare che i casentinesi hanno potuto disporre, almeno fino ad ora, di una risorsa mitica: la raccolta dei funghi. «In casa mia – dice uno – è un lavoro! Non c’è da scherzarci, né da sputarci sopra, visto che, se vanno bene quelli, mi ci pago scuola e vacanza!... E poi è passione al 100%!». Dal secondo anno in su, chi ha i requisiti di merito e di reddito può usufruire della collaborazione part-time presso l’Università. Per superare le difficoltà iniziali sia nell’adattarsi alla città, sia nell’organizzare la vita universitaria (quali corsi seguire? quali esami programmare? dove trovare il materiale didattico? come contattare i professori?...), l’aiuto decisivo viene, secondo il parere di tutti, dagli amici. Il cameratismo porta i suoi frutti. Anche se la convivenza forzosa nel medesimo appartamento e talvolta nella stessa camera è vissuta come un limite gravoso alla libertà personale e alla privatezza. Le cose che più mancano? Sono in generale quelle piccole che hanno riempito la vita da ragazzi e da adolescenti: «Aria pulita, silenzio, volti amici, giardino, verdure dell’orto, pane cotto bene, caminetto». Un veterano precisa: «Non ci sono, a mio giudizio, cose che mancano; piuttosto ci sono cose che si possono percepire un po’ distanti. La famiglia non mi ha mai dato l’impressione di mancare. Gli amici di sempre sono lì dove li ho lasciati. L’amore, per fortuna, è qui con me. L’unica cosa che mi manca è la possibilità di essere presente nell’aiutare a casa». In conclusione, coloro che hanno trovato la forza di affrontare senza complessi le difficoltà scoprono solo aspetti positivi. La sintesi dei vari giudizi è nel riconoscimento di un altro veterano: «In questi anni ho acquistato grande fiducia in me stesso, oltre ovviamente all’enorme esperienza di vita che ho fatto». Un bilancio sulla crescita umana lo tracciano le parole entusiastiche di un laureando: «Dall’esperienza universitaria vissuta appieno si esce arricchiti e potenziati

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sotto molti aspetti. Anche se non conoscessi i miei amici, in cinque minuti sono sicuro che distinguerei gli universitari. Sono diversi, punto. Sanno essere professionali nelle loro materie, precisi nell’esposizione, sicuri delle proprie idee, critici su tutto, dogmatici in nulla… Cosa marchia un universitario affermato? La critica costruttiva.» Una matricola più semplicemente ha già intuito che «l’Università te la fai da te: non hai più professori che ti seguono individualmente. Questo ti forma il carattere e ti porta a fare le cose da solo». Alla fine di tutto, un adulto che ha seguito questi discorsi è portato a chiedersi: ma chi sono i veri privilegiati? Gli universitari di città che continuano a vivere in famiglia, serviti in tutto e per tutto, o quelli come i casentinesi di montagna che sembrano gettati allo sbaraglio? Rimane comunque il problema economico. Una cosa è certa: i genitori, impegnati a far sentire la loro presenza e il loro sostegno ai figli lontani, vanno aiutati. Il calo della natalità è diventato un cruccio nazionale. Da ogni parte si reclama una politica di sostegno alle famiglie. Le analisi teoriche si sprecano. Fioccano le denunce generiche e le facili promesse, nelle quali si sono specializzati proprio quelli che dovrebbero governare. Oh, la lucidità di certe autorevoli disamine!... Peccato che poi manchino le iniziative concrete. Tanto per cominciare, le istituzioni potrebbero alleggerire l’eccezionale impegno finanziario che i residenti in aree periferiche devono affrontare per mantenere i giovani all’Università. Si tratta di garantire a tutti l’effettiva possibilità di completare la propria formazione umana e professionale. Questo, fra l’altro, impone la nostra Costituzione. Già l’art. 31 decreta che lo stato agevoli finanziariamente non solo la formazione della famiglia, ma anche «l’adempimento dei suoi compiti». Sui figli poi, l’art. 34 precisa: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze». Magari non lasciate cadere a pioggia, come se tutti si trovassero nelle stesse condizioni. Vivere da emigrati, si sa, non è mai lo stesso che vivere a casa propria. *Teologo salesiano

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Una poetica della comprensione del mondo L’educazione è accoglienza e cura. È un cammino di libertà che esalta la sensibilità e che si serve della metafora per aiutare il soggetto a costruire i propri strumenti di lettura e di orientamento a fronte dell’incertezza che le interpretazioni evocano Anita Gramigna*

Comprendere e interpretare Ci sembra che alcuni topoi rappresentino le pietre miliari che segnano la strada dell’Occidente contemporaneo fra formazione, conoscenza e interpretazione e che sanciscono l’ermeneutica come una sorta di linguaggio della ricerca: un esperanto della conoscenza, per la sua natura metaliguistica. Sono i luoghi di temi che riteniamo cruciali ai fini della nostra ipotesi di riflessione, ovvero: - il linguaggio come forma dell’interpretare e del comprendere e dunque come sistema tras-formativo; - il soggetto interpretante che si forma nel mentre che tras-forma il suo campo euristico e, con esso, il mondo. Ed è nell’attraversamento di questi “documenti” che lo studioso giunge ad una antropologia della formazione e, quindi, ad una più ampia comprensione del sé – in quanto persona, in quanto etnografo - perché in questa lettura la costruzione del soggetto e quella del significato si richiamano vicendevolmente. La lezione di Ricoeur qui appare chiara, e tuttavia, prima ancora del filosofo francese, già Heidegger1 pone la questione dello svelamento dell’implicito, dell’essenziale, dell’inespresso, per cogliere, della tradizione, quanto si conserva dell’origine. Nell’analisi delle testimonianze di comunità educative, ideologie pedagogiche, prassi e consuetudini formative, noi cogliamo quell’implicito che deve essere reso evidente, portato in superficie, per meglio definire entro quei “documenti” il significato profondo di una antropologia della formazione. L’unità di senso del testo – del dato, del reperto, della testimonianza, quale che sia – deve essere, almeno temporaneamente, dissolta nella trama relazionale tras-formativa che sigla, nella “struttura del suo discorso”2, l’implicito pedagogico e che la lega al “soggetto-nel-suo-ambiente”. 1  Cfr. fra gli altri, M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tubingen, 1972, tr. It. a cura di P. Chiodi, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1986; M. Heidegger, Saggi e discorsi, tr. It., Milano, Mursia, 1976; e G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Genova, Marietti, 1989 (2). 2  Qui l’allusione è a J. Derrida in quanto la sua teoria della decostruzione si pone come uno sviluppo dell’operazione di svelamento del testo operata da Heidegger. In merito cfr. J. Derrida, Della grammatologia, tr. it., Milano, Jaca Book, 1969; id., La scrittura e la differenza, tr. it., Torino, Einaudi, 1990;

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Un segno distintivo di questa strategia investigativa risulta pertanto l’esplorazione di dati poco o per nulla strutturati, l’ampio utilizzo di descrizioni, narrazioni, interpretazioni. Si tratta di cogliere le implicazioni formative di situazioni quotidiane, contingenti, che spesso cadono sotto la soglia della nostra attenzione, ma che evocano un mondo di simboli e di processi. Simboli e processi che devono essere letti. Per questo motivo riteniamo che uno sguardo poetico del piccolo e del contingente ci aiuti a rilevarne la dimensione universale, ossia, di connessione delle processualità trasformative che strutturano tanto la cognitività, quanto l’educazione, quanto infine, l’esperienza stessa. Di più, che ci aiuti a leggere la vita in termini di unione cangiante e relazionale dell’io nel noi, dell’oggi nel passato e nel domani, dell’emozione nella ragione, dell’estetica nella metodologia, dell’etica nella poesia, come ci suggerisce Morin3. Alla luce di queste considerazioni vorremmo ora ripercorrere, con pochi cenni veloci, alcuni fra luoghi in cui si è posta la questione di tali tematiche, che riteniamo cruciali ai fini di una riflessione sulla pedagogia interpretativa, come di una sua autoermeneusi. Nietzsche sigla l’individuo nell’attività interpretante attraverso la quale cerca di afferrare il reale. La conoscenza, quindi, si genera entro i movimenti di tensione che erompono, appunto, fra il soggetto e l’oggetto, fra l’ermeneuta ed il mondo. Nel progressivo e conseguente configurarsi di tali campi e forze, ha luogo l’atto del conoscere che è, ad un tempo, comprensione del reale e costruzione della coscienza. Per il filosofo, la coscienza non può essere trasparente a se medesima, perché il sapere – dunque anche quello che riflette sulla coscienza - si gioca nel conflitto delle interpretazioni, nelle eccedenze e nelle resistenze che evocano, e che risolvono la questione della verità in sentimento del tragico4. Il senso di una euristica etica è appunto in questo, ovvero, nella consapevolezza umile del miraggio che sempre l’ermeneuta evoca a se stesso e che tuttavia non lo distoglie dal suo inesausto interrogarsi. Crediamo che tale attitudine sia alla base di quell’autosorvegliarsi che pone il ricercatore entro il suo contesto di studio in una posizione di apertura ad ogni sorta di imprevisto, pronto a ricodificare la sua epistemologia a fronte del rinnovarsi dell’esperienza e a studiarne le implicazioni prassiche sul piano dell’investigazione scientifica come su quello delle pratiche educative, didattiche, formative. Già con Nietzsche, la strada è pronta per fare dell’interpretazione del linguaggio lo strumento attraverso il quale si descrive l’esperienza. E si costruisce il mondo. Ma, nella riflessione che desideriamo proporre l’esistenza è ancora al di là, oltre il confine di quell’esperire cosciente che solo la poetica può visitare e che solo l’estetica id., La disseminazione, tr. it., Milano, Jaca Book, 1989; id., Margini, tr. it., Torino, Einaudi, 1997. 3  E. Morin, L’etica, Milano, Cortina, 2006. 4  F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1991; per approfondire cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 1992; H. Heidegger, Nietzsche, Milao, Adelphi, 1994..

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può intuire. Sta in quel fluire tras-formativo che è la vita, poiché, secondo la geniale intuizione di Maturana e Varela, ogni atto biologico è atto cognitivo5. Una sorta di naturale processo interpretativo. L’aria che respiriamo, il cibo che consumiamo, l’eros che ci scuote … sono i movimenti della vita attraverso i quali assumiamo informazioni sull’ambiente che abitiamo, ma, ad un tempo, le trasmettiamo, in un intreccio cangiante di reciproche interazioni. Una “danza” di relazioni che ci costituisce in quel “noi”, che non è semplicemente “l’io con l’altro”, ma che è anche “il mondo”. I mondi. La conoscenza è in questo agitarsi della vita, come nel gioco di specchi del nostro inquieto interpretare. L’educazione, i suoi progetti, l’intenzionalità, le normatività, le prescrizioni, le razionalizzazioni, i suoi imprevisti e le latenze, l’acquisizione delle abilità, le tecniche, le strategie ed i metodi… tutto ciò e altro ancora, si recita sullo sfondo di questo scenario misterioso ed arcaico al quale solo uno sguardo estetico ed un’etica poetica possono attingere. E la formazione è altro ancora: è conoscenza e costruzione, è conoscenza della conoscenza, è progettualità educativa ed è casualità educativa, coscienza e imprevisto, silenzio e mistica, emozione e mistero. È cibo, aria, eros. È vita. Ovvero tras-formazione. Per questo pensiamo che la razionalità educativa sia arrogante nella misura in cui non tenta di studiare criticamente i suoi miti e, quando, di conseguenza, cade nel miraggio delle sue stesse narrazioni. Riteniamo che sia arbitraria nel pensare di disegnare il destino formativo del soggetto o di una comunità, perchè non tiene conto né della natura multidirezionale del processo formativo, né degli imprevisti che sempre irrompono nella storia relazionale del soggetto, né, infine, della natura interpretativa della sua teoresi, come di ogni esperienza del mondo. È violenta quando si prende troppo “sul serio”, e, ad un tempo, è ingenua quando rinuncia ad una critica radicale e destrutturante delle sue narrazioni come delle esperienze che propone. Ed è Gadamer che, in Verità e metodo6, mostra come l’interpretazione sia il segno di ogni possibile esperienza del mondo. L’esperire ha un ruolo propriamente conoscitivo in quanto, trasformando la coscienza, le rende possibile, attraverso ulteriori esperienze, una “fusione di orizzonti”, cioè a dire, una sintesi, un’integrazione che via via si arricchisce e si complica, pur non prescindendo mai dalla realtà storica del soggetto che conosce, ovvero, dell’ermeneuta. E dunque la sensibilità7 ci apre spazi conoscitivi che il metodo classico della scienza non contempla. Di qui, aggiungiamo noi, la straordinaria importanza di una poetica dell’etnografia, di uno sguardo estetico sull’alterità, di una tensione etica – vorremo dire quasi “affettiva” - verso la differenza, le differenze, e le magiche cangianti armonie di interazioni che si accendono nel sapere e dunque nella formazione. Si tratta di un 5  Cfr. Maturana H., Varela F., Autopoiesis and cognitions, Dordrecht, D. Reidel, 1980; Maturana H., Varela F., L’albero della conoscenza, Milano, Garzanti, 1992, tit. orig. The tree of knoledg, Boston, Shambhala, 1987. 6  Cfr. edizione a cura di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 2000. 7  Cfr. G. Dutt, (a cura di), Dialogando con Gadamer: ermeneutica, estetica, filosofia pratica, Milano, Cortina, 1995.

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approccio gnoseologico, per così dire, sensibile che, come ci suggerisce Ricoeur8, precede l’esercizio critico nella “sensazione”, appunto, che l’oggetto esercita su di noi, come accade per esempio nell’emozione evocata dall’arte. Per questo motivo l’estetica nelle differenze non è mai “gerarchica, è sempre poetica, perché si affida all’emozione del bello ed alle sue metafore, ed è etica perché presuppone l’accoglienza del tu in quel noi-loro che partecipa della costruzione dell’io. E rinuncia alla razionalità strumentale della tecno-scienza9. Una poetica della comprensione La ragione poetica: è questa, a nostro avviso, la finalità ultima di una pedagogia che si fa interpretativa, la sua semantica profonda, il suo ethos. Una ragione sensibile e narrativa, una ragione che procede per metafore, ovvero, come scrive Joan Carles Mèlich, una ragione letteraria: “La ragione letteraria è aperta alla sorpresa, al mutamento, in una parola, all’alterità, all’accoglienza dell’altro. Per questo una ragione letteraria è una ragione etica, attenta alla parola dell’altro, perché comunica a chi ascolta e a chi parla. Al lato opposto si situa la ragione strumentale. (…) una ragione letteraria è una ragione che non crede che esistano verità assolute (o metafisiche), è una ragione che crede che la realtà sia inseparabile dalla sua rappresentazione perché è inseparabile dal linguaggio, o dai linguaggi, dalla parola o dalle parole e dai silenzi, perché è inseparabile dalla interpretazione, perché viviamo in un mondo interpretato nel quale nessuno di noi si sente sicuro”10. Lo studioso catalano postula qui un’educazione perturbatrice, estetica e profondamente etica, in quanto presuppone un darsi gratuito, che non si pensa come modello, bensì, che aiuta l’individuo a trasformarsi, perché è questo che la vita ci chiede: “La trasformazione è il movimento della vita, il compito del maestro consiste nel mantenere vitale questa metamorfosi. Così, ogni trasformazione è ambigua, indeterminata, incerta. In ogni trasformazione esiste il rischio della deformazione, ma si tratta di un rischio che non possiamo evitare se vogliamo vivere”11. L’educazione è accoglienza e cura. È un cammino di libertà che esalta la sensibilità e che si serve della metafora per aiutare il soggetto a costruire i propri strumenti di lettura e di orientamento a fronte dell’incertezza che le interpretazioni evocano. 8  Cfr. fra gli altri P. Ricoeur, Le conflit des interprétations. Essai d’Herménetique, Paris, Éditions du Seuil,1965; id. Du texte à l’action, Éditions du Seuil, 1986; id. Percorsi del riconoscimento, Milano, Cortina, 2005. 9  Il riferimento implicito è, ancora una volta a Bateson e alla sua critica radicale alla cosiddetta razionalità strumentale, quella che piega la scienza ed i suoi prodotti alle esigenze del profitto e non tiene conto di una visione ecologica. Si tratta di quella che l’autore definiva una “carenza di saggezza sistemica”. 10  J-C. Mèlich, Trasformaciones. Tres ensayos de filosofìa de la educaciòn, Buenos Aires, Mino y Dàvila, 2006, p. 27. 11  Id., p. 35.

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Ci sembra che il cuore di questo gioco di interpretazioni sia appunto la metafora, ovvero il richiamasi ad una realtà che sempre sfuma la sua finitezza in qualcosa d’altro che somiglia, cui allude, che evoca …ma che è altro e altro ancora. Così è il processo formativo, tras-formativo, ci pare un gioco cangiante di relazioni fra eventi, situazioni ed enti che si pongono al nostro pensiero come metafore, perché ciascuno di loro contiene nel suo codice genetico la totalità della storia - delle storie - che ha incontrato e che incontrerà, a tracciare la fabula di una narrazione esistenziale12. ... In questo gioco multidirezionale e multifattoriale, recita un ruolo magistrale l’imprevisto, che irrompe sulla scena a sconvolgere i piani e che prepara a nuove comprensioni del mondo. Organizzare e progettare è quanto compete all’educazione, ma la formazione va oltre e oltre ancora, corteggia la vita nel suo fluire e s’innamora dell’inedito perché è il nuovo che lascia il segno, che marca la cesura di un cambiamento. Così crediamo che l’educazione, per sua natura organizzatrice e progettuale, debba rinunciare ad ogni tentazione predittiva e porsi all’ascolto di quanto irrompe, ospite inatteso, sulla scena della vita. Crediamo ad un’educazione umile e libertaria, ad un maestro che, come canta Ivano Fossati, “si fa invisibile”. *Docente di Pedagogia Sociale e Pedagogia della marginalità e della devianza minorile presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara

12  Cfr. A. Bosi, (a cura di), Identità e narrazione, Milano, Unicopli, 2003; Cfr. anche, per esempio, i laboratori proposti nel volume di Mariamgela Giusti, Pedagogia interculturale, Roma-Bari, Laterza, 2004; sul rapporto fra identità plurima e narrazione oltre agli studi di Duccio Demetrio, già ampiamente citati, cfr. A. Melucci, Raccontare storie: identità e narrazione, in id., Culture in gioco, Milano, Il Saggiatore, 2000.

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Le ragioni della filosofia. Intervista a Mario Vegetti In senso critico, la riflessione filosofica serve a proteggere l’autonomia di giudizio e di valutazione del soggetto. In senso positivo, può aiutare a orientarsi di fronte alle questioni decisive di verità e di senso, di conoscenza e di condotta personale e collettiva che si pongono alla vita di ognuno. Da qui nascono il testo Le ragioni della filosofia ed il portale internet Edusophia Salvatore Guida

Esce nella prossima primavera, per i tipi di Le Monnier, il nuovo Manuale di Storia della filosofia, suo e di Luca Fonnesu. Innanzitutto, professore, perché questo titolo, “Le ragioni della Filosofia”?

Il titolo di questo corso, Le ragioni della filosofia, può venire interpretato in due sensi diversi. Il primo di essi ha orientato la modalità di costruzione del nostro racconto storico, mentre il secondo esprime la sua destinazione, il compito che ci siamo posti. Nel primo senso, dunque, “le ragioni della filosofia” designa l’ordine degli argomenti, delle intenzioni, insomma appunto delle “ragioni” che hanno governato nel tempo la formazione delle prospettive teoriche proposte dai diversi filosofi, in quella discussione incessante (ma non arbitraria o inconcludente) che costituisce la “storia della filosofia”. Non pensiamo che la storia della filosofia vada concepita, e narrata, come una “filastrocca delle opinioni” che si snoda nei secoli (come diceva Hegel a proposito del cattivo uso di questa disciplina). Crediamo invece che essa costituisca lo scenario di un serrato dibattito fra tentativi diversi, e spesso contrapposti, di rispondere razionalmente a una serie di domande fondamentali che gli uomini si sono posti nel corso della loro storia, e in forme diverse tuttora si pongono: che cosa è il mondo, e come possiamo conoscerlo? esiste una divinità, e, se sì, qual è il suo rapporto con il mondo e con gli uomini? qual è il senso dell’esistenza umana, quali sono le condizioni che possono assicurarle una piena fioritura, quali sono le norme e i valori morali che garantiscono il buon ordine della vita associata? E infine: se intorno a questi e ad altri analoghi problemi si possono formulare tesi diverse, quali sono i criteri che ci permettono di sceglierne alcune rispetto ad altre? O in altri termini, come è possibile decidere della loro validità? Chi crede che si tratti di domande aperte, di risposte alternative fra le quali decidere e orientarsi con le sole forze della riflessione razionale, non può che trovare nella storia della filosofia l’affascinante spettacolo degli sforzi del pensiero umano per procedere lungo un percorso di conoscenza, di chiarezza, di progressivo approfondimento critico delle conquiste via via conseguite. Raccontare la storia della filosofia ha dunque significato per noi in primo luogo ricostruire ed esporre il gioco delle argomentazioni contrapposte, il progressivo accumularsi delle conoscenze oppure il conflitto fra “ragioni” alternative, con l’attenzione rivolta più alla ricostruzione della discussione razionale che alla semplice successione cronologica delle opinioni, senza mai dimenticare, d’altro canto, che ogni forma di riflessione filosofica si

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svolge in una situazione storica e sociale determinata, e che le sue “ragioni” sono in primo luogo riferite ai problemi propri del mondo in cui essa nasce e si sviluppa. Ma l’espressione “le ragioni della filosofia” ha anche un altro senso. Si tratta, a nostro avviso, delle (buone) ragioni per le quali la filosofia e la sua storia meritano ancora oggi di venire insegnate ed apprese. Siamo in effetti convinti che gli strumenti offerti dalla riflessione filosofica siano utili per articolare correttamente le domande che ognuno si pone intorno alla comprensione del mondo in cui viviamo, al senso della nostra esistenza, alla giustizia e alla felicità, al nostro rapporto con gli altri, con le vicende politiche, sociali e morali che ci coinvolgono. Siamo inoltre convinti che quegli stessi strumenti siano indispensabili per vagliare criticamente la validità e il senso delle risposte che a queste domande vengono suggerite dall’ambiente culturale che ci circonda, dalle tradizioni, dai mezzi di comunicazione e dalle forme di autorità che vi sono dominanti. In senso critico, la riflessione filosofica serve a proteggere l’autonomia di giudizio e di valutazione del soggetto dalla pressione di credenze diffuse, di pregiudizi sociali, di proposte informative che possono essere intese a suscitare un’accettazione passiva e conformistica. In senso positivo, può aiutare a orientarsi di fronte alle questioni decisive di verità e di senso, di conoscenza e di condotta personale e collettiva che si pongono alla vita di ognuno; può dunque servire a costruire profili di personalità libera e consapevole, capace di interagire positivamente con gli altri in un mondo sociale sempre più complesso. La storia della filosofia – se appunto non viene studiata come mera “filastrocca delle opinioni” – può allora costituire una sorta di repertorio ragionato di questi strumenti critici e costruttivi. Essa continua dunque a meritare, a nostro avviso, il suo posto in qualsiasi programma di formazione dei futuri cittadini in quanto soggetti in grado di esprimersi razionalmente e liberamente nel discorso e nell’azione, rifiutando le tentazioni della coercizione e della violenza, privilegiando invece l’ascolto, la comprensione, lo sforzo di convincere delle proprie ragioni e di accettare quelle altrui. “Per quanto più mi interessa, penso che l’insegnamento filosofico vada esteso e rafforzato, riducendo tuttavia l’esposizione storica agli elementi essenziali per dare più spazio a discipline critico-formative (l’epistemologia storica da un lato, l’antropologia dall’altro, nonché la logica intesa soprattutto come teoria e critica dell’argomentazione). Alcuni di questi aspetti devono situarsi all’intersezione con altre materie (le scienze per l’epistemologia, le discipline linguisticoletterarie per la retorica argomentativa e la teoria dell’informazione)”. Questa breve estrapolazione da una sua recente pubblica riflessione ci induce a formulare una domanda: è possibile ricondurre, a suo avviso, l’opera di cui nei prossimi mesi vedremo i primi due volumi, alla necessità generale di affermare il valore formativo della filosofia, la sua specificità e quindi la sua autonomia disciplinare e lo spazio che deve avere nel curricolo formativo dei giovani o, più verosimilmente, dobbiamo parlare di un articolato e inscindibile intreccio tra una riflessione sulle più recenti metodologie didattiche e la presa d’atto, nel panorama culturale contemporaneo, della emergenza di un mutato contesto istituzionale ed epistemologico? Il lavoro che proponiamo rappresenta un passo nella direzione indicata nel progetto che avevo formulato, e che viene citato dalla domanda postami. Un largo spazio è

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dedicato per esempio alla storia della scienza e alle relative questioni epistemologiche; molti dei testi filosofici antologizzati sono stati corredati con un’attenta analisi delle strutture argomentative. Si tratta, però, appunto di un passo in quella direzione. L’intero cammino potrà venire percorso solo dopo una radicale revisione dei programmi di insegnamento, non soltanto della filosofia ma anche della storia, della letteratura e delle scienze: una revisione (in senso antropologico ed epistemologico) che auspicavo in quel testo ma che ancora non è stata attuata. Ci appare evidente l’opportunità di dare ampio risalto alla “geografia della filosofia”: basta solo pensare, per personale esperienza da studente, allo stupore di scoprire, alla fine del liceo se non già all’università, che Zenone di Elea, posto che si sia mai recato ad Atene al seguito di Parmenide, era presumibilmente vissuto nel Cilento. Ma per entrare nel merito della struttura di “edusophia. it”, ci spiega il perchè di sezioni dal titolo evocativo di una qualche forma di gioco o competizione, quale, ad esempio, quella che invita a “mettere alla prova” la propria capacità di argomentare? Edusophia presenta una contestualizzazione geografica e cronologica dei luoghi e dei protagonisti della filosofia nelle varie epoche che dovrebbe contribuire a una comprensione più concreta, meno libresca del percorso storico di questo sapere. Ma c’è molto di più. In primo luogo, si propone allo studente – attraverso domande, test, brevi esercizi – un lavoro di autoverifica dei livelli di comprensione e di memorizzazione del testo, che viene valutato automaticamente ad ogni tappa. Si suggeriscono anche i links opportuni per ricontrollare e approfondire le informazioni pertinenti a questa autoverifica. Lo scopo è di rendere il testo in qualche modo disponibile a un dialogo interattivo con lo studente, di trasformare l’apprendimento passivo in un gioco partecipato di domande e risposte, via via più approfondito. “Applicare la filosofia alla vita quotidiana” è uno degli obbiettivi o, perlomeno, una delle opportunità dichiarate su www.edusophia.it . E’ da intendere come un dispiegarsi della dimensione antropologica cui faceva riferimento nella frase da noi sopra riportata o si colloca nel quadro di una recente tendenza alla diffusione di “pratiche di filosofia per non-filosofi”? Sono presenti nel testo proposte di discussione (su casi concreti, di “vita quotidiana”, di argomento prevalentemente etico) che dovrebbero coinvolgere la classe, naturalmente con la guida del docente, in un confronto di tesi e di argomentazioni: l’idea è di fare della classe un piccolo laboratorio sperimentale di riflessione filosofica (il repertorio degli argomenti possibili è naturalmente offerto dalle posizioni dei filosofi esposti nel testo, nel cui ambito è tuttavia possibile costruire percorsi personali). A questo si affianca un interessante esperimento contenuto in Edusophia: il Forum. Qui sono presentati diversi quesiti filosofici (di ordine tanto teorico quanto etico) suscettibili di due risposte alternative. Gli utenti possono semplicemente optare per una delle due risposte, o anche aggiungere argomenti in favore della propria risposta. Ognuna delle due risposte possibili è corredata da un breve testo di uno dei filosofi trattati nell’esposizione storica, cui l’utente può riferirsi per formare la propria opzione ed eventualmente costruire la

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propria argomentazione. La redazione del sito provvede periodicamente a informare gli utenti circa le opzioni prevalenti nella discussione. Ogni studente può partecipare individualmente al Forum, ma anche in questo caso è naturalmente auspicabile che la partecipazione sia sollecitata e introdotta dai docenti in classe, dove anche si potrebbero discutere collegialmente i risultati dei diversi dibattiti. Quanto alla filosofia per non filosofi, bisogna partire dalla considerazione che oggi c’è un’estesa richiesta pubblica di “filosofia”. Ne è una prova la partecipazione di un pubblico numeroso e variegato per età e formazione ai vari “festival” di filosofia, o alle conferenze di filosofi celebri nei teatri cittadini. Di fronte a questa richiesta, non ci si può limitare a criticarne gli aspetti (pure inequivocabilmente presenti) di spettacolarizzazione divistica, che fa anche della filosofia una sorta di “star-system”, e d’altra parte di attesa di rivelazioni intellettuali salvifiche. La domanda di filosofia può anche essere interpretata come la richiesta di strumenti di orientamento consapevole in un mondo che ha via via perduto i suoi tradizionali orizzonti di riferimento (le grandi ideologie sociali, i valori tradizionali, le credenze religiose), e che assiste inoltre a una degenerazione vertiginosa dei livelli intellettuali della discussione pubblica. Questa domanda può venire intercettata e ad essa possono venire offerte risposte utili, come dicevo all’inizio, alla costruzione di forme di soggettività criticamente consapevole e capace di costruire orientamenti autonomi. I filosofi di professione non dovrebbero sottrarsi a questo compito rivendicando la tecnicità del proprio sapere, che certo esiste ma non può essere autoreferenziale: dopotutto, uno dei maggiori insegnamenti della storia della filosofia è proprio la costante relazione fra i filosofi e la polis. E’ con piacere che noi di Pedagogika.it, in rete ormai da 11 anni, vediamo crescere un atteggiamento positivo verso le nuove tecnologie informatiche, in modo particolare verso Internet. Eppure quando nacquero i primi esperimenti di e-learnig o F.A.D. (formazione a distanza) erano molte le considerazioni negative rispetto alla fruizione del sapere da parte degli studenti che si diceva non “mediabile” attraverso internet anche in considerazione del fatto che lo studente si sarebbe trovato in solitudine. Cosa è cambiato a suo avviso vista l’attuale proliferazione, nelle università, di varie forme di e-learnig? Ed in particolare, come si colloca edusophia.it da questo punto di vista? Queste osservazioni contengono già una risposta al quesito sul problema dell’e-learning. Io non credo che esso possa sostituire la dimensione collettiva della classe e il lavoro comune condotto sotto la guida dell’insegnante. Lo può però utilmente integrare, chiamando lo studente a proseguire questo lavoro, e ad affinare la propria riflessione personale, anche mediante il suo rapporto diretto con lo strumento del computer. Sappiamo che questo rapporto occupa comunque molto del tempo passato in casa dai giovani. Se una parte di questo tempo potesse essere destinato a un lavoro che comincia nella classe e può concludersi nella classe stessa, si getterebbe un ponte fra la dimensione scolastica e quella “privata” che oggi, credo, tendono ad essere fortemente separate o addirittura contrapposte. Mario Vegetti, già direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pavia, è Professore ordinario di Storia della Filosofia antica presso la stessa Università

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Luci ed ombre sul volto femminile di Cosa Nostra Se le donne vengono mantenute oltre il confine dall’organizzazione, com’è possibile affermare l’esistenza di un “volto femminile” di Cosa Nostra? Qual è il posto che occupano in realtà? Elena Bruschi*

Fino a qualche anno fa, diciamo fin verso gli anni ’80 del secolo scorso, parlare di “donne di mafia”, correlare questi due concetti - le “donne” e la “mafia” - sembrava una cosa impossibile, un nonsenso, in quanto sia fuori dall’organizzazione mafiosa così come, del resto, al suo interno, le donne sono sempre state ritenute incompatibili con tale tipologia di criminalità tutta al maschile, nel suo credo e nei suoi rituali. Non è stato facile arrivare a una presa di coscienza dell’esistenza di questa categoria criminale, così invisibile ma al tempo stesso così forte ed intrisa dei valori rubati alla cultura siciliana; fino agli anni delle prime inchieste della magistratura, per sociologi, psicologi, giornalisti, e per gli stessi magistrati, è stato difficile rendersi conto dell’esistenza di un vero e proprio legame tra l’organizzazione mafiosa e la figura della donna, legame costituitosi nel tempo ed esplicato in una salda partecipazione passiva ma, al contempo, attiva, agli affari di Cosa Nostra. Grazie alle scoperte della magistratura ed al progressivo acuirsi del pensiero di coloro che si stavano interessando allo studio del rapporto tra donne e mafia, è stato finalmente possibile concepire l’esistenza e la forza di un vero e proprio volto femminile di Cosa Nostra. Un volto che, pur essendo più o meno volutamente tenuto in ombra, è reale e concreto, non solo perché costituito da tutte le donne legate agli uomini d’onore tramite il vincolo della parentela, ma perché non semplicemente riconducibile ai termini di “donne vittime” o di “donne contro” la mafia; un volto finalmente ‘scoperto’ essere proprio, principalmente, di donne “con” la mafia. La causa principale della cecità nei confronti della complicità delle donne negli affari di Cosa Nostra è dovuta a un’immagine del femminile trasmessa nel tempo da una cultura prevalentemente maschilista, in base alla quale la donna è sempre ‘interpretata’ esclusivamente in termini di estromissione, come un individuo all’ombra del marito, silenziosa e succube del suo volere, ignara di quanto concerne i suoi affari e perfino della propria identità, che non gode né di diritti né di libertà. È stato questo vero e proprio stereotipo, diffuso nella società e alimentato dalle dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia (che puntualizzavano quanto le donne fossero indiscutibilmente estranee all’ambiente mafioso) ciò che ha permesso alla figura femminile di agire indisturbata all’interno di una realtà criminale costituita da “soli uomini”. Cosa Nostra, infatti, oltre ad essere definita generalmente come un’organizzazione criminale (che, tramite l’uso della violenza, agisce illegalmente all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale al fine di occupare posizioni di potere

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e accumulare ingenti somme di denaro e si avvale del consenso sociale di una grossa fetta della popolazione essendo costruita sulla base di un codice culturale, denominato “pensare mafioso”, che permea la cultura siciliana), viene soprattutto concepita come un’organizzazione prettamente “maschile”, dove l’essere maschi è la qualità fondamentale per potervi accedere. La cultura mafiosa, infatti, è impregnata da un’estrema omofobia, che gli uomini d’onore esprimono manifestando un’esagerata riluttanza nei confronti non solo delle donne in carne ed ossa ma anche della “femminilità” che fa parte della loro stessa struttura psichica: i sentimenti, le manifestazioni di affetto. È questa paura generalizzata dell’altro sesso, che si concretizza anche nel timore dell’uguaglianza tra i sessi e che risiede nell’inconscio del mafioso, il motivo che spinge gli uomini d’onore a costituire un cerchio di esclusione sia psichica che materiale nei confronti del femminile, esclusione che fa apparire Cosa Nostra come un’organizzazione che offre e uno spazio per eccellenza maschile all’uomo d’onore (che teme la donna perché si sente in realtà impotente nei suoi confronti) e una risposta all’angoscia scatenata dall’idea di dover accettare i propri lati femminili, ritenuti segno di fragilità e debolezza. Se le donne, quindi, vengono mantenute oltre il confine dall’organizzazione, com’è possibile affermare l’esistenza di un “volto femminile” di Cosa Nostra? Qual è il posto che occupano in realtà? Nonostante alle donne di mafia venga negato di affiliarsi a Cosa Nostra mediante il rito di iniziazione, ciò che indirettamente consente loro di avvicinarsi “in punta di piedi” a Cosa Nostra è il legame familiare che esse stringono con gli uomini d’onore, che ne fa proprietà di costoro e quindi automaticamente anche proprietà dell’organizzazione stessa, che intima loro di svolgere determinati ruoli funzionali alla sua sopravvivenza ed al suo accrescimento di potere. Fedeli ed obbedienti alle richieste di Cosa Nostra, queste donne sono chiamate ad assumere innanzitutto il ruolo di anelli di congiunzione delle famiglie mafiose, addirittura sposando l’uomo d’onore che la loro famiglia mafiosa stabilisce per loro, fatto che le trasforma in vera e propria merce di scambio nelle mani dei loro familiari, intenzionati a rafforzare il potere dell’organizzazione attraverso pianificate “strategie matrimoniali” con le quali costruire saldi legami sanguigni, oltre che simbolici, tra famiglie mafiose. La donna è quindi l’asse centrale attorno al quale tutto ruota; impassibile, deve sottomettersi al volere del padre o del fratello, rinunciando ai suoi desideri, anche a quelli più intimi. In questo modo smette di essere un individuo per servire Cosa Nostra, che necessita non di persone ma di burattini consenzienti. Una volta diventate “mogli” di un uomo d’onore, alle donne viene imposto di incarnare un ulteriore ruolo, che le depriva della soggettività e della libertà, ormai solo garanti dell’onore del marito. L’onore, per l’uomo mafioso, è la carta fondamentale che gli permette di giocare la sua partita con Cosa Nostra, è ciò che garantisce a lui e a tutta la sua famiglia di godere del rispetto altrui. Quando per un uomo di mafia viene meno l’ immagine di gentiluomo, viene meno anche la sua garanzia di affidabilità, una caratteristica necessaria per Cosa Nostra, che vive sul consenso ottenuto dalla popolazione, cioè

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da tutti quegli individui che ripongono maggiore fiducia nella “giustizia mafiosa” che in quella dello Stato. Il pesante fardello della custodia dell’onore del marito, che Cosa Nostra carica sulle sue spalle, si rivela essere, come osserva la sociologa Renate Siebert (1994), la tomba della libertà femminile, in quanto l’onnipervasivo controllo attuato dalla società sull’operato delle donne e sulla loro persona, le costringe a negare continuamente la propria femminilità, a nascondere il corpo, a reprimere il desiderio di libertà e di autonomia psichica. Si tratta di un controllo doppiamente imprigionante perché finisce con l’essere interiorizzato dalle donne stesse che, invase dalla vergogna e dall’eccessivo pudore, si trasformano in agenti della loro stessa deprivazione. Come se ne evince, le donne sono certamente vittime di Cosa Nostra, agnelli sacrificati al tempio del potere e del prestigio, ma questo non può certo nascondere quanto esse siano in realtà anche responsabili di questa loro condizione, dal momento che rifiutano di ribellarsi a queste imposizioni. Queste donne, anzi, accettano e per di più trasmettono i “disvalori” della cultura mafiosa ai propri figli per permettere loro di vivere, o meglio, di sopravvivere all’interno di un sistema di potere che schiaccia il più debole, chi vuole allontanarsi dal gruppo e mantenere la propria autonomia. Credendo di educarli all’obbedienza ad un sistema considerato “salvifico”, che promette sicurezza e protezione (in realtà illusorie), li rendono schiavi di una cultura paralizzante che, enfatizzando la forza insita in un gruppo coeso, contrapposta alla fragilità del singolo individuo, può sopravvivere e rafforzarsi esclusivamente assoggettando alla propria volontà i suoi affiliati. Con il loro comportamento queste donne costituiscono quindi un vero pericolo per i propri figli, ma non solo per loro. Costituiscono un pericolo anche per se stesse perché, difendendo una cultura mafiosa prettamente maschilista e fondata sulla sudditanza femminile, ripropongono la propria schiavitù e finiscono con l’imprigionarsi sempre di più in una ragnatela che sono principalmente loro a tessere. I tre ruoli che le donne di mafia vengono chiamate ad incarnare - di anelli di congiunzione delle famiglie mafiose, di custodi dell’onore familiare e di trasmettitrici della cultura mafiosa - sottolineano quanto, contrariamente a ciò che viene dichiarato dagli uomini d’onore, esse assolvano un ruolo centrale all’interno dell’organizzazione mafiosa, anche senza farne ufficialmente parte. La famiglia è il loro luogo di azione, il pulpito attraverso cui dimostrano di essere figure centrali, mantenendo al contempo la secolare invisibilità femminile (Scotto di Fasano, 2005). La loro, infatti, è una centralità che si può definire sommersa, invisibile, occultata dall’identità di “madri”, di “mogli”, di “figlie” e di “sorelle” degli uomini d’onore; un’identità che, sebbene possa calzare molto stretta - poiché nega una più profonda identità soggettiva - permette di allontanare lo sguardo della magistratura che, da qualche anno, sta indagando proprio su questa “nuova” criminalità di Cosa Nostra. Agendo nell’ombra del vincolo familiare, queste donne riescono dapprincipio a non essere riconosciute come penalmente perseguibili. Il fatto di essere considerate semplicemente come le compagne degli uomini d’onore, quindi asservite all’uomo per

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“dovere”, e non come individui responsabili, le preserva dal riconoscimento della loro effettiva responsabilità penale, quindi dall’eventualità di poter essere condannate. Innegabilmente le donne, come qualsiasi essere umano stretto dalla morsa mafiosa, sono prive della loro individualità, ma questo stereotipo, se mai è potuto esserlo prima, non si è più potuto considerare il vero riflesso della condizione femminile all’interno dell’organizzazione mafiosa. Il ruolo della donna di mafia si è trasformato. Da uno più prettamente passivo, si è giunti ad un ruolo di partecipazione attiva alla criminalità. La loro centralità, prima “sommersa”, è diventata una complicità palese giocata alla pari con gli uomini d’onore. Sempre in qualità di “mogli”, di “sorelle”, e di “madri”, sempre come proprietà altrui e non come “donne” libere e padrone di se stesse, le donne sono però in tal modo emerse da una condizione di invisibilità ed hanno cominciato a svolgere un ruolo decisamente attivo di collaborazione con Cosa Nostra. Influenzate o no dall’ondata di emancipazione che negli anni ’70 del secolo scorso ha risvegliato il desiderio di parità di tutte quelle donne che avevano maturato una coscienza civile, anche quelle di mafia hanno cercato, a modo loro, di farsi spazio all’interno di un’organizzazione “perversa” tramite un’analoga modalità “perversa” di riscatto della propria condizione di subalternità e di oppressione. Credendo di potersi “emancipare”, hanno abbandonato il velo nero che da sempre aveva coperto il loro capo per impugnare, al pari dei loro uomini, pistole e coltelli. Armi e droga sono diventati i loro nuovi “accessori per la casa”. Da “angeli del focolare” mafioso si sono trasformate in prestanome, in intermediarie. Per conto dei loro uomini, si sono occupate direttamente della compravendita di merci illegali, hanno coperto il proprio operato presentandosi come vere imprenditrici, hanno incassato tangenti, hanno provveduto al riciclaggio del denaro e, vere e proprie “madrine”, sono arrivate anche ad assumere le redini di famiglie mafiose sostituendo capifamiglia costretti alla detenzione o alla latitanza. Le donne di mafia hanno conquistato il campo, si sono fatte strada, ma questo non significa che abbiano guadagnato potere. Gli uomini d’onore infatti non hanno mai riconosciuto né legittimato questo loro ruolo, considerandole comunque uno strumento, sorta di stampella di cui Cosa Nostra si è servita per riprendere a camminare dopo che la magistratura, le guerre tra famiglie rivali, l’introduzione di leggi (ad esempio la Rognoni-La Torre del 1982, atta a confiscare i beni mobili ed immobili di appartenenza mafiosa) e il regime carcerario introdotto dall’art. 41 bis (che prevede l’isolamento totale degli uomini d’onore ritenuti più pericolosi) hanno iniziato a intaccarne l’integrità e la stabilità. In tali frangenti, le donne sono apparse supporti ideali perché ancora al di sopra di ogni sospetto, preziose quindi per intestare loro i beni e incaricarle di fare da tramite tra mondo esterno e interno al carcere. Le donne, “lusingate” da queste “offerte”, sono accorse e divenute forza lavoro (“operaie”, non “dirigenti”) di un’azienda che oggigiorno si dice presenti il fatturato più alto. Quella femminile resta però una semplice, per quanto indispensabile, reggenza. Nei fatti il contributo al femminile che Cosa Nostra ha dovuto pagare è il prezzo

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necessario a mantenere il proprio prestigio; è solo per questo che alle donne è stato concesso di addentrarsi anche nella sfera pubblica. Imprevedibilmente, poi, è accaduto che vestendo i panni delle imprenditrici, delle trafficanti e, purtroppo, anche quelli delle assassine, le donne di mafia hanno dimostrato a tutti di non avere nulla da invidiare ai loro mariti, di non esserne da meno. Inoltre, sebbene la segreta partecipazione alle attività illecite di Cosa Nostra le abbia mantenute nell’ombra, la difesa dei loro familiari “ingiustamente” accusati di essere uomini di mafia le ha portate invece a mostrarsi sotto i riflettori. Le donne hanno invaso le aule dei tribunali e si sono mostrate finalmente alla società; hanno fatto sentire la loro voce e le loro urla in difesa dei loro uomini, colpiti dalle accuse della magistratura e dei pentiti, arrivando a rinnegare qualsiasi accusa e a servirsi anche della religione: i loro uomini sono innocenti, non sono dei mafiosi, sono servi di Dio, fedeli alla dottrina cattolica, come possono essere assassini? Questo il ritornello ripetuto ai giudici, ma che accade quando sono proprio i loro cari a definirsi “pentiti”? Da una parte c’è la “Famiglia”, quella mafiosa, dall’altra la loro famiglia, e la scelta è presto fatta. Cosa Nostra è un sistema totalizzante, la sua forza supera qualsiasi legame affettivo, “Non avrai altra famiglia che quella mafiosa” potrebbe essere – ed è - il comandamento di Cosa Nostra. Di fronte a questo imperativo categorico, a questa cultura paralizzante, anche le donne non hanno scelta. Questa guerra la vince Cosa Nostra. Per rimanervi, con quello che si è individuato come potere, e per non essere soppressi definitivamente, occorre sopprimere. I familiari “scomodi” vanno eliminati, coloro che stanno testimoniando contro la Grande Famiglia protettrice devono essere isolati, rinnegati, abbandonati alla loro sorte di “traditori”, per non essere condannati alla pena capitale che Cosa Nostra riserva a chi sceglie di lasciare definitivamente il gruppo bisogna lasciare. Ed ecco allora che, da un lato, Cosa Nostra “non esiste”, è un’invenzione di magistrati “comunisti”, mentre, dall’altro, i collaboratori di giustizia per i familiari non esistono più, sono morti, perché troppo grandi appaiono il disonore e il pericolo per acconsentire a un viaggio che allontana dall’universo di morte mafioso verso quello di vita proprio della società civile, garante di diritti e non erogatrice di privilegi. Queste donne costruiscono un muro invalicabile tra Cosa Nostra e la società civile, segnano il confine tra chi vuole rimanere dentro e chi invece desidera uscire. Ancora una volta la loro presa di posizione altro non è che la risposta alle richieste della Famiglia. Nonostante esse appaiano fermamente convinte di ciò che dicono e fanno, non sono nei fatti che marionette nelle mani dell’organizzazione. Le donne che lottano “per” e “con” la mafia sono molte. Vittime della paura dell’isolamento mortifero, scelgono di non svoltare nella direzione di una nuova vita all’insegna della giustizia. All’interno della mafia, in tal modo, alcune hanno fatto “carriera”, preparando per i loro figli, indirizzati verso la “giusta” strada, la medesima sorte.

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Per molte non c’è possibilità di trasformazione, di “ripensamento”, di “ritorno” sui propri passi perché la mafia rappresenta nella loro vita la sola realtà. Nate all’interno di famiglie mafiose, vi moriranno,dal momento che non conoscono una vita sciolta da questo schiavismo psicologico. “Molte di loro” però non significa “tutte”. Per alcune le cose cambiano perché loro decidono di cambiare, iniziando a pensarsi in una vita scevra da imposizioni e aut aut e a prendere in considerazione il vantaggio di ricominciare daccapo con i loro mariti pentiti. Non si rivoltano più contro la loro scelta di fuggire da Cosa Nostra, non li rinnegano ma li sostengono, a volte sono proprio le donne a spingere alla “conversione”, altre volte ne diventano le sostenitrici per amore dei compagni, della dignità e della vita, per quanto si tratti di una scelta che la mette a repentaglio. Lasciare Cosa Nostra significa infatti morire; essere fisicamente eliminati perché la Famiglia non ammette addii, la sua forza risiedendo nella coesione, nella cieca fedeltà che ogni affiliato è costretto ad osservare non rassegnando mai le proprie dimissioni e, soprattutto, atrofizzando la propria autonomia psichica. Come è noto, infatti, il pensiero mafioso perpetra una sola verità, quella che attribuisce potere esclusivamente alla Famiglia unita, che viene a mancare all’individuo e alle famiglie scissi. Cosa Nostra non può permettere che si sgretolino la sua forza e la integrità e di conseguenza non può consentire ai suoi affiliati il diritto di essere individui. Privati della loro autonomia psichica, essi perdono la loro qualità di esseri umani per diventare cose, semplici automi che, assoggettandosi al volere dell’Organizzazione, rinunciano a essere soggetti per diventare parte di un tutto agglutinato, di una “cosa”, “Cosa Nostra”, appunto. Per le donne di mafia, ma anche per gli uomini d’onore, decidere di cambiare la rotta della propria esistenza consegnandosi alla giustizia, equivale da questo punto di vista a nascere di nuovo: queste persone, che fino a quel momento per certi versi non esistevano, ora possono cominciare a farlo. Molto si è detto sul ruolo della donna all’interno dell’organizzazione mafiosa, in principio marginale e poi più centrale, prima passivo e poi più attivo. Può una tale trasformazione essere considerata un indice di “emancipazione”? Alcuni autori, come la sociologa Alessandra Dino (1997) e il magistrato Teresa Principato (1997), rispondono di sì. Secondo loro, il fatto che queste donne siano riuscite ad emergere dal silenzioso ambiente familiare nel quale sono sempre state relegate, e siano diventate così protagoniste anche in settori della vita sociale, seppur circoscritti in un “perverso” ambito criminale, non può che essere la prova della loro avvenuta emancipazione. L’evoluzione del loro ruolo, evidenziata anche dalle posizioni di rilievo che queste donne sono riuscite a raggiungere all’interno di un universo chiuso e rigido come quello mafioso, è il segno del fatto che anche qui, come in molti altri ambiti, le donne hanno saputo dispiegare le proprie ali conquistandosi spazi mai prima d’ora riservati loro; una caratteristica questa sufficiente per appurare l’avvenuta rivoluzione femminile anche dentro Cosa Nostra. Contrapponendosi a questa opinione, la sociologa Renate Siebert (1994) fornisce invece una differente interpretazione riguardo a questo ampliamento delle sfere

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di azione delle donne di mafia. A suo avviso, questa trasformazione del ruolo della donna, nonostante le abbia permesso di inserirsi anche nella sfera extrafamiliare, occupando posizioni paritarie a quelle degli uomini, non può in alcun modo considerarsi una vera e propria “emancipazione”. Per la sociologa, infatti, “emancipazione” non equivale alla libertà di potersi comportare allo stesso modo degli uomini, non significa avere il nullaosta per poter delinquere, per poter decidere per la vita degli altri esseri umani, per maneggiare partite di droga o per gestire direttamente i traffici di stupefacenti. L’aver impugnato anche le redini del potere mafioso e l’essere uscite dalla penombra nella quale hanno sempre vissuto indisturbate, per partecipare in primo piano alla criminalità, non ha certamente concesso a queste donne di porre fine alla loro subordinazione, in quanto è proprio il loro asservimento a Cosa Nostra, un’organizzazione che per vivere deve negare l’individualità dei propri affiliati, ciò che costantemente impedisce loro di essere veramente libere ed indipendenti. “Emancipazione” per l’autrice significa, prima di tutto, possedere quell’autonomia psichica che, alle donne come agli uomini, consente di essere coscienti dei propri diritti di cittadinanza, di essere padroni di se stessi e di essere riconosciute come tali, valori perduti come donne di mafia, dal momento che Cosa Nostra impedisce proprio di essere “individui”: “Non domerà la bestia chi ne imita il verso” (Scotto di Fasano D., Francesconi M., 1999). Solo la rottura con questo sistema di potere totalizzante può permettere alla donna, secondo l’Autrice, di liberarsi da questa schiavitù psicologica. Ed è proprio questa la strada che alcune di loro, purtroppo inizialmente non molte, decidono di percorrere per uscire dal soffocante tunnel mafioso. Porre voce, corpo e psiche al servizio della giustizia - da cercare per sé e i propri cari, condannati a morte dal tribunale mafioso, ma, soprattutto, per la società permette a queste donne di uscire alla luce del sole e di appropriarsi della propria individualità. A partire dagli anni ’80, queste donne coraggiose cominciano, in numero sempre maggiore, ad alzarsi in piedi, a sollevare la testa, a stringere i pugni contro Cosa Nostra. Nando Dalla Chiesa ha definito “avanguardie civili” donne come Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, il giovane sindacalista assassinato; Felicia Bartolotta Impastato, madre di “Peppino”; Michela Buscemi, una delle due “donne del popolo” costituitesi parte civile nel maxiprocesso; Rita Atria, la giovane collaboratrice di Paolo Borsellino, senza tralasciare le mogli dei “servitori dello Stato” che hanno dato vita, nel 1984, all’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, donne tra le prime a aver fatto sentire la propria voce, a desiderare una società nuova, “civile”, e a difendere il proprio diritto alla vita e all’individualità. Sono state le prime e per questo sono sole, spesso abbandonate a se stesse da una società cieca e sorda alle loro richieste di giustizia perché interessata a stipulare con Cosa Nostra più di un compromesso. Sono sole, ma al loro fianco iniziano a esserci altre donne che, come loro, sono state duramente offese dalla violenza mafiosa che ha voluto “dare una lezione” a quei loro familiari che avevano dedicato la vita alla lotta alla mafia.

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Tutte queste donne, strette insieme, sostenendosi a vicenda, coagulano le forze per non perdersi. Si fanno coraggio, fiduciose che prima o poi le cose cambieranno, che la giustizia potrà fare il suo corso e che la società si libererà del peso di Cosa Nostra. Sono donne che hanno spezzato il loro legame con la mafia, che hanno rotto il silenzio, che hanno rifiutato di essere sia vittime che responsabili della trasmissione della cultura mafiosa, che hanno accompagnato i loro mariti al di fuori del perimetro di Cosa Nostra, che hanno cercato giustizia e non vendetta per i loro cari assassinati dalla violenza mafiosa, che hanno difeso la memoria dei familiari che hanno perso la vita lottando contro Cosa Nostra, donne che si sono riservate “una stanza tutta per sé”, per dirla con Virginia Woolf, o, in altri termini, una “psiche tutta per sé”, conquistando e difendendo la propria individualità, dimostrando di essersi incamminate sulla strada della libertà e, quindi, di un’emancipazione autentica. *Collabora con l’AIED - Associazione Italiana per l’Evoluzione Demografica Bibliografia AA.VV., Dal materno al mafioso. Ruoli delle donne nella cultura delle mafie. Atti del Convegno tenuto a San Giminiano il 30 e il 31 ottobre 1994, Firenze, Edizione Regione Toscana, 1996. Arlacchi P., Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano, 1992. Bartolotta Impastato F., La mafia in casa mia, intervista di Anna Puglisi e Umberto Santino, La Luna, Palermo, 1987. Cascio A., Puglisi A., (a cura di), Con e contro – Le donne nell’organizzazione mafiosa e nella lotta antimafia, dossier 4, csd, Palermo, 1987. Dalla Chiesa N., Le ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore, Melampo, Milano, 2006. Di Lorenzo S., La Grande Madre mafia. Psicoanalisi del potere mafioso, Pratiche Editrice, Parma, 1996. Ebano G., Felicia e le sue sorelle. Dal secondo dopoguerra alle stragi del ’92-’93: venti storie di donne contro la mafia, Ediesse, Roma, 2005. Falcone G., Padovani M., Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano, 1991. Fiore I., Le radici inconsce dello psichismo mafioso, Franco Angeli, Milano, 1997. Horney K., 1932, La paura nei confronti della donna. Osservazioni sulla differente paura provata dagli uomini e dalle donne nei confronti dell’altro sesso, Tr. it in Psicologia femminile, Armando, Roma, 1993. Lo Verso G., (a cura di), La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano, 1998. Madeo L., Donne di mafia. Vittime, complici e protagoniste, Mondadori, Milano, 1994. Principato T., Dino A., Mafia donna. Le vestali del sacro e dell’onore, Flaccovio, Palermo, 1997. Puglisi A., Sole contro la mafia, La Luna, Palermo, 1990. Puglisi A., Donne, Mafia, Antimafia, Di Girolamo, Trapani, 2005. Scotto di Fasano D., Francesconi M., 1999, Non domerà la bestia chi ne imita il verso…, in Il lavoro della donna nelle organizzazioni pubbliche e private, Università degli Studi di Pavia. Scotto di Fasano D., 2005, Le invisibili, Costruzioni psicoanalitiche, V, 10, pp.69-77. Siebert R., Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano, 1994. Woolf V., (1929), Una stanza tutta per sé, Mondadori, Milano, 1998.

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Il laccio visibile La teoria dell’attaccamento fin dal suo nascere si è confrontata con le teorie coetanee attraverso la rielaborazione delle varie metodologie e degli approcci teorici di riferimento Stefania Bartoli*

La teoria dell’attaccamento si definisce negli anni ’50 con il modello dello psicologo inglese Bowlby (1907-1990) come teoria dello sviluppo psicologico in cui la tendenza innata a stabilire legami con individui della stessa specie viene contestualizzata nella dinamica interattiva e interpsichica tra i soggetti in gioco. Fin dal suo nascere si è confrontata con le teorie coetanee attraverso la rielaborazione delle varie metodologie e degli approcci teorici di riferimento, come l’etologia, la teoria dei sistemi di controllo, il cognitivismo e l’osservazione sul campo, in particolar modo di situazioni di deprivazione, come ad esempio le ospedalizzazioni dei bambini. Considerando inizialmente l’attaccamento come un comportamento (il pianto, il sorriso, il seguire, l’aggrapparsi e il succhiare), Bowlby ne definisce le caratteristiche e le conseguenze: esso si forma tra un cucciolo e la madre nel primo anno di vita, ma si attiva effettivamente nelle crisi (la trilogia Attaccamento e perdita è del 1969, 1973,1980). Questo modello teorico viene sperimentato ampiamente nelle sue evidenze specifiche e se ne trova conferma ugualmente nella continuità della dinamica relazionale: con il tempo vengono infatti riprodotti dal soggetto degli schemi stabili, i modelli operativi interni (Internal Working Model), che connotano a livello comportamentale e relazionale la vita di quel soggetto anche da adulto. I modelli operativi interni sono apprendimenti o, meglio, rappresentazioni di sé e dell’altro, stabili ma modificabili, nel senso che nuovi attaccamenti possono correggere i modelli precedentemente appresi. Dal punto di vista sperimentale sincronico, l’attaccamento è stato osservato da Ainsworth (1978), attraverso la cosiddetta Strange Situation, in cui il bambino (da 1 anno di età) viene inserito in un contesto di separazione e riunificazione alla madre; viene osservata la relazione con un estraneo, con i giochi, con la madre quando si allontana e quando ritorna. Da questa situazione sperimentale sono stati classificati inizialmente tre tipi di attaccamento, di cui uno nell’ambito della sicurezza e due dell’insicurezza (evitante e resistente). Successivamente Main e Solomon (1990) hanno identificato un quarto tipo detto disorganizzato. Il bambino che ha un attaccamento sicuro può anche piangere quando la mamma se ne va, ma al momento della riunificazione riesce a trovare in lei presto consolazione e riprende sereno ad esplorare l’ambiente (i giochi). Il bambino con attaccamento insicuro ambivalente (resistente) non riesce a trovare consolazione al ricongiungimento e manifesta ciò con un’espressione amplificata della sua emozione, anche tramite la rabbia. Il bambino evitante non manifesta queste emozioni e al ritorno della

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mamma non le chiede comportamenti compensatori di affetto. Egli sembra solo interessato ai giochi. Il bambino disorganizzato, sia in assenza della madre sia al suo rientro, ha comportamenti disorientati, contradditori, bizzarri, afinalistici. Le rielaborazioni teoriche successive hanno teso a definire l’attaccamento come qualcosa di interiorizzato e di più complesso di un comportamento, come ad esempio una rappresentazione o un sistema motivazionale (già lo aveva fatto la Ainsworth), differenziarlo dal temperamento (Vaughn, 1989) e dall’affiliazione (Lamb, 1981). In specifico il temperamento non sembra correlare con l’attaccamento, e l’affiliazione si presenta come un costrutto diverso, che si manifesta in situazioni di serenità in cui il bambino non deve preoccuparsi di recuperare la figura di attaccamento e può esplorare senza troppe interferenze emotive. Il comportamento di affiliazione sembra mostrarsi maggiormente con la figura paterna (che spesso è il referente principale per la socializzazione e l’esplorazione) mentre il comportamento di attaccamento, che si attiva nelle situazioni di crisi, sembra rivolto maggiormente alla madre. In questo senso, Dunn (1998) si è chiesto se abbia senso studiare la Strange Situation con i padri e l’estraneo (cfr. anche con Lichtenberg, 1989, tr.it. 1995, p.153, sul sistema motivazionale esplorativo-assertivo, e p.129 sull’attaccamento padre-bambino). Ulteriori sviluppi della teoria si sono avuti grazie alle valutazioni in ambito psicometrico e diagnostico; questi contributi hanno permesso di verificare costantemente la validità del modello teorico, modificandolo in parte. Il “Separation Anxiety Test” di Bowlby è stato aggiornato da Attili (2001): il soggetto deve descrivere emozionalmente alcune figure in cui si presume che il bambino e la madre stiano per separarsi; l’“Attachment Q-Sort” di Waters è stato modificato per l’adattamento italiano da Cassibba e D’Odorico (2000). Nell’ambito diagnostico viene utilizzata l’intervista semi-strutturata “Adult Attachment Interview” (Main e Goldwyn, 1991): il soggetto racconta eventi della sua infanzia, con maggiore o minore coinvolgimento, usando espressioni linguistiche che vengono poi analizzate con griglie, ad esempio quella che fa riferimento a Grice (1993) e alle sue quattro massime della comunicazione (qualità, quantità, relazione, modo; cfr. Bartoli, 1990, p.45). Dagli studi di correlazione (tra la Strange Situation al bambino e l’Adult Attachment all’adulto) sembra confermata la relazione tra il tipo di attaccamento del genitore e il futuro comportamento di attaccamento con i propri figli. Le storie raccontate nell’Intervista sono caratterizzate da un’amplificazione dell’emozione ricordata nei casi di attaccamento insicuro ambivalente, e un’assenza di ricordo nell’attaccamento evitante. L’idealizzazione o svalutazione del genitore è caratteristica del soggetto evitante, il quale però non riporta esempi ed episodi. Sembra che un attaccamento sicuro sia manifestato da racconti realistici e da un’ emozione contenuta rispetto a fatti dell’infanzia. Un terzo tipo di attaccamento insicuro rilevato dall’Intervista è nei casi di lutto precoce. In tutta l’evoluzione della teoria, gli autori si sono confrontati in modo dialettico con la psicoanalisi; interessante è l’integrazione con la teoria dei sistemi motivazionali di attaccamento-affiliazione di Lichtenberg (1989): egli vede nel sistema

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motivazionale di affiliazione (ai gruppi) un evoluzione nella vita adulta del sistema motivazionale di attaccamento; l’autore mette in gioco il senso del sé, e l’Altro come regolatore del sé (Stern, 1985, parla di RIG: Rappresentazioni di Interazioni che sono state Generalizzate), cioè della regolazione reciproca tra la madre e il bambino. Il modello di attaccamento è stato sistematicamente studiato da Carli e altri (1995), osservando la relazione di coppia tra adulti, sia come abbinamenti tra le tipologie di attaccamento, sia come una relazione sentimentale stabile possa modificare modelli appresi nell’infanzia. Successivamente sempre Carli e altri (1999) hanno ampliato l’indagine valutando l’attaccamento nel sistema familiare, nella rete e nel ciclo di vita (approccio contestuale), come modello specifico falsificabile (nell’approccio modellistico è stata valutata la correlazione tra comportamento esternalizzato ed internalizzato dei figli e le storie di attaccamento dei genitori) e infine l’approccio meta-analitico (dibattito su sensibilità/responsività della madre e riuscita dell’attaccamento). Le applicazioni attuali della teoria di Bowlby, arricchita dalle successive modifiche, si trovano nel campo medico (la separazione durante il ricovero del bambino è riconosciuta come aggravante), nel campo pedagogico (ad es. gli inserimenti graduali negli asili, cfr. Mantovani, 2006), in campo clinico (con il trattamento ad orientamento psicodinamico dei soggetti, soprattutto bambini e adolescenti, con disturbi del comportamento e della personalità, visti in un ottica di modello appreso, aspettative e visione del mondo e di sé modificabili, come sostiene e pratica Albasi, 2006), in campo psicometrico per le correlazioni con altri costrutti, e in ambito giuridico per la gestione dei rapporti in caso di separazione o affidamento (cfr. Malagoli Togliatti, 1994). Molte sono le ramificazioni teoriche, infine, la sperimentazione delle quali non è ancora ultimata, come quelle riguardo agli attaccamenti multipli (Carli, 1999, p.217; Cassibba, 2003) e le relazioni differenziate, il trattamento dei disturbi alimentari, le terapie brevi nella psicotraumatologia (cfr. Giannantonio, 2000), il funzionamento dell’attaccamento nei bambini con ritardo mentale, tra disturbo ed efficacia superiore alla norma (Bartoli, 2005). *Psicologa clinica Bibliografia Ainsworth M., Blehar M., Walter E., Wall S., (1978), Patterns of attachment, Erlbaum, Hillsdale Albasi C., (2006), Attaccamenti traumatici. I modelli operativi interni dissociati,UTET, Torino Albasi C., (2005 a), “Il conoscere relazionale implicito e il concetto di Modelli Operativi Interni Dissociati – MOID”, in A&R-Abilitazione e riabilitazione, anno XIV, n.2, pp.25-40 Albasi C., (2005 b), “Modelli operativi interni dissociati, ovvero che cosa succede quando non viene riconosciuta la specificità”, in Ricerca Psicoanalitica, n.3, pp.331-354 Bartoli S., (1990), Il detto e il non detto: figure della manipolazione dialogica, Tesi di Laurea, Università degli Studi, Pavia

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Perché progettare? L’intervento educativo che considera la specificità e l’unicità dell’utente e su di esse va ritagliando, attraverso processi di avvicinamento e ridefinizione successive, dei “vestiti su misura” adeguati ai bisogni di ciascuno Walter Brandani* e Manuela Tomisich**

“L’uomo è una creazione del desiderio, non una creazione del bisogno” G. Bachelard Se l’attività di progettare è lo strumento a disposizione delle persone, sia a livello personale sia a livello professionale, per attraversare e vivere la complessità che caratterizza attualmente la vita, si può sostenere che la progettazione si pone sotto l’ aspetto psicologico l’obiettivo di prefigurare “ il vestito su misura” per il soggetto destinatario dell’azione educativa. L’intervento educativo è un intervento che considera la specificità e l’unicità dell’utente e su di esse va ritagliando, attraverso processi di avvicinamento e ridefinizioni successive, dei “vestiti su misura” adeguati ai bisogni di ciascuno, sempre diversi tra loro ma anche sempre riproposti e rivisitati in funzione della relazione del soggetto con il mondo. I “vestiti su misura” richiedono un’elevata professionalità, danno origine a prodotti riconoscibili, ma non eclatanti, e quindi dotati di un loro stile, segno particolare e attento. L’idea forte sottesa alla metafora della costruzione del vestito su misura è che nel lavoro e nell’intervento educativo è fondamentale che gli interventi corrispondano ai bisogni ed alle domande delle persone. Ciò richiede che sia presente un alto livello di competenza, ma implica anche la massima flessibilità “nel saper adattare il vestito, il modello e la stoffa ai bisogni e alle specificità del soggetto”. Il progetto educativo personalizzato è qualcosa che permette a ciascuno di trovare la sua misura, valorizzando e utilizzando le sue risorse specifiche; con una immagine si potrebbe dire che il progetto educativo rappresenta il cartamodello che poi deve essere declinato sui bisogni di ognuno. Generalmente di fronte ad una persona che esprime un disagio assistiamo a due modalità di intervento. La prima, che chiamiamo risposta al bisogno, cerca di dare risposta alle esigenze più immediatamente espresse dagli utenti. Spesso tale approccio si traduce in una fornitura di prestazioni e servizi atti ad intervenire nel minor tempo possibile su una situazione critica. In questo caso l’attività dell’operatore sociale è più orientata sul fare cioè sull’agire in prima persona, trascurando molto spesso un intervento teso invece al far fare, orientato alla riattivazione delle potenzialità dell’utente stesso.

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Tale modalità operativa, sintetizzata nello schema seguente, è spesso caratteristica di quei servizi socio-sanitari dove le prestazioni offerte sono rigidamente delineate. L’operatore, in tali circostanze, si trova a volte a non accogliere la domanda dell’utente perché il servizio non prevede una risposta a quel tipo di richiesta. La persona che ha formulato la domanda e le esigenze a quest’ultima sottese restano completamente ai margini. Fig. 1 – Schema Risposta al bisogno

Come si vede dallo schema in tale tipo di approccio la relazione educatore–utente PERSONA BISOGNO richiesta di una prestazione all’operatore si contraddistingue per essere un rapporto finalizzato più alla sostituzione che alla promozione: io operatore mi metto al tuo posto L’operatore verifica se alla L’operatore SI domanda espressa corrisponde per rispondere al bisogno. L’intervento è per offre una ad una prestazione prevista dal servizio prestazione la persona e non con la persona. Ne deriva un approccio principalmente determinato L’operatore NO dalla relazione domanda\risposta ovvero non offre una prestazione bisogno\prestazione. La risposta al bisogno, nel diminuire la complessità della persona, analizza i bisogni in modo standardizzato, facilitando di fatto le decisioni operative. Per questo motivo tale approccio è spesso quello preferito da tutti quei servizi socio-sanitari poco flessibili. L’eccessiva standardizzazione delle prestazioni offerte crea di fatto sia un allontanamento tra l’utente e l’operatore, ma anche un progressivo sentimento di estraneità negli operatori, i quali spesso non possono apprezzare i risultati del loro lavoro: la prestazione diventa un obiettivo e non uno strumento per promuovere una crescita della persona cui è destinata. La seconda modalità di intervento, che possiamo chiamare risposta al problema, è caratterizzata innanzitutto dal riconoscimento delle cause che generano la domanda e dalla ricerca di un intervento su di esse. L’analisi delle cause porta inevitabilmente a percepire l’utente nella sua globalità, prendendo in considerazione non solo i suoi bisogni e le sue difficoltà, ma anche le sue potenzialità e le sue competenze. Tale approccio richiede all’operatore, che vuole andare oltre alla domanda espressa per cercare di conoscere le cause del bisogno, di condividere con altri operatori e con altri servizi la responsabilità di tale analisi. Ogni operatore, con la propria professionalità e la propria competenza, nel tentativo di ridefinire il bisogno, deve contribuire a contestualizzare il bisogno espresso ed a far emergere il percorso di vita che ha portato a quel punto l’utente. In questa scelta operativa, che prevede il coinvolgimento diretto dell’utente (approccio partecipativo) e, come già detto, la presa in carico della globalità della persona, risulta basilare la formulazione per ogni utente di un progetto educativo che partendo dall’analisi del problema promuova un miglioramento della qualità della vita dell’utente. DOMANDA

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fig.2 - Schema risposta al problema

Come si vede dallo schema, in questo caso vi è un coinvolgimento diretDOMANDA to dell’utente, destinatario principale Fig. 3 - Rapporto lineare dell’intervento. L’educatore prende in carico non il bisogno espresso ma la RISPOSTA AL BISOGNO persona che lo ha espresso, lavorando di fatto con l’utente e accompagnandolo nel suo percorso di cambiamento (dalla fase 1 alla fase 2). educatore utente Anche il rapporto educatore-utente cambia. Nell’approccio risposta al bisogno siamo in presenza di un modello di relazione detto lineare, nel quale l’educatore risulta portatore di un sapere rivolto all’utente destinatario dell’intervento. (fig.3) Al contrario nell’approccio risposta al problema sia l’educatore che l’utente, con ruoli diversi, sono attori del cambiamento nel momento in cui ognuno riconosce all’altro specifiche competenze e capacità. In questo caso il rapporto educatoreig. 3 - Rapporto lineare utente si definisce circolare. (fig.4). fig.2 - schema risposta al problema Persona (fase 1)

Bisogno

richiesta di una prestazione all’operatore

CA MBI AM ENT O

Persona (fase 2)

Analisi cause che generano la domanda. Definizione natura del problema

Intervento

Definizione progetto

del

fig.4- Rapporto circolare -complesso RISPOSTA AL BISOGNO Fig. 3 - Rapporto lineare Fig.4- Rapporto circolare -complesso RISPOSTA AL PROBLEMA

RISPOSTA AL BISOGNO educatore

utente

RISPOSTA AL PROBLEMA educatore

utente

Abbiamo qui preso in considerazione l’approccio definito risposta al problema perché la progettazione ne è un elemento fondante. Ci preme sottolineare alcuni elementi etici della progettazione. Chi progetta lavorando all’interno di servizi socio-sanitari, spesso predilige la selezione di interventi effettuabili ed attuabili, a g.4- Rapporto circolare -complesso discapito di quelli ritenuti teoricamente indispensabili. Quante volte un determinato intervento non viene attuato per mancanza di risorse strutturali e\o econoRISPOSTA AL PROBLEMA miche? Tale realtà pone al centro il tema della responsabilità degli operatori con riguardo alle loro competenze nel saper decodificare i bisogni dell’utente, alle loro capacità di progettare ed alla loro attitudine a ridiscutere le modalità attraverso le educatore utente quali riflettere su se stessi, sui propri strumenti operativi e sui modi di apprendere dall’interazione con l’utente. Progettare nel lavoro sociosanitario vuol dire anche immaginare un piano di

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intervento che incida positivamente sul problema della persona, con l’utilizzo di strumenti operativi rivolti al cambiamento di una problematica o almeno di alcuni suoi aspetti. Così inteso il progetto non è una mera descrizione dell’azioni previste, ma è piuttosto il modo di organizzare un intervento o un servizio. Non si può elaborare un progetto se non si tiene conto della sua potenzialità organizzatrice se il progettare è accompagnato da un’attenta analisi dell’adeguatezza del proprio modo di lavorare e di strutturare il servizio stesso, avremo un positivo ritorno dal lavoro con l’utenza che andrà incidere direttamente sull’educatore e sul servizio nel quale lavora. Pur consapevoli dell’inesistenza del progetto perfetto vogliamo indicare alcune parole chiave che identificano il lavorare per progetti: - l’equità, intesa come il recupero dei diversi punti vista di ogni persona coinvolta nel progetto; - la provvisorietà ovvero la capacità di indicare un termine del progetto stesso: non bisogna far coincidere interventi che accompagnano l’utente per tanti anni della vita con un unico progetto sine die. Interventi a lunga durata presuppongono il susseguirsi di più progetti a tempo; - la flessibilità, ovvero la predisposizione a ridiscutere ogni tipo di intervento prevedendo verifiche in itinere, per evitare di fare del progetto uno schema rigido poco incline ai cambiamenti; - l’apertura, il progetto è non è una strada senza uscita, gli obiettivi del progettare devono prefigurare all’utente i possibili cambiamenti. A volte ci ritroviamo di fronte a progetti che prospettano il mantenimento dello status quo, senza la prospettiva di un cambiamento o di un miglioramento: bisogna salvaguardare il diritto di ogni persona ad immaginarsi in un futuro diverso; - la perfettibilità, la consapevolezza che ogni azione del progettare può e deve essere migliorata per evitare di attivare progetti che con il tempo non rispondono più in modo adeguato agli obiettivi del progetto stesso; - la concretezza, un elemento teso ad evitare voli pindarici, per il quale ogni progetto deve fare i conti con obiettivi, pianificazione delle azioni, analisi delle risorse e dei vincoli strutturali, deve poter essere realizzabile. Il luogo del progettare Come abbiamo già detto il progettare è di solito un’attività nella quale concorrono vari professionisti. La presenza di più competenze, se da un lato è elemento fondante di una progettazione organica, dall’altro lato può creare una difficoltà d’integrazione tra i diversi approcci. Nel lavoro d’équipe, tuttavia, si deve evitare di “arroccarsi” in rigide posizioni pretendendo che il collega rinunci a priori al proprio punto di vista. Sicuramente ogni operatore ha la necessità di agire all’interno di un sistema di significati, riconducibili al proprio orientamento e setting di riferimento (pedagogico, terapeutico, ecc). Incontrarsi nel progettare non vuol dire quindi rinunciare ai propri riferimenti, vuol dire piuttosto superarli per creare il luogo del progettare,

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dove dar spazio ad un confronto utile per costruire linguaggi e percorsi condivisi. Gli elementi che delineano questo luogo possono essere riconducibile ai seguenti otto aspetti: Il luogo dell’incontro, dove tutte le persone coinvolte nel progettare possono sedersi intorno ad un tavolo. In una società nella quale gli strumenti tecnologici ormai predominano, è essenziale dotarsi di uno spazio dove comunicare con l’altro vis a vis: l’incontro con il collega per progettare non può essere ne virtuale ne occasionale. Limitare il più possibile, in questo luogo, l’interferenza di telefoni che squillano o di persone esterne che interrompono, vuol dire decidere di tutelare, da interferenze esterne il momento, della progettazione, consacrandone la sua centralità all’interno dell’intervento educativo. Nell’incontro vi deve essere la volontà di riconoscere nell’altro (collega) un compagno di viaggio, dove la naturale diversità professionale diventa una necessaria complementarità progettuale ed operativa. Il luogo della comunicazione, dove vi è l’interesse di tutti di dotarsi un linguaggio condiviso. Non si tratta di rinunciare al proprio linguaggio tecnico, ma piuttosto di verificare che i nostri interlocutori, abbiano compreso il significato della nostra comunicazione. Quindi non si richiede di abbandonare il proprio punto di vista ma piuttosto di sforzarsi a mettersi nei panni dell’altro per capire, sentire, vedere il modo dal punto di vista dell’altro. Il luogo dell’ideazione, dove si narrano i propri pensieri e le proprie considerazioni per far spazio alla nascita di nuove idee e riflessioni. Progettare vuol dire anche produrre pensieri,che devono essere continuamente verificati e riformulati. L’appartenere a setting diversi deve essere considerato una risorsa del progetto stesso, nel momento in cui le “nuove idee” sono il frutto di una riflessione condivisa. Il luogo delle emozioni, non si può lavorare in relazione con l’altro senza predisporre uno spazio dove l’operatore sociale può esprimere le proprie emozioni. Ogni storia con la quale l’operatore entra in contatto può muovere una serie di emozioni, più o meno forti, che vanno ad “interferire” all’interno dell’agire professionale. Oltre ad uno spazio individuale, gli operatori sociali devono trovare la forza di creare uno spazio di gruppo, dove esprimere le proprie emozioni, per limitare il rischio che “distorsioni emotive producano distorsioni percettive”. Il luogo della presenza, posto che a volte si evita di rendere visibile e noto agli utenti il luogo della progettazione, dimenticando quanto sia importante, sia per un minore che per un adulto, sapere che ci sono momenti e luoghi dove alcuni operatori parlano dell’utente. È molto rassicurante sapere che oltre al luogo dove gli operatori sociali sono disponibili a parlare con l’utente (cosa in parte inevitabile nel momento dell’incontro con l’operatore), c’è anche un luogo dove si parla dell’utente e per l’utente. Quest’ultima attività, tutt’altro che scontata, può rappresentare uno straordinaria momento per l’utente che può fare l’esperienza di sentirsi presente nella progettualità di altri. Il luogo del tempo, perchè il definire tempi è insito nel progettare ma, a seconda della professionalità di appartenenza, la percezione del tempo dell’operatore cambia. Un mese può rappresentare per un educatore un tempo lunghissimo mentre

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per un assistente sociale un tempo breve. Ecco quindi che lo sforzo da compiere è di superare la percezione soggettiva del tempo per definire tempi condivisi e concordati. Non è consigliabile imbarcarsi in una progettazione se l’equipaggio (equipe) non ha definito il giorno di partenza, i tempi per raggiungere le varie soste e la durata complessiva del progetto. Il luogo del sogno, perchè si progetta per apportare dei cambiamenti, possibilmente dei miglioramenti. Chi progetta ha inevitabilmente uno sguardo verso il futuro, ha il desiderio di andare oltre alla situazione con la quale si confronta. Tale desiderio è il motore dell’educare, è l’orizzonte che da una direzione e una intenzionalità all’attività educativa. Nel lavoro sociale non si deve negare di avere dei sogni, bisogna anzi esplicitarli, evitando prevaricazioni e trovando possibili condivisioni. Il luogo della memoria, dove chi progetta si impegna a ricordare le varie tappe che hanno portato alla realizzazione di un progetto. È questo il luogo che custodisce verbali, relazioni e progetti. Scrivere un progetto non solo aiuta tutti al rispetto degli impegni presi, ma è anche l’unico modo per conservare informazioni e permettere, anche ad altri, una effettiva verifica di tutto il percorso della progettazione. Per gli operatori sociali abitare questi luoghi, vuol dire non solo esplicitare il proprio sistema di premesse, le proprie convinzioni e il proprio orientamento operativo, ma anche ascoltare le altrui convinzioni e orientamenti. Nel luogo del progettare si lascia per ricevere e questo dovrebbe essere il movimento, che mette in relazione componenti di un’équipe di progettazione. Ecco quindi che l’abitare questo luogo rappresenta un importante momento formativo, dove la propria professionalità si arricchisce di nuove competenze. *Insegnante, Educatore Professionale e Mediatore Familiare. Insegnante presso IC Cogliate (MI), socio ANEP **Psicologa-psicoterapeuta e mediatrice di comunità. Docente nel corso di laurea specialistica in Psicologia presso l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano Bibliografia: W. Brandani, M. Tomisich, La progettazione educativa, Carocci Roma, 2004 W.Brandani, P. Zuffinetti, Le competenze dell’educatore professionale, Carocci Roma, E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina Milano, 2001

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Integrazione e disabilità Sono molte le esperienze e le ricerche nell’ambito dell’integrazione che seguono ipotesi e traduzioni diverse. Ma un presupposto è certo: oggi non è più possibile pensare l’integrazione senza l’altro, senza la persona con disabilità che slarga le prospettive della normalità e suggerisce saperi Nadia Murgioni*

Integrazione è lavorare alla creazione di condizioni di convivenza qualificata per tutti e in ambito educativo significa avere a cuore la formazione e invogliare all’apprendimento serio, rigoroso, esigente e rispettoso del piacere della conoscenza. Muoversi in tale senso è favorire occasioni per entrare in contatto con la diversità, la novità e la presenza degli studenti con disabilità stimola la conoscenza e favorisce l’alzarsi del livello di accoglienza dell’eterogeneità. Sono molte le esperienze e le ricerche nell’ambito dell’integrazione che seguono ipotesi e traduzioni diverse, perché l’integrazione non può rincorrere un percorso lineare e progressivo, ma si deve avvalere di una prospettiva ampia e difficile a definirsi una volta per tutte. Un presupposto è certo, oggi non è più possibile pensare l’integrazione senza l’altro, senza la persona con disabilità che slarga le prospettive della normalità e suggerisce saperi. La diretta partecipazione di tutti al processo di integrazione garantisce non solo l’acquisizione di strumenti di conoscenza, ma l’attivazione di soluzioni particolari e diverse di fronte al “nuovo all’inatteso che si costituisce come problema. La valorizzazione delle differenze in relazione alla qualità formativa sono: ”il vero lavoro conoscitivo che consiste nella costruzione e creazione di significati intersoggettivi all’interno degli universi culturali: il valore aggiunto della conoscenza risiede dunque proprio nella sua capacità di creare differenza in quella attività per noi fondamentale che è la produzione di senso…è proprio l’esserci con sensibilità nei confronti delle differenze a venire sollecitato come elemento chiave dei processi educativi”.1 E’ in tale ottica che è possibile uscire dal riduttivismo del dovere “dell’integrazione” per affacciarsi con una proposta di servizi per gli studenti che faciliti la soddisfazione di un bisogno e la produzione di un Bene come la formazione. Il Tutorato per studenti con disabilità offre sia agli studenti sia ai docenti una possibilità di ricerca e di intervento per favorire l’integrazione con un Servizio che coordina forme di counselling individuale e in gruppo per aree tematiche e strategie di tutorato didattiche, specifiche per disabilità. La proposta è nata nel 2000, osservando le difficoltà di inserimento e le esigenze nei momenti critici della carriera universitaria, per ridurre gli abbandoni e sviluppare processi di socializzazione qualificata. 1  F. Dovigo, Il singolare quotidiano, in “Pedagogika.it”, 2002, IV (6), 33-36.

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Il Servizio di Counselling Il Counselling rappresenta la risposta al bisogno di orientamento per la persona in difficoltà per armonizzare i conflitti e compiere scelte adeguate alla realizzazione della autonomia personale e alla consapevolezza di sé. La relazione accoglie la richiesta di aiuto a partire dall’analisi del contesto in cui essa è nata e si avvale di una metodologia per l’individuazione delle risorse individuali in un’ottica di sostegno alla crescita dell’autonomia in relazione. Il Counselling si esprime all’interno di una relazione dialogica e il dialogo presenta una sua problematicità essenziale ed esistenziale. E’ proprio a partire dal riconoscimento di questa potenzialità critica, che possiamo recuperare forze e capacità che sono proprie del dialogo efficace, come si struttura nel Counselling. Dialogare in situazioni altamente emotive ha bisogno di riconoscimento della difficoltà e di individuazione di percorsi e anche di sostegni teorici, esperienziali ed esistenziali a cui fare riferimento. Nel caso del Counselling applicato all’interno del contesto universitario per gli studenti con disabilità, il setting può diventare occasione di un alto apprendimento che è la “gestione maieutica” della malattia. L’esperienza della malattia e quindi della differenza, della propria personale o delle altrui differenze può essere vissuta sia come elemento nobilitante e arricchente ma anche come un peso che danneggia e che va eliminato e spesso rifiutato. L’esperienza della perdita della salute è una costante nella crescita psicologica, biologica, umana nella sua interezza. La scoperta di sé uguale e differente è scoperta e riscoperta di ogni tappa evolutiva e di ogni cambiamento, è all’interno di questo processo di adattamento che ci abilitamo a sentirci appartenenti, degni di accettazione, oppure isolati e “diversi”. Il Counselling non è una tecnica e gli strumenti che offre non sono utilizzabili al di fuori della centratura della persona, delle due persone: counsellor e studente e di un riferimento teorico. La competenza del professionista counsellor è data dalla conoscenza teorica in difficoltà soggettive di natura conscia o inconscia non patologica e in difficoltà oggettive esterne alla persona, relative ad un contesto che il Counsellor conosce molto bene. I counsellor professionisti lavorano sulla base di un impegno condiviso con il cliente per identificare obiettivi e possibili soluzioni a problemi che causano disagio emozionale per promuovere cambiamenti nel comportamento e nel benessere mentale e relazionale. La teoria a cui fa riferimento il Counselling per Studenti con disabilità è l’Analisi Transazionale, la cui filosofia è fondata sul presupposto che in ogni persona ci sono capacità e risorse in grado di autorientarsi, fronteggiando e risolvendo i problemi. Non si tratta quindi di un aiuto finalizzato a colmare una mancanza o una incapacità, ma di una forma di ascolto che mira a promuovere l’autoriconoscimento di sé, delle proprie potenzialità. Per comprendere il senso pieno possiamo rifarci alle basi della filosofia A.T., che sono l’Okness o Benessere e il Contratto. Per l’okness si tratta del riconoscimento che ognuno è Ok, che ognuno ha la capacità di pensare, valutare e decidere, che ognuno ha la responsabilità della propria vita su cui può utilizzare il proprio potere

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di ridecidere. Da questa concezione dell’uomo ne discende un’idea di relazione che perché possa essere paritaria richiede una assunzione condivisa di responsabilità sul fine che si è deciso. Perché una relazione di counselling possa dirsi efficace i soggetti in relazione partecipano al loro cambiamento-apprendimento e l’ efficacia è in relazione alla consapevolezza . La partecipazione consapevole è sostenuta dal processo contrattuale. Fare un Contratto in educazione significa stabilire insieme e assumere nei confronti di se stesso e dell’altro responsabilità. Ogni dialogo diventa quindi l’individuazione di un punto di partenza e di una tappa successiva, riconoscibile da entrambi. Il cliente dichiara il suo bisogno e il modo in cui può adoperarsi per soddisfare il cambiamento e l’analista- Counsellor dichiara la sua capacità ad interagire per il cambiamento. Stabilire significa decidere confini, metodi e obiettivi e ciò assicura la parità nel rapporto. Fare un contratto suggerisce alla nostra capacità ragionativa due importanti notazioni, che ci si può mettere al lavoro e che ogni occasione è buona per cambiare e che il livello di ansia per il non conosciuto può essere ridimensionato da ciò che è stato deciso. La finalità del counselling educativo è quindi prevenire comportamenti limitanti e promuovere lo sviluppo di potenzialità che sono inscritte nell’individuo e che hanno bisogno di essere riconosciute scelte e decise. La liberazione di potenzialità educative è costruzione della persona in autonomia sui presupposti che vera autonomia è realizzazione del sé in relazione con consapevolezza, spontaneità e intimità. Il Servizio di Tutorato didattico La specificità del Tutorato didattico si definisce come una possibilità di integrazione tra le competenze che si riconoscono all’attività tutoriale e una maggiore vicinanza alla realtà umana, una più significativa capacità di osservazione che abiliti a intervenire sia sulle questioni generali, sia sulla realtà in tutta la gamma delle sfumature che si connotano come richieste speciali. Secondo questa accezione, il tutorato per scd assume così il significato di spazio educativo riservato alla riflessione e all’intervento in un campo speciale. E’ attraverso la consapevolezza e la significatività riconosciuta alla situazione educativa che la specializzazione consente di individuare il carattere specifico di un singolo soggetto. Si definisce così la specificità come riconoscimento di differenza, individuazione di risposte diverse, nel darsi il permesso di concepire l’insolito. La persona apprende attraverso la potente modalità della sintesi di cultura ed esperienza, e il concetto di “spazio vitale” individuato da Lewin, inteso come l’ambiente del sé, ciò che lo differenzia in quanto individuo, le sue modalità percettive, può costituirsi un riferimento teorico a cui ispirarsi per il tutorato per scd. La centralità della persona nell’apprendimento, teorizzato da più autori ( G.W. Allport, C.Rogers) assume per lo studente con disabilità una possibilità di riconoscimento

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delle essenziali risorse che lo hanno avvicinato al sapere ispirando la causalità propria dell’apprendimento. Lasciandosi guidare dentro la libertà di apprendimento che la persona con disabilità si è riconosciuta, si può percepire il senso personale attribuito alla significatività di apprendere. Quando Rogers ha intuito l’apprendimento significativo ha ricomposto il modo di rapportarsi di ogni individuo con l’esterno e quindi sia con l’esperienza sia con la cultura, attraverso il riconoscimento del bisogno di ognuno di dare senso, riconoscendo in questo il personale potere di ciascuno. Nel processo di apprendimento ci sono: la percezione, la motivazione, la memoria, l’intuizione, l’invenzione ecc., e nel cammino si incontrano difficoltà, resistenze, l’impatto con la diversità concettuale, ma in primo luogo il riconoscimento di senso per sé. La persona apprende veramente solo ciò che ritiene utile e funzionale ai propri bisogni, in relazione al rapporto che ha con la realtà che non è definita solo su criteri oggettivi. Ogni volta che si acquisisce un nuovo sapere esso si rapporta e si nutre della storia e delle caratteristiche personali, disabilità, abilità, con la cui interazione può assumere valenze inaspettate, proprio perchè entra a far parte dello schema di riferimento ideale ed esistenziale della persona. Per il Tutorato ogni disabilità rappresenta uno spazio di approfondimento specifico e di verifica di nuove metodologie, che individuate per gli studenti con disabilità, possono avere valore di efficacia e di trasferibilità per: a) favorire il percorso di integrazione degli studenti disabili, anche attraverso la loro collaborazione al progetto di ricerca, nell’ambito dell’università; b) rendere accessibili i contenuti culturali proposti in ambito universitario al fine di agevolare la piena realizzazione delle potenzialità della persona; c) individuare, con la collaborazione dei docenti, aspetti educativi e didattici che rispondano a criteri di accessibilità

*Pedagogista e Counsellor Analitico Transazionale (CTA), Tutor Specializzato e Coordinatrice del Servizio di Tutorato Studenti con disabilità della Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi Roma Tre. Bibliografia Berne. E., Analisi Transazionale, Astrolabio, Roma 1971. Montuschi, F., Il contratto nei campi educativi, in A. XIV, 9,4. Montuschi,F., Competenza affettiva e apprendimento, Ed. La Scuola, Brescia 1993. Murgioni,, N., Guida al Servizio di Tutorato per Studenti con Disabilità, Università degli studi Roma Tre, Facoltà di Scienze della Formazione, Roma 2006.

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Scusate per il ritardo, il libro è Non starò a ripetere quel che scridell’anno scorso. Io l’ho incontrato per ve l’altro recensore sul fumetto. Il mio caso. Mi guardava dall’espositore di rapporto è simile al suo, ma questo fuuna biblioteca che frequento. Voleva metto è veramente bello e riesce a dire che lo prendessi, che lo sfogliassi? Per su più piani, quello grafico e quello un po’ ho tentennato, non senza difdello scritto, qualcosa di serio sul rapfidenza, dirò i motivi. Infine, mi sono porto con il tempo e sul rapporto tra lasciato tentare. A casa, l’ho fatto girale generazioni. re perché qualcuno lo leggesse. Poi mi «Se tu conoscessi il Tempo come lo sono deciso e non mi sono pentito. conosco io, non ne parleresti con tanta Il libro cui mi riferisco è un roconfidenza. Non gli va di essere batmanzo di tipo particolare. Forse, a tuto. Se invece ti fossi mantenuta in essere pignoli, non si buoni rapporti con dovrebbe nemmeno lui, lui farebbe fare parlare di romanzo al tuo orologio tutin senso stretto. Facto quello che vuoi ciamola, comunque, tu». Questa citabreve: è un romanzione sul tempo, zo a fumetti, ideato, che Lewis Carcioè scritto e disegnaroll faceva dire al to, da un giapponese Cappellaio Matto che risponde al nome del suo Nel Paese di Jiro Taniguchi. delle Meraviglie, Ecco,  quindi, ci sembra un otle due ragioni della timo esergo per mia iniziale reticenquesto testo, dove ze. Più stupida la la “lontana città” prima: erano secoli, non è solo un luodai tempi di Corto go geograficamenMaltese o giù di lì, te lontano, ma un che, salvo saltuarie topos temporale eccezioni, non legin cui qualcosa si Jiro Taniguchi gevo un fumetto. Mi è inceppato, un In una lontana città pareva un interesse evento è interveRizzoli, Milano 2006 che, in un sussulto nuto, e il tempo pp. 406,€ 17,90 di pretesa maturità, di declinazione avrei voluto o dousato al passato

Ambrogio Cozzi

Angelo Villa

A due Voci


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vuto lasciarmi alle spalle. Più fondata la seconda: pensavo che, data la nazionalità dell’autore, fossero stile “manga” o robaccia del genere. Invece, chi è senza pregiudizi scagli la prima pietra, ben mi sta, perché non è così. Anzi, nel risvolto di copertina è precisato che Taniguchi si è dato un gran da fare per trovare una formula espressiva personale, non assimilabile ai popolari fumetti giapponesi. D’altronde, Taniguchi non è un ragazzino, né, credo, voglia rivolgersi a un pubblico di quel tipo. Ho scorso la sua età, è nato nel ’47, e ho iniziato poi a dare un’occhiata alla prima pagina. Non ho smesso sino alla fine. In una città lontana, questo è il titolo del romanzo, mi ha preso al cuore, commuovendomi. Bello, molto bello. Può darsi che, in tal senso, l’utilizzo del fumetto abbia avuto il suo peso, anche se mi parrebbe limitato imputare ad esso le mie sensazioni. Di sicuro, lo scarto tra un tema drammatico nella sua sostanza, per quanto elaborato in chiave fantastica, e la forma fumetto, quasi ingenua, “naif” nel suo declinarsi, mi pare favorisca l’accentuarsi di una sorta di inafferrabile turbamento emotivo. Come se nella muta contrapposizione di questi due piani, il serio e l’infantile, il lettore avvertisse sotto pelle, oscuramente, il consumarsi di uno strappo, l’espandersi di una ferita difficile anche solo da nominare. Si passa da una pagina, da una tavola all’altra, nel mentre, dentro di sé, qualcosa si muove nella direzione contraria, quasi una resistenza. Un foglio, un foglio invisibile che si stacca da un quaderno avente le medesime caratteristiche. Il quaderno,

cerca di mascherare qualcosa che passato non è. Il libro inizia con pagine caratterizzate da tonalità buie, ambientate nel presente. Nella prima tavola un’ombra si proietta nel vicolo, quasi l’ombra di un passato che incombe nel presente. Di lì a poche tavole il clima cambia, lo sfondo diviene bianco, quasi venisse a mancare, e i tempi cominciano a confondersi. Il rilievo è assunto da uno sdoppiamento/congiunzione, attraverso un uso accorto dei tempi narrativi. Vi è un tempo del narratore coniugato al passato remoto, che ci racconta la vicenda, ma questo stesso narratore coincide con il protagonista che parla al presente, restituendoci un effetto di duplicità in cui i tempi si incrociano, si accavallano, rimandandoci al tempo dell’esistenza in cui passato e presente si incrociano e si rincorrono. Ma il tempo è scandito da eventi, la storia intessuta di storie. Gli eventi tornano, o meglio torniamo agli eventi irrisolti cercando di annullarli. Facchinelli ne La freccia ferma parlava dei tentativi di annullare il tempo, in realtà quelli che si volevano annullare erano gli eventi, l’accaduto. Sottolineava come convivessero nell’esistenza due tempi, quello lineare e quello circolare, e in questo sovrapporsi si dipanava l’esistenza umana che inseguiva la possibilità di ritornare all’indietro. Un indietro che non solo fermava, ma annullava lo scorrere del tempo fermandolo in un presente infinito, segnato da uno scorrere vuoto perchè privato degli eventi, eterna pagina bianca su cui poter scrivere una storia sempre nuova e sempre incompiuta.

Cultura

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pensavo, è il sogno, il nostro eterno dell’infanzia che pochi hanno avuto, la fantasia di un mondo idealizzato; il foglio è la storia, il pezzo che se ne va, decompletando l’illusione che ambiva a tenere insieme i ricordi. A un foglio ne seguirà poi un altro, lasciando al quaderno una copertina vuota. Inutile aggiungere cosa si mette di mezzo tra il quaderno e i fogli che lo abbandonano: il tempo. O, per essere più puntuali, il tempo che passa. E’, del resto, sempre il tempo a costituire il punto focale su cui ruota il romanzo di Taniguchi. In In una città lontana, infatti, il tempo si rovescia, il protagonista si ritrova a vivere il tempo della sua adolescenza con la consapevolezza e la memoria degli eventi accaduti che gli regalano gli anni della maturità, non foss’altro anagrafica. Un po’ come accade in Peggy Sue di Coppola o in Ritorno al futuro di Zemeckis. In particolare, esiste un accadimento che il protagonista vorrebbe evitare che si verificasse. O di cui, almeno, se ne potessero comprendere le ragioni. La apparentemente immotivata fuga del padre, in un giorno qualsiasi d’estate. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi. La famiglia pareva felice, il padre un gran lavoratore, attento ai figli. Perché, quindi, se ne va? E perché anche il figlio, anni dopo, sta tentando qualcosa di simile? In una città lontana mi è parso una delicata e attenta riflessione su quella che definirei come la violenza della gentilezza. Di solito, non a torto, si associa la violenza alla brutalità. In questo caso, però, è la stessa violenza a rivelarsi nella sua essenza, in quel che è, al fondo. Brutalità e violenza

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La porta del tempo è un’apertura verso questa dimensione, ma nell’entrarci ci si perde e ci si confonde. L’illusione di poter mutare gli eventi cade “14 anni... mi sono reso conto di essere un ragazzetto di scuola media, impotente, anche in questo mondo, anche in questo nuovo tempo”. La differenza non è solo in una maturità raggiunta che ci permetta di correggere gli eventi di allora, la differenza ineliminabile è con l’Altro, con le sue scelte che ci riducono all’impotenza, che ci fanno sentire come questo non possa essere corretto dalla maturità raggiunta. La differenza è quella tra le generazioni, tra l’apparente casualità delle scelte che “subiamo” e la scoperta delle ragioni, delle attese, delle fatiche che le accompagnano. Vi sono in questo senso nel testo motivi alti, in cui la storia dei singoli si intreccia con quella collettiva segnandola, marcandone in parte gli esiti. Anche trovando la porta del passato ci si perde, si inseguono segni di presenza che ci svelano nuove assenze, le relazioni assumono nuove direzioni insperate ma si dissolvono seppur in modo differente. Il tempo della coniugazione diviene l’imperfetto, le ragioni dell’oggi si confondono con gli eventi di ieri, i tempi si sovrappongono in una costruzione raffinata, passato, presente e futuro si perdono, occorre intervenire affinchè gli eventi incontrino una piega, una piega che noi possiamo imprimere: potenza dell’infanzia che fantastica di mettersi al riparo della presenza dell’Altro. La piega si rivelerà non un evento casuale, ma una scelta dell’Altro, la realizzazione di un’attesa, la risoluzione


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sono sinonimi. Non così è, invece, per la gentilezza. Per un verso, ed è esperienza comune, la violenza si nasconde dietro la maschera di ferro del formalismo, per quanto la carica aggressiva che l’accompagna filtri, ben percepibile, nelle feritoie che lascia scoperte. La gentilezza inclina qui all’affettazione. E ciò pare una sorta di contraddizione in termini. Per un altro verso, più autenticamente recettivo, ed è quello che ora ci interessa, la gentilezza sembra invece invaghirsi di un sogno ambizioso che disprezza qualsiasi ricatto strumentale. Si fonde e si confonde con l’amore. Se non vuole piacere, la persona gentile , di sicuro, non vuole dispiacere. Soffre, sinceramente, anche alla sola idea che l’altro possa aversene a male, dubitare di lui, della sua bontà e lealtà. Se poi, vuoi mai, quest’altro assume per lui un certo valore, il pensiero di deluderlo lo getta nello sconforto. Andrà nel fuoco perché questi non possa mai dire: “non avrei mai supposto che tu…”. Sotto inteso, fossi come gli altri. Formula da intendersi nella sua versione più esasperata, al negativo, fossi peggio degli altri. E’ per questo che il gentile si prodiga sino a dimenticare sè stesso, quasi chiedesse all’altro il diritto di vivere, di stare al mondo. Dipendente com’è da un amore senza il quale lui stesso non riesce a volersi bene. La violenza lo assedia, come un incubo. Quasi fosse il rovescio di quell’amore a cui non riesce a dire di no. Se ne va per non uccidere l’altro, per non uccidere sè stesso. La fuga è il suo taglio estremo, la separazione, ma, forse, il segno della sua incapacità a separarsi dalla gentilezza. O, semplicemente, a separarsi. Siate giusti, se potete, non gentili.

di un debito. Occorre riprendersi da un duplice sogno, il proprio e quello del padre, uscire dall’incubo di un’esistenza non propria e cogliere le distanze tra le generazioni. Non è solo un libro sul tempo questo, è un libro sulla mancata comprensione tra le generazioni, sulla necessità della distanza, sulla fantasia di mutare il passato che spesso ci invade non solo in termini di possibilità, ma quasi come realizzazione delle attese di allora nell’oggi, o come attese dell’oggi nell’allora. La tavola iniziale dell’ultimo capitolo riprende quella iniziale del primo, ma l’atmosfera è meno cupa, sembra una giornata di sole. Il luogo è lo stesso, ma si vede un ragazzo che proietta la sua ombra alle spalle. Quell’ombra minacciosa che nella prima tavola precedeva la presenza del protagonista ora è alle spalle, il passato è stato abbandonato, egli sta andando oltre. E’ il momento di tornare all’oggi, ma prima occorre chiudere i conti: finisce la storia con Nagase, e l’ubriacatura in un bar, che riprende quella iniziale, apre al ritorno, al ricordo nel rapporto con l’oblio. Si può andare oltre, ma si è tornati cambiati, nell’incontro con la propria storia si è usciti mutati. Qualcosa, tuttavia, permane, qualcosa che vive in modi sotterranei nel ricordo, riattivato da un un incontro casuale e da un dono. Il viaggio è terminato, ma il viaggio interiore continua, segnato da incontri perturbanti che ci svelano l’urgenza di rivelare gli eventi, di cercare un velo di parole che lo possano dire, come un romanzo, quello del protagonista.

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Scelti per voi Libri, musica, cinema a cura di Ambrogio Cozzi Ugo Cardinale, Dario Corno, Giovani oltre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2007, pp. 460, € 22,00 “La condizione giovanile nell’ultimo secolo è stata analizzata con frequenza dai sociologi e ne sono emerse letture di volta in volta diverse e contraddittorie. Si è passati dalla domanda di protagonismo trasgressivo della generazione del rock and roll al ‘realismo’ della generazione della vita quotidiana (F. Garelli, 1984) alla ‘socializzazione orizzontale’ di giovani senza padri né maestri (L. Ricolfi, L. Sciolla, 1990). Tuttavia mai come nei nostri tempi, la questione dell’essere giovani è stata così difficile da cogliere” (pag. V). Con queste parole Ugo Cardinale, che nel suo ruolo di docente di Linguistica Generale all’Università di Trieste ha dedicato diversi corsi alla lingua dei giovani, e Dario Corno, che insegna Grammatica Italiana all’Università del Piemonte Orientale ed è consulente per la didattica dell’Italiano nell’Alta Scuola Pedagogica di Locarno, introducono questo saggio che, sempre secondo i due studiosi, vuole prendere sul serio una tripla di domande (Che cosa significa essere giovani oggi? - Chi sono i giovani? - Qual è il loro profilo?); domande che rappresentano l’articolazione interrogativa dell’ultima

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affermazione del brano riportato. La tesi sostenuta da Cardinale e Corno è che nessuna ricerca finora ha approfondito la novità odierna di un tema che, tuttavia, ricorre da almeno due secoli negli studi sull’adolescenza, ovvero quello della “frattura generazionale”: “Studiare il mondo giovanile odierno non significa pertanto riproporre una versione aggiornata degli studi sull’adolescenza nei suoi rapporti conflittuali con il mondo adulto, ma penetrare in questo ‘solco’ tra le generazioni, forse irreversibile, che si sta producendo per effetto della ‘Terza fase’ nella storia dei mezzi di trasmissione dell’informazione (pag.VI); poiché tale solco è capace addirittura di invertire il senso del ‘rito di iniziazione’: non più dal vecchio al giovane ma dal giovane al vecchio, che, in questo modo, diventa neofita”. La mente dei giovani, bombardata dall’opulenza informativa e da uno sviluppo ipertrofico della vista e dell’udito nel totum simul di un presente dilatato (senza passato nè futuro) è il segnale di una vera e propria “mutazione genetica” e il suo studio quindi deve avvalersi dell’apporto di psicologi, linguisti, sociologi, studiosi della mente, psicopatologi. Il volume, oltre alla succitata introduzione di Cardinale e Corno, si articola in quattro sezioni (Mutazione genetica nell’era del digitale – Una “full immersion” nella comunicazione onnivora – La sperimentazione del rischio, il rischio ordalico della sfida della morte e le nuove speranze educative – Lettere aperte ai giovani) che raccolgono appunto i contributi di numerosi studiosi di varie discipline: si va dagli psicologi ( Cristina Meini, Silvia Vegetti Finzi) agli psichiatri (Marco Francesconi) ai pedagogisti (Fulvio Poletti); dai linguisti e glottologi (Giuliana


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Fiorentino, Gianna Marcato, Annarita Maglietta, Raffaele Simone, Alberto A. Sobrero, Antonella Stefinlongo, Pietro Trifone) ai sociologi (Elena Esposito), agli storici (Claudio Vercelli), ai docenti di Teatro e Drammaturgia dell’Antichità (Giulio Guidorizzi); dai musicisti (Giovanni Allievi) ai poeti (Anna Tabbia). I contributi – ad ulteriore merito - sono spesso corredati da ricche bibliografie e sitografie; il volume, ben curato, contiene anche delle note biografiche degli autori e un indice analitico che ne facilita la consultazione. Marco Taddei Luigi Regogliosi, Paola Misesti, Alberto Terzi, Giovani possibili. Adolescenti e nuovo welfare di comunità, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA), 2006, pp. 140, € 14,50 Sempre più spesso negli ultimi anni mi capita di condividere, con chi lavora nel settore dei servizi rivolti agli adolescenti e ai giovani in generale, a diversi livelli, una certa insoddisfazione per “come vanno le cose”: c’è la forte sensazione che i modelli “storici” in cui si articolano tali servizi (Centri di Aggregazione Giovanile, Lavoro di strada, Servizi di informazione, orientamento e consulenza), o meglio, i principi dai quali essi muovono e la logica nella quale essi operano, mostrino un po’ la corda e risultino incapaci di dare risposte educative adeguate e di qualità alle innumerevoli e nuove domande e sollecitazioni provenienti dal mondo giovanile. Il libro di Regogliosi (psicopedagogistaUniversità Cattolica di Brescia e di Mi-

lano), Misesti (pedagogista-Centro Studi Prospettive di Como) Terzi (sociologopresidente Centro Studi Prospettive di Como, consulente ministeriale e socio dell’Istituto IARD di Milano) definisce qual è la prospettiva da cui “Luoghi per crescere” (LPC), società del consorzio cooperativo nazionale Gino Mattarelli (CGM), intende affrontare il problema: ispirandosi ad uno dei principi della sua filosofia di intervento, che vede l’intera comunità partecipe della crescita dei suoi soggetti più giovani (“Ci vuole un intero villaggio per far crescere un bambino”) e interpretando le azioni che ne seguono come costruzione di un welfare di comunità. basato su alleanze forti e stabili tra settore pubblico e settore privato per dare risposte concrete ai bisogni dei giovani e per progettare servizi di qualità ad un costo accessibile. All’interno di questo quadro si propone una chiave di lettura dell’universo (degli universi) giovanile opposta a quella depressiva-negativa che interpreta costantemente questo universo partendo dal problema del disagio e che perciò considera prioritarie le azioni di prevenzione: “Immaginando l’adozione di una visione differente di welfare, dove i giovani possono essere considerati mondi possibili da scoprire, cambierebbe anche la lettura della realtà e dei fenomeni ad essa collegati. Infatti, pur non ignorando le difficoltà sociali che oggi ci troviamo di fronte, è ben diverso educare in una società in crisi che vive nella paura piuttosto che nella fiducia rispetto al futuro (...). Per uscire da questa situazione di stallo e di crisi, occorre avere il coraggio di ricercare e valorizzare innanzitutto le risorse personali e sociali. Si tratta, in effetti, di una nuova visione: quella di non concentrare tutto l’impegno progettuale e finanziario sul versante

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emergenziale e riparativo” (pag. 13). Il testo si articola in cinque parti, “Premesse per nuove politiche giovanili”, “Un viaggio in Italia nei servizi per adolescenti”, “Dal Centro di Aggregazione Giovanile al Progetto Giovani”, “La strada come luogo di confine”, I servizi di informazione, orientamento e consulenza”, “Le metodologie partecipative”. In essse si fa una disamina attenta e meticolosa, anche dal punto di vista storico, dei singoli servizi a partire dai dati del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza (2001), passando per le esperienze realizzate dalla rete CGM nei singoli ambiti di azione; particolarmente efficace è la sezione delle “Domande aperte”, che si ripete dalla seconda alla quinta parte, nella quale vengono proposti stimoli di riflessione e di approfondimento validi, al di là di tutto, per chiunque si trovi ad operare a vario titolo nei servizi per i giovani. Marco Taddei Simona Forti e Marco Revelli, Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 308, € 14,00 Ansia, complotti, rassicuranti costruzioni di un nemico assoluto, percezione di una minaccia tanto incombente quanto pervasiva. Elementi, tutti, che alimentano una lettura della realtà come di un monolite senza scalfiture. Ma anche un monolite che viene «cementato» da interpretazioni impastate sull’immediata rispondenza tra il senso comune della gente e chi lo raccoglie con l’idea di rappresentarlo. E tuttavia, almeno per gli autori del volume curato

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da Simona Forti e Marco Revelli, questa diffusa sintomatologia della paranoia rinvia al legame che unisce le forme politiche e sociali in cui si è più drammaticamente compiuto il destino del Novecento ed il secolo appena iniziato in cui è dominante lo scenario della guerra globale. L’ipotesi di partenza da cui si dipana il volume è presto riassunta: la ferrea coerenza alla quale viene ridotta la realtà - da cui espellere tutto ciò che risulta incoerente, problematico, apertamente contraddittorio - è la coerenza tecnicamente ascrivibile al delirio paranoico. Tipico dell’atteggiamento paranoico, come ci ricorda il contributo di Massimo Recalcati, è il rispondere alle esperienze conflittuali del sé, rifugiandosi in un universo che allontana l’ambivalenza che inevitabilmente abita il soggetto per «ricentrarsi» attorno ad un’esperienza allucinatoria della realtà. Con Lacan: per il paranoico «tutto è segno». E così il delirio paranoico sopprime il «non-senso» dal registro dell’esperienza. Cancella iati, discrepanze; e la realtà restituisce identificazioni aggressive del nemico e reattive costruzioni di identità sotto minaccia, secche distinzioni senza appello tra noi e loro. La paranoia, dunque, come dazione di senso totale. Come ritrovamento di senso senza residui, senza scarti che possano introdurre il dubbio, la domanda, la presenza dell’altro. Nei saggi del volume vengono analizzate le declinazioni paranoiche del potere e della guerra, ma un cenno particolare meritano i saggi di Marco Revelli e Simona Forti che interrogano la dimensione paranoica sul versante delle vittime analizzando i processi staliniani attraverso l’opera di Koestler e il romanzo di Orwell 1984. Al termine della lettura, coinvolgente ed affascinante per un libro di questo tipo, rimane una domanda, ed è quella se sia


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possibile individuare una chiave di volta unica che permetta di leggere le tragedie del novecento. Sicuramente il tentativo è da elogiare, per l’ampiezza delle declinazioni del termine, ma la politica viene così interrogata solo sul versante del potere. Forse il tema andrebbe declinato insieme al tema della violenza e della possibilità della rinuncia al potere. Ma probabilmente diverrebbe materia per un altro testo. Ambrogio Cozzi Marco Revelli, Destra e sinistra. L’identità smarrita, Laterza, Bari 2007, pp.271, € 15,00 L’interrogativo del libro è il seguente: una volta smarrite le rispettive identità, cosa rimane, quale il disordine, e quali i compiti possibili di una Sinistra che molti suppongono stia conoscendo la scomposizione finale dei tratti che la storia le aveva in passato conferito? L’intrigo, insomma, con cui Revelli si misura è che da un lato i termini di destra e sinistra restano ben presenti nel linguaggio pubblico, ma dall’altro la loro identità è, appunto, «smarrita», mentre cresce, magmatico, il centro. La Destra e la Sinistra hanno costituito le loro tavole contrapposte - ricostruisce l’autore - secondo questi essenziali tratti identificativi. Da una parte la bandiera del progresso, il significato positivo conferito al divenire, il valore dell’eguaglianza, dell’autodirezione , della democrazia, l’approccio razionalistico e progettuale nella lotta per cambiare le cose, l’amore per il logos; dall’altra la bandiera della conservazione, l’appello ai beni della tradizione, il

valore delle diseguaglianze, dell’eterodirezione, degli ordinamenti gerarchici, l’ostilità al razionalismo accusato di antistoricità, l’amore per il mythos. Questi i modelli staticamente tratteggiati; modelli che poi nel farsi concreto della storia hanno subito contaminazioni e incroci. Sorvoliamo rapidamente sulle distinzioni storiche per cui Revelli individua due destre e tre sinistre, il problema nel novecento è quello di un linguaggio politico obsoleto, in cui la distinzione destra sinistra sembra sparire, perdere di vitalità. Sia che un Alex Langer esca a dire che il movimento ecologista non può essere né di destra né di sinistra, un Chistopher Lasch che le distinzioni tra destra e sinistra si sono ridotte a dissensi tattici, o un Anthony Giddens che troppe cruciali questioni nel mondo non portano segni leggibili con le vecchie categorie e che, defunto il socialismo come «teoria di gestione dell’economia, una delle principali linee divisorie tra destra e sinistra è scomparsa», ebbene la questione dell’identità smarrita, naturalmente anche della destra ma soprattutto della sinistra, giganteggia perché il panorama storico e sociale è qualitativamente mutato. Due elementi hanno contribuito a questo mutamento: la perdita di peso delle varie forme di lavoro dipendente e la scomparsa dello stato nazionale come spazio politico in cui il contrasto destra sinistra si collocava. Il permanere però di diseguaglianze politiche e sociali impone comunque di ritrovare i modi e le forme per cui la sinistra possa trovare delle possibili risposte alle nuove forme di povertà e di esclusione, altrimenti come scrive Revelli «il mondo che abbiamo di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle». Ambrogio Cozzi

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François Ost, Mosè, Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario giuridico, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 231, € 15,00 La consegna delle tavole della legge (Mosè), l’invenzione della giustizia (Orestea di Eschilo), la ribellione della coscienza (Antigone di Sofocle): sono le principali tappe di un percorso narrativo che si spinge alle fonti di un immaginario giuridico ancora da esplorare. In contrasto con una visione formalista o moralista della legge, questo libro si pone un obiettivo ambizioso: immergere il diritto nella finzione letteraria per permettergli di ritrovare le proprie radici. Il testo è estremamente interessante poiché sgancia l’idea di giustizia dall’idea di legge. La legge fonda la convivenza tra gli uomini, e procede da un patto che renda possibile e fondi tale convivenza. Perciò la legge precede la giustizia. In questo senso la consegna delle tavole della legge è il momento fondante che rende popolo la e comunità i protagonisti dell’Esodo. La giustizia è altro, si stacca dalla vendetta e deve rientrare nell’ambito della legge come nell’Orestea, che pone un limite all’agire individuale. Ma, come mostra l’Antigone di Sofocle, qualcosa rimane escluso, la legge e la giustizia non coincidono, la coscienza individuale si ribella, la legge del sangue si contrappone alla legge della città. Merito di Ost è quello di farci entrare in questa lacerazione quasi dal vivo, mostrando come siano temi non astrusi che ci toccano da vicino, questo anche attra-

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verso una scrittura limpida e avvincente, che non è da poco per questi argomenti. Ambrogio Cozzi Luce Irigaray, La via dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 117, € 11,90 Debbo confessare una difficoltà che ho incontrato nella recensione di questo testo. Difficoltà linguistica prima di tutto. Certo c’è da riflettere sul fatto che un testo in cui il linguaggio e la parola hanno un ruolo centrale, soprattutto nel cercarne ed evidenziarne i limiti, mi abbia fatto incontrare queste difficoltà. L’autrice da anni si interroga sul linguaggio, sulla parola. Ricordiamo di passaggio un testo di parecchi anni fa, un testo importante, Parlare non è mai neutro, in cui il tema delle strutture linguistiche legate alla differenza sessuale veniva minuziosamente indagato. Il tema del linguaggio assume in La via dell’amore un rilievo più ampio, andando ad individuare l’impossibilità del linguaggio a dire il mondo senza resti. Nel corso delle pagine c’è una presenza che le percorre: è la presenza della voce, la voce come ciò che resta escluso dal linguaggio, come ciò che, escluso, interroga il linguaggio. L’assunto è che il linguaggio come signoria sul mondo, come prospettiva di padroneggiamento, tenga solo a prezzo di gravi esclusioni, in particolare sull’esclusione della differenza. Padroneggiamento segnato da una violenza sul mondo, da un gesto di esclusione che si tratta di ripensare. E’ a partire da qui che si snoda il discorso


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della Irigaray, come tentativo non tanto di reincludere ciò che è stato escluso, ma primariamente di renderlo pensabile, rivedendo le categorie e gli spazi relazionali così come li abbiamo ereditati. Lavoro non facile, che si snoda nello stesso testo, e che per questo lo pone a cavallo tra la saggistica e la scelta di un linguaggio evocativo più vicino alla poesia. D’altra parte, forse l’escluso può essere solo evocato e non detto, se si vuole mantenere quel rapporto all’invisibilità che lo rende presente interrogandolo. Scelta di umiltà e limite rispetto ad un logos che ha cercato di esaurire il mondo senza tener conto di ciò che questo comportava. Nello spazio ristretto di una recensione (riprenderemo magari il discorso in un testo più esteso) mi sembra importante porre una sola domanda. Secondo l’autrice la sua proposta etica è praticabile e può procedere a partire da una raggiunta autonomia, cioè la creazione di uno spazio a tre - il soggetto, l’altro, il mondo - che tenga conto della differenza tra i sessi e dell’essere dei due nel mondo. La domanda allora è come questo sia possibile e non si riduca ad un invito ad essere migliori, se non si ripensa il tempo che precede l’autonomia, in particolare il tempo del rapporto con la madre, quell’area dell’impensato che tanto ha assillato un analista attento come Elvio Fachinelli nell’ultimo periodo della sua esistenza. Anche perché questo rapporto con la madre si pone come un’area per certi versi angosciante nel carico di annullamento individuale che si porta dietro, caratterizzata da una beanza che è forse più prossima all’annullamento dell’esistenza percepita come minaccia che non al piacere. La figura del padre si stagliava così come elemento separatore, che impediva l’inglobamento introducendo una separazione. Il prezzo

che si è pagato è stato quello di escludere quell’area dal pensabile; reintrodurla e renderla pensabile è sì possibile, ma come fare per far fronte alle componenti di minaccia e soprattutto senza escludere e relegare nel mero patriarcato la presenza del padre? Ci rendiamo conto di aver posto la domanda in termini forse imprecisi, dovuti allo spazio ristretto; ma il tema rimane se non vogliamo rimandare la dimensione etica ad una maturità e autonomia che stanno vicine al miracolo se non se ne infagano i contenuti attraverso la genealogia. Ambrogio Cozzi Emanuela Mancino, Autoformazione in età adulta. Fernando Pessoa e la scrittura di sé, Mimesis, Milano 2006, pp. 150, € 13,00 “Vidi che non c’è Natura / che Natura non esiste, / che ci sono monti, valli, pianure, /che ci sono alberi, fiori, erbe, / che ci sono fiumi e pietre, / ma che non c’è un tutto a cui questo appartenga, / che un insieme reale e vero è una malattia delle nostre idee.” Vedere e nominare, dare un nome alle cose di momento in momento, in una sorta di presente continuo, affermare che “il ricordo è un tradimento nei confronti della natura... e ricordare è non vedere” è l’atteggiamento di Alberto Caeiro, poeta della Natura, che rifugge da ogni astratto “pensare”, da ogni soggettivo sentire che vada oltre la semplice constatazione dei “fenomena”. Strana e breve, ancorchè intensa, la vita letteraria di A. Caeiro: appena 5 anni sui 26 che intercorsero tra la data della sua

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nascita e quella della morte. Vedere fu tutto per lui, fu come, e forse di più, poetare, testimoniare con la propria poesia una completa ricerca di assenza di soggettività e memoria, anche se il compito che la sorte gli assegnò lo vide, in realtà, interprete e testimone di un’altra vita, non sua, a cui fu accomunato da un imperioso atto creativo e soggettivo. Quello di essere una delle identità “altre”, attraverso le quali si espresse Fernando Pessoa in una sorta di scissione e frammentazione euristica della propria ricerca artistica. Diversamente da altri artisti la cui opera può essere descritta e commentata con sensati approcci cronologici, Pessoa attuò una sorta di divisione simultanea del proprio pensiero e della propria poesia, creando, per ogni stile, un soggetto, un personaggio, un autore con un’identità specifica, dei tratti somatici, degli elementi biografici e, come nel caso di Caeiro, le date limite della sua vita. Eppure, in questa divisione che vide coesistere più autori ci fu, continuamente, una ricerca di sé, una ricerca unitaria. Lui stesso, nelle sue Pagine intime ebbe a sostenere di aver sempre avuto, fin da bambino, la necessità di arricchire il mondo, di aumentarlo attraverso diverse personalità, tanto che, alla fine, riteneva di essere, di essere diventato niente altro che il punto di riunione di una piccola umanità solo sua. Percorso, quindi, di autoricerca e di autoformazione, sia pure collettanea, collettiva, assembleare, in qualche modo. L’idea di fondo di tale ricerca viene esplorata, anatomizzata dal lavoro di Emanuela Mancino che ci guida, attraverso gli itinerari dello sdoppiamento, attraverso le ragioni di Pessoa nel perseguire la moltiplicazione dei sé, delle strutture identitarie; che ci fa capire come il percorso della deuteronimia, dell’eteronimia, sia ben

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diverso che il semplice nascondimento sotto uno o più pseudonimi. In Autoformazione in età adulta viene anche indagato il misterioso ed affascinante, stregato, “topos” del Doppio, una fenomenologia ed un mondo concettuale esplorato a livello letterario e psicanalitico. Vengono analizzate ambiguità ed attribuzioni simboliche con riferimenti a Omero, Platone, Sofocle e poi a Freud, Rank, Jung, Buzzati, Conrad, Maupassant. Interessante, anche in connessione con l’ambito della scrittura di sé, territorio di ricerca esplorato ormai da anni dalla Mancino, è la parte dell’opera in cui viene analizzato il ruolo di regia, di sentimento organizzatore e ricostruttore proprio della scrittura. “La scrittura non è mai un percorso già incontrato. Il linguaggio, accompagnando chi lo utilizza, non rappresenta una struttura psichica già avvenuta, ma coopera al suo stesso formarsi”. E se conveniamo con l’Autrice che, citando Marguerite Duras, sostiene che “scrivere è tentare di sapere cosa si scriverebbe, se si scrivesse”, noi sosteniamo che condividere, leggendo, questo viaggio nell’animo polimorfo dell’artista lusitano, ci può aiutare a tentare di capire di più la natura umana e a fare i conti, un po’ più serenamente, con lo smarrimento che ci prende quando ci chiediamo “se io sono io o sono altro e se io e altro siamo ii”. Salvatore Guida Juan Carlos González Faraco, Il cavaliere errante. La poetica educativa di Don Chisciotte, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 121, 13 € L’attualità di un clas-


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sico si rivela nella sua capacità di farsi attraversare dal tempo e dalle letture, fornendo sempre nuove motivazioni per avvicinarlo, e nuovi possibili sviluppi ermeneutici per interrogarlo. Dunque la sua lettura non può mai dirsi esaurita, poiché essa si configura non solo come stimolo permanente a inedite sollecitazioni date da nuovi interlocutori, ma anche poiché esso accoglie e tramanda il valore di una processualità storica, suscettibile di incarnare contemporaneamente una testimonianza del passato e un modello futuro aperto alla problematizzazione. In quest’ottica, il saggio di Juan Carlos González Faraco introduce alla rivisitazione di un classico della letteratura, come il Don Chisciotte, per indagarne le modalità didattiche di lettura che fino ad ora ne hanno pesantemente suggestionato e limitato l’interiorizzazione come narrazione per potere proporre un dialogo diretto. La sua ricerca si divide tra l’intento di attualizzare un universo di simboli, di seduzioni liriche, in un richiamo alla sfida pedagogica tra le logiche della tradizione e quelle della innovazione, attraverso la storia di un antieroe per eccellenza; e quello di mostrare al lettore un percorso alternativo alle tassonomie interpretative, guidandolo nella formazione di un autonomo punto di vista. González Faraco avverte e discute di una distanza fra testo, autore e lettore generata dalle innumerevoli interpretazioni che, nel tentativo di restituire l’opera in maniera semplificata e di piegarla alla funzionalità didattica, spesso ne hanno offuscato la magia narrativa. Si tratta di leggere il testo attraverso una modalità che non sia esercizio

retorico, che non sia mera ripetizione, ma che si apra alla autenticità del racconto e ne sappia cogliere il valore narrativo, non soltanto come esercizio stilistico dell’immaginazione ma come traccia significante di un percorso reale, singolare e irripetibile, realizzato dalla sensibilità di un individuo. L’idea proposta in questo saggio si situa sicuramente controcorrente rispetto ai dettami di una teoria pedagogica, a volte troppo concentrata sulla meccanica propedeuticità degli apprendimenti, poiché intende concretizzarsi proprio in una lettura antipedagogica, scevra dall’azione filtrante di interpretazioni definitive, ma che lasci il soggetto di fronte all’opera d’arte, nella emozione di un dialogo palpitante tra sé e il racconto. È possibile dunque intravedere nella critica e nella proposta di González Faraco un’intenzione precisa, volta ad opporre ad una pedagogia della prescrizione una pedagogia dell’errore, intesa come orientamento diretto ad affermare il valore positivo del disordine, della singolarità, dell’originalità per leggere e leggersi entro una realtà diversa, che si fondi sulla possibilità, come orizzonte significante, in grado di scorgere spazi di senso entro il dipanarsi di inedite trame. Merito dell’autore, rispetto ad una riflessione rigorosa e insieme suggestiva, è sicuramente quello di delineare una traccia critica percorribile al di fuori di sentieri pedagogici omologanti che uniformano le dissonanze per spiegarle entro quadri logici semplificati e forzosamente lineari, per celebrare, nell’atto poetico della libertà ermeneutica individuale, una sensibilità autoformativa, nella coraggiosa consapevolezza che educare significa prima di tutto educarsi. Sara Cillani

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ARRIVATI_IN_REDAZIONE R. Rizzi (a cura di), Itinerari del rancore. Dal ri-sentimento alla malattia Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 272, € 14,00 Il rancore è un sentimento (o un’emozione?) oggi più che mai diffuso, un sentimento che permea e ammorba la società e i singoli. Gli autori si propongono (tralasciando volutamente l’aspetto religioso) di esplorare i possibili itinerari attraverso i quali il rancore si esprime... Elvira Reale (a cura di), Prima della depressione. Manuale di prevenzione dedicato alle donne Franco Angeli, Milano 2008, pp. 256, € 20,00 La depressione è oggi in aumento, e specie tra le donne. Perché? Come è possibile prevenirla? Per intervenire efficacemente è necessario guardare, innanzitutto, a quei fattori di rischio nella vita quotidiana... Jervolino D., Martini G. (a cura di) Paul Ricoeur e la psicoanalisi. Testi scelti Franco Angeli, Milano 2008, pp. 176, € 19,50 Unanimemente considerato tra i maggiori filosofi della contemporaneità, Paul Ricoeur ha specificamente dedicato alla psicoanalisi brevi saggi e interviste, oggi difficilmente reperibili, ma ricchi di acutissime notazioni. Il presente volume li raccoglie... Attali Jacques, Breve storia del futuro Fazi Editore, Roma 2007, pp. 256, € 16,00 Come sarà il mondo nel 2060? E cosa accadrà nei prossimi cinquant’anni? Nell’immediato futuro dovremo affrontare il terrorismo e il fondamentalismo religioso, il surriscaldamento del pianeta e l’esaurimento delle risorse, l’ascesa di nuove potenze e il declino dello stile di vita occidentale. Ma questo è niente, paragonato a ciò che ci aspetta più avanti...

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Barbara Minelli, Raffaella Cosco Senza nome Zephyro Edizioni, Milano 2004, pp. 32, € 12,00 Una storia ispirata alla realtà dei ragazzi abbandonati di Bucarest, che non hanno trovato altra casa se non il sottosuolo della città. Nello sguardo e nelle parole di uno di loro, il racconto per ragazzi e adulti di un modo altro di essere adolescenti, oggi...

Antonio Cassese I diritti umani oggi Laterza, Bari 2005, pp. pp. 259 € 14,00 Cosa sono i diritti umani? A che punto siamo con la loro tutela? Cosa possiamo fare noi, semplici cittadini, se non vogliamo restare sordi alle istanze di chi ne è privato?

Höffe Otfried La democrazia nell’era della globalizzazione Il Mulino, Bologna 2007, pp. 364, € 32,00 Lungi dal riguardare la sola sfera economica, la sfida decisiva del nostro tempo - la globalizzazione - investe con forza la politica, le scienze, l’istruzione, la cultura, l’ambiente. E in ciascuno di questi ambiti suscita domande che trascendono i confini nazionali... Gungui Francesco, Nel catalogo c’è tutto. Per chi va o torna a vivere da solo Feltrinelli, Milano 2008, pp. 250, € 10,00 Non è un romanzo. Non è un manuale di istruzioni. Non è una storia generazionale. Si prendono le mosse da un ventenne che lascia la tana familiare per costruirne un’altra. Una tana che ormai assimila lo studente squattrinato, il single impenitente, il cinquantenne separato, la ragazza in attesa del primo del secondo del terzo principe azzurro...

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Bertacchini Carla, Caon Jolanda Entriamo in classe. Giornale di glottodidattica dalla documentazione alla formazione Carocci, Roma 2007, pp. 311, € 26,40 Questo manuale rappresenta un primo esempio concreto di documentazione glottodidattica, con forti finalità educative e formative, in quanto rivolto agli studenti di Scienze della formazione, ai docenti già in servizio, agli esperti nel campo della ricerca-azione e dell’autovalutazione professionale... a cura della rivista Una città Lo chopin partivastorie di donne Edizioni una città. pp. 254, € 15,00 Il fascino dei racconti di vita, quando conservano le movenze della parola, gli scatti della voce, le emozioni del narratore o della narratrice, è che non si vorrebbe mai che finissero. Come capita da bambini, viene da dire “ancora!”. Sono quasi sempre madri, figlie, sorelle, mogli, interni di famiglia, relazioni parentali, appartenenze intime, su cui eventi traumatici hanno aperto uno squarcio doloroso ...

Umberto Pasti L’Accademia del dottor Pastiche Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 190, € 22,00 Tra un fiume di mercurio e un oceano d’oro fuso, si stende Dunia, un paradiso terrestre popolato da caproni, draghi, delfini e liocorni, dove ogni psicologia è bandita... Taufer Loris Adolescenti e filosofi. Le risposte della filosofia alle domande dei ragazzi, Centro Studi Erickson, Arco di Trento (TN) 2008, pp. 271, € 20,00 Che cosa possono realmente fare la scuola e la filosofia per le generazioni del futuro. Secondo l’autore si può fare molto, a partire dall’abbandono di una modalità di insegnamento nozionistica e astratta e da un cambio radicale di prospettiva, ponendosi dal punto di vista delle esigenze concrete degli alunni, partendo cioè dalla loro soggettività...

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SOCIETÀ DI PEDAGOGIA E DIDATTICA DELLA SCRITTURA III SIMPOSIO SCIENTIFICO PEDAGOGIA E DIDATTICA DELLA SCRITTURA È possibile amare la scrittura a scuola? Anghiari, 16–17 maggio 2008 La scrittura è imprescindibile veicolo di ogni sapere; pochissime sono, infatti, le cose di cui non si possa scrivere e che la scrittura non arricchisca. In essa, storicamente, la libertà di pensiero ed il diritto di espressione hanno potuto trovare la loro legittimazione. Ogni gesto pubblico e privato è preceduto e siglato da atti di scrittura; essa ne garantisce la riproduzione e la documentazione, sfidando l’oblio, ed al contempo si rivela, nelle arti, nella esplorazione della psiche e dei sentimenti, autentica generatrice di temi, problemi, riflessioni. Programma 16 maggio 2008 Castello di Sorci Ore 15,00 Apertura del Simposio e saluti delle autorità Presentazione di Franco Frabboni, Duccio Demetrio Relazioni di Anna Rezzara, Come si scrive a scuola? Fabrizio Frasnedi, Dar voce alla scrittura Graziella Favaro, Scrivere in un’altra lingua Dario Corno, Scrivere, ma di che cosa? Maura Striano, Scrivere per riflettere Ore 18,00

Presentazione dei Gruppi di lavoro: 1° gruppo: Cosimo Laneve, Scrivere per diletto e vocazione 2° gruppo: Elisabetta Nigris, Scrivere l’esperienza 3° gruppo: Anna Maria Piussi, Scrivere a partire da sé 4° gruppo: Laura Formenti, Scrivere per pensare

Ore 20,00 Penna, blog e calamaio: Alchimie di parole fra tradizione e innovazione Intervengono: Silvia Facchini, Assessore all’Istruzione della Provincia di Modena Mario Agati, Redazione Progetto TED Linda Petracca, Redazione SMOOL (Scuole di Modena On Line) Ore 20,30 Cena al Castello di Sorci Programma 17 maggio 2008 Teatro Comunale, piazza VI novembre Ore 9,00 –12,00 Gruppi di lavoro Ore 12,00 Relazione di: Mariagrazia Contini, Le emozioni dello scrivere Ore 13,00 Conferimento del Premio Graphein a Raffaele Nigro Presentato da: Cosimo Laneve Ore 13,30 Chiusura dei lavori Per informazioni: www.graphein.it - info.graphein@yahoo.it Cultura

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