Capitolo 3.2 William James, psicologo della libertà Un’intelligenza che, in un istante dato, conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata, e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, e che fosse tanto vasta da sottoporre tali dati all’analisi, abbraccerebbe in una sola formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli del minimo atomo: nulla può essere incerto e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente al suo sguardo. (P. S. Laplace) La sperienza non falla mai, ma sol fallano i vostri giudizi, promettendosi di quella effetto tale, che ne’ nostri esperimenti causati non sono. Perché, dato un principio, è necessario che ciò che seguita di quello, è vera conseguenza di tal principio, se già non fussi impedito; e se pur séguita alcuno impedimento, l’effetto, che doveva seguire dal predetto principio, partecipa tantopiù o meno del detto impedimento, quanto esso impedimento è più o meno potente del già detto principio. (L. da Vinci)
3.2.1 Il feeling of effort — cifra di una volontà autonoma? Ma basta questo [la teoria ideo-motoria] a descrivere gli atti volontari? Certamente no e James è consapevole del lavoro che ancora deve essere fatto. Non abbiamo ancora infatti spiegato gli atti di “deliberata volizione” — gli atti cui appartengono la scelta, la decisione e la libertà. Né questo spiega la nostra sensazione di sforzo che accompagna i nostri atti volontari1. Per un’esauriente descrizione della posizione jamesiana riguardo alle azioni che più ci interessano per lo svolgimento della nostra tesi faremo ora riferimento soprattutto all’articolo The Feeling of Effort, pubblicato nell’Anniversary Memoirs of the Boston Society of Natural History nel 1880, al capitolo XXVI sulla volontà dei Principles (una sorta di elaborazione dell’articolo citato), al più volte menzionato What the Will Effects e al capitolo sulla volontà dei Talks to Teachers.
James, abbiamo visto, distingue gli atti volontari in due tipi: quelli che appartengono alla volition of consent e quelli che appartengono alla volition of effort. Mentre nel primo tipo, che definisce la maggio ________________ 1 D. S. Browning, op. cit. p. 138.
parte delle azioni che compiamo in una giornata, sembra quasi che le idee prevalgano le une sulle altre autonomamente e quasi spontaneamente, nel secondo tipo ci troviamo di fronte a una coscienza che deve decidere, fra tante idee da scegliere, e tante rispettive azioni cui dare vita, quale sia quella giusta: ci troviamo di fronte, in sostanza, alla coscienza morale. In questo caso sembra che sia necessario un qualche sforzo perché l’idea conduca ai suoi effetti: L’idea che serve come motivo o ragione di azione per l’azione sembra non essere sufficiente a produrre l’azione a meno che non sia aiutata da qualche forza2.
Ma in che cosa consiste questa “forza”? Che cosa causa in noi quel feeling of effort che sentiamo ogni volta che dobbiamo compiere un’azione che non nasce spontaneamente dal flusso dei nostri pensieri3?
L’esistenza nella nostra coscienza dello sforzo, come fatto oggettivo, non può essere negata. La sua significazione, invece, è argomento intorno al quale regna la massima discrepanza di opinioni. Questioni gravi, come quella dell’esistenza della causalità spirituale, o vaste come quelle della predestinazione individuale o del libero arbitrio, dipendono dall’interpretazione di questo fatto. È quindi necessario che noi indaghiamo con qualche cura le condizioni in cui s’incontra il senso dello sforzo volitivo4. James non vuole certo negare la realtà del feeling of effort5, ciò che vuole combattere è sia la concezione per cui questo sentimento è semplicemente un epifenomeno ch’è cifra di un atto mentale
2
W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 225.
3 In conformità con quanto detto in precedenza a proposito delle associazioni per contiguità, possiamo qui affermare che il feeling of effort caratterizza quel flusso di pensiero che non segue le direttrici naturali ‘scavate’ dall’abitudine e dalla ripetizione. La nozione popolare che la semplice coscienza come tale non è essenzialmente il predecessore, il primo termine dell’attività, che quest’ultima deve risultare da qualche “forza di volontà” che vi si aggiunge, è un’inferenza naturalissima tratta da quei casi speciali in cui noi pensiamo per un tempo indefinito ad un atto da compiere, senza mandarlo minimamente ad effetto. Questi casi però, non costituiscono la norma; e sono casi di inibizione determinata da pensieri antagonistici. Quando il “blocco” vien tolto, sentiamo come se si sprigionasse una forza interiore, ed è questo l’impulso addizionale, o il FIAT a cui effettivamente segue l’atto. PP, pp. 1134-35. 4 Ivi, p. 1142. dunque, sebbene James abbia più volte sottolineato — come ampiamente mostrato in precedenza — che i Principles sono un libro di psicologia e di psicofisiologia e non di filosofia, in questo brano egli mostra sia la consapevolezza dello stretto legame fra due scienze solo apparentemente divise, sia il suo spiccato interesse per quelle “questioni gravi” (momentous questions) che potrebbero pacificamente essere escluse da un “semplice” manuale di psicologia. 5 La psicologia jamesiana della volontà è la combinazione di due fattori: una dottrina concernente “the feeling of effort” e una dottrina della “azione ideo-motoria”. TCWJ II, p. 87. Per quanto riguarda gli antecedenti (anche non schiettamente psicologici) della teoria jamesiana del feeling of effort c’è da dire che mentre Viney afferma che Lequier rileva l’esistenza di un “effort of attention” — senza però darne particolarmente risalto — Del Noce, che comunque non è molto interessato a rimarcare le differenze fra Lequier e Renouvier, ricorda che per Lequier non c’era nessun feeling of effort e che l’unica prova (anche sensibile e non solo sperimentale) che si sarebbe potuta avere per l’esistenza di un atto libero sarebbe stata la — impossibile — ripetizione di un medesimo atto; cosa che da James verrà posta solo come ostacolo alla dimostrazione scientifica dell’esistenza di un atto libero; in interiore homine infatti, è proprio il feeling of effort a garantire la libertà di un atto che richiede lo sforzo della nostra volontà: l’esperienza mi testimonia che l’atto che compio è accompagnato dall’impressione che potrei fare il contrario di quel che faccio, non mi dice però se si tratta di una possibilità reale, o di una possibilità fittizia, sfondo dell’unica possibilità reale, quella che passa all’atto. Potrei deciderlo sulla base dell’esperienza se mi fosse dato di trovarmi due volte in condizioni assolutamente identiche; poiché questa esperienza e’ impossibile, devo dire che l’affermazione del libero arbitrio è una credenza e non un’evidenza. G. Lequier, op. cit., Introduzione, p. 66.
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predeterminato6 sia quella che lo ritiene la manifestazione di una force oscura che sia in grado di rendere l’idea da passiva ad attiva, facendo da ponte tra il mondo mentale e quello fisico. la volizione è primariamente una relazione, non fra il nostro Io e una materia extramentale (come ritengono ancora oggi molti filosofi), ma fra il nostro io e i nostri stati mentali7. Secondo James il feeling of effort non detiene questa posizione eccezionale di collegamento fra il mondo interno e quello esterno (between the inner and the outer worlds) e il sentimento di sforzo che tutti ben conoscono quando si tratta di compiere un’azione che appare contrastare le nostre disposizioni emotive e passionali non è causato dalla difficoltà di far passare l’idea dallo stato ideale a quello reale ma dalla difficoltà di far prevalere un’idea, o un gruppo di idee, su altre idee dagli effetti opposti o differenti: Ciò che lo sforzo fa quando viene in aiuto delle idee non è di supportarle, facendo sì che la macchina corporea obbedisca, ma di tenere ferme le idee, cosicché esse possano acquisire forza e stabilità sufficienti a far obbedire la macchina. Né tantomeno la sensazione di sforzo che proviamo nel condurre determinati ragionamenti (dai più semplici ai più complessi) è il sintomo della difficoltà che incontriamo nel crearci delle idee. Per James il potere dell’uomo (che ancora non abbiamo visto se libero o determinato) sta nello scegliere, nel selezionare le idee che spontaneamente sorgono alla coscienza, e non nel creare le idee stesse; si tratta di una differenza importante e vale la pena di sottolinearla: Tutte queste associazioni che si addizionano sorgono indipendentemente dalla volontà, per un processo spontaneo[quello dell’associazione appunto] che conosciamo bene. La volontà si limita, quindi, a dare rilievo e a fermarsi sopra quei punti che sembrano essere convenienti, e ad ignorare il resto8. In sostanza la differenza9 che passa tra la volition of effort e la volition of consent non sta nel passaggio dalle idee all’azione, ma nella fissazione dell’idea che superi l’inibizione delle idee opposte: nel primo caso il
6 James, abbiamo detto, riconosce che il feeling of effort pone dei problemi di interpretazione piuttosto che di riconoscimento; a questo proposito è interessante notare come l’amico Wright, da buon determinista e ‘positivista’, fosse tutt’altro che d’accordo con l’interpretazione data da James: Per Wright, supporre che il feeling of effort rappresenti la testimonianza introspettiva della creatività della volontà e della realtà della libertà è imprudente come affermare l’immobilità della terra dato che non ne abbiamo alcuna sensazione. Cfr. C. Wright, Limits of Natural Selection, in id., op. cit., p. 124. 7
PP, p. 1173.
8
Ivi, p. 551.
9 Ovviamente non dobbiamo dimenticare le somiglianze che legano i due tipi di volizioni, soprattutto dal punto di vista genetico: entrambe le volition rappresentano infatti la reazione della coscienza dell’uomo a uno stato di indecisione che non è a lungo sopportabile (abbiamo in precedenza sottolineato come lo stato di indecisione sia per James contrario — anche da un punto di vista fisiologico — al raggiungimento dell’equilibrio): A prescindere dalla natura del conflitto mentale, gli esseri umani, sostiene James, hanno un’innata esigenza psicologica di trovare una soluzione. Non possiamo vivere con un senso di lacerazione interna per troppo tempo. Ma la soluzione può avvenire in molti modi. Il fattore dell’attenzione sembra essere la variabile cruciale che porta alla risoluzione attraverso una decisione. Ma a volte la nostra attenzione è più o meno passiva [volition of consent], altre volte è invece molto attiva [volition of effort]. D. S. Browning, op. cit., p. 139.
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prevalere di un’idea sulle altre (inibitrici) avviene “naturalmente”, cioè senza alcuno sforzo, mentre nel secondo caso la coscienza deve concentrare la propria attenzione sull’idea che si desidera prevalga affinché essa non “sfugga” e non venga sopraffatta da idee antagonistiche. James interpreta la nostra attenzione passivamente in molti tipi di decisione [quando la situazione ‘ci porta’ a fermare l’attenzione su un determinato particolare etc.]. Richard Stevens è probabilmente nel giusto quando rimprovera James di non essere riuscito a dare una spiegazione piena del modo in cui noi “permettiamo alla nostra attenzione” di essere mossa verso questi tipi di decisione10. Ma James ha certamente ragione nel ritenere che uno sforzo d’attenzione è assente nella maggior parte delle decisioni. Non è comunque il caso di quelle classi di decisioni che James avrebbe chiamato “decisioni deliberate”. Ma che cos’è questo senso di sforzo? È il nostro cervello che manda un messaggio per cui noi dobbiamo agire? James impiega molte pagine per dimostrare che non si ha nessuna evidenza né sperimentale né introspettiva di un’esperienza tale. Ma allora in che cosa consiste l’esperienza dello sforzo? L’esperienza dello sforzo consiste nel sostenere la nostra attenzione su una particolare idea piuttosto che lasciarla trascinare in altre direzioni. Nelle decisioni deliberate, la coscienza è dominata da almeno due idee, entrambe le quali debbo essere ragionevoli [...]. Per compiere una decisione dobbiamo ‘uccidere’ un’alternativa e lasciare viva l’altra11. È evidente che le idee che richiedono uno sforzo (dell’attenzione) perché siano fissate nella nostra coscienza sono immediatamente contrarie alle idee cui noi daremmo libero corso seguendo le nostre passioni e che lo sforzo sia sempre mentale è dimostrato da James con vari esempi12:
Al contrario, un “rimprovero” del genere ci appare del tutto ingiustificato ed è incomprensibile per chi abbia veramente compreso la differenza fra volition of consent e volition of effort: nel primo caso non c’è infatti nessuna volontà attiva affinché “si permetta” a un’idea di prevalere; è proprio l’assenza di questa deliberazione a distinguere queste azioni da quelle che potremmo chiamare “positive” (dove l’azione segue una qualche, per quanto breve, deliberazione). Cfr. PP, p. 1164, dove la common ideomotor action viene equiparata, proprio per la sua “passività”, all’istinto, all’emozione, alla suggestione ipnotica e alla voluntas invita! 10
11 D. S. Browning, op. cit., pp. 139-40. Il linguaggio di Browing non può non richiamare alla mente l’immagine di una vera e propria ‘struggle for life’ che le idee devono combattere per prevalere nella coscienza dell’uomo. Il nostro tentativo di mostrare l’universalità del meccanismo selettivo nella vita mentale dell’uomo descritta da James, trova conferma nella sua applicazione anche al ‘cuore’ dell’attività cosciente dell’uomo; giova comunque sottolineare il fatto che lo stesso James riteneva la selettività dell’attenzione il vero cuore della sua dottrina psicologica: È stupefacente vedere come nessuno psicologo della scuola degli empiristi inglesi abbia fatto menzione di un fatto così evidente quale è quello della continua presenza dell’attenzione selettiva. Gli psicologi tedeschi ne hanno parlato, trattandola, sia come facoltà, sia come un effetto; mentre invece, nei libri di Locke, di Hume, di Hartley, dei due Mill, di Spencer, se se ne parla ciò avviene quasi per inavvertenza. PP, p. 380. 12 Prendete Regolo che torna a Cartagine, il sacerdote che decide di rompere con la propria chiesa, [...] Il malversatore che fissa il giorno in cui fare pubblica confessione, il suicida, il miserabile che, dopo una lunga esitazione, decidere di avvelenare la moglie. W. James, The Feeling of Effort, in CER, p. 196. Naturalmente, se procediamo a priori e definiamo la linea di minor resistenza come la linea che viene seguita, la legge fisica regge anche se applicata alla sfera mentale. In tutti i casi di volontà tenace, però, noi sentiamo come se la linea che viene seguita quando prevalgono i motivi più rari, più ideali, fosse la linea di maggior resistenza, e come se la linea della motivazione più rozza fosse la più pervia e la più facile, anche in quell’istante in cui ci rifiutiamo di seguirla.. PP, p. 1154. Una pagina appresso, James è ancora più chiaro e conciso: E se ci chiedesse una breve definizione dell’azione morale o ideale, non ne potremmo consigliare una all’apparenza migliore di questa : È l’azione che si trova sulla linea di maggior resistenza. Ivi, p. 1155.
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Chi è dunque l’uomo dalla forte volontà? Quando un uomo può dirsi moralmente forte? Quando la sua volontà riesce a concentrare la propria attenzione su un’idea che naturalmente dileguerebbe, lasciando il posto a idee i cui effetti sono immediatamente piacevoli, positivamente o negativamente. Vale la pena di riportare le parole di William James in proposito:
L’uomo dalla volontà forte (the strong-willed mani) è colui che ascolta la piccola voce [della ragione] senza indietreggiare e che, quando si trova di fronte a considerazioni spiacevoli non distoglie lo sguardo, le afferra e le tiene saldamente, nonostante la quantità di immagini attraenti che nascono in opposizione a queste e che sarebbero capaci di scacciarle dalla sua mente. Sostenuto in questa maniera da un risoluto sforzo di attenzione, l’idea morale quanto prima riesce a richiamare tutte quelle a lei affini e finisce col cambiare la coscienza dell’uomo. E con la sua coscienza cambia anche l’azione. Le nuove idee, appena divengono stabilmente in possesso del campo mentale, immediatamente producono i loro effetti. La battaglia, la difficoltà sta tutta nel prendere il possesso del campo [i. e. di fissarsi come idee dominanti nella coscienza]. La lotta della volontà sta nel tenere ferma l’attenzione su di esse, senza lasciare che l’impulso naturale delle idee predomini. Questo è ciò che richiede il nostro sforzo morale13. Come mostrano chiaramente le parole di questo brano, per James, lo sforzo di volontà è uno sforzo di attenzione e l’attenzione è la capacità di concentrarsi, di soffermarsi su qualcosa (una sensazione, una percezione, un concetto)14. L’uomo che sa quel ch’è giusto — quel ch’è giusto secondo i suoi stessi criteri di cui James non si occupa affatto nei Principles — ma che non riesce a farlo non manca di una speciale force che permetta alle idee di trasformarsi in azioni: è un uomo che non riesce a fissare con la propria attenzione le idee morali nella propria coscienza e che si fa trasportare dalle idee che portano a effetti immediatamente piacevoli o e che sono le più abitudinarie o che sono quelle che richiedono una minore elaborazione intellettuale. In sostanza, nell’interpretazione jamesiana dell’azione volontaria abbiamo un altro esempio della selettività della coscienza. Dal momento che le idee produrranno delle conseguenze motorie se non saranno inibite da idee a esse contrarie, la volontà non consiste nel dare vita a una speciale corrente di energia, ma nel selezionare le idee per il tramite dell’attenzione15. Il fatto che James abbia “eliminato” il problema della collocazione e delle caratteristiche di questa misteriosa “corrente di energia”, di questa force che permetterebbe il passaggio da uno stadio di 13
W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 227, corsivi nostri.
Che cos’è l’attenzione? James dice che egli può descriverla solo come la focalizzazione o la concentrazione della nostra coscienza. P. K. Dooley, op. cit., p. 43. 14
15
Ivi, p. 58.
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possibilità a uno di realtà non comporta però ch’egli abbia risolto ogni “mistero”; il problema del passaggio dal mentale al fisico (e viceversa) rimane nel James psicologo insoluto e il fatto che la volontà non agisca direttamente sul corpo, ma che lo faccia per il tramite dell’attenzione16 evidentemente non fa che mostrare ancora di più la difficoltà di venire a capo del rapporto mente-corpo. I Principles, in maniera analoga ai libri di Darwin, rivelano spesso l’attuale ignoranza — che, in taluni casi, pare non essere superabile nemmeno in un lontano futuro — di fondamentali leggi psico-fisiologiche: Questo sforzo dell’attenzione è l’atto fondamentale del volere. E l’azione della volontà è nel maggior numero dei casi praticamente finita, quando è assicurata la semplice presenza davanti al nostro pensiero dell’oggetto naturalmente non gradito. Perché allora entra in gioco il legame misterioso che passa fra il pensiero e i centri motori e, in un modo che non possiamo neppure indovinare, ne consegue naturalmente l’obbedienza degli organi fisici17. Il “mistero” che James ammette di non potere spiegare è proprio quello del “funzionamento” dell’ideo-motricità. Spesso James si trincera dietro questa attuale ignoranza psicofisiologica, e dietro lo scudo del senso comune per annullare ogni problematicità della propria teoria — vedremo fra breve come questa ignoranza sembri essere strumentale proprio alla conclusione scientificamente scettica con cui si concludono i Principles18 —; dopo avere ricordato che il senso comune “suggerisce” l’efficacia causale della coscienza — senza ovviamente spiegarla scientificamente, James continua: Se i sentimenti e le idee sono cause, evidentemente agiranno favorendo o impedendo dei movimenti cerebrali interni, di cui non abbiamo affatto alcuna conoscenza diretta19.
16
La volontà non può agire direttamente sul corpo, ma si applica, sotto forma dell’attenzione, alle idee. TCWJ I, p. 657.
PP, p. 1167. L’attenzione, la capacità della coscienza di isolare degli elementi dal flusso delle sensazioni, porta un oggetto difficile nella parte centrale della coscienza di un uomo e lo tiene fermo. Una volta ottenuto questo, ci sono “immediate conseguenze”. G. Cotkin, op. cit., p. 67 Che James considerasse il rapporto fra mente e cervello misterioso, anzi misteriosissimo, è cosa che abbiamo già potuto rilevare in precedenza Certo, ora che ci troviamo di fronte al cuore stesso della teoria jamesiana della volontà, questa ignoranza ci risulta essere difficilmente sopportabile. 17
18 Si intenda qui il riconoscimento da parte di James — che già abbiamo ricordato all’inizio di questa terza parte — dell’impossibilità di risolvere la questione della libertà della volontà in una prospettiva schiettamente scientifica. 19
PP, p. 114.
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3.2.2 Abitudine e istinto — al di là del principio di piacere Abbiamo già accennato al fatto che James non può essere affatto considerato un utilitarista né tanto meno un edonista; e questo non solo perché l’uomo ha la possibilità di superare, con la volition of effort la volition of consent che consisterebbe nello scegliere le azioni più piacevoli: lo sforzo di volontà può essere infatti diretto al sostegno di idee che si oppongono non a idee più piacevoli, ma semplicemente a idee più abituali; l’alzarsi dal letto, che viene considerato da James un esempio di volition of consent non è certamente un’azione più piacevole di quella di rimanere fra le tiepide coltri del letto e, anche qualora si dimostrasse che la maggior parte delle azioni che facciamo durante la giornata senza alcuno sforzo siano azioni piacevoli si sarebbe ben lungi dall’aver dimostrato ch’esse sono state eseguite in vista del raggiungimento del piacere. Un atto piacevole e un atto che mira al piacere sono, però, due concezioni perfettamente distinte, sebbene possano fondersi in un solo fenomeno concreto, ogniqualvolta un piacere è deliberatamente ricercato20. Il più grande errore dei sostenitori di una teoria edonistica non sta per James nel non aver compreso la natura intrinsecamente morale dell’uomo, ma nell’avere esteso arbitrariamente un principio — quello del raggiungimento del massimo piacere — a tutto il comportamento umano; a questo proposito è ancora molto illuminante una similitudine di cui William James si serve per chiarire il proprio pensiero: in molte azioni il piacere è soltanto incidentale o “concomitante”, come il consumo di carbone in un vaporetto; la maggior parte delle volte proviamo piacere nel portare a termine un’azione, ma questo non vuole affatto dire che l’azione è stata eseguita al fine di provare il piacere del completamento della stessa21: abitualmente non andiamo a una conferenza per il piacere di vederla finire [anche se in effetti quando
20
Ivi, p. 1162.
21 La ragione per cui la gente accetta la teoria utilitaristica non sta nel fatto che essi la ritrovino confermata nell’esperienza, ma nel fatto che essi sono ingannati dall’argomento che se un’azione è volontaria il pensiero di essa debba essere piacevole per chi agisce, altrimenti non ci sarebbe motivo di agire. [...] Come altri filosofi insieme con James hanno rilevato, dal fatto che l’anticipazione, o l’inizio, o l’esecuzione di un’azione sia piacevole non segue automaticamente che il fine dell’azione stessa consista nell’ottenere piacere. J. Ayer, op. cit., p. 204. Uno di questi filosofi fu senza dubbio Charles Sanders Peirce, con cui James ebbe sicuramente occasione di discutere più volte del valore del valore delle filosofie utilitaristiche: Considerate per esempio la dottrina che l’uomo agisce soltanto egoisticamente — cioè in base alla considerazione che agire in una certa maniera gli procurerà maggior piacere che agire in un’altra maniera. Questa dottrina non poggia su nessun fatto, ma è largamente accettata come la sola teoria ragionevole. C. S. Peirce, The Fixation of Belief, in P. Wiener (a cura di), Charles S. Peirce: Selected Writnigs; Values in a Universe of Chance, Dover Pubblications, New York 1958, p. 106. In una nota al capitolo sulla volontà James fa esplicitamente riferimento a Hume per sostenere la propria concezione antiutilitaristica, rammaricandosi di quanto inferiori i suoi epigoni fossero a confronto col maestro (un atteggiamento che James ebbe sempre anche con un altro empirista inglese da lui profondamente ammirato: John Locke): Com’era più limpida la mente di Hume rispetto a quella dei suoi discepoli!. PP, p. 1163, n. 58. James, forse desideroso di rafforzare maggiormente la propria critica all’utilitarismo cita anche altri filosofi di cui consiglia la lettura: H. Sidgwick (Methods of Ethics, cap. IV del vol. I); T. H. Green (Prolegomena to Ethics, cap. I del vol. III); Carpenter (Mental Physiology, cap. IV); J. Martineau (Types of Ethical Theory,
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finisce proviamo piacere] né respiriamo per il desiderio di fuggire la sofferenza [che proveremmo soffocando] come un vaporetto non attraversa il mare al fine di consumare carbone [...]22.
In James perde vigore l’opposizione fra uomo morale e uomo naturale; distinguere nettamente ed esclusivamente le azioni dell’uomo in quelle frutto di una decisione morale e in quelle frutto della ricerca della strada più semplice, o più piacevole, è per lo psicologo americano profondamente scorretto e frutto di notevoli fraintendimenti; mette conto di sottolineare questo fatto prima di concludere l’analisi dell’idea di azione volontaria dove, come vedremo, i concetti darwiniani di selezione e variazione spontanea troveranno notevole spazio: l’uomo può agire moralmente, può agire edonisticamente, ma la maggior parte delle volte agisce istintivamente o, in situazioni complesse, secondo abitudine: un uomo che si trovasse costretto a prendere una “deliberata decisione” a ogni istante si troverebbe presto morto e altrettanto velocemente si troverebbe estinta una specie animale i cui membri cominciassero a soppesare i pro e i contro di ogni situazione: oltre al fatto che ciascuno può constatare, e che cioè le azioni che seguono un feeling of effort richiedono all’uomo un grande dispendio di energia, è evidente che esistono delle situazioni dove l’uomo non ha nemmeno il tempo di impiegare quest’energia, situazioni dove una decisione deve essere presa immediatamente. L’abitudine dunque, per quanto possa sembrare opposta o antagonista a un comportamento libero o spontaneo, è l’unica “base” su cui l’uomo possa costruire la propria vita: questo vale per le azioni più drammatiche — come decidere da che parte spostarsi mentre stiamo ricevendo un colpo di spada — come per quelle più banali. Se l’uomo che deve andare a lavorare dovesse decidere a ogni istante con che mano prendere la cintura, in che ordine allacciare i bottoni, che scarpa infilare per prima etc, arriverebbe sempre tardi al lavoro; il pianista che pensasse a ogni nota che tasto premere e con quale forza e per quanto tempo non
cap. II, parte 2a, vol. I e cap. I, vol II); a favore della teoria utilitaristica James ricorda: L. Stephen (Science of Ethics, § 11, cap. II); H. Spencer (Data of Ethics, §§ 9-15); D. G. Thompson (System of Psychology, parte IX); e A. Bain (Senses and the Intellect e Emotions and The Will). La critica jamesiana all’utilitarismo (com’è anche evidente dalle opere testé citate) si intreccia con quella più generale all’associazionismo. James fu un fiero oppositore della dottrina associazionistica, non perché questa non fosse valida, ma per la sua pretesa di estendere lo stesso principio a tutti i fenomeni, intellettivi e morali; in entrambi i casi l’evoluzionismo darwiniano fu certamente uno degli strumenti più validi di cui James si servì per contrastare la riduzione di tutti i fenomeni mentali al meccanismo associativo: [...] James non rifiuta la visione utilitaristica, che ascrive il bene e il male alle associazioni col piacere e il dolore. L’associazione ci educa moralmente, ma fino a un certo punto. Come mostra chiaramente l’opera di James, ci sono delle tendenze nella mente umana che sono ‘nate in casa’ e non si sono sviluppate per la loro utilità. J. Barzun, op. cit. 146. Il brano continua così: Ovviamente noi possiamo occasionalmente fare qualcosa in vista del piacere che ne otteniamo alla conclusione, proprio come un vaporetto può andare in mare espressamente per sbarazzarsi del carbone. Ma l’edonista in psicologia sarebbe come chi dicesse che nessun vaporetto andrebbe in mare se non con altro scopo che quello di bruciare il carbone. [...]. W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 224. n. 3. La medesima similitudine è riportata al cap. XXVI dei Principles. Cfr. PP, p. 1163. 22
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potrebbe suonare nemmeno il motivo più semplice23; l’abitudine in sostanza è uno “stratagemma” cui ogni specie animale, anche l’uomo, si affida per semplificare la propria vita. Quel processo di “trasferimento” di determinate funzioni dagli emisferi superiori a quelli inferiori di cui abbiamo parlato all’inizio di questo capitolo24 — considerato da James frutto dell’evoluzione filogenetica dell’animale uomo — trova ora il suo analogo nel trasferimento, nell’individuo e non più nella specie, di azioni più complesse dal dominio della volontà a quello dell’abitudine; in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un “device” per agevolare lo sviluppo delle possibilità di adattamento a un ambiente complesso: Ciò che inizialmente resiste ai nostri sforzi può divenire automatico attraverso l’esercizio, cosicché gli abiti recentemente formati possono liberare la coscienza e permetterle di dedicarsi ad atti di maggiore complessità.25
Una deliberata decisione è richiesta solo quando l’uomo si trovi per un certo periodo in una situazione di dubbio e di irrequietezza, una situazione che spesso non può essere a lungo sostenuta, sia soggettivamente che oggettivamente26. L’abitudine serve a far sì che queste situazioni di dubbio si presentino raramente e, limitandole, allo stesso tempo le rende possibili:
Nei Principles James presenta l’abitudine come movimenti ideo-motori. La formazione di abitudini permetterebbe la semplificazione del processo volontario, evitando la presenza di altri pensieri, che potrebbero inibire l’azione desiderata. La volontà, l’attenzione e la sensazione di sforzo — tutti presenti nel processo di deliberazione — non sono indispensabili nel tipo di azioni abitudinarie27. Le abitudini ereditate geneticamente — che sono poi gli istinti — e le abitudini propriamente dette sono dunque strumenti economici nella vita dell’individuo: Vediamo ora quale valore abbia l’abitudine per Come abbiamo detto sopra James a questo proposito era certamente debitore della psicologia associazionistica e non solo; Richards ricorda in proposito il pensiero di Erasmus Darwin: A causa di un processo associativo poi, una serie di reazioni fibrose avrebbe potuto stimolarne un altra serie e così le contrazioni sequenziali necessarie per suonare il pianoforte o per costruire ‘istintivamente’ un nido possono essere iniziate senza un continuo controllo dei sensi o della volontà. R. J. Richards, op. cit., p. 33. 23
Bisogna comunque ricordare che James, a questo proposito, non aveva formulato nessuna teoria rivoluzionaria:, semmai fu originale il modo in cui se ne servì: James accettò la teoria di John H. Jackson dei livelli del sistema nervoso centrale: nel corso dell’evoluzione ciò che una volta era raggiunto consciamente diventa ora automatico [...]Michael H. DeArmey, op. cit., p. 35. 24
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P. Wiener, op. cit., p. 109.
A prescindere dalla natura del conflitto mentale, gli esseri umani, sostiene James, hanno un’innata esigenza psicologica di trovare una soluzione. Non possiamo vivere con un senso di lacerazione interna per troppo tempo. D. S. Browning, op. cit., p. 139. 26
27 G. Cotkin, op. cit., p. 70. L’abitudine è infatti opposta alla libertà della volizione quanto invece il dubbio le è vicino: “La vera cifra della volontà, il marchio essenziale di quello sviluppo che rende l’uomo capace di speculare su tutte le cose e lo eleva alla sua dignità di essere autonomo e indipendente, è la possibilità di dubitare (...) L’uomo ignorante dubita poco, lo squilibrato ancora meno e il pazzo per nulla (...) La certezza non è e non può essere una condizione assoluta. Essa è, cosa che spesso è dimenticata, uno stato e un atto dell’uomo (...) uno stato nel quale egli pone la propria coscienza [...]. Parlando propriamente, non c’è certezza; quel che c’è sono uomini che sono certi (...) La certezza non è che credenza (...), un atteggiamento morale”. W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 325. James condivide completamente queste parole di Renouvier (a riprova dell’importanza del filosofo francese per il nostro autore); vedremo meglio nella parte quarta della nostra tesi l’importanza e il ruolo della credenza in relazione alla libertà dell’uomo e alla sua capacità di conoscere.
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l’economia della vita umana. Anzitutto essa semplifica i nostri movimenti, li rende più accurati e diminuisce la fatica28. E, due pagine dopo, scrive James: Un altro risultato è questo: L’abitudine diminuisce l’attenzione cosciente che è necessaria per agire29.
L’accentuazione del ruolo dell’abitudine e dell’istinto sembrerebbe stridere con l’idea di uomo come essere libero; in parte è certamente così: che spazio ha un uomo che sia determinato dai propri istinti — dagli istinti della propria specie — e dalle abitudinii acquisite durante la propria vita per la propria creatività e per la propria indipendenza? Come abbiamo già detto, per James la nostra capacità di deliberazione è molto piccola sia perché è necessario che anche il più semplice movimento deve essere compiuto prima casualmente perché poi possa essere ripetuto volontariamente, sia perché, da un punto di vista quantitativo, sono pochi i momenti in cui la nostra volontà sembra essere messa alla prova:
Il fatto è che la nostra capacità di deliberazione, la nostra volontà, è, per James, molto piccola. Essa riesce a superare di poco tutto quel patrimonio di risposte prestabilite e abituali che ogni uomo sviluppa durante il corso della sua vita30. James, negli anni di depressione in cui cercava disperatamente, e inutilmente possiamo dire, una filosofia che potesse “guarirlo”, oppose l’abitudine alla libertà, come oppose — propendendo per il secondo — due filosofi che si stavano per lui rivelando importanti (e che lo rimarranno per tutta la vita): Alexander Bain e Charles Bernard Renouvier. Questa opposizione iniziale venne sicuramente stemperata, almeno in parte, nei Principles of Psychology e ancor di più nelle opere successive dove l’abitudine diventerà, se frutto di una scelta consapevole e se coltivata intelligentemente, un’alleata dell’uomo libero. James riconobbe infatti che, prima di tutto, libertà non significa trovarsi sempre nella posizione — difficile — di dover scegliere e, in secondo luogo, anche ciò che è istintivo o è diventato automatico con l’abitudine può essere mutato dalla volontà dell’uomoii; ma questo ci riporta al tema principale del presente capitolo: se è vero che la coscienza è efficace, è anche vero ch’essa è libera?
28
PP, p. 117.
29
Ivi, p. 119.
30
D. S. Browning, op. cit., p. 152.
233
Prima di affrontare definitivamente questo tema mette conto però di fare chiarezza su un punto abbastanza complesso: James riteneva che le abitudini dell’uomo potessero essere guidate dalla coscienza, non riteneva però che lo potessero gli istinti; l’uomo può opporsi a un’azione istintiva, che non deve essere necessariamente egoistica, ma non è libero di modificare i propri istinti ereditati naturalmente31. E, mentre un’azione che sia diventata abitudine nella formazione della personalità di un uomo può essere ritenuta il frutto di un suo, grande o piccolo, sforzo di volontà — e quindi atto di libertà — altrettanto non può dirsi di un istinto vero e proprio, che sfugge il controllo diretto della volontà umana. Come abbiamo detto precedentemente in relazione alla sua critica al determinismo di Schopenhauer, James riteneva che la libertà fosse fatta di “grandi momenti”; l’uomo libero è colui che riesce a impostare una condotta di vita razionalmente e consapevolmente; moralità per James non significa — solo — avere la possibilità di compiere azioni spiacevoli o altruistiche.
Bisogna ricordare che, sebbene le azioni libere par excellence sono per James quelle che passano, mostrando — ma non dimostrando — la loro origine ‘altra’, tra la Scilla dell’edonismo e la Cariddi del comportamento istintivo ereditato, è anche vero che non tutte le azioni morali debbono opporsi agli istinti, alle abitudini o allontanarsi dal piacere più o meno immediato; una posizione che certamente James si sentì di sostenere anche grazie alla lettura di Charles Renouvier, anch’egli propenso alla costruzione di un’etica possibile, e non di un’etica stoica o santa32. Indubbiamente James, pieno di una visione tragica della vita, ma soprattutto arricchito da una dura esperienza personale, era certo che l’azione morale spesso richiede sacrificio33, ma ciò non significa ovviamente che l’azione morale debba presupporre il sacrificio; in questo caso infatti avremmo un’ulteriore limitazione delle azioni morali, che apparterrebbero a una “cattiva eticità” dove sono proprio i nostri impulsi, le nostre tendenze — sia quelle innate che quelle sviluppate in una vita — a determinare, negativamente, quel ch’è giusto fare; di fatto James, soprattutto da giovane, come abbiamo visto narrando dei suoi anni di profonda crisi, aveva aderito, o aveva cercato di aderire — in questo seguendo una “tradizione” famigliare che condivideva
Per quanto riguarda la possibilità che un istinto venga inibito in seguito a un ragionamento, bisogna ricordare però che La ragione è in grado di alterare l’accadere di un comportamento istintivo. Ma solo altri impulsi, e non la ragione, possono inibire gli impulsi. La ragione agisce attraverso l’immaginazione che attiva altri impulsi di contro a un determinato impulso. D. A. Dewsbury, William James and Instinct Theory Revisited, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 276. dunque l’azione della volontà è un’azione che non può essere mai diretta, ma sempre mediata da una componente immaginativa (che poi si traduce — automaticamente, cioè senza ulteriore sforzo — in azione) questa “medianità” ovviamente nulla toglie all’efficacia della coscienza. 31
32
Sebbene non fosse un edonista, Renouvier era ostile a ogni etica ascetica o dottrina del sacrificio., W. Logue, op. cit., p. 64.
33
Il dovere è duro; esso comporta sofferenza e spesso la morte. J. Barzun, op. cit., p. 152.
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anche la sorella Alice — a un’etica stoica, ma non bisogna dimenticare che negli ultimi scritti, soprattutto nelle Varieties, egli farà coincidere la massima espressione etica dell’uomo con quella del santo, ma in questo caso (che comunque è strettamente legato all’argomento — religioso — del testo) si tratta più che altro di un’ideale, raggiungibile soltanto da pochissimi (e, consapevolmente, non da James stesso) che, proprio in quanto ideale, avrebbe dovuto “stimolare” un’etica sana piuttosto che informarla completamente. I critici spesso discordano nel giudizio intorno a quale fosse l’etica proposta dal pragmatista americano; i limiti del nostro lavoro non ci permetteranno di chiarire questo punto; certo, rimane un fatto, e che cioè James, proprio per il suo spirito pluralistico — che poi traduce un profondo sentimento di tolleranza — era più propenso a dettare i presupposti per un’etica vera (o meglio, per tante etiche vere), piuttosto che i “comandamenti”: Come dice bene Roth, sebbene troppo semplicisticamente,
Sebbene la visione etica occupi una parte importante nel pragmatismo di James, nella filosofia della religione e nella metafisica, i tentativi di venire a capo della sua filosofia etica non sono stati numerosi. Questo è in parte dovuto al fatto che, mentre James era grandemente interessato a questioni etiche, egli non sviluppò mai una teoria etica sistematica34. Un’azione dunque, per essere definita libera deve poter essere compiuta a prescindere dalla previsione del piacere o del dispiacere che questa può procurarci, ma questo non basta; l’esempio è quello delle azioni istintive, di quelle abitudini che, direttamente per i lamarckiani e attraverso la selezione naturale per i darwiniani, diventano patrimonio del comportamento dell’individuo: Darwin aveva dimostrato, mettendo in primo piano il concetto di specie35 piuttosto che quello di individuo, che molte delle azioni 34
J. K. Roth, op. cit., p. 13.
35 In seguito all’influsso di Aristotele, infatti, la filosofia era stata caratterizzata dalla tendenza a concepire le entità individuali, o particolari, come esemplificazioni concrete e mutevoli di essenze universali, classi, o specie astratte e immutabili. Anche se accessibili all’esperienza dell’uomo, i particolari erano stati considerati inaccessibili alla conoscenza umana, mentre gli universali, ritenuti accessibili a questa, erano stati giudicati inaccessibili a quella. Solo le entità individuali apparvero sperimentabili, e solo le specie apparvero conoscibili. Una tradizione filosofica ammise la realtà dei particolari ed ebbe difficoltà a spiegare gli universali; un’altra ammise invece la realtà degli universali ed ebbe difficoltà a spiegare i particolari. L’errore di Aristotele e di quanti lo seguirono accettandone tale paradossale concezione consistette nell’affermare l’immutabilità de le specie e nel misconoscere l’importanza delle differenze individuali. Fu solo dopo che Darwin ebbe formulata la propria ipotesi che le “variazioni positive”, o differenze individuali, vennero concepite come essenziali, anziché accidentali, e fu la ”rivoluzione” darwiniana a determinare l’abbandono della credenza nelle specie fisse per tutta l’eternità. Abbott, rifacendosi a Darwin, ritenne di aver scoperto “la verità sfuggita ad Aristotele: vale a dire che la differenza individuale è essenziale all’individuo nel suo insieme, come questi è essenziale alla specie”. C. Sini, op. cit., p. 110 I riferimenti di Sini al nominalismo e al concettualismo sono chiari; non ci occuperemo qui della questione del nominalismo in relazione al pensiero pragmatico di James — e del realismo del pragmaticismo di Peirce; quel che per ora è interessante notare è che, secondo l’interpretazione di Abbot, c’è stata una vicenda “simmetrica” nella storia del pensiero umano; Prima — con Aristotele — la filosofia aveva determinato la biologia, mentre con Darwin accade l’opposto: è la teoria biologica che, mostrando come non esistano specie fisse e immutabili — e che la mutazione della specie è fatta dalla mutazione degli individui — ha spianato la strada a un nuovo modo di pensare l’individuo.
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istintive sono altruistiche e questo per una ragione tanto semplice quanto rivoluzionaria: la specie che sopravvive, nella lotta contro gli elementi di natura e contro le altre specie, è quella più forte, cioè quella i cui rappresentanti, in certe occasioni, fanno fronte comune contro le avversità; una specie i cui membri fossero motivati solo da fini egoistici si estinguerebbe ben presto36; Paradossalmente una scienza, come quella evolutiva darwiniana, rigidamente deterministica e scevra di qualsiasi ambizione filosofica, si dimostrò essere il più grande nemico delle filosofie edonistiche e utilitaristiche. Classificando il comportamento sociale e simpatetico degli animali, Darwin rigettava l’assunto della scuola sensazionalistica secondo la quale tali condotte sono prodotte nell’individuo attraverso all’associazione di sensazioni piacevoli o spiacevoli37. Darwin compì grandi sforzi per differenziare la propria teoria morale da quella degli utilitaristi. Egli credeva che tre tratti fondamentali la distinguessero da quella. Prima di tutto, La sua teoria interpretava la spinta morale come una reazione innata, istintiva verso i bisogni della comunità, mentre gli utilitaristi vedevano la reazione morale come una reazione acquisita38. In secondo luogo, l’interpretazione evolutiva separava il senso morale da qualsiasi previsione di piacere, mentre gli utilitaristi, secondo Darwin, derivavano il senso morale dall’associazione con sensazioni piacevoli. Infine, la sua teoria faceva del bene della comunità, piuttosto che del piacere maggiore l’obbiettivo del comportamento morale. Queste caratteristiche distinguevano la concezione etica di Darwin da quella di Bentham [che infatti non credeva in un senso morale innato o istintivo]39.
36 Nel capitolo sull’istinto, James mostra più volte di avere compreso e fatto propria la genealogia darwiniana degli istinti, in opposizione alla classica teoria associazionistica: a proposito dell’istinto dell’uomo a giocare e a farlo in maniera gregaria scrive lo psicologo americano: Questo sembra un elemento primitivo della nostra natura perché è difficile trovare quale associazione di idee potrebbe determinarlo; mentre, dimostrato che esiste, è assai facile vedere quale utilità esso possa arrecare ad una tribù, rendendo pronta e vigorosa qualunque azione collettiva . PP, p. 1045.
R. J. Richards, op. cit., p. 209. Darwin infatti riteneva che gli istinti sociali degli animali, che poi — in presenza di un intelletto adeguatamente sviluppato — daranno origine agli istinti morali dell’uomo, siano appunto degli istinti e noi dei comportamenti ‘edonistici’ o ‘utilitaristici’. 37
Anche in Darwin si tratta, in certo senso, di reazioni acquisite, ma filogeneticamente attraverso la selezione naturale — e parzialmente attraverso l’ereditarietà di caratteri acquisiti — e non ontogeneticamente attraverso il vaglio delle sensazioni piacevoli e spiacevoli. 38
R. J. Richards, op. cit., p. 235. Che evoluzione e altruismo non fossero affatto intimamente contraddittori è dimostrato dal fatto che furono molti a seguire Darwin su questa strada: Fiske, Drummond e Kropotkin non solo concordavano nel ritenere che la solidarietà sociale sia un fatto basilare nell’evoluzione, essi credevano inoltre che la solidarietà sociale fosse un fenomeno totalmente naturale, una logica conseguenza dell’evoluzione naturale. R. Hofstadter, op. cit., p. 104. Anche Spencer, maestro di Fiske, giustificava l’istinto altruistico all’interno del proprio pensiero evoluzionistico: Un importante corollario del principio della più grande felicità era per Spencer che il vero piacere non può essere solitario. Il piacere e la felicità genuini si trovano nel comportamento altruistico, il comportamento che ricerca il benessere della progenie e del resto della società. R. J. Richards, op. cit., p. 305. Bene anche ivi, p. 322. Il tema dell’innatismo — darwinianamente inteso — è in James fondamentale non soltanto perché esso è a sostegno della sua teoria degli istinti: anche la concezione jamesiana delle facoltà superiori del cervello, degli “emisferi”, è incomprensibile, nella sua differenziazione con l’associazionismo, se non se ne intende l’ereditarietà: Egli [James] abbandonò l’idea che la mente sia una tabula rasa o una tavoletta di cera, sulla quale le impressioni ricevute dall’esterno vengano registrate una dopo l’altra. La classica formula 39
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D’altronde Darwin non deve essere considerato per questo un’eccezione: l’evoluzionista Herbert Spencer che , come abbiamo visto, venne altrimenti aspramente criticato da William James, sarebbe solo a torto considerabile un utilitarista:
Anche Spencer, come Darwin, non ritiene che la morale sia giudicabile in termini utilitaristici per quel che concerne la sua genealogia. [...] l’uomo istintivamente giudica il comportamento inconsciamente guidato dalle passate esperienze della razza, che necessariamente consistono in modelli di comportamento altruistico. [...] [le azioni morali] mancano di quel carattere di ricerca del piacere egoistico che Bentham attribuisce alle azioni dell’uomo. In breve la prospettiva evoluzionistica dimostra che i giudizi morali non sono viziati da calcoli di interesse personale40. Ma, proprio questa vicinanza (di così diversi evoluzionismi in opposizione a una concezione utilitaristica ed edonistica del comportamento umano) dovrebbe far riflettere attentamente sull’effettivo sostegno che queste teorie possono apportare a una vera filosofia morale; ma James non cadde mai nell’ingenuità di difendere la moralità dell’uomo sostituendo al principio di piacere l’istinto e l’abitudine: ogni etica evoluzionistica, anche non spenceriana, tende a identificare ciò che è, per esempio una certa tendenza dell’evoluzione, o ciò che si prevede, per esempio uno stato ultimo di libertà generalizzata, con ciò che dovrebbe essere. Ma, dalla descrizione fattuale non si può derivare logicamente un imperativo41 e questo William James lo sapeva bene. Quello che manca a Spencer, come alla maggior parte dei filosofi evoluzionistici, è la dimensione kantiana della morale; non può darsi azione morale se non esiste una coscienza capace di scegliere, prescindendo dalle proprie tendenze (prescindendo, ma non opponendovisi necessariamente), quale azione intraprendere, in vista di una fine che, liberamente, essa ha deciso di seguire: tutti questi elementi sono assenti in Spencer, come lo sono anche in Darwin. Vedremo meglio fra poco quanto saranno grandi le differenze tra Darwin e James proprio in relazione al tema della spontaneità e quindi della libertà dell’uomo; ci basti qui dire che lo scienziato inglese, proprio per il suo desiderio di restare su un piano squisitamente scientifico, ma involontariamente sconfinando in campi, come quello della
dell’empirismo era Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. James rifiuta un empirismo di questo genere, e riconosce l’importanza dei tratti innati e dell’interesse personale. TCWJ I, p. 570. La fallacia, non solo dell’empirismo positivistico, ma anche di quello tradizionale, è quella di volere ridurre l’atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo alla presa di coscienza istantanea di esso, dimenticando che il mondo si costituisce per noi come lo sfondo di possibili progetti e di possibili alternative.. G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., p. 81. 40 R. J. Richards, op cit., p. 301. Le parole dello stesso James non lasciano dubbi in proposito: Esso [l’istinto ad aiutare Gli altri] può essere un “processo” primitivo quanto qualsiasi altro, e può essere dovuto ad una variazione della selezione casuale, come è altrettanto probabile che la socievolezza e l’amore materno siano , anche secondo l’opinione di Spencer, dovute a tali variazioni. PP, p. 1029. 41
R. J. Richards, op. cit., p. 324.
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morale, in cui non si trovava completamente a suo agio, si prestò spesso a subire dure critiche: a questo proposito è sicuramente chiara e corretta la critica che Mivart volse a Darwin: Riguardo alla teoria morale, Mivart aveva criticato la scarsa comprensione da parte di Darwin del fatto che un atto può essere considerato morale solo se chi lo compie ha l’intenzione razionale di compiere il proprio dovere, le azioni spontanee non sono quindi degne di essere chiamate ‘morali’42. D’altronde non ci si poteva aspettare da Darwin qualcosa di differente: egli rimase per tutta la vita un rigido determinista: riteneva inoltre che l’introduzione di un elemento di libertà nell’uomo avrebbe incrinato quell’ordine di natura che è saldo proprio in virtù della necessità delle sue relazioni: [James] riteneva che l’associazione con il piacere fornisse una spiegazione inadeguata delle idee morali che spesso richiedono l’assunzione di “preferenze innate” o di variazioni congenite di tipo darwiniano [...]. Egli rifiutò la dottrina di un’uniformità di motivazioni [per le azioni morali] in favore di una molteplicità di istinti e di ideali 43. Non solo, egli rifiutò anche una dottrina che facesse dell’azione istintiva altruistica, giustificabile secondo i principi darwiniani di selezione naturale, la base per una filosofia morale. James si oppose sempre a un’etica delle conseguenze in favore di un’etica delle intenzioni, consapevole che, per quanto sia difficile giudicare le conseguenze di un comportamento, è impossibile, anche scavando in interiore homine, comprendere quali sono state le vere intenzioni — oltre a quelle che la stessa introspezione ci rivela — di una decisione presa44. È qui che la scienza, e non solo quella psicologica, deve lasciare la parola alla filosofia. Come vedremo nelle ultime pagine di questo capitolo, James non riuscirà, nei Principles, a fare chiarezza sul concetto filosofico di volontà libera suggerito dalla ‘nuova’ psicologia interazionistica; non bisogna però dimenticare che il suo più grande successo fu quello di avere posto determinismo e indeterminismo su un medesimo piano di plausibilità scientifica e sarà solo in virtù di questa parità faticosamente raggiunta, e nient’affatto pacifica alla fine dell’Ottocento, ch’egli riuscirà, nella Will to Believe, a ‘scegliere di essere libero’ non più contro la razionalità scientifica. I prossimi due paragrafi sono dedicati al tentativo di mostrare come questa faticosa ‘parificazione’ venne portata a termine nei Principles in maniera certamente efficace e, come abbiamo già detto, Ivi, p. 228. La stessa critica era stata ovviamente rivolta anche alla morale evoluzionistica di Herbert Spencer: L’etica evoluzionistica sembra identificare ciò che è — per esempio, una certa tendenza dell’evoluzione — o ciò che si prevede — per esempio uno stato ultimo di libertà generalizzata — con ciò che dovrebbe essere. Ma, dalla descrizione fattuale non si po’ derivare logicamente un imperativo. Ivi, p. 324. 42
43
TCWJ II, p 262.
James era però allo stesso tempo convinto del fatto che un’etica delle intenzioni avrebbe dovuto, in the long run, coincidere con un’etica dei risultati: Buone conseguenze morali possono darsi nonostante l’assenza di una riflessione morale sensibile e critica e cattive conseguenze possono darsi nonostante siano state precedute da una tale riflessione, ma questa situazione accade raramente. Solitamente, conseguenze positive seguono da una sana riflessione e conseguenze negative dall’assenza di questa. J. K. Roth, op. cit., p. 141. 44
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paradossale: facendo leva cioè su quei concetti di variazioni spontanee e di selezione che, nella dottrina di Darwin, sono l’ossatura di una scienza rigorosamente deterministica.
3.2.3 Variazioni spontanee tra caso e necessità: tertium datur Noi sappiamo che James era convinto della effettiva libertà del volere umano: questa posizione è delineata chiaramente nelle pagine dei Principles e degli articoli degli anni ’70 e ’80 che stiamo qui prendendo in esame, ma altrettanto vero è che lo stesso James riconobbe in questi scritti di non potere dare una dimostrazione della libertà dell’uomo. Questo non implica certo una deminutio capitis del nostro autore: anzi, dimostra la sua capacità di muoversi sapientemente attraverso i meandri della fisiologia nervosa e della psicologia del tempo e la sua consapevolezza che l’unico vero risultato positivo raggiungibile sarebbe stata l’equipollenza, su un piano schiettamente scientifico, della visione indeterministica rispetto a quella deterministica: Il più che un individuo che creda nel libero arbitrio possa mai fare, sarà di dimostrare che gli argomenti deterministi non sono coercitivi. Che essi siano seducenti io sono l’ultimo a negarlo; come non negherò che sia necessario un certo sforzo per tenere fede nella libertà ben salda della mente, quando essi da ogni parte le premono intorno45. Come abbiamo detto, molti critici riconoscono l’importanza dell’influsso darwiniano a questo proposito46. Altri, come il già citato Bjork si ostinano, anche di fronte all’evidenza testuale, a negare che la plausibilità di una filosofia della volontà libera sia in James strettamente legata all’accettazione — e alla relativa trasformazione — di alcuni principi cardine dell’evoluzionismo darwinianoiii. Altri ancora non si occupano di quelli che potremmo chiamare i precursori della teoria jamesiana della volontà e preferiscono un approccio puramente testuale e all’interno di queste tre generiche posizioni 45
PP, p. 1177.
46 Richards ricorda fra i sostenitori di un forte legame tra l’evoluzionismo darwiniano e la psicologia jamesiana i seguenti autori: John Wild, The Radical Empiricism of William James, Doubleday Anchor, New York 1970, pp. 16-17; William Earle, “William James”, in The Encyclopedia of Philosophy, (a cura di P. Edwards), Macmillan, New York 1967.; Andrew Reck, The Philosophycal Psychology of William James, “Southern Journal of Philosophy” 9, 1971, pp. 293-312. Philip Wiener (op. cit), Bruce Kuklick (op. cit, pp. 51-52, 160-161, 170-171), Marcus Ford (op. cit, pp. 26-29 e passim) e Daniel Bjork (The Compromises Scientist, Columbia University Press, New York 1983, pp. 7-9 e id., op. cit, passim) percepiscono ma non misurano appieno la forza delle idee evoluzionistiche di James sulla sua psicologia. Don Browning, nel suo Pluralism and Personalit: William James and Some Contemporary Cultures of Psychology, Bucknell University Press, Lewisburg 1980, pp. 52-58. insiste sull’importanza della teoria darwiniana sullo sviluppo del pensiero di James, così come fa William Woodward, nella sua Introduzione a EPS, pp. xx-xxiv. Non bisogna scordare infine Hofstadter: Nel campo della filosofia, il nuovo spirito [evoluzionistico, ma non spenceriano] fu caratterizzato dalla nascita del movimento pragmatico, particolarmente significativo poiché esso rigettava il freddo determinismo della filosofia di Spencer e costruì una nuova psicologia, in parte costruita con i mattoni della scienza darwiniana. R. Hofstadter, op. cit., p. 104. Per quanto riguarda la letteratura italiana, si distingue al proposito Carlo Sini che dedica il primo capitolo del suo Pragmatismo americano (cit.) proprio all’importanza dell’evoluzionismo nella cultura americana che fu la culla del pragmatismo.
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interpretative si possono fare ancora numerose distinzioni. Ci occuperemo qui solamente del primo approccio, non tanto per il fatto ch’è quello sostenuto qui, quanto perché è quello che recentemente si è maggiormente sviluppato ed è quello che più di tutti riesce a cogliere, almeno in parte, il complesso intreccio di influssi eterogenei da cui i Principles emersero come una dei più grandi libri di psicologia mai scritti. Giova a questo proposito citare le recenti parole dello storico della scienza che forse più di tutti ha sottolineato il debito di James verso la teoria darwiniana della selezione naturale: Molti studiosi di James riconoscono una connessione tra il suo pragmatismo — e forse anche il suo funzionalismo psicologico — e le idee evoluzionistiche. Altri critici invece, guardano all’influenza delle teorie evoluzionistiche sulla scienza di James come a qualcosa di trascurabile. Entrambi questi atteggiamenti frenano i tentativi di una conoscenza più profonda dello sviluppo intellettuale di James. Fu la teoria darwiniana che permise la struttura essenziale e la giustificazione obiettiva per le concezioni filosofiche e scientifiche di James riguardo alla natura della mente, alla conoscenza, e alla possibilità che si dia un’azione morale. Per comprendere appieno i risultati di James dobbiamo allora seguire attentamente la costruzione della sua psicologia sulla base della teoria darwiniana. Ma dobbiamo vedere il suo uso di tale teoria prima di tutto alla luce della sua crisi spirituale47. Noi, dopo avere approfondito nei capitoli precedenti i contorni della crisi ‘spirituale’ di James e avere mostrato come essa abbia posto in lui soprattutto l’esigenza di formulare una filosofia che ridesse all’uomo quella libertà e quella spontaneità che erano state perse al prezzo della scientificità materialistica, cercheremo allora di approfondire le relazioni tra la teoria evoluzionistica darwiniana e la psicologia di James, che già si sono fin qui rivelate essere molto strette.
Per James la possibilità di un’azione libera si regge su quattro presupposti: 1) la coscienza deve essere efficace: essa cioè deve essere qualcosa di più di una mera spettatrice e quindi, per quanto essa “subisca” ciò che proviene dall’esterno (del corpo e all’interno di esso) deve potere anche essere influente, deve cioè potere interagire.(interazionismo modificato48). 2) ma in che cosa deve essere libera la coscienza efficace? Essa deve essere libera di scegliere e quindi il secondo presupposto è che ci siano
R. J. Richards, op. cit. p. 412. Senza dubbio, la sua disperazione che lo portò sull’orlo del suicidio e il rimedio metafisico cui egli si affidò aiutano a spiegare perché egli trovasse la teoria di Darwin così interessante. Ibidem. Come abbiamo visto in precedenza, il capitolo dedicato da Richards a William James rappresenta proprio il tentativo di giustificare l’interesse di quest’ultimo per la dottrina darwiniana, pur senza isolare l’influsso dello scienziato inglese dagli altri (come Renouvier) che — come abbiamo visto — contribuirono notevolmente alla formazione di James ‘filosofo della libertà’. 47
48 L’errore di Spencer, come abbiamo visto (cfr. supra, cap. 3.1, p. 8, n. 22) era stato per James quello di delineare un interazionismo fra uomo e ambiente in cui al primo era tolta qualsiasi spontaneità e ogni sua azione doveva essere interpretata come una — semplice o complessa — reazione. Spencer aveva attribuito troppo all’ambiente e nulla all’individuo: La filosofia evoluzionistica di Spencer e dei suoi discepoli John Fiske e Grant Allen, sbaglia nel tentativo di spiegare i complessi processi dell’evoluzione sociale secondo un impersonale determinismo esterno [...]. P. Wiener, op. cit., p. 131.
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delle alternative (ridotte a due nei casi emblematici) tra cui scegliere; in caso contrario è evidente che la coscienza non potrebbe mai esercitare la propria facoltà 3) in terzo luogo, la scelta deve essere razionale e quindi i motivi stessi in base a cui la scelta viene consapevolmente compiuta non debbono essere imposti alla persona (né esternamente né internamente); per fare un esempio, una persona la cui coscienza sia efficace e che abbia di fronte numerose alternative di comportamento, ma che scelga sempre quell’azione in vista della quale si prevede il raggiungimento del maggior piacere (o del minor dolore ovviamente), non potrebbe certamente dirsi libera; come, d’altronde non è libera, anche se di primo acchito non sembra così, una persona che scelga sempre, quando è possibile, in base ai dettami di una religione o di un credo politico che non sia stato prima scelto libermente.
Una regola può essere obbedita senza che ci sia la comprensione del perché essa esista o del suo fine, ma un principio è inutile se non è accompagnato dalla comprensione dei suoi fondamenti e dei suoi scopi49. 4) L’ultima condizione è che la natura, il mondo, non sia totalmente predeterminato e che quindi ci sia uno spazio, per quanto piccolo, una fessura attraverso la quale la coscienza possa fare leva per cambiare il corso delle cose50; una coscienza efficace in maniera “armonica” col naturale corso degli eventi sarebbe infatti solo formalmente efficace e di fatto non sarebbe che il “sintomo” di un potere più forte, quello dell’immutabilità degli eventi51. Finora abbiamo solo visto la trattazione, guidata dall’evoluzionismo darwiniano, del primo punto; rimangono da discutere gli altri quattro. Partiremo col punto 2), quello della possibilità di alternative fra cui scegliere, che, proprio in virtù del “darwinismo” di James, è parzialmente legato col punto 4), l’indeterminismo in natura. Le variazioni spontanee sono la chiave per comprendere questo punto cruciale52.
49
J. K. Roth, op. cit., p. 115.
L’indipendenza delle parti che costituiscono la realtà introduce la possibilità del caso nel mondo [...] le implicazioni morali dell’esistenza del caso nel mondo sono abbondantemente evidenti, se consideriamo che solo in un mondo ch’è incompleto e aperto alla novità è possibile per l’uomo essere libero. P. B. Brennan, op. cit., p. 32. Si tenga ovviamente presente quanto detto intorno all’idea jamesiana di caso. 50
51
È questa la concezione che può essere definita come “soft determinism”.
52 Il cuore della filosofia di James sta nel suo religioso rispetto per i diritti dell’individuo. Poiché le “variazioni spontanee” di Darwin gli erano apparse apportare un supporto scientifico alla sua dottrina individualistica, egli l’abbracciò decisamente. E, anche se non ci fosse stata una teoria scientifica capace di supportare il diritto e la libertà dell’individuo di asserire la propria natura morale, tanto peggio per quella teoria scientifica, James avrebbe cercato altri fondamenti, che non quelli di un’esitante ipotesi scientifica, per sostenere le nostre azioni e le nostre decisioni morali. P. Wiener, op. cit., p. 125. Nella prima fase della sua dottrina dell’evoluzione James era dominato da Darwin. Il suo scopo principale era di dimostrare le “variazioni spontanee” della vita e della mente umana. È da questa rottura con un mondo inteso meccanicisticamente che nasce la sua predilezione per la soggettività e la libertà. TCWJ I, p. 490. (anche se forse è meglio dire il contrario, e cioè che in James l’interesse per una psicologia indeterministica nasce in seguito alla sua “predilezione per la soggettività e la libertà”). A
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Com’è noto, la teoria darwiniana della selezione naturale si fonda su tre cardini: l’esistenza di variazioni spontanee (dette anche casuali) nella trasmissione del patrimonio genetico (anche se Darwin non poté mai servirsi di questi termini), la selezione di queste variazioni a seconda del maggiore o minore adattamento all’ambiente che esse garantiscono all’organismo, l’ereditarietà di queste variazioni.
La teoria della variazioni spontanee detiene un grado di rivoluzionarietà che non hanno gli altri punti della dottrina darwiniana; essa è inoltre il vero cuore di tutta la teoria darwiniana; non spetta a noi cerare di trattare qui del tema, squisitamente biologico, delle variazioni spontanee nell’economia del pensiero dello scienziato inglese, quel che possiamo dire è che questi, date le conoscenze scientifiche del tempo, non fu mai in grado di dare una “spiegazione” di queste variazioni; egli “si limitò” in sostanza a constatarle e a rilevarne l’importanza “propulsiva” per lo sviluppo e l’evoluzione delle specie53;
Le libere variazioni sono accidentali e meccaniche; esse possono dirsi rispondenti a un fine solo quando l’uomo provoca la selezione, ad esempio di una specie animale domestica, per la propria utilità; dire poi che tali variazioni sono provocate dalla lotta per la vita, non significa avere scoperto né la causa determinata di ciascuna di esse, che resta attualmente sconosciuta, né avere assegnato ad esse un fine preordinato da raggiungere. La lotta per la vita, in altre parole, agisce meccanicamente e non come un fine o causa finale imposta dall’alto della natura54. Quel che Darwin disse, e non si trattava di poca cosa, era che queste variazioni sono spontanee: esse cioè non possono essere provocate né da fattori esterni né da uno sforzo interiore dell’organismo. Darwin però non aveva minimamente intenzione d’identificare la spontaneità con la casualità; egli era prescindere dal fatto che — come vedremo fra breve — il cuore del darwinismo di James va rintracciato non solo nell’estensione dell’idea di variazioni spontanee alla psicofisiologia dell’uomo, ma anche e soprattutto nell’applicazione del principio di selezione alla psicologia della volontà, dobbiamo aggiungere che la considerazione di Wiener non è totalmente condivisibile: il fine di questa Tesi è quello di dimostrare infatti come la filosofia della libertà di James sia possibile solo in quanto prosieguo di una psicologia della libertà. Dire che James “avrebbe anche potuto fare a meno” di un supporto scientifico alla propria teoria vuol dire dimenticare l’importanza degli sforzi compiuti dal nostro autore per superare il riduzionismo materialistico e soprattutto dimenticare il luogo dove nacque in James l’esigenza dell’elaborazione di una filosofia in cui la credenza nella libertà fosse giustificabile anche oltre i limiti della dimostrabilità scientifica. Il complemento all’aspetto umanistico della complessa psiche di James si trova nella scienza [...]D. A. Dewsbury, William James and Instinct Theory Revisited, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 264. 53 [...] la selezione naturale, così come concepita da Darwin, è un meccanismo evolutivo in cui l’unico agente positivo di cambiamento [...] è rappresentato dalle variazioni fortuite. P. Wiener, op. cit., p. 2. 54 C. Sini, op. cit., p. 35, corsivo nostro. È dunque evidente che l’analogia fra la selettività della coscienza delle idee con la selezione dell’ambiente delle variazioni spontanee termina quando si riconosce che nel secondo caso il processo di selezione non è affatto meccanico: le variazioni spontanee (che forse, come lo stesso James, sarebbe meglio chiamare “variazioni interne”) vengono selezionate ‘dall’interno’; e proprio qui sta la possibilità di introdurre un elemento di libertà nella vita dell’uomo; se infatti le variazioni spontanee finissero semplicemente nel meccanismo deterministico delle leggi di adattamento fra interno ed esterno all’uomo non rimarrebbe alcuno spazio di movimento autonomo.
[...] le condizioni ambientali sono per [Darwin] atte a regolare, preservare selezionare l'insorgere di libere e spontanee "variazioni", ma non ne sono direttamente la causa; le variazioni spontanee rendono conto, perciò, del carattere creativo dei fattori dell'esperienza. Ivi, p. 253. 54
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un rigido determinista, potremmo anche definirlo un determinista “puro”, privo cioè di quei tentativi di far convivere il rigore della scienza coi dettami della morale o della religione55; Darwin dunque, riconosceva di non comprendere quale fosse la “causa” di queste variazioni, ma al tempo stesso riconosceva che una causa vi fosse. Com’è evidente non si tratta di un dettaglio di poco conto; lo stesso William James, in una delle sue prime recensioni, si era occupato del concetto di variazione spontanea in Darwin, e più precisamente nel suo testo sulla variazione delle piante e degli animali in cattività, e aveva rilevato che, per questo concetto come per altri, la teoria di Darwin si reggeva più su ipotesi che sull’identificazione di precise leggiiv. Anche fra coloro che hanno riconosciuto l’importanza della scienza darwiniana — soprattutto nella teoria delle variazioni spontanee — per la teoria jamesiana della volontà libera, ci sono, come abbiamo detto sopra, delle notevoli differenze: Studiosi come Richards riconosco il “successo” del tentativo di James di utilizzare Darwin per fini squisitamente psicologici, altri, come Ayer, ritengono che si tratti di vani tentativi e che, in fondo, la teoria della volontà del pragmatista americano sia sostenibile soltanto da un punto di vista extra-scientifico, e più precisamente nelle pagine delle opere cosiddette “filosofiche”, a partire dalla Will to Believe. Dal momento che la questione di fatto [se la volontà sia libera o no] è praticamente insolubile, James si concede alla volontà di credere. Dal momento che noi non abbiamo alcuna base razionale per concludere affermativamente o negativamente la questione del libero arbitrio e dal momento che la questione è però ai suoi occhi troppo importante perché venga sospeso il nostro giudizio, noi dobbiamo allora compiere una scelta dei sentimenti [emotional choice]. Come ci si sarebbe aspettato, James opta per l’alternativa della libertà, soprattutto, egli dice, su basi etiche. Al postulato della scienza “che la previsione di tutte le cose debba essere idealmente, se non attualmente, possibile” egli preferisce il postulato della morale “per cui quel che deve [ought] essere può essere e che le azioni cattive non sono fatali, ma che esse possono essere sostituite da buone azioni”. Nel caso di James comunque, come del resto per Peirce, l’importanza della sua esposizione del libero arbitrio per l’etica è molto ridotta dal suo ritenere, a mio giudizio correttamente, che, dal momento che un evento non è interamente governato da leggi, esso deve accadere per caso. Egli è però attento nel sottolineare che questo, nella sfera della condotta umana, non significa che l’azione di un uomo sia totalmente separata dai suoi motivi e dal suo carattere: il libero arbitrio agisce solo “sulle possibilità che si presentano all’uomo”; ma, fra queste possibilità, potrebbe essere dovuto al caso che egli scelga di attuarne una o l’altra. Come ho già sottolineato, tutto questo rappresenta una ben debole giustificazione della responsabilità umana; e sebbene ci potrebbero essere dei vantaggi nel pensare che le cattive azioni non siano fatali, bisogna comunque ricordare che questa è una medaglia dalle due facce. Il caso avrebbe potuto sostituire buone azioni a quelle cattive, ma anche viceversa56.
55
Darwin non cercò di risolvere il dilemma del moralista che allo stesso tempo crede nel determinismo. R. J. Richards, op. cit., p. 124.
56
J. Ayer, op. cit., pp. 208-209.
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Se così stessero effettivamente le cose per James, se cioè le azioni libere fossero quelle non determinate, cioè casuali, allora avrebbe ragione Ayer nel dire che non ci troveremmo di fronte alla possibilità di una responsabilità di scelta, ch’è una premessa fondamentale perché le azioni dell’uomo vengano compiute liberamente; d’altronde è decisamente insostenibile che questo fosse il pensiero di James. All’inizio del capitolo abbiamo mostrato come per il filosofo americano la coscienza debba avere un ruolo efficace nell’ordinare ciò che può, proprio per la natura sviluppata degli emisferi, seguire effettivamente un ordine casuale, che sarebbe quanto di più nocivo per la sopravvivenza di un individuo; se James opponesse effettivamente al determinismo la casualità, ci troveremmo di fronte a una situazione ancora più tragica: l’uomo non sarebbe più determinato dalla necessità delle leggi di natura, ma dal suo capriccio, un’ipotesi che certamente poteva solo inquietare, come di fatto fece, James57. Cercheremo quindi di dimostrare che James non identificava affatto la libertà con la casualità — essa presupponeva invece una ‘nuova’ causalità — e, all’interno di questa prospettiva, cercheremo perciò di mostrare come la giustificazione scientifica del libero arbitrio non si sostenga sull’idea della casualità delle variazioni, ma sulla ‘potenza’ della selettività della facoltà dell’attenzione. Alcuni anni dopo l’uscita dei Principles — ma soprattutto dopo la pubblicazione della Will to Believe — James ricevette altre critiche che lo accusavano d’identificare casualità con libertà, critiche abbastanza incomprensibili dopo una lettura attenta di James, ma giustificate se messe in relazione ad alcuni brani
Ayer sembra non comprendere che per James azione libera non vuol dire affatto azione casuale; in entrambi i casi manca infatti “l’ingrediente” principale della libertà e cioè la responsabilità: La nozione di libero arbitrio è per molti aspetti oscura, ma se c’è qualcosa di chiaro intorno ad essa è che l’attribuzione del libero arbitrio a un’agente comporta la responsabilità di quest’ultimo per le sue azioni. La ragione per cui si è pensato che l’idea del determinismo sia contraria al libero arbitrio è che si presume che, se tutte le nostro azioni fossero causalmente necessitate, noi non potremmo legittimamente essere ritenuti moralmente responsabili per esse. non voglio pronunciarmi qui sulla validità di questa supposizione [mentre James si pronuncia e dice che ovviamente, in un universo totalmente determinato non c’è spazio per la libertà]. Voglio solo dire che certamente la plausibilità di un agente responsabile delle proprie azioni non viene per nulla rinforzata da una concezione casuale dei queste. Da questo punto di vista non sarebbe certo meglio essere dei giocattoli, piuttosto che dei prigionieri, della natura. I sostenitori del libero arbitrio potrebbero dire che queste [necessità e casualità] non sono le uniche alternative. Io penso che si sbaglino. Ivi, pp. 98-99. Anche Madden ritiene che la psicologia della libertà di James si basi sull’errata supposizione che un’azione casuale possa essere più libera di un’azione necessitata: Il tichismo di James e la sua critica al determinismo sono antitetici sia ai principi di Wright che a quelli di Peirce[...] Il caso è solo la negazione del determinismo. James, ovviamente, era interessato al caso e all’indeterminismo come a una condizione per la libertà della volontà e per la responsabilità morale; ma il suo indeterminismo, se vero, negherebbe semplicemente la responsabilità morale in una maniera polare a quella del tradizionale determinismo.[...] Wright, ad ogni buon conto, non pensava che l’indeterminismo di James fosse una soluzione al problema della responsabilità morale di James. egli dubitava infatti che l’esperienza psicologica della libertà morale avesse qualcosa a che fare con la questione della libertà filosofica. E. H. Madden, op. cit., p. 90. [...] La posizione di Ramsey è simile a quelle testé citate, anche se c’è da dire che il suo tentativo di “demolire” l’autonomia dell’uomo è chiaramente finalizzato a dimostrare che per James libertà significa fondamentalmente libertà di seguire la volontà divina: James rappresentò un Sé determinato da un libero gioco di forze, senza alcun sostegno più profondo che le variazioni casuali.. B. Ramsey, op. cit., p. 55. Di fatto il “sostegno più profondo” sta proprio nella selettività della coscienza che sceglie fra le “variazioni spontanee” che le si presentano come alternative di comportamento, un fatto che Ramsey sembra ostinarsi a non comprendere e che lo porta ad affermare che l’immagine della coscienza che emerge dai Principles è sfocata, soprattutto in relazione alla sua autonomia e spontaneità: ma non c’era una chiara autonomia del Sé [nella psicologia dei Principles] [...] sebbene esso mostrasse ammirevoli segni di comportamento, non si sarebbe potuto dire a buon diritto che esso agisse. Ivi, p. 41. 57
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del nostro autore che potrebbero essere in proposito ambigui; scrive Bradley in una lettera a James del 21 Settembre 1897: Mi fa piacere vedere che lei identifichi apertamente la libertà con il caso. Ma non mi sembra che lei realizzi quali ne siano le conseguenze nella scienza o nella morale. Nel primo caso, a me pare che tutta la nostra conoscenza si basi sull’assunto che il caso non esiste. Se una cosa può accadere senza ragione, allora, mi sembra che non si possa affatto parlare di verità58 [...] Poi, per quanto riguarda la morale. Io ho sempre pensato di non essere responsabile perciò che è accidentale. A quanto ho capito, secondo lei, invece, io sarei responsabile di questo soltanto. Ma non mi dà alcuna spiegazione59. James non poteva però dare spiegazioni di una teoria che non gli apparteneva: effettivamente nel Dilemma of Determinism pare che egli identifichi caso con libertà, ma quest’apparenza si tramuta in parvenza non appena si considerino due cose: 1) i motivi che James stesso dichiara di assumere per opporsi al determinismo attraverso l’indeterminismo e senza utilizzare il concetto — divenuto per lui ambiguo a causa dei deterministi ‘morbidi’ — di libertà60; 2) il fatto ch’egli attaccò duramente, nei Principles, una concezione deterministica che interpretava l’effetto come già contenuto nella causa61 non opponendovi il caso assoluto62, il capriccio di Natura, ma la possibilità che, nel gioco degli avvenimenti, trovasse spazio un “nuovo” tipo di causa, normalmente non considerata, e cioè la causa della coscienza63.
Come si noterà, questa è una posizione diametralmente opposta a quella di Lequier-Renouvier che abbiamo descritto al cap. 21, n. vi. A nostro giudizio anche in questo caso l’argomento non è affatto costringente. 58
TCWJ II, p 238. È necessario rilevare che questa lettera di Bradley fu stimolata dalla lettura di quei popular eassays raccolti nel 1897 con il titolo di The Will to Believe. Di quest’opera tratteremo approfonditamente nella prossima e ultima parte della nostra Tesi; avremo quindi modo anche in seguito di trattare dell’apparente identificazione jamesiana della libertà con la casualità, ma ciò che ci spinge qui ad anticipare e ad analizzare le critiche mosse in proposito a James è la ferma convinzione che solo attraverso una lettura attenta di ciò che dice James nei Principles a proposito delle condizioni del libero arbitrio è possibile comprendere il ruolo che l’indeterminismo assumerà nelle sue opere successive, a cominciare proprio da quel saggio sul Dilemma of Determinism cui Bradley si riferisce implicitamente nella lettera succitata. 59
Analizzeremo questi motivi nella prossima parte dedicata — anche — al saggio jamesiano sul dilemma del determinismo. 60
61 La nostra opinione sul libero arbitrio e sulla novità dipende ovviamente dal problema della causalità. Se noi accettiamo la visione intellettualistica e affermiamo il “principio di causalità”, e cioè che l’effetto è in qualche modo già contenuto nella causa, allora “l’effetto non può in alcun modo essere veramente n uovo, e in nessun senso radicale il pluralismo può essere vero”. Allo stesso modo né la novità né il libero arbitrio possono esistere. P. B. Brennan, op. cit., p. 41.
Il determinismo [per James] è coerente solo con il pessimismo più radicale o con una rassegnazione di stampo romantico. Ma se i giudizi morali debbono avere un senso, deve esserci nell’universo uno spazio per l’incertezza; questo non comporta che l’universo debba essere totalmente casuale, ma solo che si diano delle effettive possibilità di scelta. R. Hofstadter, op. cit., p. 130. 62
Ma non solo James riteneva che la coscienza fosse causalmente efficace; egli era convinto del fatto che concetto di causalità fosse nato nella mente dell’uomo proprio in seguito all’osservazione introspettiva dell’attività della coscienza; sarebbe stato perciò assurdo non applicare il concetto di causalità alla coscienza: Tutti i razionalisti avevano sostenuto che la causalità si dovesse dedurre dalla successione, ma James riteneva che essa fosse esperita nella sua attività personale. G. W. Allen, op. cit., p 510. Nell’esperienza di un cambiamento in vista di un fine [i.e. l’azione della volontà] con la resistenza offerta dalla realtà, noi troviamo l’origine della nostra nozione di causalità. P. K. Dooley, op. cit , p. 147. Ma 4 non solo: in questa esperienza dell'efficacia causale noi abbiamo una conoscenza diretta della nostra esperienza morale e della realtà della novità nel mondo. Cfr. Dooley, op. cit., p. 148. L’idea di libertà sembra perciò essere legata più a quella di causa che a quella di caso! 63
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[...] James nota inoltre che l’attrattiva dell’epifenomenismo è dovuta di fatto alla difficoltà di concettualizzare come la coscienza possa esercitare un’influenza causale. Ma, replica James, da quando Hume ha esposto la sua analisi della causalità è rimasta una notevole vaghezza riguardo a ogni sorta di relazione che può essere considerata causale. Perciò, è errato ritenere che si abbia un chiaro e rigoroso concetto di causalità applicabile alla sola realtà fisica. [...] Fino a quando una rigorosa chiarificazione del concetto di causazione non ci obblighi a scartare la possibilità di parlare della coscienza come causalmente efficace, noi dobbiamo continuare a pensare con l’idea che la coscienza è una forza causale, poiché questa è la strada che ci viene indicata dal senso comune64. È ovvio però che qui si tratta effettivamente di un nuovo tipo di causa, che produca effetti, ma che non sia allo stesso tempo effetto necessario di una causa precedente. Chi crede nella libertà della volontà certamente deve ripudiare la nozione di una preesistente sostanza dalla quale “l’intero flusso dell’esistenza” procede e deve negare che esista una qualche reale cogenza nella relazione della causa con l’effetto65. James si rende conto dello sconvolgimento che quest’idea di causa può portare nella mente di uno scienziato — come di un filosofo — , ma allo stesso tempo tenta di attutirne la rivoluzionarietà; verso la fine del paragrafo settimo del XXVI capitolo dei Principles, dedicato proprio al tema della libertà del volere umano, egli cerca di “rassicurare” lo psicologo che vede nel determinismo psichico l’unica possibilità di mantenere le proprie conclusioni su un piano scientifico:
64 J. K. Roth, op. cit., p. 29. A meno che la mente, la natura e la storia non siano considerati sinonimi, non c’è ragione per non sperare che l’azione dell’uomo possa rompere il ciclo meccanici di causa ed effetto e diventare essa stessa una causa principale. P. K. Diggins, op. cit., p. 109. Abbiamo detto all’inizio del capitolo che fu sicuramente un’ingenuità di James quella di credere di potere scrivere un testo di psicologia senza “contaminarlo” con questioni metafisiche; è evidente infatti che anche un approccio “naturalistico” come quello utilizzato, almeno nelle intenzioni, nei Principles, può ritenersi “neutrale” solo dopo ch’esso è stato scelto fra tanti possibili. Altrettanto ingenuamente James pensava di affidarsi al senso comune per alcune questioni psicologiche di rilevante importanza — come quella dell’efficacia della coscienza — pensando di poter evitare una qualsiasi giustificazione epistemologica: James sentiva una particolare tenerezza per Hume, per il fatto che questi aveva fornito degli strumenti per combattere il monismo e il determinismo. [James] concludeva il suo corso di filosofia inglese con queste parole: “La filosofia di Hume è utile come protesta contro lo spirito hegeliano. Sarebbe necessaria unirla al libero arbitrio, come non è possibile per nessuna delle filosofie assolute”. TCWJ I, op. cit., p. 552. A proposito dell’importanza del ruolo di opposizione al determinismo svolto da Hume cfr. J. B. Shouse, David Hume and William James; A Comparison, “Journal of the History of Ideas”, 13 (1952), pp. 514-527. Flanagan ha interpretato abbastanza negativamente l’utilizzo jamesiano della demolizione operata da Hume sul concetto di causalità: L’accettazione della dottrina humeana secondo la quale ogni tipo di causalità è misterioso gli dà grande spazio per agire. O. Flanagan Consciousness as a Pragmatist Views it, In R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 37. 65
W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p.
323.
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La psicologia sarà psicologia e la scienza sarà scienza come lo sono sempre state (né più né meno) a questo mondo, che il volere sia libero o no [whether free-will be true in it or not]. La scienza, comunque, deve costantemente tenere a mente che i suoi scopi non sono gli unici e che l’ordine di causazione uniforme di cui essa si serve, e che ha perciò il diritto di postulare, può essere racchiuso in un ordine più ampio, su cui essa non ha alcuna autorità66. Questo ‘ordine più ampio’, com’è facilmente immaginabile (e come vedremo meglio nell’ultima parte) è quell’ordine morale cui condizione necessaria è proprio la libertà del volere umano67. Questo brano è per noi di notevole interesse per differenti motivi: prima di tutto esso rappresenta uno dei pochi passi dei Principles dedicati esplicitamente al tema del libero arbitrio che solitamente viene svolto da James in maniera implicita, quasi nascosta68; in secondo luogo, qui si comprende chiaramente come per lo psicologo americano l’uniformità e l’universalità del principio di causazione rappresentino non una verità indiscutibile, ma piuttosto un utile strumento con cui lavorare: un postulato69, o piuttosto, “un altare a un dio sconosciuto”70:
PP, p. 1179. Questo [la possibilità di comportamenti liberi] non significa che le connessioni causali e le leggi rilevate dalle scienze vengono così violate, ma piuttosto che queste relazioni debbono essere comprese in un orizzonte di significato più ampio costituito dalle libere scelte umane. J. K. Roth, op. cit. p. 40. James sottolinea che, sebbene l’anima possa esistere e possa essere un’utilissima ipotesi, la psicologia non deve però assumerla come reale. La psicologia come scienza può tranquillamente essere deterministica, anche se l’uomo fosse libero. P. K. Dooley, op. cit., p. 18. In breve James riteneva che il determinismo fosse un ‘abito’ naturale per lo scienziato, ma allo stesso tempo pensava che la psicologia dovesse avere ambizioni differenti, se non superiori, a quelle della fisica: L’aspirazione finale della fisica è di trovare le cause immutabili eterne dei processi della natura. Se tutti i processi possano realmente essere attribuiti a tali cause, se, in altri termini, la natura sia completamente intelligibile, o se invece vi siano cambiamenti che eludono la legge di una causalità necessaria, e cadono in un regno di spontaneità o di libertà, non è qui il luogo di stabilire; ma ad ogni modo è chiaro che la scienza, il cui fine è di rendere la natura intelligibile, deve partire dalla supposizione della sua intelligibilità [...] il postulato che i fenomeni naturali devono essere ridotti a cause ultime immutabili si trasforma quindi in quello che forze immutabili dal tempo debbono essere tali cause. PP, p. 1261. 66
67 James non pensava affatto che la natura non avesse delle rigide leggi causali, ma pensava che quest’ordine dell’universo fosse inserito in un ordine ‘più ampio’. Questo ‘ordine più ampio’ che James aveva in mente era l’ordine morale, dove libertà e conseguenze morali sono le caratteristiche dell’azione umana.. D. S. Browning, op. cit. p. 131. Anche J. K. Roth sottolinea, con le parole di James, il medesimo fatto: dire che l’uomo è libero non significa che le connessioni causali e le leggi rilevate dalle scienze vengono così violate, ma piuttosto che queste relazioni debbono essere comprese in un orizzonte di significato più ampio costituito dalle libere scelte umane. J. K. Roth, op. cit., p. 40.
Questo è uno dei motivi per cui alcuni critici hanno ritenuto che il problema della libertà del volere umano sia marginale nella struttura dell’opera; di fatto James era consapevole che un atteggiamento più scoperto avrebbe attirato su di lui numerosissime critiche — che comunque non mancarono affatto, come abbiamo potuto vedere — , ma soprattutto era consapevole che approfondire questo argomento in un’opera di psicologia non gli avrebbe permesso di mantenersi su quel piano di “neutralità” che si era proposto fin dalla prefazione. Infine era conscio del fatto che avrebbe avuto maggiore possibilità di farsi comprendere in un’opera dedicata esplicitamente — almeno in alcune sue parti — al tema della libertà e del determinismo. 68
69 L’“assunto” di una fissità delle leggi di natura è così un postulato, come l’assunto di una legge d’indeterminazione potrebbe essere un postulato morale che utilizziamo in riferimento a certe decisioni dell’uomo. Questi due presupposti sono entrambi veri nella propria sfera o il determinismo è universale? Dal momento che nessun uomo può decidere empiricamente, bisogna rimanere per sempre nell’incertezza o bisogna anticipare l’evidenza e decidersi coraggiosamente per una delle due alternative? W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 325. Riprenderemo le parole di questo interessante saggio di James verso la fine dell’ultima parte, quando tratteremo della scelta coraggiosa e inevitabile che l’uomo deve compiere una volta riconosciuta l’impossibilità di stabilire la questione della libertà e del determinismo su un piano puramente empiricointellettuale. Per quanto riguarda la deminutio del principio di causalità a postulato, certamente James era in parte debitore all’amico Peirce: Quando ho chiesto a uomini di pensiero che ragione essi avevano per credere che ogni fatto nell’universo è determinato
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Per quanto insufficienti possano essere le nostre idee sull’efficacia causale, siamo meno lontani noi dal punto finale, quando diciamo che le idee e i sentimenti hanno questa efficacia, che gli automatisti quando la negano. Allo stesso modo che di notte tutti i gatti sono grigi, nell’oscurità del criticismo metafisico tutte le cause sono dubbie. Ma non si ha il diritto di gettare il manto funerario sulla metà psichica del soggetto soltanto, come fanno gli automatisti, né di dire che quella causalità è inintelligibile, mentre nello stesso momento si dogmatizza circa una causalità materiale, come se Hume, Kant, Lotze, non fossero mai esistiti71. E ancora: Il principio dell’uniformità della natura [...]deve essere ricercato al di sotto e a dispetto delle più ribelli apparenze; e la nostra condizione della sua verità è molto maggiormente simile ad una fede religiosa, che all’assentimento a una dimostrazione72. Infine William James ipotizza un ordine di fenomeni più ampio di quello considerato abitualmente dall’uomo di scienza che non sia contraddittorio ma complementare a questo, un mondo “altro”, più
precisamente da una legge, la prima risposta è stata di solito che la proposizione era una “presupposizione” o un postulato del ragionamento scientifico. Ebbene, se questo è il meglio che si possa dire di essa, la credenza è condannata. Supponiamo che essa sia “postulata”: ciò non la rende vera, né ci dà il minimo motivo razionale per darle credito. [...] “Postulare” una proposizione non significa altro che sperare che sia vera.. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 50. Poche pagine prima Peirce aveva ricordato come molti filosofi del passato non accettassero affatto la dottrina deterministica: tra questi Aristotele ed Epicuro. Cfr. ivi, pp. 128-129. Sebbene le parole di James siano successive di due anni alla pubblicazione dei Principles è indubbio che James poté venire a conoscenza del pensiero dell’amico ben prima, sia nelle riunioni del Metaphysical Club (cfr. infra, cap. 4.1, § 1), sia durante le loro conversazioni a due. Ma non dobbiamo dimenticare, senza per questo sottovalutare l’importanza di Peirce, che James poteva trovare conferma e appoggio alla propria posizione rispetto al principio di causalità anche in molti altri autori: Scienza e religione, secondo Romanes, trovano la loro ultima giustificazione in una sorta di fiducia, in un’intuizione arricchita dall’esperienza, in breve, nella fede. La credenza nella causalità universale, dopo tutto, è una credenza in qualcosa che non ci è dato vedere. R. J. Richards, op. cit., p. 373. 70 James utilizza quest’espressione nell’ultimo capitolo dei Principles, a proposito di quelli ch’egli chiamava metaphysical axioms: Si prenda per esempio il principio che “niente può accadere senza una causa”. Noi non abbiamo alcuna idea definita di che cosa si debba intendere per causa o di che cosa essa consista; ma il principio esprime la richiesta di qualche connessione interna più profonda fra i fenomeni della loro contiguità temporale. La parola “causa” è, in breve, un altare a un dio sconosciuto. PP, p. 1264. In sostanza, la parola causa può sottendere connessioni di tipo diverso, ma egualmente forti. È un pregiudizio scientifico, o piuttosto metafisico, che l’unico tipo di causalità sia quello che utilizziamo per descrivere i fenomeni fisici e che quindi anche la coscienza debba essere spiegata alla stregua di un complesso meccanismo; questo è forse il pregiudizio più grande che la teoria dell’automatismo conscio porta in seno, ormai senza accorgersene. A proposito dei mataphysica axioms in relazione alla teoria pragmatica della verità Cfr. J. Ayer, op. cit.., pp. 198- 199. A p. 1179, n. 71, dei Principles, James cita Spencer come tipico rappresentante di quella scienza che si sente perduta senza la certezza dell’universalità del principio di causa-effetto. Ma, allo stesso modo, avrebbe dovuto allora citare anche il suo vecchio amico Chauncey Wright; anch’egli infatti riteneva che non fosse possibile fare scienza senza certezza sull’universalità della causazione: La speranza principale di tutta la scienza sperimentale, la sua speranza di comporre le varie scienze in una vera filosofia della natura, è basata sull’induzione o, sulla presupposizione a priori, dell’universalità della causalità fisica.. C. Wright, The Genesis of Species, in id., op. cit., p. 131. 71
PP, p. 140.
72
Ivi, p. 1233.
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vasto di quello che sia consentito studiare dalla psicologia “naturalisticamente intesa”73 e cui James cercherà di dare forma nelle ultime opere74. A questo proposito potremmo dire che James fu veramente discepolo di Renouvier, in una maniera che, vista la scarsa conoscenza del pensiero del secondo, viene raramente considerata: per il filosofo francese la dottrina della libertà è contraria alla dottrina del caso come lo è a quella della necessità; libertà significa “potere attivo” e non la “libertà d’indifferenza” tanto attaccata dai deterministi75.
Come abbiamo già detto, e come dovrebbe risultare pacifico, anche il caso, come la necessità, è ostile alla libertà, dal momento che nega all’uomo un reale potere decisionale. James ipotizza dunque l’esistenza di diversi tipi di connessione fra i fenomeni76, rinunciando così al fascino di demolire il concetto di causalità fisica che starebbe alla base di ogni altro tipo di causalità: in questo caso infatti, anche se si riuscisse a dimostrare che la biologia sia interamente riconducibile alla chimica e questa a sua volta alla fisica, questo non farebbe piazza pulita del concetto di indeterminazione, dal momento che non è detto che le leggi della fisica non possano essere di tipo probabilistico, ma ciò aprirebbe la strada per una casualità e non per una responsabilità del comportamento umano. Al contrario, per James — come vedremo meglio anche analizzando la Will to Believe — l’indeterminazione dell’universo è da considerarsi come conseguenza della libertà dell’uomo e non come premessa.
La grandezza di James sta comunque nell’essere riuscito a mostrare la non contraddittorietà di una psicologia indeterministica: La psicologia può essere deterministica, ma anche offrire una valida ipotesi dell’uomo come essere libero. P. K. Dooley, op. cit., p. 19. 73
Anche Roth sottolinea il fatto che per James scienza e libertà non debbano darsi battaglia, ma debbano essere comprese entrambe all’interno di una più ampia visione della realtà; pensare che non sia possibile scienza senza determinismo, o pensare che il rapporto di causa ed effetto venga definitivamente infranto a causa dell’introduzione di un elemento di libertà nel mondo, questo è l’errore più grande per James. Cfr. J. K Roth, op. cit, pp. 41 e sgg. 74
Il pensiero di Renouvier a questo proposito si trova nei capitoli 13 e 14 del Traité de psychologie rationelle; questi capitoli, come ricorda Richards, furono quelli che più di tutti catturarono l’attenzione di William James. Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 419. 75
È ovvio che per un hard determinist o le cose avvengono causalmente o casualmente: tertium non datur; per James le cose non stanno così e proprio in questo sta gran parte della difficoltà di comprendere il suo pensiero in proposito: la rivoluzionarietà del pensiero di James non sta nella sua opposizione al determinismo, ma nella sua opposizione alla irriducibile opposizione fra determinismo e indeterminismo; è quindi evidente che, per un determinista non ha alcun senso parlare di una causalità “altra”; da questa prospettiva, James non può che essere considerato un sostenitore del caso contro la necessità: Quel che in realtà interessa maggiormente a James è mostrare che solo uscendo dalle strettoie della rigida opposizione di determinismo e indeterminismo è possibile avviare un discorso etico atto a render conto della “naturale” tendenza umana a giudicare le azioni in termini di ‘male’ o di ‘bene’, evitando sia la dogmatica negazione della libertà individuale, sia l’assimilazione della libertà alla mera casualità. Certamente il ‘caso’ non va escluso dalla sfera del comportamento, né si può pensare che esso non faccia parte dela vita dell’universo. A differenza di coloro che, strenuamente attaccati all’immagine razionale delle cose, lo considerano solo come un alcunché di affatto negativo, di intrinsecamente assurdo e irrazionale, colui che crede in un mondo aperto a diverse possibilità deve ammetterlo come elemento costitutivo della relativa discontinuità delle cose, del loro carattere non del tutto “controllato, garantito, necessitato da altre cose”. Supporre l’azione del caso non significa altro che accettare l’incertezza del corso della realtà non meno delle nostre future volizioni; R. M. Calcaterra, op. cit., pp. 45-46. 76
249
L’esistenza della libertà richiede una misura d’indeterminazione nell’universo, ma non potrebbe esistere se l’universo fosse completamente indeterminato. I nostri atti di libertà sono l’inizio di catene di conseguenze e non avrebbe senso se le loro conseguenze non fossero soggette al rapporto di causa ed effetto. “Gli atti liberi non sono effetti senza causa; la loro causa è l’uomo, l’unione e la pienezza delle sue funzioni [...]”77.
3.2.4 Attenzione come variabile indipendente Dopo quanto detto, dovrebbe allora apparire chiaro che James non cercava affatto nelle darwiniane variazioni spontanee quella casualità ch’egli ‘temeva’ tanto quanto la ferrea necessità; questa considerazione inoltre eccede i limiti di una giustificata ‘deduzione testuale’: il nostro autore non lascia alcun dubbio in proposito, egli infatti riconosce il fatto che Darwin non attribuiva alle variazioni spontanee una effettiva casualità ontologica, ma, potremmo dire, una casualità gnoseologica, dovuta cioè alla nostra ignoranza delle verae causae e non a un’assenza di esse78 Insieme con Ford, possiamo dire che in James, in un vivido parallelismo con la teoria biologica darwiniana, la libertà si racchiude nella selezione delle novità e non nella loro produzione:
Facendo riferimento alle nozioni darwiniane di ‘variazioni spontanee’ e ‘selezione naturale’, James fa una distinzione tra le cause che producono le novità e quelle che mantengono la novità ch’è stata prodotta79.
77 W. Logue, op. cit., p. 91. Richards, studioso che più di tutti si è recentemente occupato dell’influenza di Darwin su James, non esita a riconoscere l’importanza del filosofo francese in proposito: Nei capitoli del Traité [de psychologie rationelle] che catturarono l’attenzione di James (capp. 13 e 14) Renouvier analizza due opposte teorie della volontà, quella del determinismo e quella della libertà d’indifferenza. Egli le trovava entrambe inaccettabili. [...] Essi [i sostenitori della libertà d’indifferenza:] dotano l’uomo d’una volontà pura, indifferente e non influenzabile da alcun motivo, intellettuale o passionale. La loro teoria della libertà comunque, nega che all’uomo si possa attribuire la responsabilità dei propri atti. La libertà diventa in questo senso identica al caso. R. J. Richards, op. cit., p. 419. Questo brano, come quello citato nel corpo del testo, mostra che il pensiero di Renouvier è molto più complesso e articolato di quanto gli stessi sostenitori della teoria “classica”, quella che abbiamo definito intellettualistica, siano riusciti a mostrare: L’atto di creazione dell’universo è così replicato [...] in ogni atto di libero arbitrio. Ogni atto di libero arbitrio è la creazione di una nuova serie di fenomeni, una serie che altrimenti non sarebbe esistita. Queste nuove catene di causa ed effetto non sono semplicemente dell’intersezione di serie esistenti ma indipendenti [...] essi devono essere veri cominciamenti, frutto di una congiuntura in cui, dati gli antecedenti, più i una conseguenza sarebbe possibile: “futuri ambigui”, li avrebbe chiamati Renouvier. La libertà è la capacità di scegliere uno o l’altro di questi futuri.. W. Logue, op. cit., p. 92. 78 In una breve nota posta all’inizio dell’ultimo capitolo dei Principles, James scrive, a proposito delle congenital variations: ‘Accidentale’, nel senso darwiniano, significa che appartiene a un ciclo di causazione che rimane inaccessibile all’attuale ordine di ricerca. PP, p. 1216, n. 1. Anche in seguito James sottolinea la nostra ignoranza delle cause delle variazioni e non l’assenza di esse: Le cause di variazione nei nati sono d’altra parte di origine molecolare e recondita. Ivi, p. 1128. 79 M. P. Ford, op. cit., p. 29. Anche Wiener è molto chiaro al riguardo: Nello studiare l’effetto delle idee darwiniane sul pragmatismo di James, dobbiamo continuamente tenere davanti ai nostri occhi i due aspetti del darwinismo, o meglio, della teoria della selezione naturale: 1) l’idea di variazioni casuali e perciò spontanee; 2) L’idea dell’azione delle condizioni ambientali nel selezionare quelle variazioni che hanno un valore di sopravvivenza e nell’eliminare le altre. P. Wiener, op. cit., p. 103. Ovviamente, pur seguendo questa analogia, dobbiamo aggiungere che le variazioni spontanee per James vengono selezionate non solo ‘dall’esterno’, ma anche ‘dall’interno’; e proprio qui sta la possibilità di introdurre un elemento di libertà nella vita dell’uomo. Se le variazioni spontanee finissero semplicemente nel meccanismo deterministico delle leggi di adattamento fra interno ed esterno all’uomo non rimarrebbe alcuno spazio di movimento autonomo, come infatti credeva Darwin. la temporalizzazione della catena dell’essere nelle idee darwiniane di variazioni casuali e di selezione naturale attraverso l’azione dell’ambiente, implicava la 250 dissoluzione del suo rigido, intimo determinismo, introducendo un elemento di vera novità. Ivi, p. 13.
Quella sorta di variazioni spontanee che sono le immagini e i pensieri che si affacciano alla mente dell’uomo nel momento in cui egli deve prendere una decisione non sono la “causa” della decisione presa — ci troveremmo qui in una situazione identica a quella dell’automatismo conscio, che dovrebbe però spiegare, giusta questa casualità, la coerenza del comportamento umano — , ma rappresentano le possibilità, il “materiale”, tra cui la coscienza, per il tramite dell’attenzione, può selezionare quella che ritiene giusta. Uno dei principali meriti che Peirce era convinto di poter trarre dalla sua posizione era che, attenuando la forza della necessità, si sarebbe potuto lasciare spazio per la libertà del volere. Quest’idea è stata ampiamente condivisa, ma io penso che si tratti di un errore. In primo luogo, anche se fosse certo che si diano eventi casuali, si dovrebbe dimostrare che le azioni umane siano fra questi. Ma un’obiezione ancor più seria è che anche qualora avessimo motivo di ritenere che alcuni azioni umane avvengono per caso, ciò non porterebbe a concludere alcunché in favore delle tesi dei sostenitori del libero arbitrio80. L’analogia tra la psicologia (o meglio psico-fisiologia) della decisione di James con le categorie darwiniane, ha portato alla confusione di ritenere che la possibilità libertà stia per James nell’instabilità fisiologica del cervello (e psicologica della mente), cioè nelle variazioni spontanee, mentre essa sta nella possibilità, che non può essere certamente dimostrata, che fra queste varie possibilità, l’attenzione si concentri spontaneamente su una soltanto e, una volta che sono stati “scacciati” pensieri e idee contrastanti, nella maniera che abbiamo descritto come movimento ideo-motorio, dia finalmente il via all’azione81. Come già rimarcammo trattando inizialmente dell’importanza dell’attenzione nella psicologia jamesiana, la volontà non consiste nel dare vita a una speciale corrente di energia, ma nel selezionare le idee per il tramite dell’attenzione82 e la volontà libera consiste nel selezionare liberamente queste idee. L’importanza di questa distinzione balza agli occhi quando si leggano le interpretazioni di chi vuole vedere nelle sole variazioni spontanee — applicate alla fisiologia nervosa — il nucleo darwiniano della psicologia jamesiana della volontà
80
J. Ayer, op. cit., pp. 98-99.
81 La coscienza può stabilizzare un cervello instabile, può agire in un modo o nell’altro; può soffermarsi sulla parte del flusso di pensiero da essa scelta D. Bjork, op cit., p. 226. L’utilità della coscienza, che avevamo visto essere fondamentale — in una prospettiva squisitamente darwiniana — per dimostrare la sua efficacia e fuggire quindi dalle strettoie dell’epifenomenismo, si mostra ora essere racchiusa proprio nel cuore della sua attività e cioè nella scelta volontaria compiuta per il tramite dell’attenzione. 82 P. K. Dooley, op. cit., p. 58. La teoria del flusso di coscienza di James considera che il libero arbitrio e il relativo sentimento di sforzo debbano essere spiegati in termini di attenzione. Ivi, p. 64.
251
[...] James rappresentò un Sé determinato da un libero gioco di forze, senza alcun sostegno più profondo che le variazioni casuali83. È però evidente che questo sarebbe un ben fragile sostegno...Ramsey, teso a mostrare come l’evoluzionismo darwiniano non avrebbe potuto portare che a un determinismo assoluto o a un assoluto caos e, soprattutto, teso a mostrare il fallimento del tentativo di James di trovare, coi Principles, una base scientifica per una psicologia che desse un’immagine libera e indipendente della coscienza umana, finisce per trasmettere un’immagine incomprensibile del pensiero del nostro autore: egli afferma che James individua nelle variazioni spontanee nervose l’essenza della libertà dell’uomo e poi si chiede: ma come possiamo avere un controllo di queste variazioni se sono spontanee? Evidentemente non possiamo e visto che la libertà non è pensabile senza controllo, la conclusione sarebbe che James ha strappato l’uomo dalla morsa della necessità deterministica per farlo cadere nelle mani del caso. Al contrario le associazioni di idee — corrispettivo psicologico della più evoluta attività cerebrale — non sono che il materiale che deve essere controllato dalla volontà dell’uomo. Nei Principi di psicologia, la libertà è strettamente correlata alla coscienza. La coscienza selettiva è la fonte della libertà, e la libertà pervade tutta la nostra vita attraverso la nostra capacità di concentrarci su idee e progetti84. Come abbiamo detto in precedenza, elencando i quattro presupposti di una volontà libera, James riteneva che la facoltà dell’attenzione dovesse poter scegliere fra diverse alternative. Nell’azione riflessa non vi è nulla di sacro e di eternamente determinato. Qualunque sorta di azione riflessa è possibile, ed effettivamente, come sappiamo, i riflessi variano all’infinito85. Se è vero che le “variazioni spontanee” del cervello possono essere considerate un “aiuto” affinché queste alternative aumentino di numero e siano varie, è altrettanto vero che non è per James necessario che siano casuali: purtroppo il pensiero di James non è affatto chiaro in proposito; a volte sembra effettivamente che senza una casualità “di base” non ci sia effettivamente possibilità di scegliere, ma da un’attenta lettura dei testi sembra che le cose non stiano affatto così: ciò che è importante è che queste variazioni siano “spontanee” e che cioè si presentino spontaneamente alla mente che deve decidere: senza che questa sia obbligata a sceglierne una piuttosto che un’altra; è infatti evidente che, anche nel caso che le “variazioni spontanee” che si affacciano alla coscienza fossero effettivamente casuali, la 83
B. Ramsey, op. cit., p. 55.
84
J. K. Roth, op. cit., p. 105.
85
PP, p. 1069.
252
libertà svanirebbe se l’attenzione fosse “portata”, o potremmo più chiaramente dire obbligata, a concentrarsi su una piuttosto che sull’altra.
La libertà infatti non sta allora nello scegliersi le alternative — che possono essere determinate o casuali senza rilevante importanza — quanto nel scegliere tra le alternative. Darwinianamente parlando, per James il “mistero” della libertà si sposta dalle cause delle variazioni spontanee ai motivi della selezione. È questo un cambiamento di prospettiva che non ci pare sia mai stato posto in luce e proprio a motivo di ciò numerosi sono stati i fraintendimenti di chi voleva leggere James con gli occhiali di Darwin. Una volta che abbiamo accertato, e James lo ha fatto — come può farlo chiunque attraverso l’introspezione — che la coscienza si trovi, soprattutto in determinate situazioni (quelle che non vengono “seguite” per abitudine o per istinto senza che questo ci provochi alcun imbarazzo, morale o intellettuale) di fronte a differenti alternative, il problema è quello di capire se la nostra attenzione sia libera o meno di concentrarsi su una di queste alternative o se vi sia “portata” naturalmente, in una maniera che quindi, dietro il suo essere un’operazione indiretta, nasconderebbe la stessa necessità delle azioni istintive o degli archi riflessi.
È dunque l’attenzione (i. e . selezione) e non le alternative ( i. e. variazioni spontanee) ciò che deve essere una variabile indipendente: L’atto morale è quello di esercitare la nostra attenzione. [...] lo sforzo che questa attenzione implica sembra essere indeterminato nella quantità, come se noi potessimo esercitarne di più o di meno. Se esso fosse veramente indeterminato [e quindi fosse indeterminata l’attenzione di cui il feeling of effort è un sintomo] i nostri atti futuri sarebbero ambigui, non predestinati: secondo il comune linguaggio [e il senso comune] la nostra volontà è libera. Se la quantità di sforzo [necessario a fissare l’attenzione su un’idea] non fosse indeterminato, ma legato, in maniera stabile, alle idee stesse, in tale maniera che qualsiasi idea che entri nella nostra coscienza ogni volta fosse predestinata a entravi dall’eternità, richiedendoci l’esatto sforzo di attenzione, né più né meno, che noi esercitiamo, allora, in questo caso, la nostra volontà non sarebbe libera, e i nostri atti sarebbero preordinati. La questione della volontà libera è così estremamente semplice. Essa si lega esclusivamente alla quantità di sforzo d’attenzione che noi possiamo esercitare a ogni momento. La durata e l’intensità di questo sforzo sono funzioni fisse dell’idea cui si rivolge la nostra attenzione o no? Ora [...] sembra che l’attenzione sia una variabile indipendente, come se in un dato momento potessimo aumentare o diminuire il nostro sforzo.[...]86. Io confesso di credere nel libero
Il brano continua così: Quando un uomo ha lasciato scorrere i suoi pensieri per giorni e settimane fino a che essi culminano in un qualche atto crudele, meschino o codardo, sarebbe difficile persuaderlo, nell’angoscia dei suoi rimorsi, che egli non avrebbe potuto fare altrimenti; sarebbe duro fargli credere che l’intero universo (con cui stridono le sue azioni) avesse avuto bisogno di lui a quel dato momento e che le cose non sarebbero potute andare altrimenti. W. James, What the Will Effects, in EPS, p. 231. 86
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arbitrio, ma tale questione non potrà mai essere decisa su una pura base empirica o con evidenza scientifica; e libertà e indeterminismo, come convinzioni attuali, probabilmente saranno sempre ciò che sono oggi, postulati di razionalità, propriamente, differenti assunti che differenti pensatori fanno propri, perché così ogni uomo è in grado di racchiudere il mondo in ciò che gli sembra essere la forma più intelligibile87. Siamo giunti così al termine del lungo cammino percorso da James nel tentativo di mostrare la plausibilità di una coscienza che — attraverso l’attenzione della volontà — agisca liberamente; il brano dianzi riportato riassume efficacemente la posizione dello psicologo americano: egli dichiara esplicitamente la propria posizione riguardo al problema del libero arbitrio: si tratta di una posizione giustificabile dal punto di vista scientifico, ma non dimostrabile88: [...] Dovremmo risalire agli antecedenti dello sforzo e definirli con esattezza matematica, provare, per via di leggi di cui non abbiamo neppure un lontano sentire, che il solo grado di sforzo efficace che fosse possibile adoperare per esso, era quel grado preciso che fu realmente adoperato. Le misure di quantità psichiche e nervose, e i ragionamenti deduttivi quali implica un tal mezzo di prova, oltrepasserebbero certo i problemi dell’uomo89. Ma la l’originalità dello sforzo dell’attenzione — che dimostrerebbe la non predeterminazione dell’atto di pensiero — non sfugge alla nostra conoscenza solo per l’enorme difficoltà nell’analizzare “le misure di quantità psichiche e nervose”. Abbiamo detto che dimostrare la libertà dell’atto di pensiero vorrebbe
W. James, What the Will Effects, in EPS, pp. 230-231. Nel suo capitolo [dei Principles] sulla volontà, James afferma che l’essenziale atto di volontà è la selezione di un particolare fine come oggetto dell’attenzione. Questo fine agisce come selezionatore di quegli atti che possono far raggiungere l’obbiettivo. All’interno di questo schema poi, James può ridurre l’intera questione del libero arbitrio alla questione del se i nostri sforzi per il raggiungimento di un fine abbiano una minima influenza sulla nostra tendenza di raggiungere il fine. Il senso comune dice che l’hanno e nella teoria selettiva di James questo è sufficiente per fornire una possibilità, per quanto piccola, di efficacia causale J. J. Schull, Selection — James’s Principal Principles, in M. E. Donnelly (a cura di) Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 146. 87
88 Fin dalla sua Psychology [i Principles] James ritiene che i dati fornitici dall’introspezione non possono giustificare completamente una visione interazionistica dell’uomo in cui la coscienza sia effettivamente efficace. Comunque, egli continua a ritenere vera l’esistenza del Sé e giunge ad affermare che la selettività empirica della coscienza, controllata dagli interessi e dai propositi del Sé, operanti attraverso il meccanismo dell’attenzione, depongono a favore dell’efficacia della coscienza e perciò di una visione interazionistica dell’uomo. P. K. Dooley, op. cit., p. 165. A nostro giudizio, Dooley commette qui un errore abbastanza comprensibile (e comune), ma non giustificabile: anche noi abbiamo detto che James ritiene che la coscienza non sia dimostrabile, ma abbiamo anche visto ch’egli conclude, applicando alla psicogenesi la teoria evoluzionistica darwiniana, di avere raggiunto una dimostrazione ‘circostanziale” — che a volte sembra per il nostro autore essere il massimo cui può aspirare la scienza psicologica. In altre parole, bisogna distinguere nettamente fra lo scetticismo riguardo all’efficacia della coscienza (i. e. interazionismo) e quello riguardo alla sua libertà. Per James abbiamo molti motivi scientifici per pensare la coscienza come efficace, mentre non ne abbiamo per considerarla libera. Roth ha invece le idee molto chiare in proposito: Comunque, una cosa è pensare che la coscienza sia efficace e un’altra e sostenere la visione secondo cui gli atti della coscienza non sono parti di una sequenza rigidamente determinata. J. K. Roth, op. cit., p. 38. Si tratta di una differenza importante anche perché solo in virtù di essa è possibile separare il problema dell’interazionismo da quello dell’indeterminismo mettendo il primo al riparo dello scetticismo ‘radicale’ che colpisce l’ultimo. L’interpretazione di Dooley sembra poi essere in parte spiegabile con il fatto ch’egli ritiene la psicologia di James ‘incompiuta’ fino alla pubblicazione di A Pluralistic Universe (cfr. P. K. Dooley, op. cit., p. 165.); si tratta di uno spunto critico moto interessante, ma, visti i limiti della nostra tesi, che non prende in considerazione gli scritti jamesiani successivi alla Will to Believe, non possiamo qui approfondirlo. 89
PP, p. 1176.
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dire dimostrare che lo sforzo di attenzione necessario per fissare nella nostra attenzione una certa idea non era predeterminata90, ma questo è impossibile e non tanto per la ‘delicatezza’ del fenomeno da indagare91 — come sembrerebbe indicare il brano succitato — quanto per la caratteristica stessa dello stream of consciousness che comprende l’atto di pensiero potenzialmente libero. Verificare l’esistenza di una quantità di sforzo attentivo superiore a quello implicito in una data idea vorrebbe dire potere annullare psicologicamente e fisicamente l’esistenza di un ‘tratto’ del nostro flusso di pensiero, un’operazione ch’è giudicata da James impossibile92. Ancora una volta è la fisiologia nervosa ad aiutare James a giustificare e a spiegare un fenomeno apparentemente indagabile da un punto di vista squisitamente psicologico; abbiamo detto sopra che per James ogni atto mentale ha un corrispettivo cerebrale, e perciò qualsiasi esperienza fatta dall’uomo lascia un’impronta fisiologicamente indelebile, anche qualora quest’esperienza venga strappata alla ritenzione mnemonica dell’individuo. L’esperienza fatta lascia la sua “inimmaginabile impronta” sulla sostanza delle circonvoluzioni e l’impressione che lo stesso organo di senso trasmette successivamente provoca una reazione cerebrale in cui ha una certa parte la traccia risvegliata dell’ultima impressione93. Quell’ignoramus che tante volte emerge dalle pagine dei Principles diventa allora un vero e proprio ignorabimus. Questa potrebbe sembrare una grave debolezza della teoria psicologica di James e in parte certamente lo è, ma è altrettanto vero ch’essa rappresenta poi il prezzo che il nostro autore dovette pagare per il suo coraggioso tentativo di dare forma a una psicologia che si affidasse a un sapiente utilizzo della psicologia comparativa, di quella introspettiva e di quella sperimentale. Pretendere da James la soluzione definitiva di certi problemi equivarrebbe ad annullare la consapevolezza dei limiti
L’importanza della teoria del Feelig of effort nell’economia della teoria jamesiana della volontà è posta chiaramente in luce proprio dal suo rappresentare il discrimine tra una concezione indeterministica e una deterministica; come abbiamo detto, non si tratta di negare o meno l’esistenza di un tale feeling; il problema è, come spesso accade, quello della sua interpretazione. Il determinista [...] ammette qualche cosa di fenomenico detto libero sforzo, che sembra opporsi alla corrente; ma pretende che questo sia una porzione della corrente. Le mutazioni dello sforzo non possono essere indipendenti, esso dice: esse non possono originarsi ex nihilo, o provenire da una quarta dimensione: ma sono funzioni matematicamente fisse delle idee stesse, che formano la corrente. PP, pp. 1177-1178. Anche nella sua psicologia [James] anticipò una certa parte del suo atteggiamento filosofico, affermando che è possibile, e scientificamente ammissibile [...] che nell’atto dell’attenzione la volontà aggiunga qualcosa di nuovo alle forze già presenti nel mondo. Questo fu un grande passo per uno psicologo accademico. J. J. Putnam, William James, in L. Simon (a cura di), William James Remembered”, cit., p. 125. 90
91
In questo caso il raffinamento dei nostri strumenti scientifici potrebbe un giorno risolvere la questione.
James ritiene che, scientificamente, il problema [della libertà dell’uomo] non possa essere risolto poiché, una volta che una certa quantità di attenzione è data, non è più possibile provare in modo rigoroso se si sarebbe potuta dare più o meno attenzione. L’esatta situazione non può essere ricreata per ulteriori osservazioni e verifiche. J. K. Roth, op. cit. p. 40. 92
PP, p. 657. L’irripetibilità si estende perciò ben oltre all’azione volontaria; anzi, essa deve essere supposta fin dalle più ‘elementari’ operazioni mentali: Il motivo per cui non possiamo mai esperire una sensazione identica è che a ogni sensazione corrisponde una qualche azione cerebrale. P. K. Dooley, op. cit., p. 37. 93
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conoscitivi dell’uomo — limiti che abbiamo visto appaiono in alcuni casi insuperabili — e quindi cercare di riprodurre una psicologia razionale che riproponesse come suo fine ultimo la capacità di dimostrare quanto affermato, piuttosto che di fornire delle valide ipotesi interpretativev. Come vedremo sarà ancora una volta il darwinismo, ‘filtrato’ anche attraverso la lettura che ne diedero i suoi amici Wright e Peirce, a fornire a James la giustificazione epistemologica di una approccio di questo tipo; possiamo però fin d’ora affermare che James forse non fu completamente consapevole delle differenti esigenze che una psicologia scientifica comportava rispetto alla ‘semplice’ approccio biologico: Evoluzione in psicologia significa [per James] dare una spiegazione empiricamente verificabile della genesi degli stati mentali, mostrando come questi siano utili a servire gli interessi dell’organismo umano, senza cercare di dare ragione dell’origine ultima di ognuno dei suoi interessi spontanei94. Il prossimo paragrafo sarà dedicato nella sua parte finale a mostrare come — a nostro giudizio — James non riesca a soddisfare completamente il lettore che si rivolga ai Principles in cerca di un’idea coerente di libertà e questo proprio in ragione del fatto che in essi manca una un tentativo di conciliare la libertà della volontà con il suo essere intereressata.
3.2.5 Una libertà ‘limitata’ Come abbiamo visto fin qui, il tentativo jamesiano di fornire al lettore un’immagine metafisicamente neutrale dell’attività della mente è stato, fortunatamente, infruttuoso95; abbiamo detto che non poteva essere altrimenti e allo stesso tempo abbiamo detto che, dato comunque il carattere schiettamente ‘naturalistico’ dei Principles, James riconobbe fin da subito l’impossibilità di andare oltre certe ipotesi interpretative. Non si può dunque rimproverare a James di non essere riuscito a dimostrare quel ch’era già stato posto come indimostrabile. Ma questa considerazione, peraltro pacifica, non pone di certo fine al problema dell’immagine dell’uomo che emerge dalla psicologia jamesiana. Come abbiamo visto, la volontà è il cardine di tutta l’attività mentale dell’uomo: essa rappresenta il cuore di quella coscienza
94
P. Wiener, op. cit., p. 119.
A quanto pare anche i colleghi della Harvard University non tardarono ad accorgersi della naturale predisposizione di James per la speculazione filosofica: Sebbene l’unico titolo di studio che William James avesse fosse quello in medicina, pochi uomini in America erano più aggiornati di lui nel campo della psicologia, sia inglese che francese che tedesca e i suoi studi medici rappresentavano un vantaggio ulteriore. [...] Ma il corso che James aveva tenuto nel 1875 sulle relazioni tra la fisiologia e la psicologia era ritenuto più di carattere filosofico piuttosto che psicologico e così le autorità decisero di affidargli il Dipartimento di Filosofia . G. W. Allen, op. cit., p. 195. D’altronde, nonostante i ‘proclami’ sulla “neutralità metafisica” della psicologia scientifica, James fu sempre consapevole dello stretto legame fra questa e la filosofia: Le questioni psicologiche, pensava James, erano, in fondo, questioni filosofiche. L. Simon, op. cit., p. 326. 95
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che, vista come flusso, come funzione e non più come sostanza, aveva definitivamente scardinato i classici canoni della psicologia nata col razionalismo cartesiano e abbiamo altresì visto che la caratteristica principale della volontà è la sua efficacia e la sua spontaneità, ovvero la sua libertà. In sostanza, tutta la psicologia jamesiana ruota attorno a un’idea che, sfuggendo ontologicamente la possibilità di una verificazione scientifica, appartiene di fatto più al campo di quello che James stesso chiamava il pensiero “metafisico e morale”, piuttosto che a quello della neonata psicologia scientifica. È proprio all’interno di questa fertile ‘contaminazione’ che James ha fornito gli spunti più interessanti del suo lavoro, dando vita veramente a un’opera immortale dove le parti originali sono proprio quelle che eccedono i limiti della verificabilità scientifica e che, col passare dei decenni, rimangono ancora estremamente appetibili, anche quando i progressi della psicologia e della fisiologia nervosa hanno reso meno interessanti i punti più ‘tecnici’ dei Principles96. Ma allora, se la libertà si è dimostrata essere il cuore della psicologia jamesiana, qual è la sua vera natura? Il fatto che il libero arbitrio non sia dimostrabile non toglie a James la responsabilità di dare dell’uomo libero un’immagine pensabile e coerente. Cercheremo di riassumere qui i tratti essenziali della libertà che abbiamo visto via via delinearsi attraverso un’attenta analisi della volontà dell’uomo, cercando di rispondere a una domanda molto semplice, ma che racchiude tante possibili risposte: un sostenitore del libero arbitrio può essere soddisfatto dell’idea di libertà con cui si concludono i Principles.? Come vedremo, a questa domanda non possiamo rispondere in maniera completamente affermativa, non tanto perché James sarebbe riuscito a fornirci solo un’immagine ristretta, limitata della libertà dell’uomo, quanto perché egli non è stato in grado, ponendolo esplicitamente ma ingiustificatamente al di fuori dei propri compiti, di chiarire come potere soddisfare quella che definimmo la terza ‘condizione’ del libero arbitrio e cioè l’assenza di una costrizione delle cause in ragione delle quali l’uomo sceglie fra i comportamenti possibili quello da seguire. Prima di affrontare questo punto critico della psicologia jamesiana della volontà — che già sfuma nella sua riformulazione filosofica — analizzeremo, dopo avere superato il falso problema della sua non dimostrabilità, una delle critiche principali che sono state poste all’idea di libertà delineata da James, cercando di mostrarne l’inconsistenza.
Per molti [critici] il suo [dei Principi] fascino si trova [nei passi dove] [...] la psicologia è vista come intimamente frammentaria e bisognosa di un supporto filosofico. G. E. Myers, William James and Contemporary Psychology, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 55. 96
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Per molti critici lo spazio di autonomia che James attribuisce all’uomo sarebbe troppo piccolo; in breve il suo indeterminismo sarebbe fondato su un’idea limitata di libertà. Questa ‘accusa’ ha trovato il suo fondamento proprio nell’importanza dell’aspetto selettivo (e non ‘creativo’) della coscienza che noi abbiamo cercato di porre nella giusta luce e non comporta dunque un problema di definizione di che cosa sia la libertà per James; si tratta invece di un problema di valutazione. Sono molti gli studiosi che hanno posto in luce la limitatezza della libertà descritta da James, ma, a dire il vero, solo per pochissimi questa rappresenta poi una ‘carenza’ della sua filosofia; per citarne solo alcuni: B. Ramsey: Dopo tutta la discussione sulla coscienza, James ricorda infatti come è necessario ricordare quanto sia piccolo l’arsenale della creatività del Sé e quanto siano deboli le sue forze, e quanto del Sé sia determinato meccanicisticamente97. D. S. Browning: James non è un volontarista, se per volontarismo si intende una visione della volontà che la vede come completamente distaccata dalle regolarità della realtà biologica e sociale. È vero che James vede solo un piccolo spazio per il ruolo della “volontà libera” nel dramma della vita, ma questa piccola differenza può cambiare tutto il mondo98. Il fatto è che la nostra capacità di deliberazione, la nostra volontà, è, per James, molto piccola. Essa riesce a superare di poco tutto quel patrimonio di risposte prestabilite e abituali che ogni uomo sviluppa durante il corso della sua vita99. G. W. Allen: James non ritenne mai che l’uomo avesse un’ampia libertà di scelta. La libertà di scelta può infatti essere abbastanza limitata, ma quando si danno eventi caratterizzati da una grande incertezza, tanto che l’azione umana può far andare le cose in una maniera o nell’altra, c’è la possibilità, la speranza, di migliorare la propria vita e forse anche il mondo intero100. J. Barzun:
97
B. Ramsey, op. cit., p. 49.
98
D. S. Browning, op. cit., p. 132.
99
Ivi, p. 152.
100
G. W. Allen, op. cit., p 499.
258
Ma la libertà così ottenuta non significa [...] che ognuno è libero in ogni istante di volere ciò che gli garba. Ci sono reti di compulsione — istinto, abitudine etc — e anche agli indeterministi appare chiaro che è possibile predire abbastanza correttamente il comportamento di una persona essendo noti il suo carattere e le condizioni cui viene sottoposto. I deterministi sembrano temere che l’universo si dissolva se si permette alla libertà di esistere101. Ma in che cosa consisterebbe in definitiva la limitatezza della libertà dell’uomo? Per Rychlak, l’autore che forse più di tutti ha recentemente posto le basi per una severa critica della psicologia jamesiana della volontà, è al proposito molto esplicito: egli, dopo avere definito — coerentemente col pensiero di James — la libertà come il “potere fare altrimenti in una data situazione” — posto che tutte le circostanze restino immutate — scrive Se una persona seleziona e dà rilievo a pensieri che sono passati nella sua mente, c’è poco spazio per dire che quella persona avrebbe potuto fare altrimenti102. La scarsa autonomia della coscienza dell’uomo consisterebbe proprio nella sua dimensione selezionatrice, quella che abbiamo detto essere il fulcro di tutta la psicologia di James. Per Rychlak lo psicologo americano sarebbe il difensore di una libertà vista come “second event,” e perciò di una libertà ridotta. La ‘secondità’ dell’evento (dell’atto libero) starebbe proprio nel fatto che l’uomo non può scegliersi direttamente le alternative fra cui scegliere, ma può soltanto scegliere fra le alternative103; ovviamente qui non si fa riferimento alle alternative fisicamente possibili (cosa del resto impensabile anche per il più esasperato indeterminista), ma a quelle concretamente pensate. Come abbiamo visto sopra, James non fa mistero di questo limite della libertà dell’uomo: L’anima non presenta nulla per sé sola; essa nulla crea; essa è alla mercé delle forze materiali per ogni possibilità, ma fra queste possibilità essa sceglie104. La libertà ‘offerta’ dallo James psicologo all’uomo ansioso di riscoprire la propria autonomia e indipendenza sarebbe allora viziata dal fatto che questa può soltanto agire su una serie di alternative
101
J. Barzun, op. cit., p. 153.
102 J. F. Rychlak, William James and the Concept of Free-Will, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 333. 103 [...] il secondo evento nella coscienza, dal quale un’azione libera prende origine, è l’attenzione. L’attenzione seleziona fra le varie possibilità ponendo enfasi su alcune alternative piuttosto che su altre. Ivi, p. 327. 104
259
PP, p. 1186.
(che da un punto di vista psicologico possono essere considerate le associazioni per contiguità e per similarità) ch’egli non è in grado di ‘creare’ ex abrupto. Non solo, James sarebbe reo di non avere compreso il lato kantiano della filosofia di Renouvier che si tradurrebbe nella primarietà dell’atto libero, inclinando irreparabilmente verso una visione lockiana della mente umana, che sarebbe incapace di essere veramente ‘creativa’105. A prescindere dal fatto che James dichiarò più volte — scrivendolo nei Principles — il suo debito nei confronti di John Locke e, a prescindere anche dal fatto che quest’ultimo faceva riferimento alle sole idee semplici quando parlava dell’incapacità dell’uomo a ‘creare’ anche una sola idea, ci sentiamo di dire che l’unica colpa che può essere imputata a James è quella di essere stato fin troppo attento a non eccedere, nella raffigurazione dell’uomo come essere libero, i limiti della psicologia scientifica: come sarebbe poi immaginabile una libertà come first event? La libertà non consisterebbe nello scegliere fra le alternative ma nel crearle ex novo. A prescindere dalla difficoltà anche di pensare una libertà come “first event”, dobbiamo sempre tenere a mente che James doveva dare una giustificazione scientifica delle sue teorie e non poteva certo anteporre un ideale perfetto — quanto difficilmente pensabile — di libertà a quello ch’egli aveva faticosamente raggiunto grazie all’applicazione dei punti chiave della teoria darwiniana della selezione naturale alla psicologia106. Il riferimento di Rychlak a Renouvier (e alla supposta superiorità dell’idea di libertà di quest’ultimo rispetto a quella di James) sembra essere poi totalmente fuori luogo: certamente Renouvier aveva meno limiti — anche metodologici — nell’elaborazione di una filosofia della libertà107 (che non doveva
105 [...] Mi è difficile accettare l’affermazione di Perry secondo cui James è stato enormemente influenzato dall’opera di Renouvier. Come idealista neo-kantiano, Renouvier aveva un’idea della mente molto più concettuale, ovvero una mente che agisce come “primo evento”, senza aspettare che accada qualcosa [dentro di lei] per poi enfatizzarla o selezionarla. Ovviamente, non bisogna dimenticare che James era un pensatore eclettico. J. F. Rychlak, William James and the Concept of Free-Will, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 330. Anche nostro giudizio l’importanza di Renouvier non deve essere esagerata, anche se non tanto per la differenza che Rychlak individua fra la libertà jamesiana come ‘secondo evento’ e quella renouvieriana come ‘primo evento’, quanto proprio per il rischio che questo comporterebbe di dimenticare l’importanza di altri autori, come appunto Darwin, che rientrano a pieno titolo negli interessi ‘eclettici’ del nostro autore. 106 Che quello di libertà come ‘first event’ fosse per James un ideale perfetto è poi tutto da vedere. Anche Ramsey rimprovera il nostro autore di essere riuscito a fornire l’uomo solo di “un piccolo arsenale di creatività”, seguendo così inconsapevolmente l’identificazione che, ponendo la libertà come il bene, riconosce la libertà assoluta (ab-soluta) come il bene assoluto: Egli parla del Sé come se fosse sempre e per sempre parte di una rete di relazioni entro le quali egli può, al massimo, recitare bene o male la sua parte [non quindi “scegliersi la parte!]. Egli vede il Sé non come un narratore, ma come un soggetto di cui viene narrata la storia. B. Ramsey, op. cit., p. 13. [...]. Se la libertà è il bene, il bene assoluto non è la libertà assoluta, ma la libertà possibile e James, insieme con gli amici del Metaphysical Club privilegiò sempre la concreta possibilità rispetto a un immaginario ideale astratto: Tutti i fondatori del pragmatismo sarebbero stati d’accordo nel sostenere che una libertà incondizionata avrebbe fatto della storia un caos. P. Wiener, op. cit., p. 133. 107 Anche il Perry riconosce ovviamente, pur senza valutandola negativamente, la limitatezza dell’idea psicologica di libertà sviluppata da James nei Principles: James sosteneva che la volontà può selezionare all’interno del campo offerto dagli archi riflessi, ma Renouvier sosteneva che dunque l’azione cesserebbe di essere così un riflesso. È chiaro, in altre parole, che James era disposto, più di Renouvier, ad andare nella direzione naturalistica. TCWJ II, p. 89. Più che ad andare nella direzione naturalistica, dobbiamo dire che James non era disposto ad astrarre un’idea regolativa di libertà dal cammino scientifico (certamente naturalistico) compiuto in tanti anni di studi di psicologia e fisiologia nervosa. Questa importante differenza fra James e Renouvier è anche in grado di giustificare la diversa prospettiva che serve a inquadrare il tema dell’atto libero, che nello psicologo americano, come abbiamo visto, venne esemplificato, nella trattazione iniziale, dai più semplici movimenti. Renouvier scrisse infatti a James in una lettera dell’11 Febbraio 1883: “Non fa parte della mia dottrina la tesi secondo cui la libertà è il potere di cominciare (o di porre termine 2 a) movimenti, anzi essa piuttosto non ha nulla a che fare con ciò che si intende propriamente per movimento. [...]TCWJ I, p. 690. 260
continuamente confrontarsi con una psicologia “naturalisticamente intesa”), ma è altrettanto vero che proprio da Renouvier James imparò a definire la libertà attraverso i suoi limiti, attraverso i suoi confini: L’autonomia morale è un’aspirazione che Renouvier riteneva intrinseca all’uomo e la libertà era necessaria per il suo raggiungimento. Comunque, egli era lontano dal pensare che tutti i nostri atti che hanno a che fare con la morale mostrino l’esercizio della libertà. Al contrario, egli vedeva quell’esercizio come un ideale raggiunto raramente dalla maggior parte degli uomini, e forse da molti mai raggiunto108. Questa precisazione storico-filosofica ci apre allora alla possibilità di indagare ancora meglio l’attività della volontà libera come descritta da James proprio grazie all’analisi dei suoi limiti che, come vedremo fra breve, in alcuni casi sembrano aprire alla possibilità di circoli virtuosi: La libertà può infatti essere considerata limitata anche sotto altri aspetti che Rychlak non prende in considerazione; uno è proprio quello messo in luce da Logue nel brano succitato: anche in un uomo libero sono estremamente pochi gli atti che sono compiuti deliberatamente; di questo ne abbiamo già parlato ampiamente analizzando il funzionamento dell’azione ideo-motoria e la preponderanza delle volitions of consent rispetto alle volition of effort. La libertà è poi limitata anche da un punto di vista extraindividuale: non tutti gli uomini sono per James liberi alla stessa maniera (e vedremo fra breve perché). la libertà non è per James una ‘dotazione’ immutabile di cui l’uomo dispone e che rimane invariata nel tempo: essa è una vera e propria funzione e come tale si atrofizza se non viene continuamente esercitata; non bisogna poi dimenticare che anche gli atti liberi più semplici (come alcuni movimenti), prima di essere compiuti volontariamente debbono esserlo stati in maniera riflessa — in questo caso ci troveremmo dunque di fronte a una limitazione ‘genealogica’ — ; essi poi sono limitati anche dai nostri istinti e dalle abitudini acquisite precedentemente109. infine, gli atti liberi, e questa è forse la relazione più interessante, sono strettamente legati, ‘limitati’, dalla nostra attività conoscitiva.
108
W. Logue, op. cit., p. 81.
Questo da una parte potrebbe può significare che la nostra libertà è molto limitata, tanti sono gli ostacoli cui essa si trova di fronte: istinti, passioni abitudini etc; ma la dimensione abitudinaria dell’uomo e lo stretto legame fra volontà e passioni ed emozioni può anche essere visto sotto una luce ben differente; infatti l’uomo può ‘esercitare’ la propria libertà, la propria volontà e diventare perciò più forte e più capace di vivere una vita ‘eroica’ che in sostanza significa una vita dedicata al tentativo di raggiungere fini più lontani rispetto a quelli immediati che ci vengono ‘proposti’ dai nostri istinti, dalle nostre emozioni, etc. Se quindi è vero che da un certo punto di vista la volontà sembra opporsi, e in effetti vi si oppone, alle emozioni, alla parte passionale dell’‘anima’, è anche vero che essa può, più o meno eroicamente, portare queste forze — che sono per James immense — dalla propria parte, può in sostanza fare dell’essere liberi, della propria autonomia un abito che ci aiuta a condurre consapevolmente la nostra condotta quotidiana. 109
261
3.2.6 Conoscenza è libertà — libertà è conoscenza: il circolo virtuoso Il rapporto fra conoscenza e libertà è già nella psicologia110 di James molto stretto e può essere visto da due prospettive differenti e complementari: la nostra libertà aumenta con la nostra capacità conoscitiva e questa a sua volta aumenta con la nostra libertà: ecco il circolo virtuoso a cui facevamo prima riferimento e che ora ci apprestiamo a illustrare. La libertà è radicata nella nostra capacità di prestare attenzione, di pensare, di scegliere e di sforzarsi. Come diventiamo consapevoli, noi riconosciamo che queste capacità [...] sono i veri fattori che rendono l’uomo libero. Noi dobbiamo anche riconoscere che la libertà può crescere o andare persa e che essa deve essere coltivata e protetta. Se noi indeboliamo i poteri della nostra coscienza, la nostra libertà n’è diminuita. Allo stesso modo, un’attenta cura delle nostre capacità aumenta le opportunità e la libertà111. Questo brano, rimarcando la funzionalità della nostra volontà libera, sottolinea la relazione fra conoscenza e libertà all’interno della prima prospettiva di cui sopra: la nostra libertà cresce col crescere della nostra conoscenza112; la consapevolezza di questo rapporto (che per alcuni potrebbe apparire come un ‘limite’) porta James al cuore di quella storia del pensiero occidentale che ha fatto delle libertà dell’uomo il centro di ogni filosofia a cominciare da Cartesio. Se la volontà libera consiste nel selezionare pensieri e comportamenti in vista di un fine e in considerazione dell’applicabilità di questi alla situazione data o prevista, è evidente che essa diventerà sempre più forte col crescere delle alternative cui l’uomo ‘si trova’ di fronte. Per quanto un atto libero venga generalmente esemplificato con una scelta compiuta tra due sole alternative (fare questo o non farlo, andare a destra o a sinistra, ma anche: “essere o non essere?”) è evidente che sarà più libero l’uomo che vedrà in una data situazione un maggiore numero di ipotesi di pensiero e di comportamento: chi non vede che due o poche strade da potere percorrere avrà la libertà limitata dall’insufficienza della propria conoscenza: come sarebbe possibile infatti scegliere una strada che nemmeno si riesce a scorgere? Lo stesso vale per i mezzi che debbono essere scelti per il raggiungimento di un fine ch’è già stato deciso: potrebbe l’uomo scegliere veramente di percorrere una certa strada se non avesse la minima idea di come raggiungerla e poi di come percorrerla nella sua lunghezza? E infine, visto che l’azione morale deve essere giudicata in base alle intenzioni dell’uomo che la compie — e non in base ai risultati che possono essere accidentalmente
110 Come vedremo nella prossima Parte, all’intima e proficua relazione tra volontà (libera) e conoscenza (o meglio: credenza) verrà dedicata da James buona parte della Will to Believe. 111
J. K. Roth, op. cit., p. 36.
In altre parole, gli aspetti più importanti della vita umana sono la nostra capacità di pensare, di scegliere, di agire, in sostanza, la nostra libertà. Ivi, p. 37. 112
262
contraddire i nostri propositi — come potremmo ritenere morale un uomo che, compiendo un determinato atto, non lo facesse con la consapevolezza delle conseguenze cui quest’atto porterà? Ancora una volta appare chiaro come il principio di causalità debba essere ben forte per sostenere un’azione libera e morale: prima di tutto l’uomo non deciderebbe alcunché se non fosse certo che le sue deliberazioni avranno un determinato (e non casuale) effetto sulla realtà (sia esterna che interna) e allo stesso tempo egli non prenderebbe alcuna deliberazione se non avesse la fiducia nell’uniformità della natura che dovrà accogliere la catena di conseguenze della sua scelta. Non dobbiamo poi dimenticare che il darwinismo di James si manifesta anche nella sua consapevolezza che un’idea deve adattarsi alla realtà cui dev’essere applicata e la previsione dell’adattamento di un’idea alla realtà concerne direttamente la nostra attività conoscitiva: le idee morali sono infatti prima di tutto idee e come tali debbono rispettare delle regole che si definiscono maggiormente col crescere della nostra conoscenza e della nostra esperienza. Le idee morali debbono poi ‘adattarsi’ a tutte le altre idee cui sono collegate e collegabili e prevederne il grado di adattabilità fa parte della nostra capacità di conoscere. Quando prendiamo una scelta dobbiamo essere allora consapevoli della possibilità che questa ha di adattarsi alle nostre idee (morali e non) e di adattarsi, nella sua esecuzione, alla situazione in cui ci troviamo e che dobbiamo preventivamente riconoscere e definire. I limiti intrinseci della nostra libertà possono essere allora ampliati grazie a un allargamento di nostri limiti conoscitivi; ecco in che guisa il filosofo, e lo psicologo, possono aumentare la libertà propria e degli altri: La sua capacità di criticare le affermazioni dogmatiche può prevenire la riduzione e la restrizione della vita umana, e i suoi sforzi costruttivi possono offrire basi ampie e solide con cui l’uomo può comprendere la propria esistenza. Se la libertà è al cuore della nostra conoscenza, allora anche il nostro interesse per la conoscenza può essere la ricerca della libertà. La conoscenza può aiutarci ad accrescere la nostra libertà e la possibilità di soddisfare i nostri progetti. James è convinto che una delle maniere in cui questo si può fare è attraverso la conoscenza dei nostri limiti e attraverso gli sforzi con cui la nostra conoscenza ci stimola alla costituzione e al mantenimento di una società aperta113.
113 Ivi, p. 56. Da questo brano emerge anche chiaramente come il discorso psicologico di James intorno alla libertà possa essere facilmente e coerentemente esteso alla sociologia e, praticamente, alla politica: non avremo modo in questa Tesi di fare più di brevi cenni al pensiero politico di James, ma quello che possiamo dire qui è che la sua tolleranza e la sua disponibilità a confrontare le proprie idee con quelle di altri (anche diversissime dalle sue) trova la sua ragione principale non tanto in una disponibilità di carattere, una predisposizione naturale al dialogo, quanto nella consapevolezza che solo attraverso un dibattito pubblico e aperto (quindi democratico) sarebbe stato possibile accrescere la nostra conoscenza e con essa la nostra libertà: Come nel caso della teoria pragmatica del significato di James, la sua teoria pragmatica della verità riflette e conferma il suo interesse per i valori fondamentali di libertà e di coesione. La verità si ottiene solo attraverso una ricerca libera svolta in una comunità aperta. D’altro lato, la libertà si fonda sulla conoscenza e la verità. Un aumento della conoscenza e della verità ci darà la possibilità di maggiore successo nei nostri propositi e di avere più opzioni fra cui scegliere. Ivi, p. 103.
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E, per quel che riguarda il ruolo dello psicologo:
James non credette mai che l’uomo non fosse prigioniero o della propria natura o degli errori accumulati dalla propria razza nel passato. Posto che la dottrina del determinismo non potrà mai essere confutata — e nemmeno provata — egli ci avrebbe invitato, come dice Allport, ad afferrare l’ipotesi più viva, poiché la nostra scelta ha effetto sulla natura umana che studiamo. James ricorda agli psicologi che essi possono, attraverso le loro teorie, elevare o degradare la natura reale dell’uomo114. È proprio all’interno di questa prospettiva che possiamo ora vedere convergere proficuamente l’influenza dei due pensatori cui James era più indebitato nella costruzione di una coerente psicologia della libertà: com’è noto, Darwin riteneva che la nascita di una coscienza morale fosse subordinata a un adeguato sviluppo delle capacità intellettive115e anche Charles Renouvier, sebbene da una differente prospettiva, aveva insegnato allo psicologo americano quanto la libertà dipendesse dalla nostra conoscenza (di noi stessi e del mondo). Ma non solo: si ricorderà certamente la frase, citata da ogni studioso di James, che segna (come abbiamo visto solo apparentemente) la sua ‘rinascita’ fisica e spirituale: Penso che ieri ci sia stata una crisi nella mia vita. Ho finito la prima parte del secondo Essai di Renouvier e non vedo ragione per cui la sua definizione di Libera Volontà [Free Will] — “il sostenere un pensiero poiché io l’ho scelto quando avrei potuto avere altri pensieri” debba essere considerata un’illusione. Ad ogni buon conto, io la considererò come non illusoria, almeno fino all’anno prossimo. Il mio primo atto libero sarà quello di credere nella libera volontà116. Ora possiamo capire meglio che cosa vuol dire l’ultima frase di questo brano: James intende due cose: prima di tutto l’atto di credere, in quanto atto, è sottoposto all’autonomia della nostra volontà come un qualsiasi atto (e questo lo vedremo meglio nella prossima Parte dedicata in gran parte ai confini della belief) e poi che la libertà dell’uomo si ottiene proprio con una atto di credenza, un atto che è morale e conoscitivo insieme. L’interpretazione ‘forte’ di quest’ultimo passaggio vede allora la libertà dell’uomo
114
G. W. Allen, op. cit., p. 518.
115 Cfr. R. J. Richards, p. 210. Secondo Darwin, tutto ciò che era necessario per mutare l’istinto sociale nella voce della coscienza era una mente più capace di quella degli animali. Ivi, p. 118. 116 LWJ I, p. 147. Cfr. supra, cap. 2.1, p. 52. È interessantissimo notare come James, vent’anni dopo, si esprima nella medesima maniera: La Volontà e la Credenza, in breve, significano una certa relazione fra gli oggetti e l’Io, sono due nomi per un solo e identico fenomeno psicologico. Tutte le questioni che riguardano l’uno dei due riguardano pure l’altro. Le cause e le condizioni della particolare relazione dev’essere la stessa in entrambe. La questione del libero arbitrio rinasce quanto alla credenza. Se i nostri atti volontari non sono determinati, anche le nostre credenze debbono essere libere etc. Il primo atto del libero arbitrio dovrebbe in breve e naturalmente essere quello di credere nel libero arbitrio. PP, p. 948.
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come strettamente dipendente dal suo riconoscimento di realtà da parte dell’uomo, ma a nostro giudizio è meglio interpretare la frase come il frutto della consapevolezza, solo intravista da James nel 1870, della virtuosità del rapporto fra conoscenza e libertà: di fatto James non pensava che l’uomo diventasse libero solo una volta che riconoscesse la verità della libertà (perché altrimenti il nostro ‘passaggio’ da uno stato di necessità a uno di libertà sarebbe esso stesso determinato), ma certamente riteneva che l’uomo potesse accrescere enormemente la propria libertà proprio in virtù del riconoscimento della sua autonomia. Ma analizzeremo meglio la possibilità di questo primo atto libero (che a volte sembra per James delinearsi come vero e proprio ‘mistero’) nella prossima Parte; per ora ci basti avere sottolineato i numerosi motivi che spinsero James a interpretare positivamente il rapporto fra conoscenza e libertà, all’interno di quella che abbiamo chiamato la prima prospettiva117. La seconda prospettiva è invece quella che individua proprio nella libertà uno dei presupposti indispensabili per il funzionamento dell’attività conoscitiva: se la libertà consiste, come abbiamo visto, nell’interrompere delle catene associative anche a costo di un feeling of effort, cioè contrastando (a livello fisiologico) “la linea di minore resistenza”, è allora evidente quanto questa caratteristica che solo l’uomo ha possa essere importante per la sua capacità di conoscere: se la nostra coscienza fosse infatti trascinata da un’attenzione puramente passiva (dove l’importanza dell’oggetto — inteso ovviamente anche come idea — su cui porre la nostra attenzione è determinata dall’oggetto stesso e non da noi) e se questa desse il via a una catena di associazioni — per contiguità e per similarità — predeterminata, è evidente che l’uomo avrebbe ben poche possibilità di adattare il proprio intelletto alla mutevoli situazioni in cui si trova. L’uomo rimarrebbe cioè ingabbiato in una serie di archi riflessi che, per quanto complessi, dato uno stimolo porterebbero inevitabilmente a una determinata risposta, anche a una risposta teoretica: come abbiamo però visto sopra, l’uomo si distingue dalle forme animali meno evolute proprio per la sua capacità di adattarsi meglio agli imprevisti, per la sua duttilità e il legame di questa con la possibilità di conoscere nuove relazioni fra le cose appare evidente118.
117 James crede che le capacità di prestare attenzione, di pensare, di scegliere, e di agire costituiscano la nostra libertà. Perciò, la massimizzazione della libertà comporta lo sviluppo e la crescita delle capacità della coscienza.. J. K. Roth, op. cit., p. 49. Interessa qui anticipare anche che per James il pensiero indeterministico è figlio e padre di una conoscenza più profonda del reale proprio perché solo esso è in grado di avere razionalmente a che fare con i concetti di volontà, di libertà, di morale, di giusto e sbagliato: [...] per i deterministi non ci può essere alcun chiaro e consistente significato nei termini della vita morale, nel giudizio morale, nell’azione morale. J. Barzun, op. cit., p. 153. In una lettera a Shadworth Hodgson del 1885, James critica la visione deterministica e quella monistica per la loro incapacità di tracciare una reale distinzione tra attività e passività. D. A. Crosby, W. Viney, Toward a Psychology that is Radically Empirical: Recapturing the Vision of William James, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 113. 118 Anche in questo caso è d’obbligo ricordare il debito di James per il pensiero di Renouvier: Per Renouvier, la riflessione richiede la libertà ed è per questo che gli uomini, ma non gli animali, la possiedono [...] W. Logue, op. cit., p. 94, n. 37. Vale qui comunque la critica che abbiamo svolto a proposito della vera e propria identificazione fra libertà e possibilità di dire la verità che si ritrova nella filosofia renouvieriana. Qui stiamo invece parlando di conoscenza e non di verità, una differenza che in James deve essere rilevata e che sposta l’interesse di questo capitolo della teoria pragmatica della verità (che non abbiamo preso in considerazione) a quello psicologico della conoscenza.
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Il nostro studio sull’associazione per similarità e del ragionamento ci insegnò che tutta la superiorità dell’uomo dipende dalla maggiore facilità colla quale nel suo cervello i sentieri battuti dalle coesioni esteriori più frequenti possono essere interrotti119. Ma la libertà, l’attività libera della volontà, aumenta la nostra conoscenza anche sotto un altro riguardo: essa cioè introduce l’uomo a un tipo di conoscenza qualitativamente differente da quella squisitamente intellettuale: Così, non soltanto la nostra moralità, ma la nostra religione pure, in quanto è una cosa deliberata, dipende dallo sforzo che siamo capaci di fare. “Volete o non volete che la cosa stia così?” è la domanda più profonda che ci siamo mossi: essa ci vien rivolta ad ogni ora del giorno e a proposito delle cose più grandi come di quelle più piccole, delle teoriche come di quelle pratiche. Noi rispondiamo acconsentendo o rifiutando, ma senza parole. Qual meraviglia che queste cupe risposte sembrino i nostri organi di comunicazione più profonda con la natura delle cose120. Dobbiamo infine ricordare che, come abbiamo visto essere la credenza nel libero arbitrio indispensabile anche per dare senso a parole come bene e male, attivo e passivo, allo stesso modo per James la conoscenza delle verità morali (degli atti di libertà), passa attraverso la pratica e non la teoria: Noi possiamo conoscere le verità morali solo agendo. tali verità non possono esistere astrattamente, cioè separate da una concreta coscienza, e possono essere conosciute solo quando vengono concretizzate nell’esperienza umana121. Avevamo cominciato il paragrafo precedente analizzando i limiti della volontà libera delineata da James nelle pagine dei Principles; abbiamo visto come queste limitazioni fossero il sostegno piuttosto che il limite della libertà dell’uomo (soprattutto nella relazione conoscenza-libertà); alla domanda che ci eravamo posti, sulla soddisfazione che poteva trarre un sostenitore della libertà dell’uomo dalla psicologia jamesiana possiamo ora rispondere con le parole del nostro autore: [...] ma anche nel caso che esistesse una spontaneità mentale, essa non può certamente creare delle idee o provocarle ex abrupto . Il suo potere è limitato a scegliere fra quelle che il meccanismo associativo ha già introdotto o tende ad introdurre Se esso può accentrare , rinforzare o protrarre per un mezzo secondo l’una o l’altra di queste idee, egli può far tutto ciò che il fautore più appassionato del libero arbitrio può domandare; perché esso può 119
PP, p. 1234.
120
Ivi, p. 1182.
121
P. B. Brennan, op. cit., p. 15.
266
allora determinare la direzione delle prossime associazioni facendo sì che si aggirino attorno al termine sopra notato; e determinando in questo modo il corso del pensiero dell’uomo, esso determina pure le azioni di lui122.
3.2.7 I motivi della selezione libera: paura della metafisica? Prima di concludere questo capitolo, mette conto di analizzare quello che sembra essere un limite vero dell’idea jamesiana di libertà. Delle quattro condizioni che ponemmo in partenza come essenziali per delineare la possibilità di un’azione libera non abbiamo preso ancora seriamente in considerazione la terza: posto cioè che l’uomo si trovi di fronte a delle alternative tra cui scegliere, posto che possa effettivamente selezionare le alternative ch’egli preferisce e posto che le sue azioni cadano in un mondo non determinato e quindi disposto a essere cambiato dal nostro spontaneo comportamento, bisogna ora capire se i motivi delle nostre deliberazioni sono necessitanti o no. La risposta immediata sarebbe che non lo sono: come abbiamo già precedentemente illustrato, se le ragioni del nostro comportamento fossero coercitive, esse sarebbero nientemeno che cause determinanti, cause che non lascerebbero alcuno spazio di indipendenza alla coscienza: ovviamente qui non si tratta tanto del tipo delle ragioni in base alle quali l’uomo compie le proprie scelte, ma del loro ruolo. Il fatto poi che delle cause debbano esserci è per James fuori di dubbio (altrimenti ci troveremmo di fronte a una casualità che abbiamo visto essere nemica della libertà allo stesso modo della necessità), ma a volte sembra che egli si accontenti di individuare la causa della nostra selezione (ipoteticamente libera) nella facoltà dell’attenzione: questa però non è ovviamente una risposta soddisfacente. Troviamo dunque che raggiungiamo il centro della nostra inchiesta circa la volontà, quando cerchiamo per quale processo il pensiero di un dato oggetto arrivi a prevalere stabilmente nella nostra mente123. L’attenzione è infatti lo strumento della selezione, ma in base a quali principi essa agisce? Se l’attenzione non è determinata dall’oggetto, ma dal soggetto, quali sono le ragioni che la regolano? “il centro della nostra ricerca” sembra rimanere insondato124.
122
PP, p. 559.
123
Ivi, p. 1166.
E’ evidente che James, in un’opera di psicologia, non poteva non prendere in considerazione la possibilità di una causazione recondita, o, per usare un linguaggio che dalla pubblicazione dei Principles a breve sarebbe stato molto comune, inconscia. James era al corrente delle recenti ‘scoperte’ di Sigmund Freud e da una lettura di alcune opere successive ai Principles (come le Varieties) potrebbe sembrare ch’egli condividesse una visione dicotomica della mente umana: James sembra accettare il “subconscious self” come un’entità reale e perciò la “germinal higher part” di noi stessi è “adiacente e continua con una più grande della stessa qualità”; [...] Questa parte è la continuazione subconscia della nostra vita conscia [VRE 403] ed essa costituisce “un sé più ampio 124
267
Se guardiamo indietro al cammino percorso fin qui, ci accorgiamo che James ha già risposto in merito al tipo di ragioni che determinano l’agire dell’uomo: i suoi interessi. Ne abbiamo parlato per la prima volta in relazione alla teoria dell’arco riflesso. La coscienza è una funzione essenzialmente telica125: l’uomo di James si distingue da quello di Spencer proprio per la sua spontaneità, per la sua attività opposta alla passività di quest’ultimo. Ma, anche dopo avere mostrato che gli interessi dell’uomo non sono tutti di tipo edonistico o utilitaristico126, rimane ancora una domanda alla quale James sembra non volere o non potere rispondere: l’uomo può scegliere i propri interessi, può selezionarli? E se li seleziona, in base a
attraverso la quale ci giungono esperienze di salvezza, un contenuto positivo di un’esperienza religiosa che (...) è vera letteralmente e veramente quanto appare [VRE 405]. Richard R. Niebuhr, William James on Religious Experience, in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 233. Come è però evidente da questo brano, il subconscious self cui il nostro autore fa riferimento è altra cosa rispetto all’inconscio freudiano: è una coscienza più vasta con cui l’uomo può entrare in comunicazione in diverse maniere, prima fra tutte quella dell’esperienza mistico-religiosa; ovviamente questo tipo di inconscio non è tanto il contenitore di possibili motivazioni che sarebbero altrimenti nascoste alla nostra coscienza, ma rappresenta una dimensione più elevata cui l’uomo partecipa in una sorta di passività di appartenenza che ben poco ha a che fare con la volontarietà dell’atto conscio o anche di quell’atto inconsciamente determinato — i.e. causato — di cui parlava Freud; ciò nondimeno, James era sinceramente interessato agli studi del fondatore della psicoanalisi e riteneva che molte nuove utili informazioni sarebbero state ricavate dalle sue conclusioni cliniche. Bisogna però ricordare che William James, come molti psicologi a lui contemporanei, considerava riduttiva l’eziologia sessuale che rappresentava il più forte elemento di rivoluzionarietà dell’opera freudiana: Non c’è niente del tipo dell’inconscio freudiano nei Principles; una possibilità del genere, nella sua analisi, viene rifiutata. Owen Flanagan Consciousness as a Pragmatist Views it, In R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 29. 125 L’influenza di Darwin [nel capitolo sulla coscienza dei Principles] è evidente: la mente ha operato in una tale maniera (attraverso i nervi e il cervello) da far sì che l’organismo si adatti esso stesso all’ambiente e possa sopravvivere. Incidentalmente, se noi applichiamo questo concetto a tutti gli organismo viventi, anche le più primitive creature, dobbiamo allora ritenere che anche queste avessero, sebbene in una forma meno sviluppata, menti simili a quelle degli organismi più evoluti, e questo aprirebbe la possibilità che il processo evolutivo non sia stato interamente cieco e fortuito, sebbene tale estensione di questa teoria vada al di là delle ambizioni di James di questo libro. Resta il fatto che sembra che una tale concezione sia implicita nelle parole dell’autore e senza dubbio egli avrebbe approvato la teoria di un biologo del ventesimo secolo, John Langdon-Davies, secondo il quale, in man and His Universe, anche le piante sono sopravvissute non per fortuna, ma per intelligenza. G. W. Allen, op. cit., p. 320. 126: Perché così ardentemente ed invincibilmente andiamo noi ad alterare l’ordine dato nella natura.? Semplicemente perché altre relazioni fra le cose sono di gran lunga più interessanti e più gradevoli per noi, della pura e semplice frequenza di congiunzione nello spazio e nel tempo. Queste altre relazioni sono tutte secondarie e nate nel cervello stesso, “spontanee variazioni”, per la maggior parte, della nostra sensibilità, per le quali certi elementi dell’esperienza, e certe disposizioni nel tempo e nello spazio hanno acquistato una piacevolezza che altrimenti non sarebbe stata provata. PP, p. 1234-5. Per quanto questo brano sembri deporre decisamente verso un’interpretazione edonistica della teoria jamesiana della teleologia della coscienza, noi siamo qui interessati più che altro a valutare il ruolo svolto da questi interessi (di qualsiasi natura essi siano) e la loro genealogia che, proprio per il suo spirito darwiniano, sembra ricondurre bruscamente la coscienza dell’uomo all’interno di limiti eccessivamente ‘naturalistici’: In molti saggi e in vari capitoli dei Principles of Psychology, soprattutto nel capitolo sulla volontà, James pose le fondamenta scientifiche per la morale umana. La sua costruzione può dividersi in due parti: primo, una spiegazione evoluzionistica dell’origine degli interessi morali, e secondo, una spiegazione del modo in cui la volontà opera per rendere la libera scelta possibile. Per quanto riguarda la prima parte, la strategia di James era quella mostrare come gli interessi morali [...] fossero variazioni spontanee mentali selezionate. Come Darwin, egli concepiva questi interessi , nei suoi primi saggi e lezioni, come istinti che hanno un valore di sopravvivenza, e così trasmessi selettivamente negli organismi intelligenti. R. J. Richards, op. cit., pp. 445-46. Tenendo per valida questa distinzione in due parti della costruzione scientifica di James della morale umana possiamo dire che la seconda parte è totalmente insoddisfacente se non è completata dalla prima, ma altrettanto vero è che se la selezione delle nostre idee si basa sui nostri interessi e se questi non sono altro che la selezione positiva di variazioni spontanee che si sono efficacemente adattate al mondo in cui vive l’uomo, non si capisce come possa essere avvenuta questa selezione se non in una maniera ‘naturale’, ovvero estromettendo ab origine la coscienza da ogni ruolo veramente attivo. Come appare dunque chiaro, il darwinismo di James, che sembrava avere svolto il ruolo principale — attraverso l’applicazione del meccanismo selettivo alla facoltà dell’attenzione — per giustificare l’autonomia della coscienza, ora sembra — in virtù dell’identificazione fra gli interessi (in base a cui si seleziona) e le variazioni spontanee (che vengono selezionate originalmente dall’esterno) — riportare l’uomo sul terreno del determinismo.
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che cosa li seleziona? Lo scetticismo di James sembra non lasciare dubbi sulla possibilità di essere guidati fino agli estremi limiti del problema della libertà:
Che cosa la spinta della volontà rappresenti metafisicamente, a che inferenze lo sforzo possa condurci relativamente ad un potere volontario distinto dai motivi, non sono questioni che ci possono interessare qui.127. Hic sunt Leones...Sembrerebbe volere dire James e forse è veramente così, ma la nostra critica non è rivolta qui all’apparente incapacità di andare oltre a una parziale descrizione del funzionamento della facoltà dell’attenzione, bensì alla giustificazione di questa impossibilità: La natura e le cause nascoste delle idee non saranno svelate mai, fintanto che non si conosca il nesso che lega il cervello e la coscienza128. A quanto pare l’impossibilità che James riconosce di ‘andare oltre’ a una mera descrizione del funzionamento ‘esterno’ della coscienza selettiva sarebbe dovuto al nostro ignoramus intorno al rapporto che lega mente e cervello e la posizione dello psicologo americano sembra essere definitiva quando ci accorgiamo che questo ignoramus diventa un ignorabimus: Visto che non riusciremo mai a conoscere la natura del rapporto (metafisico) fra mente e cervello, allora non sapremo mai rispondere alla domanda relativa a “un potere volontario distinto dai motivi”. Ma le due questioni sono nettamente distinte: quella relativa alla ‘forza’ dei motivi in base a cui l’uomo sceglie non ha nulla a che vedere con il rapporto che esiste fra la mente e il cervello: possiamo rispondere alla seconda questione lasciando inalterata la prima e viceversa129. Forse James, troppo intento a riconoscere il lato psicologico e fisiologico della volontà libera non si è accorto di quanto già si era inoltrato nel campo della metafisica che aveva programmaticamente cercato di escludere dai confini dei Principles130.
127
PP, p. 1141.
128
Ivi, p. 656.
129 Di fatto, James aveva lasciato insoluta anche la seconda questione, quella del rapporto — eterogeneo — tra mente e cervello: L’unico problema che rimane [dopo avere fornito un’interpretazione interazionistica]è di tipo metafisico e riguarda la comprensione di come un tipo di mondo o di cosa può influenzarne un altro tipo. Questo problema comunque, dal momento che esiste all’interno di entrambi i mondi e non implica né un’improbabilità fisica, né una contraddizione logica, è relativamente piccolo. Io confesso, perciò, che immaginare un’anima [ovviamente non in senso religioso] influenzata in qualche misteriosa maniera dagli stati cerebrali e capace di reagirvi consapevolmente, mi sembra rappresentare la linea di minore resistenza logica [...]Ivi, p. 181. Ovviamente un problema non lo si risolve decretandone la piccolezza...
D’altronde la sua conoscenza di Lequier e di Renouvier avrebbe dovuto rammentargli le difficoltà insite nel tentativo di spiegare completamente la libertà dell’uomo: Scrive Lequier: Quando tutti i motivi, le abitudini, i pregiudizi e le cose recondite sono stati messi sul tavolo, rimane ancora qualcosa, qualcosa di inspiegato e di inspiegabile che fugge alla legge, che si è prodotto senza alcuna ragione, che dipende solo dal fatto della sua esistenza. D. W. Viney, William James on Free Will: The French Connection, cit., p. 38. Questa inspiegabilità dell’atto libero, questa sorta di miracolosità dell’atto libero — non affrontata da James — è rimarcata anche da 130
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Di fatto poi, il problema del rapporto tra mente e cervello era già stato escluso in precedenza dalla linea argomentativa di James: anzi, proprio il fatto ch’egli era riuscito a fare del feeling of effort una questione puramente mentale, superando (dichiarando di non poterlo risolvere) il problema del dualismo mente-corpo, avrebbe dovuto spingerlo a riconoscere che ora si apriva una questione puramente metafisica: una volta spostato al livello squisitamente mentale, quello della libertà diventa un problema filosofico e prima di tutto di pensabilità, cosa di cui James sembra essere ben consapevole: Il determinismo genuino [...] afferma non l’impotenza, ma la non pensabilità del libero arbitrio131.
Come ha detto Rickaby, il problema di questa “sospensione dell’azione” (Locke) o “attenzione focalizzata” (James) è che manca la spiegazione di come il processo mentale sospenda o focalizzi, prima di tutto. Perché a volte le persone non sospendono o non focalizzano, ma si comportano in una maniera automatica, spontanea? [...] l’uomo diviene l’agente telico, ma il processo secondo il quale egli decide non è noto. Non c’è modo di dare ragione di come accada il “fiat”132. Scrive James: [...] Se lo stato di coscienza è un concomitante inerte dell’azione cerebrale, allora, naturalmente, la cellula cerebrale può essere eccitata soltanto da altre cellule cerebrali, e l’attenzione che noi in un dato momento volgiamo ad un dato oggetto, sia in forma di adattamento sensoriale, sia in forma di “prepercezione”, è l’effetto fatale predeterminato, di leggi puramente materiali. Se, d’altra parte, invece, l’azione che coesiste con l’attività della cellula cerebrale reagisce direttamente sopra questa attività, favorendola o attenuandola, l’attenzione è, almeno in parte, una causa. Certo non ne consegue necessariamente che questa sensazione reattiva debba essere “libera”, nel senso che non sia determinata anticipatamente la quantità e la direzione; perché e quantità e direzione potrebbero essere ugualmente predeterminate da altre cause. Se fosse così la nostra attenzione non sarebbe determinata materialmente, (come nel primo caso), e neppure sarebbe “libera”, nel senso di Del Noce che, nell’indice dei termini (op. cit., pp. 422-424) — in un’esauriente quanto concisa definizione dell’idea lequieriana di libertà — scrive: l’idea della libertà come potere di creazione si associa a quella dell’atto libero come “miracolo” nel senso rigoroso del termine. [...] conseguono a tali caratteri dell’atto libero quelli della sua ‘incomprensibilità’ e del suo ‘mistero’; forse James non si era reso conto che mutuare da un autore come Lequier (pur attraverso la mediazione più ‘laica’ di Renouvier) il concetto di libertà comportava anche l’eredità dell’impostazione filosofica e religiosa che lo sosteneva. Alla radice della negazione del libero arbitrio c’è un orrore della libertà, in quanto essa appare come un ostacolo per una comprensione esaustiva del reale: perciò il filosofo, nella concezione tradizionale, è colui che pone alla realtà il sigillo del dover essere, che dimostra come non potesse essere altrimenti. Non possiamo invece indicare la libertà che come “cominciamento”, “creazione”, “miracolo”, “mistero”, tutti termini che urtano le abitudini razionalistiche, se per razionalismo intendiamo l’aspirazione all’onnicomprensione: osserviamo che ogni atto libero è un miracolo nel senso ordinario del termine, perché, secondo la Scuola e secondo la nozione comune, che cos’è un miracolo? E’ un fatto che non dipende da nessuna legge, un fatto ch’è fuori di ogni legge, al di sopra di ogni legge e, per ciò stesso, un fatto che la scienza sconfessa perché sa bene di morire se lo tollera (...). Comprendendo che la libertà è incomprensibile, voi ne avete compreso tutto ciò che se ne può comprendere. G. Lequier, op. cit., Introduzione, pp. 76-77. 131
PP, p. 1178.
J. F. Rychlak, William James and the Concept of Free-Wil”, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 330. 132
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essere spontanea e imprevedibile (come nel secondo caso) naturalmente la questione è di ordine puramente speculativo, mancando a noi un mezzo qualunque prestabilire se gli stati di coscienza reagiscano o no sui nostri processi nervosi; e coloro che risolvono nell’un modo o nell’altro la questione, si basano su analogie di ordine generale, o su presunzioni desunte da altri campi. Come semplici concezioni, ambedue le teorie, quella che fa dell’attenzione un effetto e quella che ne fa una causa, sono egualmente chiare e chiunque pretenda di affermare che una o l’altra è vera deve basarsi su concetti metafisici o generali, anziché su concetti scientifici o particolari133. La questione è di ordine puramente speculativo, ma James, dopo avere riconosciuto che non si tratta più di capire se la coscienza sia causa o effetto (ovviamente solo nel primo caso è possibile un’azione libera), ma piuttosto di scorgere l’esistenza di altre cause (‘mentali’) che possano determinare la coscienza anche non materialmente, sembra fare un passo indietro e parla del dilemma tra le due teorie (quella automatistica e quella interazionistica) come se questo fosse il cuore del problema. In sostanza, James sembra dimenticarsi di avere detto che c’è una bella differenza tra il dire che la coscienza è causa e che è causa libera e riporta la questione al dilemma tra epifenomenismo e interazionismo modificato, mentre ora si tratterebbe di comprendere il funzionamento della coscienza già all’interno della prospettiva interazionistica dimostrata ‘circostanzialmente’. Questa è la questione “puramente speculativa”. Abbiamo rilevato questa apparente incongruenza della parte conclusiva dei Principles non per dimostrare il fallimento speculativo di un’opera collocata — ingenuamente — al di qua della metafisica, quanto piuttosto per anticipare come tale incongruenza si trascinerà poi anche nel primo libro schiettamente filosofico scritto da James, la Will to Believe. Attraverso i saggi raccolti sotto questo titolo James cercherà, dopo avere ricordato l’impossibilità di dimostrare la libertà della volontà dell’uomo, di mostrare i motivi razionali (ma non squisitamente intellettuali o scientifici) che ci debbono spingere a una a superare una visione del mondo rigidamente deterministica. Il suo tentativo, come vedremo, sarà
133 PP, p. 424. E’ interessantissimo, a questo punto della nostra analisi, citare un brano che James scrisse in riferimento alla filosofia di Renouvier: esso, oltre a sottolineare l’importanza del ruolo del filosofo francese per l’opera di James (proprio a proposito del suo pensiero indeterministico) chiarisce maggiormente il concetto jamesiano di libertà legato a quello di volizione; Per lui [Renouvier] si tratta [la questione della libertà] semplicemente della questione dell’ambiguità di certi futuri, di quegli atti umani, propriamente, che sono preceduti da una deliberazione. Quali sono qui i fenomeni? Una rappresentazione si affaccia alla mente, ma, prima che possa tradursi in azione, essa è inibita da un’altra che le si oppone. Questa, nel momento di tradursi essa stessa in azione è a sua volta frenata dalla prima, che ritorna con una rinnovata intensità e così via per un certo periodo il pendolo va e viene, fino a quando una o l’altra rappresentazione torna con un tale grado di rafforzamento che il tumulto cessa e un atto, una decisione per il futuro, o l’arresto di un appassionato impulso accade. Questo prevalere di una rappresentazione è ciò che si chiama volizione. L’intera questione della sua predetrminazione è legata all’intensità del grado di rafforzamento con la quale ricorre la rappresentazione vincente. Nei casi critici, (che sono gli unici casi che riguardano la questione) questa intensità è sconosciuta all’inizio. Ma si tratta di quantità potenzialmente ed essenzialmente conoscibile? Se no, i nostri atti sono in alcuni casi i reali cominciamenti di una serie di fenomeni, la cui realizzazione esclude altre serie che precedentemente erano possibili. Se sì, essi sono parte di un’uniformità eterna e adamantina. Ma chi può decidere la cosa? L’argomentazione di Bain che di fatto gli uomini si aspettano sempre che ognuno agisca secondo una prevedibile uniformità di comportamento, è, sit venia verbo, spazzatura. Essa non potrebbe infatti essere accolta da chi non avesse già su altre basi deciso in favore del determinismo. W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 324.
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felice, ma rimarrà insoddisfacente proprio perché esso, nato in seguito allo scetticismo con cui si concludono i Principles, cercherà di giustificare la credenza in qualcosa che non è dimostrabile, ma soprattutto che sembra non essere pensabile. Riferendosi all’ipotesi della realtà di un mondo che contenga veramente elementi di novità (rappresentati dalle nostre azioni libere) James scrive:
Anche se la spiegazione concettuale ti un mondo siffatto non è possibile, rimane il fatto che noi “facciamo esperienza della novità comunque. Il che trascende il perché.134” La teoria jamesiana della volontà di credere sarà allora in grado di dire perché noi dobbiamo accettare questo che, ma rimarrà muta, proprio perché non pensata per rispondere alla questione, intorno al come.
3.2.8 Il darwinismo di William James Prima di concludere questo capitolo ci sia però consentito di tirare le somme di quell’importante relazione che fin dall’inizio, parlando dello stretto legame tra la filosofia di James e quella di Charles Renouvier, ponemmo come fondamentale — e complementare — per comprendere la genesi del pensiero indeterministico jamesiano: quella con la teoria evolutiva di Charles Darwin.
In questo sforzo riassuntivo ci sarà sufficiente ricordare quanto già detto sopra (proprio al proposito della difesa scientifica della possibilità di una volontà libera) e approfondire brevemente altri punti in cui l’importanza dell’eredità darwiniana si mostra in tutta la sua forza nella psicologia del nostro autore. Cercheremo poi di comprendere se si possa parlare a buon diritto di un “darwinismo” di William James — giusta anche la sua strenua difesa della teoria selettiva contro ogni ipotesi lamarckiana — e di introdurre infine al primo Capitolo della prossima Parte, che sarà dedicato a comprendere il ruolo meno specifico, potremo dire metodologico, che la scienza evoluzionistica — e non solo — ebbe nella preparazione di un terreno epistemologico atto ad accogliere varie ipotesi filosofiche e scientifiche capaci di superare l’impasse scettica e fallibilistica in cui la scienza sembrava essere precipitata nella seconda metà del secolo scorso.
Gli aspetti più rilevanti del pensiero jamesiano si sviluppano a partire dalla discussione delle teorie evoluzionistiche di Darwin e Spencer. In un gruppo di articoli pubblicati tra il 1879 e il 1885, alcuni dei quali ripresi integralmente nei Pinciples of Psychology, accanto al 134
P. B. Brennan, op. cit., p. 41.
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fondamentale consenso allo spirito dell’evoluzionismo, emerge chiaramente la posizione che James avrebbe continuato a mantenere: rifiuto delle concezioni deterministiche ed esaltazione del valore dell’azione e della volontà individuali nonché della capacità dell’individuo biologico di “selezionare” la realtà che lo circonda in funzione dei propri bisogni e interessi135. Anche a prescindere dal valore indeterministico che James riuscì a dare all’evoluzionismo darwiniano136, possiamo senz’altro dire che il suo tentativo di costruire una psicologia scientifica, liberandola da ipoteche teologiche e metafisiche, si fondò principalmente sui progressi della biologia e quelli della fisiologia nervosa, due scienze relativamente nuove, che nei Principles of Psychology assumono il ruolo di capisaldi della psicologia “metafisicamente neutrale”. Scrisse James al rettore Eliot il 2 Dicembre del 1875: Una vera scienza dell’uomo si sta oggi costruendo sulla teoria dell’evoluzione, sui fatti dell’archeologia e sulla fisiologia del sistema nervoso137. Scrive il Perry nella sua monumentale monografia: Nella nostra generazione il darwinismo aggiunse nuove prospettive all’interno delle vecchie dottrine. Esso ha gettato luce sulla nostra costituzione istintiva e passionale e ha portato a numerosi tentativi di spiegare geneticamente numerosi fatti psicologici. Più tardi si cominciarono a fare ingegnosi studi sulla percezione sensoriale e sulle illusioni in laboratori di fisiologia, le stesse operazioni mentali più elevate vennero comparate in laboratorio e la loro durata venne misurata, la moderna fisiologia del cervello festeggiò i suoi trionfi, e alla fine lo studio delle aberrazioni mentali e di altri stati anormali della coscienza cominciarono a essere studiati con intelligenza e sotto un profilo psicologico138. Il legame fruttuoso fra evoluzionismo e fisiologia nervosa venne poi rafforzato — e anticipato — da James proprio in ragione dei suoi precoci interessi nel campo dell’evoluzione del sistema nervoso, nella
135
R. M. Calcaterra, op. cit., p. 38.
Dobbiamo sempre ricordarci che per ‘darwinismo’ James non intendeva evoluzionismo, in altre parole, la generalizzazione dell’evoluzione organica, ma l’ipotesi della selezione naturale. P. Wiener, op. cit., p. 104. Alla fine del presente paragrafo cercheremo proprio di sottolineare e di spiegare la forte ‘selezione’ operata da James all’interno delle varie teorie evolutive in favore di quella darwiniana. 136
TCWJ II, p. 11. Il ‘pionierismo’ di James fu veramente “epoch making” e i suoi effetti eccedono di molto i risultati scientifici dei Principles of Psychology: James giocò un ruolo importante nell’introdurre sia la biologia evoluzionistica inglese, sia la psicofisiologia tedesca nella psicologia americana. [...]. D. A. Dewsbury, William James and Instinct Theory Revisited, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 264. 137
138
273
TCWJ II, p. 53.
visione dinamica e interazionistica della mente e del cervello (anche se questa visione sarà solo l’epilogo della psicologia jamesiana dei Principles)139. Ma passiamo senz’altro a ricordare i ‘luoghi’ più darwiniani della psicologia jamesiana, tenendo sempre a mente le parole di Wiener e di Perry:
La relazione del darwinismo con lo sviluppo della filosofia di James non si trova solo in una parte dei suoi scritti psicologici e filosofici. Come sottolinea il professor Perry nella sua magistrale opera su James, L’influenza di Darwin fu precoce e profonda, e i suoi effetti si mostrano in parti diverse e impreviste140. Quali sono dunque queste parti in cui si mostra l’influenza di James141? Certamente James dovette a Darwin la particolare attenzione per la dimensione istintiva dell’uomo: 1) l’uomo è un animale fornito di numerosi istinti — contrariamente a quanto si pensava in una visione
139 William James era affascinato dall’evoluzione del cervello e del sistema nervoso e dalla teoria darwiniana sull’espressione fisiologica delle emozioni nell’uomo e negli animali, insieme ad altre interpretazioni darwiniane del comportamento umano. P. Wiener, op. cit., p. 97. Negli anni ’70, quando James cominciava a costruirsi una propria identità intellettuale, lo scontro fra scienza (e più precisamente, la teoria darwiniana dell’evoluzione) e filosofia — nelle forme dell’idealismo tedesco e dell’empirismo inglese — era giunto all’apice. Darwin aveva insegnato ai propri contemporanei che il mondo naturale è caratterizzato da cambiamenti spontanei, interazione tra l’individuo e il suo ambiente, e, cosa ancor più importante, dalla libera scelta. Per filosofi che avevano costruito tutto il proprio pensiero sull’immutabilità dell’universo, questa prospettiva era terrificante. Per James, attento ai particolari, esperto di metodologia scientifica , e in cerca dell’affermazione della propria autonomia, queste idee apparivano incredibilmente fertili. Esse rappresentavano la più grande scoperta della propria vita: la volontà di scegliere. L. Simon, op. cit., p. xxi. Abbiamo già ampiamente mostrato quale fosse la disposizione psicologica di James nei confronti di una visione meccanicistica dell’universo (alla fine degli anni ’60); meno pacifico è il fatto che il darwinismo potesse giustificare una prospettiva scientifica e filosofica indeterministica.
P. Wiener, op. cit. p. 99. Giova riportare qui i passi che seguono e precedono immediatamente la frase del Perry riportata da Wiener: James aveva conosciuto gli scritti di Darwin già come studente e nel 1868 aveva scritto una recensione delle Variation of Animals and Plants under Domestication, nella quale egli lodava Darwin come scienziato [...]. L’influenza di Darwin fu precoce e profonda, e i suoi effetti si mostrano in parti diverse e impreviste. Darein, come Jeffries Wyman, era per James un modello di scienziato: È evidente ch’egli lo apprezzava come uomo, nelle qualità della sua scrupolosità scientifica e della modestia. Ma egli apprezzava e adottò anche le sue idee. Il riconoscimento della presenza di fattori a priori nella conoscenza umana era un’applicazione della nozione darwiniana di variazioni spontanee e accidentali: darwiniana era poi la sua tendenza a vedere la vita come un esperimento rischioso. TCWJ I, p. 470. Per quanto certamente queste considerazioni del Perry siano totalmente condivisibili, bisogna sottolineare il fatto che il darwinismo di James è ben più ampio e profondo. Wiener, pur riconoscendo di essere poco più che un prosecutore dell’opera del Perry, può essere considerato a buon diritto il primo studioso ad avere indagato meticolosamente gli aspetti darwiniani della psicologia jamesiana. Ovviamente Wiener, pur sottolineando l’importanza della teoria darwiniana per la formazione intellettuale e scientifica di James (e degli altri ‘fondatori’ del pragmatismo), riconosce i limiti della sua prospettiva interpretativa: Sarebbe ingannevole [...] dare l’impressione che James abbia affrontato lo studio della natura dell’uomo solo dal punto di vista darwiniano. James non affrontò mai alcun argomento da un solo punto di vista. P. Wiener, op. cit., p. 114. 140
Nell’esporre queste considerazioni riassuntive non abbiamo qui seguito alcuno schema, ma semplicemente abbiamo fatto riferimento a quanto via via ‘scoperto’ nel corso della nostra analisi dei Principles (e di alcune parti della Will to Believe); né ci siamo rifatti all’autorità di Wiener, per quanto le sue conclusioni siano molto vicine alle nostre. Certamente altri potranno individuare molti altri punti di contatto tra James e Darwin; scrive comunque Wiener, introducendo la sua esposizione del James ‘darwiniano’: I germi del darwinismo di James e dei suoi precoci interessi morali e metafisici si nascondono in più di un capitolo dei Principles of Psychology. Li vediamo proliferare abbondantemente nei capitoli del suo grande libro che riguardano l’evoluzione delle funzioni del cervello, dell’istinto, delle emozioni, della volontà, del ragionamento e nelle ultime dieci pagine del capitolo finale sulle verità necessarie e gli effetti dell’esperienza.. Ivi, p. 108. 141
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fissistica delle specie — che si sono evoluti a livello filogenetico e che derivano a loro volta dai meno numerosi istinti degli animali inferiori142: per esempio, l’istinto alla simpatia è certamente derivato da quello gregario, anche se, una volta evolutosi nell’uomo, assume una fisionomia autonoma. 2) Caratteristiche dell’uomo più complesse dei semplici istinti sono stati selezionati storicamente:: Il ‘sapore’ darwiniano della filosofia di James è forte nella sua discussione riguardo la necessità della guerra per il miglioramento e lo sviluppo della razza. La guerra aveva selezionato positivamente i tratti dell’eroismo, il sacrificio, la resistenza”, così come l’organizzazione, la lealtà, il patriottismo e l’obbedienza all’autorità143. 3) A livello ontogenetico, James ritiene che anche il pensiero più complesso dell’uomo rappresenti un’evoluzione dell’arco riflesso. 4) Istinti e archi riflessi nascono come variazioni spontanee e vengono selezionati a seconda della loro adattabilità all’ambiente in mutamento. 5) I caratteri che sono stati selezionati si trasmettono ereditariamente, ma non vengono ereditati i caratteri acquisiti (vedremo meglio questo punto alla fine trattando dell’opposizione di James a qualsiasi forma di lamarckismo). 6) La mente seleziona — attraverso la facoltà dell’attenzione — il ‘materiale’ che le si presenta sotto forma di sensazioni e questo a livello inconsapevole e consapevole. 7) La mente seleziona anche il materiale che essa stessa produce, i concetti, in relazione all’accettabilità maggiore o minore delle conseguenze ch’essa prevede porteranno. 8) I primi movimenti dell’animale uomo sono considerabili variazioni spontanee che vengono selezionate in base alla loro adattabilità alle richieste dell’ambiente e alle esigenze del soggetto. 9) Gli stessi concetti sorgono nella mente dell’individuo come variazioni spontanee di associazioni che verranno selezionate volontariamente dal soggetto in vista dei fini a loro volta precedentemente selezionati. 10) Gli interessi dell’uomo, in base ai quali egli seleziona le proprie azioni, sono considerabili variazioni spontanee selezionate in base alla possibilità di adattamento che esse comportano144. 11) Inoltre, non solo la mente opera ‘darwinianamente’ — selezionando variazioni L’innatismo prende in James due forme In primo luogo, influenzato da Darwin, James riconobbe all’essere umano una quantità di atteggiamenti e di tratti innati. [...] In secondo luogo, egli credeva nella diversità e nella fecondità delle prime esperienze. TCWJ II, p. 80. Scrive al proposito Allen: Un’altra dottrina presente nei Principles è quella che Ralph Barton Perry chiama “innatismo” [nativism]; James aveva imparato da Darwin a credere che la mente dell’uomo avesse dei tratti, delle tendenze e delle preferenze innate, acquisite dal sistema nervoso attraverso il processo di “selezione naturale”. G. W. Allen, op. cit., p. 321. Desbury poi, all’interno del legame tra la teoria jamesiana degli istinti e quella darwiniana, rintraccia delle affinità ancora più strette: Darwin pensava che la maggior parte degli istinti si fosse evoluta attraverso il processo di selezione naturale ch’egli aveva delineato. Non per questo riteneva però di poter spiegare tutti gli istinti attraverso il principio della selezione naturale e quindi sosteneva anche l’ipotesi che alcuni istinti si fossero trasmessi come abiti acquisiti. [...]. Darwin discusse molti temi che sarebbero stati importanti per James e altri autori successivi. Fra i principi sviluppati da Darwin c’erano i seguenti: gli istinti sono finalizzati al benessere della specie, certi stinti non possono essere considerati assolutamente perfetti e gli istinti naturali, in cattività, possono essere perduti. D. A. Dewsbury, William James and Instinct Theory Revisited, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 267. 142
143 G. Cotkin, op. cit., p. 147; a riguardo cfr. Julius S. Bixler, Two Questions raised by ‘The Moral Equivalent of War’, in In Commemoration of William James, 1842-1942, Columbia University Press, New York 1942, pp. 58-71. 144
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Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 210.
spontanee — essa si anche evoluta darwinianamente (e abbiamo visto essere questa la prova “circostanziale” per la visione interazionistica di James). 12) Per James la mente non è in un rapporto necessariamente armonico con l'ambiente in cui vive e in relazione al quale deve essere studiata, così come l’animale non è in rapporto necessariamente armonico con l’ambiente in cui vive145. 13) Molti dei caratteri che sono stati selezionati nell’uomo non lo sarebbero stati se non fossero stati uniti alla selezione positiva di altri caratteri a essi strettamente legati (principio di correlazione): Di fatto, in un organismo complesso come è il sistema nervoso esistono molte reazioni incidentali ad altre che si sono evolute per qualche finalità utile, ma che non si sarebbero mai evolute indipendentemente per un’utilità loro propria.[...] tutta la vita estetica dell’uomo deve riallacciarsi a questa origine accidentale. Sarebbe pazzesco il supporre che nessuna di queste reazioni chiamate emozionali potesse essere sorta in questo modo quasi accidentale146. 14) Le emozioni dell’uomo si sono evolute naturalmente e la paura dell’ignoto e l’amore per il noto — che vedremo essere fondamentale per il sentimento della razionalità —sono anch’essi frutto dell’evoluzione: La grande disgrazia nel problema delle emozioni in psicologia è che esse vengono considerate troppo come cose assolutamente individuali. Fintanto che vengono poste lì come tante entità psichiche eterne e sacre, come le antiche specie immutabili della storia naturale, tutto ciò che con esse si può fare è di catalogarne riverentemente i diversi caratteri, i diversi punti, i diversi effetti. Ma se le consideriamo come effetti di cause più generali (nello stesso modo come le specie” sono considerate quali prodotti dell’eredità delle variazioni), il semplice distinguerle e catalogarle diventa un affare d’importanza assai secondaria. Ora, le cause generali delle emozioni sono indubbiamente fisiologiche147. 145
Ivi, p. 256.
146
PP, p. 1097.
147 Ivi, pp. 1064-65. Addentrandoci nell’ingens sylva dei Principles abbiamo tralasciato di analizzare la teoria jamesiana delle emozioni. Non possiamo qui approfondire questo interessantissimo argomento, ci basti però sottolineare come anche in questo caso non manchi di farsi sentire l’influsso darwiniano: L’antecedente — della teoria periferica delle emozioni — era ancora darwiniano, l’Expression of the Emotions in Men and Animals, ma altri se ne stavano occupando attivamente come il fisiologo danese Carl Lange che col suo Ueber Gemuethsbewgungen dell’87 avrebbe legato il proprio nome alla teoria. A. Santucci, op. cit., p. 65. Scrive il Perry: L’influenza di Darwin spinse James a unire le emozioni con gli istinti e a sottolineare l’aspetto biologico dell’espressione emotiva. TCWJ II, p. 89. Wiener sottolinea la paternità darwiniana della teoria di James: [...] seguendo il Darwin delle Expressions of the Emotions in Men and Animals (1872), James difese la teoria per cui tutte le emozioni sono dei fenomeni organici, “rigidità dei muscoli, rilassamento, costrizione delle arterie, [...]”. P. Wiener, op. cit., p. 116. E ancora: Lo studio darwiniano sulle espressioni delle emozioni negli animali e la teoria fisiologica jamesiana delle emozioni spianò la strada per le psicologie comportamentistiche del ventesimo secolo. P. Wiener, op. cit., p. 198. La teoria jamesiana delle emozioni è sufficientemente nota, ma possiamo riassumerla, secondo le stesse parole dell’autore, dicendo che noi siamo tristi perché piangiamo, siamo spaventati perché tremiamo e non viceversa, come si è soliti pensare. Cfr. PP, pp. 1065-1066. A tutta prima questa può sembrare unateoria provocatoria o semplicemente paradossale, ma non è così; giova al proposito citare un lungo brano della recentissima monografia di Riconda: È questa la celebre teoria somatica dell’emozione, che non solo assume comeogni teoria che per l’emozione vi è un processo di qualche tipo nel sistema nervoso centrale, ma anche afferma che questo processo consiste in correnti afferenti e non efferenti (e qui James ha buon gioco nel sottolineare che non v’è esperienza di queste correnti efferenti); essa può dirsi periferica in quanto insiste su quel che accade alla periferia del corpo nei nostri arti (ma occorre aggiungere anche nelle nostre viscere) in confronto alla teoria centralistica che le emozioni sono piuttosto dovute al sistema centralizzato nel cervello come l’ipotalamo. James stesso diede una formulazione meno paradossale, osservando contro certi suoi critici che quel che egli voleva sostenere non era che senza il correre o il piangere non si danno la paura o la tristezza, ma semplicemente che, se non si verificano cangiamenti
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15) James si servì — anche — della teoria darwiniana per giustificare il proprio rifiuto delle dottrine edonistiche e utilitaristiche148. 16) Come abbiamo più volte accennato, James, nell’ultimo capitolo dei Principles, applicò le conclusioni della biologia darwiniana all’analisi dell’attività conoscitiva dell’uomo: James, nei Principi non solo aveva elaborato la sua generale visione teleologica della mente umana, egli, nell’ultimo capitolo, “verità necessarie e gli effetti dell’esperienza” aveva sviluppato in extenso la sua interpretazione della mente come governata da predisposizioni innate che, come le variazioni darwiniane, debbono la propria sopravvivenza alla loro funzione adattiva149. Riprenderemo fra breve questo punto perché esso ci dà l’opportunità di affrontare il tema dell’ ‘ortodossia’ jamesiana rispetto al pensiero di Charles Darwin. Finora abbiamo mostrato i luoghi psicologici in cui emerge una relazione diretta del pensiero di James con quello di Darwin, ma, ricordando qui le parole del Perry, secondo cui L’influenza di Darwin fu precoce e profonda, e i suoi effetti si mostrano in parti diverse e impreviste150, possiamo dire che, anticipando in parte alcuni argomenti che caratterizzeranno la prossima e ultima Parte della nostra tesi, anche in altri scritti James riconosce il proprio debito nei confronti dell’opera dello scienziato inglese. Come si ricorderà, lo scritto più darwiniano (almeno esplicitamente) di James è di argomento storico e sociologico: 17) in Great Men and their Environment, James applica i concetti di selezione e di variazioni spontanee anche agli uomini intesi come soggetti della storia; ci troviamo di fronte ovviamente a una selezione artificiale: l’ambiente (sociale, culturale, economico etc.) seleziona quegli individui che più di tutti si mostrano adatti al vivere nella società; 18) All’interno di questa prospettiva, i geni sono poi coloro che sono in grado di cambiare lo stesso ambiente che li seleziona; anche in questo caso il parallelismo con la teoria darwiniana è
corporei interni (di tipo viscerale) in qualche modo connessi con il correre o il piangere, neanche si verifica l’emozione corrispondente. Egli anche chiarì che non voleva assolutamente negare la parte che le idee possono avere nel risvegliare una emozione, ma solo che l’emozione non segue direttamente da esse, ma da quanto dal loro possesso consegue nel nostro corpo, e che in fondo non negava neanche emozioni spirituali, purché gli si concedesse che avevano qualche riverbero corporeo. È chiaro comunque il suo atteggiamento di base mai smentito, non ci sono emozioni per così dire incorporee, né l’emozione è una specie di “spirito” fra la mente e il corpo, l’emozione consiste invece nel sentimento di cangiamenti organici corporei.. G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., pp. 74-75. Nel suo articolo del 1894, “The Physical Basis of Emotion”, James criticò quelli che avevano interpretato materialisticamente la sua teoria. Egli era convinto che la sua teoria fosse nata grazie all’introspezione e avesse così una solida base empirica. Non si trattava di materialismo. Wayne Viney, A Study of Emotion in the Context of Radical Empiricism, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James., cit., p. 246. Il concetto di piacere è troppo passivo per interessare James, che unì Darwin a Mill e biologicizzò il piacere degli utilitaristi nella soddisfazione di bisogni e di desideri. WB, p. xxxi. 148
149
TCWJ II., p. 450.
150
Ivi, p. 470;
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evidente. 19) Il meccanismo selettivo si applica inoltre ai principi morali151. 20) Anche le teorie scientifiche vengono selezionate positivamente o negativamente: positivamente quando soddisfano le esigenze dell’individuo152 e quando riescono ad adattarsi al corpus scientifico e culturale esistente153.
Questi che abbiamo qui illustrato sono i punti che più di tutti, a nostro giudizio, dimostrano lo stretto legame esistente tra la psicologia e parte154 della filosofia di James con la teoria darwiniana della selezione naturale. Il punto 16 è per noi molto interessante, perché proprio all’interno dell’ultimo capitolo dei Principles — che comprende la teoria gnoseologica ‘darwiniana’ — James prende una posizione netta e per la prima volta esplicita nei confronti della teoria della selezione naturale. Grazie all’analisi delle parti più generali di quest’ultimo capitolo, cercheremo allora di giungere a una conclusione intorno al darwinismo di William James.
Cfr. in proposito The Moral Philospher and the Moral Life, in WB, pp. 41-162. Anche Morgan seguì James su questa strada: Secondo la sua teoria, le idee vere — vere per l’individuo — sono quelle che sopravvivono al processo selettivo. In maniera analoga, le vere idee morali sono quelle che si adattano a quelle credenze che costituiscono l’ambiente morale interno. R. J. Richards, op. cit., p. 397. 151
152
Parleremo diffusamente della qualità di queste “esigenze” nella prossima Parte.
153 Molte, se non la maggior parte, delle nostre idee, sono sopravvissute perché sono state verificate e selezionate dall’ambiente. G. Cotkin, op. cit., p. 165. 154 La nostra Tesi si concluderà con l’analisi del primo scritto schiettamente filosofico di William James: The Will to Believe. Non abbiamo perciò preso in esame i numerosi punti di contatto fra James e Darwin nelle opere successive, a cominciare da Pragmatism: L'appello di James al darwinismo è la radice prima dela sua successiva teoria pragmatica dell'intelligenza e del significato. Per nessuno come lui è vero quel che si suol dire in generale e che si è già ricordato, e cioè che il pragmatismo è in larga misura un'applicazione e una conseguenza dell'evoluzionismo darwiniano. C. Sini, op. cit., p. 253.
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3.2.9 James più darwiniano di Darwin? James, scrivendo sulle verità necessarie e gli effetti dell’esperienza155, riprende dei temi che aveva già trattati nei precedenti capitoli dei Principles (analizzando la facoltà del ragionamento, la funzione e la genesi degli istinti, il ruolo della volontà), rimarcando in maniera esplicita la valenza rivoluzionaria della teoria evolutiva darwiniana applicata a quella ch’egli chiama la psicogenesi; scrive il nostro autore all’inizio del capitolo XXVIII: In questo capitolo conclusivo io tratterò di ciò ch’è stato chiamato psicogenesi e cercherò di capire come le connessioni delle cose nell’ambiente esterno possono giustificare la nostra tendenza a pensare alle cose in una certa maniera e a reagire a esse in una maniera piuttosto che in un’altra [...]156. Il problema è ancora una volta — come vedemmo trattando della posizione critica di James nei confronti della filosofia spenceriana e dell’associazionismo in genere — quello della spontaneità e dell’attività della conoscenza, riguardata qui da un punto di vista schiettamente gnoseologico. James chiama aprioristi coloro che ascrivono alla struttura mentale dell’uomo un’origine trascendentale, autonoma da ogni possibile esperienza. A questi si oppone la visione degli empiristi evoluzionistici (evolutionary empiricists) che fanno dell’esperienza — non limitata a quella del singolo individuo — la fons et origo della nostra mental structutre. Occorre subito dire che l’evoluzionismo di questi ultimi è ben differente se inteso darwinianamente o lamarckianamente. James, come vedremo fra breve, si affiderà ai cardini della teoria darwiniana dela selezione naturale per allontanarsi da una visione eccessivamente passiva della mente umana (secondo la prospettiva associazionistica) che in Spencer si declinò coi tratti tipici dei principi ereditari di ispirazione lamarckiana. Giusta la distinzione tra aprioristi ed empiristi che abbiamo qui brevemente delineato, possiamo già anticipare che James non si considera un empirista (i. e. non pensa che la nostra struttura mentale rispecchi semplicemente la struttura degli oggetti che ci viene impressa dall’esterno attraversi i cinque sensi), ma nemmeno un apriorista, nel senso che non ritiene eterni e non giustificabili genealogicamente quelle necessary truths — tra cui vanno annoverate anche gli istinti evolutisi nella specie umana — che debbono invece essere considerate come la selezione di variazioni spontanee che sono state selezionate negativamente o positivamente a seconda del loro grado di adattabilità all’ordine esterno delle cose. In breve, nell’evoluzionismo darwiniano 155 Necessary Truths and the Effects of Experience è il titolo dell’ultimo capitolo dei Principles che qui ci apprestiamo ad analizzare. James, nei Principles, non solo aveva elaborato la sua generale visione teleologica della mente umana, egli, nell’ultimo capitolo [...] aveva sviluppato in extenso la sua interpretazione della mente come governata da predisposizioni innate che, come le variazioni darwiniane, debbono la propria sopravvivenza alla loro funzione adattiva. TCWJ II, p. 450. 156
279
PP, p. 1215.
James troverà proprio la risposta scientifica a quell’empirismo associazionistico che faceva dell’esperienza esterna l’unica spiegazione del nostro modus cogitandi; ciò non toglie ovviamente che il nostro autore guardi all’esperienza come a vera e propria magistra vitae, solo, essa non deve essere considerata solo dal suo lato passivo157: Noi siamo certi che il fuoco brucia e che l’acqua bagna, meno certi che il tuono seguirà il lampo e per niente certi del fatto che il cane abbaierà al nostro passargli accanto. Sotto questo riguardo l’esperienza ci informa a ogni momento della giornata e fa della nostra mente uno specchio delle connessioni spaziali delle cose nel mondo158. In questa prospettiva, l’esperienza è la nostra educatrice, colei che ci aiuta, un’amica159. James, come abbiamo precedentemente sottolineato, non ritiene che questa sia una posizione scorretta; scorretto è invece ritenere che tutte le nostre associazioni mentali siano il prodotto della ricezione passiva delle associazioni esterne, sia che questo empirismo si limiti all’esperienza della vita dell’individuo sia che esso, secondo le recenti teorie evoluzionistiche, coinvolga a pieno titolo anche le esperienze dei nostri antenati. Ancora una volta è Spencer il foil di cui si serve James per preparare il terreno all’esposizione della propria teoria160. Non mette conto di citare qui nemmeno parte del lunghissimo brano riportato dal nostro autore161, ci basti però dire che da esso emerge uno spencer dai tratti marcatamente lamarckiani e teso incessantemente a sottolineare l’importanza e soprattutto la sufficienza delle associazioni che passivamente l’uomo assorbe empiricamente, in relazione soprattutto alla loro maggiore o minore frequenza. L’introduzione, attraverso un suo fiero esponente, dei principi lamarckiani di trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti, porge a James il destro per distinguere fra due forme di evoluzionismo: Mentre il primo modo di evoluzione viene chiamato dell’adattamento, il secondo
157 James pensava che il suo ruolo nella filosofia sarebbe dovuto essere quello di salvare l’empirismo attraverso la fedeltà alla sua propria tradizion , dal momento che l’errore dei suoi rappresentanti più recenti stava non nell’eccesso ma nella timidezza nel sostenere le proprie idee. TCWJ I, p. 544. 158 PP, p. 1217. Poche pagine più avanti, James riconosce la passività — e l’importanza — della mente di fronte a questo tipo d’esperienza: Queste verità, che il fuoco brucia e l’acqua bagna, che il vetro riflette e il calore scioglie la neve, che i pesci nell’acqua vivono e sulla terra muoiono, e così via, costituiscono una non piccola parte della nostra più fine educazione e sono tutto quanto c’è fra le bestie e gli uomini inferiori. Qui la mente è passiva, una copia servile, fatalmente e irresistibilmente informata dall’esterno. E’ merito da ascriversi alla scuola associazionistica quello di avere visto l’ampio scopo di questi effetti della vicinanza nello spazio e nel tempo e l’applicazione esagerata di questo principio non deve farci perdere di vista l’eccellente servigio ch’essa ha reso alla psicologia. Ivi, p. 1229. 159
Ivi, p. 1217.
160 Una maniera per confutare Spencer stava nascendo [con la lettura di Darwin]in James. Senza dubbio, nella stessa recensione del 1868, James aveva già notato due fattori fondamentali: la variazione e l’adattamento che rendono possibile la sopravvivenza. Spencer, sostenendo la teoria lamarckiana, non poteva apprezzare il meccanismo biologico della selezione per variazione. James avrebbe tratto [dalla teoria darwiniana] la teoria mentale dell’evoluzione, o “psicogenesi”. W. R. Woodward., James’s Evolutionary epistemology: “Necessary Truths and the Effects of Experience”, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 158.
Si tratta di cinque pagine tratte dalla parte conclusiva del capitolo dei Principles of Psychology intitolato Reason. (§§ 189, 205 e 208). Cfr. PP, p. 1218, n. 2. 161
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[...] è quello del, come le chiamò Darwin, delle “variazioni accidentali”, per cui alcuni [individui] nascono con delle caratteristiche che aiutano loro e la loro progenie a sopravvivere. Le variazioni di questo tipo, non c’è alcun dubbio, tendono a diventare ereditarie162. Si delinea così una prima fondamentale distinzione fra queste due differenti prospettive evoluzionistiche; chi sia interessato — scrive James — a comprendere la psicogenesi deve dunque distinguere i medesimi effetti come il frutto di cause differenti. James fa l’esempio di una certa abilità (come quella del disegnare): c’è una bella differenza tra la capacità innata di un individuo a disegnare e quell’abilità che invece viene ottenuta dopo un lungo e faticoso esercizio. I risultati sono gli stessi, ma la causa è differente163: in un caso ci troviamo di fronte a un’immagine passiva della mente164 (evoluzione per adattamento), mentre nell’altro questa ha una sua spontaneità e una sua originalità che essa impone al mondo. I metodi dell’esperienza esterna (front-door method) e quella dell’esperienza interna (back-door method) cominciano a delinearsi nella loro reciproca opposizione; ovviamente la preferenza di James è per quest’ultimo: La mera esistenza di cose che debbono essere conosciute non è sufficiente a spiegare la nostra conoscenza che abbiamo di esse. Le nostre scoperte astratte e generali di solito ci accadono come dei pensieri fortuiti; ed è solo après coup che noi ci accorgiamo che esse corrispondono a qualche realtà. Quel che immediatamente le produsse erano pensieri precedenti, coi quali e con i processi cerebrali dei quali, la realtà non ha niente a che fare. Perché non potrebbe essere lo stesso per gli elementi originali della coscienza, la sensazione, lo spazio, il tempo, la somiglianza, la differenza, e le altre relazioni? Perché queste non potrebbero nascere col metodo interno [back-door method], attraverso tali processi fisici che risiedono nella sfera degli accidenti morfologici, della somma interna degli effetti, piuttosto che in quella della “presenza sensibile” degli oggetti? Perché queste non potrebbero essere delle pure idiosincrasie, delle variazioni spontanee, adattate per buona sorte (quelle fra loro che sono sopravvissute) ad avere conoscenza degli oggetti [...] senza essere in alcun modo immediati effetti di quelli? Io ritengo che troveremo questa prospettiva sempre più plausibile col procedere della nostra indagine165. James non tarda ad applicare i principi della selezione esterna di variazioni interne della nostra mente ai campi più diversi: nel paragrafo dedicato alla genesi delle scienze naturali, egli ricorda che ogni concezione 162
Ivi, p. 1224.
163
Cfr. ivi, p. 1225.
164 Per quanto — come appare evidente da quanto detto sopra — James consideri quest’immagine passiva della mente del tutto inadeguata a rappresentarne la spontaneità e l’autonomia, egli ne riconosce il fascino e la ‘naturalezza’: Quest’idea del mondo esterno capace di costruire una sorta di duplicato di sé [...] è così semplice e naturale ch’è anche difficile immaginare come si possa contrastarla.. Ivi, p. 1227. 165 Ivi, p. 1228. La genesi dei fatti psichici elementari resta un mistero, obiettava James, anche quando si sia formato il tessuto nervoso sul quale il mondo agisce: perché non ci si potrebbe riferire nel loro caso a eventi morfologici fortuiti, a idiosincrasie, a variazioni spontanee adatte alla conoscenza degli oggetti? Può forse essere la libertà un “paradosso produttivo”?. A. Santucci , op. cit., p. 71.
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scientifica è prima di tutto il frutto di una qualche variazione spontanea che accade nel cervello. Se è vero che la sua sopravvivenza è decisa dall’incontro e dallo scontro del risultato di queste variazioni spontanee con l’esperienza della realtà, altrettanto vero è che questa ha il solo compito di selezionare e non certo quello di produrre. Qui la fedeltà al dettato darwiniano è totale e la distinzione operata dallo scienziato inglese sulle cause delle variazioni e le cause della selezione (e quindi della sopravvivenza) è riportata fedelmente dal campo biologico a quello psicogenetico. Un indizio a favore della sua prospettiva è rappresentato per James dal fatto che a medesime esperienze esterne — che dovrebbero, con la loro ‘forza’, determinare il nostro modo di pensare — menti differenti rispondo differentemente, mostrando così l’originalità e la spontaneità della coscienza166.
L’associazionista non è per James capace di spiegare questa spontaneità; egli ha creduto di risolvere il problema dell’omogeneità, dell’armonia, della conoscenza con la realtà, attraverso una riduzione dell’uomo a mero specchio del mondo; James certo non risolve il problema, ma certamente propone un’ipotesi interpretativa molto interessante e convincente, capace di “salvare i fenomeni” e con essi l’autonomia (condizione di libertà) della coscienza:
Esistono relazioni ideali e interne tra gli oggetti del nostro pensiero che in nessun senso possono essere interpretate come la riproduzione dell’ordine esterno dell’esperienza. [...] La peculiarità di queste relazioni fra gli oggetti del nostro pensiero che sono ritenute scientifiche è questa: che, sebbene esse non siano riproduzioni interne dell’ordine esterno più di quanto non lo siano le relazioni estetiche ed etiche, esse non si scontrano con quell’ordine ma esse — alcune di esse almeno e propriamente quelle che sono sopravvissute — sono congruenti con le relazioni spazio-temporali che affezionano le nostre impressioni167. La conclusione cui giunge James è dunque la seguente: la mente è piena di relazioni eterne e necessarie168 che essa individua tra alcune delle sue concezioni ideali e queste formano un sistema determinato ch’è
PP, p. 1234. Ma ciò non vale solo per la scienza: Quando passiamo dai sistemi scientifici a quelli estetici ed etici, ognuno deve ammettere che, sebbene gli elementi siano questione d’esperienza, la forma particolare della relazione che essi assumono sono incongruenti con l’ordine dell’esperienza ricevuto passivamente. Ivi, p. 1235. 166
Ivi, p. 1236. E che la mente abbia il potere di reagire esattamente in quel modo duplicato, può soltanto essere constatato come un’armonia fra la sua natura e la natura della realtà ad essa esterna , armonia onde segue che le qualità di entrambe coincidono fra di loro. Ivi, p. 1216. Non sono forse la concezione e la previsione fini soggettivi puramente e semplicemente? Esse sono il fine di ciò che noi chiamiamo scienza; e il miracolo dei miracoli, un miracolo non ancora chiarito esaurientemente da nessuna filosofia, è che l’ordine dato si presti al rimodellamento. Esso si mostra plastico a molti dei nostri fini, sia scientifici, sia estetici, o pratici. Ivi, p. 232, n. 7. Il “miracolo dei miracoli”, si stupiva James , è che esso [il mondo] si mostri plastico ai nostri bisogni [anche ai bisogni di conoscenza] : ma si tratta davvero di un miracolo, hanno obiettato i critici, o esso si spiega col presupposto ancora realistico della sua ricerca? A. Santucci, op. cit., p. 71. 167
168 Queste necessary truths appartengono dunque alla sfera mentale e non a quella oggettuale, non sono ‘riconosciute’ nelle cose esterne, ma sono prodotte internamente e applicate (se vengono positivamente selezionate) alla front-dor experience.
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indipendente (ma non contrastante!) con l’ordine di frequenza che si associa con l’esperienza. La parte attiva della nostra mente si completa dunque con quella passiva, l’esperienza back-door con quella frontdoor, in una maniera che esclude il ricorso della mera associazione per giustificare l’omogeneità tra conoscente e conosciuto.
Solo nella parte finale del capitolo James riprende il discorso sui due tipi di evoluzionismo, quello darwiniano e quello lamarckiano. L’ultimo paragrafo si chiama L’origine degli istinti; questo non deve però ingannare; James infatti guarda alle verità necessarie come a degli istinti evoluti, come a degli abiti con cui l’uomo ha a che fare con la realtà; ora, questi istinti — che rappresentano la parte autonoma e spontanea dell’individuo — che certamente sono a priori per il singolo individuo, possono essere interpretati fondamentalmente in due modi: o essi sono eterni e immutabili, oppure hanno subito un cammino evolutivo, come le specie animali. James scarta fin da subito la prima ipotesi e quindi abbraccia la seconda, che a sua volta si può distinguere, come abbiamo visto sopra in due modi radicalmente differenti; è la prima volta in tutti i Principles che James cita direttamente il grande biologo francese:
Lamarck sostiene che gli animali hanno desideri e per soddisfarli, assumono delle abitudini che si trasformano gradualmente in predisposizioni cui non si può resistere né si possono cambiare. Queste predisposizioni, una volta acquisite, si propagano trasmettendosi alla progenie, cosicché esse si trovano a essere vissute in nuovi individui, senza che questi abbiano avuto la necessità di esercitarle precedentemente169. Non mette conto qui di riportare le motivazioni scientifiche che James adduce per contrastare la prospettiva lamarckiana in favore di quella di Darwin. Ciò che invece ci interessa è comprendere perché il nostro autore contrastò così tanto una forma di evoluzionismo che, al tempo in cui uscirono i Principles, era ancora sostenuta da molti scienziati e aveva ispirato il pensiero di molti amici di James170.
L’essenza di queste verità è poi la comparazione, che si applica agli oggetti mentali: Esiste un ampio corpo di verità a priori o intuitivamente necessarie. Di fatto, queste sono solo verità di comparazione, ed esse esprimono le relazioni tra termini squisitamente mentali. PP, p. 1269. Dovremo seguitare a chiamare tali scienze gruppi di verità “intuitive”, “innate” o “a priori”, oppure no? Personalmente mi piacerebbe assai. Ma esito ad usare termini a cagione dell’odio per la loro concezione che la storia delle controversie filosofiche ha ispirato molte degne persone.. Ivi., p. 1255. 169
Ivi, p. 1270.
Fra questi, va ricordato Charles Sanders Peirce, che non era comunque un’eccezione: Anche il “lamarckismo” — con le sue due fondamentali affermazioni: l’influenza dell’ambiente nel determinare le variazioni della specie; eredità dei caratteri acquisiti mediante il processo di evoluzione — trovò in America i suoi sostenitori, fra i quali emerge con particolare spicco la figura di Benjamin Rush. C. Sini, op. cit., p. 22. Ma anche un altro personaggio estremamente importante per la formazione filosofica di James era — come abbiamo ricordato — più vicino alle posizioni lamarckiane piuttosto che a quelle darwiniane, sebbene in questo caso a ragioni più squisitamente scientifiche e filosofiche si aggiungessero anche motivazioni politiche: [...] Come molti Francesi, 170
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Sebbene molti psicologi erano ancora lamarckiani nella loro interpretazione degli istinti come prodotto di esperienze ancestrali, James rimase fermo nella sua profonda convinzione nella ineliminabile originalità e nella innata peculiarità della costituzione di ogni individuo [...]. Tale originalità e indipendenza ben si adattava alla dottrina morale jamesiana del libero arbitrio e alla correlata metafisica di un universo aperto. James preferì la teoria darwiniana della selezione naturale di variazioni spontanee a quella lamarckiana, poiché quest’ultima significava l’eredità delle virtù e delle colpe dei padri sui figli, mentre la visione darwiniana dava a ogni individuo grande possibilità di differenziarsi dai propri genitori171. Questa fu sicuramente una delle ragioni che spinsero James ad allontanarsi decisamente dalla dottrina evoluzionistica di Lamarck. C’è però da dire che non si capisce bene come l’eredità acquisita dai padri debba ricadere sui figli in maniera più tragica e irreversibile rispetto a quanto invece accade in una prospettiva schiettamente darwiniana: anche in questo caso infatti “le colpe dei padri ricadono sui figli”, per quanto attraverso un diverso meccanismo. Forse James si fece influenzare da un modo ‘politico’ di leggere il lamarckismo che andava diffondendosi proprio in quegli anni; anche Hofstadter sembra propendere per un’interpretazione del genere: Mentre il lamarckismo fu visto da Spencer come una grande difesa di una concezione ottimistica dell’evoluzione dell’uomo e della società, da altri punti di vista appare chiaro che una visione lamarckiana può essere anche sostenitrice di una visione conservatrice e tutt’altro che ottimistica; questo fu messo in luce da molti scrittori socialisti; al contrario la teoria di Weismann sembrava liberare l’uomo, soprattutto quello che viveva negli “slums”, dal determinismo dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti [ignoranza, alcolismo etc]172. Certamente James, attento com’era ai recenti progressi della biologia, non era rimasto insensibile alle apparentemente decisive conclusioni di Weismann, che, proprio poco prima dell’uscita dei Principles173, aveva dimostrato sperimentalmente che i caratteri acquisiti non si trasmettono all prole174. Rimanere
Renouvier era più lamarckiano che darwiniano; Yvette Conry (L’Introduction du darwinisme en France au XIXe siècle, Paris 1974) attribuisce ciò al nazionalismo successivo al 1870. Renouvier era sempre in cerca di una teoria genetica che preservasse la continuità della persona umana.. W. Logue, op. cit., p. 112, n. 100. 171
P. Wiener, op. cit., p. 155.
172
R. Hofstadter, op. cit., p. 116.
Poco tempo prima della pubblicazione dei Principles of Psychology comunque, [James] lesse degli esperimenti di August Weismann [...]. James conclude, nelle ultime pagine del suo libro, che la variazione casuale e la selezione possono essere gli unici agenti evolutivi nel comportamento umano e animale. R. J. Richards, op. cit., p. 439. Le ultime dieci pagine dell’opera di James sono dedicate alla difesa della teoria di Darwin contro quella di Lamarck. P. Wiener, op. cit. p. 115. 173
Weismann aveva portato a termine delle ricerche che egli pensava ponessero definitivamente fine alla credenza nella possibilità della trasmissione di caratteri acquisiti. Se egli avesse avuto ragione, e molti biologi [e non solo biologi, ricorda James] credevano che l’avesse — le argomentazioni lamarckiane della filosofia di Spencer non sarebbero state più sostenibili. Gli uomini non avrebbero più potuto sperare di evolversi in una razza ideale attraverso graduali incrementi intellettivi e morali da trasmettere alla propria prole; l’evoluzione sociale deve essere riconfigurata attraverso parametri strettamente darwiniani [e non più lamarckiani]. Qualsiasi progresso possibile deve venire da una ferma 174
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lamarckiani significava, agli occhi di James, scegliere di abbracciare una dottrina destinata in breve a essere dimenticata o considerata mera superstizione. Inoltre, il lamarckismo era per James indissolubilmente legato allo spencerismo175 e con esso a una concezione estremamente passiva del soggetto umano, apparentemente incapace di sfuggire al mero compito di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente, sia naturale che sociale176. Sono questi i motivi che possono spiegare, almeno in parte, l’ultradarwinismo di James: Siccome, dice lo Spencer, le variazioni accidentali di tutte le parti del corpo sono indipendenti fra loro e l’intera organizzazione dell’animale pare dovuta soltanto a tali variazioni accidentali, quella di mutuo adattamento e armonia che noi ora vi troviamo avrebbe difficilmente potuto essere prodotta in qualunque periodo definitivo di tempo. Dobbiamo piuttosto supporre che le diverse parti che variavano portarono le altre parti in armonia con se stesse con l’esercitarle a ciò, e che gli effetti dell’esercizio restarono e trapassarono nei giovani. Ciò costituisce certamente una grande presunzione contro la sufficienza della teoria della selezione delle variazioni accidentali esclusivamente. Ma bisogna ammettere che in favore della teoria contraria, che i cambiamenti di adattamento siano ereditari, non abbiamo forse un solo fatto che possa servire da prova assolutamente non equivoca177. Abbiamo parlato di ultradarwinismo perché era stato lo stesso Darwin a ricordare l’insufficienza della teoria della selezione delle variazioni accidentalivi. D’altronde, a una prima lettura, sembrerebbe che la
fiducia nell’evoluzione naturale. R. Hofstadter, op. cit., p. 98. Richards ricorda il dibattito provocato dalla pubblicazione degli articoli di Weismann: The All-Sufficincy of Natural Selection. A Reply to Herbert Spencer “Contemporary Review”, 64 (1893), pp. 309-338, 596-610; George Romanes: The Spencer-Weismann Controversy, “Contemporary Review”, 63 (1893), pp. 497-516; e id., A Note on Panmixia, “Contemporary Review”, 64 (1893), pp. 611-612. Spencer scrisse invece: A Rejoinder to Professor Weismann, “Contemporary Review”, 64 (1893) e Weismannism Once More, “Contemporary Review”, 66, 1894, pp. 592-608. Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 293, n. 161. C’è comunque da dire che gli esperimenti di Weismann non apparvero decisivi a molti sostenitori o ‘simpatizzanti’ della teoria evolutiva lamarckiana, perché erano rivolti a negare la versione passiva dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti: Questa versione di ereditarietà [quella ‘passiva’, delle mutilazioni etc] venne definitivamente invalidata da August Weismann alla fine del diciannovesimo secolo, quando egli tagliò la coda di generazioni di topi senza produrre accorciamento di sorta nella progenie. Ma gli esperimenti di Weismann non dicevano nulla riguardo all’altra ipotesi, che supponeva che ciò che viene ereditato sono le modificazioni attive, cioè le alterazioni indotte dall’esercizio abituale delle strutture nella soddisfazione delle esigenze. Ivi, p. 38. 175 Ovviamente, il fatto che Spencer non prendesse scientificamente in considerazione la teoria darwiniana non voleva dire ch’egli non la conoscesse: nel 1886 Spencer compose un lungo articolo diviso in due parti, “The Factors of Organic Evolution” nel quale egli difendeva il ruolo dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti nell’evoluzione, citando spesso l’utilizzo che lo stesso Darwin fece di questo meccanismo [...]. Ivi, p. 293. 176 E in questo il lamarckismo era equiparato a tutte quelle teorie che, prima di Darwin, avevano posto maggiore attenzione all’adattamento piuttosto che alla spontaneità dell’individuo che deve adattarsi all’ambiente: I pre-darwiniani, dice James, pensavano solo all'adattamento; l'ambiente faceva tutto, era il motore e il soggetto di tutto. C. Sini, op., cit., p. 252. Che poi lamarckismo e spencerismo fossero strettamente legati, anche nella loro fortuna, non era certo un’idea difficilmente sostenibile; di fatto le cose andarono proprio come aveva preconizzato James: Molte delle sue [di Spencer] teorie biologiche caddero in disgrazia, alla fine del secolo, insieme con la teoria lamarckiana, sulla quale erano state costruite. Ivi, p. 244. 177
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PP, pp. 1279-1280.
visione lamarckiana sia decisamente più vicina di quella darwiniana alla prospettiva volontaristica ch’è il fulcro della psicologia e della filosofia della libertà jamesiane. A una lettura più approfondita invece, il lamarckismo sembra prestarsi poco al sostegno della prospettiva di William James: si potrebbe infatti dire che James non apprezzava il lamarckismo (compreso quello spenceriano) perché esso era in fondo, e paradossalmente, passivo (la volontà sarebbe volontà di adeguarsi) e poi la volontà sarebbe in qualche modo ridicolizzata o ‘ridimensionata’ proprio per il suo potere ‘magico’ di influenzare il corpo178.
3.2.10 Una fertile eterodossia Nell’ultimo paragrafo abbiamo mostrato ulteriormente quanto di darwiniano ci sia nella psicologia jamesiana. Le testimonianze dello stesso James, i suoi scritti e le parole della critica più acuta, anche della più recenti, non lasciano alcun dubbio sulla relazione diretta che si può tracciare tra i Principles of Psychology e le opere più importanti del naturalista inglese. Ciò nondimeno, sarebbe alquanto scorretto considerare William James un fedele ‘darwiniano’ e non solo in ragione del suo ultradarwinismo dianzi mostrato in proposito della presenza (negata) di elementi lamarckiani nell’opera di Darwin: William James si servì di Darwin e nello sfruttare le sue teorie e le sue scoperte si allontanò moltissimo dalla prospettiva scientifica di quest’ultimo. Sono almeno cinque i punti di rilevante importanza dove emerge con più forza la divisione (ch’è spesso opposizione) fra William James e Charles Darwin: in primis, il determinismo. Come già ricordammo sopra, Darwin era un ferreo determinista e non solo egli pensava che la sua teoria non dovesse dare adito a interpretazioni
178 Richards, pur riconoscendo la plausibilità di una spiegazione di questo tipo, rimarca la scorrettezza ‘filologica’ di chi vuole accentuare, nella visione lamarckiana, il ruolo della volontà oltre i limiti posti dal biologo francese; il fraintendimento di James non sarebbe così altro che un prosieguo di quello originario di Charles Darwin: Darwin, ovviamente, male interpretò Lamarck fin dall’inizio, dal momento che né la sua Histoire naturelle né la sua Philosophie zoologique invocano la volontà come spiegazione dell’ereditarietà delle caratteristiche acquisite. R. J. Richards, op. cit., p. 93.
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indeterministiche della natura: essa era fondata su una concezione schiettamente deterministica179: Darwin stesso però non avrebbe approvato l’utilizzo della sua teoria per supportare l’idea del libero arbitrio. Egli era completamente convinto infatti che il comportamento umano fosse totalmente determinato180. Una concezione deterministica che non poteva che completare e rinforzare una visione riduzionistica della mente umana181. Richards poi mostra come per Darwin fossero a questo punto fondamentali gli istinti: Infatti attribuire all’ereditarietà degli istinti il principio di cambiamento e di evoluzione della specie era un modo per evitare di considerare la volontà [...] come principio motore dell’evoluzione. A questo punto il cervello diventava per Darwin il ‘supporto fisico e fisiologico’ capace di spiegare come gli istinti si trasmettessero da un individuo all’altro. Ovviamente questo implicava una derivazione diretta della mente dal cervello, in una visione riduzionistica che non sarebbe stata certo di gradimento per James. [...] La mente deve essere una derivazione del cervello. Dopo tutto, si chiedeva [Darwin], “perché il fatto che la mente sia un prodotto del cervello dovrebbe essere più stupefacente
179 Bentham e Mill, insieme con Darwin e Spencer, volevano introdurre la scientificità nelle discipline morali. Ovviamente le loro procedure erano differenti, ma tutti volevano illuminare l’uomo con la luce della scienza. [...] Un presupposto valido sia per gli utilitaristi sia per gli evoluzionisti, che potesse fondare una concezione scientifica del comportamento morale dell’uomo, era che l’uomo non fosse libero, che le cause determinanti la sua azione potessero essere isolate, comprese e controllate. Quest’ipotesi deterministica sembra [e sicuramente sembrava anche a James] essere contraria a ogni teoria morale che pretenda di essere qualcosa di più di un’antropologia sociale. [...] Sia Mill che Darwin tentarono di riconciliare determinismo e responsabilità morale, sebbene Darwin lo fece solo in note private. Ivi, pp. 240-241 180 Ivi, p. 428 n. 63. Darwin giunse alla conclusione che una spiegazione biologica del pensiero e del comportamento implicasse il fatto che gli organismi agiscono secondo determinate leggi, che essi non sono cioè liberi. La libertà sarebbe infatti equivalente al caso: “Io credo fermamente”, sottolinea nel suo ‘taccuino M’ che “libertà e caso sono sinonimi [...]”. Ivi, p. 122. 181 Per quanto riguarda i darwinisti, il problema del rapporto mente-corpo si risolveva da sé, una volta adottata una prospettiva squisitamente naturalistica e riconosciuto che l’organizzazione psicologica e materiale degli animali è frutto della lotta per l’esistenza. [...] Una psicologia scientifica basata su questi presupposti potrebbe limitarsi tranquillamente alle modalità di comportamento adattivo e allo studio della maniera in cui l’evoluzione di specifici meccanismi cerebrali rende possibile questo comportamento. D. N. Robinson, William James on the Mind and the Body, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 316. Che il materialismo si accompagni ‘naturalmente’ al riduzionismo è poi ovvio secondo l’idea di materialismo che abbiamo seguito nel corso della nostra analisi; [...] dobbiamo chiarire ciò che si deve intendere per ‘materialismo’ e per ‘meccanicismo’[...]. Mandelbaum, che ha chiamato il secolo diciannovesimo “l’età del materialismo filosofico” ha costruita un’accurata descrizione storica del materialismo. Io seguirò le sue orme [...] definendo il materialismo come quella dottrina che ritiene che : 1) esistono solo oggetti materiali; 2) Dio non esiste; e 3) la mente umana è un prodotto del corpo materiale. Il ‘meccanicismo’ denota la stretta applicazione di questa dottrina, sostenendo che, qualsiasi siano le proprietà della mente o del comportamento, esse sono spiegabili secondo quelle leggi generali che governano tutte le manifestazioni naturali. R. J. Richards, op. cit., p. 333; il testo a cui Richards si riferisce è quello di Maurice Mandelbaum, History, Man & Reason; A Study in Nineteenth-Century Thought, John Hopkins Press, Baltimore 1974.
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del fatto che la gravità sia una proprietà della materia?”182. Inoltre, Darwin non aveva soddisfatto un’esigenza esplicativa ch’era risultata ‘fatale’ per il giudizio di William James sull’opera di Spencer: La teoria evolutiva, come ammesso dallo stesso Darwin ne L’origine, rimane muta a proposito di come la vita e la coscienza nacquero nell’universo; essa era solo in grado di spiegarne l’evoluzione183. Sebbene poi Darwin avesse fornito a James gli strumenti per annullare l’apparente forza della concezione utilitaristica ed edonistica della morale184, non bisogna dimenticare che l’alternativa proposta dal biologo inglese era altrettanto in contraddizione con la fondazione jamesiana della vita morale: Il punto centrale della teoria darwiniana è che [...] il senso morale deve essere considerato un istinto185. Infine, giova ricordare che Darwin, così come Spencer, non riteneva che il suo evoluzionismo deterministico fosse d’ostacolo a una visione ottimistica della natura umana:
Il Darwinismo, secondo Himmelfarb, avrebbe ‘demoralizzato’ l’uomo, sostituendo ‘all’uomo morale una natura amorale’. [...] Ma Darwin, Spencer e i loro discepoli avevano una concezione ben differente delle implicazioni di una teoria evoluzionistica dell’uomo. Essi credevano che la propria visione evoluzionistica avesse riacceso la vita morale, che il processo evolutivo avesse dato vita a un comportamento non egoistico, altruistico. L’uomo, spero di poterlo dimostrare, era il soggetto preferito così di Darwin come di Spencer186. 182 R. J. Richards, op. cit., p. 94. Non possono non venire in mente le famose metafore vögtiane; cfr. supra, cap. 3.1 p. 163, n. v. Darwin, similmente a Huxley, riteneva che le facoltà dell’uomo fossero completamente determinate dalle funzioni cerebrali. Ma James questo non poteva saperlo, dal momento che Darwin aveva espresso queste considerazioni solamente nei suoi taccuini personali. R. J. Richards, op. cit., p. 435. Questa interpretazione di Richards a nostro giudizio è troppo ‘prudente’; certamente James, pur non conoscendo i taccuini di Darwin, non poteva non accorgersi del profondo determinismo che informava tutta la sua opera; ci troviamo di fronte a un caso simile a quello precedentemente illustrato del ‘lamarckismo’ di Darwin; certamente James ne era consapevole, ma il desiderio di trarre da Darwin quanto di meglio per dare sostegno scientifico alla sua teoria psicologica era di gran lunga più forte di un’ipotetica esigenza di ortodossia. D’altronde lo stesso Richards, poche pagine prima, sembra avere un parere ben differente: James si rendeva ovviamente conto del fatto che la teoria della selezione naturale era stata spesso interpretata da un punto di vista deterministico. Lo stesso Darwin aveva cercato di specificare le cause delle variazioni ‘spontanee’ in Variation of Animals and Plants sebbene, come rilevava James nelle sue recensioni, non senza fare riferimento a ipotesi non ancora confermate. [...] per James la forza della teoria della selezione naturale non dipendeva dalla natura della causa di queste variazioni. Ivi, p. 427.
Ivi, p. 178. Anche Bjork, teso com’è a mostrare la differenza fra James e Darwin, rimarca questo fatto: La scienza darwiniana mancava semplicemente del potere speculativo capace di spiegare adeguatamente il pensiero. D. Bjork, op. cit., p. 154. 183
Se effetivamente c’erano, negli scritti di Darwin, brani favorevoli ai ferrei individualisti e ai crudeli imperialisti, coloro che parteggiavano per la solidarietà sociale e per la fratellanza potevano, comunque, combatterli con gli stessi testi R. Hofstadter, op. cit., p. 91. 184
185 R. J. Richards, op. cit., p. 118. Quando un uomo si getta in un fiume per salvare un bambino, senza pensare un attimo alla propria incolumità, noi lo giudichiamo senza dubbio virtuoso. Darwin pensava che gli utilitaristi non erano in grado di spiegare un comportamento del genere, mentre la sua teoria ne era in grado, dal momento che interpretava gli atti morali come frutto dell’impulso e dell’abitudine [e non di un calcolo utilitaristico]. R. J. Richards, op. cit., p. 211. Da quanto abbiamo detto sopra, è evidente che per James non è possibile essere virtuosi senza essere allo stesso tempo liberi e il comportamento istintivo, in quanto tale, sfugge dal controllo diretto della volontà. 186
Ivi, pp. 6-7.
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Come appare evidente, le differenze fondamentali tra James e Darwin (proprio in
merito alla
questione della libertà dell’uomo187) ci sono e sono grandi; ma ciò non toglie il fatto, che abbiamo cercato di mostrare lungo tutte le pagine di questa terza Parte della nostra tesi, che James trovò in Darwin, forse paradossalmente a una lettura superficiale, quegli strumenti scientifici capaci di fargli abbandonare una concezione deterministica e riduzionistica per una indeterministica e interazionistica; ci sentiamo perciò di condividere in toto il giudizio generale di Richards188 sul rapporto James-Darwin e di rigettare l’ostinato rifiuto di riconoscere il profondo e complesso legame tra i Principles e la teoria della selezione naturale professato da Bjork189, proprio in opposizione all’interpretazione di Richards: Richards conclude, con molta immaginazione, ma convincendo poco, che James abbia trovato in Darwin una solida teoria che desse alla mente potere creativo, un supporto scientifico per il libero arbitrio di Renouvier. Invece, come mostrano chiaramente le Lower Lectures [1878], James considerava il Darwinismo una forma di determinismo e creò la sua propria teoria della mente come un antidoto scientifico alla poco convincente nozione di coscienza sviluppata nella teoria evolutiva190. Di fatto, le conclusioni di Richards sono sostenute da ben più che dalla sola immaginazione; è Bjork, au contraire, che sembra riconoscere nell’effettiva differenza di impostazione riguardo al determinismo e al riduzionismo — differenza che abbiamo testé rimarcato e che anche Richards riconosce — la ragione sufficiente per porre Darwin fra gli avversari di James, come se l’importanza della sua teoria fosse solo per questo del tutto equiparabile a quella, tutta negativa, di Clifford, di Huxley o di Spencer191.
[...] La filosofia [indeterministica] di James produceva uno scontro interno con le idee darwiniane che ponevano l’individuo alla mercé delle forze esterne. P. Wiener, op. cit., p. 103. 187
E non solo di Richards: Anche Croce, che riconosce il grande debito di James verso Darwin, cita numerosi scritti in favore della sua interpretazione; cfr. J. Roberts, Darwinism and the Divine in America; Protestant Intelectuals and Organic Evolution, 1859-1900, University of Wisconsin Press, Madison 1988. [...] James lesse molte delle opere di Darwin, ebbe molti contatti con la famiglia Darwin e incorporò le idee di Darwin nella sua psicologia; vedi C. J. Priebe, William James’s Application of Darwinian Theory to Consciousness and Emotion in the Principles, Tesi di dottorato, Harvard University, 1984; E. Taylor, William James on Darwin; An Evolutionary Theory of Consciousness, “Annals of the New York Academy of Science”, 602 (1990), pp. 7-33; C. H. Seigfried, Extending the Darwinian Model; James’s Struggle with Royce and Spencer, “Idealistic Studies”, 14,(1984), pp. 259272. Non bisogna infine dimenticare i contributi di due autori che abbiamo spesso citato: J. Schull, Selection — James’s Principal Principles, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., pp. 139-151 e W. R. Woodward, James’s Evolutionary Epsitemology: “Necessary Truths and the Effects of Experience”, ivi, pp. 153-169. 188
Dopo la pubblicazione di studi storici sulla relazione di scienza e religione come quelli di Frank Turner, Between Science and Religion e di James Moore, Post Darwinian Controversies, sarebbe quanto meno anomalo che qualche studioso continuasse a ritenere che darwinismo e religione siano fondamentalmente opposti. Ma questa posizione può essere facilmente sostenuta se si ritiene il darwinismo sia strettamente legato con il materialismo meccanicistico [...]. Lewontin, Rose e Kamin, così come Himmelfarb e Cannon sembrano essere di quest’opinione. John Greene vede il mondo darwiniano tendere verso l’agnosticismo, il meccanicismo e il positivismo. Garland Allen trova il darwinismo pervaso di materialismo [...]. R. J. Richards, op. cit., p. 405. 189
190
D. Bjork, op. cit., pp. 291-292.
191 James criticò duramente gli evoluzionisti deterministici come Huxley, Clifford e soprattutto Spencer [...] Ivi, p. 151. Ma Bjork non può dire, e infatti non lo fa, che James criticò aspramente Darwin! James era particolarmente interessato alle interconnessioni tra il cervello e la coscienza negli animali e nell’uomo. A quel tempo il suo campo era la fisiologia, un’area correlata alla psicologia. Egli considerava le
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Per Bjork, l’unico modo per dimostrare un profondo legame fra l’opera di Darwin e quella di James sarebbe quello di vedere quest’ultimo come un epigono del primo; un’idea che, se non fosse per l’interesse spiccato che abbiamo per questo argomento, non meriterebbe, data la sua singolarità, nemmeno una risposta articolata; d’altronde sembra che l’atteggiamento ‘isolante’ di Bjork verso il pensiero jamesiano sia esteso ben oltre l’influenza di Darwin192.
Sarebbe un’esagerazione affermare che i Principles of Psychology ruppero con la scienza intellettuale del mondo occidentale come aveva fatto The Origin of Species. E anche interpretare i Principi come una sorta di “derivato” del potere darwiniano sarebbe un grande errore, poiché James non intese mai la sua psicologia come un ritornello evoluzionistico193. Come appare evidente da questo brano, il tentativo di isolare l’opera di James dalle sue più dirette influenze, porta con sé la difficoltà di riconoscere la novità e la carica rivoluzionaria del pensiero psicologico del nostro autore. Sarebbe d’altronde difficile considerare originale un pensiero che fosse il ‘ritornello’ di un altro pensiero194. Come abbiamo detto più volte, la grandezza di James sta nell’essere riuscito a trovare in una dottrina apparentemente neutrale dal punto di vista psicologico e metafisico quei presupposti scientifici capaci di dare forza a una nuova visione dell’uomo nel suo rapporto col mondo; ci sentiamo di condividere perciò completamente il giudizio in proposito di Santucci: James si riferiva ad alcune osservazioni del naturalista inglese, che avevano contribuito al suo mito nella società vittoriana: le staccava al solito dai testi originali e le dotava di nuovi significati, le convertiva in idee-forza contro un concetto fatalistico e impersonale dell’evoluzione195.
idee di Darwin e di Spencer importanti e rilevanti, ma non innestò il suo sistema nei loro. Senza dubbio considerava sbagliato l’approccio darwiniano alla psicologia. Ivi, p. 109. Se è vero che James non innestò il proprio sistema in quello di Darwin, altrettanto vero è che moltissimo mutuò dalla teoria darwiniana della selezione naturale; non si capisce poi come Bjork possa qui porre l’ipotetico influsso di Darwin sullo stesso piano di quello di Spencer, quando James non era di certo l’unico ad avere mostrato le profonde differenze fra i due pensatori inglesi... 192 Per quanto riguarda i contatti di James con altri pensatori, egli non era essenzialmente debitore a nessuno di essi, inclusi Charles Darwin e Charles Renouvier. Ivi., p. xv. 193
Ivi, p. 149.
194 Per molti, fiduciosi nelle implicazioni ottimistiche dell’evoluzione, The Origin of Species divenne una specie di oracolo, consultato con il rispetto usualmente riservato alle Sacre Scritture. R. Hofstadter, op. cit., p. 16. Certamente per James l’opera di Darwin non raggiunse mai questo livello di autorità. 195
A. Santucci, op. cit., p. 57.
290
E la capacità di James di leggere l’evoluzionismo per selezione naturale in una maniera originale era in gran parte aiutata dalle caratteristiche della stessa opera darwiniana: Senza dubbio, in tutta la storia moderna ci sono state solo poche teorie scientifiche le cui conseguenze intellettuali sono andate oltre lo sviluppo interno della scienza come sistema di conoscenza per rivoluzionare i modelli fondamentali del pensiero196. Che James, insieme con moltissimi altri pensatori dei campi più diversi, andò oltre le conseguenze previste dallo stesso Darwin è fuor di dubbio, ma questo non può che deporre a favore dell’originalità di James197 e dell’immensa fertilità dell’opera di Charles Darwin198. Che né la scienza fisica né quella biologica sigillasse il destino dell’uomo o lo destinasse a una passiva rassegnazione in un universo chiuso, questa fu una delle principali conclusioni morali e metafisiche della grande opera psicologica di James199. 196
R. Hofstadter, op. cit., p. 3.
D’altronde, non bisogna dimenticare che James non fu affatto l’unico a sfruttare la teoria darwiniana della selezione naturale in chiave indeterministica: In generale Darwin venne ben presto utilizzato [...] in opposizione all’evoluzionismo meccanicistico spenceriano. C. Sini, op. cit., p. 40. Nei suoi saggi e nei Principles of Psychology James utilizzò la teoria darwiniana come avevano fatto Morgan e Romanes, per fornire alla religione un supporto scientifico. R. J. Richards, op. cit., p. 442. Probabilmente James fu però il primo (superando egli il determinismo che ancora pervadeva la filosofia di Wright); mette conto di citare qui un brano storiograficamente interessantissimo di Richards. A proposito dell’utilizzo antimaterialistico di Romanes della teoria darwiniana, scrive Richards: Quest’utilizzo del principio darwiniano comunque, non nasce originariamente con Romanes: egli infatti può averlo mutuato da altri. William James propose circa lo stesso argomento — rivolgendolo contro la dottrina di Huxley — nel suo saggio Are we Automata? Che pubblicò sulla rivista Mind nel 1879, pochi anni prima dell’apparizione dell’articolo di Romanes. Il legame tra l’argomento jamesiano e quello di Romanes può essere stato favorito da Darwin medesimo, dal momento che il vecchio scienziato, nel 1878, aveva “fortemente” raccomandato a Romanes la lettura di un importante articolo di James (Brute and Human Intellect). Il titolo del saggio e il nome dell’autore avrebbe potuto sicuramente attrarre l’attenzione di Romanes nella lettura della rivista Mind. Non c’è comunque chiara evidenza del fatto che Romanes abbia tratto quest’argomento direttamente da James. Potremmo trovarci nuovamente di fronte a un caso di evoluzione concettuale convergente. Certamente il clima intellettuale in cui vivevano sia James sia Romanes avrebbe potuto favorire tale convergenza: entrambi erano dei darwinisti convinti; entrambi provavano dei sentimenti religiosi, sebbene fossero scettici in materia di teologia. [...] entrambi sentivano che l’uomo rappresentava qualcosa di più che un meccanismo passivo ed entrambi avevano rivolto la propria critica al materialismo di Huxley. Romanes pensava inoltre che l’argomento della selezione naturale, che aveva avuto un sorprendente impatto negativo sulla dottrina materialistica, potesse offrire una soluzione alternativa al problema del rapporto mente-corpo, il monismo. La conclusione che la mente si fosse evoluta per adattare l’animale al suo ambiente portava direttamente a due questioni, per le quali il monismo sembrava essere l’unica risposta adatta. Prima di tutto: perché dovrebbe darsi la coscienza? E secondariamente, perché una particolare sequenza neuronale con un coerente senso fisico dovrebbe essere sempre accompagnata da una particolare sequenza temporale dotata di senso logico? La dottrina del monismo afferma che ‘mente’ e ‘materia’ sono solo le espressioni fenomenici di una singola, soggiacente sostanza. Così se il cervello si è evoluto, così anche deve essersi evoluta la mente, dal momento che entrambi rappresentano due aspetti della medesima realtà.[...] ma l’importanza della dottrina monistica non sta solo nella risposta a queste due domande: il monismo è infatti in grado di spiegare come la selezione naturale può operare sull’intelligenza [operando sulle funzioni degli organi essa opera anche sull’intelligenza stessa]. Ivi, pp. 366-367. 197
Può accedere infatti, come ha mostrato Lakatos, che anche l’architetto principale di un programma di ricerca non ne percepisca tutte le implicazioni. Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 406. E’ interessante notare come già dall’apparizione delle sue prime opere Darwin fosse soggetto a interpretazioni contraddittorie. [...] le molte notizie scientifiche riferite dal Darwin [nel Voyage ]potevano prestarsi a interpretazioni ideologiche contraddittorie. C. Sini, op. cit., p. 28. In Scientific Evidence of Organic Evolution, una sua conferenza del 1882, Romanes aveva osservato che una teoria avrebbe ricevuto maggiore conferma se fosse stata in grado di spiegare classi di fenomeni altri da quelli per cui era stata formulata. R. J. Richards, op. cit., p. 46. Per quanto noi siamo interessati alla conoscenza dell’opera di Darwin solo all’interno dei limiti in cui questa influì concretamente sul pensiero di William James, possiamo certamente condividere le parole di Richards in proposito: Forse, noi dovremmo guardare piuttosto ai successori di Darwin e di Spencer per valutare l’impatto delle loro idee. R. J. Richards, op. cit., p. 332. 198
199
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P. Wiener, op. cit., p. 99.
Nel prossimo capitolo cercheremo di mostrare come la teoria della volontà di credere, prima elaborazione filosofica compiuta di quella filosofia della libertà che occuperà James per tutta la vita, fu stimolata non solo dalle domande specifiche cui James non poté trovare risposta all’interno di un ambito squisitamente psicologico e programmaticamente antimetafisico, ma anche dalle conseguenze epistemologiche200 (fallibilismo) cui aveva portato quasi inevitabilmente l’accettazione della metodologia e della teoria darwiniane. Come anticipato sopra, concludiamo questa Parte con la citazione di un lungo brano dei Talks to Teacher, dove James mostra il più chiaramente possibile la propria posizione nei riguardi del materialismo e dell’indeterminismo, un brano che avrebbe certamente stroncato sul nascere le ipotesi interpretative che volevano vedere nei Principles of Psychology una sorta di timido avallo alla scienza materialistica e riduzionistica: Io sono stato accusato di sostenere al vostro cospetto, durante queste lezioni, una visione della mente meccanica o addirittura materialistica. L’ho chiamata un organismo e una macchina. Ho parlato dela sua reazione all’ambiente come alla cosa principale e mi sono a questa riferito, apertamente o implicitamente, per la costruzione del sistema nervoso. Perciò, ho ricevuto degli appunti da alcuni di voi, che mi chiedono di essere più chiaro su questo punto, e di dire se posso essere definito un materialista completo o meno. Ora, in queste lezioni [...] pur tenendomi lontano dalle complicazioni speculative [...] non voglio che rimangano dubbi riguardo alla mia posizione; voglio perciò affermare, per evitare ogni possibile fraintendimento, che in nessun senso posso essere definito un materialista. [...] Ma, dopo che abbiamo visto la parte giocata dall’attenzione volontaria nella volizione, la credenza nel libero arbitrio e nella causazione puramente spirituale è ancora aperta davanti a noi. [...] Se la libertà fosse vera, sarebbe assurdo che la nostra credenza in essa fosse fatalmente determinata. Considerando la costituzione interna delle cose, dovremmo piuttosto pensare che il primo atto di una volontà dotata della libertà dovrebbe essere quello di sostenere la credenza nella libertà stessa. Perciò io credo liberamente nella mia libertà; e lo faccio con la migliore coscienza scientifica, conscio che la predeterminazione della quantità del mio sforzo d’attenzione non può ricevere alcuna prova oggettiva e sperando che [le mie parole] vi abbiano alla fine fatto comprendere che le teorie psicologiche e psicofisiche che io ho sostenuto fin qui non ci spingono necessariamente a diventare dei fatalisti o dei materialisti201.
200 I temi dell’epistemologia erano molto importanti per James e la sua epistemologia era basata sui principi darwiniani [...]. D. A. Dewsbury, William James and Instinct Theory Revisited, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 282. 201
TT, pp. 128-129.
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i James conosceva bene il pensiero di Darwin sull’istinto e sull’abitudine e, per quanto riteneva che determinate abitudini potessero col tempo, attraverso le generazioni, diventare istinti, era più propenso a pensare che la maggior parte degli istinti si fossero costituiti per selezione naturale di variazioni spontanee. Questo fatto, che sembrerebbe togliere “potere” alla volontà — che per James è in grado di formare consapevolmente determinate abitudini di comportamento — di fatto è molto poco rilevante in James, dal momento ch’egli era molto più interessato ai cambiamenti che l’uomo poteva operare sul comportamento durante la propria esistenza e non in relazione alle generazioni future; mette conto però di riportare un brano dell’Origine delle specie molto chiaro a proposito della relazione tra istinto e abitudine: Se supponiamo che un’azione abituale divenga ereditaria — e si può dimostrare che ciò talvolta accade — allora la somiglianza tra ciò che originariamente era abitudine e l’istinto diviene tanto grande, che non è possibile fare distinzione. Se Mozart, anziché suonare il pianoforte a tre anni, dopo uno studio straordinariamente breve, avesse suonato un motivo senza essersi mai esercitato, allora avrebbe potuto dirsi che suonava istintivamente. Ma sarebbe un grave errore credere che la maggior parte degli istinti siano acquisiti per abitudine nel corso di una generazione, e trasmessi in seguito per eredità alle
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generazioni seguenti. Si può chiaramente dimostrare che gli istinti più straordinari che conosciamo, per esempio quelli dell’ape domestica e di molte formiche, non possono essere stati acquisiti con l’abitudine. Tutti ammetteranno che gli istinti sono importanti quanto la conformazione fisica, per il benessere di ogni specie nelle sue attuali condizioni di vita. In mutate condizioni di vita, è perlomeno possibile che piccole modificazioni degli istinti possano risultare vantaggiose a una specie; e se si può anche dimostrare che gli istinti variano anche di poco, non trovo alcuna difficoltà ad ammettere che la selezione naturale possa conservare e accumulare continuamente le variazioni dell’istinto, in quanto esse sono utili. Tale è stata, ritengo, l’origine di tutti gli istinti più complessi e mirabili. Sono sicuro che gli istinti nascono e aumentano per l’abitudine e l’uso e diminuiscono o si perdono per il non uso, allo stesso modo delle modificazioni della struttura. Ma credo che gli effetti dell’abitudine in molti casi siano di secondaria importanza, ai fini della selezione naturale, di fronte a quelle che possano chiamare le variazioni spontanee degli istinti, cioè le variazioni prodotte dalle stesse cause sconosciute che producono le piccole deviazioni della struttura corporea. C. Darwin, L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 1967, Introduzione di G. Montalenti, pp. 306-307, sott. nostra. ii A prescindere dal fatto che l’evoluzionismo di Darwin viene in maniera inspiegabile affiancato a quello di Spencer, possiamo dire che Bjork avrebbe ragione se si considerasse solo il determinismo dell’“approccio psicologico” di Darwin (posto che ve ne sia veramente uno), ma il suo rifiuto nel riconoscere l’importanza dello scienziato inglese per la psicologia e la filosofia del nostro autore va ben al di là di quanto sarebbe concesso: James divenne sempre più conscio della sua missione [...], di fornire una descrizione realistica della vita mentale. Egli aveva introdotto nelle Lower Lectures ciò che credeva essere una nuova visione psicologica. Aveva presentato un’alternativa alla mente automatica e predeterminata. Egli aveva concluso che la spiegazione darwiniana della coscienza non rappresentava nessuna spiegazione di sorta [...]. La teoria dell’evoluzione aveva presentato un’inadeguata psicologia mascherata da scienza. Il rappresentante principale di questa psicologia ingannevole era Herbert Spencer che James aveva ripetutamente criticato in aula, nelle conferenze pubbliche, e nei saggi, illustrando l’inadeguatezza della visione evoluzionistica della mente. Spencer era il contraltare per la crociata a favore del concetto di una coscienza creativa e non determinata. D. Bjork, op. cit., pp. 148-149. Anche Robinson interpreta la costruzione della teoria psicologica interazionistica di James in opposizione alla ‘psicologia’ darwiniana; dimenticando però che questo può dirsi vero solo se di Darwin si tiene in considerazione quel che meno aveva interessato James, e cioè il suo determinismo: James trovava abbastanza incompleto e addirittura sciocco l’approccio della scuola darwiniana non solo agli esseri umani, ma anche al regno animale in generale. Nel capitolo “The Automaton Theory”, nei Principles, James venne alle prese con l’idea di coscienza nel regno animale e con le implicazioni da essa derivanti a proposito della psicologia comparativa darwiniana. D. N. Robinson, William James on the Mind and the Body, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 317. È interessante osservare come Richards abbia in proposito un’idea diametralmente opposta, sia a Bjork che a Robinson: egli condivide il riconoscimento dell’importanza di queste Lectures, ma allo stesso tempo distingue fra evoluzionismo spenceriano e darwiniano, individuando in quest’ultimo l’ubi consistam scientifico sul quale egli reggerà la propria ‘battaglia’ antiriduzionistica: James elaborò un argomento evoluzionistico estremamente potente, che avrebbe dovuto oggettivamente e saldamente fondare il suo desiderio soggettivo di postulare una mente attiva e indipendente. Nelle prime cinque di queste conferenze James cercò di dimostrare la sua scienza nella fisiologia del cervello. Egli riprese gli ultimi esperimenti tedeschi in proposito e li inserì in un modello coerente. Nella sesta lezione infine, egli affrontò la questione del rapporto tra mente e cervello, partendo dal saggio di Huxley On the Hypothesis that Animals are Automata. Huxley avanzava una visione estremamente passiva della mente umana, l’epifenomenismo. Il cervello, a suo parere, riceveva stimoli dall’ambiente e reagiva di conseguenza. Il motore del sistema nervoso centrale aveva solo il compito di trasferire un tipo di energia in un altro, senza che la coscienza svolgesse alcun ruolo. R. J. Richards, op. cit., p. 430. Bisogna qui ricordare che le Hopkins Lectures coincidono con le Lowell Lectures. James infatti tenne al Boston Lowell Institute le stesse conferenze che originariamente aveva scritto per la John Hopkins University su invito del suo Presidente D. C. Gilman. Oltre a Bjork, possiamo infine annoverare fra coloro che non concordano nell’attribuire a Darwin il ‘merito’ di avere aiutato James a distaccarsi dal determinismo spenceriano: Bruce Wilshire che in William James and Phenomenology; A Study of ‘The Principles of Psychology’, University of Indiana Press, Bloomington 1968, pp. 50-51 suppone che James abbia rifiutato la ‘darwinizzazione’ [Darwinizing] della mente umana. [...] a anche il Perry che, sebbene si riferisca agli interessi di James per il Darwinismo nella sua opera principale, in In the Spirit of William James, non cita nemmeno l’evoluzione. Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 412, n. 11.
Questo non impedì certamente a James di apprezzare notevolmente gli sforzi compiuti dal biologo inglese, che sempre più lo stava affascinando. Giova al proposito riportare un brano di questa recensione. Dopo avere accennato all’esposizione nel testo della teoria darwiniana della pangenesi — una teoria che per Darwin avrebbe dovuto rispondere a molti dei quesiti rimasti insoluti dalla sua dottrina evoluzionistica — scrive James: L’impressione più forte che colpisce il lettore, dopo aver posato questi volumi [l’opera uscì nel 1868 in due voll. Per i tipi di John Murray] è quella della complicazione infinita dei fenomeni in questione, e della (forse senza speranza) occulta sottigliezza delle loro cause immediate. A prima vista, l’unica “legge” sotto la quale l’autore racchiude la maggior parte dei fatti sembra essere quella del Capriccio, capriccio nell’ereditare, capriccio nel trasmettere, capriccio ovunque, insomma. [...] Non c’è una “legge”, elaborata o citata da Darwin, che non contenga in sé numerose inspiegabili eccezioni . W. James, Two Reviews of The Variation of Animal and Plants under Domestication, By Charles Darwin (1868), in ECR, p. 234. Nella sua prima pubblicazione, una recensione del libro di Darwin sulle piante del 1868, il ventiquattrenne James sottolineava l’impossibilità di verificare l’ipotesi darwiniana della pangenesi. W. R. Woodward, James’s Evolutionary Epistemology: “Necessary Truths and the Effects of Experience”, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 158. A quanto sembrerebbe dunque, il James di questi primi anni non si allontanava troppo dalle ‘classiche’ critiche che venivano rivolte alla dottrina darwiniana: La teoria di Darwin era carente da due punti di vista: in primo luogo, la nascita di nuove specie non era mai stata oggetto di osservazione perciò essa rimaneva ancora iii
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un’ipotesi; e, in secondo luogo, il meccanismo di variazione all’interno di un organismo specifico rimaneva sconosciuto. P. J. Croce, op. cit., p. 103. Per quanto la recensione di James sia fondamentalmente positiva nei riguardi dell’opera dello scienziato inglese, non ci sentiamo di condividere affatto il giudizio di James riguardo all’aleatorietà delle cause ipotizzate da Darwin nella spiegazione dei fenomeni; probabilmente James rimase colpito dal cambiamento del modo di fare scienza che coinvolse la biologia, come la fisica e la chimica in quegli anni, senza riuscire a capirne effettivamente la portata; in ordine invece al determinismo di Darwin e al fatto ch’egli riteneva le cause delle variazioni spontanee sconosciute, ma non per questo inconoscibili in futuro, i suoi testi, dall’Origin in poi sono pieni di citazioni in proposito: nel paragrafo sulla “conservazione dei caratteri”, scrive Darwin: La forma di un cristallo è determinata unicamente dalle forze molecolari, e non è sorprendente che sostanze dissimili assumano talvolta la stessa forma; ma per gli esseri viventi dobbiamo tenere presente che la forma di ciascuno dipende da un’infinità di complessi rapporti, cioè dalle variazioni che sono sorte, dovute a cause troppo complesse per poter essere rintracciate. C. Darwin, L’origine delle specie, cit., p. 191. All’inizio del cap. 5, su “Le leggi della variazione”, si legge: Ho fin qui parlato come se le variazioni —così comuni e diverse negli esseri viventi allo stato domestico, e in minor grado in quelli allo stato di natura — fossero dovute al caso. È questa, naturalmente, una espressione del tutto inesatta, ma essa serve a riconoscere candidamente la nostra ignoranza sulla causa di ogni variazione particolare. Ivi, p. 197, sott. nostra. E ancora, sempre riguardo al caso, Darwin scrive: In alcuni casi si può dimostrare che cause completamente diverse agiscono su una stessa specie in differenti regioni. Quando si considerano le piante e gli arbusti che rivestono un terreno incolto, si è indotti ad attribuire il loro numero proporzionale e la loro qualità a ciò che chiamiamo il caso. Ma quanto è falsa questa opinione! Ivi, p. 142. iv
Rimane però vero il fatto che spesso, leggendo gli scritti psicologici di James, si ha il sospetto che l’impossibilità di verificare quanto affermato nasconda il tentativo di tirarsi fuori da un confronto scientifico con altre ipotesi interpretative. Aggiungi qui un po’ di esempi di ignoramus e mostra come spesso essi diventino ignorabimus apparentemente per tema di essere smentiti da successivi esperimenti. Bene anche sulle variazioni spontanee. Finisci di marcare i ‘principi di psicologia’ con ignoramus e ignorabimus e utilizza la selezione già fatta su abstract unificati. Sini è, anche a questo proposito, molto chiaro; mette conto di citare le sue parole per intero: Il suo [di Darwin] concetto di selezione sessuale, ad esempio, concilia le sue idee (alcuni maschi acquistano caratteri di maggiore attrazione sessuale per le femmine della specie e così prevalgono nella lotta per la vita sugli altri maschi che vedono ridotta la loro possibilità riproduttiva) con le idee lamarckiane (i caratteri acquisiti in modo fortuito dai maschi vincitori passano per eredità ai loro discendenti e rafforzano le varietà acquisite dando origine al sorgere di nuove specie e alla estinzione delle specie sconfitte). Peraltro, una aspetto tipico della mentalità di Darwin, e della sua onestà scientifica, è quello di considerare insufficiente, sino alla fine dei suoi giorni, la teoria della selezione naturale per la chiarificazione completa ed esauriente dei fatti ai quali egli stesso l’aveva applicata, e di giudicare altresì poco probabile, e comunque tutt’altro che provato, che tali fatti possano riunirsi sotto un’unica ipotesi esplicativa. C. Sini, op. cit., p. 42. Scrive Richards: Sebbene Darwin ascrisse alla selezione naturale e a quella sessuale la causa principale dell’evoluzione umana, egli riconobbe la presenza di ulteriori fattori. Gli effetti esercitati direttamente dall’ambiente e gli abiti acquisiti [...] funzionavano come forze di trasformazione. R. J. Richards, op. cit., p. 193. In una nota, Sini ricorda la famosa lettera di Darwin a Lyell del 1859, dove egli afferma di non avere ricavato né un fatto né un’idea dall’opera di Lamarck. Sini interpreta questa rottura ingiustificata come motivata da ragioni contingenti (Darwin scrive queste parole poco prima di pubblicare l’Origine quando ancora il suo nome era affiancato a quello oggi quasi sconosciuto di Wallace)e da ragioni scientifiche: [...] Darwin vuol dire, probabilmente, che le idee di Lamarck, non essendo suffragate da alcuna prova consistente, erano scientificamente inutilizzabili. C. Sini, op. cit., p. 42, n. 41. A questa spiegazione, senz’altro condivisibile, va affiancata anche quella del Richards: E’ probabile che quando Darwin disse a Lyell che egli non aveva preso “né un fatto né un’idea” da Lamarck, egli volesse dire che non si sentiva indebitato con lo scienziato francese per quel che riguarda la sua teoria dell’evoluzione per selezione naturale, ma non per quel che riguarda invece le sue idee premalthusiane, che mostrano chiare e distinte relazioni con il sistema di Lamarck. R. J. Richards , op. cit.,, p. 87. Che Darwin conoscesse bene Lamarck e che ne fosse stato fortemente influenzato è oggi fuor di dubbio; a nostro giudizio sono le stesse pubblicazioni dello scienziato inglese a deporre a favore di questa interpretazione, ma a ciò si deve aggiungere anche una notevole quantità di ‘prove indiziarie’; Su consiglio di Robert Grant egli [Darwin] lesse il Système des animaux sans vertèbres; e quando salpò con il Beagle, egli portò con sé i volumi evoluzionistici dell’Histoire naturelle des animaux sans vretèbres di Lamarck. Ivi, p. 88. E poi: Darwin, come Lamarck e altri prima di lui, credeva che l’ambiente agisse direttamente sulla struttura ereditaria degli animali. Le cause ambientali appaiono nel ‘Taccuino B’ come le forze principali del cambiamento delle specie. Darwin inizialmente, pensava quando alcuni animali vengono separati dal proprio gruppo, essi si adattano direttamente alle caratteristiche del nuovo ambiente. Egli pensava inoltre che le alterazioni indotte fossero trasmesse alle generazioni future, contribuendo così alla formazione di nuove specie. Ivi, p. 89. Sempre a riprova del fatto che Darwin non fosse distante — come ritenevano alcuni, tra cui James — dall’ipotesi di un’ereditarietà dei caratteri acquisiti, Richards ricorda che le Observations on the Istincts of Animals (1836) di John Sebright fossero un “ammirevole saggio”, Darwin aveva potuto osservare che la teoria secondo cui “gli abiti acquisiti divengono ereditari” avrebbe potuto dare una spiegazione del carattere di una nazione. Ivi, p. 92. La teoria darwiniana della pangenesi sarebbe così un tentativo di raggiungere un equilibrio fra l’importanza della selezione delle variazioni fortuite e dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti: Dunque, secondo Darwin, le abitudini possono diventare istinti. In Variation of Animals and Plants under Domestication, egli elaborò una teoria genetica (chiamata pangenesi) che pensava avrebbe potuto spiegare l’ereditarietà di strutture acquisite. Ma fu solo nello studio sull’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali che egli considerò i dettagli di come un’abitudine avrebbe potuto modificare prima di tutto le strutture. Questo sviluppo è importante per comprendere la sua teoria generale dell’evoluzione della mente [...]. Nei suoi primi taccuini, Darwin supponeva che l’abitudine avrebbe potuto modificare l’anatomia cerebrale e che questi cambiamenti sarebbero stati ereditari. Questa convinzione [...] deriva da quella esposta dal nonno nella Zoonomia, e dagli studi del padre su come una patologia cerebrale possa alterare l’attività mentale. v
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[...] Darwin rilesse dunque gli Elements of Phisiology di Johannes Müller, che aveva studiato già negli anni ’40. Lì scoprì che, secondo Müller, “il potere conduttore delle fibre nervose aumenta con l’aumentare del loro utilizzo”. Questa semplice ipotesi poteva confermare l’ipotesi che l’uso di determinati ‘sentieri nervosi’ avrebbe potuto alterare la fisiologia del cervello.. Per maggiori dettagli di fisiologia nervosa, egli sembrò trovare soddisfazione, anche se non completa, nelle elucubrazioni di Spencer riguardo alla chimica colloidale dell’azione neurale. Ivi, pp. 233-234.
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Capitolo 4.1 Wright, Peirce e il Metaphysical Club Come Darwin dice nel suo frontespizio, si tratta della lotta per l’esistenza; e avrebbe dovuto aggiungere come suo motto: “Ciascuno per sé e che il diavolo si prenda gli ultimi”. Gesù, nel discorso della montagna, espresse un’opinione diversa. (C. S. Peirce) Il darwinismo e il pragmatismo furono in grado di combattere i loro avversari teologi conservatori solo grazie al potente impeto delle scoperte scientifiche della seconda metà del diciannovesimo secolo. (P. Wiener)
4.1.1 Il Metaphysical Club Scrive Charles Sanders Peirce nel 1905:
Negli anni Sessanta diedi vita a un club chiamato Metaphysical Club. Raramente erano presenti più di una mezza dozzina di persone. Wright era il membro più importante e io probabilmente venivo dappresso. Nicholas St. John Green era un’intelligenza straordinariamente forte. Poi c’erano Frank Abbot, William James e altri1. Scrive Sini:
Ora, le implicazioni, e oscillazioni, filosofiche di James mostrano svariati punti di riferimento; tra i più importanti citiamo Renouvier, Lotze, Wundt, l'associazionismo inglese. Hodgson, Darwin, Spencer e infine "gli amici del Metaphysical Club" con particolare riguardo a Chauncey Wright e a Peirce2. Nel tentativo di descrivere le “oscillazioni filosofiche” di James, soprattutto in relazione al tema della libertà e del determinismo, abbiamo preso in considerazione molti degli autori citati da Sini: Renouvier, Darwin e Spencer primi fra tutti. Nel brano succitato emerge chiaramente l’importanza di un altro
1 Max H. Fisch, Was There a Metaphysical Club in Cambridge?, in E. C. Moore e R. S. Robin (a cura di), Studies in the Philosophy of Charles Sanders Peirce (s. s.), The University of Massachusetts Press, Amherst 1964, p. 13. 2
C. Sini, op. cit., p. 270.
elemento fondamentale per la formazione filosofica e scientifica di del nostro autore3: il Metaphysical Club. Chi erano “gli amici” di questa associazione? E che importanza ebbe questa nello sviluppo del pensiero di William James?
Cercheremo di rispondere a queste domande facendo riferimento a pochi ma fondamentali testi: il già citato saggio di Fisch, Was There a Metaphysical Club in Cambridge4?, l’opera di Wiener sulle origini evoluzionistiche del pragmatismo5, il recente testo di Paul J. Croce6 e il libro sul pragmatismo americano di Carlo Sini7.
Dobbiamo dire subito che, in maniera apparentemente paradossale, alla pacifica importanza che viene riconosciuta a questo club filosofico, per la formazione di James, di Peirce e del pensiero pragmatico in generale, non si accompagna un altrettanto pacifico riconoscimento dell’esistenza del club medesimo. Difatti, soltanto Charles Sanders Peirce, in più occasioni, fa riferimento a un Metaphysical Club che si sarebbe riunito a Cambridge tra la fine degli anni Sessanta e la seconda metà dei Settanta. Nessuno degli altri membri che vengono citati nel brano sopra riportato, e anche altri di cui Peirce parla in altri passaggi, fecero mai riferimento all’esistenza di questa associazione filosofica, almeno esplicitamente. Come spiegare questo fatto? Ovviamente le risposte mutano notevolmente a seconda che si ritenga la testimonianza di Peirce veritiera o no. Nel caso lo fosse, dovremmo chiederci perché gli altri membri non fecero mai riferimento, anche quando interrogati esplicitamente in proposito8, all’esistenza del Metaphysical Club, altrimenti dovremmo chiederci perché Peirce si sia inventato l’esistenza di questa associazione filosofica che avrebbe svolto la sua attività nella Cambridge degli anni Settanta. Diciamo subito che non ci interessa qui entrare nel merito delle prove, delle testimonianze e finanche degli ‘indizi’ che dovrebbero farci propendere verso un’ipotesi piuttosto che un’altra. A nostro giudizio, il saggio di Fisch, se letto insieme con i passi di Evolution and the Founders of Pragmatism dedicati proprio a questo argomento, ha posto definitivamente fine a qualsiasi diatriba sull’argomento. La conclusione di
Dobbiamo qui sottolineare che non esiste libro sul pragmatismo (in particolare di James e di Peirce) che non sottolinei l’importanza ‘genealogica’ del Metaphysical Club. 3
4
M. H. Fisch, Was There a Metaphysical Club in Cambridge?, cit.
5
P. Wiener, op. cit.
6
P. J. Croce, op. cit.
7
C. Sini, op. cit.
8
Più di mezzo secolo dopo la morte di Wright (1875) Justice Holmes ricorderà il probabilismo di Chauncey Wright — elemento essenziale del pragmaticismo di Peirce — ma senza mai menzionare il Metaphysical Club. P. Wiener, op. cit., p. 25. Sulla testimonianza, di fatto non decisiva, di Holmes, cfr. M. H. Fisch, Was There a Metaphysical Club in Cambridge? 2 op.cit., pp. 10-11.
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questo fra i più grandi storici del pragmatismo è che effettivamente esistette un Metaphysical Club a Harvard e che quindi la testimonianza di Peirce, per quanto apparentemente non supportata da altrettanto esplicite testimonianze di altri, può considerarsi veritiera9:
[...] noi possiamo tranquillamente concludere 1) che ci fu un Metaphysical Club a Cambridge a partire almeno dall’inverno 1871-72; 2) che esso era ancora attivo nell’inverno del 18747510; 3) che fra i suoi membri c’erano James, Holmes, Peirce, Wright, Green, Warner, probabilmente Fiske e, forse, Abbott11.
Abbiamo prima parlato di paradossalità apparente proprio perché le diatribe intorno all’esistenza del Metaphysical Club hanno riguardato più che altro l’esistenza di un’associazione formalmente costituita secondi i crismi dei club dell’epoca, piuttosto che l’esistenza di un gruppo di persone, di amici per lo più, che si ritrovavano, in gruppi più o meno ampi, a parlare di filosofia e di scienza12. Il fatto che un discorso intorno all’esistenza di un tale gruppo di persone, a prescindere dal fatto che si costituisse in un vero e proprio club o meno, possa essere affrontato senza eccessive premure storiografiche è dovuto al fatto che i membri principale del Metaphysical Club (reale o immaginario che fosse) si conoscevano effettivamente molto bene e certamente intrattenevano lunghe conversazioni sulle tematiche filosofiche ed epistemologiche del periodo. Di questo fatto abbiamo numerose testimonianze e quindi, non più paradossalmente, l’importanza, per quanto ci riguarda, dell’influenza di personaggi come Wright e Peirce sulla formazione filosofica e scientifica di William James eccede di gran lunga qualsiasi querelle storiografica sull’esistenza di un club di cui questi avrebbero fatto parte13. D’ora in poi parleremo La reale esistenza di un vero e proprio club è ancora una questione aperta, poiché Peirce fu l’unico a chiamarlo così, e anche questo solo verso la fine della sua vita. P. J. Croce, op. cit., p. 151. 9
10 A conclusioni simili a quelle di Fisch era d’altronde pervenuto già il maggior biografo di James: James non avrebbe potuto partecipare a questo club prima del 1869 ed egli si trovava in Europa dall’Ottobre del 1873 al Marzo del 1874. Wright morì nel Settembre del 1875 e Peirce andò all’estero all’incirca nello stesso periodo. James dice che sentì parlare Peirce di “pragmatismo” per la prima volta nei primi anni ’70 (C.E.R, 410) Negli anni 1872-73 James sembra (forse a causa del suo nuovo impegno come insegnante) non aver letto nulla di Peirce (Cfr. LWJ I, 168-9). E’ probabile quindi, che questo “Metaphysical Club” sia stato attivo soprattutto negli anni 1870-72, e che esso continuò fino al 1874 o poco oltre, quando venne sostituito da un altro club. TCWJ I., p. 536, n. 8. 11
M. H. Fisch, Was There a Metaphysical Club in Cambridge?, cit., p. 19.
O Peirce inventò il nome del Club “per metà ironicamente e per metà provocatoriamente”, oppure il gruppo cui egli fa riferimento era qualcosa di molto più informale e casuale di qualsiasi cosa che si intenda normalmente come club. P. Wiener, op. cit., p. 25. 12
I ricordi di Peirce, andando indietro di più di trent’anni, non sono molto chiari riguardo alle date in cui il Club tenne i suoi incontri, “all’inizio degli anni ‘70”, “nel 1871”, “negli anni ’60 e dopo il mio ritorno [dall’Europa]”. Ma perché Peirce attribuì così grande significato storico al Club come luogo di nascita del pragmatismo? Come dobbiamo legare la genesi del pragmatismo alla controversia evoluzionistica? Ivi, p. 19. Anche noi dunque, seguendo i consigli di Wiener, cercheremo di rispondere a questa domanda. 13
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comunque di un Club Metafisico, sia perché effettivamente Wiener e Fisch hanno portato prove valide a favore dell’ipotesi della sua esistenza, sia perché, anche se un club vero e proprio non fosse esistito, quello di parlare di un’associazione sarebbe un utile stratagemma per unificare storicamente degli influssi che in James trovarono una profonda unità espressiva. Quali erano dunque le tematiche più discusse negli incontri del Metaphysical Club e come queste influenzarono il pensiero di William James?
James e i membri del Club erano agitati ed eccitati dalla teoria darwiniana della selezione naturale. Questa teoria generava enormi questioni intorno al rapporto tra scienza e filosofia e tra filosofia e vita. Quale prospettiva filosofica, si chiedevano, poteva interpretare un mondo caratterizzato da variazioni spontanee e casuali [...]? Se a questo compito non erano adatti né l’idealismo tedesco né l’empirismo inglese, quale alternativa si doveva abbracciare? Le risposte andavano dal rigido positivismo di Wright alla viscerale inclinazione pragmatica di James14.
Questo brano della Simon, pur criticabile per la sua ingiustificata anticipazione di una teoria (quella pragmatica) che James era ancora ben lontano da formulare quando ancora era un professore di fisiologia, riesce a rappresentare efficacemente il clima dinamico introdotto nella Cambridge degli anni Sessanta e Settanta dalla pubblicazione dell’Origin of Species di Charles Darwin15. Non solo, la Simon mostra come la teoria darwiniana dell’evoluzione naturale ebbe immediate ripercussioni ben oltre i
14
L. Simon, op. cit., p. 147.
15 Non bisogna infatti dimenticare che la dottrina darwiniana, per quanto aspramente dibattuta, era stata accettata, almeno come degna ‘rivale’ della biologia tradizionale, poco dopo la sua pubblicazione. In America solo la Guerra Civile era riuscita — in parte — a posticipare l’esplosione dela ‘bomba evoluzionistica’. La teoria evoluzionistica, abbandonata quando venne proposta da Lamarck per la prima volta, ridicolizzata quando venne riproposta da Chambers alla metà del secolo alla Linnean Society, produsse un terremoto nella comunità scientifica all’apparire dell’Origin, ma già durante la vita di Darwin venne largamente accettata dalla comunità scientifica. R. J. Richards, op. cit., p. 160. Alcuni americani conoscevano la tradizione storica dell’evoluzionismo speculativo, che aveva raggiunto il picco della controversia nei giorni di Cuvier, Geoffroy St. Hilaire e Goethe. I Principles of Geology di Charles Lyell (1832), che spianarono la strada alle ipotesi evoluzionistiche, erano stati ampiamente letti negli Stati Uniti; e l’opera pubblicata anonimamente da Robert Chambers, Vestiges of the Natural History of Creation (1845 nell’edizione americana), una presentazione religiosa e divulgativa dell’evoluzione, aveva ricevuto ampia attenzione. R. Hofstadter, op. cit., p. 14. La consapevolezza dell’importanza del Metaphysical Club è dunque strettamente legata al riconoscimento dell’evoluzionismo darwiniano come del più importante volano del rinnovamento filosofico e culturale attraversato dagli Stati Uniti d’America nell’Ottocento e incarnato in maniera emblematica proprio dal movimento pragmatistico di cui James fu il rappresentante più illustre: Il primo obiettivo che dovevo propormi era quello di analizzare e descrivere in modo esauriente l’origine reale di questo movimento. Chi aveva battuto prima di me questa strada, indicava nel darwinismo una delle matrici più importanti, se non addirittura la più importante, benché non la sola.. Seguendo a mia volta questa indicazione, ho dedicato il primo capitolo del volume all’evoluzionismo, darwiniano innanzi tutto, ma anche di altra natura, che costituisce senza dubbio la cornice più ampia entro la quale la teoria pragmatica si inquadra. C. Sini, op. cit., p. 12. Scrive Croce: La teoria scientifica più importante per i membri del Club era la nuova teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale recentemente pubblicata da Charles Darwin. P. J. Croce, op. cit., p. 155. I pragmatisti furono il primo gruppo di filosofi a elaborare in dettaglio una filosofia della mente basata su principi evoluzionistici. T. A. Goudge, Pragmatism’s Contribution to an Evolutionary View of Mind, “The Monist”, 57 (1973), p. 133.
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confini della biologia e delle scienze naturali16. Come vedremo meglio fra breve, trattando prima di Chauncey Wright e poi di Charles S. Peirce, e come abbiamo in parte visto trattando del ‘darwinismo’ dei Principles di James, la scienza darwiniana ebbe degli immediati risvolti filosofici e, più specificatamente, epistemologici17.
Con una passione pari a quella di Henry James e della sua generazione18 ma con un maggiore scetticismo scientifico, William James e i suoi amici del Metaphysical Club si chiedevano se le nuove scoperte biologiche di Darwin avrebbero potuto fare per l’uomo ciò che le vecchie dottrine metafisiche avevano promesso, fallendo19.
Fu proprio il ruolo dell’uomo nell’universo, con la perdita di quella posizione ‘speciale’ ch’egli aveva sempre avuto fin dal sorgere del pensiero occidentale, a essere messo involontariamente in crisi dall’evoluzionismo darwiniano; la continuità fra uomo e animale, fra istinto e intelletto, un certo utilitarismo applicato (per quanto in maniera germinale) a categorie filosofiche (come quelle di coscienza e di autocoscienza) considerate per secoli separate dalla concretezza della vita, l’introduzione del concetto di spontaneità delle variazioni accidentali e di meccanicità del processo di selezione finalizzato alla spiegazione del comportamento dell’uomo, equiparato — nella sua sopravvivenza nella struggle for life — a quello di una pianta o di un animale, tutto ciò (ed è solo una parte) fu il pane di cui si nutrivano i membri20 del Metaphysical Club e il lievito che permise il veloce sviluppo di un pensiero filosofico radicalmente innovatore21.
Non c’è dubbio che i suoi membri [del Club] furono fortemente impressionati dalle implicazioni della controversia darwiniana. Gli scritti dei suoi membri [...] riflettono, in differenti campi, il vortice delle conseguenze dell’evoluzionismo e le sue differenti interpretazioni. P. Wiener, op. cit., p. vii. 16
Il metodo darwiniano, compreso il suo utilizzo dell’evidenza e della spiegazione, diede vita immediatamente a un dibattito nella Cambridge di William James. P. J. Croce, op. cit., p. 103. 17
E’ forse utile ricordare che anche Henry James Sr. fu membro di numerosi club dell’area di Boston. Queste associazioni erano spesso il luogo di incontro di menti fertili e differenti, ma accomunate da medesimi interessi; il fatto che i figli della generazione del padre di William James decidessero di superare l’impasse che questa stava attraversando per il tramite delle medesime modalità associative segna una continuità formale che non va sottovalutata: Questi club e altri erano comuni nelle élites intellettuali alla metà del diciannovesimo secolo. Venivano considerati, dagli stessi appartenenti, radicali e progressisti, sebbene poi effettivamente solo di rado mettevano in discussione i capisaldi sociali o intellettuali del tempo. Comunque questi club erano, di fatto, importanti strumenti per la trasmissione delle idee: teorie e prospettive raggiunte in queste discussioni sarebbero in seguito apparse nelle aule, nei libri, nelle riviste proprio grazie all’influenza dei loro membri. Ivi, p. 113. Come gruppo sociale e intellettuale, il Metaphysical Club non era il solo fra le élites culturali dell’America del diciannovesimo secolo, soprattutto nel New-England. il Saturday Club della generazione dei loro genitori e insegnanti e il Trascendental Club degli anni ’30 erano solo due dei più famosi club che punteggiavano il panorama culturale dei loro circoli sociali. Ivi, p. 153. 18
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P. Wiener, op. cit., p. 98.
Bisogna però sottolineare che anche l’evoluzionismo non darwiniano ebbe una parte importante nello sviluppo del pensiero di alcuni elementi del gruppo; tra questi basti ricordare Peirce, di cui parleremo più avanti, e Fiske, che spesso fu vero e proprio avversario della filosofia jamesiana, soprattutto in merito alla controversia sullo spencerismo: La filosofia della 20
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Non c’è da stupirsi dunque [visto l’interesse scientifico che stava suscitando all’epoca] che tutti i fondatori del pragmatismo furono, in un modo o nell’altro, influenzati dall’idea della contingenza della natura e dell’irriducibile individualità dell’uomo. Possiamo rintracciare quest’idea nel Cosmic Weather di Chauncey Wright, nel tichismo cosmologico di Peirce, nell’attacco di James al Block Universe e nella teoria di Carlyle dei grandi uomini che fanno la storia, nel bet-abilitarianism di Holmes e nel rifiuto di Nicholas St. John Green per l’idea deterministica della causazione22.
Non possiamo qui analizzare, nemmeno superficialmente, il pensiero degli altri membri del Club oltre a Wright, Peirce e James; di Holmes abbiamo già accennato in riferimento al tema delle conseguenze della Guerra Civile sui giovani Americani della generazione degli anni Trenta e Quaranta e Fiske può essere considerato uno dei massimi esponenti di quello spencerismo che, come abbiamo visto, James criticò a partire dagli anni Settanta. Forse Green meriterebbe qui una maggiore attenzione, proprio per essere considerato il tramite che permise a Peirce e a James di venire in contatto con la psicologia e la filosofia di Bain23, che abbiamo già citato trattando dei Principles e che, come vedremo più avanti, avrà un ruolo fondamentale anche nella definizione jamesiana del concetto di credenza. Per il pensiero degli altri membri del Club (anche Warner e Abbot, fra quelli che non abbiamo citato) rimandiamo senz’altro all’opera di Sini e a quella di Wiener.
storia di John Fiske nelle sue Outlines of Cosmic Philosophy e la sua controversia con William James sul ruolo dei grandi uomini della storia mostrerà come diversi tipi di evoluzionismo influenzarono le scienze sociali negli anni ’70 poco prima della nascita di una filosofia sociale più pragmatica. Ivi, pp. 27-28. Tranne che per Fiske, possiamo però dire che maggiore unità mostrarono i membri del club proprio rispetto alla filosofia spenceriana; sia Wright, che Peirce, che James (i membri del gruppo che più ci interessano qui) criticarono duramente la sintesi evoluzionistica del filosofo di Derby: Essi erano anche abbastanza critici rispetto a sintesi evoluzionistiche come quella proposta da Spencer così come di sistemi dialettici antiscientifici come quello di Hegel. Ivi, p. 28. Per scorgere gli inizi del pragmatismo e la sua critica al vecchio evoluzionismo [quello spenceriano], si deve guardare oltre James e Dewey, a Chauncey Wright e Charles Peirce. R. Hofstadter, op. cit., p. 125. Sembra che l’unione dei membri del Club fosse più forte proprio se osservata nella prospettiva della negazione di vecchie filosofie e di vecchi valori: I membri del Club avevano molte caratteristiche in comune. Erano tutti giovani ventenni o trentenni quando si incontrarono negli anni ’60. Tutti si erano da poco laureati a Harvard e avevano stretti legami con l’élite intellettuale dell’area di Boston. [...] ma tutti sentivano l’esigenza di rompere con i valori e la religione tradizionali ed erano attratti dalle idee più radicali, soprattutto nel campo scientifico [e quindi non nel sociale], come il darwinismo, l’empirismo naturalistico e il pensiero probabilistico. P. J. Croce, op. cit., p. 152. I membri del Metaphysical Club cercarono di giungere a verità metafisiche e morali non nonostante l’interesse per il darwinismo e le altre scienze, ma attraverso la ricerca scientifica. Ivi, p. 155. 21
22
P. Wiener, op. cit., p. 5.
23 Green, che in seguito divenne insegnante alla Harvard Law School e poi preside della Boston University Law School prima della sua morte prematura, era particolarmente interessato dall’utilitarismo di Bentham e dalla teoria della credenza di Alexander Bain. P. J. Croce, op. cit., p. 152. Di Bain tratteremo alla fine del presente Capitolo. Anche le conclusioni cui pervenne Green, in merito al tema della causalità, sono molto simili a quelle cui giungerà James nella sua filosofia più matura: C’è, nella visione di Green della causalità un’indefinita pluralità di condizioni interconnesse, piuttosto che una singola catena causale che porta inevitabilmente a un determinato fatto; ci sono tante cause [o meglio: catene causali] quanti sono i punti di vista di colui che ricerca [...]. P. Wiener, op. cit., p. 160. A proposito dei legami fra Green e Bain cfr. anche C. Sini, op. cit., p. 67.
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Cercheremo ora di descrivere il più esaurientemente possibile il pensiero di quei filosofi che, anche oltre i limiti cronologici e spaziali del Metaphysical Club, più di tutti influenzarono direttamente il pensiero di William James: Chauncey Wright e Charles Sanders Peirce. La nostra analisi, è bene dirlo subito, sarà però limitata a quelle parti della filosofia dei due filosofi americani cui James si riferirà, anche implicitamente, nell’elaborazione di una teoria psicologica e filosofica della libertà, che troverà rispettivamente nei Principles of Psychology e nella Will to Believe la sua prima espressione compiuta.
Si può affermare che il pragmatismo sia nato prevalentemente dalle discussioni sull’evoluzionismo darwiniano del quale Wright fu il campione riconosciuto negli Stati Uniti24.
E Wright, secondo le parole dello stesso Peirce, non fu solo il campione dell’evoluzionismo darwiniano negli Stati Uniti; egli fu anche — in parte proprio per il suo ruolo di difensore e di divulgatore della dottrina di Darwin — il membro di spicco del Metaphysical Club25. Ci serviremo perciò di Wright per mostrare come l’importanza della scienza evoluzionistica ecceda i limiti dell’applicazione che James operò nel campo della psicologia, per diventare una vera e propria base epistemologica sulla quale il nostro autore costruì il proprio ‘sistema’ filosofico, di cui la Will to Believe rappresenta le fondamenta26. Abbiamo deciso di trattare del Metaphysical Club (e dei suoi due membri più importanti27) dopo l’analisi dei Principles proprio perché questo ci permette di distinguere, pur tenendole unite nello stesso ‘movimento filosofico’, le due declinazioni in cui si manifestò l’importanza della teoria darwiniana per la psicologia e la filosofia di James. Mentre nel caso dei Principles, il sapiente utilizzo jamesiano, lo ‘sfruttamento’ secondo altri fini e altre esigenze, dei principi basilari della scienza darwiniana può essere considerata indipendentemente dall’influsso di Wright e Peirce, per quanto riguarda le sue conseguenze più generali — metodologiche ed epistemologiche, più squisitamente filosofiche — è necessario fare riferimenti più precisi al milieu culturale in cui James, ben prima di
24
Ivi, p. 70.
Sia James che Peirce riconobbero il proprio debito personale verso la dialettica stimolante che Wright infondeva nelle riunioni del Metaphysical Club. P. Wiener, op. cit., p. 39. 25
Scrive Sini: Chauncey Wright è perciò l’anello indispensabile ed essenziale di una linea di sviluppo che va dall’evoluzionismo darwiniano (e dall’utilitarismo) al pragmatismo nelle sue diverse direzioni (prime fra tutte quelle di Peirce e di James). C. Sini, op. cit., pp. 70-71. Noi seguiremo la direzione che va dall’evoluzionismo (anche quello che non passa attraverso la lettura di Wright) alla filosofia di Peirce solo fino ai limiti in cui questa può dirsi essere un precedente genealogico del pensiero jamesiano che precede la teoria pragmatica (del significato e della verità) di William James; si tratta di una ‘mutilazione’ necessaria e che certamente ci impedirà di considerare la parte forse più interessante della filosofia di Peirce; di questa ‘operazione’ storico-filosofica avremo modo di parlare meglio in seguito nel paragrafo dedicato a Peirce e nelle nostre Conclusioni. 26
27
Oltre a James stesso, ovviamente.
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cominciare a scrivere il suo magnum opus, si trovò a vivere e a pensare. La scelta di non rispettare dunque la cronologia della formazione filosofica del nostro autore è poi giustificata dal fatto che le domande specifiche sollevate dallo scetticismo di fondo con cui si concludono i Principles si inseriscono in quel fertile humus di intelletti brillanti in cui nacque la questione della fede nella scienza e delle alternative possibili che si sarebbero dovute elaborare dopo la fine, definitiva quanto rapida28, del vecchio modo di considerare la scienza e i suoi rapporti con la religione29 e perciò con la morale; in breve, James comincerà a pensare intorno ai temi che verranno affrontati nella Will to Believe già nelle accese discussioni del Metaphysical Club, ma sarà solo dopo avere tentato la ‘via naturalistica’ della scienza psicologica ch’egli potrà tornare sui temi della certezza e della fede, vent’anni dopo la morte del corifeo Chauncey Wright, che più di tutti aveva stimolato il suo pensiero intorno al dovere di dubitare e al diritto di credere. James aveva per la prima volta enunciato la dottrina [della volontà di credere] come “dovere di credere” nelle conversazioni coi suoi giovani compagni del Metaphysical Club negli anni ’70, quando l’agnosticismo stava cavalcando l’onda dell’evoluzionismo e sembrava aver tolto alla morale qualsiasi fondamento30.
28 Ovviamente ciò non toglie che la rivoluzione darwiniana si sviluppò in un periodo che aveva già sviluppato le condizioni per poterne accogliere tutta la novità: Il darwinismo può avere effettivamente rappresentato il più importante e forte agente di cambiamento nell’atteggiamento scientifico, ma il suo impatto divenne rivoluzionario solo in quanto rappresentava il culmine di decenni di evoluzione nell’approccio alla scienza. P. J. Croce, op. cit., p. 88. 29 La pubblicazione dell’Origin of Species di Charles Darwin nel 1859 pose una netta linea di demarcazione tra l’approccio al rapporto tra religione e scienza con cui Henry James Sr. Poteva concordare e il nuovo approccio in questi campi caratterizzato dalla fine della certezza. Le spiegazioni scientifiche naturalistiche di Darwin ignoravano i dettami della religione e [...] si rifacevano più alla plausibilità della spiegazione, piuttosto che alla certezza della prova. Ivi, p. 86. Vedremo meglio fra breve i contorni di questa rivoluzione epistemologica. 30
P. Wiener, op. cit., p. 12.
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4.1.2 Il positivismo di Chauncey Wright Chauncey Wright, filosofo oggi poco più che sconosciuto, fu un personaggio importante nella Cambridge degli anni che seguirono la Guerra Civile31. La sua formazione non fu certamente ortodossa: di modesta famiglia, poté studiare solo grazie all’interessamento di un buon insegnante, David Sheldon32, che comprese la sua disposizione per le scienze e la matematica e ne incoraggiò gli studi. A Harvard, Wright confermò i propri talenti e ivi si laureò nel 1852 (era nato nel 1830, dodici anni prima di William James33). Di Wright non sono rimasti numerosi scritti e questo è dovuto principalmente a tre ragioni, due delle quali sono strettamente connesse: in primis, egli morì giovane (1875), proprio quando la sua produzione intellettuale cominciava a diventare consistente; egli non ebbe mai una carriera accademica e dovette sempre guadagnarsi da vivere o insegnando in istituti privati o svolgendo l’attività di “computer” per il Nautical Almanac; inoltre, e questo è uno dei motivi principali per cui non riuscì a inserirsi nel mondo universitario, il suo stile era poco adatto alla parola scritta, ma soprattutto non si confaceva ai classici canoni di insegnamento34: il suo forte era la discussione, il tête à tête fatto di
31 Nel 1863 [Wright] venne eletto Segretario dell’American Academy of Arts and Science e si occupò delle sue deliberazioni fino al 1870. Durante questo periodo egli produsse numerosi scritti di argomento biologico, di cui uno in particolare, quello sulla fillotassi, fu abbastanza importante da essere incluso nel Lehrbuch der Botanik. I suoi articoli inoltre, cominciarono ad apparire su riviste come la Nation e la North American Review. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, University of Washington Press, Seattle 1963, p. 15.
David S. Sheldon non solo spinse Wright verso la scienza, egli lo introdusse anche al concetto di evoluzione biologica [...] che giocherà un ruolo dominante nei sui futuri interessi intellettuali. Sotto consiglio di Sheldon, Chauncey conobbe le Vestiges of Creation, una difesa della visione evoluzionistica molto letta e altrettanto criticata. Ivi, p. 4. 32
Questa differenza d’età, oltre a un’oggettiva capacità dialettica che si accompagnava a un’intelligenza brillante e a un carattere altruista e disinteressato, fu sicuramente motivo del grande rispetto che James provava per l’amico Wright: C’era comunque una sufficiente differenza d’età per creare un atteggiamento di deferenza in James, e di istinto paterno in Wright. TCWJ I, p. 528. Wright era cresciuto seguendo gli insegnamenti liberali della sua famiglia e fu influenzato in particolar modo dalla sua enfasi sulla moralità e dal disprezzo per il formalismo. P. J. Croce, op. cit., p. 158. 33
34 Wright fu invitato due volte a Harvard a tenere un corso di psicologia e uno di matematica, ma gli incarichi non gli vennero rinnovati a causa della sua oscurità nell’esposizione: Wright dava il meglio di sé nella conversazione [...] e ciò fu indubbiamente causa anche dei suoi insuccessi a Harvard. C. Sini, op. cit., p. 71. Chauncey Wright era di dodici anni più anziano di James. Si era laureato a Harvard nel 1852 e perciò aveva rapporti solo sporadici coll’università. Ma risiedeva per lo più in Cambridge, dov’egli lavorava al Nautical Almanac, scriveva saltuariamente degli articoli, raccolti poi postumi col nome di Philosophical Discussions, ed era rinomato per la sua abilità dialettica. TCWJ I, p. 229. [...] Chauncey Wright, di dodici anni più anziano di William, era molto interessato alle discussioni con Henry Sr. Molti ritenevano che egli possedesse una delle menti filosofiche più brillanti del tempo, ma non riuscì mai ad avere successo nelle conferenze tenute a Harvard, o nel breve periodo che trascorse come insegnante, perciò si manteneva con il lavoro al Nautical Almanac. Anche Henry Jr. provava simpatia per Wright, ma discutere con lui di filosofia non gli procurava che un gran mal di testa. G. W. Allen, op. cit., pp. 154-155. Noi faremo qui riferimento principalmente alle Philosophical Discussion, a cura di Charles E. Norton, Burt Franklin, New York 1971 e, per quanto riguarda la letteratura secondaria, ai paragrafi dedicati a Wright da Sini, op. cit., pp. 71-100, da Croce, op. cit., pp. 157-176, da Wiener, op. cit., pp. 31-69 e soprattutto all’opera di Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit. Madden è anche autore di numerosi saggi su Chauncey Wright, di notevole interesse: E. H. Madden, Chance and Counterfacts in Wright and Peirce, “Review of Metaphysics”, 9 (1956), pp. 420-432; id., Chauncey Wright and the American Functionalists, in R. M. Blake et al. (a cura di), Theories of Scientific Method; The Renaissance Through the Bineteenth Century, University of Washington Press, 1960; Gordon and Breach, New York 1989; id., Chauncey Wright; Forgotten American Philosopher, “American Quarterly”, 4 (1952), pp. 24-34; id., Chauncey Wright’s Life and Work; Some New Material, “Journal of the
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confronti dialettici che terminavano solo alle prime luci dell’alba: Il suo talento principale stava nella matematica e nella fisica teorica e la sua grande passione era la discussione35. Il fatto che la sua breve vita non fu scandita dalle classiche tappe del professore universitario o del filosofo (o scienziato) ‘istituzionale’, pur dando alla sua figura un fascino indiscusso,36 è motivo di difficoltà per il critico che voglia definire, ‘classificare’ il suo pensiero.
[Chauncey Wright] influenzò direttamente un notevole gruppo di giovani intellettuali, come Charles Sanders Peirce, Charles Eliot Norton, William James e suo fratello Henry; ma, dal momento che morì molto giovane [...] e non ottenne mai una significativa posizione istituzionale, egli facilmente sfugge dalle consuete categorie37.
La maggior parte degli studiosi sono comunque concordi, anche giusta le sue stesse parole, a considerarlo un positivista.
Agnostico, o “nichilista”, come diceva James, in religione, scettico in metafisica, in una sola cosa ebbe fede incrollabile, e cioè nel metodo della scienza rigorosamente concepito e condotto. Fu dunque un positivista, non v’è dubbio38.
History of Ideas”, 15 (1954), pp. 445-455; id., Pragmatism, Positivism and Chauncey Wright, “Philosophy and Phenomenological Research”, 15 (1953), pp. 62-71; id., Wright, James and Radical Empiricism, “Journal of Philosophy”, 41 (1954), pp. 868-874; id. e M. C. Madden, Chauncey Wright and the Logic of Psychology, “Philosophy of Science”, 19 (1952), pp. 325-332. Vanno poi ricordati gli articoli di J. L Blau., Chauncey Wright; Radical Empiricist, “New England Quarterly”, 19 (1946), pp. 495-517; B. P. Bowne, Chauncey Wright as a Philosopher, “New Englander”, 37 (1878), pp. 585-603; J. J. Chambliss, Natural Selection and Utilitarian Ethics in Chauncey Wright, “American Quarterly”, 12 (1960), pp. 144-159; R. Giuffrida, Chauncey Wright’s Theory of Meaning, “Journal of the History of Philosophy”, 16 (1978), pp. 313-324; G. Kennedy, The Pragmatic Naturalism of Chauncey Wright, in Phil. Dept. Of Columbia University (a cura di), Studies in the History of Ideas, AMS Press, New York 1970, Vol III, pp. 477-503; P. Wiener, Chauncey Wright’s Defense of Darwin and the Neutrality of Science, “Journal of the History of Ideas”, 6 (1945), pp. 19-45. Di notevole interesse è anche l’epistolario di Wright (che assieme alle Philosophical Discussion costituisce il l’opera omnia dell’autore): cfr. C. Wright, Letters of Chauncey Wright; With Some Account of His Life, a cura di J. B. Thayer, John Wilson, Cambridge 1978. 35
P. J. Croce, op. cit., p. 159.
Questo fascino, che, come testé detto, si esprimeva al meglio in contesti informali, non fu limitato alle riunioni del Metaphysical Club: Poco dopo la sua laurea egli formò con alcuni suoi compagni i "Septem”, un club dov’egli leggeva articoli che sarebbero poi apparsi sull’Atlantic Monthly e sulla North American Review. Charles Eliot Norton aveva incontrato Wright per la prima volta nel 1857 in “un club di pochi uomini con molti interessi”. Wright era anche un membro dello Shakespeare Club dove egli, come riportò un suo membro, “eccelleva su tutti noi”. Ivi, p. 161. 36
37
Ivi, p. 157.
C. Sini, op. cit., p. 72. Come abbiamo visto nei precedenti Capitoli, fu proprio Wright, insieme con Peirce, a far mutare rapidamente il pensiero di James nei rispetti dell’evoluzionismo spenceriano; il fatto che Wright fosse un acerrimo nemico filosofico del filosofo inglese e il fatto ch’egli non lo volesse considerare un positivista (ma piuttosto un metafisico) sono indicativi del rispetto che Wright aveva per il pensiero positivistico: Wright fu probabilmente il primo pensatore americano a pubblicare una profonda critica a Spencer da un punto di vista naturalistico [e non morale, religioso o sociale]. Formatosi sugli scritti di John Stuart Mill, Wright rifiutava la tendenza comune di classificare Spencer come un positivista. R. Hofstadter, op. cit., p. 126. Sulla metafisicità del pensiero di Spencer, paragonato da Wright a Oken, cfr. C. Wright, German Darwinism, in Philosophical Discussions, cit., p. 404. Croce non ha dubbi su come definire il pensiero di Wright: Wright affrontò la religione da un punto di vista 38
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Senza approfondire troppo la questione, a cui ha dedicato delle pagine molto chiare e interessanti Carlo Sini, possiamo dire che il suo ‘positivismo’ fu il frutto dell’incontro di due filosofie differenti, e storicamente opposte: il kantismo di William Hamilton e l’utilitarismo di John Stuart Mill. Il primo lo spinse a chiarire e a precisare la sua passione per i problemi scientifico-filosofici di indole generale39 e il secondo lo avvicinò alla filosofia utilitaristica e alla psicologia associazionistica, per quanto non si possa dire ch’egli fu mai veramente né un utilitarista né un associazionista convinto40. Di fatto, alla luce dei pochi scritti che Wright ci ha lasciato, potremmo dire che l’influsso di queste differenti correnti di pensiero fu la base filosofica grazie alla quale egli poté accogliere ed elaborare la più grande novità in campo scientifico che vide la seconda metà dell’Ottocento: l’evoluzionismo darwiniano. Non dobbiamo dimenticare che il suo ruolo più importante nel Metaphysical Club fu proprio quello di ‘divulgatore’ e di difensore della scienza darwiniana41 e il suo fallibilismo, il suo probabilismo e il suo neutralismo scientifico, che ci accingiamo ora a illustrare brevemente, non sono che i frutti filosofici dell’incontro della sua eclettica formazione filosofica e scientifica con la novità dell’evoluzionismo darwiniano. James fu sempre grato a Wright per avergli permesso di conoscere a fondo il pensiero di Darwin, come gli fu debitore, in una prospettiva allargata rispetto alle conclusioni cui egli giungerà nei Principles, di avere sondato le profondità epistemologiche legate alla novità dell’evoluzionismo per selezione naturale, pur nelle differenti conclusioni cui essi pervennero:
agnostico ed etichettò la sua visione della scienza come “positivismo”. P. J. Croce, op. cit., p. 163. E Richards è ancora più perentorio: Wright era un positivista ferreo e un riduzionista. R. J. Richards, op. cit., p. 434. Ciò nondimeno, non dobbiamo incorrere nell’errore, una volta ‘etichettatone’ il pensiero, di ridurre Wright ai suoi antecedenti filosofici, per quanto illustri. Oltre alle differenze che lo distinguono — come vedremo — da Mill, Wright si distingueva dalla maggioranza dei positivisti per la sua a-metafisicità, piuttosto che per una ferrea anti-metafisicità e in questo senza dubbio riemergono i segni indelebili della sua precoce passione per la filosofia hamiltoniana: Il positivismo e l’empirismo, secondo Wright, non hanno bisogno della religione, ma, al contrario del vecchio ateismo, non rifiutano lo spirito religioso. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 41. Egli [Wright] credeva in Dio, ma semplicemente non riteneva che le sue convinzioni religiose fossero importanti nella pratica scientifica. P. J. Croce, op. cit., p. 173. Ritorneremo su questo punto — il neutralismo — alla fine della nostra analisi su Wright. Lo stesso Sini poi, che — abbiamo visto — definisce Wright un positivista “senza dubbio”, nel prosieguo della sua analisi del filosofo americano aggiunge, quasi per mitigare la perentorietà dell’affermazione precedente, che Wright [...] pur accordandosi su alcuni punti con il positivismo di Comte e su molti con quello di John Stuart Mill, non può semplicemente definirsi né un comtiano, né un milliano e neppure genericamente un positivista. C. Sini, op. cit., p. 90. Ivi, p. 74. La maniera di Wright di considerare la religione e la morale indipendentemente dalle teorie teologiche nasce dal pluralismo della filosofia kantiana di Hamilton che pone limiti precisi alla scienza e all’uso speculativo della ragione per fare spazio all’etica della buona volontà e della fede religiosa. P. Wiener, op. cit., p. 41. 39
Come Mill, così Wright basava la sua visione sull’ammirazione per la scienza e sul continuo bisogno di verificare le teorie attraverso l’evidenza empirica. P. J. Croce, op. cit., p. 163. E’ bene dire che il pensiero di Hamilton e quello di Mill attrassero Wright in distinti periodi della sua vita; si potrebbe dire banalmente ch’egli cominciò come hamiltoniano e finì come milliano; ma questa sarebbe una semplificazione eccessiva: sia perché egli non accettò tutti i presupposti e le conseguenze della filosofia di Mill, sia perché i frutti della sua giovanile passione per Hamilton non vennero mai dimenticati: Kant e Hamilton sono dunque all’origine dell’indirizzo non-metafisico di tutto il pensiero di Wright. Ma, oltre a ciò, Wright deriva da Kant altri due atteggiamenti che resteranno in lui costanti: il primo è costituito dall’interesse per i problemi scientifici, o, per meglio dire, per la fondazione metodica delle scienze; il secondo dalla tendenza a considerare separatamente le differenti facoltà spirituali (il conoscere scientifico, la volontà morale, il sentimento estetico) stabilendo fra essi rigorosi confini che in nessun caso debbono essere vanificati. C. Sini, op. cit., p. 78. 40
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Poche teorie scientifiche hanno ottenuto una così positiva accoglienza dalla comunità scientifica, e hanno creato in così poco tempo una tale rivoluzione nella filosofia come la dottrina dell’origine delle specie per selezione naturale; e forse nessun’altra teoria può paragonarsi a essa se consideriamo l’incompletezza delle prove su cui si fonda42.
In questo brano è racchiusa in nuce gran parte della filosofia wrightiana che stiamo qui considerando, nei suoi rapporti con lo sviluppo del pensiero di James: Wright afferma che la scienza darwiniana rappresenta un unicum nella storia della scienza: sia per le conseguenze filosofiche cui essa ha portato, sia per la fragilità della sua fondazione empirica; il fatto che Darwin non avesse dimostrato la verità della sua teoria evolutiva è forse l’elemento più importante per comprendere la rivoluzione ch’essa portò nell’epistemologia contemporanea e la grandezza di Wright — come di Peirce — è stata quella di superare la tendenza naturale, per un scienziato come per un filosofo, di criticare l’infondatezza di questa nuova scienza per cercare di comprendere le nuove fondamenta metodologiche e le indelebili conseguenze che questa avrebbe portato in tutta la comunità scientifica. Wright entrò in contatto con Darwin, e cominciò a lavorare attivamente al progetto di difendere e divulgare la sua dottrina, grazie a un articolo che aveva scritto in replica a una critica di Mivart che, teso a mostrare l’inconsistenza della teoria della selezione naturale, non ne aveva colto affatto la novità epistemologica; Darwin lesse l’articolo e si mise subito in comunicazione con il suo autore per ringraziarlo e lodarlo e per chiedergli il permesso di ristampare lo scritto a beneficio dei sui numerosi critici inglesi. I rapporti fra Darwin e Wright
[...] ebbero inizio da uno scambio epistolare del quale prese l’iniziativa Wright inviando a Darwin, nel 1871, una sua lunga recensione del libro di St. George Mivart, The Genesis of Species43.
41
Wright produsse le più elevate discussioni del suo tempo intorno al significato filosofico dell’opera di Darwin. P. Wiener, op. cit., p. 32.
42
C. Wright, Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 97.
43 C. Sini, op. cit., p. 88. La corrispondenza [tra Wright e Darwin] ebbe inizio quando Wright spedì a Darwin una copia della sua lunga e critica recensione di un libro anti-darwiniano, The Genesis of Species (1871), opera di un gesuita che aveva studiato legge e fisiologia, S. George Mivart. P. Wiener, op. cit., p. 48. Nel 1871 la North American Review pubblicò un saggio di Chauncey Wright che difendeva la selezione naturale; questo articolo impressionò Darwin a tal punto che egli stesso lo ristampò per i lettori inglesi. R. Hofstadter, op. cit., p. 22. Darwin e Wright ebbero anche modo di conoscersi di persona: Nel 1872 Chauncey Wright compie un viaggio in Europa; in settembre si reca a visitare Darwin, col quale era da tempo in rapporto epistolare. C. Sini, op. cit., p. 76. Bisogna comunque ricordare che il rapporto Wright-Darwin, che qui sembrerebbe essersi definito in maniera quasi casuale, fu fortemente ricercato da Wright; sebbene l’articolo in risposta a Mivart sia del 1871, egli già da anni si stava dedicando con tutte le forze alla difesa della scienza darwiniana: Nel 1865 egli cominciò quel progetto che l’avrebbe occupato per i futuri dieci anni: dimostrare la teoria darwiniana dell’evoluzione naturale. P. J. Croce, op. cit., p. 163.
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In questa replica al fisiologo gesuita, Wright pone le basi per la sua difesa del nuovo modo di fare scienza, non più basata sulla certezza delle dimostrazioni e sulla ripetizione degli esperimenti, bensì sulla plausibilità della spiegazione e sulla sua metodologia probabilistica. La critica di Mivart all’evoluzionismo mostra quanto poco avesse egli capito la rivoluzionarietà di questa teoria; lo scienziato gesuita considerava la biologia evoluzionistica come branca della fisica e questo quindi lo spingeva a interpretare come non scientifiche quelle teorie che, come nel caso di quella darwiniana, si basavano sulla probabilità, sulla statistica, piuttosto che sulla certezza. Inoltre, come vedremo fra breve, le critiche di Mivart alla dottrina darwiniana spinsero sempre di più Wright a sottolineare l’importanza di una neutralità metafisica e teologica delle teoria scientifiche. Mivart era la ‘prova vivente’ di quanto fosse importante la neutralità della scienza. Ma torniamo ora al probabilismo e al fallibilismo della dottrina darwiniana: Nonostante il suo entusiasmo per la teoria di Darwin, egli [Wright] non la considerava più di una teoria probabile44. Forse non sarebbe azzardato dire che l’entusiasmo di Wright per l’evoluzionismo darwiniano non era tale nonostante esso non corrispondesse ai canoni della scienza moderna, ma proprio in virtù di ciò. Ovviamente Wright non avrebbe di certo apprezzato in misura minore la teoria della selezione naturale se essa fosse stata dimostrata sperimentalmente, ma quel che qui vogliamo sottolineare è che la sua lettura è duplice: da un lato Wright raccoglierà i ‘suggerimenti’ evoluzionistici per applicarli alla psicologia45, o come egli aveva intenzione di chiamare il suo pensiero — che rimase purtroppo incompiuto — alla psicozoologia, dall’altro egli analizzerà la dottrina darwiniana sotto un profilo più generale, prescindendo dai suoi concreti contenuti. Prima di analizzare le conseguenze epistemologiche (e metafisiche) cui giunse Wright in virtù di questa lettura metodologica dell’Origin of Species, conviene esporre brevemente i risultati cui egli pervenne nel campo più propriamente psicologico, dove i legami fra Wright e James appaiono in tutta la loro evidenza.
Il contributo più importante che Wright intendeva offrire al darwinismo ha il suo punto di partenza nel saggio del ’73 Evolution of Self-consciousness, il quale costituisce, d’altronde, anche il più diretto impulso dato da Wright alla nascita e allo sviluppo delle idee pragmatistiche46. 44
Ivi, p. 165.
45 Come è noto, Wright suscitò l’ammirazione di Darwin anche per una sua ‘estensione’ dei principi evoluzionistici dal regno animale a quello vegetale: Chauncey Wright fu uno dei primi dopo Asa Gray a difendere la teoria darwiniana della selezione naturale e a pubblicare applicazioni di quella teoria ai problemi biologici suscitati dalla spiegazione dei principi fisici nella costruzione degli istinti delle api e nella distribuzione delle foglie (fillotassi). P. Wiener, op. cit., p. 31. 46
C. Sini, op. cit., p. 94.
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Fu proprio Darwin a stimolare Wright alla produzione del saggio sull’evoluzione dell’auto-coscienza; Evolution of Self-Consciousness rappresenta il suo più forte ed elaborato sforzo filosofico e fu scritto in seguito al suggerimento di Darwin stesso di applicare il suo potere analitico al problema di quando, in relazione all’evoluzione del linguaggio, una cosa può dirsi effettivamente causata dalla volontà dell’uomo. [...] Questo saggio influenzò profondamente il William James dei Principles of Psychology e la parte filosofica del saggio di Wright, una sorta di monismo neutrale, influenzò anche il pensiero di James sull’empirismo radicale, soprattutto a proposito del concetto di esperienza pura47.
Come abbiamo ricordato sopra, Wright non poté portare a compimento la sua opera (che avrebbe dovuto esporre la nuova scienza nata sulle fondamenta dell’evoluzionismo darwiniano: la psicozoologia) e quindi non poté rispondere esaurientemente alla domanda che Darwin gli aveva posto: “Quando un’azione può dirsi frutto della volontà dell’uomo?”. Comunque, lo scritto sull’evoluzione dell’autocoscienza può considerarsi a pieno titolo il primo capitolo di quell’opera che Wright non riuscì a completare.
Se Darwin voleva che Wright applicasse il suo “potere analitico” al linguaggio, possiamo dire che questi, dal canto suo, voleva applicare i principi evolutivi alla psicologia, e in particolare alle facoltà più elevate della mente umana: la riflessione e l’autocoscienza; l’analisi genealogica di Wright (dove la coscienza umana viene appunto considerata come un prodotto dell’evoluzione di facoltà inferiori) pone in chiara luce la continuità tra uomo e animali, introducendo il principio dei “nuovi usi per vecchie
E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 23. A proposito della possibile influenza del pensiero di Wright sull’empirismo radicale di James cfr. id., Wright, James and Radcal Empiricism, cit., passim. Fiske si lamentò di non averlo compreso completamente nemmeno dopo numerose letture! [la visione metafisica di Wright, il suo pensiero sulla natura della realtà] potrebbe essere chiamato un monismo neutrale. Questa visione [...] è molto simile al concetto di esperienza sviluppato da James [...]. Id, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 129. Un passo che in qualche misura anticipa la teoria jamesiana dell’esperienza pura potrebbe essere questo: La distinzione tra soggetto e oggetto [che l’uomo opera normalmente fra sé e il mondo] diventa così una classificazione attraverso l’osservazione e l’analisi, e non si tratta di una distinzione intuitiva, come supposto dalla maggior parte dei metafisici. C. Wright, Evolution of Self-Consciousness, in Philosophical Discussions, cit., p. 219. E, anche in questo caso, Wright cerca di interpretare evoluzionisticamente un fenomeno che, in maniera trascendentale, potrebbe essere visto staticamente: Tutti gli stati di coscienza sono riferiti a uno o all’altro [dei ‘mondi’, quello soggettivo e quello oggettivo], o in parte a ognuno dei due. E questa attribuzione è, almeno in parte, istintiva, ma non indipendente da tutte le esperienze, dal momento che proviene o dall’osservazione diretta dei nostri genitori, o dalla loro selezione naturale. Cioè, probabilmente attraverso la sopravvivenza di coloro che divisero correttamente i mondi [...]. Ivi, p. 231. L’intera visione filosofica di James sul fatto che gli elementi dell’esperienza immediata non sono riducibili a qualcosa di puramente mentale o di puramente fisico, il suo pluralismo, in altre parole, appare in Wright in quanto segue: “materia e mente coesistono. Non esistono fondamenti scientifici in base ai quali uno può essere considerato la causa dell’altro”. P. Wiener , op. cit., p. 55. La nozione jamesiana di “esperienza pura”, esposta negli Essays on Radical Empiricism è fondamentalmente simile alla visione epistemologica di Wright sulla neutralità originaria dei fenomeni, che così non apparterrebbero né al mondo fisico, né a quello mentale. James nega l’esistenza sostanziale della coscienza e afferma che l’unica ‘materia’ del mondo è “esperienza pura”, cioè esperienza non classificabile come soggettiva od oggettiva [...]. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism., cit., p. 133. 47
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funzioni” che sarebbe in grado di spiegare come, attraverso impercettibili cambiamenti, facoltà destinate a determinate operazioni possano, attraverso uno sviluppo graduale cambiare qualitativamente48:
Nel suo lungo The Evolution of Self-Consciousness egli cercò di stabilire una continuità empirica tra l’istinto animale e l’intelligenza umana mostrando come quest’ultima fosse emersa da capacità già presenti, in un grado minore, nel primo49.
Wright non vuole dire dunque che non esiste una differenza qualitativa fra la coscienza animale e l’autocoscienza umana; ‘solo’, la differenza che attualmente esiste è il risultato di un lento cammino che ha portato vecchie funzioni50 (come nel caso dell’emissione di suoni nelle bestie) ad avere nuovi usi (nel caso del linguaggio umano). Non ci interessa qui addentrarci troppo specificamente nei dettagli di questo abbozzo di psicozoologia, ma certamente non possiamo non riconoscere nell’applicazione delle categorie evolutive (in special modo di selezione e di variazioni spontanee) alla psicologia dell’uomo (in un approccio comparativo) un’anticipazione della teoria psicologica che James elaborò nei Principles of Psycology, segnatamente in quei capitoli (sulla Ragione51, sulla Volontà, sull’Attenzione) che più ci hanno interessato nella nostra ricerca
La parola “evoluzione” è ingannevole poiché suggerisce una continuità nei tipi di funzioni e di poteri negli esseri viventi [...] La verità è, al contrario, che, secondo la teoria dell’evoluzione, nuovi usi di vecchi poteri sorgono discontinuamente sia nella mente che nel fisico degli animali [...]. C. Wright, Evolution of Self-Consciousness, in Philosophical Discussions, cit., p. 200. Dove non esiste nulla, dice Wright, non si possono delineare nuove facoltà; ma i fenomeni preesistenti non è necessario che presentino senz’altro le caratteristiche che ritroveremo al punto di arrivo. C. Sini, op. cit., p. 97. [...] Wright, nella sua “psicozoologia”, non tracciava nette distinzioni, come invece i vitalisti e gli idealisti kantiani, tra l’organico e l’inorganico, tra il vegetale e l’animale, tra azioni volontarie e involontarie, istintive e intelligenti. Egli vedeva queste nette divisioni in una serie continua di un processo evolutivo: “Gli abiti propriamente detti, e le disposizioni, che sono gli effetti degli abiti, non sono differenti nel loro aspetto pratico dagli istinti veri e propri”. P. Wiener, op. cit., p. 89. 48
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E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 78.
50 Wallace pensa che questa cosa meravigliosa, la mente umana, non possa essere il prodotto della selezione naturale; che almeno alcune delle qualità morali e mentali dell’uomo oltrepassino la giurisdizione e la misura dell’utilità; che la selezione naturale ha i suoi limiti [...] C. Wright, Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 104. La riflessione è una facoltà distinta e, sebbene non sia tipica dell’uomo, in lui è così importante nei suoi effetti sullo sviluppo della mente individuale, che può essere considerata come la sua caratteristica mentale più essenziale. Poiché differenze quantitative nelle cause possono procurare differenze qualitative negli effetti. C. Wright, Evolution of SelfConsciousness, in Philosophical Discussions, cit., p. 217. La sua “ Evolution of Self-Consciousness”, ispirata da una richiesta dello stesso Darwin, mostra i legami tra l’intelligenza animale e quella dell’uomo e avanza l’ipotesi che anche la coscienza umana sia un prodotto della selezione naturale e dell’evoluzione. P. J. Croce, op. cit., p. 169. L’‘accusa’ che Wright muove a Wallace è quella di mischiare — come faceva Spencer — metafisica e scienza, introducendo delle spiegazioni non scientifiche, nel senso di non verificate né verificabili, per spiegare ciò che comunque può essere compreso attraverso le categorie darwiniane.
Probabilmente James non conobbe mai un’altra mente così “disinteressata” — così dedita all’osservazione spassionata e pronta ad accettare le conclusioni a cui sarebbe giunto con la propria ragione — come quest’uomo modesto e altruista. Negli anni a seguire il pensiero di 51
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Nella sua recensione di Wundt, James fa riferimento a un articolo precedentemente pubblicato sulla North American Review nell’Aprile del 1873; si trattava di lavoro di Chauncey Wright intitolato: Evolution of Self-Consciousness. In questo articolo Wright sosteneva che l’evoluzione darwiniana era opportunistica. Egli mostrava cioè come strutture già presenti negli animali, sia mentali che anatomiche, potessero essere volte a nuovi usi. [...] Wright era un positivista ferreo e un riduzionista. Nel suo articolo egli sostiene che l’autocoscienza umana non è un dono soprannaturale [...]. Dal momento che a quel tempo James e Wright erano amici intimi, è probabile che essi abbiano discusso dell’argomento prima della pubblicazione dell’articolo. Se così fosse, allora la scoperta jamesiana di quest’argomento [del fatto che la coscienza era un ‘prodotto’ dell’evoluzione] si porrebbe [...] tra la fine del 1872 e l’inizio del 187352.
Nel cuore della psicologia interazionistica jamesiana, comprovata in maniera circostanziale dall’evoluzione della coscienza dagli animali meno evoluti all’uomo, pulserebbe quindi del sangue wrightiano53. Non bisogna però dimenticare che, se è vero che il funzionalismo e l’interazionismo jamesiani sono profondamente radicati nell’Evolution of Self-Consciousness di Wright, questi, al contrario di James, cercò nella teoria darwiniana delle selezioni naturali una conferma scientifica, un appiglio biologico alla concezione utilitaristica dell’uomo che grazie a Mill si era formato negli ultimi anni54. Secondo le parole di Sini, Wright si sarebbe servito di Darwin per ‘storicizzare’ l’associazionismo
James fu spesso influenzato o chiarito da certe idee di Wright: un esempio degno di nota è il capitolo sulla “ragione” nei Principles of Psychology, nel quale James riconosce il suo debito verso “Evolution of Self-Consciousness” scritto da Wright su suggerimento dello stesso Darwin. Ma i rapporti di William James con Chauncey Wright erano molto più personali e più profondi di questi. Lo scetticismo proprio di Wright lo aveva infatti spinto ai limiti dello sforzo emotivo e intellettuale e mai James si sentì soddisfatto dalle risposte che riusciva a opporre al criticismo di Wright. Per anni dopo la morte dell’amico James continuò a pensare come se dovesse giustificare le proprie idee davanti a Wright [...]. Lungo i primi vent’anni della sua vita professionale, l’argomento filosofico che più di tutti interessò James fu quello della libertà e del determinismo. G. W. Allen, op. cit., p. 202. Il saggio di Wright sull’“Evolution of Self Consciousness”, pubblicato nel 1873, contribuì alla visione jamesiana della genesi e del ruolo biologico del pensiero, come apparirà nel suo saggio “Brute and Human Intellect” del 1878, che verrà in seguito incorporato nel capitolo sul “ragionamento” dei Principles. TCWJ I, pp. 521-522. R. J. Richards, op. cit., p. 434. La recensione cui Richards fa riferimento è quella ai Grundzüge der physiologischen Psychologie, scritto di Wundt del 1875. La recensione è ora raccolta in ECR alle pp. 296-302. 52
Scrive Madden: Comunque, le parti del libro di James che sarebbero diventate le più importanti per il suo futuro pragmatismo e per lo strumentalismo di Dewey non saranno quelle dove si nota l’influsso di Wright. E. H. Madden, Chauncey Wright andthe Foundations of Pragmatism, cit., p. 129. Quest’affermazione di Madden è condivisibile solo fintanto che si distingua nettamente, come abbiamo fatto in questa Tesi, tra teoria pragmatica del significato (e della verità) da un lato e psicologia interazionistica e teoria della volontà di credere dall’altro. Nei prossimi Paragrafi avremo infatti modo di costatare come la psicologia interazionistica di James fu la base scientifica sulla quale costruire la propria teoria della volontà di credere. Sini non manca di sottolineare la continuità tra l’opera di Wright e quella di James: The Expression of Emotions in men and Animals di Darwin e il saggio di Wright Evolution of Self-consciousness sono i testi chiave per comprendere gran parte dello sviluppo del pensiero di James sino ai Principles of Psychology del '90. C. Sini, op. cit., p. 251. Wright è senza dubbio la nostra figura chiave, anche se egli non scrisse mai un libro, né mai utilizzò il termine “pragmatismo”. P. Wiener, p. 33. 53
54 Che Darwin fosse per Wright un ‘complemento’ della filosofia Milliana è testimoniato dall’amico Peirce: Charles Peirce, tornando dal suo viaggio in Louisiana intorno al Giugno del 1860, aveva notato che Wright, dopo avere abbandonato il kantismo di Hamilton per il nominalismo di Mill “era ora un entusiasta sostenitore di Darwin, le dottrine del quale gli apparvero come una sorta di supplemento di quelle di Mill. Ibidem.
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milliano: questi aveva infatti sostenuto che la coscienza umana, in tutti i suoi aspetti, era il prodotto di un meccanismo psichico associativo utilitaristicamente pensato. Di fatto Darwin era servito a Wright per tappare le falle della propria teoria [...] anche suppostane la validità e l’esistenza, come il principio dell’utile agisce concretamente nell’imporre il costituirsi di certe abitudini e nessi associativi a preferenza di altri? Ecco che la teoria di Darwin sembra a Chauncey Wright colmare questa lacuna: è la lotta per la sopravvivenza a imporre (meccanicamente, e cioè senza il ricorso ad alcun principio finalistico, così come la meccanica è la genesi delle associazioni psichiche) la selezione naturale delle associazioni utili, ovverosia “più adatte”55. Questa inclinazione all’associazionismo e all’utilitarismo sembrerebbero perciò allontanare radicalmente il pensiero di James da quello del suo più anziano amico, ma questa differenza, che pure esiste, non deve affatto essere accentuata; come abbiamo infatti visto, James era un grande estimatore della psicologia associazionistica (sia di quella di Locke che di quella di Mill e di Bain), e riteneva che l’utilitarismo fosse in grado di spiegare gran parte dei comportamenti e degli atteggiamenti umani. Il divario fra i due pensatori americani si riduce poi ulteriormente se pensiamo che lo stesso Wright
Riconosce che la sola legge dell’associazione non è sufficiente a spiegare in modo scientifico il processo evolutivo delle conoscenze nello spirito umano56.
55 C. Sini, op. cit., p. 85. Non c’è migliore dimostrazione della sincera aderenza di Wright al metodo scientifico [...] del suo abbandono dell’idea lamarckiana dell’uso come fattore evolutivo [...]. Il concetto di uso infatti implica una visione teleologica della natura e speculare sulla finalità della natura significa abbandonare la neutralità metafisica della scienza. P. Wiener, op. cit., p. 60. Wright credeva che la legge dell’evoluzione di Spencer, il cambiamento dall’omogeneo all’eterogeneo attraverso la differenziazione e l’integrazione, applicato universalmente al movimento della natura, fosse la riproposizione della teleologia nel pensiero scientifico. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 76. Spencer sarebbe perciò colpevole di avere introdotto nella sua filosofia principi astratti senza una giustificazione che andasse oltre al desiderio di dare coerenza e omogeneità alla propria dottrina: Niente giustifica lo sviluppo di principi astratti in scienza se non la loro utilità nell’ampliare la nostra concreta conoscenza della natura. C. Wright, The Philosophy of Herbert Spencer, in Philosophical Discussions, cit., p. 56. Evoluzione significava per Wright continua trasmutazione delle specie e non, come pensava Spencer, progresso verso un fine. P. Wiener, op. cit., p. 61. Il Wiener, nell’analisi del lamarckiano concetto di uso, sembrerebbe aprire alla possibilità di individuare un ulteriore motivo — che si aggiunge a quelli citati alla fine del precedente Capitolo — per il rifiuto perentorio dell’evoluzionismo lamarckiano da parte di James. Lo stesso Wiener poi ricorda che Wright riconosceva che la teoria darwiniana della pangenesi era solo un’ipotesi provvisoria e che comunque, come molti dei suoi contemporanei, come Samuel Butler, Ernst Haeckel, Herbert Spencer, Walter Bagehot, Alfred Wallace, Charles S. Peirce e G. Stanley Hall, egli accettava, sebbene con beneficio del dubbio, l’ipotesi lamarckiana della trasmissione dei caratteri acquisiti. D’altronde una posizione del genere — non condivisa, come abbiamo visto, dall’‘ultradarwiniano’ James — era giustificata anche da una lettura ‘ortodossa’ dell’opera di Darwin: Darwin sostiene che la selezione attuale è la causa principale dell’evoluzione delle specie, sebbene non sia poi l’unica causa. C. Wright, Evolution by Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 171. 56 C. Sini, op. cit., p. 87. Per comprendere meglio i legami dell’associazionismo wrightiano con la psicologia fisiologica del tempo è utile accennare a un altro membro del Metaphysical Club, John Fiske: [...] Fiske giunse infatti alla conclusione, analoga a quella del Wright, secondo la quale nuove condizioni dell’ambiente avrebbero indotto nuove abitudini associative nella psiche dell’uomo determinando così nuove funzioni in antichi canali nervosi. Ciò spiegherebbe anche il formarsi, secondo il principio della selezione naturale, della straordinaria complessità del cervello umano, se confrontato con quello degli animali. C. Sini, op. cit., p. 113. Una posizione, questa, che solo in apparenza ricorda il pensiero psicologico di James, che, come abbiamo visto nei precedenti Capitoli, ruotava attorno all’applicazione del concetto di variazione spontanea all’attività cerebrale. Per quel che concerne l’utilitarismo, la posizione
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Prima di trattare il tema del probabilismo e del fallibilismo wrightiani come conseguenza della lettura dell’Origin of Species mette conto ora di cercare di rispondere alla domanda che lo stesso Darwin aveva posto al giovane filosofo americano: “Quando può dirsi che un atto è frutto della volontà dell’uomo?”; Evolution of Self-Consciousness non è purtroppo molto chiaro a riguardo e questo è anche uno dei motivi che hanno fatto ritenere fallito il tentativo di Wright di rispondere al quesito, semplice quanto capitale, dello scienziato inglese57. Di fatto, sembrerebbe di trovarsi di fronte alla domanda: “Quando l’uomo può dirsi libero di agire?”. Almeno questa sarebbe la maniera in cui James avrebbe riformulato la questione posta da Darwin58. Ma per Wright non avrebbe avuto molto senso un quesito di questo tipo; egli era infatti un rigido determinista e forse la più grande differenza tra lui e James sta proprio in questo diverso approccio allo studio della volontà dell’uomo. Il problema della volontà è in Wright separato da quello della libertà (che di fatto non costituisce per lui alcun problema) e questo è anche uno dei motivi per cui la sua psicozoologia appare essere così superficiale rispetto alla psicologia jamesiana. Scrive Wright:
Sostenere [come fa Wallace] che la volontà aggiunga qualcosa alle forze dell’organismo significa assegnarle una natura materiale. Ma Wallace fugge, o sembra che pensi di sfuggire (come altri che la pensano così), da un materialismo vero e proprio grazie alla dottrina della
di Wright è invece meno sfumata, almeno secondo l’interpretazione di Madden: [Wright] accettava la tradizione utilitaristica in filosofia morale. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 23. L’utilitarismo di Wright non è però sovrapponibile a quello di Mill, né tantomeno a quello di Bentham. Come ricorda Madden, secondo l’utilitarismo di Wright, un atto deve essere giudicato buono o cattivo in base alle sue conseguenze e le conseguenze sono buone quando accrescono la felicità generale, o la felicità di qualcuno senza rendere infelici altri, una posizione molto simile a quella di Darwin e, come abbiamo visto, di Spencer. Cfr. ivi, p. 51. E’ una legge universale del mondo organico, e una necessaria conseguenza della selezione naturale, che l’individuo agisca per il benessere della specie e solo incidentalmente per il proprio; dal momento che è la razza, e non l’individuo, che sopravvive o è preservata. C. Wright, Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 114. Il principio darwiniano che spiega come gli istinti morali si sono formati è quello della selezione naturale. La forma della moralità umana che attualmente è stata naturalmente selezionata è stata quella che ha prodotto il maggior numero dei più prosperi individui. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 71. In sostanza l’utilitarismo di Wright che, millianamente, distingue i piaceri anche qualitativamente non solo quantitativamente, si avvicina in parte all’etica jamesiana che pone la vita morale sopra quella naturale, ma mai in opposizione a essa: Per gli utilitaristi [come Wright] il sacrificio non è un bene in sé, ma solo nella misura in cui contribuisce al benessere degli altri. Ivi, p. 58. Sembra invece che l’utilitarismo (complementare all’evoluzionismo) sia piuttosto motivo di distinzione fra Wright e Peirce, certamente più distante dall’utilitarismo di Mill e soprattutto dal suo nominalismo: Charles S. Peirce pensava che Wright stesse cercando in maniera ingiustificata di legare i concetti di utilità e di selezione naturale, sebbene non indicò né quale fossero i termini di questo legame, né perché fosse ingiustificabile. [...] Wright diede a volte un’impronta evoluzionistica alle sue visioni utilitaristiche, sebbene questo aspetto non sia prominente nella sua filosofia morale. Ivi, p. 69. 57 Secondo Michael H. DeArmey i Principles di James contengono la risposta alla domanda — posta da Darwin — cui Wright non aveva potuto rispondere. Cfr. Michael H. DeArmey, The Anthropological Foundations of William James’s Philosophy, in S. Skousgaard (a cura di), The Philosophical Psychology of William James, Center for Advanced Research in Phenomenology & University Press of America, Washington 1986, p. 35. 58 E in effetti possiamo dire che almeno parte dei Principles of Psychology è dedicato proprio a rispondere a questa domanda.
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libera volontà. In altre parole, egli considera la volontà come una fonte assoluta di energia fisica, che aggiunge continuamente, sebbene in piccole quantità, alle forze della natura59.
Questo è per Wright inconcepibile, dal momento che è contrario alla legge della conservazione della forza; inoltre, una volontà siffatta rappresenterebbe una forza fisica che funziona solo come causa e non è effetto di nulla, che agisce nel mondo fisico senza essere sottoposta alle sue leggi. Come abbiamo visto nei Capitoli precedenti, William James, che, grazie anche all’analisi di Renouvier e di Delboeuf aveva potuto sondare la difficoltà di far convivere un pensiero indeterministico con le leggi della termodinamica o, più genericamente, con i capisaldi della scienza moderna, era riuscito a uscire da questa impasse, dove si porrebbe una aut-aut tra il rispetto della fisica e quello delle esigenze morali, riportando il problema delle indeterminazione del comportamento umano a un livello puramente mentale, senza coinvolgere la regolarità delle leggi di natura che rimaneva così, almeno all’apparenza, invariata. Wright non si sentiva affatto incatenato da una filosofia e da una scienza materialistiche; in lui non è presente l’esigenza jamesiana di strappare l’uomo dalla morsa della necessità e, come vedremo, anche il suo probabilismo — che non coincise mai con una perdita di fiducia nella scienza — fu sempre sostenuto da una ferrea fede nell’universalità della causazione60.
I fenomeni della volizione consapevole [...] sono puramente e assolutamente regolativi, essi non aggiungono né sottraggono nulla alla quantità di forze naturali61.
Questa sembrerebbe una teoria decisamente omogenea alla psicologia di James; ma non bisogna farsi ingannare dall’aspetto regolativo che sembra avere qui la coscienza: di fatto, per Wright, la volontà non è altro che un flusso, una forza, che piuttosto che regolare, viene regolata da tutte quelle condizioni che ne sono totalmente indipendenti. La volontà non è più quella funzione in grado di regolare, liberamente, il flusso di pensiero; la volontà è una sorta di flusso, da Wright chiamato water-force, che rappresenta una spontaneità originaria, determinato e incanalato dal carattere e dalle circostanze; e quindi sembrerebbe che per Wright non ci sia molto spazio per la libertà, almeno intesa come possibilità di interrompere il ‘naturale’ rapporto di causa effetto. Wright non dice che il corso del fiume non può cambiare, ma
59
C. Wright, Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 121.
Per Wright [...] il metodo sperimentale deve presupporre l’universalità della causazione senza pregiudizi di tipo metafisico. P. Wiener, op. cit., p. 56. 60
61
C. Wright, Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 122.
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nemmeno dice che esso può essere ‘intenzionalmente’, ovvero sia liberamente, deviato verso questa o quella direzione62.
La libertà è controllo interno anziché esterno; [...] controllo che, invece di rendere l’uomo libero, nel senso scientifico del termine, rende la sua vita regolare e la sua condotta prevedibile63.
4.1.3 Cosmic Weather e neutralismo metafisico Il determinismo è una costante del pensiero di Wright; esso è per lui sinonimo di regolarità (ex parte objecti) e di scientificità (ex parte subljecti). Come vedremo ora, anche il suo probabilismo e il suo fallibilismo ‘si nutrono’, in maniera apparentemente paradossale, dell’universalità del principio di causazione. Ma che cosa si intende per fallibilismo e probabilismo? E in che modo questi sono legati alla teoria darwiniana della selezione naturale?
I termini “probabilismo” e “fallibilismo” si riferiscono all’abbandono del determinismo meccanicistico nelle scienze fisiche e sociali, sostituito da un’interpretazione contingente e probabile delle loro leggi64.
Cfr. C. Wright, Evolution of Self-Consciousness, in Philosophical Discussions, p. 265. Al riconoscimento della mancanza di giustificazione di una coscienza intesa come res cogitans, che accomuna Wright e James, fa seguito in Wright la tendenza a demolire qualsiasi autonomia della coscienza anche come funzione. Qualsiasi tentativo in questa direzione viene perciò letto come ‘rigurgito metafisico’: Sembrerebbe anche probabile che l’invincibile convinzione metafisica della realtà della volontà come un potere misterioso che si cela dietro il fenomeno della volizione, e perciò refrattario a qualsiasi analisi in termini carattere, organizzazione e circostanze, nasca dall’eredità di sensazioni intorno alla volontà di altri uomini, piuttosto che dall’attenta osservazione di se stessi [i. e. dall’introspezione]. Ivi, p. 240. Qui Wright fornisce una sorta di genealogia della ‘reificazione’ della volontà, che poi sarebbe alla base del realismo filosofico, di quel concettualismo che tanto avversava e che lo divise irreparabilmente dall’amico Peirce. Vale forse la pena di ricordare che in James, estraneo a qualsiasi ‘reificazione’ della volontà e libero dalla tentazione di vedere poteri “misteriosi” dietro i nostri atti liberi, alla ricerca sulla funzione della volontà (libera) non si lega affatto il rifiuto di analizzarne “il carattere, l’organizzazione e le circostanze”. Come abbiamo ricordato precedentemente trattando dell’analisi jamesiana del feeling of effort, Wright non pensava che il senso comune potesse essere in qualche misura decisivo nella soluzione del problema (che per lui non si pone nemmeno) della libertà dell’uomo: affidare alla nostra sensazione la prova della verità della dottrina del libero arbitrio sarebbe come affermare l’immobilità della terra dato che non ne abbiamo alcuna sensazione...Cfr. Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, p. 124. Wright pensava che McCosh si sbagliasse nel cercare di risolvere i problemi filosofici ricorrendo alle credenze del senso comune. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 96. 62
63
Ivi, p. 18.
64 P. Wiener, op. cit., p. 200. Il fallibilismo è la nozione che noi definiamo scientifiche quelle proposizioni che sopravvivono alla prova del modus tollens: se non è q, allora non è p. Il fallibilismo cominciò sulla costa americana dell’Atlantico con i pragmatisti di cantabrigensi Chauncey Wright, Charles Sanders Peirce e William James. W. R. Woodward, James’s Evolutionary Epistemology: “Necessary Truths and the Effects of Experience”, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 155.
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Secondo questa definizione, come vedremo, l’epistemologia di Wright non può essere considerata veramente fallibilistica.
L’origine delle specie fu pubblicato verso la fine del 1859. Gli anni precedenti hanno rappresentato la stagione scientificamente più produttiva di tutti i tempi. L’idea che il caso genera l’ordine, che è uno dei punti chiave della fisica moderna (...) fu proprio allora posta nella più chiara luce. [...] Nello stesso tempo il metodo statistico era stato applicato, proprio con questo nome, alla fisica molecolare.[...] la conseguenza fu che l’idea che fatti fortuiti possano essere tradotti in una legge fisica [...] divenne un’ipotesi interessante per le menti più brillanti del tempo. È chiaro che per scienziati siffatti, L’origine delle specie, il cui insegnamento era proprio l’applicazione di questo principio per spiegare un’altra azione “non-conservativa”, quella dello sviluppo organico, sarebbe stata benvenuta65.
Croce, in un’ideale continuità con l’opera, vecchia di mezzo secolo, di Wiener, sottolinea il probabilismo insito nella teoria darwiniana della selezione naturale:
[...] Le nuove teorie scientifiche, soprattutto il darwinismo, presentavano un’immagine del mondo che faceva sorgere dubbi sia a riguardo delle prove empiriche della teologia naturale, sia riguardo alla corrispondenza ideale [tra materiale e spirituale, tra fisico e psichico]. [...] La nuova teoria dell’evoluzione delle specie attraverso il meccanismo della selezione naturale fece scalpore non solo per i suoi presupposti schiettamente naturalistici, [...] ma anche per la sua metodologia implicitamente probabilistica66.
Si può parlare di probabilismo, ma implicito, proprio perché non fu lo stesso Darwin a elevare a nuovo metodo scientifico la sua spiegazione dell’evoluzione delle specie; di fatto, Darwin non aveva preteso di rivoluzionare l’epistemologia contemporanea; egli si era attenuto ai canoni della scienza empirica, raccogliendo il più grande numero possibile di prove a favore della propria teoria, cercando di spiegare le sue apparenti incongruenze e, in breve, scrivendo e riscrivendo la sua teoria per tutta la vita. Furono altri, scienziati, ma soprattutto filosofi, ad accorgersi che dall’anno 1859 qualcosa era radicalmente cambiato nel modo di fare scienza.
Durante il diciannovesimo secolo le teorie scientifiche persero lo statuto di dimostrazioni e prove per diventare sempre più ipotesi esplicative. Il darwinismo rappresentò
65
P. Wiener, op. cit., p. 3.
66
P. J. Croce, op. cit., p. 227.
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un’accelerazione in questa direzione, ma anche altre teorie scientifiche seguirono questo percorso, come dimostra il successo della scienza probabilistica67.
E’ forse questa la più grande rivoluzione che attraversò la scienza a metà del diciannovesimo secolo; la teoria della selezione naturale non era mai stata suffragata da vere prove. Nessuno aveva mai potuto osservare l’evoluzione di una specie in un’altra e nessuno poteva dirsi in grado di provocare in futuro un’evoluzione del genere. Ciò nondimeno, l’evoluzionismo darwiniano sembrava l’unica teoria capace di spiegare tutta una serie di fenomeni altrimenti incomprensibili e non più giustificabili nemmeno con il ricorso alle Sacre Scritture68. La teoria del disegno69 divino non solo non si fondava su prove empiriche (nemmeno su prove simili a quelle ‘indiziarie’ di Darwin): essa non era in grado di spiegare i fenomeni naturali. La sufficienza della spiegazione rispetto alla necessità della dimostrazione diede il colpo di grazia a quegli scienziati, come Agassiz, e a quei filosofi, come Henry James, che sempre avevano fatto del supporto della fede religiosa il necessario complemento per ogni teoria scientifica70.
Per Gray, l’autorità che sorregge la teoria di Darwin, e ogni buona teoria scientifica, non sta nella sua capacità di fornire prove certe e di mettere insieme i fatti, ma nel suo metodo probabilistico e nella sua abilità di spiegare i fatti71.
Molti fra coloro che avversarono la dottrina darwiniana sostennero che questa, oltre ad avere osato ‘fare a meno’ della religione nella formulazione delle proprie teorie, aveva messo in crisi gli stessi canoni della scienza moderna. Come Mivart, molti sostenevano che la teoria darwiniana era troppo debole, incapace di quell’esattezza che sempre più, a partire dal Seicento, si pretendeva dalla conoscenza scientifica. In sostanza, il probabilismo veniva fatto coincidere con un’implicita cassazione del principio
67 Ivi, p. 16. Dal momento che il libro di Darwin rappresentava il termine della tendenza naturalistica scientifica e presentava un nuovo approccio alla spiegazione scientifica, che facesse uso di ipotesi e del concetto di probabilità, egli offriva una sfida fondamentale per pensatori che, come Henry James, credevano che il progresso scientifico potesse rafforzare la fede religiosa. Ivi, p. 99. 68 Giova forse ricordare come Agassiz non era riuscito, nemmeno con la spedizione cui partecipò James, a trovare prove scientifiche delle proprie teorie catastrofistiche fondate su una teoria del “disegno”. 69 Per quanto Asa Gray si sforzasse di mostrare che la selezione naturale non aveva conseguenze determinate sull’argomento del “disegno”, e che lo stesso Darwin era esplicitamente teistico [sic](R. Hofstadter, op. cit., p. 28.) Il darwinismo sembrò muovere accuse al cuore della teologia tradizionale da più di una direzione. Per circa un secolo l’argomento del “disegno”, così come divulgato dal teologo inglese William Paley, era stata la prova principale dell’esistenza di Dio. Ivi, p. 25. Ora, insieme con la certezza della scienza era crollata anche la certezza della fede che sempre ne era stata il complemento.
Per il giovane William James, la posizione di Wright non solo era fortemente contraria alla lettura spirituale della natura fatta dal padre, ma anche a Louis Agassiz e a tutta la generazione di scienziati che erano convinti che il mondo naturale potesse confermare la fede religiosa. P. J. Croce, op. cit., p. 164. 70
71
Ivi, p. 130.
318
di causazione universale, il cuore della ricerca scientifica. Ma Wright era tutt’altro che disposto a incassare una critica del genere; trattando delle variazioni spontanee, egli sottolinea come queste siano state fraintese, e a volte a bella posta; esse non starebbero affatto a dimostrare l’irregolarità, la casualità della natura, quanto piuttosto l’imperfezione della conoscenza umana (ora difesa più strenuamente dai religiosi piuttosto che dagli scienziati), con il conseguente riconoscimento della necessità di fare scienza, di spiegare oltre la certezza della prova:
Darwin ha senza dubbio avuto le sue colpe. Nella sua opera infatti, egli non ha sufficientemente rimarcato la sua fede nell’universalità della legge di causalità [...] Egli non ha detto abbastanza spesso che, riferendosi ad “accidenti” egli intendeva dire che le loro cause sono come particolari fasi del tempo atmosferico, [...] che sono oltre il potere di previsione di una mente finita, sebbene queste siano sempre determinate da cause regolari72.
Wright in sostanza dice: Mivart ha cercato di colpire Darwin colpendo l’idea di una scienza che si fondi sulla casualità e l’accidentalità, ma, dal momento che Darwin non abbraccia affatto una simile teoria, la critica cade.
Wright credeva che i principi della selezione naturale hanno un’alta probabilità di essere veri, ma che l’applicazione di questi principi in dettaglio a tutte le complessità della vita organica richiedesse la stessa abilità che abbisogna il meteorologo per applicare i principi della fisica ai casi concreti della natura73.
Il probabilismo della teoria darwiniana è spiegato da Wright con questo paragone molto efficace: essa non è paragonabile all’astronomia o alla fisica di laboratorio; si tratta più che altro di una scienza probabilistica, come la meteorologia o addirittura come l’economia politica, ma questo non toglie il fatto che si tratti pur sempre di scienza74. Questo nuovo modo di fare scienza si manifesta proprio nella
72 C. Wright, The Genesis of Species, in Philosophical Discussions, cit., p. 131. Abbiamo già ricordato, trattando dell’analisi jamesiana delle variazioni spontanee, che Darwin era stato tutt’altro che oscuro al proposito; ma forse questa critica wrightiana rappresenta uno stratagemma retorico per introdurre con maggior forza la propria teoria. Le cause accidentali della scienza sono ‘accidenti’ solo relativamente all’intelligenza dell’uomo. Ivi, p. 141. Questa incapacità di previsione [di fatti che erroneamente vengono considerati casuali] è il significato che Darwin dà alla parola “accidente”, il cui concetto, dice Wright, purtroppo è spesso interpretato come “assenza di causa”. Edward H. Madden, Chance and Counterfacts in Wright and Peirce, “The Review of Metaphysics”, 9 (1956), pp. 421-422. Questa complessità [della natura] non scandagliata dettagliatamente, può dare l’apparenza, ma solo l’apparenza, della casualità degli eventi. Ivi, p. 421. 73
E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 83.
Cfr. C. Wright, The Genesis of Species, in Philosophical Discussions, cit., p. 137. Egli [Wright] paragonò le leggi della biologia, come quella della selezione naturale, alle leggi economiche di domanda e offerta o alle leggi meteorologiche delle previsioni del tempo: nessuna in grado di predire un singolo e specifico avvenimento, ma in grado però di tracciare la tendenza generale. Wright descrisse questo modello di certezze 319 generali stagliantisi dalle nubi delle incertezze particolari, con la metafora del “cosmic weather”. P. J. Croce, op. cit., p. 167. 74
sua capacità di tracciare la tendenza generale degli avvenimenti (del tempo atmosferico, della società, delle specie animali) senza essere in grado di predire un singolo specifico avvenimento75; questo si deve intendere per probabilismo della teoria darwiniana. La battaglia condotta da Wright contro il realismo filosofico e contro la reificazione della volontà trova un suo degno avversario proprio nell’ipotesi della casualità dell’‘ordine’ di natura.
Non c’è bisogno di introdurre il caso o il mistero nell’universo o di invocare spiegazioni soprannaturali per fenomeni naturali. [...] per Wright “le cause accidentali sono “accidentali” solo relativamente all’intelligenza umana”76.
Dire che non c’è bisogno di invocare spiegazioni soprannaturali vuol dire negare l’esigenza di sostenere la scienza con la religione e viceversa.
la scienza fallibile e probabile non ha più bisogno della fede e che volesse interpretare l’eclissi della certezza77 come una minaccia per l’indipendenza della scienza dovrebbe riconsiderare il proprio giudizio
75 Oliver Wendell Holmes descrive così l’insegnamento più importante ricevuto da Wright: “Chauncey Wright, un filosofo di grande spessore ormai quasi dimenticato, mi insegnò, quand’ero giovane, a non dire la parola necessario riguardo all’universo, poiché l’uomo non sa che cosa è necessario o meno. Io credo che si possa scommettere sul comportamento dell’universo [...]” P. Wiener, op. cit., 174. 76 P. J. Croce, op. cit., p. 167. La speranza principale di tutta la scienza sperimentale, la sua speranza di comporre le varie scienze in una vera filosofia della natura, è basata sull’induzione o sulla presupposizione a priori dell’universalità della causalità fisica. C. Wright, The Genesis of Species, in Philosophical Discussions, cit., p. 131. Il riconoscimento della legge di causazione universale non deve però portare con sé un’analisi metafisica del concetto stesso di causa, che rimane per Wright ‘semplicemente’ un presupposto, un postulato scientifico: Il pensiero metafisico chiede [...] perché un antecedente è seguito dal suo conseguente. Ma tale questione non nasce dallo spirito che anima la ricerca scientifica.. C. Wright, Evolution of Self-Consciousness, in Philosophical Discussions, cit., p. 246. Per Wright non ha senso scientifico interrogarsi sul ‘perché’ del rapporto di causa effetto; questo sarebbe un residuo di pensiero metafisico, che è stato appunto ‘giustificato’ da Wright riportandolo a una mentalità ‘reificatrice’, arcaica. Chiedersi che cosa ‘stia dietro’ un fenomeno vuol dire infatti già presupporre che ‘dietro’ i fenomeni ci sia qualcosa e questo, empiricamente parlando, non è affatto giustificato. Peirce mostrerà invece come tale postulato, che sembra l’unico in grado di potere sostenere tutta la scienza moderna, è esso stesso il residuo di una mentalità arcaica, per quanto questa si ammanti dei successi della ricerca scientifica contemporanea: Al momento attuale, la critica storica ha quasi smantellato i miracoli, grandi o piccoli che siano; di modo che la dottrina della necessità non è mai stato tanto di moda tanto come adesso. [...]. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 49. Una pagina dopo, Peirce è ancora più esplicito: Quando ho chiesto a uomini di pensiero che ragione essi avevano per credere che ogni fatto nell’universo è determinato precisamente da una legge, la prima risposta è stata di solito che la proposizione era una “presupposizione” o un postulato del ragionamento scientifico. Ebbene, se questo è il meglio che si possa dire di essa, la credenza è condannata. Supponiamo che essa sia “postulata”: ciò non la rende vera, né ci dà il minimo motivo razionale per darle credito [...]. “Postulare” una proposizione non significa altro che sperare che sia vera. Ivi, p. 50. 77
Traducendo il sottotitolo del saggio di Croce, op. cit.
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alla luce di quello che effettivamente accadde nella comunità scientifica dopo la pubblicazione delle opere di Darwin.
Kloppenberg [afferma che] l’incertezza emerse perché gli scienziati demolirono gli argomenti della religione. Questa visione ha dominato le interpretazioni storiografiche precedenti l’ultima generazione, ma di fatto ha reso conto soltanto di un aspetto della relazione tra religione e scienza nel secolo decimo nono78.
In sostanza non fu la certezza della scienza a mettere in crisi l’esigenza di un sostegno religioso alla ricerca scientifica, ma il suo fallibilismo: una dinamica apparentemente paradossale che spiega il definitivo, per quanto tormentato, distacco della scienza dalla religione79. Senza comprendere questa dinamica, apparentemente paradossale, non si capirebbe allora come al probabilismo e al fallibilismo di Wright potesse legarsi strettamente un neutralismo scientifico.
[...] il suo scopo [...] fu di difendere la scienza (in particolare quella darwiniana), restando rigorosamente entro i confini della scienza medesima, senza indulgere a compromissioni religiose o metafisiche80.
Neutralismo scientifico non vuole solo dire che la religione e la metafisica non devono avere un peso nelle nostre teorie scientifiche81.
78 P. J. Croce, op. cit., p. 13. La nuova scienza, operando in maniera probabilistica, rifiutava le esigenze di certezza sia in campo religioso che scientifico. Ivi, p. 88. Per Croce non accadde che la religione fosse stata sconfitta dalla scienza: il fallibilismo e l’incertezza crebbero in entrambi i campi. Il riferimento di Croce è a James T. Kloppenberg, Uncertain Victory; Social Democracyand Progressivism in European and American Thought, 1870-1920., Oxford University Press, New York 1986. 79 Abbiamo detto all’inizio di questo Paragrafo che, secondo la definizione che ne abbiamo dato, Wright non può essere considerato a pieno titolo un fallibilista; la sua fedeltà al determinismo sarebbe l’ostacolo all’assunzione completa di un abito scientifico fallibilistico e probabilistico; Croce sottolinea questo fatto ricordando che in Wright, nella separazione fra religione e scienza, quest’ultima assurge al ruolo di quel ch’era stata un tempo la religione: [...] la teoria della selezione naturale gli servì [a Wright] come sostituto delle precedenti spiegazioni teologiche della natura, ma, ironicamente, implicando un desiderio di certezza nella scienza [dovuto al suo empirismo “positivistico”] molto simile agli scopi che si proponeva l’ortodossia religiosa cui si opponeva. P. J. Croce, op. cit., p. 169. Come vedremo alla fine del presente Paragrafo, il desiderio di certezza di Wright, fondato sulla fiducia del metodo sperimentale e dell’universalità della causazione, deve considerarsi più forte della consapevolezza dell’impossibilità (accidentale e non necessaria come in Peirce) di pervenire a una conoscenza perfetta della realtà. 80 C. Sini, op. cit., p. 72. Wright sottolinea con energia che le questioni scientifiche devono essere liberate da qualsiasi presupposto o preferenza metafisica, così che esse possano procedere ad una lunga e imparziale verifica per la quale è di essenziale importanza avere preventivamente “sospeso ogni giudizio”. Ivi, pp. 89-90. Wright non è solo un difensore di Darwin, ma il critico di tutti gli evoluzionismi degli anni Sessanta e Settanta, sotto la bandiera della “neutralità scientifica”. Ivi, p. 91.
Sulla separazione di scienza e religione, Gray fu fortemente influenzato da Chauncey Wright, che era anche intimo amico di William James. Wright difendeva la posizione filosofica della “neutralità della scienza”, mentre Gray la praticava concretamente.. P. J. Croce, op. cit., p. 134. Wright riteneva che la scienza non potesse e non dovesse essere posta in armonia con la religione poiché la scienza e le sue ricerche sono completamente irrilevanti per la religione. Ivi, p. 163. 81
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Neutralismo vuol dire anche che una teoria scientifica, come quella darwiniana, nata per spiegare determinati fenomeni, non può essere estesa arbitrariamente ad altri campi, à la Spencer potremmo dire82.
Coerentemente col suo empirismo pluralistico, Wright sollevò dure critiche a coloro che volevano estendere la teoria darwiniana della selezione naturale oltre i fenomeni biologici e psicologici fino ai domini della cosmologia e della teologia83.
Wright estese l’evoluzionismo darwiniano al solo campo della psicologia, distinguendosi in ciò dall’amico Peirce, che costruì una vera e propria metafisica evoluzionistica84 e spianando la strada a James per la scrittura dei Principles of Psychiology, un’opera che, come abbiamo visto, va ben oltre la mera psicologia o psicofisiologia, ma che nelle intenzioni dell’autore doveva rimanere metafisicamente neutrale85. Molti altri sono i punti di contatto tra i pochi scritti wrightiani e i numerosi di James; cercheremo qui di esporli brevemente:
Non è importante per l’astronomia scientifica capire da dove sia nata la teoria della gravitazione; se sia un’induzione dalle teorie dell’attrazione e della legge delle radiazioni, o se sia sorta dalla semplicità razionale della legge stessa [...] La scienza non si fa domande sul pedigree ontologico o sul carattere a priori di una teoria: le è sufficiente giudicarne i risultati86.
Lo stesso James, fin dai Principles, intese l’empirismo proprio in questa prospettiva: rivolta al futuro piuttosto che al passato, alla verificazione e non alla genealogia delle nostre credenze e tutta la filosofia pragmatica — anche nelle parti che non analizzeremo nella nostra Tesi — non è che un’elaborata estensione, alla morale, alla teoria della verità e del significato, di questa forma di empirismo.
Bisogna tracciare un’importante distinzione tra evoluzione come teoria scientifica di una branca ben precisa ed evoluzionismo come generalizzazione che invade ogni campo di ricerca, dalla biologia alla cosmologia, alla sociologia e alla filosofia della storia. Questa distinzione [...] ci tornerà molto utile per il nostro compito di comprendere le relazioni tra l’evoluzionismo del diciannovesimo secolo e le origini del pragmatismo. Vedremo infatti come una delle questioni principali discusse dai fondatori del pragmatismo, cominciando con Chauncey Wright, era come si potesse legittimamente applicare l’ipotesi darwiniana della selezione naturale a campi differenti dalla biologia. P. Wiener, op. cit., p. 6. 82
83 Ivi, p. 9. La selezione naturale [...] non è applicabile alle parti inorganiche della natura ed è molto limitata anche nei fenomeni della vita organica. C. Wright, Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 108. 84
Cfr. P. Wiener, op. cit., p. 63.
Nei suoi Principles of Psychology, James rilevò la correttezza della psicozoologica Evolution of Self Consciousnes nell’escludere la metafisica dalla ricerca scientifica. Ivi, p. 37. 85
86
C. Wright, The Philosophy of Herbert Spencer, in Philosophical Discussions, cit., p. 47.
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L’aspetto importante dell’empirismo di Wright è la sua insistenza sulla verificazione empirica delle ipotesi e dei loro concetti piuttosto che sulla loro origine empirica, un importante cambiamento che divide l’empirismo tradizionale di Locke dall’empirismo moderno87.
Wright inoltre, strenuo difensore della neutralità della scienza, era ben consapevole della dimensione umana e caratteriale di ogni pensiero filosofico; un insegnamento questo che, insieme con quello analogo di Renouvier, non poteva non lasciare tracce profonde sul giovane James:
Le questioni di filosofia sono desideri, paure, aspirazioni dell’uomo, emozioni umane che prendono una forma intellettuale88.
Wright poi, come abbiamo visto farà lo stesso James, aveva applicato le categorie della selezione naturale anche alle più nobili attività dell’intelletto:
Lo sviluppo della mente umana né è un esempio [della legge della sopravvivenza del più adatto]; le nostre conoscenze e le nostre convinzioni razionali sono il risultato della sopravvivenza delle più adatte fra le nostre credenze spontanee89.
Per Wright dunque lo sviluppo intellettuale dell’uomo, il fatto che l’uomo di oggi abbia raggiunto delle ‘vette’ intellettuali è spiegabile in maniera squisitamente evoluzionistica, secondo il principio dell’utilità e dell’adattamento di queste credenze, e non è necessario, come invece pensava Wallace, alcun principio metafisico per spiegare il passaggio dalla mente rozza dei nostri progenitori alle capacità ottenute oggi; una visione continuistica che abbiamo già sottolineato in relazione all’analisi wrightiana del passaggio dagli istinti animali all’intelligenza umana e che si ritrova, ampliata, nei Principles of Psychology.
87
E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 107.
C. Wright, The Philosophy of Herbert Spencer, in Philosophical Discussions, cit., p. 50. In filosofia noi siamo liberi da ogni pregiudizio, tranne che da quelli del nostro carattere. Ivi, p. 76. “La scienza, come tale, non ha nulla a che fare con la fede, ma la filosofia, che vuole abbracciare l’uomo nella sua interezza, non può ignorare i dati e i fenomeni della fede. Noi possiamo certamente cercare di ignorare l’intricato problema della causalità, e prendere le cose così come esse ci appaiono, senza sviluppare alcuna dottrina che ne analizzi le relazioni; possiamo certamente cercare di ignorare le speculazioni metafisiche e spirituali e confinare la nostra attenzione alle percezioni dei sensi, ma il fenomeno rimane, e la mente umana continuerà a tornarvi per cercare una soluzione.” C. Wright cit. in P. Wiener, op. cit., p. 55. E’ evidente che Wright non aveva affatto abbandonato lo spirito kantiano che aveva succhiato da giovane col latte di Hamilton. 88
89
C. Wright, Limits of Natural Selection, in Philosophical Discussions, cit., p. 116n.
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Inoltre, anche se Wright può essere considerato a buon diritto un positivista, egli non indulse mai a compromissioni con il riduzionismo psicofisiologico, una posizione, questa, che non poteva non infondere fiducia in un James che cercava di fare scienza psicologica sfuggendo alle maglie del riduzionismo:
Gli eventi mentali, Wright viene a dire, sono completamente condizionati da quelli fisici ma non sono analizzabili in atomi fisici come loro parti componenti90.
Infine, accomunati dalla medesima critica allo spencerismo, Wright e James concordavano sulla concezione della storia e dei grandi uomini, anche in riferimento alla scienza:
Noi dobbiamo la scienza alle energie combinate di uomini di genio, piuttosto che a una qualche tendenza al progresso interna alla civilizzazione91.
Altrettanto importanti, se non altrettanto numerose, sono però le differenze che dividono i due amici cantabrigensi; quel che forse salta di più agli occhi è il determinismo di Wright opposto all’indeterminismo di James; ma questo è soltanto il culmine di una profonda differenza intellettuale, nonché caratteriale, che separa Wright dal nostro autore; la stessa divisione tra religione e scienza che James fa mostra di accettare nella composizione dei Principles non sarà mai finalizzata all’esclusione della morale e della ‘metafisica’ dai suoi interessi (anche di psicologo) e la scienza non sarà mai per lui sufficiente a soddisfare le esigenze conoscitive dell’uomo né egli potrà mai sostituire lo scetticismo dell’intelletto a quello che, vedremo, chiamerà la volontà di credere.
Le idee di Wright sono particolarmente importanti proprio rispetto a quel che pensava William James, il quale ascoltava sempre attentamente le parole del vecchio e più esperto amico. Ma dal momento che il giovane amico aveva un interesse meno marcato per l’idea di un disegno in natura, sia scientifico che religioso, la sua lettura di Darwin gli permise di giungere alla conclusione che il caso governa l’intima attività dell’universo. Nonostante la fede che Wright nutriva nella scienza, la sua interpretazione di Darwin fornì a James gli strumenti per giungere a rifiutare la certezza scientifica92.
C. Sini, op. cit., p. 95. Gli eventi mentali, sono secondo Wright interamente condizionati da quelli fisici, ma non sono perciò stesso analizzabili in atomi fisici come parti. P. Wiener, op. cit., p. 55. 90
91
C. Wright, The Philosophy of Herbert Spencer, in Philosophical Discussions , cit., p. 51.
92
P. J. Croce, op. cit., p. 175.
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Piuttosto James, che — come abbiamo visto — non era affatto convinto che il caso governa l’intima attività dell’universo giunse a rifiutare lo scetticismo in morale che la scienza sembrava portare con sé. James ebbe sempre un interessamento molto profondo per le questioni morali e religiose e certamente superiore a quello di Wright. Per quest’ultimo poteva essere sufficiente affermare l’esistenza di Dio e la sua estraneità alla ricerca scientifica, mentre per James alla risposta positiva intorno alla domanda sull’esistenza di Dio era intimamente legata un’altra domanda, forse più importante: “Come questa credenza deve cambiare la mia esistenza?”. E’ allora evidente che ridurre tutte le questioni morali e metafisiche alle idiosincrasie personali avrebbe voluto cadere in quell’individualismo e in quel soggettivismo di cui James fu spesso accusato, ma di cui egli non si sentì mai il padre.
Le differenze tra Wright e James emergono nel modo in cui essi distinsero religione e scienza. James fondò la possibilità del diritto di credere senza certezza; per contrasto, Wright mostrò scarso interesse nell’ordine spirituale del mondo93.
James, dopo avere concluso in maniera sostanzialmente scettica i Principles of Psychology, almeno per quanto riguarda il tema della libertà, cercava ora di raggiungere la certezza della credenza (non solo della libertà) seguendo l’insegnamento di Renouvier e distaccandosi sempre più da Wright; il filosofo francese, pur essendo un empirista, riconosceva i limiti della ragione e allo stesso tempo le forti esigenze dell’uomo, alle quali sembrava essere sordo Chauncey Wright; e fra le più profonde esigenze dell’uomo c’era per Renouvier, come per James, quella di credere: in un Dio buono, nell’immortalità dell’anima, nella libertà:
La credenza è nulla se non è certa; la ragione non può renderla certa; perciò, il fine della credenza si può raggiungere solo attraverso un atto di volontà94.
Wright rappresentò per James un vero e proprio maestro, ma proprio quello che il più anziano amico aveva potuto insegnargli alla fine gli andò stretto; il positivismo di Wright, per quanto ‘temperato’,
93
Ivi, p. 171.
94
TCWJ I, p. 657.
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rimaneva un ostacolo insuperabile affinché il cammino dei due, comunque interrotto prematuramente dalla morte di Wright95, potesse proseguire sulla stessa strada96.
James era attratto dal positivismo di Wright: la tangibile realtà dell’esperienza quotidiana era ciò che rappresentava per Wright l’intera realtà. James, in ogni caso, era, più di Wright, interessato nell’aspetto soggettivo dell’esperienza, nella percezione del senso di continuità dell’esperienza personale, nel desiderio umano di una dimensione trascendente. [...] James vedeva la sua [di Wright] filosofia come essenzialmente nichilistica. “Chauncey è il più dannato razionalista che abbia mai incontrato”, disse una volta James a George Palmer97.
Di fatto il fallibilismo di James era più sincero di quello di Wright, che — come abbiamo già ricordato — non può dirsi ‘genuino’. La fiducia nella scienza di Wright era tale ch’egli pensava che il futuro avrebbe consentito all’uomo di raggiungere delle certezze che oggi sembrerebbero impossibili98. L’ametafisicità di Wright si manifestò alla fine come un’anti-metafisicità, mentre James cercò, qui più kantianamente dell’hamiltoniano Wright, di incontrare le esigenze metafisiche dell’uomo, non rifiutando lo studio della religione e la religiosità perché estranei al processo di ricerca scientifico99. Purtroppo, come abbiamo già ricordato, Wright morì prematuramente; al rammarico per non potere oggi leggere la sua opera sulla psicozoologia si aggiunge anche quello di non aver potuto assistere, sebbene più di un secolo più tardi, al prosieguo di quella accesa discussione che, a metà degli anni Settanta stava
95
Nel 1875 la persona più fortemente agnostica che James avesse mai conosciuto morì: era Chauncey Wright. G. W. Allen, op. cit., p 200.
96 Madden, forse il più grande conoscitore dell’opera di Wright, cerca di allentare il legame fra questi e William James, anche nei luoghi che sembrerebbero accomunarli più di tutti: Entrambi negavano la sostanzialità della coscienza e che soggettività e oggettività siano tratti caratteristici dei fenomeni [...] ma bisogna aggiungere che non è affatto strano che entrambi condividessero questa visione, poiché molti empiristi del tempo — Grote, Renouvier e altri — abbracciarono una forma di monismo neutrale. E questa posizione, come ha mostrato Gail Kennedy, era già contenuta nell’empirismo e nel fenomenismo di J. S. Mill. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit, p. 134. Madden ipotizza dunque che il rapporto sia stato ‘indiretto’; Wright avrebbe impiantato il seme dell’empirismo in James e questo avrebbe poi autonomamente sviluppato il suo pensiero, senza un costante riferimento all’amico. Cfr. G. Kennedy, op. cit. passim. 97 L. Simon, op. cit., p. 148. Il padre di William, un seguace di Swedenborg, era amato e onorato profondamente da James. Egli scrisse anche uno squisito schizzo della sua vita e del suo carattere. Ma James crebbe con la convinzione che le qualità di quell’uomo ammirevole fossero ostacolati da un idealismo mistico. Egli giunse perciò a temere credenze di quel tipo. Nella prima maturità James strinse una salda relazione con Chauncey Wright, un personalità potente e un intrepido pensatore che, seguendo J. S. Mill, portò all’estremo lo scetticismo dl maestro. Per un certo tempo James trovò nel rigido empirismo di Wright un’utile scappatoia all’idealismo che lo opprimeva. G. H. Palmer, “William James”, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., p. 34.
William James imparò da Wright a rigettare le certezze della religione tradizionale e a guardare la scienza in termini probabilistici, ma James non giunse mai a ritenere che la scienza potesse offrire delle certezze alternative. P. J. Croce, op. cit., p. 174. 98
Ma dal punto di vista filosofico, Wright, con il suo atteggiamento antireligioso, era un avversario sia per James che per il padre di James. C. Wright Mills, Sociologia e pragmatismo, a cura e con un’Introduzione di I. L. Horovitz, Jaca Book, Milano 1968, p. 188 (Titolo orig: Sociology and Pragmatism. The Higher Learningin America, The Esatate of C. Wright Mills, 1964). [...] rimane il fatto che Wright era per James un avversario filosofico. La ragione, ovviamente, sta nel suo “insegnamento antireligioso” e nel suo rifiuto dei diritti della metafisica. Per William James, così come per suo padre, Wright incarnava più di tutti lo spirito del positivismo, con tutto ciò che di negativo esso portava con sé. TCWJ I, p. 522. 99
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cominciando a coinvolgere sempre più i due amici. Il tema era proprio quello della credenza e dell’agnosticismo; quanto lo scetticismo scientifico (temperato in Wright dalla sua immensa fiducia per le risorse della scienza) avrebbe dovuto pesare sul nostro diritto di credere, anche oltre quanto consentito dai soli risultati del nostro intelletto?
William James fu influenzato in vari modi da Wright, ma fin da subito si ribellò all’agnosticismo dell’amico. James inizialmente propose una posizione che egli chiamava “dovere di credere”, ma che poi modificò in “diritto di credere” in seguito alle critiche di Wright. Molti anni più tardi questa dottrina emerse pienamente sviluppata nel famoso saggio The Will to Believe.. In questo saggio James attaccava l’agnosticismo di Clifford e Huxley ma, come mostra la sua corrispondenza, egli stava ancora combattendo la vecchia battaglia con Chauncey. [...] Ma James si sbagliava, la sua dottrina della volontà di credere era compatibile, tranne che per alcuni dettagli, con la visione di Wright100.
Riprenderemo brevemente il tema del rapporto tra Chauncey Wright e William James al termine della nostra Tesi, quando avremo già avuto modo di esporre la teoria jamesiana della volontà di credere; solo allora potremo capire veramente quanto fu importante, anche negativamente, il contributo di Wright per la formazione filosofica del nostro autore. Quel che ora ci rimane da fare è seguire la storia, quella iniziale almeno, del rapporto che James intrattenne, fin da giovane, con l’altro membro di spicco del Metaphysical Club: Charles Sanders Peirce; questi, come Wright, era stato attratto irresistibilmente dall’evoluzionismo di Darwin e, anticipando chiaramente il futuro pensiero di James, stava riflettendo, nella seconda metà dell’Ottocento, sul significato e del ruolo della credenza per la scienza e per la vita dell’uomo.
4.1.4 Charles Sanders Peirce e “il segreto della Sfinge”
Se nel precedente paragrafo il nostro più grande problema storico-filosofico era quello di trovare dei legami certi tra l’opera di Wright e quella di James attraverso la lettura dei pochi scritti lasciatici dal primo, ora ci troviamo di fronte a una situazione ribaltata; Peirce infatti scrisse moltissimo, anche se in vita pubblicò un solo libro101. I rapporti di James con Peirce non furono poi meno stretti di quelli intrattenuti con Wright e se si considera che la filosofia di quest’ultimo è molto più complessa e variegata di quella del più anziano amico, ch’egli fu in stretto contatto con James fino alla sua morte (gli
100
E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., pp. 43-44.
101
Si tratta della Photometric Research, Leipzig 1878.
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sopravvisse infatti di quattro anni) e che gran parte dei loro mutui scambi di idee non hanno probabilmente lasciato traccia in nessuno scritto — essendo il frutto delle riunioni del Metaphysical Club e di tutta una vita trascorsa a discutere dei più diversi temi — potrebbe sembrare quanto meno ardito cercare di condensare l’analisi del rapporto Peirce-James in poche pagine. Ma, come scrive il Wiener, noi non cercheremo nemmeno di tentare di tracciare una mappa dell’intricato labirinto della filosofia di Peirce102. Il nostro tema è infatti limitato sia cronologicamente sia tematicamente. Ci atterremo allora a quanto della filosofia di Peirce ha influenzato direttamente il pensiero psicologico di James e la sua dottrina della volontà di credere, tralasciando di indagare i rapporti certo più interessanti e più studiati che riguardano l’anticipazione peirceiana della teoria pragmatica di James: gli scritti di Peirce cui faremo perciò riferimento sono quelli cosiddetti ‘cosmologici’, una serie di articoli pubblicati all’inizio degli anni ’90103 e il saggio intitolato The Fixation of Belief, pubblicato per la prima volta nel 1877 sul Popular Science Monthly104. Invertendo la cronologia originaria, cominceremo con l’analisi del Peirce ‘cosmologo’, o, potremmo anche dire, metafisico. Tratteremo dello scritto sulle varie forme di credenza solo alla fine di questo
102
P. Wiener, op. cit., p. 70.
L’Architettura delle Teorie (“The Monist” 1891), Esame della dottrina della necessità (ivi, 1892), La legge dello spirito (ivi, 1892), Amore Evolutivo (ivi, 1893); Di argomento simile, ma precedente è L’ordine della natura (Popular Science Monthly, 1878). Faremo qui riferimento all’antologia di Nynfa Bosco, Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit. La traduzione è di Nicola Abbagnano, con la quale questi scritti comparvero per la prima volta in italiano nell’antologia intitolata Caso Amore e Logica, a cura di R. M. Cohen, Taylor Editore, Torino 1956. Come vedremo più avanti, lo stesso James, nel suo The Dilemma of Determinism, fa esplicito riferimento, pur senza citarne il titolo, agli articoli di Peirce apparsi sul Monist tra il 1891 e 1892. Questi scritti dimostrerebbero come le discussioni intorno al determinismo non fossero affatto spente alla fine dell’Ottocento (cfr. WB, p. 114, n. 2); per quanto poi James, nel corso del saggio sul dilemma del determinismo, non faccia più nuovamente riferimento — nemmeno implicitamente — a Peirce (lo scritto era stato originariamente pubblicato sull’Unitarian Review nel 1884) certamente egli, come vedremo, dovette molto del suo pensiero alle discussioni intrattenute con l’amico sull’argomento. Peirce rappresentava inoltre, almeno agli occhi di James, una vera e propria autorità per quanto riguarda la storia della scienza; scrive Peirce introducendo il suo saggio sulla dottrina della necessità: Mi propongo di esaminare qui la credenza comune che ogni singolo fatto nell’universo è determinato precisamente da una legge. Non si deve supporre che questa sia una dottrina accettata ovunque e in tutti i tempi da tutti gli uomini razionali. Il suo primo propugnatore sembra essere stato Democrito, l’atomista, il quale vi venne portato, come si dice, riflettendo sulla “impenetrabilità, traslazione e urto della materia”. Vale a dire che, avendo limitato la sua attenzione a un campo dove nessuna influenza eccetto quella della costrizione meccanica poteva capitare sotto la sua osservazione, egli saltò subito alla conclusione che in tutto l’universo questo fosse l’unico principio d’azione; — un modo di ragionare così frequente nei giorni nostri anche presso uomini di pensiero da essere più che scusabile agli albori del pensare. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., pp. 47-48. Dobbiamo poi aggiungere che la cosmologia di Peirce ebbe sicuramente una grande importanza sullo sviluppo della filosofia del James maturo, ma, visti i limiti della nostra Tesi, non potremo nemmeno accennarne: Peirce non solo occupa un posto importante, forse il primo posto, nella storia del pragmatismo, egli influenzò anche notevolmente il pensiero ultimo di James [...]. TCWJ I, p. 538. 103
104 Vol 12, pp. 1-15. Questo scritto è ovviamente stato raccolto nelle Collected Papers, ma noi faremo riferimento qui alla sua pubblicazione nell’antologia del Wiener: Charles S. Peirce, Selected Writings, a cura e con un’Introduzione di P. P. Wiener, Dover Pubblications, New York 1958. Ci gioveremo poi dell’aiuto, oltre che dei soliti Wiener (Evolution and the Founders of Pragmatism, cit.), Croce (Science and Religion in the Era of William James, cit.) Sini (Il pragmatismo americano, cit.) e Madden (Chance and Conterfacts in Wright and Peirce), dell’opera di Nynfa Bosco, Dalla scienza alla metafisica; Studio sul pragmatismo di C. S. Peirce, Giappichelli Editore, Torino 1977, dell’Introduzione a Peirce, di Rossella Fabbrichesi Leo (Laterza, Roma-Bari 1993) e dell’Introduzione di Wiener ai Selected Writings, cit.
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paragrafo, utilizzandolo come ‘ponte’ tra il suo evoluzionismo (che spesso ha come contraltare quello wrightiano) e la teoria jamesiana della volontà di credere.
Prima di iniziare la breve analisi della filosofia evoluzionistica di Peirce è bene spendere qualche parola sulla sua vita e la sua carriera. Peirce è per certi aspetti un personaggio molto simile a Wright, almeno nella sua dimensione pubblica; intelletto brillante e precocissimo, Peirce era figlio di un famosissimo matematico americano del tempo, Benjamin Peirce; dal padre assorbì l’amore per le scienze esatte e, in maniera simile a quanto accadde a James, fin da fanciullo venne investito della responsabilità di scrivere il suo nome nella storia della scienza105. Di carattere introverso e con una buona dose di supponenza106, Peirce non fu mai un “allievo modello”, tranne quando studiò chimica e astronomia alla Lawrence Scientific School, là dove conobbe William James107. Come Wright, Peirce non ebbe mai una solida posizione universitaria, anzi ebbe ben poco a che fare con l’università108. Coloro che hanno cercato di dare una risposta di questo insuccesso accademico, soprattutto se soppesato insieme con gli straordinari talenti di Peirce, hanno individuato differenti cause: il suo brutto carattere, a quanto ci dice James, non andò a genio al presidente di Harvard Eliot109 e la sua vita privata fu motivo di scandalo nel New England vittoriano e questo certamente gli rese ostili numerosi (possibili) colleghi e l’opinione pubblica in generale110; ma a questi vanno aggiunti motivi meno ‘esterni’; Wiener è molto abile nel riassumerli nell’Introduzione dell’antologia degli scritti di Peirce:
Charles S. Peirce non è un filosofo facile da leggere o da capire per differenti ragioni. Prima di tutto, egli scrisse per una grande varietà di lettori, dagli scienziati ai filosofi fino al
105 Ironicamente, sebbene sarebbe diventato famoso per le sue speculazioni filosofiche, Peirce ricordava spesso che “la mia attitudine è sempre stata quella di uno scienziato di laboratorio e non di un filosofo”. P. J. Croce, op. cit., p. 184. 106 Tutto ciò [lo studio con il padre] stimolò enormemente l’intelligenza del giovane Peirce, che a vent’anni possedeva già una cultura assai singolare — per non dire eccezionale — nella matematica, nella logica antica e moderna, nelle scienze sperimentali e in certi settori della filosofia [...], ma tutto ciò ne compromise anche il carattere, rendendolo superbo, stravagante, ben poco docile a sottomettersi a una disciplina di studio più normale e comune, amante delle sottigliezze e dei paradossi, sprezzante verso gli insegnanti o, quanto meno, verso quelli che non gli andavano a genio. C. Sini, op. cit., pp. 116-117. 107 [...] William conobbe per la prima volta [Peirce] come compagno di studi al corso di chimica. Peirce aveva un carattere combattivo ed era intellettualmente arrogante, ma William pensava che valesse la pena sopportare questi difetti pur di poter discorrere con lui. Proprio a causa del suo temperamento, Peirce non poté mai raggiungere una stabile posizione accademica. G. W. Allen, op. cit., p. 155. 108 In tutto egli tenne per incarico otto corsi universitari: nel 1864/65 e nel ’69/70 insegnò a Harvard filosofia della scienza; nel ’ 70/71, ancora a Harvard, insegnò logica; poi, per cinque anni consecutivi, tenne l’incarico di Logica alla John Hopkins University, dal 1879 all ’84. A Ciò vanno aggiunti i corsi di conferenze al Lowell Institute di Boston su I logici inglesi e su La storia della scienza. C. Sini, op. cit., p. 118-119. 109
Cfr. ivi, p. 121, n. 11.
110 Peirce infatti divorziò dalla sua prima moglie (Harriet Melusina Fay) per poi risposarsi con la donna che gli sarebbe stata accanto per tutta la vita, Juliette Froissy.
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pubblico non dotto delle sue conferenze, e senza mai smussare la sua erudizione enciclopedica o abbandonare i suoi ideali di rigore logico e d’integrità filosofica. Secondo, egli era un ricercatore originale e indipendente, interessato soprattutto alla ricerca pionieristica nelle scienze esatte e nella filosofia [...]. Terzo, egli ritenne necessario introdurre nuovi termini tecnici — spesso derivati direttamente dalla lingua greca, come tichismo, agapismo, sinechismo [...] — e così impiegò un vocabolario estraneo al discorso ordinario e a quello scientifico111.
Ma forse, più di tutto influì negativamente sulla sua carriera un’effettiva scarsa attitudine all’insegnamento; il suo desiderio di farsi comprendere non fu mai più forte della sua esigenza di rigore logico e di esattezza scientifica; questo atteggiamento, che lo allontanava decisamente dai pubblici variegati cui si rivolgeva, per esempio, William James, non era gradito nemmeno agli studenti universitari. Lo stesso James è forse il miglior testimone per comprendere come [...] egli è l’esempio più curioso di in uomo di talento che non ha fatto carriera.
[...]egli ha un carattere ormai così ossificato, caratterizzato da tratti mezzo-bohémien, e con nessuna predisposizione all’insegnamento, che sarebbe rischioso affidargli l’incarico112.
James, con il suo eclettismo e la sua scarsa preparazione nelle scienze esatte, rappresenta bene il pubblico medio (anche quello universitario) cui Peirce avrebbe dovuto rivolgersi: “[...] ho appena lasciato Charles S. Peirce, con cui ho parlato a proposito di un paio di suoi articoli apparsi nel Journal of Speculative Philosohy di St. Louis e che ho appena letto. Sono
Charles S. Peirce, Selected Writings, cit., p. ix. Non sembra però che questo possa essere considerato un ostacolo alla diffusione del pensiero di Peirce: Molti dei termini più usati da James, e che egli rese famosi, come “pragmatismo”, “tichismo” e “sinechismo”, erano stati presi da Peirce. TCWJ II, p. 406. 111
Ivi, p. 117. Lettera di WJ a Howinson riguardo a una candidatura di Peirce alla University of California del 2 Aprile 1894. In fondo James non cambiò mai veramente la prima impressione ricevuta da Peirce appena conosciuto alla Lawrence Scientific School: Nel 1861 William James ricordò la prima impressione, che racchiudeva molti dei tratti positivi e negativi di Peirce. “C’è il figlio del prof. Peirce; mi sembra essere un ragazzo simpatico e con un buon carattere, sebbene abbastanza indipendente e violento.”. All’inizio, i due non furono attratti a vicenda; avevano una personalità molto differente l’uno dall’altro e James trovò sempre che Peirce fosse uno “strano essere”. James era disposto più verso le idee di Peirce, piuttosto che verso di lui personalmente. Già nel 1862 James citava la filosofia di Peirce nel suo diario personale [...]. P. J. Croce, op. cit., p. 180. È giusto però ricordare che James spese molte energie e anche denaro per aiutare concretamente l’amico più sfortunato: Autocritico e allo stesso tempo egoistico, collerico abbastanza da esplodere in spaventosi scoppi d’ira, Peirce avrebbe potuto ricordare a James la figura del padre e anche l’immagine di quel che sarebbe potuto diventare se non fosse passato attraverso numerose liberazioni personali: leggendo Renouvier, per esempio, o ricevendo l’incarico ad Harvard, o sposando Alice. Sebbene Peirce avesse pochi amici, egli poteva contare sulla solida amicizia di James. L. Simon, op. cit., p. 348. [...] William James lo incoraggiò spesso, chiedendo sottoscrizioni per i suoi libri e fornendogli denaro direttamente, con la finzione che avesse raccolto fondi di suoi volenterosi ammiratori. G. W. Allen, op. cit., p. 377. Va poi aggiunto che Peirce, sebbene non attenuò mai le sue critiche, fu sempre riconoscente a James per quanto aveva fatto per lui: Sebbene Peirce fosse sinceramente grato a James — aveva aggiunto Santiago (St. James) al suo nome come gesto di omaggio — Peirce sarebbe stato un acerbo critico del pensiero dell’amico. L. Simon, op. cit., p. 348. Sulla ‘dedica’ di Peirce a James cfr. anche TCWJ II, p. 436, n. 16. 112
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eccessivamente densi, sottili e incomprensibili e non posso nemmeno dire che le sue spiegazioni a voce mi abbiano aiutato un granché nella loro comprensione, ma senza dubbio mi hanno molto interessato.”113 D’altronde James era un grandissimo ammiratore di Peirce114 e se egli, con tutta la buona volontà, spesso non riusciva a comprendere nemmeno lontanamente il significato delle parole dell’amico, è ben difficile immaginare che potesse farlo un pubblico scarsamente interessato e ignaro delle qualità private di Peircei. Vedeva bene James quando, riconoscendo di essere in parte responsabile della difficoltà a comprendere le parole dell’amico, ricordava che la maggior parte delle persone cui questi si rivolgeva si trovavano nelle medesime condizioni.
Questo [la difficoltà nel comprendervi] è in parte dovuto al fatto che la mia mente è così non-matematica, e anche al mio scarso interesse per la logica. Ma io probabilmente rappresento la condizione della maggioranza del vostro pubblico e perciò il mio dispiacere sarà anche il loro115. Purtroppo, o per fortuna se guardiamo agli scritti che ci ha lasciato e che sono ancora in corso di pubblicazione, Peirce non cambiò mai registro; con James poi egli ebbe sempre un rapporto molto particolare; maggiore di poco più di due anni, si considerò sempre una sorta di maestro e lo stesso James accolse favorevolmente di impersonare il ruolo del discepolo desideroso, ma spesso incapace di imparare. Col passare degli anni, James divenne sempre più noto e il suo successo allargò la forbice che lo divideva accademicamente dall’amico; questi allora vide nell’educazione del nostro autore la possibilità di insegnare anche a tutto il suo pubblico, un’opportunità ch’egli cercò ripetutamente di
TCWJ I, p. 292. lettera di James al fratello Henry del 25 Gennaio 1869. Cfr. anche TCBV, p. 112. Ancora al fratello, scrisse James il 22 maggio del 1869: “Charles S. Peirce ha scritto alcuni articoli psiclogico-metafisici, molto acuti e originali, sul il Journal di St. Louis, sebbene essi siano espressi in una maniera così contorta che è difficile affermare il senso. E’ sicuramente un tipo originale, ma così stravagante che è difficile dargli fiducia.” TCWJ I, p. 296. Cfr. anche P. J. Croce, op. cit., p. 182. Interessa notare come anche Henry James Jr. avesse avuto poca simpatia per lo stravagante amico di William; questi però aveva grande fiducia nella profonda bontà del suo carattere e nelle sue doti intellettuali e morali; scrisse perciò al fratello (12 Dicembre 1875) per cercare di dargli alcuni utili consigli per averci a che fare: “[...] immagino che tu lo trovi un po’ strano, poco disponibile e spinoso, ma [...] dagli contro, prendilo in giro ed egli si rivelerà piacevole come qualunque altro.” TCWJ I, p. 363. 113
Scriveva James a Bowditch il 29 Dicembre del 1869: “Non ho mai visto un uomo addentrarsi così in profondità nel cuore delle cose..” Ivi, p. 321. 114
TCWJ II, p. 427. Lettera di James a Peirce del 5 Giugno 1903. Sembra però che Peirce non riuscì mai a raccogliere i suggerimenti dell’amico. Anzi, spesso alle dichiarazioni di ‘resa’ di quest’ultimo continuava a opporre il suo contegno in maniera molto dura. Scrive Peirce il 26 Dicembre 1897: “Chi non può ragionare esattamente (che è l’unico modo per farlo), semplicemente non può comprendere la mia filosofia, nei processi, nei metodi, nei risultati. Il rifiuto della logica è a Cambridge quasi assoluto. La mia filosofia, come ogni filosofia degna di attenzione, riposa interamente sulla teoria della logica..” Ivi, p. 419. James, intuitivo e introspettivo, non comprese mai Peirce fino in fondo: egli aveva avuto una solida preparazione matematica e nelle scienze fisiche e aveva un temperamento formale, rigoroso e freddamente impersonale. Nessun suo amico sarebbe potuto essere più differente per temperamento e intelletto. G. W. Allen, op. cit., p. 125. Il Perry, distinguendo il temperamento intellettuale dei due, scrive: Per Peirce il buono sta nella coerenza , nell’ordine, nell’unità; per James nell’individualità, nella varietà e nella soddisfazione degli interessi concreti.. TCWJ II, p. 411. Come la maggior parte del suo pubblico [di Peirce] James non comprendeva appieno la logica filosofica del suo amico, ma cercò di assimilarne le idee e di applicarle. P. J. Croce, op. cit., p. 183. 115
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cogliere, nonostante il fatto che James non dimostrava di ‘fare progressi’ nella comprensione della sua filosofia e nonostante il fatto ch’egli, soprattutto dopo la pubblicazione della Will to Believe, aveva ormai imboccato una strada che lo stava sempre di più allontanando dagli interessi dell’amico. A giudizio di Peirce, uno dei motivi che impedivano a James di comprendere appieno la sua filosofia era stato l’avere dato eccessivo ascolto a un amico comune, Chauncey Wright:
“Vorrei che tu considerassi, come vitalmente importante e come condizione indispensabile per chiarirti il tuo stesso pensiero, la necessità di avere alcune invariabili pietre di paragone (...) penso che tu abbia preso troppo in considerazione quell’acuto, ma superficiale compagno, Chauncey Wright, di cui io ho sempre approfittato come “stimolo” per la mia intelligenza, ma in cui tu probabilmente hai riposto troppa fiducia e per troppo tempo, e che forse ti ha intrappolato nella sua idea secondo cui in qualche parte dell’universo probabilmente uno più uno non fa due116.
Per quanto non pare che Wright abbia mai sostenuto un relativismo del genere proposto qui da Peirce, più che altro in forma provocatoria, è indubbio che quest’ultimo aveva nei confronti del più anziano amico un atteggiamento ambivalente; entrambi erano stati affascinati immediatamente dall’evoluzionismo darwiniano, ma la differente formazione scientifica, ma soprattutto filosofica, e le differenti finalità portarono in breve i due a incamminarsi su due strade diverse. L’evoluzionismo è perciò comune denominatore e allo stesso tempo momento di divisione nel pensiero di Wright e Peirce. Wright interpretava la teoria della selezione naturale come massima espressione di quell’empirismo che aveva avuto modo di apprezzare come allievo di John Stuart Mill e, nonostante gli esiti probabilistici e fallibilistici della sua epistemologia, la sua fede nella scienza attuale117 era incrollabile e fondata su “pietre di paragone” (per usare le sue stesse parole) ben diverse da quelle su cui si poggiava Peirce. In primis Peirce non riteneva che la teoria della selezione naturale di Darwin fosse qualcosa di più di un’utile ipotesi esplicativa: Ancora nel 1893, Peirce riteneva che la teoria di Darwin non meritasse troppo rispetto scientifico118, ma soprattutto Peirce non concordava sulle conseguenze (metafisiche oltre che metodologiche) cui il riconoscimento del probabilismo darwiniano avrebbe dovuto condurre.
116
TCWJ II, p. 439. Lettera di Peirce a James del 14 Marzo 1909.
Nonostante la teoria darwiniana non fosse dimostrabile scientificamente [...] Wright vide l’opera di Darwin come il “raffinamento del moderno baconismo inglese.” P. J. Croce, op. cit., p. 168. 117
118 P. Wiener, op. cit., p. 77. Come vedremo fra breve, Peirce era molto più vicino all’evoluzionismo lamarckiano e al catastrofismo cuvieriano di Agassiz, e non solo per ragioni scientifiche.
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Wright interpreta l’irregolarità come una funzione della complessità causale; l’irregolarità indica non un’interruzione della causalità, ma solo della nostra conoscenza di essa. Peirce, d’altro canto, interpreta l’irregolarità in una maniera abbastanza differente. L’accadere di cose in maniera assolutamente causale è la spiegazione che Peirce dà delle irregolarità del mondo. [...] Questa visione del caso assoluto è il tichismo119 di Peirce e nessuna visione potrebbe allontanarsi maggiormente dalla convinzione di Wright nell’universalità della causalità120.
In questa prospettiva, il tichismo di Peirce è ontologico, mentre il fallibilismo di Wright è gnoseologico: il caso per Wright non è un elemento costitutivo della natura, ma solo il risultato della enorme separazione che ancora distanzia l’uomo dalla realtà, una distanza che Wright credeva si sarebbe potuta colmare sempre più proprio in virtù del nuovo approccio probabilistico della scienza. Per Peirce, al contrario, il caso in natura significa spontaneità, evoluzione, ma non in senso meccanico o finanche meccanicistico come in Wright, bensì in senso teleologico, finalistico, o come diceva Peirce, sinechistico121; un’idea di evoluzione che, come appare evidente e come è testimoniato dalle stesse parole dell’autore, è molto più simile a quella di Lamarck che a quella di Darwin. Evoluzione, per Peirce, significa evoluzione verso un fine, sia ex parte objecti (la Natura), sia ex parte subjecti (l’Uomo) e il fine è l’acquisizione di abiti, di comportamento per la natura e conoscitivi per l’uomo. Le leggi naturali
Nel 1884 Peirce presenta al Metaphysical Club della John Hopkins [da non confondersi con quello di Harvard] una conferenza intitolata “Design and Chance” , che già lo avvicina alla soluzione di alcuni interrogativi cosmologici: l’assoluto caso — egli afferma qui — può essere considerato una forza propulsiva nell’evoluzione dell’universo e della sua stessa legge. Ma è solo nel 1885, libero dagli impegni più gravosi con la Survey e forse eccitato dalla lettura dell’Aspetto religioso della filosofia di Royce, che egli elabora il suo guess all’indovinello della Sfinge. Scrive infatti a W. James: “Ora ho in mano qualcosa di veramente grande [...]. È [...] un tentativo di spiegare le leggi di natura, di mostrare le loro caratteristiche generali, di rintracciare le loro origini e predire nuove leggi grazie alle leggi delle leggi di natura [...]. Tre elementi sono attivi nell’universo: primo, il caso; secondo, la legge; terzo l’assunzione di abiti. Questa è la nostra spiegazione del segreto della sfinge.” R. Fabbrichesi Leo, op. cit., p. 51. 119
E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 84. Chauncey Wright condivideva con altri del circolo di James la preoccupazione del rapporto tra empirico e a priori nelle leggi scientifiche. Secondo Edward Madden, “Wright credeva in ciò che Peirce avrebbe poi negato, che l’universalità della causalità è un postulato della ricerca scientifica”. Per causalità si intende qui la giustificazione empirica del rapporto di causa ed effetto. William R. Woodward, James’s Evolutionary Epistemology:: “Necessary Truths and the Effects of Experience”, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 157. 120
121 Questa telicità dell’evoluzionismo tichistico di Peirce fa subito capire che il caso per Peirce non coincide affatto con il caos assoluto. Quali che siano le ulteriori conclusioni cui possiamo giungere rispetto all’ordine dell’universo, questo almeno può essere considerato come solidamente stabilito, e cioè che il mondo non è un mero intruglio casuale. C. S. Peirce, L’ordine della natura, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 10. Così, il mondo reale [...] non è “un mero intruglio casuale”, ma non equivale neppure ad “una poesia esatta”. Esso è semplicemente un succedersi di uniformità avviate verso la propria verità pubblica, cioè la propria realtà; un mondo in cui l’ordine è in cammino, misurato dalle scelte di una comunità interpretante. R. Fabbrichesi Leo, op. cit., p. 50. Nell’Ordine della natura Peirce addirittura dimostra in poche pagine come sia inconcepibile un mondo caotico: Vediamo inoltre che finché consideriamo i caratteri astrattamente, senza riguardo alla loro importanza relativa, ecc., non c’è alcuna possibilità di un grado maggiore o minore di ordine nel mondo, perché l’intero sistema di relazioni fra i caratteri è dato solo dalla logica; è, cioè, in quei fatti che sono tacitamente ammessi appena ammettiamo che c’è qualcosa come il ragionare. Ibidem. L’ordine della natura non è qualcosa che esiste in sé, indipendentemente dall’osservatore. Dove c’è un osservatore non ci può essere il caso assoluto e più l’osservatore è intelligente, più il mondo apparirà ordinato piuttosto che caotico: Il mondo reale è quasi un intruglio casuale per lo spirito di un polipo. L’interesse che le uniformità della natura hanno per un animale misura il posto dell’animale nella scala dell’intelligenza. C. S. Peirce, L’ordine della natura, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 11.
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sono per Peirce in evoluzione tanto quanto le specie animali e la conoscenza scientifica122. Esiste dunque una tensione alla convergenza che fa sì che l’uomo si avvicini sempre di più alla comprensione della razionalità del mondo anche perché questo diventa sempre più razionale, acquisendo una continuità, un’unione (sinechismo) sempre maggiori123. Il teleologismo di Peirce non potrebbe essere filosofia più distante dalla filosofia della natura di Wright124.
La visione di Peirce, che contempla una relatività delle leggi di natura al trascorrere del tempo, è totalmente incompatibile con il pensiero ateleologico di Wright125.
Le differenze fra Wright e Peirce sembrano essere così più forti di quanto pensi Carlo Sini; scrive il filosofo italiano:
In polemica con Laplace, Wright sosteneva che uno spirito che conosca “di momento in momento” la natura, incontrerà nei fenomeni novità genuine: non esiste una somma possibile di conoscenze che ci permetta di anticipare con ferrea certezza il futuro. L’universo, diceva Wright, è costituito da un “clima cosmico” di infiniti accidenti; Morris Cohen ha ragione a indicare in questa idea del “clima cosmico” il primo spunto della dottrina del “tichismo” (del caso e della accidentalità che governa in parte l’universo), sviluppata poi d a Peirce nella sua cosmologia126.
Madden, al contrario, e a nostro giudizio in maniera più convincente, è propenso ad allentare gli apparenti legami fra cosmic weather e tichismo:
Ora, il solo modo possibile di dare ragione delle leggi di natura e dell’uniformità in generale, è quello di supporre che siano i risultati dell’evoluzione. Questo suppone che esse non siano assolute, non siano obbedite rigorosamente. Implica un elemento di indeterminatezza, di spontaneità o di assoluto caso nella natura. C. S. Peirce, L’architettura delle teorie, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 32. 122
123 Peirce riteneva che le variazioni e l’incertezza fossero una parte fondamentale dell’universo, così come la parte stabile e immutabile, e che non è solo la nostra conoscenza [del mondo] a diventare sempre più organizzata col passare del tempo, ma anche l’universo stesso: “un elemento di pura casualità sopravvive e rimarrà fino a quando il mondo non diventerà un sistema assolutamente perfetto, razionale e simmetrico.” P. J. Croce, op. cit., p. 198. La crescita di razionalità [...] significa il graduale predominio di abiti e di metodi consapevoli contro gli sforzi casuali e sbagliati di risolvere i problemi di quella lotta fra le idee che caratterizza la storia del pensiero umano. P. Wiener, op. cit., p. 91. 124 Così come il tichismo di Peirce si oppone decisamente al determinismo di Wright; gli stessi fenomeni dela natura vengono guardati dai due amici in una differente prospettiva: Quelle osservazioni che generalmente vengono addotte in favore della causazione meccanica provano semplicemente che vi è un elemento di regolarità nella natura, e non hanno la benché minima portata sulla questione se tale regolarità è esatta e universale. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 57. 125
E. H. Madden, Chance and Counterfacts in Wright and Peirce, cit., p. 423.
126
C. Sini, op. cit., p. 238. Il testo a cui fa riferimento Sini è l’Intrduzione a Caso, amore e logica, cit., p. xiii.
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La dottrina del Tichismo che Charles. S. Peirce e William James formularono vide probabilmente la luce durante le riunioni del “Metaphysical Club”; molti studiosi hanno infatti sostenuto, ma non sviluppato, l’idea che i concetti di “cosmic weather”, “accident” e la relativa nozione di irregolarità — di Chauncey Wright — sviluppati nei suoi articoli, “The Genesis of Species”, “Evolution by Natural Selection” e “A Physical Theory of the Universe” anticiparono a probabilmente influenzarono la visione tichistica dei due giovani filosofi. [...] ma io ritengo che, dopo un’attenta analisi dei concetti wrightiani sia difficile sostenere che il suo pensiero abbia prefigurato in qualche modo il tichismo127.
Giusta questa prospettiva, è allora evidente che diverso fu il giudizio dei due intorno alle conseguenze epistemologiche della teoria darwiniana. Mentre per Wright — come abbiamo ampiamente visto — le variazioni spontanee sono casuali solo in virtù dell’ignoranza dell’uomo, al contrario esse rappresentano per Peirce la vera natura naturans, il motore dell’evoluzione cosmica128:
Chauncey Wright vedeva nell’abbondanza di fatti contenuti nel libro [l’Origine delle specie] di Darwin come una conferma della sua fiducia nella prova empirica129. Per Peirce, l’importanza della teoria darwiniana della selezione naturale non stava nella sua dimostrabilità empirica, ma nella sua probabilità. Peirce fu uno dei primi a riconoscere gli elementi probabilistici nell’opera di Darwin130.
127 E. H. Madden, Chance and Counterfacts in Wright and Peirce, cit., p. 420. La dottrina del tichismo che Peirce e James formularono alla fine venne probabilmente alla luce nelle discussioni del Metaphysical Club e Wright, in quegli anni, era il loro mentore; nonostante ciò credo che se si analizzano compiutamente i concetti di Wright sia difficile considerarli una prefigurazione di qualsiasi forma di tichismo. Id, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 82. Un altro testo che, come quello di Cohen e quello di Sini, sostiene invece una filiazione diretta tra il cosmic weather di Wright e il tichismo di Peirce è invece quello di Paul R. Anderson e Max H. Fisch, Philosophy in America, D. Appleton-Century Co., New York 1939.
L’irregolarità è fondamentale sia per Wright che per Peirce, ma in una maniera radicalmente differente: l’accadere di cose in maniera assolutamente casuale, il tichismo di Peirce, è la spiegazione della irregolarità; il caso è per lui ontologicamente irriducibile — “una realtà oggettiva, agente nell’universo”. Wright, d’altro canto, ha interpretato l’irregolarità come una funzione della complessità causale; essa non rappresenta cioè un’assenza di causalità, ma una limitazione della nostra conoscenza di essa. E. H. Madden, Chance and Counterfacts in Wright and Peirce, cit., pp. 420-421. Il filosofo meccanico lascia del tutto inspiegata l’intera specificazione del mondo, il che non è affatto meglio che attribuirla al caso. Io l’attribuisco infatti al caso, ma al caso in una forma di spontaneità che ha un certo grado di regolarità. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 65. 128
Anche nella sua ammirazione per la scienza, Peirce si teneva a debita distanza da quei positivisti entusiasti dela certezza scientifica, quali Auguste Comte. P. J. Croce, op. cit., p. 203. E, potremmo aggiungere noi, quali Chauncey Wright, che pure non era affatto comtiano. 129
P. J. Croce, op. cit., p. 199. E la differente ‘qualità’ del probabilismo di Wright e Peirce è la cifra della loro profonda divisione metafisica: Secondo Peirce, le teorie di Darwin sono probabilistiche in due sensi: prima di tutto la selezione procede attraverso variazioni casuali; questa casualità, notava Peirce, è la fonte di ogni cambiamento in natura e perciò l’incertezza del caso sta proprio nel cuore dell’evoluzione. In secondo luogo, la teoria dell’origine delle specie attraverso selezione naturale è oltre ogni possibilità di prova. La nascita di una nuova specie non è mai stata osservata. Perciò, la teoria di Darwin è probabile perché spiega molti fatti di natura, ma non è né certa né dimostrabile. P. J. Croce, op. cit., p. 198. 130
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Il probabilismo di Peirce, essendo ontologicamente fondato, diede così forma a un fallibilismo molto più radicale di quello di Wright. Per riprendere le parole dell’autore, se c’era qualcuno che poteva pensare che due più due non fa quattro (che alla causa non segua l’effetto), questo era semmai Peirce e non Wright131. Anche Wiener è fra coloro che sottolineano la radicale differenza prospettica tra il cosmic weather di Wright e il tichismo di Peirce:
Ma Peirce, nella sua concezione statistica della legge, si spinse più avanti di quanto avesse fatto Darwin in biologia, Maxwell in fisica e Quetelet in sociologia. Gli ultimi tre scienziati, conservando una struttura meccanicistico-deterministica, guardavano al caso non come a una possibile spiegazione, ma come un concetto che copriva la nostra ignoranza riguardo alle leggi fondamentali che governano ogni evento individuale, ogni cosa o carattere con rigida necessità. E’ in questa opposizione morale a questo necessitarismo e a questo meccanicismo di scienziati e filosofi che parte da Ockham per arrivare al diciannovesimo secolo (Hegel e Spencer), che la filosofia di Peirce deve essere compresa132.
Per Croce è proprio in virtù della maggiore radicalità del fallibilismo di Peirce che questi può dirsi veramente il primo ad avere compreso il carattere ipotetico della scienza darwiniana133; a nostro parere Wright era certamente un darwiniano più ‘ortodosso’ di quanto fosse Peirce — che difatti seguiva un evoluzionismo di stampo lamarckianoii — , ma quello che più importa è che la teoria della selezione naturale (soprattutto nel concetto di variazioni casuali) ebbe per i due amici un ruolo ben differente; se si considerano la diversa concezione della casualità, il lamarckismo in opposizione a un ferreo
131 Ovviamente anche Peirce era ben lontano dall’abbracciare un relativismo del genere. Inoltre è bene ricordare che spesso dalle sue parole emerge uno spirito ‘positivo’ che sembra avvicinarlo a Wright: Per esempio, nella ricerca di cause determinate, Peirce non abbandonava la certezza, di fronte ai limiti della capacità conoscitiva dell’uomo, sostenendo così che “è più razionale supporre che la nostra incapacità a trovare le cause di determinati fenomeni [...] sia il frutto della nostra ignoranza, piuttosto che pensare che i fenomeni stessi siano privi di una causa specifica.”. Ivi, p. 203. Altre volte però Peirce sembra contraddire le sue stesse parole, forse preoccupato che la sua visione delle cose si confondesse con quella positivistica più vicina a quella di Wright: Provate a verificare una legge qualsiasi della natura, e troverete che più le vostre osservazioni sono precise, più sicuramente esse mostreranno trasgressioni irregolari della legge. Siamo soliti ascriverle, non dico erroneamente — ad errori di osservazioni; eppure generalmente non possiamo dare conto di tali errori in una maniera antecedentemente probabile. Se rintracciate abbastanza accuratamente le loro cause, sarete costretti ad ammettere che sono sempre dovute ad una determinazione arbitraria, o al caso. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 57.
P. Wiener, op. cit., p. 83. Se la fisica classica poteva credere necessarie le leggi naturali che diceva di scoprire, così come i filosofi avevano preteso in passato di scoprire le forme e addebitare a errori di calcolo o di osservazione ogni scarto dei fenomeni rispetto alle previsioni, la fisica contemporanea non ignora che i fenomeni esemplificano sempre un alto grado di conformità alla legge misto a qualche grado di difformità, che la legge stessa altro non è se non una media statistica non scoperta ma costruita, che perciò la previsione più accurata non consente se non “un magnifico grado di approssimazione”, tanto più alto quanto più grande è il numero dei casi considerati, che l’oggetto della previsione non è il caso singolo ma il corso di una certa sequenza di eventi. N. Bosco, Dalla scienza alla metafisica; Studio sul pragmatismo di C. S. Peirce, cit., pp. 122-123. 132
133 Ma abbracciando il metodo baconiano e il suo esponente contemporaneo, John Stuart Mill, Wright non giunse mai a comprendere la qualità ipotetica della scienza di Darwin. P. J. Croce, op. cit., p. 168.
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darwinismo, la neutralità metafisica134 e la posizione opposta sul tema del nominalismo135 (a cui fa riferimento implicitamente il brano di Wiener riportato sopra), possiamo dire che le strade dei due corifei del Metaphysical Club si divisero ben presto (se mai furono unite) e che la morte di Wright non fece che attenuare quelle differenze che in seguito si sarebbero mostrate sempre più grandi, come mostra di intendere anche lo stesso Peirce nella lettera a James succitata.
Ma dove si colloca William James all’interno delle differenze che dividono Wright e Peirce pur uniti su un ampio terreno di accordo136? Diciamo subito che sarebbe scorretto chiedersi se James fosse più wrightiano o più peirceiano. Certamente egli assorbì molto da entrambi. Da Wright assunse quell’abito ‘positivo’ e quella passione per la teoria darwiniana della selezione naturale che tanto sono evidenti nei Principles of Psychology, ma da Peirce accettò di buon grado la visione indeterministica che emergeva dalla sua lettura ‘eterodossa’ della dottrina evoluzionistica dello scienziato inglese. Inoltre fu proprio Peirce, con i suoi scritti più squisitamente cosmologici a suscitare in James il desiderio di liberarsi delle catene del neutralismo scientifico mutuato da Wright per avventurarsi in una filosofia che troverà la sua più alta espressione solo negli ultimi scritti137. Già la Will to Believe può essere però considerata in parte debitrice del fallibilismo ‘radicale’ di Peirce. Questi aveva mostrato quanto fossero grandi le lacune dell’intelletto umano e quanto la scienza fosse lontana dal garantire all’uomo quelle credenze, anche non
La polemica di Peirce è rivolta non alla metafisica come disciplina [come invece in Wright], ma ai metafisici, ai quali rimprovera lo stile, il linguaggio, il metodo, le motivazioni. N. Bosco, Dalla scienza alla metafisica; Studio sul pragmatismo di C. S. Peirce, cit., p. 106. D’altronde sarebbe alquanto singolare e incomprensibile una polemica di Peirce nei confronti della metafisica: [...] il tichismo, il sinechismo, l’agapismo, sono precisamente tre ipotesi metafisiche. Ivi, p. 118. 134
Non possiamo affrontare qui il tema del realismo di Peirce, ma mette conto di dire ch’egli si distingueva da Wright sulla questione degli universali come Scoto (uno dei filosofi da lui più apprezzati) da Ockham. Inoltre, Peirce riteneva che il nominalismo di Wright, oltre a essere criticabile di per sé, fosse incompatibile con il suo empirismo darwiniano: Peirce non concordava con Wright nel ritenere che la teoria darwiniana dell’evoluzione fosse in linea con il sensazionalismo nominalistico di Mill. Peirce sosteneva, contro Wright, che l’evoluzionismo di Darwin, in virtù della sua aderenza ai ‘fatti vivi’, era destinato a distruggere l’associazionismo meccanico di Mill, basato su una metafisica nominalistica radicata nell’occamismo che Peirce considerava la fonte degli errori principali della filosofia moderna. P. Wiener, op. cit., p. 72. [...] La dottrina di Mill non era nient’altro che un punto di vista metafisico al quale la teoria di Darwin, nutrita com’era di concrete osservazioni, doveva riuscire letale [...] C. Sini, op cit., p. 84. [...] sebbene la vera scienza alla quale Darwin conduceva gli uomini avrebbe certamente sferrato un giorno il colpo mortale alla pseudo-scienza di Mill, vi erano tuttavia parecchi elementi della teoria darwiniana che avrebbero certamente affascinato i seguaci di Mill. C. S. Peirce, Amore evolutivo, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 113. La posizione nominalista di Wright è peraltro indubbia: [...] c’è un residuo di “mentalità selvaggia e semibarbara”, egli diceva, “nello scambio delle parole e dei nomi, di cui ci serviamo per descrivere i fenomeni, in personificazioni, in forze reali agenti dentro i fenomeni.”. C. Sini, op. cit., p. 93. 135
136
Ivi, p. 238.
137 Peirce rappresentava poi un autorevole precedente nel tentativo di conciliare religione e scienza in una maniera nuova rispetto alla generazione precedente, senza arrendersi a un neutralismo metafisico di sapore eccessivamente positivistico: Al contrario di molti positivisti a lui contemporanei, l’orientamento scientifico di Peirce non lo rese mai contrario o indifferente alla religione, come possono testimoniare numerosissime citazioni. P. J. Croce, op. cit., p. 187. Egli [Peirce] giunse a ritenere che la ricerca scientifica avrebbe alla fine prodotto una visione interamente compatibile con la fede religiosa. Ivi, p. 188. Qualsiasi proposizione che concerna l’ordine della natura deve più o meno sfiorare la religione. C. S. Peirce, L’ordine della natura, in N. Bosco ( a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 3.
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schiettamente scientifiche, con le quali deve fare i conti quotidianamente, accettandole o rifiutandole sulle fragili basi della scienza attuale. Ma James, allo stesso tempo, fu ancora più radicale di Peirce. Per quest’ultimo infatti l’evoluzione dell’universo e la parallela (ma non indipendente) evoluzione della scienza rappresentavano la vera speranza di riuscire a risolvere di cui l’uomo non sembrava capace di liberarsi in una progressiva crescita di razionalità che sarebbe stata infine raccolta dalla comunità scientifica138, da quell’intersoggettività di intelletti capaci di giungere, in un futuro remoto, all’ordinamento di ciò che oggi appare ancora dominato dal caso e dalla discontinuità139.
James apprese la dottrina di Peirce, ma non essendo né un entusiasta della scienza, né un esperto di logica, era più portato ad avvicinarsi al Peirce che scorgeva l’ambiguità della scienza piuttosto che a quello che pretendeva di fissare le credenza in maniera scientifica140.
Certamente James lesse una la teoria darwiniana in parte attraverso le lenti metafisiche di Peirce e in parte attraverso quelle positivistiche di Wright, ma altrettanto certo è che egli poté leggere Darwin anche attraverso le proprie lenti, dando vita a una nuova e feconda ‘forzatura’ della dottrina evoluzionistica141. Per quanto riguarda il tichismo, ben differente era l’importanza e l’interpretazione che James e Peirce davano a questa dottrina; mentre per il primo tichismo significava soprattutto caso e quindi indeterminismo e quindi libertà, per il secondo il tichismo era accettabile in primo luogo perché esso rifletteva la logica delle probabilità, o il metodo statistico delle scienze142.
Uno dei modi che Peirce scorgeva per poter riconciliare la sua comprensione del ruolo della casualità e la sua ricerca di certezza stava nel porre l’accento sul progresso continuo della ricerca scientifica. P. J. Croce, op. cit., p. 197. 138
Croce interpreta la tendenza di Peirce a considerare la verità come il frutto di un pubblico processo di ricerca, una meta da raggiungere insieme, come uno dei frutti più importanti del suo evoluzionismo. Una delle possibili fonti dell’amore di Peirce nei confronti delle verità a lungo termine era probabilmente la teoria dell’evoluzione, con la sua idea di progresso attraverso tempi molto lunghi. P. J. Croce, op. cit., p. 194. Altri individuano nella dimensione intersoggettiva della ricerca una sorta di contrappasso di una dimensione personale tutt’altro che sociale: Peirce e Royce, che erano anime isolate e più o meno inadatte per la vita sociale e le pubbliche relazioni, enfatizzavano la comunità, sia come realtà che come ideale; James, il più socievole e urbano fra gli uomini [...] proclamava il valore supremo di quelle sensazioni e di quegli sforzi che sono unici in ogni individuo e la cui autentica qualità è rivelata a lui soltanto. TCWJ II, p. 266. 139
140 P. J. Croce, op. cit., p. 212. Wright credeva che Darwin soddisfacesse i canoni della scienza empiristica. James sempre più cominciò a ritenere che la sua teoria contenesse una grande dose di incertezza. Peirce vide la natura probabilistica delle idee di Darwin alla luce della sua propria visione della natura delle teorie. Ivi, pp. 200-201
Nei due decenni successivi [alla pubblicazione dell’opera di Darwin] William James avrebbe abbracciato il fallibilismo e l’esistenza del caso, mentre il suo amico Charles Sanders Peirce sarebbe diventato un difensore di un ordine probabilistico in un universo in continuo cambiamento. P. J. Croce, op. cit., p. 131. 141
142
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TCWJ II, p. 411.
Fin da subito Peirce si accorse che il tichismo di James racchiudeva la ricerca della comprensione di una realtà diversa, se non più ampia143 e questo in ragione delle differenti ‘pretese’ che i due avevano nei confronti della filosofia. Scrisse Peirce a James in una lettera del 7 Marzo 1904:
Voglio anche dirti che il pragmatismo non risolve alcun problema reale. Esso mostra soltanto che dei supposti problemi non sono effettivamente tali. Ma quando si incontrano questioni come quella dell’immortalità, o del rapporto tra mente e corpo (...) noi siamo lasciati completamente nelle tenebre. L’effetto del pragmatismo, qui è quello di aprire la nostra mente a ogni possibile evidenza, non di fornire quella evidenza [...]144.
William James voleva uscire proprio da quelle tenebre che per tanti anni lo avevano avvolto senza lasciargli la speranza di riuscire a trovare una soluzione razionale; l’insegnamento di Renouvier era stato proprio questo: è possibile empiristi e allo stesso tempo essere indeterministi, senza che queste dimensioni (non solo scientifiche) siano indipendenti l’una dall’altra.
Anche Peirce, come abbiamo visto, si inseriva agevolmente in un percorso di questo tipo, ma forse James prese una strada sempre più autonoma (spesso confusa con una sua supposta incapacità di comprendere il pensiero dell’amico) in quanto non riconosceva in Peirce i suoi medesimi obiettivi. James voleva fare dell’indeterminismo il fondamento per la sua filosofia morale mentre Peirce, così almeno poteva sembrare, cercava altrove le risposte che James affidò prima alla psicologia dei Principles e poi al volontarismo della Will to Believe. Anzi, paradossalmente, Peirce col passare degli anni troverà una soluzione ai problemi che assillavano James (primo fra tutti l’esistenza del male) in un autore dalla tutela del quale quest’ultimo aveva cercato di affrancarsi proprio abbracciando la scienza evoluzionistica darwiniana145.
Scrisse Peirce a James il 13 Marzo del 1897: Sono molto incoraggiato dal fatto che tu pensi positivamente intorno al “tichismo”. Ma il tichismo è solo una parte e un corollario del generale principio del “sinechismo”. Ivi, p. 223. Il fatto è che anche il sinechismo assumeva in James connotazioni morali che non erano presenti nella formulazione originaria di Peirce: “Sinechismo” significava per James che la realtà, essendo continua e sempre in movimento, sfugge la logica dell’identità. Per Peirce, invece, il sinechismo era un modo di riconciliare il caso con la logica. Ivi, p. 412. L’idea del caso, che interessava Peirce come logico, fu significativa per James come filosofo morale. R. Hofstadter, op. cit., p. 130. 143
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TCWJ II, p. 430.
145Il riferimento è al padre Henry: Scrisse Peirce a James il 23 Gennaio 1903 Non posso ammettere il tuo tichismo metafisico, che mi sembra insostenibile. La vera soluzione del problema del male è racchiusa in Substance and Shadow. TCWJ II, p. 426. E, nel Luglio di due anni dopo: Il problema del male [...] ha avuto la più bella e soddisfacente soluzione in Substance and Shadow. Ivi, p. 434 La visione di Peirce [...] soprattutto verso gli ultimi anni di vita, era mistica e quasi swedenborghiana nel suo interesse per l’immanenza dello psichico nella realtà. P. J. Croce, op. cit., p. 188.
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Ciò che più importa sottolineare è ancora una volta la duttilità della teoria darwiniana della selezione naturale; mentre questa funse per Wright da sostegno al suo nominalismo e al suo empirismo deterministico, per Peirce essa è inserita in una prospettiva fortemente lamarckiana, è ciò che ci fa ritenere che anche le leggi stesse si evolvono e che è perciò necessario liberarsi della visione meccanicistica per abbracciarne una tichistica, dato che il meccanicismo deterministico si basa proprio sull’assunto dell’immutabilità delle leggi146. Peirce, insieme con Renouvier, riuscì a mostrare a James che la regolarità della natura non è affatto de iure in contraddizione con una concezione libertaria dell’uomo:
Dire, per esempio, che la dimostrazione di Archimede delle proprietà della leva cadrebbe se gli uomini fossero dotati di libero arbitrio, è senza dubbio stravagante; eppure questo viene implicato da coloro che prendono come postulato di ogni inferenza una proposizione incompatibile con la libertà della volontà147.
Come vedemmo nei Capitoli dedicati all’analisi dei Principles of Psychology, James non oppose al determinismo meccanicistico il disordine del caso assoluto, bensì una nuova idea di causalità, difficile da concepire quanto necessaria per fare convivere scienza e morale, libertà e natura; una visione, questa, che sicuramente ebbe modo di discutere a più riprese con Peirce, meno interessato alla libertà da un punto di vista squisitamente psicologico, ma altrettanto consapevole delle conseguenze filosofiche di una dottrina che lasciasse aperta la porta della spontaneità umana:
[...] la mia ipotesi della spontaneità spiega realmente, in un certo senso, l’irregolarità: cioè spiega il fatto generale dell’irregolarità, sebbene naturalmente non possa dire quale sarà ogni evento fuorilegge. Allo stesso tempo, sciogliendo in questo modo il vincolo della necessità, lascia il posto per l’influenza di un’altra specie di causazione come quella che sembra operare nello spirito per formare le associazioni, e ci permette di comprendere come possa avere avuto luogo l’uniformità della natura148.
Per quanto negli scritti che stiamo qui considerando Peirce non dedichi grande spazio alla descrizione di questa “altra specie di causazione”, appare evidente la sua sottolineatura dell’insufficienza della
Cfr. C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., pp. 61-62. 146
147
Ivi, p. 50.
148
Ivi, p. 63.
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scienza meccanicistica a spiegare la complessità e soprattutto la varietà dei fenomeni, un’insufficienza che riproduce, estendendola, quella dell’evoluzionismo darwiniano149.
[...] le grandi scoperte della meccanica ispirarono la speranza che potessero bastare i principi meccanici per spiegare l’universo; e questa speranza, pur senza giustificazione logica, ha continuato da allora ad essere stimolata dai susseguenti progressi della fisica. Ciononostante, la dottrina era troppo evidentemente in conflitto con la libertà della volontà e con i miracoli per essere generalmente accettabile fin dall’inizio150.
Potremmo dire forse semplificando un po’ che James prese da Peirce quanto questo poté dargli151, ma non si fece scrupoli a trovare una propria strada quando si accorse che né in Peirce né in Wright egli
149 In sostanza, il materialismo meccanicistico, nella sua miopia, diventa antiscientifico: [...] il materialismo non solo è improponibile, perché non è solo non scientifico, cioè non richiesto dalla scienza, ma antiscientifico, cioè incompatibile coi procedimenti e l’autocoscienza della scienza. [...] Chi assume come valida l’ipotesi materialistica deve, secondo Peirce, non solo riuscire a spiegare tutti gli eventi in base a essa, ma anche mostrare che quegli stessi eventi non si spiegherebbero, o non così bene, in base a ipotesi diverse. N. Bosco, Dalla scienza alla metafisica; Studio sul pragmatismo di C. S. Peirce, cit., p. 121.
C. S. Peirce, Esame della dottrina della necessità, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 49. Purtroppo a volte sembra che Peirce lasci inespressa la parte più interessante cui sembrava portare la sua analisi delle conseguenze del rifiuto di una visione deterministica del mondo e necessitaristica della volontà: [...] Se supponiamo che la rigida esattezza della causazione cedesse, non importa quanto poco — sia pure infinitesimalmente— noi guadagniamo posto per inserire lo spirito nel nostro schema, e per metterlo nel posto dove ce n’è bisogno, nella posizione che esso ha il diritto di occupare quale unica cosa auto-intelligibile — quello della fonte dell’esistenza; e così facendo, risolviamo il problema della connessione fra anima e corpo. Ivi, p. 57. Per quanto sia indubbio che la rottura della “rigida esattezza della causazione” è conditio sine qua non per l’introduzione di una volontà spontanea e potenzialmente libera nel complesso gioco dell’universo, è altrettanto certo che questa, proprio in quanto condizione, non risolve affatto il problema della connessione fra anima e corpo, ma, semmai, lo pone. Mentre infatti un Huxley può agevolmente trattare della coscienza e della volontà come di un “fatterello” (cfr. Ivi, p. 64) che può essere lasciato cadere, chi sostenga l’esistenza di due mondi deve poi trovare una giustificazione — che può essere trovata nel materialismo, nell’idealismo o nel monismo (o neutralismo) — della loro armonia. Quello che James definiva un ignoramus (in primis il rapporto mente-corpo) sembra in Peirce risolversi autonomamente con la negazione del determinismo. 150
151 E anche Peirce, probabilmente, trasse vantaggio dagli scambi intellettuali con James; c’è un passaggio della Legge ello spirito .che ricorda molto da vicino quanto diceva James nei Principles; è difficile dire qui quanto di jamesiano ci sia nelle parole di Peirce, ma certamente queste rivelano una convergenza di fini e di metodi che può far parlare di movimento pragmatico ben prima che lo stesso termine “pragmatismo” fosse introdotto sulla scena filosofica internazionale da James alla fine del secolo scorso. Ma nessuna azione mentale sembra essere necessaria o invariabile nel suo carattere. Qualunque sia la maniera nella quale lo spirito ha reagito sotto lo stimolo di una data sensazione, è probabile che torni a reagire nella stessa maniera; se, tuttavia, questa fosse un’assoluta necessità, le abitudini diverrebbero rigide e inestirpabili, e non rimanendo spazio per la formazione di nuove abitudini, la vita intellettuale giungerebbe ad una rapida estinzione. Così, l’incertezza della legge mentale non è un difetto di essa, ma al contrario ne è l’essenza. La verità è che lo spirito non è soggetto a una “legge”, nello stesso senso rigoroso nel quale lo è la materia. Esso è solamente sottoposto a blande forze che fanno sì che agisca più probabilmente in un determinato modo di quanto farebbe altrimenti. Rimane sempre nella sua azione una certa quantità di spontaneità arbitraria, senza la quale sarebbe morto. C. S. Peirce, La legge dello spirito, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 93. L’evoluzionismo si presenta poi come vero e proprio comune denominatore in molti luoghi della filosofia di Wright, di Peirce e di James: Sembra incontestabile perciò che lo spirito dell’uomo è fortemente adatto alla comprensione del mondo; o almeno che certi concetti, grandemente importanti per tale comprensione, sorgono naturalmente nel suo spirito; e che senza una tale tendenza lo spirito non avrebbe mai subito alcuno sviluppo. Come dobbiamo spiegare questo adattamento? La grande utilità e indispensabilità dei concetti di tempo, spazio e forza, anche per l’intelligenza più bassa, sono tali da suggerire che essi siano il risultato della selezione naturale. C. S. Peirce, L’ordine della natura, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 18. Questo “tropismo verso la verità” ricorda dappresso l’ultimo capitolo dei Principles sulle verità necessarie e gli effetti dell’esperienza (per quanto sia poi diversa la matrice evoluzionistica cui i due autori fanno riferimento) e ricorda anche quanto detto da Wright nel suo saggio più importante, quello sull’evoluzione della coscienza. James e Peirce erano poi accomunati anche dalla loro fiera opposizione allo spencerismo, trovandosi così speso uniti nell’estensione delle
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avrebbe potuto trovare una risposta, soprattutto metodologica, alle domande che si facevano in lui sempre più pressanti dopo avere concluso i Principles of Psychology152. Questa è sicuramente solo una piccolissima parte della storia dell’intensa relazione intercorsa tra William James e Charles Sanders Peirce, molto ancora si potrebbe dire, soprattutto in merito alla filosofia dell’ultimo James, dove il suo evoluzionismo sembra assumere delle nette sfumature peirceiane nel passaggio dal discorso psicologico e morale a quello più squisitamente metafisico e cosmologico153, ma avremo modo ora di occuparci solo di un altro capitolo di questa interessante ‘vicenda filosofica’, dove l’influsso di Peirce sarà altrettanto forte di quello osservato fin qui.
4.1.5 Il fissarsi della credenza Come abbiamo sopra ricordato, per Peirce (come del resto per James e per Wright) la maggior parte degli abiti (anche intellettuali) dell’uomo sono spiegabili evoluzionisticamente.
L’essere logici rispetto alle faccende pratiche è la qualità più utile che un animale possa avere, e potrebbe, perciò, essere il risultato della selezione naturale; ma, oltre a ciò, è probabilmente più vantaggioso per l’animale avere la mente piena di visioni piacevoli e incoraggianti, indipendentemente dalla loro verità; e perciò, per questioni teoretiche, la selezione naturale potrebbe ingenerare una fallace tendenza di pensiero154.
categorie evolutive oltre i limiti che Wright (anch’egli anti-spenceriano) vi aveva posto: Dei cinquanta o cento sistemi di filosofia che sono stati messi innanzi nei diversi momenti della storia del mondo, forse la maggior parte è stata non tanto il risultato di un’evoluzione storica, quanto felici pensieri che sono venuti accidentalmente ai loro autori. C. S. Peirce, L’architettura delle teorie, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 27. 152 Sebbene [James] attribuì a Peirce la paternità della sua dottrina [pragmatica], noi sappiamo che Wright, Holmes e Peirce non accettarono la versione jamesiana della dottrina. Essi infatti criticarono subito e ripetutamente la dottrina della volontà di credere, rea di aver posto l’uomo troppo al centro dell’evoluzione dell’universo. P. Wiener, op. cit., p. 100. 153 [James] credeva che Spencer avesse fallito definitivamente nel suo ambizioso tentativo di tracciare le origini della vita e della mente umana. [...] Con questa prima fase darwiniana di pensiero contrasta l’evoluzionismo radicale dei suoi ultimi anni, quando, con l’aiuto di Charles Peirce, estese la nozione di variazioni spontanee a tutta la natura, affermando che l’ordine dell’universo non era altro che effetto di una progressiva selezione. TCWJ I, p. 490. Si può indubbiamente parlare di una cosmologia Jamesiana; certo non nel periodo che stiamo prendendo qui in considerazione (che si ferma al 1897); ma d’altronde per la Bosco anche Peirce diede in questo periodo solo un abbozzo di una teoria cosmologica: Più che una vera e propria cosmologia i [le] Collected Papers offrono spunti e suggestioni, ipotesi, appunto, generalissime e fondamentali per la costruzione di una dottrina cosmologica. N. Bosco, Dalla scienza alla metafisica; Studio sul pragmatismo di C. S. Peirce, cit., p. 119. 154 C. S. Peirce, The Fixation of Belief, in P. Wiener (a cura di), Charles S. Peirce: Selected Writings; Values in a Universe of Chance, cit., p. 96.
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Da questo breve brano emerge chiaramente la duplicità dell’evoluzionismo secondo la prospettiva di Charles Sanders Peirce. La logicità dell’uomo (insieme con le inferenze di spazio e tempo) sono probabilmente il frutto della selezione naturale; la loro utilità per la sopravvivenza dell’individuo e la diffusione della specie è indubbia: ma anche la tendenza a deformare la realtà secondo i nostri gusti e i nostri desideri è molto forte e anch’essa più essere spiegabile evoluzionisticamente. Per quanto qui Peirce sembri disposto a condividere l’utilità di un wishful thinking di questo genere (altrimenti non sarebbe nemmeno stato selezionato positivamente), non altrettanto egli è disposto ad accettare che questo atteggiamento sia poi la base dell’attività teoretica dell’uomo. In breve; quello che “funziona” per le faccende pratiche (e che quindi perciò è stato selezionato) potrebbe rivelarsi fallace per altre faccende, più complesse, o semplicemente differenti. Il problema è quello della credenza e del suo fondamento: possiamo credere qualcosa in ragione del nostro intelletto o in ragione dei nostri desideri; qual è l’atteggiamento migliore da adottare (per le questioni non-pratiche)? Prima di dare la risposta di Peirce (che comunque si intravede già nel brano succitato) è opportuno riproporre la distinzione schematica che Peirce propone di operare sulla genesi delle nostre credenze155.
Peirce] descrive quattro modi in cui si può “fissare” una credenza: 1) metodo della tenacia 2) obbedienza all’autorità 3) metodo, inaugurato da Cartesio, di credere a ciò che è “d’accordo con la ragione” 4) metodo scientifico, che non è altro che il culmine del metodo n° 3156.
Vediamo brevemente le caratteristiche di questi quattro metodi:
Il metodo della tenacia consiste nell’aggrapparsi a una credenza, una volta che la sia stabilita (senza specificare qui il percorso che ci ha portati a essa), cercando di scacciare con tutti i mezzi il contatto con qualsiasi opinione o credenza che possa esserle contraria, che possa ingenerare in noi il dubbio. L’uomo che non legge il giornale del partito avversario a quello cui appartiene spesso lo fa, anche senza rendersene conto, in virtù di questo metodo: conoscere delle opinioni diverse potrebbe mettere in crisi le sue certezze e, temendo di non possedere gli strumenti atti a difendere le proprie idee — le proprie credenze — egli risolve di rimanere sulle sue posizione senza volere nemmeno apprendere le opinioni altrui. Chi non ha mai usato questo metodo, se non per grandi, almeno per piccole questioni? Peirce
Il saggio di Peirce cui stiamo facendo riferimento è The Fixation of Belief, apparso originalmente sul Popular Science Monthly, 12 (1877), pp. 1-15. 155
156
P J. Croce, op. cit., p. 212.
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non mette in dubbio che questo metodo possa essere di un qualche vantaggio, dato che la fede nelle nostre idee è spesso ciò che ci dà la forza di lottare per esse e di credere in quel che facciamo, ma il suo giudizio di fondo è negativo:
Potrebbe portare a delle cattive conseguenze il continuare a credere che il fuoco non bruci [...]. Ma l’uomo che adotta questo metodo non riconoscerà che i suoi inconvenienti siano più grandi dei vantaggi che ne ricava157.
Il secondo metodo è quello dell’autorità. C’è stato un periodo, anche nella storia della filosofia, dove le disputationes si conducevano a suon di citazioni e vinceva chi era più bravo a portare dalla propria parte le parole di Aristotele. Il metodo dell’autorità è una specie di variante di quello della tenacia; invece di affidarci semplicemente alla nostra credenza, ci affidiamo a un’autorità, che può essere appunto un filosofo, ma solitamente è una religione o uno schieramento politico o lo Stato stesso. Questo metodo è considerato da Peirce “incommensurabilmente superiore” a quello precedente158, ma anch’esso non è infallibile. Prima di tutto, “nessuna istituzione” può regolare le opinioni su qualsiasi argomento e in secondo luogo con il crollo o l’indebolimento dell’autorità crolla o si indebolisce anche la credenza stessa159.
Il terzo metodo è quello dell’accordo con la ragione o anche a priori. A tutta prima sembrerebbe il metodo migliore, ma non è affatto così. Sarebbe infatti forse meglio chiamarlo metodo “metafisico”, dove la ragione non rappresenta un aiuto per la nostra comprensione dei fenomeni quanto una vera e propria autorità che ci consente di vedere solo quello che è coerente con le sue premesse.
157 C. S. Peirce, The Fixation of Belief, in P. Wiener (a cura di), Charles S. Peirce: Selected Writings; Values in a Universe of Chance, cit., p. 102. Ma, per quanto egli si ostini nella sua posizione, questo metodo non si rivela per Peirce sufficientemente fondato: L’impulso sociale gli è contrario. L’uomo che lo adotta troverà che altri uomini la pensano diversamente da lui, e gli accadrà perciò, in qualche momento di maggiore lucidità, di comprendere che le loro ragioni sono valide tanto quanto le sue e questo scuoterà la fede nella propria credenza. Quest’idea, che il pensiero o il sentimento di un altro uomo possano essere validi quanto il suo è un passo effettivamente nuovo e importante. Esso nasce da un impulso che nell’uomo è troppo forte perché possa essere soppresso, senza tema di distruggere l’intera razza umana. A meno che noi non ci facciamo eremiti, saremo obbligati a influenzare gli uni le opinioni degli altri; così il problema diventa: come fissare la credenza, non solo nel singolo individuo, ma in tutta la comunità. Ivi, p. 103. Ancora una volta riappare la dimensione intersoggettiva e comunitaria della filosofia di Peirce e ancora una volta questa dimensione è giustificata non in base a principi a priori ma in considerazione dell’evoluzione dei nostri abiti, tra cui rientrano a pieno titolo quelli della fixation of belief. 158
Ivi, p. 104.
159 Alla lunga è fatale che nuove opinioni, nate dal confronto con le credenze di altri popoli e di altre istituzioni, si infiltrino tra le antiche e determinino, alla fine, il crollo dell’intero sistema dell’autorità. C. Sini, op. cit., p. 192.
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L’esempio più perfetto di esso si può trovare nella storia della filosofia metafisica. Sistemi di tal fatta non si sono solitamente basati sull’osservazione dei fatti, se non in piccola parte. Essi hanno principalmente adottato certe proposizioni fondamentali perché queste erano “d’accordo con la ragione”. [...] questo non significa in accordo con l’esperienza, ma con ciò che siamo inclini a credere160.
L’ultimo metodo è quello scientifico. La pietra di paragone qui non sono i nostri desideri (nemmeno nella forma sublimata della metafisica) né una qualche autorità. Il metodo scientifico fa riferimento alla realtà indipendente da noi, ovvero alla forza del comune confronto su un medesimo oggetto. Sono i fatti che confermano le nostre credenze e Peirce ritiene che una ricerca spassionata (ovvero non già predisposta ad accettare dei fenomeni e a rifiutarne altri) porterà a un comune accordo sul giudizio intorno alla realtà.
Per soddisfare i nostri dubbi è perciò necessario trovare un metodo in virtù del quale le nostre credenze siano causate da qualcosa che non è umano, da una permanenza esterna — da qualcosa sulla quale il nostro ragionare non ha effetto alcuno. [...] La nostra permanenza esterna non sarebbe esterna, come intendiamo qui, se fosse ristretta all’influenza su un individuo161. Deve essere qualcosa che agisce, o può agire, su ogni uomo162.
Quest’ultimo è il metodo che Peirce considera migliore per risolvere le questioni che vanno oltre le practical matters163. Non ci importa qui di considerare la correttezza della posizione di Peirce, ma piuttosto di capire come questo discorso introno ai vari modi, ai vari metodi, di fissare la credenza sia poi una sorta di punto di partenza per quella che sarò la teoria della volontà di credere di James. Prima di affrontare questo tema e di concludere così questo Capitolo dedicato ai ‘precursori’ di William James, dobbiamo però dire ancora qualcosa sulle caratteristiche della credenza descritta e analizzata da Peirce nel saggio che stiamo qui considerando. Prima di distinguere fra i quattro metodi, Peirce aveva dato una felice descrizione di che cosa si debba intendere per credenza. Prima di tutto la credenza è l’opposto del dubbio (essendo la non credenza
C. S. Peirce, The Fixation of Belief, in P. Wiener (a cura di), Charles S. Peirce: Selected Writings; Values in a Universe of Chance, cit., pp. 105-106. Peirce fa poi un esempio molto chiarificatore: Platone, per esempio, trova in accordo con la ragione che le distanze delle sfere celesti l’una dall’altra siano proporzionali alle differenti lunghezze delle corde che producono gli accordi musicali. Ibidem. 160
161
Altrimenti si tornerebbe al metodo della tenacia, dell’eremita che vede tutto ciò che crede.
162 Ivi, p. 107. Per quanto diversi siano gli individui e i modi del loro operare, la conclusione ultima di ogni uomo deve risultare la stessa, in quanto trova conferma nei fatti. Il presupposto, o per dir meglio l’ipotesi, che sta a fondamento del metodo scientifico è quella della “realtà”. C. Sini, op. cit., p. 193. 163 C. S. Peirce, The Fixation of Belief, in P. Wiener (a cura di), Charles S. Peirce: Selected Writings; Values in a Universe of Chance, cit., p. 96.
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semplicemente una credenza negativa); la credenza si distingue poi dal dubbio in tre modi: prima di tutto noi sentiamo bene quando dubitiamo e quando invece crediamo. Su una qualsiasi affermazione non possiamo essere in dubbio su quale sia la nostra posizione: o vi crediamo o vi dubitiamo; possono esserci poi numerose sfumature all’interno di queste due condizioni, ma il fatto importante è che noi stesi siamo in grado, anche senza ragionarci su, di sapere qual è il nostro stato di credenza intorno a una qualsiasi affermazione164. La seconda differenza (che Peirce cita come terza nell’ordine) è nella reazione emotiva che noi abbiamo verso i due differenti stati di dubbio e di credenza. Mentre nel primo caso proviamo sentimenti di disagio e d’irritazione, nel secondo siamo pervasi da un senso di pace e di tranquillità. Il dubbio ci spinge ad agire, ad agire al fine di eliminare il dubbio165, mentre la credenza non fa che farci desiderare di rimanere nel nostro stato. Questo non vuole però affatto dire che il dubbio porti all’azione e la credenza all’inazione; è forse vero il contrario e qui veniamo alla terza differenza, che è poi la più importante. Giova riportare le parole dello stesso Peirce:
Le nostre credenze guidano i nostri desideri e danno forma alle nostre azioni. Gli Assassini, o i seguaci del Vecchio Uomo della Montagna erano soliti andare incontro alla morte al minimo comando, poiché essi credevano che la loro obbedienza li avrebbe condotti alla felicità eterna. Se avessero dubitato non avrebbero agito come fecero. Il sentimento di credere [the feeling of believing] è un’indicazione più o meno certa che nella nostra natura si è stabilito un abito che determinerà le nostre azioni. Il dubbio non esercita mai un tale effetto166.
Credere significa dunque principalmente essere disposti ad agire in una determinata maniera. Ciò non vuol dire ovviamente che a ogni credenza segua una determinata azione; potremmo meglio dire: credere significa essere disposti ad agire in una determinata maniera qualora si presenti l’occasione per farlo. Una credenza può così non dare vita a nessuna azione da parte nostra, ma solo perché non si sono date le condizioni perché noi agissimo. Una credenza priva di questa dimensione attiva non può allora dirsi veramente una credenza. Lo stesso Peirce, che nel saggio sul fissarsi della credenza non sviluppa poi
164
Ivi, p. 98.
165 Il primo e più importante “prodotto” del dubbio è così la ricerca (inquiry). Nelle parole di Peirce, per quanto non appaia chiaramente dai brani riportati, traspare una critica al cartesianesimo: Peirce contrastava due punti chiave della dottrina di Cartesio: il punto di partenza che impone di dubitare di tutto ciò che non sia provato e la fiducia nell’intuizione mentale capace di fornirci una conoscenza scevra di dubbi. Peirce prese una posizione radicalmente opposta a quella di Cartesio: “Non possiamo cominciare con un dubbio radicale. Dobbiamo invece cominciare con tutti i pregiudizi che già abbiamo”. P. J. Croce, op. cit., p. 213. Per Peirce [...] in assenza di un dubbio reale basato su fondamenta oggettive che ci facciano supporre falsa la nostra credenza, la ricerca [della verità] non continua; la credenza raggiunta è tenuta per vera. Finché non sopraggiunga alcun dubbio, la credenza rimane salda. J. E. Smith, op. cit., p. 28. 166 C. S. Peirce, The Fixation of Belief, in P. Wiener (a cura di), Charles S. Peirce: Selected Writings; Values in a Universe of Chance, cit., p. 99. Sebbene ovviamente non sia legato all’azione come la credenza, il dubbio non è interamente distaccato dall’azione poiché esso è uno stato di difficoltà e di insoddisfazione, uno stato da cui dobbiamo cercare di liberarci. J. E. Smith, op. cit., p. 27.
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l’argomento, individuava nel principio secondo cui la credenza si definisce come disponibilità ad agire l’origine di tutta la filosofia pragmaticaiii e vedremo nella prossima Parte come questo può essere detto a buon diritto per la filosofia di James, specialmente nella sua prima manifestazione pubblica attraverso la formulazione della teoria della volontà di credere. In questo Paragrafo abbiamo cercato solo di mostrare quali fossero i presupposti filosofici dai quali James sarebbe partito per elaborare il suo ‘sistema’ dopo la conclusione dei Principles. Per quanto trascorreranno circa cinque lustri dalla fine delle riunioni del Metaphysical Club alla composizione finale della Will to Believe, è proprio lì che il nostro autore cominciò a ragionare intorno ai temi del determinismo e della libertà, della credenza e della scienza. Wright e Peirce sono i personaggi fondamentali per comprendere come accadrà che James passerà, in maniera che ancora a molti critici appare essere discontinua se non accidentale, dalla psicologia alla filosofia: James, già negli anni Settanta, ragionava psicologicamente di filosofia e filosoficamente di psicologia; i Principles of Psychology non sono allora, per utilizzare una felice espressione, che il primo capitolo di un’opera ch’egli scriverà per tutta la vita. Ciò che più colpisce nella formazione scientifica e filosofica di William James è la presenza della dimensione evoluzionistica darwiniana. Dalla Lawrence Scientific School al Metaphysical Club sembra che le tappe formative di James coincidano coi progressi della dottrina dell’evoluzione per selezione naturale o comunque con le fasi — tormentate — dell’accettazione della scienza darwiniana da parte della comunità scientifica americana. Anche Wright e Peirce poi, che sono forse i personaggi che più di tutti influenzarono il pensiero di William James direttamente e non solo attraverso le loro opere, sarebbero indecifrabili senza riconoscere il forte debito che essi contrassero con la teoria evolutiva (per quanto questa, soprattutto nel caso di Peirce, non sempre coincida con la sua declinazione darwiniana). Da Wright James assorbì certamente uno spirito positivo e neutralistico, insieme con la consapevolezza che non si potesse più fare psicologia senza tenere in conto della rivoluzione darwiniana, e i Principles rappresentano i questa prospettiva il prosieguo del cammino interrotto prematuramente dalla morte del più anziano amico. Ma proprio negli ultimi giorni del Metaphysical Club James si andava sempre più rendendo conto del fatto che le risposte che la scienza psicologica avrebbe potuto dargli non sarebbero state sufficienti a soddisfare tutti i bisogni e i desideri dell’uomo, che certamente egli sentì in maniera più profonda di Wright. Questi pensava che il problema di Dio fosse ‘risolto’ una volta che lo si fosse riconosciuto come ininfluente, un’ipotesi non necessaria, per la ricerca scientifica; per James questa non rappresentò mai veramente una soluzione e più egli proseguiva, attraverso i suoi studi psicologici, nella descrizione di ciò che l’uomo fa e di ciò che l’uomo è, più nasceva in lui la forte esigenza di comprendere anche ciò che l’uomo può fare, o meglio, ciò che egli ha 347
il diritto di credere e ciò che ha il dovere di fare. La psicologia stava per lasciare il posto alla filosofia e lo scetticismo scientifico e il neutralismo metafisico non erano altro che sproni per trovare un modo valido per non dimenticare la realtà degli impulsi religioso e morale dell’uomo.
Alle questioni lasciate in sospeso da Wright Peirce in parte rispose, non lasciando il bisogno metafisico dell’uomo al di là dei confini della propria scienza. Ma anche in questo caso, le domande cui James cercava risposta erano solo superficialmente sovrapponibili con quelle dell’amico; lo stesso indeterminismo di Peirce, che lo pone agli occhi del nostro autore in una linea di continuità con il pensiero di Renouvier, non venne formulato per rispondere alle domande morali dell’uomo quanto piuttosto per cercare di trovare una giustificazione cosmologica e scientifica della compresenza di regolarità e di novità nel mondo. Peirce, in fondo, era convinto, in questo più vicino a Wright che a James, che la scienza avrebbe rappresentato, per quanto in un futuro lontano, la soluzione alla maggior parte dei problemi in cui l’uomo oggi si dibatte. James non ebbe mai la stessa fiducia nei ‘poteri’ della scienza dei due più anziani amici, e anche il metodo della scienza che Peirce sostiene e alla fine del suo saggio sulla Fixation of Belief lasciava per James insoluta una questione che sempre più gli si mostrava pressante dopo la conclusione dei Principles: come dobbiamo comportarci, che cosa dobbiamo pesare e che cosa dobbiamo credere nelle practical matters ? A chi dobbiamo affidarci per incamminarci su quel terreno che già più non appartiene alla giurisdizione della scienza? La dottrina della volontà di credere sarà proprio destinata a rispondere a queste domande e, come vedremo, essa è compatibile con l’abito scientifico che James aveva acquisito negli anni della Lawrence Scientific School, ma soprattutto nelle riunioni del Metaphysical Club proprio perché essa risponde a delle esigenze che la scienza lascia inevase. James concordava con Peirce nel ritenere il metodo della scienza il migliore da adottare; ma come dobbiamo comportarci quando questa non è in grado di rispondere alla domanda: “Che fare?”, o, che è lo stesso giusta la concezione di credenza sostenuta da Peirce e che verrà condivisa anche da James: “Che cosa credere?”167
167 L’altra differenza che maggiormente ci colpisce fra Peirce e James è l’accento più grande che il primo pone sul metodo della procedura. [...] Tutto verteva, per Peirce, sull’attendibilità delle procedure d’indagine. Donde la sua alta stima della logica, in confronto con James — almeno col James degli ultimi scritti. Donde anche il suo rigetto definitivo dell’appello alla volontà di credere — nella forma di ciò che egli chiama il metodo della tenacia. Strettamente connesso con questo è il fatto che Peirce fa dipendere, più esplicitamente di James, la sua dottrina dal fatto sociale. L’appello di Peirce si rivolge essenzialmente al consenso di coloro che hanno indagato usando metodi che possono essere adoperati da tutti. E’ il bisogno dell’accordo sociale, e il fatto che in mancanza di esso il “metodo della tenacia” sarà esposto alla disintegrazione dall’esterno, che alla lunga costringerà l’umanità ad un uso sempre più vasto del metodo scientifico. John Dewey, Il pragmatismo di Peirce, in M. Cohen (a cura di), Caso, amore e logica, cit., p. 221. Smith sembra d’accordo con l’analisi di Dewey: Il modo più sicuro per evitare ogni confusione è quello di ricordare che, per Peirce, l’azione è singolare nel carattere e la credenza come pensiero o regola d’azione è necessariamente generale; ne consegue che il pensiero e l’azione, qualsiasi sia la loro relazione, non possono mai essere identici. J. E. Smith, op. cit., p. 24. Come vedremo nei prossimi Capitoli, il metodo ‘volontaristico’ di James non può affatto considerarsi simile a quello della tenacia, né il ricorso alla sensibilità del singolo può considerarsi veramente in opposizione al ricorso all’esperienza della comunità di 3 persone che condividono le medesime esigenze di certezza.
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C’era una certa ironia nel dedicare il libro “La volontà di credere” “Al mio vecchio amico, Charles Sanders Peirce, alla cui compagnia filosofica nei vecchi tempi e ai cui scriti recentemente io debbo più incitamento di quanta possa esprimere o ricambiare”168.
Alla luce di quanto visto finora, non c’era affatto ironia in questa dedica di James (e difatti Peirce fu molto grato del gesto dell’amico), ma c’era soltanto la consapevolezza che quel libro non era che un tentativo di rispondere filosoficamente a quelle domande che Peirce aveva stimolato nella fertile mente del nostro autore.
168 G. W. Allen, op. cit., p. 377. L’ironia, per Allen, starebbe nel dedicare a Peirce una raccolti di saggi con le conclusioni dei quali questi non si trovava affatto d’accordo. Conoscendo il carattere di James, e un po’ anche quello di Peirce, questa ci sembra un’ipotesi difficilmente difendibile.
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Questa ‘cronica’ incomprensione di Peirce da parte dell’amico James non rappresenta di certo un aiuto per chi voglia cercare di comprendere la relazione intellettuale fra i due; il rischio è quello di individuare analogie o derivazioni là dove non esistono affatto; si tratta però di un rischio più teorico che concreto. A nostro giudizio, James capiva Peirce molto meglio di quanto egli desse a intendere e d’altronde abbiamo già potuto osservare, studiando il suo rapporto con una altro maestro, Renouvier, ch’egli aveva la tendenza a sottovalutare le proprie capacità e a esaltare quelle altrui: Generalmente si presume che Peirce comprese il pensiero di James. Ma bisogna ricordare che James raramente affermava di comprendere qualcuno, mentre era tipico di Peirce pensare di essere in grado di comprendere chiunque. TCWJ I, p. 539. Lo stesso Peirce d’altronde, riconosceva a James il merito di avergli chiarito le idee su molte questioni: La tua mente e la mia sono così inadatte a capirsi l’un l’altra come altre due non potrebbero, ma nonostante questo io sento di avere da imparare da te più che da chiunque altro. TCWJ II, p. 431. Lettera di Peirce a James del 3 ottobre 1904. Da più parti si è detto che James non comprese la filosofia pragmatica del significato di Peirce; il pragmatismo non sarebbe allora che la storia di una profonda incomprensione; come abbiamo già detto noi non tratteremo qui del pragmatismo di James né del pragmaticismo di Peirce; ci sia però consentito di dire, e questo anche a beneficio della nostra Tesi, che chi vede James come l’amico un po’ ingenuo e, diciamolo pure, meno dotato di Peirce fa un torto non solo all’intelligenza del nostro autore, ma anche a quella di Peirce, che inspiegabilmente si sarebbe ostinato a dialogare con un uomo incapace di comprenderne veramente il pensiero. La maggior parte di queste critiche si fondano ingiustificatamente sull’assunto che James dovesse essere un epigono di Peirce e che qualsiasi deviazione dalla strada maestra deve perciò essere considerata come un’aberrazione. A questa stregua allora James non comprese nemmeno Darwin e neanche Renouvier, per citare solo alcuni di quegli autori che tanto ebbero importanza sullo sviluppo del suo pensiero, ma le cui dottrine non sono assolutamente sovrapponibili a quelle di James. La storia del pragmatismo come di una lunga serie di malintesi deve forse essere mutata in virtù del riconoscimento dell’esistenza di questo malinteso di fondo. Dire ad esempio che la teoria jamesiana della verità eccede quella del significato di Peirce significherebbe dire ch’egli avrebbe arbitrariamente esteso dei principi a un campo diverso in cui questi videro la luce. Ma non è forse questo uno dei motori del progresso scientifico e filosofico? Forse sarebbe corretto dire che il moderno movimento conosciuto come pragmatismo è in gran parte il risultato del fraintendimento di James del pensiero di Peirce. TCWJ II, p. 409. Wiener si esprime pressappoco in maniera uguale: Forse sarebbe meglio dire che il movimento conosciuto oggi come pragmatismo è in larga parte il risultato dell’incomprensione di James del pensiero di Peirce. P. Wiener, op. cit., p. 23. Forse, allora sarebbe meglio dire che Peirce stimolò James alla riflessioni su determinati argomenti (affrontati poi con le proprie forze) e che anche Peirce trasse giovamente dal confronto con l’amico ‘ribelle’: E’ infatti possibile, e anzi probabile, che l’idea di Peirce subì una chiarificazione e che ciò di cui egli aveva discusso nei primi anni ’70 fosse abbastanza flessibile per giustificare l’interpretazione che ne diede James. E’ addirittura probabile che l’interpretazione di James abbia stimolato Peirce a raffinare la propria interpretazione [del pragmatismo]. TCWJ II, p. 409. A volte poi, sembra che sia lo stesso Peirce a essere il più fiero avversario della linea interpretativa che stiamo qui criticando: Peirce, che come al solito era un po’ più gentile appena riceveva aiuto da James, dopo aver ottenuto l’incarico di tenere delle lezioni sul pragmatismo alla Harvard University scrive a James: Mio caro William, non ti ho ancora ringraziato [...]Tu sei, fra tutti i miei amici, quello che riesce a spiegare il pragmatismo nelle forme migliori. Tu sei un gioiello del pragmatismo. TCWJ II, p. 427. Altr, al contrario, tesi a rimarcare l’originalità del pensiero di James, hanno decisamente sottovalutato l’apporto dei suoi numerosi ‘maestri’, primo fra tutti d Peirce. Flournoy scrive a James il 16 Marzo 1907: Peirce non mi sembra abbia dato più della leggera spinta, della causa occasionale, [per la nascita del pragmatismo] che non avrebbe avuto alcun effetto senza la forza reale, il potere di convertire la potenzialità in realtà, che tu hai fornito per intero. TCWJ II, p. 456. Non ci sentiamo di condividere però nemmeno questo giudizio, sicuramente frettoloso e incapace di scorgere i profondi legami tra James e Peirce. La conclusione forse più equilibrata è quella cui è giunto recentemente Croce: A rigore, James male interpretò Peirce, ma si trattava di un fraintendimento creativo che permise lo sviluppo di una filosofia più popolare e più generale. P. J. Croce, op. cit., p. 223. i
La preferenza mostrata da Peirce per le visioni lamarckiane e catastrofistiche non era basata su un’evidenza scientifica biologica, ma sul fatto che queste interpretazioni della natura meglio si adattavano al suo evoluzionismo teistico e metafisico. P. Wiener, op. cit., p. 78. Se Lamarck era apprezzato per il suo afflato telico, Agassiz era invece stimato soprattutto per la sue doti di classificatore: Per comprendere storicamente l’atteggiamento di Peirce nei confronti dell’opera darwiniana dobbiamo prendere in considerazione la figura di Agassiz. Nel suo Essay on Classification [...] egli considerava le forme e gli ordini di tutte le specie come eterni pensieri del Signore, legati, nella sopravvivenza o nell’estinzione, al Suo Piano. Peirce ammirava [Agassiz] enormemente e lo adottò come base della sua Classification of the Sciences. P. Wiener, op. cit., p. 78. È facile vedere, in questo atteggiamento nei confronti di Agassiz una delle tante manifestazioni del realismo filosofico di Peirce. Peirce torna spesso sulla differenze tra le varie dottrine evolutive. Come abbiamo detto, e come ricorda Wiener nel brano succitato, il lamarckismo gli era più gradito (del darwinismo) per motivazioni filosofiche e persino morali piuttosto che squisitamente scientifiche (come d’altronde ex converso per James); se il lamarckismo sembra esercitare un costante fascino positivo su Peirce, la teoria darwiniana invece sembra subire nel suo giudizio notevoli oscillazioni; a volte essa sembra rappresentare quella parte ticastica necessaria anche nell’evoluzione agapastica (il cui corrispettivo scientifico sarebbe appunto la teoria lamarckiana):Così la teoria lamarckiana spiega solamente lo sviluppo dei caratteri che gli individui si sforzano di acquisire, mentre la teoria darwiniana spiega solamente la produzione dei caratteri veramente benefici per la razza, anche se questi sono fatali per gli individui. Ma concepita più ampiamente e più filosoficamente, l’evoluzione darwiniana è un’evoluzione ad opera del caso, e la distruzione dei risultati cattivi, mentre l’evoluzione lamarckiana è un’evoluzione che risulta dall’abitudine e dallo sforzo. C. S. Peirce, L’architettura delle teorie, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. ii
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Peirce, cit., pp. 33-34. A prescindere dal fatto che se c’è un cosa che la teoria darwiniana non spiega è proprio la produzione dei caratteri benefici, ma solo la loro selezione (distinzione che per altro Peirce sottolinea altrove, cfr. C. S. Peirce, Amore evolutivo, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 111), ciò che qui salta agli occhi è una certa complementarità delle due teorie. Altre volte invece, la teoria darwiniana sembra essere accusata di superficialità (della superficialità della scienza meccanicistica) e soprattutto di inutilità se applicata oltre ai fenomeni dell’evoluzione delle specie: [...] una filosofia autenticamente evoluzionistica, cioè una filosofia che fa del principio della crescita un elemento primordiale dell’universo, è così lontana dall’essere antagonistica all’idea di un creatore personale, da essere in verità inseparabile da quell’idea; mentre una religione necessitaristica si trova in una posizione del tutto falsa, ed è destinata ad essere disintegrata. Ma uno speudo-evoluzionismo che pone la legge meccanica al di sopra del principio della crescita, è allo stesso tempo scientificamente insoddisfacente — in quanto non dà la più piccola indicazione di come l’universo sia sorto — e ostile a ogni speranza di rapporti personali con Dio. C. S. Peirce, La legge dello spirito, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 96. Sebbene in questo brano il nome di Darwin non venga nemmeno citato, è evidente che non è difficile riconoscere nell’ateismo e nel meccanicismo dello scienziato inglese, ma soprattutto nei suoi epigoni, il bersaglio polemico. Spesso Peirce sembra poi confondere (appositamente) teoria darwiniana della selezione naturale e darwinismo (soprattutto inteso come darwinismo sociale); in questi casi la sua critica è molto dura: L’Origine della [delle] specie di Darwin non fa che estendere le vedute politico-economiche sul progresso dell’intero regno della vita animale e vegetale. La grande maggioranza dei naturalisti contemporanei sostiene che la vera causa di quegli adattamenti meravigliosi e squisiti della natura, — per i quali, quando ero ragazzo, gli uomini lodavano la saggezza divina, — sono dovuti al fatto che le creature sono così strettamente pigiate che quelle che hanno anche il minimo vantaggio respingono le altre in situazioni sfavorevoli alla moltiplicazione, o persino le uccidono prima che abbiano raggiunto l’età per riprodursi. Fra gli animali, il semplice individualismo meccanico è molto rinforzato dalla spietata avidità animale. Come Darwin dice nel suo frontespizio, si tratta della lotta per l’esistenza; e avrebbe dovuto aggiungere come suo motto: “Ciascuno per sé e che il diavolo si prenda gli ultimi”. Gesù, nel discorso della montagna, espresse un’opinione diversa. C. S. Peirce, Amore evolutivo, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 110. Che la teoria lamarckiana fosse poi per Peirce più adatta a spiegare altri tipi di evoluzione, soprattutto quella dell’uomo, della scienza, della società etc, è poi facilmente comprensibile: Secondo la sua veduta, tutto quello che distingue le forme organiche più alte da quelle più rudimentali è stato causato da piccole ipertrofie o atrofie, le quali hanno agito sugli individui nei primi tempi della loro vita e si sono trasmesse ai loro rampolli. Una tale trasmissione di caratteri acquisiti è della stessa natura generale del prendere abitudini, e questo è la rappresentazione e la derivazione della legge dello spirito nel dominio fisiologico. Ivi, pp. 114-115. Altre volte sembra invece che sia l’evoluzionismo catastrofistico quello più affine all’evoluzione delle idee: esso è stato certamente il fattore principale nell’evoluzione storica delle istituzioni come in quella delle idee; e non si può negargli un posto preminente nel processo di evoluzione dell’universo in generale. C. S. Peirce, L’architettura delle teorie, in N. Bosco (a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., p. 34. Mette conto di aprire qui una breve parentesi storiografica: questa definizione di credenza, Peirce lo riconosce in più di un’occasione, non era che la riporoposizione di una teoria già sviluppata, sebbene con finalità differenti, dallo psicologo Alexander Bain: La definizione data da Peirce di credenza, in termini di abitudine e azione, era basata su una nuova psicologia il cui rappresentante più eminente era Alexander Bain, psicologo che, secondo Peirce, aveva posto le basi della teoria pragmatica. P. J. Croce, op. cit., p. 208. Al proposito cfr. anche TCWJ II, p. 407. Abbiamo parlato di Bain più di una volta nei Capitoli precedenti; come si ricorderà, egli era fra coloro che avevano stimolato James alla formulazione della teoria ideo-motoria. Bain è anche colui che — in un breve articolo di James — viene ‘opposto’ a Renouvier per la differente considerazione dell’abitudine in relazione alla possibilità di un’azione libera. Qui però ci troviamo di fronte a un nuovo aspetto del suo pensiero, che, come vedremo, ha più a che fare con la filosofia di James piuttosto che con la sua psicologia. Come abbiamo detto, Peirce riconobbe più volte il proprio debito nei confronti del pensiero di Bain; e proprio in relazione alla teoria della credenza. Su questa genealogia tanto interessante quanto poco approfondita ha scritto un ammirevole saggio uno dei più grandi studiosi di Peirce e del pragmatismo tutto: Max Fisch. Faremo riferimento qui al suo articolo sull’argomento per tirare le nostre conclusioni (Max H. Fisch, Alexander Bain and the Genealogy of Pragmatism, “Journal of the History of Ideas”, 15 (1954), pp. 413-442.). Fisch, in questo breve saggio, risponde a molte domande sul rapporto di Bain con i fondatori del pragmatismo; noi siamo ovviamente interessati soprattutto a Peirce e a James: “[...]Nicholas St. John Green era uno dei membri più interessanti [del Metaphysical Club], un avvocato abile e colto, discepolo di Jeremy Bentham. [...] Egli sosteneva spesso l’importanza di applicare la definizione di credenza fornita da Bain, come “ciò in base a cui un uomo è disposto ad agire”. Il pragmatismo è poco più che un corollario di questa dottrina; perciò io penso che possa essere considerato il nonno del pragmatismo [...]”. M. H. Fisch, Alexander Bain and the Genealogy of Pragmatism, cit., p. 413. Bain era autore di uno dei trattati di psicologia più letti nei paesi anglofoni nella metà del secolo scorso. Si tratta di un’opera in due volumi, The Senses and the Intellect (1855) e The Emotions and the Will (1859). Qui Bain si propone, tra l’altro, di sviluppare una dottrina associazionistica innestandola su una base fisiologica. Questa operazione, che non può non vedersi d’altronde come chiaramente anticipatrice di quanto farà poi James nei Principles, si manifesta in tutta la sua forza nella teoria della credenza. In una nuova edizione dell’Analysis of the Phenomena of the Human Mind di James Mill, curata da John Stuart Mill e dallo stesso Bain, questi scrive a proposito della credenza: L’errore prevalente sull’argomento consiste nel considerare la Credenza principalmente come un fatto dell’Intelletto., con una certa partecipazione dei sentimenti. L’assunzione classica è che, se una cosa è concepita in una maniera sufficientemente vivida, o se due cose sono associate fortemente nella mente, allora viene indotto lo stato della credenza. Ivi, p. 418. L’errore della psicologia precedente era dunque quello di considerare la credenza come un iii
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fenomeno appartenente più che altro, se non esclusivamente, alla sfera dell’intelletto. Il suo legame con l’azione ne fa invece, agli occhi di Bain, un prodotto della volontà. James, come si ricorderà, era arrivato, anche attraverso altre vie, a destituire di fondamento l’onnicomprensività delle teorie associazionistiche e la sua divisione — del resto classica — della psiche in sensazioni, conoscenza e volontà era finalizzata a riportare, con una sapiente ‘manipolazione’ della teoria dell’arco riflesso, ogni nostra sensazione e ogni nostra credenza all’azione, al dipartimento volitivo. Non v’è dubbio che anche in questo caso, come in quello della teoria ideo-motoria, James fosse in gran parte debitore a Bain, che del resto è uno degli autori più citati lungo tutti i Principles. Fisch inoltre porta nel suo saggio molte prove a favore della conoscenza di Bain da parte di James (anche indipendentemente dal ‘filtro’ di Peirce o di Green): Peirce e James possedevano una copia dela prima edizione della Mental and Moral Science di Bain, pubblicata a Londra nel 1808. Sulla copia di James, conservata ora alla Houghton Library della Harvard University, il capitolo sulla credenza è sottolineato e annotato; [...] in quel periodo James era già a conoscenza della più esauriente esposizione della teoria della credenza nei The Emotions and the Will. Ivi, p. 427. Inoltre James usò The Senses and the Intellect e The Emotions and the Will come libri di testo per i suoi corso di psicologia al Dipertimento di filosofia. Negli anni 1880-81 egli utilizzò anche la Mental Science (1868) come libro di testo. Cfr. ivi, p. 432.
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Capitolo 4.2 Libertà e determinismo nella Will to Believe Come ci sono molte persone le quali parlano di selezione naturale e poi credono che tutta la teoria di Darwin consista nell’aver provato che il primo uomo era figlio di una scimmia, così ci sono di quelli che parlano della volontà di credere e si immaginano che consista in una teoria che insegna a credere tutto quello che si vuole. (G. Papini) Forse la filosofia rappresentava veramente la vocazione più profonda di James. Si ha spesso la sensazione che la psicologia fosse la sua moglie legale e la filosofia la sua amante preferita. (R. B. Perry)
4.2.1 La Will to Believe: dieci saggi di “filosofia popolare” In quest’ultima parte prenderemo in considerazione il pensiero jamesiano riguardo alla libertà e al determinismo da un punto di vista schiettamente filosofico; l’opera cui faremo riferimento è la Will To Believe: pubblicata nel 1897, è una raccolta di saggi e di articoli scritti da James a partire dal 1879 fino al 1896. Presteremo qui maggiore interesse soprattutto a tre dei dieci saggi che costituiscono i capitoli del libro: The Will to Believe (il saggio che dà il titolo a tutta la raccolta), The Sentiment of Rationality e The Dilemma of Determinism. Mette conto subito di dire che solo l’ultimo di questi tre saggi, come appare evidente fin dal titolo, è esplicitamente dedicato al tema del determinismo, ma ciò nondimeno anche gli altri saggi citati (e parti importanti dei sette rimanenti che non abbiamo ancora nominato) sono estremamente utili per comprendere lo sviluppo del pensiero jamesiano intorno al tema della libertà1.
Come scrive Cotkin, la Will to Believe, sebbene non appaia manifestamente in molti suoi capitoli, rappresenta essenzialmente la risposta filosofica al problema della libertà che aveva angustiato James negli anni della gioventù e che lo aveva seriamente occupato durante la stesura dei Principles: Il determinismo, che distruggeva ogni concezione volontaristica della libertà, era la principale nemesi filosofica per James negli anni ’60 e ’70. Il dilemma posto dal determinismo lo ossessionò per tutta la vita. Sebbene egli fosse consapevole che non sarebbe mai stato in grado di dimostrare la verità del libero arbitrio, nondimeno era convinto che bisognasse assumere la verità del libero arbitrio e così cominciare ad “agire come essere liberi”. A questo scopo egli scrisse molti capitoli della Will to Believe. G. Cotkin, op. cit., p. 53. Ma James, pubblicando la Will to Believe, fece qualcosa di ben più importante che cercare di dare una soluzione filosofica ai propri ‘dilemmi’ esistenziali e psicologici; nei capitoli precedenti abbiamo sottolineato come il determinismo avesse dominato la scena culturale e scientifica della seconda metà dell’Ottocento; dobbiamo qui riconoscere però che questo ‘dominio’ aveva lasciato nell’animo di molti filosofi e scienziati (soprattutto fra i più giovani) una profonda insoddisfazione. Il successo che riscosse James nelle conferenze del 1896 e nella pubblicazione della raccolta dei saggi sulla volontà di credere sono la testimonianza di quanto il nostro autore fosse sensibile alle ‘richieste’, spesso confuse, dei suoi contemporanei: Come James, così molti suoi lettori erano stanchi di ascoltare teorie che dipingevano la personalità di un uomo in maniera statica e determinata da forze, biologiche, sociali e metafisiche, — all’apparenza immutabili. L. Simon, op cit., p. 233. 1
Prima di entrare in medias res con l’analisi del primo saggio (The Will to Believe) occorre però fare una serie di precisazioni molto utili per la comprensione del testo cui faremo riferimento e più in generale del pensiero di William James. Il titolo completo della raccolta di saggi è questo: The Will to Believe, and Other Essays in Popular Philosophy. Come scrive Frederick H. Burkhardt nella prefazione all’edizione standard cui facciamo qui riferimento, e come abbiamo già ricordato sopra, la Will to Believe fu il primo libro filosofico di William James2. Questo è vero solo da un punto di vista formale e per almeno due ragioni: prima di tutto, la maggior parte degli articoli raccolti in questo volume furono pubblicati su varie riviste ben prima dell’edizione dei Principles del 1890. In secondo luogo, come abbiamo già potuto ampiamente osservare nella parte terza della nostra tesi, è fondamentalmente scorretto distinguere fra un William James psicologo e un William James filosofo, non solo perché anche dopo la pubblicazione della Psychology il nostro autore si dedicò con grande passione ad argomenti squisitamente psicologici per un pubblico di psicologi professionisti, ma anche e soprattutto perché gli stessi Principles of Psychology sono un’opera ben più ampia e più profonda di quel ‘manuale di psicologia’ che doveva essere nelle intenzioni dell’editore e dello stesso James. Certo è vero che la Will to Believe rimane il primo testo in cui James raccolse per la prima volta le sue riflessioni filosofiche più profonde e altrettanto certo è il fatto che solo dopo la pubblicazione di questo libro James venne considerato universalmente un filosofo oltre che uno psicologo3.
La Will to Believe fu il primo libro filosofico di James. Quando venne pubblicato, egli aveva scritto solo libri di psicologia — i grandi Principles nel 1890 e la Psychology (Briefer Course) nel 1892. Ma il suo interesse nei problemi tradizionali della filosofia datava molti anni addietro. Per almeno due decenni dall’incarico come Professore Assistente di Filosofia alla Harvard University nel 1880, egli aveva tenuto lezioni ai suoi studenti e conferenze ai club filosofici e a pubblici vari su temi come le basi della credenza, l’oggettività e la razionalità e, nel 1897, egli raccolse questi dieci di questi Essays in Popular Philosophy pubblicandoli col titolo di The Will to Believe4.
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WB, p. v.
Come abbiamo già ricordato, James venne conosciuto in Europa prima come filosofo che come psicologo. Solo gli Stati Uniti dovettero aspettare il 1897 per riconoscere la ‘filosoficità’ del pensiero di William James; una ‘svista’ abbastanza comprensibile, se si pensa al fatto che il nome di James era strettamente legato al successo dei Principles, che col tempo (soprattutto nella sua forma ridotta) diventarono il manuale di studio fondamentale per qualsiasi studente americano di psicologia. Di fatto James sentì, dopo la pubblicazione della Will lo Believe, di essere profondamente cambiato rispetto alle proprie inclinazioni e alle proprie ambizioni intellettuali e professionali: in una lettera a Stumpf del 10 Settembre 1899 (da Bad-Nauheim) scrisse: Ho paura che sto smettendo i miei abiti da psicologo, per diventare esclusivamente un moralista e un metafisico. Ho lasciato ogni insegnamento psicologico a Münsterberg e al suo assistente e il solo pensiero di esperimenti psico-fisici, l’uso di strumenti e di formule algebriche, mi riempie di orrore. Tutta la mia attività futura sarà probabilmente metafisica [...]TCWJ II, p. 195. 3
4
WB, p. v.
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Ma che cosa intendeva James quando parlava di popular philosophy? Come efficacemente spiegato dal professor Edward Madden, nell’introduzione all’edizione standard della Harvard University Press, il termine ‘popolare’ si riferisce non tanto allo stile, quanto piuttosto agli argomenti trattati: argomenti che cioè interessano il filosofo di professione come qualunque uomo. Per quanto ogni saggio sia autonomo, il tema che tutti li sottende è che non esistono ‘decisioni intellettuali’ che siano indipendenti dalla natura passionale e volitiva dell’uomo. Attraverso tutti i capitoli del libro (sebbene con notevoli differenze di rilievo che rimarcheremo in seguito) James cerca di mostrare come la convinzione dello scienziato di produrre delle riflessioni e delle opere purificate da qualsiasi elemento soggettivo sia una pretesa totalmente ingiustificabile, oltreché dannosa per la stessa ricerca scientifica.
Per quanto i saggi della Will to Believe siano dunque legati da un medesimo filo rosso principale ( e da molti altri che più avanti metteremo in luce) è vero che essi possono essere divisi in almeno due gruppi principali; noi seguiremo inizialmente la divisione suggerita da Madden, che, per quanto valida, non è completamente adatta agli scopi della nostra tesi:
The Will to Believe comprende dieci saggi. I primi quattro riguardano i problemi che nascono nella credenza, quando l’evidenza in supporto di una certa conclusione non è decisiva. I quattro successivi discutono problemi di filosofia morale e sociale; il nono è una critica a Hegel e il decimo (una medley di scritti del 1890, del 1892 del 1896) mostra l’evoluzione della posizione di James nei confronti della ricerca sul paranormale5. I primi quattro saggi sono i seguenti: The Will to Believe, Is Life Worth Living?, The Sentiment of Rationality, e Reflex Action and Theism6. Del secondo saggio abbiamo già brevemente trattato nel cap. 2.2, a proposito della posizione di William James nei confronti del suicidio e dei possibili ‘rimedi’ (laici e religiosi) per un uomo che non ritenga più la vita degna di essere vissuta. Anche a proposito di Reflex Action and Theism abbiamo già accennato nella parte terza, a proposito dell’importanza della teoria dell’azione riflessa nella psicologia 5 Ivi, p. xii. Il problema della volontà di credere nasce quando l’evidenza oggettiva, dopo ch’è stata onestamente consultata, sia risultata incapace di decidere. Che cosa dunque una persona ha il diritto di credere, quando le prove sono insufficienti? Tale è la questione base che James considera nei suoi primi quattro saggi della Will to Believe. Ivi, p. xv. 6 The Will to Believe fu pubblicato per la prima volta nel 1896 sulla rivista New World (5, pp. 327-347) e venne ripubblicato nel 1917 nella raccolta Selected Papers on Philosophy, Everyman’s Library, Dent & Co, London 1917; Is Life Worth Living? Vide la luce sulle pagine dell’International Journal of Ethics, nel 1895 (6, pp. 1-24); The Sentiment of Rationality è l’unione di due articoli che vennero pubblicati in anni differenti: il primo ha lo stesso titolo: The Sentiment of Rationality, pubblicato sulla rivista Mind nel 1879 (4, pp. 317-346), il secondo si intitola Rationality, Activity and Faith, pubblicato sulla Princeton Review nel 1882 (2, pp. 58-86); Reflex Action and Theism vide la luce per la prima volta sulle pagine dell’Unitarian Review nel 1881 (16, pp. 389-416).
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di James e della rivoluzionarietà indeterministica che essa assunse nel pensiero psicologico fisiologico di William James. Riprenderemo comunque parti di entrambi i saggi che ci interessano per lo sviluppo del nostro tema (quello della credenza applicata al problema della libertà). The Will to Believe e The Sentiment of Rationality sono i saggi che più ci riguardano, all’interno di questa prima divisione operata da Madden. Li analizzeremo attentamente.
Gli altri quattro saggi sono i seguenti: The Dilemma of Determinism, The Moral Philosopher and the Moral Life, Great Men and Their Environment e The Importance of Individuals7. Di questi solo il primo ci interessa qui, Degli ultimi due abbiamo accennato nella Parte terza e del secondo faremo solo qualche breve cenno, visto che esso eccede i limiti della fondazione filosofica di una vita morale. Infine rimangono due saggi apparentemente slegati da tutto il resto: On Some Hegelisms e What Psychical Research Has Accomplished8. Del primo parleremo brevemente a proposito della posizione pluralistica di James e dell’ultimo ci occuperemo per cenni soltanto in riferimento alle sue parti più generali, che concernono l’atteggiamento di certi scienziati, psicologi e filosofi nei confronti di determinati fenomeni (tra cui appunto quelli paranormali) che apparentemente sfuggono alle categorie interpretative della scienza.
4.2.2 William James Talking-Writer; stile e sistematicità del pensiero jamesiano Da quanto mostrato sopra, sembrerebbe che i saggi raccolti nella Will to Believe siano troppo eterogenei e questo potrebbe stimolare una critica, come di fatto avvenne e tutt’oggi avviene, nei confronti della mancanza di sistematicità della produzione intellettuale di William James. Ne abbiamo già parlato a proposito dei Principles, anch’essi visti da molti come una ‘miscellanea’ di vari articoli e saggi legati insieme solo superficialmente dalla pubblicazione come capitoli di una medesima opera. Bisogna dunque fare un po’ di chiarezza intorno alla vera o presunta mancanza di sistematicità della produzione intellettuale di William James e per fare questo giova riprendere un tema che abbiamo soltanto sfiorato all’inizio di questo capitolo e cui abbiamo già brevemente accennato parlando dei Principles of Psychology, quello dello ‘stile’ di James: si tratta di due temi strettamente legati, anche storicamente, dal momento che la maggior parte di coloro che hanno criticato la mancanza di
The Dilemma of Determinism venne pubblicato per la prima volta nel 1884 sulle pagine dell’Unitarian Review (22, pp. 193224); The Moral Philosopher and the Moral Life era già stato pubblicato nel 1891 sull’International Journal of Ethics (1, pp. 330-354). 7
On Some Hegelisms venne pubblicato per la prima volta sulla rivista Mind nel 1882 (7, pp. 186-208), mentre il saggio What Psychical Research Has Accomplished è composto da parti dei seguenti articoli: The Hidden Self, “Scribner’s Magazine”, 7 (1890), pp. 361-373, What Psychical Research Has Accomplished , “Forum”, 13 (1892), pp. 727-742 e Address of The President before the Society for Psychical research, “Proceedings of the (Eng) Societry for Psychical Research, 12 (1896), pp. 2-10. 8
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sistematicità del pensiero jamesiano hanno allo stesso tempo sollevato seri dubbi sulla possibilità di fare filosofia à la James, cioè senza quei tecnicismi ritenuti l’ossatura fondamentale di ogni pensiero filosofico e scientifico. In sostanza la tesi è questa: senza un linguaggio filosofico tecnico stabilito e canonizzato è impossibile evitare che le differenti opere di un autore si confondano e si contraddicano a vicenda, perdendo quella chiarezza e quell’idea di ‘sviluppo di pensiero’ che sembrerebbero essere la caratteristica di un ‘buon’ filosofo.
Cominciamo ad affrontare il problema della sistematicità dell’opera di James. L’epoca in cui scriveva William James non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere il tramonto di quella filosofia sistematica che forse è incarnata nella maniera migliore dal pensiero di Descartes. E’ anche vero che molti filosofi continuarono, anche alla fine dell’Ottocento, a produrre dei ‘sistemi’ filosofici; un esempio per tutti è rappresentato sicuramente dall’opera di Rudolf Hemann Lotze, un autore che il nostro autore conosceva bene e che più volte aveva avuto modo di apprezzare e di criticare9. La fortuna dell’opera di Lotze mostra quanto fosse ormai anacronistico però, negli anni in cui James pubblicava le sue opere, cercare di riproporre un’opera sistematica che fosse un coerente ‘blocco teoretico’ inattaccabile, se non nelle sue basi fondative. Giusta questa prospettiva possiamo dire che James era, a buon diritto, un autore non sistematico. Di fatto però la maggior parte della critica che ha accusato James di ‘frammentazione’ fa riferimento a un differente tipo di sistematicità, che potremmo dire ‘debole’ (rispetto a quello ‘classico’ di cui sopra): in breve, le opere di James sarebbero, anche vista la loro genesi (i. e. una raccolta di articoli, saggi e conferenze scritti spesso lungo un esteso arco di tempo10), una ‘miscellanea’ di scritti eterogenei accumulati negli anni e ripubblicati in forma di libro senza sostanziali modifiche e al fine di fare ‘fruttare’, soprattutto economicamente, il lavoro svolto. È qui evidente il legame forte che esiste fra questa ‘accusa’ e la stigmatizzazione del Popular-Lecture Style di William James. bisogna però specificare subito alcune cose: James vedeva la sua produzione filosofica e scientifica (anche) come una fonte di guadagno utile a rimpinguare le insufficienti entrate frutto del suo incarico come professore alla Harvard University; in questa prospettiva, è evidente che un linguaggio troppo tecnico avrebbe notevolmente diminuito il potenziale pubblico di ascoltatori (e poi di lettori) e Perry, facendo riferimento alle opere del James maturo (cui noi faremo solo qualche breve cenno), ricorda come fosse proprio Lotze l’avversario ‘sistematico’ par excellence: Al contrario di James, egli era un grande pensatore sistematico. Nella sua resa dei conti col monismo, James scelse la dottrina monistica di Lotze per la sua confutazione finale. Ma sebbene non ne apprezzasse la dottrina, egli stimava l’uomo che ne era il padre. TCWJ I, p. 587. 9
10 Parte della dispersione e della vaghezza del pensiero jamesiano può essere attribuita a un fatto caratteristico delle sue pubblicazioni: tutte le sue opere eccetto i Principles of Psychology [anche se abbiamo visto che non è affatto così] e la sua versione ridotta, la Psychology, erano o edizioni di conferenze (The Will to Believe, Human Immortality, Talks to Teachers, The Varieties of Religious Experience, Pragmatism, A Pluralistic Universe) o collezioni di articoli (The Meaning of Truth, Essays in Radical Empiricismi). P. K. Dooley, op. cit., p. 4.
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con esso l’onorario di conferenziere. Lo stile ‘popolare’ di James sarebbe perciò strumentale rispetto alla possibilità di ottenere più incarichi e quindi più danaro. Per quanto James fosse ben consapevole degli obblighi di chiarezza e di semplicità che dovevano guidare la penna di un lecturer di successo11, egli aveva in cuor suo motivazioni meno veniali: il compito del filosofo, e non del professore di filosofia, era per il nostro autore prima di tutto quello di riuscire a trattare i temi più universali, quelli che cioè coinvolgono l’uomo qualunque come il filosofo di professione, in una maniera che fosse la più comprensibile al maggior numero di persone. James non fu mai un ‘tipico’ professore di filosofia del New England vittoriano12; anche le testimonianze (soprattutto di studenti) del suo modo di condurre le lezioni rivela come egli fosse prima di tutto interessato a che il proprio uditorio entrasse in sintonia con quello che Bjork chiamerebbe the center of his vision e James riteneva che uno stile troppo tecnico, sebbene utile per difendere13 meglio le proprie teorie dalle critiche dei colleghi, fosse allo stesso tempo motivo di un possibile ‘raffreddamento’ fra professore e studente, fra scrittore e lettore. Un simile risultato sarebbe stato certamente sentito come una vera e propria sconfitta da William James, che riteneva la filosofia prima di tutto un ‘utile strumento’ per qualsiasi uomo che avesse le capacità
D’altronde, gli amici Wright e Peirce gli avevano dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, che per ottenere un qualsiasi incarico pubblico non era sufficiente avere un pensiero originale e coerente. Cfr. supra., p. cap. 4.1, § 2 e § 4. [quando dici che Peirce e soprattutto Wright non riuscirono a inserirsi nel mondo accademico]. I tentativi di introdurre nel mondo accademico di Harvard il suo amico-maestro Charles Sanders Peirce furono decisamente sfortunati: gli studenti difficilmente riuscivano a interessarsi alle sue lezioni troppo ‘tecniche’ e così Eliot — il rettore della Harbard University — si vide costretto a non rinnovare l’incarico a Peirce, che pure aveva un grande bisogno di una stabilità economica e professionale. Mills mette in rilievo la differenza tra la produzione filosofica di James e quella di Charles Sanders Peirce: La maggior parte dei suoi [di James] saggi fu scritta per essere presentata a voce direttamente a [vasti] uditorî. Quelli di Peirce erano per piccoli gruppi, come il Metaphysical Club, o per riviste specializzate; oppure, più probabilmente, finivano per rimanere nel suo cassetto. C. Wright Mills: Sociologia e pragmatismo, a cura e con un’introduzione di I. L. Horovitz, Jaca Book, Milano 1968, p. 214 (tit. orig. Sociology and Pragmatism; The Higher Learning in America, Paine-Whitman Publishers, New Yorkj 1964). Scrive Peirce a James in una lettera del 3 ottobre 1904] [...] è un requisito indispensabile della scienza quello di possedere un vocabolario tecnico riconosciuto, fatto di parole così poco attraenti che i pensatori deboli non siano tentati di utilizzarle. TCWJ II, p 432; e, il 13 Giugno 1907: Ho solo un desiderio, per il tuo bene e per quello delle innumerevoli menti che, direttamente o indirettamente, tu puoi influenzare. E’ che tu, se non è troppo tardi, cerchi di imparare a pensare con maggiore esattezza. Se hai a disposizione una quindicina di giorni, credo di poter fare qualcosa per te, e per il tuo tramite, per il mondo intero. — L’amico, dopo aver lamentato la sua scarsa influenza, aggiunge — la verità è pubblica — e quindi non deve essere “conservata” in un singolo individuo — Ivi, p. 437. James spese molte energie per smussare la spigolosità di Peirce e Peirce cercò sempre di rendere il pensiero di James più rigoroso: entrambi, fortunatamente, fallirono. 11
[James] era uno dei pochi professori di quel tempo che permettevano ai propri studenti di fare domande durante la lezione; per sovrammercato essi potevano anche fermarlo per strada e accompagnarlo a casa continuando la discussione cominciata in classe. G. W. Allen, op. cit., p. 301. Linda Simon ha recentemente fornito testimonianze molto interessanti per chi voglia conoscere da vicino il “professor James”. Cfr. L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., passim. 12
13Ayer,
grande estimatore dell’abilità stilistica di William James, riconosce come questa lo portò spesso ad attirarsi ‘naturalmente’ delle critiche che sarebbero probabilmente mancate se egli avesse cercato di esporre le proprie idee in una maniera rigorosa: James era uno scrittore molto dotato, capace di uno stile vigoroso e di largo respiro, cioè l’opposto di quello di suo fratello , il romanziere Henry James. Ci sono filosofi, come Hume e Russell, che hanno scritto con grande eleganza, ma nessun filosofo dell’epoca moderna può competere con William James per la vivacità e l’ampiezza della sua immaginazione e della freschezza del suo humour. Ma, dal momento che egli ha sempre anelato a un pubblico più ampio di quello solito dei colleghi universitari, egli era sempre più impegnato a presentare le proprie idee in una maniera che potesse stimolare l’immaginazione piuttosto che in modo da armarsi contro le critiche specifiche.. A. J. Ayer, op. cit., pp. 174175.
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intellettuali e la forza (nonché le possibilità materiali) di non farsi trascinare dalla propria vita, ma di esserne un sapiente artefice14. Senza dubbio James a volte soffre della mancanza di quella tecnica che è soprattutto ciò che l’istruzione filosofica formale è in grado di dare. Ma le sue doti naturali, il suo ambiente di famiglia, il campo delle sue relazioni, uniti alla cultura ottenuta mediante i suoi studi resero, nel suo caso, di lieve importanza il difetto di tecnica15. La filosofia come attività accademica disgiunta dalla concretezza della vita, come abbiamo già avuto modo ampiamente di vedere nei capitoli dedicati alla sua travagliata esistenza, era per James un’aberrazione del suo spirito originario, uno spirito che, com’egli giustamente riteneva, non venne mai rinnovato con la medesima forza degli antichi pensatori greci16. James voleva strappare la filosofia dal tempio per portarla nella strada, nelle case, nella vita privata di uomini e donne. La sua intenzione di rendere la filosofia qualcosa di utile sconvolse i filosofi quanto le sue idee17. Scrive lo stesso James a proposito della filosofia che non riesce a rendere conto della pienezza della vita: Si tratta di una mostruosa limitazione della vita, che, come tutte le limitazioni è ottenuta con l’assoluta perdita di ciò che conta. Questo è il motivo per cui così pochi esseri umani si occupano di filosofia. Le determinazioni particolari ch’essa ignora sono le cose reali che determinano i nostri bisogni [...]. Quanto dovrebbe interessarsi di filosofia etica l’entusiasta morale? Perché l’Aesthetik di ogni filosofo tedesco non dovrebbe apparire all’artista un abominio di desolazione18? C’è infine un altro motivo che spiega bene il tentativo jamesiano di dare vita a un pensiero filosofico che, pur non appiattendo la complessità della riflessione (soprattutto rispetto a certi temi di fondamentale importanza, come quello della libertà dell’uomo), fosse in grado di raggiungere il maggior numero di ‘teste pensanti’; James riteneva che ogni pensiero filosofico fosse destinato a inaridirsi
14 Essere un vero filosofo è più che un lavoro, più che una professione. James, possiamo ritenere, avrebbe pensato che si tratta, come per Fichte, di una vocazione. R. J. O’Connell, op. cit., p. 132. 15
J. Dewey, Problemi di tutti, cit., p. 463. Cfr. anche G. Cotkin, op. cit., p. 13.
[...] ciò che egli in fondo cercava di capire e di spiegare in un linguaggio coerente era come un essere umano abbia esperienza nella realtà in cui vive, e che sorta di mondo egli esperisca. G. W. Allen, op. cit., p. 498. 16
17
Ivi, p 501; a questo proposito cfr. anche ivi, p. 516.
18
WB, p. 61.
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velocemente e irrevocabilmente se non fosse messo in continua comunicazione, in un costante scontro dialettico, con altri pensieri. Se noi guardiamo alla storia delle idee, noi vediamo che la tendenza empiristica ha largamente predominato nel campo scientifico, mentre in filosofia ha prevalso la tendenza assolutistica. Quella caratteristica sorta di felicità che caratterizza le filosofie consiste soprattutto nella convinzione di avere definitivamente raggiunto la certezza della verità. “Le altre filosofie sono collezioni di opinioni, per la maggior parte false; la mia filosofia sarà indiscussa per sempre”. Chi non vede qui il fulcro di ogni sistema degno di questo nome? Un sistema, per essere tale, deve essere un sistema chiuso, modificabile in questo o in quel dettaglio forse, ma mai nella sua struttura principale19. Il nostro autore, come abbiamo visto nell’ultimo capitolo, riteneva che le teorie filosofiche, al pari di quelle scientifiche, seguissero un’evoluzione simile per certi aspetti a quella delle specie animali; analogamente dunque le teorie che riuscivano a ‘sopravvivere’ dopo il confronto con altre teorie potevano considerarsi le più ‘adatte’ (alla società, al clima culturale, economico etc.), se non addirittura le ‘migliori’. Ma come per l’evoluzione naturale delle specie è necessario un confronto, che spesso si traduce in una vera e propria lotta, allo stesso modo per le teorie filosofiche. La nota ‘tolleranza’ di James, che rivela un profondo rispetto anche per il pensiero a lui più distante, non si limita dunque a un contegno ‘liberale’, ma rivela la profonda convinzione, filosofica prima che morale, che solo attraverso un costante confronto fra le diverse scuole filosofiche e scientifiche e, più concretamente, solo attraverso un costante dibattito fra diversi pensatori, sia possibile un reale sviluppo della riflessione filosofica, psicologica e scientifica20. Questo atteggiamento è testimoniato da molti degli scritti di James 19
Ivi, p. 21.
In un certo senso è altamente fuorviante parlare della prospettiva jamesiana come di qualcosa di “aperto”, pluralistico e tollerante. In verità, la sua multicolore immagine del mondo negava le due grandi tradizioni filosofiche del secolo decimo nono, empirismo e idealismo, sostenendo che nessuna delle due era in grado di racchiudere la ricchezza del mondo. D. Bjork, op. cit., p. 266. Ma Bjork qui cade nell’ingenuità di ritenere che una ‘tolleranza’, o meglio il rispetto di un autore per altre dottrine filosofiche o più genericamente per altre Weltanschauungen debba tradursi in un eguale apprezzamento di esse e in una ‘parificazione’ con il suo proprio pensiero. Non c’è dubbio che James pensava che la sua filosofia fosse ‘migliore’ di altre filosofie (sebbene l’opposizione che Bjork individua con l’empirismo sia ben diversa da quella, molto più sentita dal nostro autore, con l’idealismo), ma è altrettanto indubbio che James non pensava che la sua filosofia dovesse imporsi in base a un qualche principio di autorità: sarebbe stata la storia, e non i proclami dei singoli filosofi, a decidere quale filosofia sarebbe stata ‘migliore’ e cioè più adatta a soddisfare le esigenze (tutte le esigenze) della persona e della società. Certo, anche questo è un metro di giudizio parziale, ma, proprio giusta la filosofia di James, non potrebbe essere altrimenti. Pace Bjork, James riteneva che solo attraverso un costante dialogo tra le varie correnti di pensiero, la filosofia avrebbe potuto compiere effettivamente dei progressi (giudizio questo che di certo non era condiviso nemmeno dalla maggior parte dei suoi contemporanei e che raramente aveva informato il recente dibattito filosofico): La più libera competizione delle varie fedi, l’una con l’altra, e la loro più aperta applicazione alla vita in differenti casi, rappresentano le condizioni migliori per cui possa darsi la sopravvivenza della [fede] più adatta. WB, p. 8. Ma se questo vale ‘a posteriori’, c’è anche un motivo ‘a priori’ per cui James non può che essere veramente tollerante e aperto alle altre filosofie: per James la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomini; anche l’idealista, per quanto James possa non apprezzarne la filosofia, ha il pieno diritto di sentire soddisfatte le proprie esigenze per il tramite di un pensiero che ad altri potrebbe apparire irrazionale o addirittura immorale: anche il monista ha le sue ragioni e anche le sue sono ‘ragioni del cuore’; Per alcuni il mondo sembra più razionale se contiene la possibilità; per altri se la possibilità n’è esclusa. In entrambi i casi gli uomini rispondono alle esigenze soggettive della propria natura. Nessuno dei due ha un’evidenza oggettiva in proprio favore [...]P. K. Brennan, op. cit., p. 34. Sembra 20
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che nacquero proprio come dei tentativi di replica a opere ch’egli riteneva degne di essere lette e di essere criticate21. Gli ideali di James erano generosi. Poco gli importava di vedere prevalere la sua visione personale piuttosto che di vedere la filosofia avere un’influenza reale nella vita delle persone. Egli bramava di vedere il giorno in cui i sostenitori di una determinata dottrina filosofica avrebbero riconosciuto che la migliore garanzia per il suo valore non sta nella loro abilità nel difendere le proprie affermazioni contro tutti, ma nel potere di ispirare un desiderio per una conoscenza in costante crescita, in una più grande liberalità, in una vita più coraggiosa. Il suo atteggiamento era a un tempo un appello contro l’indifferentismo e per il riconoscimento di un terreno comune di tutte le correnti di pensiero. In questo senso il pragmatismo era animato da uno spirito di mediazione e di conciliazione e questo era uno degli interessi più grandi di James22. A questo punto occorre però sottolineare che James fu in qualche misura responsabile di molti dei fraintendimenti cui le sue opere andarono incontro nel corso degli anni. Forse il nostro autore non si era reso inizialmente conto del fatto che quello stile scevro di tecnicismi, che tanto affascinava gli studenti che seguivano le sue lezioni e i pubblici che affollavano le sue conferenze23, non poteva quasi che Bjork pretenda, per considerare ‘aperta’ la filosofia di James, che questi abbracci l’idealismo come poi dovrebbe fare con il pragmatismo l’idealista. Uno scenario abbastanza singolare sul quale muovere una critica alla ‘supposta’ tolleranza di James...C’è infine da ricordare che, proprio in ragione dello stretto legame ch’egli scorgeva fra vita e filosofia, William James ebbe sempre un atteggiamento ‘tollerante’ (per quanto poco questa parola possa restituire il calore ch’egli metteva in ogni relazione umana) nei confronti di chiunque (e anche in questo caso venne spesso accusato di eccessiva ‘ingenuità’): Egli era convinto che il primo passo verso un miglioramento delle relazioni individuali risedesse nell’acquisita capacità di ogni persona di simpatizzare con la realtà intima, i “segreti vitali”, di individui differenti. G. Cotkin, op. cit., p. 142. 21 Molti dei saggi raccolti nella Will to Believe furono scritti proprio come ‘repliche’, ma è difficile trovare nelle pagine di William James una critica che non superi, almeno nelle intenzioni, quella polemica ad personam in cui molti autori cercarono di trascinarlo. La raccolta dei saggi nella Will to Believe e ancora di più in Pragmatism trova dunque la sua ragione principale non nel tentativo di ‘far fruttare’ articoli e saggi precedentemente scritti, ma nel tentativo di porre all’attenzione della comunità scientifica e filosofica un pensiero che probabilmente avrebbe avuto molta meno forza (e avrebbe di certo suscitato molto meno critiche) se fosse rimasto ‘frammentato’ sulle pagine di differenti riviste nell’arco di molti anni. 22
J. J. Putnam, “William James”, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., p. 10.
Molti dei suoi articoli e delle sue conferenze, sebbene non propriamente popolari nel tono e nell’argomento, erano appositamente prive di tecnicismi e così ottennero una vasta attenzione. Ibidem. James fu molto eclettico anche nella scelta dei pubblici cui destinava le proprie conferenze; al proposito Mills fornisce un interessante elenco: I pubblici per i quali James compose molti dei suoi saggi includono questa lista rappresentativa: i club filosofici di Yale, Brown, e Harward, la YMCA (Young Man Christian Association) di Harvard, lo Unitarian Minister Institute di Princeton, i Divinity Students di Harvard, e la National History Society di Harward. C. Wright Mills, op. cit., p. 191. Non bisogna però cadere nel facile errore di pensare che James scrivesse le proprie conferenze per un pubblico ‘qualunque’; è vero proprio il contrario. Nella Prefazione alla Will to Believe James egli è in proposito molto chiaro: riconosce infatti che la necessità di difendere una credenza fondata sulla fede (e non comunque esclusivamente su una fede religiosa) può essere ben poco sentita da chi già eccede in credulità. Il nostro autore si rendeva ben conto che gran parte delle persone vivono la propria vita sostenendosi su convinzioni niente affatto giustificate e che spesso si riscontra una carenza di scetticismo e di ricerca piuttosto che di fede; probabilmente queste persone avrebbero avuto bisogno di ascoltare le conferenze di un Clifford o di un Huxley piuttosto che quelle di William James, ma il pubblico cui quest’ultimo si rivolgeva era tutt’altro che ‘credulone’ e disposto ad accettare qualsiasi teoria scientifica o convinzione morale su basi differenti da quella della verificabilità scientifica. Scrive James: Ma il pubblico accademico ha delle esigenze radicalmente differenti [dall’uomo normale]. La paralisi della loro innata capacità di avere fede e la timorosa abulia nel campo religioso sono le sue speciali forme di debolezza mentale, fondate dalla nozione, accuratamente instillata, che c’è qualcosa che si chiama evidenza scientifica che bisogna attendere per sfuggire il pericolo di perdere la verità.. WB, p. 7. L’obiettivo principale della Will to Believe era di combattere l’agnosticismo alimentato dalla 23
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ugualmente soddisfare le esigenze dei filosofi ‘di professione’24 e, a prescindere dal valore (spesso indiscutibile) delle critiche che questi mossero all’imprecisione dell’argomentazione filosofica di William James, rimane il fatto che questi avrebbe dovuto rendersi conto della problematicità del riprodurre, senza alcuna variazione sostanziale, un testo nato per un pubblico ben preciso all’attenzione di un pubblico differente e certamente più ‘esigente’, almeno da un punto di vista formale. Insieme con O’Connell Bisogna riconoscere che lo stile di James ha lavorato a favore e contro di lui allo stesso tempo, e mai più chiaramente che in The Will to Believe25. Lo stesso James, come abbiamo già ricordato, solo negli ultimi anni di vita — e proprio in seguito ai numerosi fraintendimenti cui dette vita la pubblicazione di Pragmatism nel 190726 — si renderà conto della necessità di superare il proprio squash poular-lecture style, per pubblicare un’opera che fosse il suo ‘testamento filosofico’, un’opera scritta per essere letta e non per essere ascoltata, un’opera in cui anche lo stile fosse adeguato all’esigenza di ‘sistematizzare’ un pensiero che sembrava essere, pur nel successo raggiunto, sempre fonte di incomprensioni e di fraintendimenti27.
scienza contemporanea e dal determinismo filosofico. G. W. Allen, op. cit., p 376. A proposito del pubblico cui venne rivolta la teoria della volontà di credere cfr. R. J. O’Connell, op. cit., p. 7. Bisogna infine ricordare che, al contrario di quanto potrebbe sembrare a tutta prima, James era tutt’altro che disposto a credere facilmente; le parole della Will to Believe sono rivolte prima di tutto a se stesso. Come ricorda Madden: E’ un grosso errore quello di credere che James difendesse la credenza in ciò che si vuole e questo porta ad accrescere la nostra felicità o se semplicemnte soddisfa dei nostri desideri. [...] Se James eccedeva in qualcosa, era nello scetticismo, piuttosto che nella credulità. WB, p. xxxviii. Questo è anche facilmente comprensibile se si tiene a mente la formazione intellettuale di James e la sua stessa meticolosità nel soppesare le differenti ipotesi scientifiche: Sebbene sottolineasse la passione e l’intuizione, James rimaneva un seguace del metodo scientifico. G. Cotkin, op. cit., p. 80. A questo proposito, giova ricordare che alcuni criticarono la teoria jamesiana della volontà di credere non perché essa era troppo propensa ad affidare alla fede quello che invece doveva essere sottoposto all’autorità dell’evidenza scientifica, quanto piuttosto perché essa faceva riferimento a un’idea di fede troppo ‘debole’: Chapman accusò infatti James di avere costruito una fede troppo giustificata ed elaborata per essere veramente fede. Cfr. TCWJ II, p. 237. Purtroppo, molte volte il ‘famoso’ (quanto fuorviante) eclettismo di James è stato confuso con una sua supposta tendenza a dare troppa fiducia (sia umanamente che intellettualmente) a personaggi ambigui, a movimenti marginali e a teorie assolutamente ingiustificate sul piano scientifico; viene comunemente citata la ‘passione’ di James per la ricerca sui fenomeni paranormali e la sua assidua frequentazione di eccentrici personaggi (medium, guaritori etc) di dubbia moralità. Anche in questo caso le accuse di ingenuità (se non di peggio) che vengono ancora oggi rivolte al nostro autore sono il frutto di una conoscenza solo superficiale della sua attività di ricercatore in un campo ‘oscuro’ come quello del paranormale, dei fenomeni telepatici, della previsione del futuro etc. Ma, anche rispetto all’esigenza di soddisfare un pubblico più specialistico, James fu in parte responsabile di alcuni fraintendimenti. Madden, nella sua esauriente Introduzione, ricorda come James, nel tentativo di rispondere a tutte le critiche, spesso accentuava una elemento piuttosto che un altro della sua teoria a seconda dell’interlocutore. Come si ricorderà, questo atteggiamento fu foriero di incomprensioni e di ambiguità anche nella stesura dei Principles of Psychology:: James era una di quelle persone che cercano di piacere a tutti e perciò non piacciono a nessuno. WB, p. xxiv. 24
R. J. O’Connell, op. cit., p. 23. Cotkin, sempre attento al contesto culturale e scientifico in cui lavorava James, sottolinea anche come lo stile jamesiano fosse particolarmente eterodosso nella seconda metà dell’Ottocento: James era un filosofo che [...] si occupava di temi filosofici in un’era in cui il linguaggio tecnico e scientifico della filosofia cresceva in una maniera sempre più precisa e astratta. G. Cotkin, op. cit., p. 123. 25
26 La teoria di James [sulla verità] suscitò immediatamente delle reazioni critiche. Questo era in parte dovuto al fatto che si trattava di una teoria nuova e in parte al fatto che fosse stata esposta in un linguaggio non tecnico. P. K. Dooley, op. cit., p. 122. Smith riconosce che spesso le critiche all’argomentazione filosofica di James non erano del tutto ingiustificate: Come Dewey e altri hanno fatto rilevare, egli spesso esprimeva le proprie idee in una maniera incauta. J. E. Smith, op cit., p. 46. 27 Sarebbe comunque un grandissimo errore ritenere il popular style di James il frutto di un ‘ispirato’ stream of thought che lascia poco o nessuno spazio all’attenzione per la parola scritta. James non scrisse mai currenti calamo e nemmeno a una
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James stesso si rendeva ben conto che tutti i suoi scritti filosofici erano poco tecnici, e cercò così di scrivere una versione formale e sistematica delle sue posizioni raccolte nei volumi informali, un compito ch’egli non riuscì a completare visto che era a lui poco congenialei. Ci sentiamo di condividere la conclusione di Madden (peraltro abbastanza pacifica), e cioè che James non riuscì a pubblicare una “versione formale e sistematica” del proprio pensiero non perché non ne ebbe il tempo, ma perché questo avrebbe significato stravolgere il suo proprio modo di fare filosofia che attraverso tanti anni aveva sviluppato28. Per tornare dunque alla critica di mancanza di sistematicità della produzione jamesiana possiamo dire che certamente James non era un autore sistematico nel senso ‘forte’ (come d’altronde non lo fu nemmeno un altro grande autore dell’Ottocento, maestro di stile, Friedrich Nietzsche), ma allo stesso tempo dobbiamo dire che le sue opere non rappresentano affatto il frutto di sapienti collages di scritti precedenti ed eterogenei, ma il coraggioso (per quanto a volte ingenuo) tentativo di portare all’attenzione di un pubblico ancora più vasto quelle riflessioni che, attraverso il costante riferimento a certi temi (come quello della credenza, del rapporto fra metodo scientifico e metodo soggettivo, della lettura superficiale può sfuggire la passione e l’attenzione che l’autore metteva nello stile espositivo del suo pensiero; al proposito sono preziosissime le parole di chi conosceva personalmente William James. Scrive Palmer: La sua ricerca per la parola giusta era incessante come quella di Flaubert. Infatti i suoi manoscritti sono pieni di correzioni. G. H. Palmer, “William James”, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., p. 32. L’attenzione di James per la forma stilistica che spesso avvicina le sue opere alla letteratura (soprattutto per l’immediatezza dell’espressione e per il felice uso di metafore e similitudini: cfr. TCWJ I, p.129) non deve però far dimenticare che egli era ben consapevole della differenza profonda fra filosofia e letteratura, una differenza che, insieme agli altri motivi che abbiamo ricordato nei primi capitoli, non poteva che allontanarlo ancor più dalla filosofia paterna: William James non poteva andar d’accordo con la filosofia dei contemporanei di suo padre, che deducevano direttamente dalle sole analogie, che prendevano le metafore alla lettera, producendo così un miscuglio di poesia e scienza che non era né l’una né l’altra. TCBV, p. 39. Non bisogna poi dimenticare che la fluidità dello stile jamesiano si rivelò di grande efficacia anche nell’unico testo che James scrisse con un linguaggio tecnico ben preciso, i Principles (a questo proposito cfr. ivi, p. 46). Anche in questo caso però le critiche non mancarono: William Dean Howells scrisse sul n° 33 dell’Harper’s Magazine (1891) che Si deve ammettere che egli [James] si è pericolosamente avvicinato alla stesura di un libro popolare; cit. in B. Ramsey, op. cit., p. 151. Il Perry attribuisce poi l’origine dell’attenzione di James per lo stile alla sua giovanile formazione artistica; si tratta di un’ipotesi da abbracciare nel suo spirito, anche se non bisogna mai dimenticare che lo stile espositivo fu per James sempre uno strumento consapevole e non il frutto ‘naturale’ di un certo tipo di educazione: Egli mantenne una sensibilità artistica, e qualcosa del distacco dell’artista. Egli curò lo stile dei suoi scritti filosofici e scientifici, e restava deluso dalla sua assenza in altri autori. Ivi, p. 62. Cfr. anche G. W. Allen, op. cit., p 198. Anche Dooley sembra ricondurre l’incapacità di James di portare a compimento una rigorosa opera filosofica a una sua ‘naturale avversione’ verso il pensiero rigoroso: Probabilmente una valida spiegazione della imprecisione presente nel pensiero di James sta nel fatto che egli sentiva una naturale avversione per il pensiero rigoroso. P. K. Dooley, op. cit., p. 5. Disse James: Uno stile tecnico per un argomento filosofico rappresenta certamente un crimine per l’intera razza umana! TCWJ II, p. 387; e ancora: Le “meraviglie” della scienza su cui fu scritta tutta un’edificante letteratura popolare , valgono quanto la stoppa per uomini di laboratorio. Ed anche la stessa divina Filosofia, che la comune dei mortali considera un’occupazione così “sublime” vista la vastità dei suoi dati e del suo orizzonte , è troppo atta per il filosofo pratico stesso a divenire un semplice affare di puntini e di lineette, di viti di precisione, o di equilibrio, un’arte di smontare le cose complesse, e di “intendere” anziché di “estendere” la concezione. PP, p. 1086. In James, che si interessava dello stile più della maggior parte dei filosofi, e che produsse dei testi filosofici che sono allo stesso tempo opere letterarie, l’unità di forma e contenuto è particolarmente evidente ed è perciò importante per comprendere il suo pensiero. WB, p. x. Al proposito cfr. anche G. Cotkin, op. cit., p. 180, n. 43 e id., William James and the Cash-Value Metaphor, “ETC: A Review of General Semantics”, 42 (1985), p. 37 (l’articolo tratta dei difetti e dei meriti dello stile jamesiano). 28
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libertà dell’uomo e tanti altri) che tanto avevano affascinato un già ampio pubblico di attenti ascoltatori29. Sebbene James non avesse certamente un orrore cartesiano per i “pensieri staccati” e sebbene ci fosse in lui poco di quello che George Santayana chiamava “istinto architettonico”30 possiamo dire che la sua opera è unitaria, possedendo una coerenza interna in cui è inclusa anche la realtà del ricercante. Lo stesso James aveva ben chiari in mente quanti e quali fossero i pericoli di una filosofia che, per rifiutare una sistematicità old-fashioned, diventasse per contro frammentaria. Trattando della filosofia di Alexander Bain, James scrive:
Il difetto che troviamo in lui è la sua frammentarietà e la conseguente incoerenza. La frammentarietà, — la disponibilità a definire qualcosa soltanto quando se ne scorge l’esigenza del momento — è diventata una tale tradizione nella storia della mente britannica che i filosofi che, come Spencer, sono completamente sistematici sono visti poi con sospetto e disapprovazione da molte menti anglosassoni. Questa posizione estrema è certamente scorretta, poiché il vero impulso che definisce il filosofo in quanto tale è quello di cercare di ottenere una completezza coerente; e ogni forte tentativo di elevare un forte sistema di pensiero
29 Sini è spesso molto critico nei confronti dello stile filosofico jamesiano (inteso qui come modus philosophandi piuttosto che come stile filosofico-letterario): Con James si resta per lo più alla superficie, e anzi si gira in circolo. Ritrovando spesso quei problemi che si erano poc’anzi abbandonati: essi si ripresentano implacabili come rimorsi. [...]E’ davvero straordinario scoprire come James abbia sfiorato un numero incredibile di idee e di intuizioni che la filosofia del nostro secolo avrebbe finito per considerare come i suoi più importanti temi di ricerca. C. Sini, op. cit., p. 13. Per quanto questo brano non sia certamente privo di parole di elogio per il filosofo americano, è evidente che prevale una forte critica nei confronti dell’incapacità di James di ‘concludere’ il proprio pensiero; si tratta di una critica fondamentalmente giusta, e lo stesso James si accorse, forse troppo tardi, di non essere riuscito a dare del proprio lavoro un’immagine più omogenea, ma è forse altrettanto vero che il fascino del nostro autore consiste proprio nel ridiscutere, secondo angolature differenti, lo stesso tema che, pur riproponendosi implacabile come un rimorso, non lascia mai il lettore in quella serena certezza di avere definitivamente compreso il pensiero dell’autore. Rimane però il fatto che il critico che si accinge a spiegare la filosofia jamesiana (anche solo rispetto a un tema molto limitato) si trova di fronte alla notevole difficoltà di ‘stabilizzare’ un pensiero che è per sua natura dinamico, una difficoltà che cresce quanto più si cerca di comprenderlo in tutte le sue sfumature: Se c'è un tratto caratteristico dello stile di pensiero di James è proprio questa sua felicità intuitiva, questa sua genialità nel cogliere spunti e prospettive originali, per subito dopo abbandonarli o, più spesso, annacquarli in prolisse considerazioni di psicologia spicciola o di filosofia popolare delle quali infarcisce tutte le sue opere. In James prevale sempre lo stile del "conferenziere" e il gusto per il "gioco intellettuale", come diceva suo fratello Henry. Ivi, p. 286, n. 67. Dooley, pur riconoscendo nell’opera di James gli stessi difetti rilevati da Sini, sembra essere meno pessimista: Nonostante ciò, avere a che fare col pensiero di James non è un’impresa così ardua. Solo, è importante essere consapevoli del carattere della sua opera. Egli non è un filosofo che comincia con precise definizioni e procede poi attraverso argomentazioni sistematiche. Al contrario, James parte fornendo molti esempi e, dato quel contesto, gradualmente giunge a delle generalizzazioni, a delle conclusioni. P. K. Dooley, op. cit., p. 6. Vale la pena di riportare qui anche la dura critica che Sini muove a James a proposito di Pragmatism, forse l’opera del filosofo americano che più di tutte suscitò vaste e incessanti polemiche; come abbiamo già rilevato, James commise l’ingenuità di pensare di potere ‘trasferire’ sic et simpliciter parole scritte per essere ascoltate in un’affollata conferenza in un testo fatto per essere letto e studiato attentamente: Pragmatism è un'opera prolissa e sovente enfatica, anche perché riproduce fedelmente lo stile di un'esposizione fatta per essere pronunziata di fronte ad un ampio uditorio, anziché letta in privato dal singolo studioso. C. Sini, op. cit., p. 337. Sempre a proposito dello stile jamesiano e della sua responsabilità nella serie di equivoci e fraintendimenti che seguirono alla pubblicazione delle sue opere, cfr. ivi, p. 347. Allen, in alcuni passi della sua biografia, riconduce l’incapacità di James — più volte sottolineata da Sini — di ‘completare’ il proprio pensiero a una generale difficoltà a portare a termine i propri compiti; gli scritti di James sarebbero così la testimonianza scritta di una sua caratteristica personale: [...] egli era poco sistematico e non riusciva facilmente a seguire un programma prestabilito, cosicché spessissimo i suoi progetti non erano portati a termine a tempo debito. G. W. Allen, op. cit., p 379. 30
B. Ramsey, op. cit., p. 36.
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possiede uno stile intellettuale che è, considerato da un punto di vista estetico, per non dire del resto, molto più nobile del materiale buttato giù goffamente da Bain31.
4.2.3 Le ‘opzioni genuine’ e la volontà di credere James si trova di fronte al problema della fede, della giustificazione di credenze che debbono essere assunte sullo sfondo dell’inverificabile, che vanno al di là di quanto è effettivamente osservato ed esperito, ed è questo il problema che discute nel saggio La volontà di credere (1896) che costituisce il primo capitolo del libro32. Come abbiamo detto, dei dieci saggi raccolti nella Will to Believe, solo uno tratta esplicitamente del tema della libertà e del determinismo33, ma il primo, e il più famoso, quello che dà il titolo a tutta la raccolta, è fondamentale per comprendere William James come ‘filosofo della libertà’, proprio perché la credenza nella libertà del volere umano — che, abbiamo visto nella terza parte dedicata a James ‘psicologo della libertà’, non è giustificabile da un punto di vista squisitamente scientifico — rientra a pieno titolo in quelle credenze che non possono essere abbracciate su un piano puramente intellettuale, che non possono essere dimostrate vere, ma che richiedono un atto di vere e propria fede da parte dell’uomo.
Noi siamo qui interessati ad analizzare la maniera in cui James riesce a portare la credenza nella libertà dell’uomo all’interno di una razionalità sconosciuta all’empirismo tradizionale e ancor di più a quello positivistico: quella razionalità che comprende l’uomo nei sue desideri, nelle sue passioni e nelle sue
31 W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 322 Interessa poi notare che James attribuisce proprio alla sistematicità del pensiero di Renouvier il merito di avere affrontato in maniera più corretta il tema della libertà. Cfr. ivi, p. 323. Ma non solo, Renouvier si dimostra superiore all’empirismo inglese — in questo saggio incarnato dalla figura di Alexander Bain — anche per la sua capacità di superare la frammentazione del nominalismo incapace di ‘ricomporre’ il mondo dopo averlo separato nelle sue parti: La polemica di Renouvier contro le nozioni metafisiche di sostanza, di infinito e delle idee astratte ci sembra essere molto più potente di quanto scritto in inglese sull’argomento: ma egli differisce dai suoi colleghi [nominalisti] inglesi dando un grande risalto alle leggi che governano i fenomeni oltre che ai fenomeni stessi. Ivi, p. 313. Abbiamo già accennato nella terza parte al (supposto) nominalismo jamesiano; questo brano dovrebbe fare riflettere intorno alla possibilità che la posizione filosofica del nostro autore fosse difficilmente classificabile come nominalistica; per quanto l’argomento sia eccentrico rispetto agli scopi della nostra tesi, mette conto qui di citare le parole di Perry in proposito: James non fu mai (nonostante le critiche di Peirce) un ferreo nominalista. Egli mostrò infatti che Locke, riconoscendo il potere della mente di formarsi idee generali, era un realista, piuttosto che un nominalista. Egli stesso andò oltre Locke nella sua enfasi sulle idee generali, fino ad abbracciare una prospettiva realistica, come quando in un seguente periodo parlerà di concetti come di “realtà di un nuovo ordine”. TCWJ I, p. 547. 32
G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., p. 85.
Tutti i saggi hanno però di mira le conseguenze del pensiero deterministico: Composta tra il 1879 e il 1896, la Will to Believe cerca di mettere in luce l’arroganza della scienza e di celebrare il potere delle credenze religiose e morali, combattendo [...] le filosofie deterministiche che imprigionavano molti dei contemporanei di James nell’irresolutezza. G. Cotkin, op. cit., p. 79. 33
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esigenze34. Ma questa scelta, fra la libertà e la necessità della volontà dell’uomo non è poi che il culmine (e il fondamento al tempo stesso) di una scelta più ampia: la scelta fra l’atteggiamento del materialista e quello di chi assume una costituzione morale del mondo. Per il materialista questo mondo è Una bruta semplice presenza, un’esistenza de facto nel quale la cosa più profonda che si può dire è che si dà il caso che ci sia. Per il moralista invece i beni realizzati arricchiscono realmente l’universo, i mali lo impoveriscono e lo deteriorano, la moralità non è una fola, ma ci è richiesta dal più profondo dell’essere35.
Scegliere fra libertà e determinismo significa per James scegliere fra etica morale ed etica prudenziale, fra meliorismo e pessimismo e questo mostra che il tema della libertà è per James qualcosa di più di un ‘classico’ problema filosofico e la sua ‘soluzione’ (in favore di una volontà libera, spontanea, creatrice) non rappresenta nella sua filosofia una ‘conclusione’: di fatto essa è la premessa maggiore per la costruzione fondata di una filosofia che abbia l’uomo al proprio centro, di una filosofia che giustamente è stata chiamata umanistica36. Il pessimismo afferma che tutto è male, l’ottimismo afferma che tutto è bene, e come tali essi sono facilmente confutabili: Il mondo, dice James, contiene beni sufficienti a confondere il pessimista e mali sufficienti a confondere l’ottimista. Il moralismo che si è descritto si configura sotto questo riguardo come “migliorismo” o ottimismo ipotetico e morale, che è al di là del pessimismo e dell’ottimismo e che del pessimismo non è il contrario né il contraddittorio37. Questo brano di Riconda è per noi utilissimo; chi legga le opere di James — soprattutto i saggi come Is Life Worth Living? e lo stesso The Will to Believe, ma soprattutto chi poi conosca profondamente la sua vita e gli sforzi ch’egli dovette sostenere per vincere i propri ‘demoni’ — difficilmente potrebbe pensare che James non sia un ottimista, e dei più convinti, ma non è così: per James ogni dottrina ottimistica ha dimenticato proprio l’importanza che ha l’uomo, come protagonista attivo, nel determinare il corso degli eventi. La libertà dell’uomo si rivela infatti, tragicamente, anche nella possibilità di aumentare il male del mondo, una possibilità che è costitutiva dell’idea stessa di libertà del volere; ottimistica è la 34 Fra queste, forse l’esigenza più importante riconosciuta da James è quella di un mondo morale; non di un mondo più ‘buono’, ma ove il Bene sia una concreta possibilità, per cui vale la pena di lottare e il Male non sia una triste necessità. 35
G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., p. 83.
Patrick Dooley ha dedicato un intero libro, molto bello, all’umanismo di James; ne parleremo ancora in seguito, per ora ci basti riportare poche sue parole, che ci sentiamo totalmente di condividere: Per James umanismo vuol dire che è impossibile eliminare l’elemento umano anche dai ragionamenti più astratti [...]P. K. Dooley, op. cit., p. 1. Ma non solo: In un tale mondo pluralistico e melioristico, l’uomo determina il futuro del mondo attraverso l’esercizio della sua libertà. Nella sua metafisica matura poi, James articola l’umanismo nel classico senso di concepire l’uomo come il centro dell’intera realtà. Ivi., p. 3. 36
37 G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., p. 84. Noi alla traduzione di Riconda del jamesiano meliorism con “migliorismo” preferiamo il termine “meliorismo”.
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filosofia di Spencer, ma per James non c’era dottrina che più di quella spenceriana strappava all’uomo le sue più profonde qualità, ovvero quelle morali. James avrebbe in fine abbracciato una concezione dell’universo in cui la libertà regna suprema e in cui l’individuo accetta coraggiosamente la responsabilità dell’azione. Sebbene in un tale universo la certezza del successo non era affatto garantita, almeno esso garantiva la possibilità all’individuo di essere padrone delle proprie azioni38. James può dunque essere definito un sostenitore dell’ottimismo solo se se ne riconosca l’ipoteticità e la moralità. Ma che cosa dobbiamo intendere per ottimismo ‘ipotetico’? Già nel 1875, in una recensione a Der moderne Pessimismus di Edmund Pfleiderer, scriveva James: Tutto ciò che asserisce è che i fatti del mondo sono una base possibile per il summum bonum, se noi facciamo la nostra parte e reagiamo a essi come dovremmo (con forza, per esempio e un’onesta speranza). Il mondo è così assolutamente buono solo in un senso potenziale o ipotetico, e la forma ipotetica della credenza ottimistica è proprio la cifra della sua validità, e la prima condizione della sua probabilità39. Ora, il problema di James è questo: se non esiste una certezza razionale per sostenere l’atteggiamento ottimistico (morale) o quello pessimistico, ma non esiste di fatto una ‘terza via’ come possiamo scegliere? Se dobbiamo abbracciare una credenza o l’altra, ma siamo privi di certezze, come dobbiamo agire? Il saggio sulla “volontà di credere” cerca di rispondere proprio questa domanda; James si trova cioè di fronte al problema della fede, della giustificazione di credenze che debbono essere assunte sullo sfondo dell’inverificabile, che vanno al di là di quanto è effettivamente osservato ed esperito40.
Noi seguiremo attentamente l’esposizione dela linea argomentativa jamesiana — cui abbiamo già fatto riferimento indirettamente trattando del pensiero di Renouvier — ponendo particolarmente attenzione alla possibile applicazione della teoria jamesiana della belief alla credenza nella libertà dell’uomo e non solo perché questo è l’argomento principale della nostra tesi: la libertà della volontà è la facoltà che fa
38
G. Cotkin, op. cit., p. 57. In breve, il ‘successo’ per James sta già nel rendere l’uomo libero (nel Bene come nel Male).
39 W. James, Der Moderne Pessimismus, in ECR, p. 313. (in CER l’articolo si trova sotto il titolo di German Pessimism alle pp. 12-19). Poche righe prima James ipotizzava l’esistenza di un ordine “più profondo” di quello offertoci dalla scienza positivistica affermando che, se quest’ordine — questo possibile ordine morale — può farci scampare dal pessimismo, esso deve essere seguito, perché l’atteggiamento pessimistico, per il nostro autore, non può che risultare innaturale alle tendenze dell’essere umano e quindi solo una sua evidenza oggettiva, che però non esiste, può farci abbracciare una dottrina pessimistica piuttosto che ottimistica (e qui ovviamente si intenda l’ottimismo ipotetico o morale e non l’ottimismo à la Spencer, né l’ottimismo sentimentalistico). 40
G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., p. 85.
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dell’uomo quel soggetto attivo che caratterizza non solo la filosofia morale e religiosa di James, ma anche la concezione interazionistica emersa dalla lettura dei Principles. Inoltre, la libertà è ciò che effettivamente ci permette di appropriarci delle nostre credenze, che fa della nostra credenza un atto spontaneo, creativo, di cui noi, come uomini, possiamo ritenerci veramente responsabili. James sembra qui prestare il fianco alle critiche chi voglia fare di questo strettissimo legame fra credenza e libertà un circolo vizioso capace di minare le fondamenta del suo pensiero più squisitamente filosofico. Come vedremo alla fine, la grandezza di James è stata quella di fare di questo possibile ‘circolo vizioso’ un reale ‘circolo virtuoso’.
Stasera vi leggerò una specie di sermone sulla giustificazione attraverso la fede, intendo un saggio sulla giustificazione della fede, la difesa del nostro diritto di adottare un atteggiamento di credenza riguardo alle questioni religiose, nonostante il parere contrario del nostro intelletto puramente logico. “La volontà di credere” è perciò il titolo di questo scritto41. James, prima di esporre la propria argomentazione in difesa di una credenza non supportata da ragioni squisitamente intellettuali, introduce una serie di “distinzioni tecniche”. La prima distinzione è quella fra ipotesi vive e morte: Chiamiamo ipotesi qualsiasi cosa che sia proposta alla nostra credenza; e, come gli elettricisti parlano di fili vivi e morti, così noi parleremo di ipotesi vive o morte42. Fuor di similitudine, un’ipotesi è viva quando appare come una reale possibilità a colui cui viene proposta. James fa l’esempio del Mahdì. La credenza nel Mahdì è per James un’ipotesi morta agli occhi di un occidentale. Ovviamente per un Arabo le cose stanno diversamente: nel suo caso l’ipotesi è viva e interrogarsi intorno alla sua esistenza, a prescindere dalla credenza che ne conseguirà, ha senso. La 41 WB, p. 13. James, per quanto sia qui molto chiaro nel dichiarare le proprie intenzioni, sembra subito ingenerare una certa confusione nel lettore: egli parla della difesa di un diritto (a credere), ma poi dice che, conseguentemente, lo scritto si chiamerà la volontà di credere; a una prima lettura questa incongruenza potrebbe sembrare poco importante o addirittura sfuggire all’attenzione del lettore, ma è altrettanto vero è che molte delle critiche rivolte a James dopo la pubblicazione della Will to Believe riguardarono proprio la giustezza del titolo; di fatto lo stesso James fu più volte in dubbio, come poi accadrà anche per Pragmatism, riguardo al titolo da dare al proprio primo testo filosofico e, come vedremo, egli si pentirà in seguito più volte della scelta fatta. Come abbiamo detto, tratteremo in seguito della coerenza del titolo della Will to Believe con il suo contenuto (autori come Wernham hanno addirittura scritto un intero saggio che ruota intorno a questo problema), ma ci sia concesso fin d’ora di dire che per quanto queste critiche siano spesso giustificate, e foriere di interessanti approfondimenti sulla teoria volontaristica di James (anche rispetto alla sua ‘gestazione’, che durò quasi un ventennio), esse rimangono del tutto sterili se si limitano a rilevare una certa imprecisione di James nel riassumere l’essenza della sua dottrina con una parola piuttosto che con un’altra, sviando così la nostra attenzione dall’effettiva comprensione del cuore del pensiero di William James. 42
Ivi, p. 14.
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prima conseguenza che emerge dalla distinzione operata da James è che un’ipotesi è viva o morta non in assoluto, ma relativamente. Si tratta di un’osservazione molto importante che tornerà utile in seguito per comprendere la posizione di James nei confronti della ‘scommessa’ di Pascal. Ma come si fa a definire il grado di vitalità di un’ipotesi? James anche in questo caso è molto chiaro: essa è misurata dalla disposizione ad agire: più un’ipotesi è viva più si è disposti ad agire in base alla credenza della realtà dell’ipotesi stessa. L’ipotesi più viva è quella che più di tutte ci spinge ad agire, irrevocabilmente43. Questa considerazione, cui James dedica poche parole, è fondamentale e forse potremmo dire che è il fulcro attorno al quale ruota tutta la dottrina Jamesiana della volontà di credere44. Una volta definita la differenza fra ipotesi vive e morte, James introduce una nuova, importante distinzione, forse la più nota e la più importante della Will to Believe:
Chiamiamo la decisione fra due ipotesi un’opzione. Le opzioni possono essere di tipi differenti. Esse possono essere 1) vive o morte; 2) forzate o evitabili, 3) importanti o triviali. Noi chiameremo genuina l’opzione che è viva, forzata e importante45. Un’opzione è viva quando entrambe le ipotesi sono vive; per riprendere l’esempio precedente, un’opzione fra l’ipotesi dell’esistenza del Mahdì e quella di Cristo Salvatore non può dirsi affatto genuina per un uomo dell’Occidente, proprio perché una delle due ipotesi è morta e quindi non suscita alcun interesse, e alcun reale confronto con l’ipotesi alternativa; è evidente poi che un’opzione è ancor meno genuina (sebbene di fatto la sua qualità non cambi) quando entrambe le ipotesi da considerare sono morte. Ibidem. E’ ovvio poi, come abbiamo rilevato anche nella parte terza a proposito della psicologia jamesiana dei Principles, che se la credenza significa disponibilità all’azione e coincide con un sentimento di tranquillità e di sicurezza nell’individuo che si prepara ad agire, il contrario della credenza, ovvero il dubbio, non è distinguibile da un opposto sentimento di irrequietezza e di ‘fastidio’, di cui ci si deve liberare al più presto, abbracciando una qualche credenza: Sebbene ovviamente non sia legato all’azione come la credenza, il dubbio non è interamente distaccato dall’azione poiché esso è uno stato di difficoltà e di insoddisfazione, uno stato da cui dobbiamo cercare di liberarci.. J. E. Smith, op. cit., p. 27. 43
44 James descrive la credenza come uno stato coscio simile all’emozione, caratterizzato dalla volontà di agire. P. K. Dooley, op. cit., p. 84. Vedremo meglio in seguito l’importanza di questa definizione di credenza; possiamo sin d’ora anticipare che solo dato lo strettissimo legame che c’è tra la credenza (una condizione apparentemente passiva dell’intelletto) e l’azione (una conseguenza di un atto della volontà) James potrà definire il nostro diritto ad abbracciare una determinata credenza in relazione alla ‘bontà’ delle conseguenze (o meglio: alla previsione della ‘bontà’ delle conseguenze) dell’azione cui la nostra credenza ci spinge.: Durante lo stesso periodo [69- 70] William studiò Alexander Bain che, in The Emotions and the Will (1855) aveva criticato il limitato associazionismo di John Stuart Mill. la teoria della credenza di Bain era per lui molto importante, dal momento che sosteneva che la credenza è inseparabile dall’azione, una posizione che avrebbe poi adottato. Però William non si conformava all’idea di Bain secondo cui la coscienza era riconducibile a processi fisici. D. Bjork, op. cit., p. 87. A questo proposito cfr. anche P. J. Croce, op. cit., p. 208. Il conoscere ha a che fare con stati mentali, ed è simile all’emozione. Myers attribuisce a Bain la critica che James fece a Mill, il quale avrebbe reso la credenza qualcosa di eccessivamente intellettuale. Io voglio dimostrare che quest’interpretazione è dovuta in parte ai kantiani, specialmente Charles Peirce e Hermann Lotze. W. R. Woodward, James’s Evolutionary Epistemology: “Necessary Truths and the Effects of Experience, in M. E. Donnelly (a cura di), Reinterpreting the Legacy of William James, cit., p. 156. 45
WB, p. 14.
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Un’opzione è invece forzata quando non esistono alternative. James fa un esempio molto ‘inglese’: scegliere fra uscire di casa con l’ombrello o senza non è affatto un’opzione genuine, proprio perché essa non è affatto forzata; ovvero, tertium datur; io posso decidere di starmene in casa e l’opzione, in quell’istante, muore. Un’opzione forzata si ha invece nel caso che uno debba scegliere se accettare una certa verità o farne a meno. In questo caso tertium non datur.
Infine l’importanza di un’opzione. Conviene citare le parole di James:
Se io fossi il dottor Nansen e vi proponessi di unirvi a me nella mia spedizione al Polo Nord, la vostra opzione sarebbe importante, perché probabilmente questa sarebbe la vostra unica possibilità e la vostra scelta odierna potrebbe escludervi per sempre dalla possibilità di immortalare il vostro nome [...]. Colui che rifiuta di accettare un’unica opportunità perde il premio della possibile riuscita come se avesse tentato e fallito. Per contra, l’opzione è triviale quando non ci si trova di fronte a un’unica opportunità, quando la posta in gioco è insignificante o quando la decisione è reversibile. Un chimico trova un’ipotesi abbastanza viva da spendere un anno per la sua verificazione: egli ci crede a tal punto. Ma se gli esperimenti si rivelano inconcludenti, non ne consegue nessun danno vitale46. Terminata questa serie di technical distinctions, James comincia ad affrontare direttamente l’argomento e lo fa, tipicamente, proponendo una teoria che è solo una caricatura di quella ch’egli veramente vuole sostenere. Si tratta di un classico modo jamesiano di anticipare certe critiche grossolane ch’egli prevedeva sarebbero sorte in seguito alle sue affermazioni; una tattica che però, almeno in questo caso, non gli risparmiò proprio quelle ‘accuse’ di cui egli voleva fin dal principio liberarsi. Il problema è quello del rapporto tra la nostra conoscenza47 e la nostra volontà, o meglio: tra le nostre credenze e la nostra volontà. William James che, come abbiamo ampiamente visto nella parte terza della nostra tesi, aveva fortemente sottolineato l’importanza dell’apporto della soggettività (del filosofo, dello scienziato, del ricercatore etc) nella costruzione di determinate teorie e nello stesso approccio metodologico che le sottende (criticando aspramente la ‘passività’ spenceriana) ora sembra volere andare oltre: non solo la nostra volontà, i nostri desideri e le nostre passioni possono spingerci in una 46 Ivi, p. 15. Possiamo subito anticipare che questa distinzione (quella fra momentous e trivial option) è quella più problematica e meno chiara; lo vedremo quando applicheremo queste distinzioni come ‘strumenti’ della teoria jamesiana della volontà di credere all’opzione tra determinismo e libertà. Si tratta di un problema di non poco conto, visto che, come abbiamo sopra visto, basta che manchi una delle tre caratteristiche (essere forzata, viva e importante) perché un’opzione non sia genuina e perché, come è immaginabile, essa non possa essere decisa su basi non intellettuali.
[vedi se mettere qui distinzione fra verità — Pragmatism — e credenza — Will to Believe]Io uso il termine “certezza” non per indicare un’astratta teoria filosofica, né come sinonimo di verità, ma come categoria indicante confidenza o sicurezza in una particolare idea o credenza. P. J. Croce, op. cit., p. 3. 47
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direzione piuttosto che in un’altra, essi possono anche farci decidere, in certi casi, quale credenza adottare e quindi, giusta quanto abbiamo detto sopra dello stretto legame tra credenza e azione, che cosa fare48. Ovviamente capire quali siano i casi in cui un tale comportamento è accettabile è di fondamentale importanza; come abbiamo detto, James comincia esponendo una ‘caricatura’ della sua dottrina: Non sembra assurdo affermare che le nostre opinioni [qui usato come sinonimo di credenze] siano modificabili dalla nostra volontà? Può la nostra volontà aiutare o ostacolare il nostro intelletto nella sua percezione della verità? Possiamo forse, solo volendolo, credere che l’esistenza di Abramo Lincoln sia un mito [....]? Possiamo forse, con uno sforzo della nostra volontà [...] credere che stiamo bene anche quando stiamo urlando per i nostri dolori reumatici nel letto [...]49? Sembrerebbe dunque che l’ipotesi di una credenza guidata e determinata dalla nostra volontà sia totalmente insostenibile. Non solo, continua James, un’ipotesi del genere sarebbe addirittura ‘immorale’.
Che cosa ne sarebbe della meticolosità e della scrupolosità con cui gli scienziati, attraverso secoli e secoli di storia del pensiero umano, hanno formulato le proprie teorie, per poi metterle continuamente in discussione, senza badare alla loro utilità o alla loro convenienza, ma avendo di mira solo il rigore della logica e l’evidenza dei fatti? Che cosa rimarrebbe del rigore dell’indagine scientifica se a ogni uomo fosse lecito credere in ciò che più gli aggrada, secondo i propri gusti e le proprie inclinazioni?
48 Anche in un saggio della Will to Believe James ricorda la sua teoria della ‘selettività interessata’ cui è sottoposta ogni ricerca scientifica: E’ decisamente chiaro che James [in Sentiment of Rationality] parla di un pre-intervento del lato passionale della nostra natura, dell’influenza che il temperamento, la costituzione emotiva, la volontà, il gusto, la passione hanno [...] nel selezionare alcuni aspetti piuttosto che altri, attribuendo più importanza a un gruppo e meno a un altro [...]. R. J. O’Connell, op. cit., p. 86. O’Connell comunque, ricorda giustamente che questa teoria era già stata ampiamente esposta nei Principles: Cfr. ivi, p. 92. (cfr. anche l’introduzione di Madden al The Will to Believe; WB, pp. xi- xxxxviii, passim).
WB, p. 15. In quest’ultimo esempio sembra di leggere un ricordo autobiografico di James. Come abbiamo visto egli soffrì a lungo di disturbi fisici (tra cui reumatismi) e certamente la prima ‘prova’ che la volontà non fosse onnipotente (anzi...) gli era stata drammaticamente fornita dalla propria esperienza personale. 49
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4.2.4 L’enfant terrible William Clifford e il dovere di dubitare Il delizioso enfant terrible Clifford scrive “La credenza è dissacrata quando è fondata su affermazioni non provate e non provabili, solo per il sollievo e il piacere personali di colui che crede [...] Se una credenza è stata accettata senza l’evidenza sufficiente si tratta di un piacere rubato (...) ed è immorale, poiché esso è rubato a dispetto del nostro dovere dell’umanità: il dovere di proteggerci da tali credenze come da una pestilenza, che in breve può avere ragione del nostro corpo e spargersi al resto della città (...). E’ sbagliato, sempre e comunque, e per ognuno, credere a qualcosa senza una sufficiente evidenza50. William James, nel saggio che stiamo qui analizzando, cerca di combattere proprio quest’ultima affermazione di Clifford e le difficoltà in cui si imbatte il nostro autore nel sostenere la propria tesi (che espliciteremo fra poco) non stanno tanto nella forza intrinseca della posizione dell’avversario51, quanto piuttosto nella apparente impossibilità di conciliare lo spirito scientifico dubitativo con l’esigenza di superarne lo scetticismo paralizzante; in altre parole, James non voleva opporre alla scientificità del positivismo contemporaneo una qualche teoria morale, spiritualistica o più genericamente volontaristica, bensì mostrare come fosse possibile, pur rimanendo all’interno dei confini della scienza52 (ovviamente una scienza meno ‘ristretta’ di quella positivistica) abbracciare delle credenze che non fossero scientificamente provate o logicamente irrefutabili, per fare questo era necessario mostrare l’erroneità della regola di Clifford: La regola di Clifford è ciò che i filosofi chiamano “evidenzialismo”: le nostre credenze debbono essere determinate dall’evidenza, e la forza delle nostre credenze deve essere proporzionata alla forza dell’evidenza53. Conviene subito sottolineare che James, nelle pagine della Will to Believe, non cerca affatto di proporre un ‘nuovo’ modo di fare scienza54 (o, più semplicemente un nuovo ‘metro’ per giudicare le nostre
50
Ivi, pp. 17-18.
51 Ovviamente William Clifford, di cui abbiamo già brevemente parlato a proposito dell’analisi jamesiana della teoria dell’automatismo conscio (cfr. TCWJ II, p. 31) assume nella Will to Believe il ruolo di simbolo di un certo modo di fare e di concepire la scienza; anche in questo caso James è lungi dal limitarsi a una polemica ad personam (anche perché Clifford era morto nel 1879). Sulla figura di Clifford e sulla critica (spesso) ingiustificata di James cfr. infra. p. 366, n. ii. 52 I saggi della Will to Believe debbono essere compresi alla luce del fatto che James aveva un atteggiamento ambivalente verso la scienza. Egli stesso aveva avuto un’educazione scientifica e rispettava molto i risultati ottenuti dalla scienza e l’atteggiamento scientifico di obiettività. WB, p. xiii. 53
P. Diggins, op. cit., p. 130.
54 Ovviamente ciò non toglie che l’epistemologia sia uno dei temi più importanti dei saggi della Will to Believe, che ruotano infatti attorno al rapporto fra evidenza scientifica e fede (i. e. credenza prima dell’evidenza); non si capisce dunque come Smith abbia potuto sottovalutare questo aspetto del primo pensiero filosofico di James: La “volontà di credere” di James ha3poco o nulla a che fare con la scienza, eccetto per il fatto che nessuno scienziato ricercherebbe la risposta a una certa domanda se non confidasse anche nella possibilità che ci sia una qualche risposta. J. E. Smith, op. cit., p. 33.
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credenze), un modo che contempli la possibilità di introdurre insieme all’oggettività dell’evidenza empirica degli elementi soggettivi che sarebbero altrimenti esclusi (secondo l’epistemologia positivistica). Ciò che James cerca di mostrare è che anche i Clifford e gli Huxley55, nell’elaborazione delle loro teorie, non sono affatto immuni da quella che Balfour chiamava l’autorità della paura e della speranza, del pregiudizio e della passione, della partigianeria e della pressione dell’ambiente economico e sociale56. Non bisogna poi dimenticare che: Prima che noi possiamo conoscere qualsiasi cosa, sottolinea James, noi dobbiamo prima di tutto voler conoscere qualcosa, e così, dietro alle facoltà razionali dell’uomo giace una profonda “natura passionale” che influenza il pensiero57. Ci tornano ora utili le technical distinctions di cui sopra: chi dice che non si può abbracciare una determinata credenza (per esempio quella nell’esistenza di Dio, oppure, per fare un esempio che più ci interessa, quella della libertà della volontà umana) non lo fa in virtù di un qualche scientifico “dovere di dubitare” (duty to doubt), ma in virtù del fatto che non ritiene affatto genuina l’opzione di cui quella credenza non è che l’accettazione di una fra le due ipotesi alternative e i motivi per cui un’opzione non appare essere genuina sono per James tutt’altro che difficili da rintracciare: Perché così pochi ‘scienziati’ non si interessano di quella che viene chiamata la telepatia? Perché essi pensano, come mi disse un giorno un illustre biologo, ora morto, che se un fenomeno del genere fosse vero gli scienziati dovrebbero fare di tutto perché esso venga soppresso e nascosto58. Dietro l’apparente ‘neutralismo’ degli scienziati non si nasconde altro che la paura di confrontarsi con fenomeni che potrebbero pericolosamente mettere in dubbio tutta l’impalcatura nozionistica e metodologica di cui si servono quotidianamente nel proprio lavoro. La stessa scienza, in realtà, si sostiene su una serie di credenze che non sono affatto dimostrate né dimostrabili. Il duty to doubt nasconde il timore che delle nuove credenze (come la fede in Dio o nel libero arbitrio) o nuovi
55 Sebbene la posizione di James sia critica di un’intera epistemologia, bisogna ricordare che egli rivolse le sue critiche direttamente a tre personaggi di cui bene conosceva le opere: [...] in The Will to Believe, James oppose fortemente le istituzioni della scienza e la relativa tracotanza e cecità di scienziati come John Tyndall, W. K. Clifford e Thomas Huxley. G. Cotkin, op. cit., p. 141. 56
Cfr. WB, p. 18.
57
P. Diggins, op. cit., p. 129; corsivo nostro.
58
WB, p. 19.
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fenomeni (come quello della telepatia) mettano in dubbio le vecchie credenze che si sono dimostrate tanto utili nel progresso scientifico59. James, dopo avere messo in dubbio il neutralismo scientifico e avere mostrato come non esista alcuna ricerca ‘spassionata’, per quanto questa voglia fare riferimento e affidamento esclusivamente a criteri di evidenza oggettiva, comincia la sua argomentazione vera e propria, quella che potremmo chiamare la pars construens della dottrina della volontà di credere; alla costatazione di un fatto (il soggettivismo che informa la ricerca scientifica) segue la formulazione di un metodo:
La tesi che io difendo, in poche parole, è questa: La nostra natura passionale non solo può a buon diritto, ma deve, decidere in un’opzione fra proposizioni, qualora si tratti di un’opzione genuina che non può essere decisa su basi intellettuali; perché dire, in tali circostanze “Non decidere, ma lascia in sospeso la questione”, è essa stessa una decisione passionale — proprio come se si decidesse per il sì o per il no — ed è seguita con il medesimo rischio di perdere la verità60. Dunque James afferma che la natura passionale decide sempre; sia che lo si voglia sia che non lo si voglia (e questo l’avevamo già visto poco sopra). Perciò quando un’opzione genuina non può essere decisa su basi puramente intellettuali è profondamente illusorio pensare di potere sospendere il nostro giudizio 59 Come mostrerà James più avanti (e come egli ribadisce anche in altri scritti, tra cui i Principles, cfr. supra p. ???) la fede più importante su cui si fonda la scienza è quella dell’uniformità della natura e del relativo necessitarismo. E’ evidente che una teoria che sostenga una qualche forma di indeterminismo (per esempio nella forma di azioni compiute liberamente) non può che risultare estremamente ‘pericolosa’ per la stabilità della suddetta credenza. Nell’ultimo saggio contenuto in The Will to Believe James scrive parole molto chiare in proposito: Intorno ai fatti accreditati e accettati da ogni scienza galleggia una nuvola di osservazioni eccezionali, di piccoli fatti irregolari che spesso è più conveniente ignorare piuttosto che studiare. L’ideale di ogni scienza è quello di un sistema di verità chiuso e completo.[...] Quei fenomeni che non sono classificabili all’interno del sistema diventano perciò assurdità paradossali e debbono essere considerate false. Ma James è riguardo alla possibilità della scienza di accogliere e studiare nuovi fenomeni meno pessimista di quanto potrebbe prima facie apparire; questa possibilità — ancora una volta James mostra di attribuire una particolare importanza alle singole personalità — è garantita dal lavoro di pochi geni: Solo i geni nati si lasciano preoccupare e affascinare dalle eccezioni e non si mettono in pace fino a che queste non vengono comprese. I Galileo, i Galvani, i Fresnel, i Purkinje e i Darwin sono sempre confusi e tormentati da cose insignificanti. Colui che è in grado di guardare oltre all’irregolarità dei fenomeni rinnoverà la sua scienza e le nuove formule di questa saranno spesso incarnate da ciò che sembrava essere eccezionale, piuttosto che da quel ch’era ritenuto la regola. PP, pp. 221-222. Si può dire che James, in questo breve saggio (intitolato: What Psychical Research Has Accomplished) che tratta dei risultati ottenuti dalla S. P. R. (Society for Psychical Research) abbia raggiunto delle eccezionali intuizioni epistemologiche (ancora più eccezionali per un autore che solo negli ultimi anni di vita venne considerato un filosofo a pieno titolo) degne della più recente sociologia della scienza. Vale la pena di riportare anche un altro brano che mostra chiaramente come la famosa ‘tolleranza’ di James fosse qualcosa di ben più profondo di un sentimento morale o di un contegno politico: Noi della Gentry educata nei College, che seguiamo esclusivamente il flusso della cultura cosmopolita, spesso incappiamo in qualche rivista o in qualche autore che non abbiamo mai sentito nella nostra cerchia, ma che attira l’interesse di centinaia di migliaia di lettori. Ci procura sempre una certa violenta emozione scoprire questa massa di esseri umani che non solo vivono ignorando noi e i nostri dei, ma che poi leggono e scrivono e pensano senza tenere conto dei nostri canoni e della nostra autorità. Ivi, p. 223. A James è stato effettivamente spesso attribuito il merito di essere stato un vero e proprio precursore di buona parte dell’epistemologia contemporanea: Questi Huxley e Tyndall e Clifford pensavano di essere il nuovo clero e, dicendo a tutti quello in cui dovevano credere, svolgevano le funzioni della ‘polizia del pensiero’ del loro tempo. Le radici di questo albero di concetti erano così profonde nella mente occidentale che sembrava impossibile liberarsene. Noi le attacchiamo e le attacchiamo e le attacchiamo ancora, e citiamo moderni pensatori come Quine e Kuhn e Wittgenstein e Foucault per combatterle. E poi citiamo James. Noi gli rendiamo l’onore di essere stato il primo a occuparsi della cosa, di essere stato fra i primi grandi profeti dell’umiltà scientifica [...] D. A Hollinger, James, Clifford, and the Scientific Coscience, in R. A. Putnam (a cura di), The Cambridge Companion to William James, cit., p. 69. 60
WB, p. 20.
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aspettando la manifestazione di un’evidenza oggettiva in favore di una o dell’altra ipotesi, perché non decidere — in questi casi — significa né più né meno che decidere e soprattutto significa decidere su basi non intellettuali61. Questa è la tesi principale della teoria jamesiana della volontà di credere. Prima di proseguire nella sua argomentazione (che mostrerà le conseguenze dell’accettazione di tale teoria), James fa un passo indietro, volendo fare chiarezza su alcuni punti di grande rilevanza; egli ricorda che la tesi che sta sostenendo è ricca di presupposti, o utilizzando le sue stesse parole, di postulati. Il postulato fondamentale è che la verità esiste e che l’uomo la può raggiungere62. Ma ci sono due strade maestre, per James, che ci portano alla certezza di potere dire la verità. Il nostro autore parla di una maniera empiristica e di una assolutistica di credere nella verità. Secondo gli assolutisti l’uomo non solo può conoscere la verità, egli può anche sapere quando si conosce la verità; per l’empirista invece, alla certezza che esista la possibilità di conoscere la verità non si affianca la credenza nella possibilità di essere sicuri di possedere la verità. La verità si può raggiungere, ma non si può sapere quando la si sia raggiunta. Ma, nei fatti (cioè nelle teorie) come si comportano gli empiristi che si oppongono a questa visione dogmatica della conoscenza della verità? Ancora una volta James mostra che cosa si nasconda ‘dietro’ all’apparente neutralismo scientifico di un empirista come Clifford:
I più grandi fra gli empiristi sono empiristi soltanto a un livello intellettuale. Quando vengono lasciati ai loro istinti, essi dogmatizzano come dei papi infallibili. Quando i Clifford ci dicono che è immorale essere cristiani senza avere una “evidenza sufficiente” (dell’esistenza del Dio cristiano), l’insufficienza dell’evidenza è di fatto l’ultima cosa che essi hanno in mente. Per loro l’evidenza è assolutamente sufficiente, solo che si tratta di un’evidenza contraria. Essi sono così convinti della realtà di un ordine anti-cristiano dell’universo che non gli si pone alcuna opzione genuina. Il cristianesimo è un’ipotesi morta sin dall’inizio63. [...] Un gran numero di nostri illustri contemporanei ritengono che un atteggiamento che comprende la fede non solo è illogico, ma anche vergognoso. La fede in un dogma religioso per il quale non c’è alcuna prova esterna, ma che siamo spinti ad accettare per i nostri interessi emotivi, alla stessa maniera con ci noi postuliamo l’uniformità della natura per i nostri interessi intellettuali, è marchiato dal professor Huxley come “la più bassa forma d’immoralità”. Affermazioni di questo tipo di eminenti rappresentanti della moderna Aufklärung potrebbero essere citate in grande numero. Prendete l’articolo del professor Clifford sull’“Etica della credenza”. Egli definisce “crimine” e “colpa” il credere anche senza una sufficiente evidenza scientifica. Ma in che cosa consiste il genio se non nell’ottenere maggiore verità pur in virtù della stessa evidenza scientifica degli altri uomini? Perché Clifford afferma tranquillamente la sua credenza nella teoria dell’automatismo conscio, sebbene egli disponga delle medesime ‘prove’ che spingono Lewis a rigettarla? Perché egli crede nei minimi psichici [in primordial units of “mind-stuff”] sulla medesima evidenza che porta il professor Bain a dubitarne? Semplicemente perché, come ogni altro essere umano dall’inferiore originalità mentale, egli è particolarmente sensibile all’evidenza che porta in una determinata direzione. E’ assolutamente inutile cercare di esorcizzare questa sensibilità definendola un fattore soggettivo di disturbo![...]. Che lo vogliamo o no, l’intero uomo è al lavoro quando noi ci formiamo le nostre idee filosofiche. L’intelletto, la volontà, il gusto e la passione cooperano proprio come nelle questioni pratiche. Ivi, p. 77. 61
62 Come si ricorderà, questo era uno dei postulati che James aveva posto a fondamento della sua analisi psicologica dell’uomo nei Principles. 63 Ivi, pp. 21-22. Non può non venire in mente l’ipotesi della libertà dell’uomo. Secondo il ragionamento di James, quando uno scienziato positivista e determinista come Clifford nega che si possa affermare la libertà dell’uomo, non lo fa in virtù della mancanza di evidenza in favore di quest’ipotesi, ma in virtù del fatto ch’egli ha già scelto in favore dell’ipotesi
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La ‘battaglia’ di James però, come abbiamo già detto, non è con chi abbia la fiducia di potere raggiungere la verità, ma con chi ritenga di potere affermare di possederla per l’eternità.
Questo che stiamo per descrivere è un passaggio fondamentale per comprendere tutta la teoria jamesiana della volontà di credere (e che è poi anche la base della futura teoria pragmatica della verità): ciò che per James importa di una teoria non è la sua capacità di giustificarsi ‘geneologicamente’ (perché si è visto come ogni sistema filosofico chiuso può autofondarsi in contraddizione con altri sistemi egualmente solidi all’apparenza). La forza di una dottrina non sta nel ‘da dove’ (nel terminus a quo), ma nel ‘verso dove’ (nel terminus ad quem). In breve, di una teoria non contano le origini, ma i risultati; è così evidente che anche un’origine ‘passionale’ dettata dall’autorità della tradizione o del pregiudizio o della semplice disposizione individuale o di un intero popolo non rappresenta affatto una ‘caduta’ nell’irrazionalità:
Per un empirista non conta da dove possa sorgergli un’ipotesi; può averla acquisita nella saggezza o nella pazzia, ma se il totale movimento di pensiero continua a darle conferma, allora quella può considerarsi vera64.
deterministica. Questo è perfettamente ammissibile secondo James, solo deve essere riconosciuto che la vitalità dell’ipotesi deterministica non è stata determinata da alcuna evidenza oggettiva (come il positivista vorrebbe farci credere), ma dalla sua stessa natura passionale, da una ingiustificata (perché non provata a e non dimostrabile) fede nell’uniformità della natura e nel determinismo della catena causale. La battaglia che qui James sta combattendo è dunque contro il dogmatismo filosofico, un dogmatismo che, al contrario di quanto vorrebbe fare credere, è fondato nient’affatto su una maggiore coerenza logica o una maggiore aderenza ai fatti, ma semplicemente, sull’accettazione di una determinata credenza, di una determinata fede. E quali progressi ha compiuto la filosofia procedendo dogmaticamente nella ricerca di una verità definitiva che annulli completamente le precedenti fedi filosofiche? Il mondo è totalmente razionale — la sua esistenza è solo un fatto bruto; esiste un Dio personale — un Dio personale è inconcepibile; c’è un mondo extra-mentale immediatamente conosciuto — la mente può conoscere esclusivamente le proprie idee; esiste un imperativo morale — l’obbligazione è solo il risultato di desideri; ognuno possiede un principio spirituale permanente — ci sono solo stati mutevoli di coscienza; esiste un’infinita catena causale — esiste una prima causa; una necessità eterna — la libertà; il Tutto — i Molti; una continuità universale — un’essenziale discontinuità nelle cose; un infinito — nessun infinito. C’è questo — c’è quello; non c’è niente che qualcuno non abbia pensato essere assolutamente vero, mentre altri lo ritenevano assolutamente falso. Ivi, p. 23. Questa serie di antinomie, dice James, non è che il frutto principale di quell’atteggiamento dogmatico (tipico della filosofia piuttosto che della scienza) che deve essere superato affinché il pensiero filosofico non si riduca a un’interminabile sostituzione di un dogma con un altro; e i rischi del permanere di un simile atteggiamento possono andare ben oltre la ristretta cerchia di un’eletta comunità filosofica: Quando ci si ricorda che la più impressionante applicazione pratica alla vita della dottrina della certezza oggettiva è stata l’opera coscienziosa del Santo Uffizio dell’Inquisizione, ci si sente meno tentati che mai a rispettarla.. Ibidem. Ivi, p. 24. D. A. Hollinger, nel suo interessante saggio su “Clifford e coscienza scientifica”, troppo intento a rimarcare una sostanziale e concreta evoluzione dal James della Will to Believe a quello di Pragmatism (1907), afferma che solo in quest’ultima opera James considera la credenza religiosa alla stregua delle altre credenze e quindi suscettibile della medesima verificabilità (ponendo così sullo stesso piano due belief che nella Will to Believe rimanevano radicalmente distinti); noi non tratteremo nel nostro lavoro (se non per pochi cenni) lo scritto jamesiano del 1907, ma possiamo dire qui che anche nella formulazione della teoria della volontà di credere, come è evidente dal brano sopra riportato, James tratta tutte le credenze come ipotesi che debbono essere verificate (vedremo poi se questa verificazione possa essere limitata al livello individuale o se debba essere estesa nel tempo e a un ampio numero di persone); cfr. D. A. Hollinger, op. cit., p. 81. 64
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La posizione filosofica di James è molto chiara: visto che ciò che conta è la verificazione (o meglio: la verificabilità), il terminus ad quem e non il terminus a quo, è chiaro che allora non importa poi molto il fatto che una nostra credenza sia costruita o meno su certi crismi di logicità o di filosoficità; la genealogia di una credenza non conta nulla in confronto alla sua possibilità di essere verificata con l’esperienza e con altre verità.
Ma James prima di addentrarsi finalmente nell’esposizione compiuta della sua teoria della volontà di credere, ci tiene a sottolineare un punto piccolo ma importante65che gli sembra essere particolarmente utile per distinguere la sua posizione dall’enfant terrible Clifford. Due possono essere i modi, scrive James, di procedere nella nostra ricerca: uno ha per motto: “noi dobbiamo conoscere la verità”, e l’altro: “noi dobbiamo evitare l’errore”; ovviamente questi imperativi scientifici sottendono un atteggiamento e un comportamento scientifico ben differenti: Credi la verità! Evita l’errore! Queste, come vediamo, sono due leggi materialmente differenti e, in base alla nostra scelta, noi possiamo improntare in maniera differente tutta la nostra vita intellettuale. Possiamo guardare alla caccia alla verità come alla cosa più importante, e all’evitare l’errore come alla cosa secondaria o possiamo, d’altro lato, ritenere l’evitare l’errore più imperativo, e lasciare che la verità venga da sola. Clifford [...] ci esorta nella seconda direzione66. Dopo quest’ultima — infondata — critica a Cliffordii [specifica meglio la posizione di JAMES] James si dedica finalmente alla sua pars construens, l’elaborazione di una metodologia che faccia della credenza non sufficientemente giustificata su basi intellettuali, il fondamento della vita religiosa e morale dell’uomo. La differenza fra credenze morali e scientifiche emerge qui per la prima volta in tutta la sua forza: James distingue tra “faccende umane” e “natura oggettiva”67. Per quanto raramente, scrive il nostro autore, nelle “faccende umane” accade che il prendere una decisione in virtù di una falsa credenza, sia più importante che sospendere la nostra credenza. Per quanto riguarda invece la “natura oggettiva”, proprio per la sua indipendenza dall’uomo, è difficile che accada che il nostro giudizio intorno a essa debba essere preso velocemente pena di perdere la possibilità di un’ulteriore verificazione. In breve, nel caso della ricerca scientifica, è sempre meglio sospendere il giudizio
65
WB, p. 24.
66 Ibidem. James continua così: Non credere a nulla, egli [Clifford] ci dice, mantieni il tuo giudizio sospeso all’infinito, piuttosto che fondarlo su un’evidenza insufficiente e cadere così nella possibilità di credere a una falsità. Ibidem. Dopo avere ricordato che anche in questo caso l’atteggiamento epistemologico differente (e opposto) è scelto in base alla nostra natura passionale e non in virtù della sua maggiore logicità, continua con la critica a Clifford: L’esortazione di Clifford [di sospendere il giudizio] suona fantastico ai miei orecchi. E’ come se un generale dicesse ai propri soldati che è meglio stare fuori dalla battaglia per sempre, piuttosto che rischiare una sola ferita. Non è così che si vince contro i nostri nemici o contro la natura. Ivi, p. 25. 67
Ivi, p. 26.
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piuttosto che abbracciare una falsa credenza per la precipitazione. Ecco che ci tornano nuovamente utili le techincal distinctions con cui James aveva cominciato il saggio: Che differenza può fare per la maggior parte di noi, se possediamo o meno una teoria dei raggi Röntgen, se crediamo o meno nella teoria dei “minimi psichici” o se siamo convinti della causalità degli stati di coscienza68? Queste domande retoriche servono a James per mostrare quanto poco siano genuine le opzioni della ricerca scientifica (almeno per la maggior parte di noi, perché ovviamente per uno scienziato l’esattezza della teoria dei raggi Rötgen può essere un’ipotesi più che genuina...). Ma la vita è fatta anche di altre credenze, dove decidere e decidere velocemente è molto più importante che dubitare. In questi casi Le passioni umane sono più forti delle regole tecniche; le coeur a ses raisons, come scrive Pascal que la raison ne connaît point; [...] lasciatemi però dire che se non c’è un’opzione forzata [ma sarebbe stato meglio dire genuina] allora il nostro ideale deve essere l’atteggiamento spassionato della ricerca puramente intellettuale69. Ma quali sono allora le opzioni genuine che nella vita di ogni giorno ci obbligano a mettere avanti all’intelletto le nostre “ragioni del cuore”? James sembra non avere dubbi in proposito: sono le questioni morali; ci troviamo qui dunque non più nel campo della scienza, ma della morale; non più nel regno dell’esistenza, ma in quello del dovere70. In questo campo le ragioni del cuore contano ancora più che in quello della scienza, ma soprattutto è a questo livello che vengono prese, spesso inconsapevolmente, delle decisioni che poi informeranno
Ibidem. Per quanto James si sforzi di mostrare quanto siano poco genuine le opzioni cui si trova di fronte lo scienziato (per la maggior parte di noi), viene fatto di notare che l’ultimo esempio, quello della causalità degli stati di coscienza, è stato scelto con poca attenzione; di fatto, come abbiamo visto nella parte terza della nostra tesi dedicata alla psicologia dei Principles (e in particolare nelle pagine che trattano della teoria interazionistica di James), l’efficacia causale degli stati di coscienza è la chiave di volta (o comunque un elemento fondamentale) per affermare la possibilità di una volontà libera e, come vedremo più avanti (ma è già chiaro giusta quanto detto nei precedenti capitoli) l’opzione tra determinismo e libero arbitrio è un’opzione decisamente genuina e cui lo stesso James ha dedicato specificamente un saggio (quello sul “dilemma” del determinismo). Detto questo, bisogna comunque ancora una volta ricordare che l’efficacia degli stati di coscienza non coincide affatto con l’assenza di predeterminazione di questi stessi stati di coscienza. 68
69
WB, p. 27.
Ancora una volta James cita Pascal, e ancora una volta lo fa con accenti positivi (all’inizio del saggio, ma vedremo meglio la cosa in seguito, il filosofo francese sembrava piuttosto incarnare un ‘cattivo esempio’ di come porre la volontà al di sopra della ragione e dell’intelletto): La scienza può dirci ciò che esiste, ma per comparare la dignità, sia di ciò che esiste sia di ciò che non esiste, non dobbiamo consultare la scienza, ma quello che Pascal chiamava il nostro cuore. Ibidem. 70
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tutta la nostra attività intellettuale: Se il tuo cuore non vuole un mondo morale, la tua testa sicuramente non te ne farà credere uno71. Fin qui James si è tenuto sullo stesso registro adottato in partenza. Il tema è sempre quello della credenza, che però ora interessa la nostra vita morale, le nostre “faccende umane” piuttosto che la ricerca dello scienziato. James sostiene che mentre nel primo caso è spesso consigliabile sospendere il nostro giudizio, nel secondo prevale l’utilità di scegliere, di prendere una decisione, anche quando non possiamo sostenere la nostra credenza su basi intellettuali solide; questo differente atteggiamento non è dato tanto dalla differente ‘origine’ delle credenze scientifiche rispetto a quelle morali, quanto dai loro effetti, dall’importanza che queste hanno sulla nostra vita, ciò che in sostanza rende genuine le opzioni che dobbiamo affrontare nella nostra vita quotidiana.
James però, mentre si era dilungato parecchio nell’esporre la sua pars destruens in relazione al ‘supposto’ scetticismo Cliffordiano, sembra ora mancare di argomenti per esporre nel dettaglio la sua tesi positiva: quali sono concretamente i casi in cui la nostra credenza ha il diritto di reggersi sulla forza della nostra volontà, della nostra natura passionale etc. piuttosto che sulla forza della dimostrazione logica e della
WB, p. 28. Per quanto implicitamente, queste parole sono rivolte proprio a quegli scienziati e a quei filosofi materialisti che James condanna non per la loro posizione specifica in materia morale e religiosa, ma per il fatto di non riconoscere quanto sia poco scientificamente sostenibile la loro posizione. È come se James, rivolgendosi direttamente a Clifford, gli dicesse: “Tu che dici di non potere accettare un mondo ‘morale’ (e si intenda qui un mondo dove trova spazio la libertà e dove la natura non sia considerata un ‘blocco’ impenetrabile e infrangibile) perché questo risulta intellettualmente insostenibile, di fatto hai già scelto, hai scelto per un ‘block-universe’ e hai scelto non in virtù della sua maggiore plausibilità scientifica, ma in ragione delle tue naturali disposizioni, del tuo carattere, delle tue esigenze”. Come spiega chiaramente Sini: la scelta pluralistica, in polemica sia con il monismo deterministico sia del materialismo scientifico, sia del razionalismo filosofico, trova la sua giustificazione in riferimento a due condizioni di fondo: la prima è il prevalere, nelle nostre scelte teoretiche, di motivazioni pratiche e morali; in ultima analisi non è il determinismo a indurci al fatalismo e allo scetticismo; è invece vero il contrario: se siamo forniti di una natura, di un carattere fatalista, la nostra scelta teoretica cadrà a favore del determinismo. La seconda condizione è rappresentata dalla plasticità del mondo alle nostre esigenze pratico-razionali. C. Sini, op. cit., pp. 265-256. Anche la Calcaterra sottolinea l’identificazione nell’opera di James tra monismo e determinismo e tra pluralismo e indeterminismo (considerati Weltanschauungen che informano spesso inconsapevolmente le nostre scelte dottrinarie): [James è convinto] dell’incapacità del sapere scientifico di risolvere la controversia tra determinismo e indeterminismo. Tale controversia è infatti nella sua sostanza — dice James — una questione metafisica, basata cioè su speculazioni non verificabili. Essa equivale al contrasto tra una concezione “monistica”, per la quale le uniche categorie della realtà sono “la necessità” e “l’impossibilità”, e una “pluralistica”, che invece ammette l’effettiva esistenza di una serie di possibilità e quindi la relativa ambiguità dei futuri sviluppi delle cose. Ma la scelta a favore dell’una o dell’altra non può essere avvalorata da alcuna evidenza oggettiva; piuttosto dipende dal temperamento soggettivo dalle personali preferenze emotive, così come ogni altra concezione filosofica”. R. M. Calcaterra, op. cit., p. 44. Per quanto questo brano sia fedele al testo jamesiano, vogliamo qui anticipare che affermare l’insolubilità su un piano strettamente logico o scientifico della questione del determinismo, nel pensiero di James non porta come conseguenza all’abbandono della razionalità in favore di una scelta ‘passionale’; come vedremo alla fine di questo capitolo, l’ipotesi indeterministica sarà da James preferita proprio perché più razionale di quella deterministica. Ovviamente James farà riferimento a un concetto ‘nuovo’, o potremmo dire ‘allargato’ di razionalità, ma ciò non toglie che mai nell’opera di James prevale qualche forma di relativismo soggettivistico. Se si trattasse veramente di una questione de gustibus, a che fine scrivere un’opera in difesa (anche) della credenza nella libertà? Il rispetto di James per le inclinazioni personali di ogni individuo non superò mai nel nostro autore la consapevolezza della capacità dell’insegnamento (e dell’esempio) filosofico di essere componente determinante di tute le nostre scelte, un rispetto che da qualche critico è stato ingiustamente confuso con una forma dotta di ingenuità: C’è un’ingenuità nell’immagine di James, nella convinzione che l’autodeterminazione e il controllo, il diritto di credere e la volontà, fossero antidoti al determinismo piuttosto che espressioni di quello. B. Ramsey, op. cit., p. 54. 71
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verificazione scientifica? James sembra rispondere coscienziosamente alle aspettative ingenerate nel lettore lungo le pagine precedenti, ma di fatto introduce una nuova argomentazione, una nuova prospettiva filosofica, simile, ma allo stesso tempo differente da quella che inizialmente sembrava prospettarsi. Come vedremo si tratta di un ‘cambiamento’ di non poco conto: Torniamo ora a una certa classe di questioni di fatto, questioni che concernono le relazioni personali, stati mentali tra un uomo e un altro. Io ti piaccio o no? — per esempio. La tua risposta dipende, nella maggior parte dei casi, dal fatto che io ti venga incontro o no, dal fatto che io desideri il tuo interesse o meno. La precedente fede nel tuo essere interessato a me è ciò che può far sì che io ti piaccia. Ma se io me ne stessi con le mani in mano, e non muovessi un dito fino a che raggiungessi un’evidenza oggettiva, fino a che tu non faccia qualcosa che mi dimostri il tuo interesse, come direbbe l’assolutista ad extorquendum assensum meum, dieci volte su una il tuo interesse non mi si manifesterà72. Il cambio di registro con quanto detto in precedenza è qui più che evidente. James parla dell’influenza che la nostra volontà, la nostra fede nella realizzazione dì un fatto, ha sulla realizzazione del fatto medesimo. Questa è una posizione ben differente da quella precedentemente illustrata, dove la volontà entrava in gioco solo per quanto riguarda l’accettazione di una credenza e non la creazione di una realtà. Quando, alla fine di questo capitolo, cercheremo di applicare la teoria della volontà di credere all’opzione fra libertà e determinismo dovremo riprendere con serietà questa incongruenza del pensiero jamesiano. Dovremo cioè chiederci: la nostra volontà ha il potere — e il diritto — di accettare la credenza nella realtà del libero arbitrio (nonostante il fatto che esso non sia filosoficamente dimostrabile o scientificamente verificabile) o essa ha il potere di creare la realtà in cui si vorrebbe credere? Si tratta di una questione complessa, sia perché riguarda il tema della libertà che non è specificamente trattato nel saggio The Will to Believe, sia perché la stessa argomentazione jamesiana, come abbiamo appena accennato, è foriera di possibili, gravi, fraintendimenti. Al fine di comprendere meglio il pensiero di William James in proposito cercheremo allora di servirci dell’aiuto di molti critici che prima di noi, pur rilevando le imprecisioni del testo jamesiano, si sono sforzati di coglierne, l’essenza, o, come avrebbe amato dire il nostro autore, il ‘cuore’. Per ora rimarremo fedeli alle parole del nostro autore, cercando di seguire il più da vicino possibile il prosieguo delle sue riflessioni del primo saggio della Will to Believe; solo alla fine , dopo avere analizzato il saggio sul “dilemma del determinismo” e quello sul “sentimento della razionalità”, potremo ritornare
WB, p. 28; vale la pena di citare il prosieguo di questo brano: quanti cuori di donna sono stati vinti dalla pura virile insistenza di uomini che volevano essere amati! [...] Il desiderio per un certo tipo di verità qui è il padre della verità stessa. Ibidem. 72
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alla teoria della volontà di credere e cercare di raccogliere finalmente i frutti di quella prima conclusione filosofica cui James pervenne, seguendo spesso un tortuoso cammino, alla fine dell’Ottocento.
4.2.5 La credenza, madre del fatto Ci sono, perciò, casi in cui un fatto non può darsi a meno che non esista prima una fede nella sua realizzazione. E quando la fede in un fatto può creare il fatto, sarebbe una logica veramente malsana quella che ci dicesse che la fede che precede l’evidenza scientifica è “la specie più infima di immoralità” nella quale possa cadere un pensiero. E questa sarebbe la logica secondo la quale i nostri scienziati assolutisti pretenderebbero di regolare la nostra vita73! Una volta formulata questa ‘regola’, quale esempio adotta James per mostrarne l’efficacia? Come abbiamo già detto non si tratta della scelta tra libertà e determinismo (saremo noi stessi a dovere applicare il ‘metodo’ della volontà di credere a questo caso ch’è quello che ci interessa più da vicino); James, in maniera abbastanza sconcertante, rivolge l’attenzione dei suoi ascoltatori-lettori all’ipotesi religiosa. Diciamo in maniera abbastanza sconcertante perché abbiamo appena rilevato che James, improvvisamente, nella sua argomentazione, ha cambiato il ‘ruolo’ della credenza, da condizione per la verificazione di un fatto a ‘madre’ del fatto stesso, dove cioè in verità che dipendono dalla nostra azione personale, la fede fondata sul desiderio è certamente una cosa giusta, possibile e necessaria74. Forse che l’esistenza di Dio dipende dalla nostra fede? Come vedremo in seguito, le cose non stanno proprio così, anche se molti critici sembrano avere fatto anche in questo caso una notevole confusione (‘aiutati’ in questo dallo stesso James) attribuendo al nostro autore una teoria indifendibile, ma soprattutto incoerente con tutto quanto detto precedentemente.
Ma prima di tutto dobbiamo intenderci su che cosa James intenda per “ipotesi religiosa” e vedere se a essa si applicano quelle technical distinctions che sono i parametri per scegliere fra due ipotesi quando non esistono prove (empiriche e intellettuali) a favore di una o dell’altra.
WB, p. 29. Abbiamo già rilevato in nota ii i luoghi in cui James travisa la posizione di Clifford attaccandolo come rappresentante di un’epistemologia che forse era più immaginaria che reale; questo è un altro caso evidente; Il riferimento a Clifford è certo (era stato infatti il matematico inglese a parlare proprio del lowest kind of immorality rappresentato da una credenza non sufficientemente sostenuta), ma è indubbio che Clifford, e l’esempio della nave lo dimostra ampiamente, non voleva analizzare il caso che viene qui proposto da James, in cui la credenza crea il fatto. Ancora una volta l’impressione è che il nostro autore sia stato troppo ‘disinvolto’ nell’attribuire al suo avversario filosofico pensieri che non potevano appartenergli e che non erano coerenti con l’argomento dei suoi scritti. 73
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La scienza dice che le cose sono; la morale dice che alcune cose sono meglio di altre; la religione dice essenzialmente due cose: primo, che le cose migliori sono quelle eterne, le cose nell’universo che gettano l’ultima pietra e, per così dire, dicono l’ultima parola. [...] La seconda affermazione della religione è che noi stiamo meglio se crediamo nella verità della prima affermazione75. James dunque si chiede: ci comporteremmo in maniera razionale se decidessimo di mantenerci scettici di fronte all’ipotesi religiosa, quando quest’ultima, per essere abbracciata (e per coglierne le conseguenze positive che James non dimostra ma suppone evidenti76) deve richiedere un nostro ‘primo passo’, il passo della fede non fondata su altro che sulla consapevolezza che non esistono ‘prove’ a favore o contro e che sarebbe meglio credere, piuttosto che non credere? La domanda è ovviamente retorica e la risposta di James, fatta regola al di là dell’opzione religiosa, è scontata:
Quella regola di pensiero che ci impedisse assolutamente di conoscere certi tipi di verità se questi tipi di verità esistessero veramente , sarebbe una regola irrazionale77.
74
Ibidem.
WB, pp. 29-30. James poi, dopo avere detto che l’ipotesi religiosa può entrare in un’opzione solo se essa è ritenuta viva (condizione che non è necessariamente data per tutti gli individui che possono già avere scelto negativamente in base ad altri motivi) e rivolgendosi quindi solo a coloro che non hanno già deciso in proposito (come possono averlo fatto i Clifford e gli Huxley, in base a una propria differente “passione”), afferma che l’ipotesi religiosa è importante e forzata: E’ importante [momentous] poiché supponiamo di trarne un vantaggio se vi crediamo, e di perdere un bene vitale se non vi crediamo. Inoltre, l’opzione religiosa è forzata, poiché noi non possiamo rimanere scettici e aspettare una maggiore chiarezza [empirica e intellettuale] perché, sebbene eviteremmo l’errore nel caso l’ipotesi religiosa fosse falsa, noi ne perderemmo i vantaggi, se fosse vera, come se avessimo deliberatamente scelto di non credere. Ivi, p. 30. 75
La questione del ‘vantaggio’ che l’uomo ricaverebbe da una fede religiosa (James non specifica però quale e questo è un serio problema) è stata dibattuta da gran parte della critica che ha soffermato la propria attenzione sulla religiosità di James e sulla idea di Dio che si cela dietro a una vaga ‘religione’. James tratta di questo problema in The Moral Philosopher and the Moral Life e anche in alcuni passi dei Principles. Non è qui il luogo per cercare di dare una risposta a questo problema. Certamente già dalle parole che James dedica a questo tema nel saggio che stiamo studiando, emerge una visione ‘positiva’ della fede religiosa, una visione cioè che sottintende un concreto miglioramento (morale) della vita di chi crede. Scrive James nella penultima nota della Will to Believe, anticipando chiaramente quanto dirà in seguito nella sua filosofia pragmatica: Dal momento che la credenza è misurata dall’azione, colui che ci nega di credere alla verità della religione, necessariamente ci impedisce di agire come se noi credessimo nella sua verità. L’unica difesa della religione si fonda sull’azione. Se l’azione richiesta o ispirata dall’ipotesi religiosa non differisce in alcun modo da quella dettata dall’ipotesi naturalistica, allora la fede religiosa è qualcosa di superfluo di cui sarebbe meglio sbarazzarsi, e la controversia sul suo valore sarebbe una cosa di cui non varrebbe la pena di occuparsi. Io credo, ovviamente, che l’ipotesi religiosa dà al mondo una dimensione che determina specificamente le nostre reazioni e che le rende in gran parte differenti da quelle che potrebbero darsi sul fondamento di una credenza in uno schema puramente naturalistico. WB, p. 32, n. 4. Se qui non ci interessa tanto capire quali sono i cambiamenti della propria vita che comporta una fede in un dio (ma quale poi?), ci interessa molto invece sottolineare come per James, essendo la credenza inseparabile dall’azione (nel senso che è l’azione a determinare a specificare il carattere della credenza) è evidente che due credenze apparentemente differenti (come possono essere l’ateismo e il teismo), ma che portano a medesimi risultati dal punto di vista del nostro comportamento, del nostro ‘avere a che fare’ con la vita, sono per James identiche e quindi cade la stessa necessità di porre un’opzione fra le due alternative; alla fine di questo capitolo dovremmo quindi analizzare la questione della libertà anche da questo punto di vista; perché l’opzione fra libertà e determinismo sia viva, importante, e forzata, essa deve portare a un sostanziale comportamento differente a seconda dell’ipotesi che si è scelto di abbracciare, in cui si è posta la nostra fede. 76
77
Ivi, pp. 31-32.
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Ma, proprio alla fine dell’esame di questo saggio, ci troviamo di fronte a una nuova — apparente — incongruenza del pensiero jamesiano: James aveva distinto, sebbene non chiaramente, tra la credenza che ci permette di conoscere un fatto e la credenza che crea il fatto stesso; l’ipotesi religiosa sembrava essere destinata a mostrare come la credenza può creare un fatto in cui si può credere o meno (rendendo così questa seconda credenza dipendente dalla prima), ma qual è il fatto che si crea nella scelta teistica? Ne abbiamo accennato poco sopra; l’unico fatto che potrebbe creare (e che non esisterebbe altrimenti) sarebbe l’esistenza di Dio; ma, oltre all’assurdità palese di quest’ipotesi (che comunque tratteremo meglio in seguito), è evidente che James, alla fine della Will to Believe, non dice in nessun punto che la fede in dio crea il fatto di Dio, ovvero che crea l’esistenza di Dio; l’unico fatto che crea è quello della nostra credenza (e perciò della nostra conoscenza di Dio). Ma si tratta di una cosa ben differente e che sembra sfumare la differenza posta chiaramente nel saggio tra la credenza che permette di conoscere il fatto e la credenza che crea il fatto stesso. Se credendo in Dio noi creiamo non Dio, ma la credenza in Dio, che differenza c’è rispetto a quando crediamo in un fenomeno della natura e lavoriamo di conseguenza e constatiamo questo fenomeno? In entrambi i casi il fenomeno (esistenza di un particolare composto chimico ed esistenza di Dio) erano già presenti prima che noi indagassimo e credessimo; l’unica cosa che non era presente, e che da noi è stata creata, è proprio la credenza: e a meno che non si intenda questa credenza come il fatto da creare (cosa possibile, ma che renderebbe inutile e anzi dannosa la distinzione tra una credenza che ci avvicina al fatto e una credenza che crea il fatto) noi ci troveremmo di fronte a una credenza che non crea il fatto, ma che solo ci permette di verificarlo. Alla fine del capitolo cercheremo di risolvere, per quanto possibile, questa apparente confusione della posizione jamesiana.
i
WB, p. xiii. Nota sull’incompletezza finale del pensiero ‘metafisico’ di James.
ii James Wernham, nella sua esposizione ‘eretica’ della dottrina jamesiana della volontà di credere, dedica un intero capitolo a William Clifford, l’‘avversario’ dichiarato della Will to Believe; si tratta di un capitolo molto interessante perché mostra come James sbagliò nell’individuare Clifford come il degno avversario da combattere; Wernham non vuole affatto dire che James e Clifford si trovano su due posizioni identiche o simili; egli vuole soltanto mostrare che James attacca una specie di ‘caricatura’ della dottrina cliffordiana e questo sarebbe meno interessante per noi se non portasse, come sua conseguenza, a un’errata interpretazione anche della stessa dottrina jamesiana, costruita contro quella di Clifford; scrive Wernham: Lo scritto di Clifford, al contrario di quello di James, è intitolato in maniera ammirevolmente corretta (The Ethics of Belief). Esso riguarda l’etica, un dovere. E’ una dottrina su ciò-che-non-bisogna-credere e il “dovere” è senza dubbio morale. Inoltre, esso riguarda la credenza e solo la credenza, non riguarda la decisione ad agire, non riguarda l’indovinare o lo scommettere e non riguarda l’abbracciare o meno un’ipotesi. J. C. S. Wernham op. cit., p. 69. E’ evidente da queste parole quale sia il giudizio in merito al saggio di James per ora siamo interessati a vedere qual è l’immagine della dottrina cliffordiana che emerge dalle pagine di James e quanto questa si distacca da quella ‘vera’, o meglio da quanto disse effettivamente Clifford. La tesi di Clifford è che “E’ sbagliato, sempre, comunque e per chiunque, credere in qualcosa senza una sufficiente evidenza”. In altre parole, quando l’evidenza è insufficiente, si ha il dovere morale di sospendere il nostro giudizio e di continuare nella ricerca. Ivi, p. 69. L’esempio utilizzato da Clifford, e reso ancor più noto dalla critica che ne fa James, e quello dell’armatore che soffoca i suoi dubbi sulla capacità della sua nave di reggere il mare. La
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nave salpa e affonda con tutto il suo carico umano. La tesi di Clifford è che l’armatore ha sbagliato (ed è in ciò moralmente imputabile): egli non ha dato seguito ai suoi dubbi e ha fatto salpare la nave senza essersi accertato della sua resistenza alla forza del mare. Egli ha agito in base a una credenza (alla speranza che ce l’avrebbe fatta) che era ingiustificata e nel fare questo ha coinvolto in una sciagura persone che non erano affatto responsabili; per questo il titolo dello scritto di Clifford (The Ethics of Belief) è corretto: esso analizza le azioni eseguite in virtù di una credenza insufficiente in relazione agli effetti che queste possono avere su persone altre da chi ha preso la decisione. Wernham ritiene che Clifford abbia però ecceduto nel rintracciare in ogni nostra azione una causa i cui effetti non possono mancare di prodursi sulla vita di altri individui; in sostanza il matematico inglese avrebbe attribuito questo ‘peso’ a tutte le possibili azioni, mentre esisterebbero casi in cui un nostro comportamento non ha alcun effetto sulla vita degli altri. La critica di Wernham è sostanzialmente corretta: ci sono azioni che noi possiamo compiere nell’intimità della nostra camera o del nostro laboratorio che mai verranno conosciute da alcuno e che quindi difficilmente potranno avere un qualche effetto sulla vita di altri: Mentre è facile vedere come una mia azione possa avere delle conseguenze per altre persone, non è altrettanto facile vedere come questo debba essere necessario. Se queste conseguenze non ci sono, per quanto si possa dire che io abbia agito imprudentemente, non si può però dire che io abbia agito immoralmente. Ivi, p. 71. Sembra però che la maggior parte delle nostre azioni abbiano un effettivo seguito (anche solo se considerate come esempi involontari che altri possono seguire). Ma non solo: Clifford sembra avere a cuore comportamenti molto più importanti e complessi rispetto a piccoli esperimenti compiuti nella riservatezza del proprio laboratorio; si tratta quindi di una questione qualitativa piuttosto che quantitativa; in fondo avrebbe poi senso interrogarsi intorno alla giustezza di un nostro comportamento (eseguito sulla base di una credenza sufficientemente giustificata o meno) se questo comportamento non avesse poi delle conseguenze sulla nostra vita e su quella degli altri? Al proposito cfr. D. A. Hollinger, op. cit, p. 76. Per quel che riguarda la critica di James a Clifford, Wernham è invece molto chiaro e certamente le sue considerazioni sono di notevole interesse, anche per comprendere la posizione di William James; Wernham individua tre fondamentali errori nella lettura jamesiana della teoria di Clifford: uno di questi travisamenti nasce semplicemente da un’esagerazione. Clifford condannava ogni credenza non sufficientemente fondata. Queste erano le sue parole. Più avanti, nel saggio, egli convenne che è necessario dire quando l’evidenza è sufficiente, non bastando dire che è sbagliato credere in virtù di un’insufficiente evidenza. Egli ci ha provato, per quanto con scarsi risultati. Il punto, comunque, è che mai egli ha affermato che credere è sbagliato quando l’evidenza è meno che certa, meno che dimostrata. J. C. S. Wernham, op. cit.,, p. 72. James avrebbe in sostanza caricaturato la posizione di Clifford sostituendo senza alcuna giustificazione testuale alla sufficienza la conclusività dell'evidenza. James poi, e questo è il secondo travisamento, avrebbe attribuito a Clifford e all’epistemologia positivistica da lui incarnata una passività che non gli era affatto propria. Abbiamo già più volte incontrato il pensiero di James su questo terreno; già dalle prime critiche a Spencer il nostro autore si era opposto duramente all’immagine passiva della mente che poteva facilmente emergere dalle teorie psicologiche associazionistiche (e non solo) e altrettanto si ora opposto all’immagine dello scienziato come ‘spettatore passivo’ che aspetta di essere illuminato dall’esperienza di cui egli non è nemmeno co-artefice. La posizione di James è difficilmente attaccabile (e tutta la sua teoria psicologica, ripresa poi nella Will to Believe, ha mostrato l’imprescindibilità di una componente soggettiva e attiva già fin dalla attività selettiva della mente al livello delle sensazioni e delle percezioni sino all’elaborazione di complesse teorie scientifiche), ma, come dice Wernham, essa non coglie in Clifford il giusto bersaglio: Una mente totalmente passiva non rappresenta il ricercatore ideale. Una mente totalmente passiva appartiene a chi non indaga, Clifford lo sapeva bene quanto James . Uno dei suoi sottotitoli è “Il dovere di ricercare”. Il dovere di non credere non coincideva per lui col dovere di non fare alcunché, stando seduti ad aspettare.. E’ il dovere di proseguire nella ricerca, il dovere, in altre parole, di fare congetture e di verificare le ipotesi. Ivi, p. 72. Anche Hollinger sottolinea il travisamento di James: Lungi dal difendere quella passività che James gli attribuiva, Clifford celebrava l’azione basata su quella credenza difesa criticamente disponibile in un dato momento D. A. Hollinger, op. cit, p. 71. Hollinger è molto critico anche verso la sottile accusa di monismo che James attribuisce alla dottrina Cliffordiana; certo, Clifford riteneva che lo scienziato dovesse procedere (e di fatto sempre procedesse) nelle sue ricerche con la convinzione che natura non facit saltus e che quello che il comportamento della natura di ieri non sarebbe stato differente da quello di oggi o di domani (con condizioni immutate), ma questo non lo portò mai a dire che la natura proceda uniformemente in maniera assoluta, anzi questa convinzione, questa credenza rientrava per lui proprio all’interno di quei belief che non sono affatto giustificati: Per Clifford, il principio dell’uniformità di natura era una guida per l’azione, il fondamento per porci nuove domande sul mondo. Ma credervi come se si trattasse di una verità assoluta sarebbe stato un esempio di credenza sulla base di un’evidenza insufficiente. Ivi, p. 72. L’ultimo punto in cui James interpreta malamente il pensiero di Clifford non è poi meno importante: Wernham rileva come il pragmatista americano avesse attribuito al matematico inglese la teoria secondo la quale, insieme con la credenza si debba sospendere l’azione, quando l’evidenza non è sufficiente; all’inizio di questa nostra breve analisi dell’interpretazione Jamesiana dell’ Etichs of Belief abbiamo detto come l’argomento di Clifford sia però la credenza e non l’azione; una differenza di non poco conto; infatti non è detto (ma soprattutto non lo dice Clifford) che ogni nostra azione debba essere fondata su una credenza: Un altro modo di interpretare scorrettamente Clifford sta nell’avergli attribuito l’affermazione che, quando l’evidenza è insufficiente, allora dobbiamo sospendere anche l’azione e non solo la credenza. È...] Ma Clifford distingue bene tra il credere a qualcosa e l’agire in base a quella credenza ed è chiaro nello specificare che la sua tesi riguarda solo il primo caso. J. C. S. Wernham, op. cit. p. 73. Ma perché allora James commise questi errori di non poco conto? Le spiegazioni possibili sono differenti: certamente James comprendeva che era utile alla sua ‘causa’ estremizzare una posizione che se rappresentata in tutta la sua complessità e con tutte le sue nuances avrebbe probabilmente perso la forza di contraltare sufficiente a fare risaltare la teoria della volontà di credere, ma nel fare questo James attribuì parte della sua teoria, o meglio del suo argomento, alla dottrina di Clifford. Nel
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lettore che non si affidi esclusivamente all’interpretazione datane da James per comprendere la teoria cliffordiana della credenza rimane perciò il dubbio che il filosofo americano abbia scelto come ‘avversario’ un autore che di fatto era molto più vicino alle sue posizioni (ma che bene poteva prestarsi al ruolo di foil capace di mettere nel giusto risalto la sua teoria) principalmente perché quest’ultimo era morto da quasi vent’anni e non avrebbe potuto replicare alle sue ‘distorsioni’; anche Hollinger sembra favorire questa interpretazione, che certamente non getta una luce positiva sull’onestà intellettuale del nostro autore: La vittoria [di James contro Clifford] era resa ancora più facile dal fatto che Clifford era morto già da diciott’anni, quando James, nel 1897, pubblicò la Will to Believe. D. A. Hollinger, op. cit., p. 71. James poté così dunque attribuire agevolmente a Clifford la sua teoria che nessuno agisce in base a p se allo stesso tempo non crede in p. Ivi, p. 74. In questa maniera emerge l’immagine di un Clifford che, negando di credere con un’evidenza insufficiente, neghi anche che sia lecito agire in base a quella credenza. Ma, come abbiamo detto all’inizio, questo non sarebbe per noi così importante (se non per il fatto che ci mostrerebbe un William James critico un po’ distratto) se non avesse poi degli effetti importanti anche sull’immagine della teoria jamesiana che emerge dalle pagine della Will to Believe. Conclude Wernham: Per una strana ironia, comunque, è Clifford a ‘ridere per ultimo’. I critici hanno letto nel saggio di James una dottrina di un morale diritto-di-credere, in replica alla dottrina morale di Clifford deldiritto-di-non-credere. In sostanza essi l’hanno letta come una rivale etica della credenza. [...] Prendere Clifford come contraltare distorce il contenuto del saggio di James mettendo in primo piano la tesi morale e lasciando il resto nell’ombra. Ibidem. Fatte queste considerazioni non bisogna però eccedere nel considerare la critica di James a Clifford totalmente ingiustificata; di fatto i due pensatori stavano su posizioni ben differenti (giustificabili anche in base ai differenti ambienti culturali e sociali nei quali essi elaborarono il proprio pensiero): Clifford aveva una considerazione molto meno elevata della fede religiosa condivisa, in forme diversissime, dalla gran parte del genere umano. Clifford non vedeva affatto nella ricerca scientifica (e anche nelle sue forme più dubitative) un pericolo per la sopravvivenza della fede religiosa; anzi, egli vedeva nella religione, e soprattutto nella sua incarnazione ecclesiastica, un pericolo per l’indipendenza della ricerca scientifica; più che da una diversa metodologia James e Clifford erano separati da una diversa sensibilità nei confronti dei rischi della modernità; ma, sebbene Clifford fosse certamente meno attento ai ‘diritti’ della fede religiosa, non era poi contro questo tipo non scientifico di credenza ch’egli voleva combattere la sua battaglia: l’avversario principe dello scienziato inglese non era la fede delle masse, ma il principio di autorità con cui la chiesa ‘ordinava’ le giuste credenze, un principio che, se non fosse stato combattuto con le armi della scienza, avrebbe ben presto annullato la capacità critica delle persone intellettualmente meno preparate: Clifford non attaccava direttamente il teismo né il cristianesimo: “L’etica della credenza” era un’appassionata difesa della ricerca critica e un violento attacco contro l’abitudine di accettare, senza averli prima esaminati, le supposte verità frutto dell’autorità politica e religiosa, della tradizione sociale o dei sentimenti. D. A. Hollinger, op. cit., p. 75. Ma anche in questo caso sarebbe scorretto ridurre le differenti posizioni dei due pensatori a una diversa sensibilità a certi fenomeni; come rileva giustamente Hollinger, inserendo le rispettive filosofie nel loro proprio contesto storico e culturale (e religioso), James e Clifford si trovarono a pensare in due ambienti radicalmente differenti e anche per questo i ‘nemici’ che essi tentarono di combattere furono così diversi (diventando poi ufficialmente avversari nelle pagine della Will to Believe): Clifford aveva buone ragioni per comprendere diverse strutture di plausibilità come veicoli di potere. Gli intellettuali britannici della sua generazione dovevano combattere contro una forte chiesa che, nel 1877 (anno di pubblicazione dell’Ethics of Belief), molto più di quando James scriverà vent’anni dopo, continuava a esercitare un’enorme autorità sull’educazione e la cultura. [...]. James invece fiorì durante l’enorme espansione delle università americane e in una società che trattava la religione più come una faccenda privata [...]. Ivi, p. 78. Come detto sopra i ‘nemici’ da combattere erano ben differenti per i due pensatori. E forse fu proprio in ragione del differente milieu (e dei recenti progressi della sociologia e della psicologia) che James poté sviluppare una maggiore consapevolezza di del potere che un’eredità scientifica apparentemente neutrale (come poteva essere interpretato il positivismo da parte di Clffford) possiede nel dirigere il corso di ogni futura ricerca; inoltre, anche per la sua specifica formazione universitaria, James era molto più sensibile dello scienziato inglese rispetto all’importanza che ha la psicologia del ricercatore (visto sempre più nella sua dimensione passionale, o potremmo dire più semplicemente, umana) nell’elaborazione di una teoria scientifica. Forse è proprio questa anticipazione della futura epistemologia novecentesca (cui abbiamo accennato sopra) ciò che rende lo scritto di James ancora appetibile, piuttosto che la sua difesa per un genere di credenze che col tempo persero la loro separatezza rispetto alle credenze scientifiche. Per un approfondimento dei temi trattati in questa nota cfr. D. A Hollinger, William James and the Culture of Inquiry, in D. A Hollinger (a cura di). “In the American Province; Studies in the History and Historiography of Ideas” Indiana University Press, Bloomington 1985. Su posizioni vicine a quelle di Hollinger si colloca lo studio di A. Van Harvey, The Ethics of Belief Reconsidered, “Journal of Religion”, 59 (1979), pp. 406-420. Hollinger dichiara anche di condividere la posizione di Wernham (più che altro la sua ‘riabilitazione’ di Clifford), ma di non essersi potuto servire della sua Heretical View per la stesura del suo saggio. Gli scritti di Clifford sono raccolti in due volumi: W. K. Clifford, Lectures and Essays, 2 Voll., a cura di Leslie Stephen e Sir Frederick Pollock, Macmillan & Co., London 1979. Altri scritti interessanti, segnalati in bibliografia da Wernham, sono i seguenti: R. R. Ammerman, Ethics and Belief, “Proceeding of the Aristotelian Society”, 65 (1964-5), pp. 257-266; R. W. Beard, The Will to Believe Revisited, “Ratio”, 2 (1966), pp. 169-179. S. T. Davis, Wishful Thinking and “The Will to Believe”, “Transactions of the C. S. Peirce Society”, 4 (1972), pp. 231-245. P. K. Dooley, The Nature of Belief; The Proper Context for James’ “The Will to Believe”, “Transactions of the C. S. Peirce Society”, 3 (1972), pp. 141-151 (le considerazioni di Dooley, cui abbiamo dato voce in questo capitolo, sono state poi racchiuse nel suo Pragmatism as Humanism, cit . specialmente le pp. 83-92); P. H. Hare e E. H. Madden, William James, Dickinson Miller and C. J. Ducasse on the Ethics of Belief, “Transaction of the C. S. Peirce Society”, 3
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(1968), pp. 115-129; W. J. MacLeod, James’s “Will to Believe”: Revisited, “Personalist”, 48 (1967), pp. 149-166; D. S. Miller, James’s Doctrine of the “Rigt to Believe”, “The Philosophical Review”, 51 (1942), pp. 541-558; Id, “The Will to Believe” and the Duty to Doubt, “International Journal of Ethics”, 9 (1898-9), pp. 169-195. M. G. Singer, The Pragmatic Use of Language and The Will to Believe, “American Philosophical Quarterly”, 1 (1971), pp. 24-34; L. Stephen, The Will to Believe, “The Agnostic Annual”, 1898, pp. 14-22; e infine, di J. C. S. Wernham, Did James have an Ethics of Belief?, “Canadian Journal of Philosophy”, 2 (1976), pp. 287-297.
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Capitolo 4.3 Il dilemma del determinista Certe persone hanno un’enorme disposizione all’amicizia e riescono a gioire della vita altrui; se il cuore di queste persone non fosse così grande, esso non potrebbe contenere tante verità (R. B. Perry) La reazione al positivismo fu, come si sa, anche una reazione al cosiddetto “incubo di fine secolo” e cioè a quel determinismo a quell’entropia teorizzati dalla scienza secondo cui l’universo correrebbe verso la sua inevitabile distruzione. (C. Sini)
4.3.1 “The Dilemma of Determinism” Prima di concludere l’analisi della teoria jamesiana della volontà di credere con la sua applicazione al tema della libertà, è utile analizzare due degli Other Essays in Popular Philosphy che più di altri ci interessano per comprendere la fisionomia di William James ‘filosofo della libertà’: si tratta del famoso The Dilemma of Determinism e di The Sentiment of Rationality. Sono questi due scritti intimamente legati: il Dilemma of Dterminism infatti, nella difesa di una concezione indeterministica dell’uomo, apre la strada (ponendola come esigenza) al ‘rinnovamento’ del concetto, e del sentimento, jamesiano di razionalità. Come abbiamo già anticipato, la decisione di William James di abbracciare una visone indeterministica della natura e libera della volontà dell’uomo non si fonda affatto, come sembrerebbe a una superficiale lettura, sul prevalere della componente passionale o emotiva su quella razionale, ma sul prevalere di una ‘nuova’ razionalità rispetto a quella ci facevano riferimento i principali avversari di James: i razionalisti e i positivisti1.
1 Ayer, come abbiamo già ampiamente visto nella terza Parte della nostra tesi ritiene al contrario che James sostenga la credenza nel libero arbitrio su basi schiettamente emotive (annullando così qualsiasi precipitato filosofico del suo pensiero in proposito). Browning invece, con cui ci sentiamo di condividere il giudizio, sottolinea la filosoficità dell’approccio jamesiano al tema del libero arbitrio (proprio in opposizione all’interpretazione ‘emotiva’ di Ayer): [...] la nostra esigenza di un ordine morale razionale è reale quanto quella per un ordine teoretico. A. J. Ayer ritiene che questa sia la sola base per la credenza di James nelle libertà dell’uomo e interpreta la scelta per la libertà come basata su fondamenta essenzialmente “emotivi”. D. S. Browning, op. cit., p. 146. Browning ritiene che l’argomentazione jamesiana del saggio sul determinismo sia tutt’altro che basata solo su considerazioni emotive, considerandone invece la struttura essenzialmente logica: il determinista, prima o poi dovrà cadere in contraddizione — anche se questa non è affatto una contraddizione logica, perché altrimenti ci sarebbero effettivamente argomenti a favore di una teoria piuttosto che dell’altra — perché, se è un uomo che vive e che agisce, dovrà avere dei rimorsi o dei rimpianti e in sostanza pensare che le cose sarebbero dovute andare in un altro modo e questo sarebbe in contraddizione col suo determinismo. Cfr. ibidem. Brennan sembra essere più vicino alla posizione di Ayer piuttosto che a quella di Browning: [...] la scelta fra credere nella libertà o nel determinismo è una scelta che deve essere compiuta sulla base della nostra natura passionale. P. B. Brennan, op. cit., pp. 106-107.
Sulla questione della libertà James, lo psicologo, è ufficialmente neutrale; ma James l’etico e il metafisico, è un appassionato difensore della libertà. I lavori principali di James sono delle giustificazioni filosofiche della libertà. In ogni caso la sua più forte difesa della libertà si trova nel suo saggio “Il dilemma del determinismo”. [...] come mostra il titolo, il fine di James è quello di mostrare le contraddizioni del determinismo. Egli comincia mostrando che non c’è una differenza pragmatica tra i deterministi “duri”, che parlano di fatalità e di predeterminazione, e quelli “morbidi”, che, à la Spinoza, parlano della libertà come di una necessità riconosciuta. La differenza si pone invece tra deterministi e indeterministi. L’alternativa non è tra la libertà come funzione dell’ignoranza oppure come necessità compresa, ma determinazione oppure novità2. Come abbiamo visto nella parte terza della nostra tesi, il James psicologo è solo in apparenza “neutrale” rispetto alla questione del determinismo applicato alla causalità degli stati di coscienza, ma è pur vero che egli stesso, verso la fine dei Principles fa esplicitamente riferimento, per soddisfare chi volesse conoscere il suo pensiero in proposito, al saggio dell’84 che stiamo qui considerando. Scrive James nel capitolo sulla Volontà: Chi sta scrivendo opta per l’alternativa della libertà, ma, dal momento che le basi che fondano la sua opinione sono etiche piuttosto che psicologiche, egli preferisce escluderle dal presente libro3. E, in una breve nota aggiunge: Esse [le basi per sostenere la libertà] possono essere rintracciate, espresse in una forma in qualche modo popolare, in una conferenza sul “Dilemma del determinismo”, pubblicata sull’Unitarian Review di Boston, nel Settembre del 1884. (Vol. XXII, p. 193)4.
James comincia il suo saggio con una considerazione di carattere squisitamente storico-filosofico; egli nega decisamente che riguardo alla controversia sul libero arbitrio non possano nascere idee nuove e che tutto sia stato già detto e possa essere semplicemente ripetuto, con parole diverse5. Dopo avere ricordato gli ultimi contributi filosofici in proposito6 James dichiara esplicitamente qual è lo scopo
P. K. Dooley, op. cit., p. 65. Continua Dooley qualche pagina oltre: James giunse a ritenere che la possibilità dell’esperienza morale della responsabilità richiede che l’uomo possegga vera libertà [ovvero non libertà come funzione dell’ignoranza o come “necessità compresa”] che i liberi atti dell’uomo introducano novità nel mondo e che il mondo non sia perciò già determinato. Ivi, p. 68. 2
3
PP, p. 1176.
Ibidem¸n. 68. I pochi commenti [che James dedica al problema del determinismo] nei Principles richiamano un precedente argomento sviluppato nel suo The Dilemma of Determinism, 1884. [...] Il suo argomento a favore del libero arbitrio è fondamentalmente questo: 1) La più razionale fra due alternative è la più vera e noi dovremmo dunque sceglierla, e 2) il postulato del libero arbitrio è più razionale di quello del determinismo poiché esso rende ragione in maniera migliore dei semplici fatti dell’azione pratica. D. S. Browning, op. cit., p. 145. 4
Cfr. WB, p. 114. D’altronde il medesimo discorso è valido, secondo il giudizio dello stesso James espresso nel primo saggio della Will to Believe, per ogni ‘controversia metafisica’; cfr. WB, p. 23. 5
James cita i nomi di Green, Bradley, Hinton, Hodgson, Renouvier, Fouillée e Delboeuf. In nota scrive: e ora posso citare anche Charles S. Peirce — vedi The Monist anni 1892-1893. WB, p. 114, n. 2. Per quanto riguarda Delboeuf, giova qui riportare 6
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ch’egli si prefigge di raggiungere, diradando fin da subito dubbi che potrebbero sorgere nel lettore che non conoscesse già il suo pensiero:
Io nego apertamente fin dall’inizio qualsiasi pretesa di provare la verità della libertà della volontà. Quel che spero di ottenere è di indurre qualcuno di voi a seguire il mio esempio assumendola come vera e agendo secondo questa convinzione7. Posta questa importante premessa, su cui si regge tutta la possibilità di argomentare in favore dell’indeterminismo (mostrando le incongruenze e le contraddizioni del determinismo piuttosto che dimostrando la verità del primo) James pone all’attenzione del lettore altre due importanti premesse, che saranno i pilastri della sua linea argomentativa: Primo, quando noi formuliamo delle teorie sul mondo [...] lo facciamo al fine di ottenere una concezione delle cose che ci dia una soddisfazione personale e, secondo, fra due le parole di Bjork: James aveva letto molti articoli che Delboeuf aveva scritto per la Revue [philosophique] sul determinismo e aveva chiesto a Renouvier di commentarli. Delboeuf aveva intrigato James ipotizzando che nel mondo deterministico esistessero delle fratture, fratture cause di quella discontinuità che rappresentava la possibilità teoretica della libertà. Questa libertà non violava, secondo Delboeuf, la teoria della conservazione dell’energia [...]. Sebbene Delboeuf non proponesse l’idea di un universo in evoluzione (come avrebbe fatto in seguito Bergson) egli concluse che la realtà era caratterizzata dalla novità. D. Bjork, op. cit., p. 142. Ritenendo che il determinismo fosse logicamente irrefutabile, mentre la libertà fosse psicologicamente autoevidente e moralmente necessaria, la chiave di volta stava per lui [Delboeuf] nel verdetto fornito dalla scienza fisica. così egli si dedicò a speculazioni cosmologiche nelle quali insisteva sulla reale esistenza di discontinuità nella natura, che egli pensava potessero spiegare da sole la libertà. Egli avanzò così l’ingegnosa idea, quella che James chiamerà la “Delbovine hypothesis”, che la libertà sia coerente col principio di conservazione dell’energia, poiché l’agente libero non introduce una nuova quantità di energia, ma solo sceglie il tempo in cui energie già presenti debbano intervenire. [l’agente libero] può accelerare o ritardare [l’intervento di queste energie] TCWJ I, p. 688. L’attenzione di James era stata inizialmente attratta dal Delboeuf psicologo, dove egli rappresentava la nuova tendenza a unire la psicologia con la fisica e con la fisiologia.. Ivi, p. 686. Bene questa tua considerazione e metti in relazione a quanto già detto di Peirce[fai riferimento a quanto hai detto di Peirce nella parte terza e comunque sottolinea che appare evidente che queste opere non hanno influenzato la Will to Believe, nel suo saggio sul Dilemma (che è dell’84), Né possono avere influenzato i Principles; rimane il problema del Metaphysical Club, ma non si capisce se qui James dice ‘ora posso dire’ perché solo allora erano già stati pubblicati o se solo ora egli era a conoscenza delle riflessioni di Peirce in proposito; forse entrambe le spiegazioni sono parziali; di fatto non si può rintracciare un’influenza diretta e infatti la citazione di Peirce sembra più un obbligo di un amico piuttosto che il riconoscimento di un debito filosofico. 7 WB, p. 115; corsivo nostro. Che la verità del libero arbitrio non fosse scientificamente o filosoficamente dimostrabile era già stato ampiamente sottolineato da James nei Principles. Dobbiamo comunque ricordare che questo capitolo, sebbene faccia parte di un’opera pubblicata nel 1897, venne scritto nell’84, quando le idee di James sull’argomento erano tutt’altro che note. È immaginabile che James fosse al tempo convinto dell’impossibilità di dirimere la questione del libero arbitrio scientificamente o intellettualmente, in ragione della sua adesione quasi totale alle riflessioni di Renouvier in proposito. James, lungo tutto il saggio sul dilemma del determinismo, rimarca più volte l’impossibilità di dimostrare la verità dell’ipotesi indeterministica (cfr. ivi, p. 117) e non si limita alla più o meno ipotizzabile condivisibilità di questa premessa epistemologica. Ancora nel nucleo centrale dell’argomentazione tesa a mostrare l’irrazionalità del determinismo, James riprenderà la questione; noi anticipiamo qui le sue parole: La scienza afferma di non potere raggiungere conclusioni che non siano basate su dati di fatto, su cose che sono effettivamente avvenute; ma come può la sicurezza che qualcosa è effettivamente accaduto darci la minima informazione su ciò sarebbe potuto accadere al suo posto? [...]. In faccende dove contano le possibilità e non i fatti, i fatti non hanno voce in capitolo. [...] La verità è che i fatti non hanno praticamente nulla a che fare col renderci dei deterministi o degli indeterministi. Certo, noi possiamo sbandierare una serie di fatti a favore dell’una o dell’altra ipotesi e, se siamo deterministi parleremo dell’infallibilità con cui si può predire la condotta del prossimo, mentre se siamo indeterministi sottolineeremo il fatto che, proprio perché non possiamo prevedere la condotta altrui, nelle cose grandi e in quelle piccole, la vita si mostra come un gioco rischioso. Ma come non vedere la misera insufficienza di questa cosiddetta testimonianza oggettiva da una parte o dall’altra? ivi, p. 119. Sempre sull’impossibilità di dimostrare la verità dell’ipotesi deterministica (e viceversa), cfr. ivi, p. 124 e p. 135.
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concezioni, quella che ci sembra, nell’insieme, più razionale dell’altra, è fra le due la più vera8. Prima di procedere insieme con James mette conto di analizzare brevemente l’importanza e la validità di queste due premesse, che, per quanto unite dall’autore nel tentativo di dare una soluzione filosofica al problema del determinismo, sono fra loro radicalmente differenti, anche nel grado di accettabilità che esse possono suscitare prima facie nel lettore. La seconda premessa è forse quella più universalmente condivisibile, soprattutto da un ‘pubblico filosofico’: nella scelta fra due alternative teoretiche conviene prendere per vera (e quindi credere) quella che sembra essere più razionale; sembra un’affermazione abbastanza pacifica e persino banale, ma non è così. James, forse consapevolmente, non dice che questa classica ‘metodologia’ (che può essere accettata dall’idealista come dall’empirista) può essere seriamente rivoluzionata da un cambiamento del concetto di razionalità (che vedremo più approfonditamente seguendo le linee principali del saggio dedicato al sentiment of rationality). Questo ci porta ad avvicinarci dunque alla prima premessa che, almeno all’apparenza, sembra essere meno universalmente condivisibile: quanti filosofi potrebbero obiettare che le proprie teorie non sono state elaborate al fine di ottenere una maggiore soddisfazione personale (subjective satisfaction), ma in vista di una rappresentazione delle cose più razionale, più omogenea, meno contraddittoria etc? Questa posizione sarebbe però inconciliabile con quella jamesiana solo se si desse per certo che la stessa razionalità sia qualcosa che appartiene all’oggetto in-sé e che il filosofo ha solo il — difficile ma realizzabile — compito di portare alla luce della conoscenza umana. Come vedremo, per James il concetto di razionalità è qualcosa di ben diverso e potremmo dire più ‘ampio’ dell’immagine di essa che secoli di filosofia (soprattutto da Cartesio in poi) ci hanno tramandato; i due postulati, in sostanza, che a tutta prima sembravano essere così diversi (e addirittura collocati su due piani semantici differenti) si fondono, se analizzati nelle loro premesse e nelle loro conseguenze, in una sola premessa: noi dobbiamo tenere per vero (e quindi abbracciare come credenza con le implicite conseguenze pratiche) quell’ipotesi che sia capace di fornirci una maggiore subjective satisfaction. Come appare subito evidente si tratta di una premessa molto grave e tutt’altro che ‘formale’, una premessa che, nata — come abbiamo visto — dagli studi psicologici di James in opposizione all’immagine passiva che emergeva dalla dottrina spenceriana e in genere dalle filosofie materialistiche e riduzionistiche e sviluppata come base ‘tecnica’ per potere sostenere filosoficamente la maggiore razionalità dell’indeterminismo, porterà un soffio di rivoluzionarietà anche nella gnoseologia del
Ivi, p. 115. Che queste due premesse siano i ‘pilastri’ su cui si fonda tutta l’argomentazione jamesiana è dichiarato esplicitamente dallo stesso autore: Spero che voi vogliate condividere queste due premesse con me, perché temo che chi non le condivida non potrà trovare grande soddisfazione nelle cose che mi appresto a dire. Ibidem. 8
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filosofo americano, un tema questo però, cui potremo soltanto accennare, anche in relazione a quanto detto nella parte terza della nostra tesi. Se una certa formula atta a spiegare la natura del mondo viola una mia esigenza morale, io mi sento libero di sbarazzarmene o, per lo meno, di dubitarne, come se questa contraddicesse la mia richiesta di uniformità nella catena di causa ed effetto. Dal momento che la prima esigenza è, a quanto posso vedere, soggettiva e passionale quanto l’altra. [...] Tutti i nostri ideali scientifici e filosofici sono altari a un Dio sconosciuto. L’uniformità allo stesso modo del libero arbitrio. Ma, se qualcuno pretenda di affermare che mentre la libertà e la varietà rappresentano delle richieste soggettive, mentre la necessità e l’uniformità sono qualcosa di radicalmente differente, io non vedo come si possa proseguire nel dibattito9. Quanto abbiamo detto in relazione al saggio precedentemente esposto ci torna qui dunque di enorme utilità: solo dopo avere demolito la pretesa positivistica e razionalistica di potere essere in grado di formulare delle teorie che siano vere in-sé, e che possano trovare l’unica valida verificazione nell’esperienza esterna (per esempio attraverso una meticolosa ricerca empirica e sperimentale), James può azzardarsi ad affermare che l’esigenza di vedere un mondo libero non sia sotto nessun punto di vista inferiore alla pretesa degli scienziati (una pretesa fondata giusto su una profonda e legittima esigenza piuttosto che sull’evidenza dei fatti) di vedere nel mondo le tracce di una profonda uniformità che si declina in un’infinita e infinitamente interconnessa catena di relazioni causali necessariei.
James, poste queste premesse, comincia l’argomentazione vera e propria, ma non prima di avere posto bene in luce i ‘termini’ della questione, da un punto di vista schiettamente linguistico. Si tratta di uno di quei casi in cui all’esigenza correttamente sentita da James di fare chiarezza anche da un punto di vista terminologico, onde non incorrere in fraintendimenti dovuti più a una scelta linguistica o stilistica piuttosto che alla sua posizione teoretica, non segue l’effetto chiarificatore desiderato. James dichiara di volere difendere l’idea di caso e non quella di libertà. Ma come abbiamo visto nella trattazione del tema del caso svolta nel cap 3.1, James non oppose al determinismo assoluto il caso, bensì la libertà, che del determinismo, potremmo dire, non è il contrario, ma il contraddittorio. Un mondo casuale, come abbiamo più volte sottolineato — anche a proposito della posizione ‘anticipatrice’ di Renouvier — è per la responsabilità morale dell’individuo un terreno sterile come quello del più crudo necessitarismo.
WB, p. 116. Si ricorderà come James avesse parlato di “altare a un Dio sconosciuto” a proposito del principio di causalità anche nei Principles of Psychology. Cfr. PP, p. 1264. 9
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Cercheremo, anche in questo caso, di cogliere the center of the vision di James superando una griglia linguistica che, oltre a essere in apparente contraddizione con quanto detto nei Principles (opera che noi abbiamo sempre letta come omogenea ‘premessa scientifica’ al pensiero filosofico di James) sembrerebbe non garantire l’indipendenza dell’individuo che è invece il cuore del Dilemma of Determinism e di tutta la raccolta della Will to Believe. Ci sono due parole che normalmente sono d’intralcio alle riflessioni [intorno al determinismo] e che noi dobbiamo immediatamente definire se vogliamo fare qualche progresso. Una è la bella parola libertà e l’altra è l’obbrobriosa parola caso. Io ho intenzione di conservare quest’ultima e di liberarmi della prima10. James non fa mistero dei motivi di questa scelta e, per quanto essi appaiano oggi, a distanza di più di un secolo, non troppo importanti, essi rimangono pienamente giustificati, anche se, come vedremo fra breve, a questi motivi ‘contingenti’ se ne aggiungono di diversi, spiegabili all’interno del cammino filosofico che James percorse per passare da una timidissima psicologia della libertà a una solida filosofia della libertà.
James dice che la parola libertà è ormai difficilmente utilizzabile per chi voglia esporre chiaramente il proprio pensierom in quanto essa viene utilizzata sia dagli indeterministi che dai deterministi. Ciò che colpisce è ovviamente che sia utilizzata anche da questi ultimi: James non si riferisce ai deterministi ‘duri’ che negano persino che la parola libertà abbia un qualche significato razionalmente comprensibile, ma a quei soft determinists che sono diventati i campioni del determinismo contemporaneo, incapace di avere il coraggio dell’old-fashioned determinism.
I rappresentanti di questo ‘nuovo’ e ‘morbido’ determinismo sono personaggi come Bradley, Howinson e Hodgson, autori che rifuggono da parole come fatalità, predeterminazione, necessità e che, pur negando all’uomo la possibilità di essere liberi quanto facevano i loro predecessori, ora ammantano questi concetti con una ‘nuova’ — e per James insostenibile — idea di libertà. Per questi autori la libertà non è che una necessità riconosciuta. Per James l’unica differenza fra queste due forme di determinismo sta nell’onestà e nella chiarezza della forma ‘dura’ rispetto a quella ‘morbida’. James cerca dunque di fare chiarezza col non utilizzare la parola libertà (che sarebbe invece il più adatta a esprimere la sua
10
WB, p. 117.
392
posizione), poiché questa è stata recentemente ‘usurpata’ dalla nuova generazione di deterministi tesi a conciliare ciò che invece, per rappresentare una concreta alternativa, deve rimanere inconciliabile.
L’utilizzo della parola ‘caso’ (chance) sembra dunque a James più appropriato, proprio perché essa mostra immediatamente la sua opposizione all’avversaria necessità. Si tratta a nostro giudizio di una scelta poco felice (e infatti molte delle critiche mosse a James riguardo alla sua difesa del libero arbitrio sottolineano proprio l’incongruenza tra libertà — e conseguente responsabilità morale — e casualità), ma che può essere anche spiegata, come dianzi anticipato, in ragione del tentativo del nostro autore di cominciare a completare il discorso sulla libertà affrontato da un punto di vista psicologico nei Principles da una prospettiva filosofica che superi la concentrazione della nostra attenzione sulle possibilità (psicologiche, fisiologiche e biologiche) che l’individuo ha per scegliere fra una serie di futuri non determinati, per comprendere ‘metafisicamente’ la possibilità stessa di questi futuri indipendenti. Semplificando, potremmo dire che nei saggi della Will to Believe e principalmente in quello sul dilemma del determinismo, James comincia il passaggio da un’analisi delle condizioni interne della libertà a un’analisi di quelle esterne. Si tratta di una distinzione effettivamente fragile, ma che emerge dal lungo cammino che portò James da un’ipotesi psico-fisiologica (incentrata sul feeling of effort) a una costruzione ‘metafisica’ che, per quanto incompiuta, farà del libero arbitrio il motore umano di un universo pluralistico in continua evoluzione.
James comincia i suoi studi etici chiedendosi quali siano le condizioni della possibilità di un’esperienza morale. Egli considera pragmaticamente l’esperienza morale della responsabilità per l’azione. Egli conclude che sono richieste tre condizioni: che l’uomo sia libero, che gli atti liberi dell’uomo introducano la novità nel mondo, e che il mondo sia in una fase di sviluppo11. E’ evidente che queste tre condizioni si sostengono l’un l’altra, ma James non le affrontò contemporaneamente e, per quanto solo con le ultimissime opere (quelle cosiddette ‘metafisiche’) egli tenterà di costruire una filosofia coerente sulle ultime due condizioni sopra citate, già nella Will to Believe l’analisi dell’indeterminismo supera gli stretti limiti dell’approccio psicologico adottato nel Feeling of Effort e nei capitolo sulla volontà dei Principles, per approdare alla prima formulazione di quella filosofia pluralistica che troverà la sua massima espressione in A Pluralistic Universe.
11
P. K. Dooley, op. cit., p. 63.
393
Il pluralismo è unito con l’individualismo a costituire una metafisica comunemente nota come “idealismo etico”. Si potrebbe dire che ci sono due motivi per il pluralismo jamesiano, che rappresentano i due motivi più profondi del suo empirismo. Il motivo sperimentale e volontaristico lo spingevano a vedere il mondo come una società di volontà morali, mentre l’esperienza lo spingeva a dipingere il mondo come un’irriducibile varietà di qualità differenti. The Will to Believe è dominato dal primo di questi motivi, mentre il pluralismo successivo è dominato dal secondo12. Riprenderemo alla fine dell’analisi di questo saggio il tema del pluralismo jamesiano; per ora ci basti dire le critiche che James muove qui direttamente al determinismo coinvolgono nella medesima misura le dottrine monistiche13 (prima fra tutta quella di Hegel, cui dedicheremo una breve analisi seguendo i passaggi principale del saggio On Some Hegelism) e che la filosofia indeterministica che si dimostrerà essere più razionale sarà la base di quel pensiero pluralistico che, nato come sublimazione di una complessa personalità, diventerà la base filosofica del pensiero più maturo di James. James era, senza dubbio, un indeterminista, che accettava la dottrina del caso come di un modo di fornire possibilità alternative date le medesime condizioni; ma nel brillante saggio su “Il dilemma del determinismo” [...] egli non è tanto intento a negare il determinismo in generale, quanto a combattere il determinismo monistico, nel quale il mondo, fatto di un solo blocco, deve essere approvato o condannato come un’unità indissolubile14. Nell’analisi di questo “brillante saggio” terremo sempre presenti queste parole del Perry; ma torniamo ora alla distinzione fra determinismo e indeterminismo; nonostante i già ricordati tentativi che alcuni autori contemporanei avevano fatto di conciliarli in qualche maniera, James riteneva che fra le due posizioni ci fosse una irriducibile differenza: 12
TCWJ II, p. 212.
13 E, come aveva sottolineato la vanità del tentativo (sviluppato anche da alcuni suoi amici come Hodgson) di conciliare determinismo e libertà, così James rimproverava a un altro suo caro amico, l’idealista Josiah Royce, la pretesa di conciliare il determinismo con la dottrina monistica di cui quest’ultimo era il più fiero rappresentante negli Stati Uniti d’America: in una lettera a Renouvier del 29 Marzo 1888, James scrive: Royce [...] pensa che l’indeterminismo non sia incompatibile con il Pensiero Assoluto monistico [...]TCWJ I, p. 705. E, qualche mese dopo (7 Agosto 1888), il filosofo francese indirizzerà a James queste parole: Royce cerca di trovare una riconciliazione tra il monismo e qualche sorta di indeterminismo. Io sono invece propenso a credere che l’epitome di tutta la riflessione, durata cinquantaquattro anni, sia la conclusione che la pura unità e la necessità assoluta siano due aspetti della stessa idea, — sia che la forma di quest’idea sia materialistica, idealistica o teologica. Ivi, p. 707. 14 TCWJ II, p. 212. James riconosceva il determinismo come il comune denominatore di molte filosofie all’apparenza diversissime fra loro, come il materialismo riduzionistico e l’idealismo. Se è dunque vero che per il nostro autore non esiste filosofia monistica che non sia allo stesso tempo deterministica (e lo stesso può dirsi del materialismo), è altrettanto vero che il determinismo può declinarsi in diverse forme e assumere varie sfumature; il determinismo monistico è il bersaglio principale della maggior parte dei saggi della Will to Believe, come il determinismo materialistico e riduzionistico era stato il nobile avversario del James dei Principles of Psychology. Di fatto James, come vedremo fra breve, si occupa molto più del determinismo ‘morbido’ (dopo una poco felice parentesi dedicata alla demolizione dell’hard determinism), di quello che più è legato al tema del male: in una nota scritta in calce alla conclusione della rappresentazione delle alternative del dilemma del determinismo, James scrive: Al lettore che rimane soddisfatto del suo pessimismo e che non ha obiezioni a riconoscere la malvagità del tutto [ non solo di quelle parti che suscitano il nostro rincrescimento] io non ho più molto da dire. [...] Se invece egli vuole dire che l’ingiustizia di alcune sue parti non preclude l’accettazione di un universo di cui altre parti sono fonte di soddisfazione, io lo considererò come un mio alleato. Egli ha abbandonato la nozione dell’Intero, che rappresenta l’essenza del monismo deterministico e vede le cose in una maniera pluralistica, come faccio io nel presente scritto. WB, p. 129, n. 6.
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Il determinismo afferma che le parti attuali dell’universo determinano e decidono quali saranno le altre parti. Il futuro non contiene possibilità ambigue nascoste nel suo ventre15. L’indeterminismo, al contrario, afferma che le parti hanno una certa quantità di libero gioco l’una sull’altra, cosicché lo stato di una non determina necessariamente quel che saranno le altre16. Poste queste lucide definizioni, James così conclude: La questione, come si può vedere, è perfettamente chiara e non può essere confusa da nessuna ambiguità terminologica. La verità deve stare da una parte o dall’altra, e la verità di un’ipotesi rende l’altra falsa17. E questa verità, non essendo per James, raggiungibile con gli strumenti della logica o della ricerca scientifica, non può che essere il frutto di un postulato. La verità del determinista si fonda sul postulato dell’uniformità della natura e la verità dell’indeterminista si fonda sul postulato della moralità del mondo. Come abbiamo già anticipato, e come vedremo meglio fra breve analizzando il saggio jamesiano sul sentimento della razionalità, si tratta di due postulati di razionalità (postulates of rationality) e
Ivi, p. 117. James prosegue: Quello che noi chiamiamo il presente è compatibile con un’unica totalità. Qualsiasi altro futuro diverso da quello fissato dall’eternità è impossibile. Il tutto è in ogni parte e si fonde col resto in un’unità assoluta, un blocco ferreo [“iron block”] nel quale non ci può essere ombra di cambiamento. Ibidem. Scrive Santucci: Certo è che l’alternativa tra determinismo e indeterminismo non potrebbe essere più chiara : il primo sostiene che le parti già esistenti dell’universo stabiliscono quel che saranno le altre, che il tutto è in ogni parte e le salda col resto in un’unità assoluta, mentre il secondo afferma che le possibilità eccedono il reale e che il mondo comporta un certo pluralismo. A. Santucci, op. cit., p. 60. 15
16 WB, p. 118. James continua così: L’indeterminismo ammette che le possibilità possono eccedere l’attualità, e che ciò che ancora non è stato rivelato alla nostra conoscenza può essere veramente ambiguo in se stesso. Di due alternative ambigue che noi concepiamo, entrambe possono ora essere possibili e una diventa impossibile solo nel momento in cui l’altra l’esclude diventando reale. L’indeterminismo dunque, nega che il mondo sia un’unità inflessibile e afferma che in esso è contenuta un certo pluralismo, così dicendo, esso corrobora la nostra visione naturale delle cose. Ibidem. Quest’affermazione finale è degna di nota e anticipa in parte la difesa jamesiana della maggiore razionalità dell’indeterminismo sul determinismo. Non bisogna comunque credere affatto che James fosse un ‘idolatra’ del senso comune; tantissimi sono gli esempi in cui egli si mostra fermamente contrario ad abbracciare la “naturale visione delle cose” (per esempio nel caso della teoria periferica delle emozioni); Secondo Richards fu Spencer a mostrare a James la fertilità della via filosofica che non si distacca troppo dal senso comune, ma è evidente che James poteva trovare moltissimi indirizzi filosofici del tempo che sostenevano una visione simile. Cfr. R. J. Richards, op. cit., p. 279. La ‘fedeltà’ jamesiana ai ‘suggerimenti’ del common sense venne sempre osteggiata dall’amico Chauncey Wright; cfr. Edward H. Madden Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 96. James conclude dicendo che egli adotterà la visione interazionistica del senso comune e che la giustificazione finale della causalità della coscienza richiederà “una ricostruzione metafisica che è ancora da compiersi”. P. K. Dooley, op. cit., p. 24. La visione della vita tipica del senso comune, come qualcosa di realmente drammatico, dove bisogna prendere delle decisioni qui e ora, è coerente col pluralismo. Libertà non significa altro che reale novità. perciò il pluralismo accetta la nozione di libero arbitrio. Ivi, p. 150. Nel 1873 James scrisse “contro il nichilismo”, un saggio che non avrebbe mai pubblicato, nel quale criticava il profondo ne perentorio positivismo di Wright. D’allora egli si convinse che qualunque filosofia rompesse il mondo in fenomeni scollegati tra loro sarebbe andata contro il senso comune. D. Bjork, op. cit., p. 86. Wright pensava che McCosh si sbagliasse nel cercare di risolvere i problemi filosofici ricorrendo alle credenze del senso comune. E. H. Madden, Chauncey Wright and the Foundations of Pragmatism, cit., p. 96. 17
WB, p. 118.
395
non semplicemente (o, come diremo meglio più avanti, direttamente), di passionalità o inclinazione emotiva.
4.3.2 Tra Divinity Avanue e Oxford Street: la pensabilità del caso Il determinista viene definito da James come colui che nega la possibilità, la stessa pensabilità del caso e non tanto come colui che nega la libertà; ecco che vediamo tornare parzialmente utile quella ‘scelta’ che James aveva operato all’inizio del saggio tra la parola libertà e la parola caso. Senza la scelta radicale per l’utilizzo di quest’ultima, “obbrobriosa” parola, James forse avrebbe rischiato di non trovarsi di fronte il vero nemico, ovvero il determinista ‘duro’. Mentre la libertà può essere in qualche maniera (à la Hodgson per esempio) ‘recuperata’ in una visione necessitaria del mondo, come la spinoziana libera necessitas, questo non può darsi per il caso. James parla di una vera e propria “antipatia” del determinista per la possibilità che il mondo non sia totalmente determinato: dallo scontro dei due postulati (quello scientifico e quello morale18) emerge chiaramente che proprio il concetto di caso è il termine della contesa. Mette conto di citare qui per intero la definizione dell’idea jamesiana di caso: Il problema con la parola ‘caso’ sembra stare nel presupposto che essa significhi qualcosa di positivo e che, se qualcosa accade per caso, questo implichi l’intervento di qualcosa di intrinsecamente irrazionale. Ora, il caso non ha niente a che fare con tutto ciò. Si tratta infatti di un termine puramente negativo e relativo, che non ci fornisce alcuna informazione intorno a ciò di cui è predicato, tranne il fatto che questo è disconnesso da qualcos’altro — non controllato, non assicurato o necessitato da cose accadute recentemente. Poiché questo Dalla rappresentazione che ne dà James, sembra che effettivamente si scontrino, nella ‘battaglia’ per il determinismo, due esigenze egualmente forti e apparentemente inconciliabili; diciamo apparentemente perché, come già abbiamo potuto avere modo di notare nella lettura dei Principles, James riteneva che scientificità e moralità fossero, anzi dovessero, essere compatibili e la difficoltà della sua lotta stette proprio nel tentativo di conciliare ragione e fede, scienza e morale. Ciò nondimeno, sic stantibus rebus, il determinismo (materialistico o monistico che sia) non può che essere il contrario dell’indeterminismo. Il tentativo di James è quello di riconoscere l’incompatibilità di queste due posizioni per raggiungere una visione delle cose dove l’indeterminismo in natura non coincida con la mancanza totale di regole, con la possibilità (per l’uomo come per gli animali e per la natura inanimata) di fare tutto in ogni istante; la difficoltà oggettiva del compito che James si era preposto non poteva che tradursi nella difficoltà da parte del lettore anche più attento di oltrepassare la pars destruens della teoria indeterministica jamesiana (la più comprensibile), per abbracciare nella sua complessità e nella sua totalità la pars construens, che, come abbiamo già accennato, James non smise mai di costruire e di rifondare, sviluppandola in un abbozzo di ‘sistema metafisico’, sino alla fine dei suoi giorni. Per tornare alle esigenze che si combattono dietro ad apparentemente asettiche teorie filosofiche, James mostra chiaramente che esse sono fondamentalmente due (sebbene poi ciascuna contenga al proprio interno dei corollari): colui che vuole un mondo uniforme, stabile, fisso, sicuro, immutabile e inflessibile non può volere la libertà (la libertà vera e non come funzione della nostra ignoranza) perché questa coincide necessariamente con una qualche ‘rottura’ della celebrata uniformità delle cose; mentre colui che vuole un mondo morale non può accettare il determinismo perché questo coincide con quell’uniformità della natura che James ha icasticamente raffigurato come un iron-block e che toglierebbe qualsiasi possibilità di introdurvi elementi ‘ambigui’, imprevisti, che sono la condizione necessaria, per quanto non sufficiente, dell’esistenza di un atto libero, base necessaria di ogni vita morale. 18
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è il punto più sottile di tutta questa conferenza, ed è allo stesso tempo il cardine attorno al quale ruota tutto il resto, vi prego di porvi particolare attenzione19. In sostanza James cerca di opporsi alla visione di una certa scienza (dominante al suo tempo) che faceva del caso il ‘veleno’ di ogni sana concezione delle cose. E, visto che, come abbiamo sopra ricordato, James riconosce che il determinista non ammette nemmeno la possibilità di immaginare come si possano dare delle effettive possibilità (e quindi come tutto il reale possa non essere distinto tra ciò che è necessario e ciò che è impossibile), egli cerca, con uno degli esempi che sono diventati poi parte della storia della filosofia, di mostrare come il concetto di caso (ovvero della possibilità che non ci sia una connessione necessaria tra un dato stato di cose e quello successivo) sia tutt’altro che impensabile.
Diciamo subito che il tentativo di James ci pare fallimentare; nella Parte terza20 abbiamo criticato proprio l’incapacità di James di riconoscere che il ‘nuovo’ concetto di causalità da lui introdotto (compatibile con l’idea di casualità) era problematico proprio per la difficoltà di pensarlo. Ora James sembra rispondere a una critica del genere, ma in maniera insufficiente; l’esempio, come abbiamo detto è noto. Brevemente, James immagina, finita la conferenza, di avere due possibili alternative per tornare a casa (o passando per Oxford Street o passando per Divinity Avenue); entrambe sono ipotesi compatibili con l’attualità della fine della conferenza. Noi possiamo immaginarci James che percorre un tragitto o l’altro e nessuno dei due ci pare irrazionale o addirittura impensabile. Eppure, dice il nostro autore, una volta ch’egli ha scelto un itinerario, l’altro apparirebbe al determinista inimmaginabile e irrazionale; ma dove sta questa irrazionalità e questa impensabilità se prima di scegliere entrambi i percorsi apparivano razionali? Di questo esempio21 dobbiamo notare principalmente due cose. Una, come abbiamo testé anticipato, è la sua insufficienza: James cerca di combattere un avversario che di fatto non esiste. Il determinista non direbbe che uno dei due percorsi (che rappresentano poi per James “l’esempio più banale” — e quindi anche il più chiaro e semplice — delle alternative cui l’uomo è sottoposto ogni giorno) è
Ivi, p. 120. Certamente il ‘caso’ non va escluso dalla sfera del comportamento, né si può pensare che esso non faccia parte dela vita dell’universo. A differenza di coloro che, strenuamente attaccati all’immagine razionale delle cose, lo considerano solo come un alcunché di affatto negativo, di intrinsecamente assurdo e irrazionale, colui che crede in un mondo aperto a diverse possibilità deve ammetterlo come elemento costitutivo della relativa discontinuità delle cose, del loro carattere non del tutto “controllato, garantito, necessitato da altre cose”. Supporre l’azione del caso non significa altro che accettare l’incertezza del corso della realtà non meno delle nostre future volizioni. R. M. Calcaterra, op. cit., pp. 45-46. 19
20
Cfr. supra, cap. 3.2, § 7.
21
Che occupa le pp. 121-122 di WB.
397
irrazionale o impensabile; il determinista non nega che si possano pensare differenti (ben più di due) futuri possibili. Il determinista nega che si possa pensarne la possibilità contemporaneamente. James in sostanza, a nostro giudizio, rimane un passo indietro al punto dal quale il determinista muove la sua critica: la difficoltà incontrata da James di sconfiggere il determinismo sul suo stesso terreno è per noi il risultato del momentaneo abbandono dello spirito che anima tutti i saggi della Will to Believe, lo spirito che vede l’irrazionalità di una teoria (come quella deterministica) non nella sua ‘insufficienza logica’ rispetto all’indeterminismo, ma nella sua insufficienza razionale, dove in questo termine ovviamente entrano per James a buon diritto dei fattori che superano ed eccedono i limiti della logica. Se effettivamente il determinismo si mostrasse irrazionale dal punto di vista logico — come qui James cerca di mostrare con il suo bell’esempio — non ci sarebbe nessuna esigenza di ampliare il concetto di razionalità, perché, come abbiamo sottolineato all’inizio dell’analisi di questo saggio, l’indeterminismo si mostrerebbe essere l’ipotesi più razionale e quindi la più vera, o meglio: quella in cui credere22
Esaurita questa breve critica a questo snodo dell’argomentazione jamesiana possiamo aggiungere che l’esempio da lui utilizzato è però particolarmente significativo perché rivela l’attuale center of the vision. Del nostro autore. Come si sarà notato, James cerca di difendere la propria idea di casualità (distinguendola nettamente da qualsiasi forma d’irrazionalità) portando come esempio un’azione umana e non un semplice “fatto di natura”; egli non dice: la mela, date le medesime condizioni di partenza, potrebbe cadere a destra o a sinistra dell’albero; questo esempio sarebbe stato formalmente dello stesso valore di quello effetivamente utilizzato, ma di fatto avrebbe mostrato immediatamente le sue carenze; la scienza d’altronde non si fonda proprio sul presupposto che l’effetto sia legato alla causa in maniera immutabile? Chi comincerebbe a verificare gli effetti di un prodotto chimico su un determinato materiale senza la fede nell’uniformità della natura e quindi senza la certezza che risultati differenti dello stesso esperimento debbono essere imputabili non al caso, ma a un incompreso o invisibile cambiamento delle condizioni dell’esperimento stesso? La differenza fra i due esempi (tra quello effettivamente illustrato e quello che noi abbiamo ipotizzato), non esplicitata da James e che potrebbe a tutta prima sfuggire al lettore (e ancor più all’ascoltatore!), sta nel fatto che nell’ipotesi di un’azione umana noi possiamo ipotizzare una ordine altro di causalità che invece non abbiamo diritto di ipotizzare rispetto a eventi naturali.
22
Cfr. supra le due premesse all’inizio della trattazione del saggio.
398
James sembra sottintendere questo fatto quando scrive (prima di cominciare l’esempio di Oxford Street etc): che le future volizioni umane sono di fatto gli unici fatti ambigui cui siamo tentati di credere. Quest’affermazione è importantissima: James sembra volere dire che l’unica ‘fonte’ di indeterminismo nel mondo è possibile nella volontà e nell’azione umana. [bene differenza con Peirce e riferimento a quanto detto nella parte terza] Non esiste in sostanza un indeterminismo che sia indipendente dalla libertà dell’uomo e questo stravolge i termini classici della questione: non esiste un indeterminismo naturale come base di un indeterminismo della volontà dell’uomo (anche perché questo porterebbe il seme della casualità proprio nella culla della libertà, togliendo l’uomo dalla deresponsbilizzazione deterministica per farlo subito cadere in quella indeterministica), esiste invece un indeterminismo mentale (che abbiamo attentamente analizzato nella lettura del capitolo dei Principles sulla volontà) che rappresenta la possibilità di un indeterminismo naturale, fisico, che però riesce a mantenere una superficiale (che nel fisico è l’essenziale) uniformità.
James, dopo avere mostrato la pensabilità di “futuri ambigui”, sembra accorgersi di questo problema (che rimane problema solo perché non viene da James esplicitato), cioè del fatto che non è possibile, una volta intrapresa una certa linea argomentativa, evitare di coinvolgere il discorso psicologico insieme con quello ‘metafisico’:
Questa sera non abbiamo a che fare con l’aspetto psicologico della questione: la controversia che il determinista ha con il caso fortunatamente non ha nulla a che fare con questo o quel dettaglio psicologico. Si tratta di una disputa metafisica. Il determinismo nega l’ambiguità delle future volizioni, perché esso afferma che nessun futuro può essere ambiguo23. Certo, il determinista non si interessa dell’origine dell’ambiguità dei futuri possibili; è quindi vero che il determinista negando qualsiasi forma di indeterminismo nega anche l’indeterminismo che sta alla base dell’azione volontaria libera. E’ anche vero che James, in questo saggio, dichiara fin dall’inizio di volersi occupare delle ‘condizioni esterne’ della possibilità del libero arbitrio (e cioè che la natura possa essere indeterministicamente intesa); ma allora perché affermare che le future volizioni umane sono di fatto gli unici fatti ambigui cui siamo tentati di credere24 e perché di conseguenza utilizzare un esempio che coinvolge, WB, p. 123; corsivo nostro. Nella parte terza della nostra tesi, dedicata proprio all’analisi della psicologia della libertà di William James, mostrammo quanto si fossero dimostrati ingenui e fallimentari i suoi tentativi di separare la metafisica dalla psicologia. Allo stesso modo, la distinzione, operata negli scritti della Will to Believe, tra l’aspetto metafisico e quello psicologico del tema del determinismo, risulta impossibile e James mostra una sistematicità di pensiero che, superando le critiche di frammentazione di molti studiosi, eccede anche la consapevolezza del suo stesso autore. 23
24
Cfr. supra, p. 387.
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anche se non direttamente, la “questione psicologica” del libero arbitrio? A nostro parere questa è una delle più gravi lacune del saggio sul Dilemma del determinismo e la spiegazione non è racchiusa in una presunta pre-filosoficità di James o a una supposta mancanza di sistematicità. Anzi: proprio l’intima coerenza della produzione psicologia e filosofica di James è la spiegazione dell’incoerenza che abbiamo dianzi riscontrata: in sostanza, non solo il James filosofo della libertà non è radicalmente differente dal James psicologo della libertà. La trattazione psicologica del libero arbitrio sviluppata nei Principles è di fatti l’unica garanzia di comprensibilità per la teoria della volontà di credere e, come James correttamente nei Principles of Psychology rimanda il lettore al saggio che stiamo qui analizzando, ancor meglio egli avrebbe fatto a tracciare, nel Dilemma of Determinism, dei precisi riferimenti alla propria teoria della volontà sviluppata con grande coraggio nel suo più importante scritto psicologico.
4.3.3 Il dilemma del determinismo: pessimismo o soggettivismo? Noi non abbiamo ancora accertato se questo sia un mondo delle possibilità o meno; al massimo, possiamo dire che sembra che lo sia. E ora io ripeto quanto detto all’inizio, e che cioè da ogni punto di vista strettamente teoretico, la questione è insolubile. Approfondire il nostro senso teoretico della differenza tra un mondo che contenga delle concrete possibilità e un mondo deterministico è il massimo che io possa fare e questo mi accingo a fare ora, dopo tutte le nostre noiose premesse25. William James dopo la parte iniziale (che, come abbiamo testé visto, rappresenta ben più che una serie di “noiose premesse”) si accinge a entrare nel vivo della propria argomentazione, affrontando il tema del determinismo da un punto di vista che potremmo definire pragmatico (sebbene ante-litteram), ovvero giudicandolo non in base alla sua coerenza interna, ma secondo la razionalità delle — pratiche — conseguenze che esso implica; è in queste pagine che James esplicita il dilemma del determinismo, o, sarebbe meglio dire il “dilemma” del determinista. Sebbene James non sia nemmeno in questo caso affatto chiaro, qui l’avversario non è più l’hard determinist delle pagine precedenti, bensì quel soft determinist che cerca di conciliare il determinismo con la morale26 (ovvero con la possibilità della libertà). Ma questo lo vedremo meglio verso la fine dell’analisi del dilemma cui , secondo il nostro autore, il determinista non può sfuggire.
25
WB, p. 124.
La strada presa dai deterministi ai tempi di James — e anche ai nostri — è di far coincidere la libertà dell’uomo con la libertà di agire in accordo con i propri propositi. Ovviamente, una libertà di questo tipo è posseduta da chiunque, anche se “ogni fremito della nostra volontà” fosse soggetta a leggi deterministiche. James giunse a rifiutare il “soft determinism”: Egli concedeva che noi siamo liberi nel senso proposto dai “soft determinists”, ma insistendo sul fatto che “il punto della questione” nella controversia sul libero arbitrio non è toccata dai giochi di prestigio dei “soft determinists”. D. W. Viney, William James and the Free-Will Controversy; The French Connection., cit., p. 32. 26
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James parte da una considerazione abbastanza pacifica: nella vita di ogni giorno, chiunque di noi ha dei “giudizi di rincrescimento” (judgements of regret). In sostanza noi, più volte, pensiamo che qualcosa sarebbe stato meglio non fosse accaduta: ci rammarichiamo che un determinato (giusto)epilogo di una storia sia invece stato effettivamente ‘sostituito’ da un epilogo differente, che noi giudichiamo “cattivo”. James, come spesso accade, utilizza come esempio per chiarire il suo pensiero un fatto di cronaca recente: “l’omicidio di Brockton”. Non mette certo qui conto di ripeterne i particolari, ci è sufficiente citare le parole dello stesso James che seguono alla narrazione di un triste e cruento episodio. In sostanza James si domanda: qual è la posizione di un determinista di fronte ai propri judgements of regret? Per la filosofia deterministica l’omicidio, la sentenza, e l’ottimismo del prigioniero erano tutte cose necessarie fin dall’eternità e null’altro, nemmeno per un solo istante, ha mai avuto la possibilità di sostituirsi a quel ch’è accaduto. Ammettere una tale possibilità, ci direbbe il determinista, vorrebbe dire uccidere la nostra ragione; perciò noi dobbiamo corazzare i nostri cuori contro il pensiero. E qui la faccenda si complica, poiché noi scorgiamo la prima delle difficili implicazioni del determinismo e del monismo che è mia intenzione mostrarvi27. Dire che una cosa è cattiva significa dire che sarebbe stato meglio che qualcos’altro fosse accaduta. Ma per il determinista non ha alcun senso pensare che sarebbe potuto accadere qualcosa d’altro. Il determinista ragiona in termini di necessità e d’impossibilità: la possibilità, il sarebbe stato meglio che...è una frase bandita dal suo lessico filosofico. La conclusione cui giunge James è questa: se si è deterministi “sino in fondo”, allora il nostro “rammarico” non deve, ma soprattutto non può, essere rivolto soltanto a quelle azioni e a quegli accadimenti che noi ‘sentiamo’ come malvagi, ingiusti o altro; e questo perché il determinista “vero” non può distinguere le parti dal tutto; il suo monismo non gli permettere di distinguere le parti dell’universo, perché queste sono soltanto aspetti che noi soggettivamente estrapoliamo da un block-universe, da un iron-block che è completamente compatto. Secondo questa prospettiva, Schopenhauer è considerato dal nostro autore un determinista ‘conseguente’, capace cioè di estendere il proprio rincrescimento oltre gli atti che soli sembrerebbero incarnare il male del mondo e raggiungendo così un pessimismo totale, che coinvolge tutto il mondo, o meglio, il mondo visto come un tutto. La prima conseguenza del determinismo che James mette in luce è dunque questo pessimismo cosmico. Ma il nostro autore, con un tipico movimento teoretico, procede ponendosi “nei suoi panni”,
27
WB, p. 125.
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nell’analisi delle possibilità che il determinista avrebbe di evitare questa conseguenza pessimistica apparentemente necessaria: l’unica via di fuga dal pessimismo sta nell’abbandonare i giudizi di rincrescimento28. Al pessimismo deterministico si sostituisce così l’ottimismo deterministico. Questo stravolgimento è tutt’altro che sconosciuto alla storia della filosofia: il male, anche quegli episodi che ci paiono di una crudeltà infinita e inspiegabile, debbono essere inseriti nel contesto più ampio del mondo in cui viviamo: la “quantità di male” del mondo non è altro che la componente necessaria per fare emergere il bene. Non c’è bene senza male, non ci può essere Dio senza il Diavolo e perciò questo mondo, che potrebbe sembrare totalmente cattivo poiché non è totalmente buono è visto secondo una prospettiva meno particolare, il migliore dei mondi possibili29. Non può non venire in mente Leibniz e il Candide di Voltaire e anche James non manca di richiamare il famoso riferimento filosofico-letterario, mostrando che questo appena descritto è
Un ottimismo quand même, un ottimismo sistematico e infatuato come quello ridicolizzato da Voltaire nel suo Candide, uno dei possibili modi ideali in cui un uomo può educarsi a guardare alla vita30. Ma questo ottimismo si mostra subito contraddittorio agli occhi di James: Il nostro determinismo ci porta a considerare sbagliati i nostri giudizi di rincrescimento, poiché essi sono pessimistici nell’implicare che ciò che è impossibile avrebbe dovuto essere. Ma che cosa dire ora degli stessi giudizi di rincrescimento? Se essi sono sbagliati, altri giudizi, probabilmente giudizi d’approvazione, dovrebbero stare al loro posto; e l’universo appare essere proprio come prima — e cioè un posto in cui ciò che dovrebbe essere appare impossibile. Abbiamo levato un piede dal pantano pessimistico, ma quell’altro sprofonda ancora di più31. James dunque mostra l’insostenibilità stessa di un ottimismo deterministico: il determinista ottimista dice che il determinista pessimista sbaglia a dare spazio a sentimenti di rincrescimento, ma questo stesso è un judgement of regret! Il determinista ottimista si trova cioè costretto a riconoscere la necessità della posizione del determinista pessimista e quindi non può considerarla sbagliata, perché questo vorrebbe dire pensare che sarebbe stato meglio un giudizio differente, il che è, data la predeterminazione del presente, impossibile: un omicidio crudele e ingiustificato non può apparire buono (come appare — 28
Ivi, p. 126.
29
Il nostro pessimismo deterministico può diventare un ottimismo deterministico eliminando i nostri giudizi di rincrescimento. Ivi, p. 127.
30
Ivi, p. 126.
31
Ivi, p. 127.
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relativamente— al determinista ottimista) a meno che non si consideri sbagliato il relativo giudizio di rincrescimento e il rincrescimento non può essere buono a meno che non venga visto come cattivo l’omicidio. In breve, dice James, il mondo descritto dal determinista è un luogo dove o la pena o l’errore sono una parte necessaria. Da questo dilemma sembra non esserci via d’uscita32. Questo passaggio è degno di particolare attenzione: non è infatti questo il dilemma in cui si trova coinvolto il determinista e che dà il titolo al saggio che stiamo qui analizzando; questo appena mostrato è un dilemma ‘interno’ al dilemma vero e proprio, che non si pone tra il determinismo ottimistico e quello pessimistico, ma tra il determinismo pessimistico (perché anche quello apparentemente ottimistico si è dimostrato essere riconducibile a una forma meno palese di pessimismo) e quello che James chiama gnosticismo, o anche soggettivismo. Questo secondo ‘corno’ del dilemma sorge infatti come tentativo di risolvere il dilemma ‘interno’ che abbiamo esposto sopra (quello tra determinismo ottimistico e determinismo pessimistico) ed è in sostanza l’unico modo, a parere di James, in cui il determinista può considerare le crudeltà e i rincrescimenti come elementi positivi, buoni, del mondo, senza che uno escluda l’altro, un modo per cui gli atti che noi ingiustamente preferiremmo fossero stati sostituiti da altri appaiono buoni e giusti appaiano anche gli stessi judgements of regret. L’unico mondo che può accogliere le crudeltà e i nostri rincrescimenti come giusti è quello che viene visto come un mezzo per aumentare la conoscenza dell’uomo del bene e del male. Scrive James:
Io sono del parere di chiamare questo il punto di vista gnostico. Secondo questo punto di vista il pessimismo e l’ottimismo sono superati dallo gnosticismo. Ma, dal momento che questo termine può portare a qualche fraintendimento, io ne farò l’uso più moderato possibile e parlerò piuttosto di soggettivismo e perciò del punto di vista soggettivistico33. Ancora una volta James fra due termini sembra fare la scelta più infelice; a noi, certo interessa cogliere il pensiero che sta dietro le sue parole, ma se gnosticismo può essere un termine troppo intriso di tradizione filosofica estranea alla posizione che qui James sta esponendo (apparentemente difendendola), il termine soggettivismo34 è sicuramente il meno adatto e proprio perché la stessa filosofia
32
Ibidem.
33 WB, p. 128. Il ‘dilemma del determinismo’, come James lo definisce, è tra il pessimismo e ciò che egli chiama ‘gnosticismo’ o ‘soggettivismo’. A suo parere, l’ottimismo non è un’alternativa valida per il determinista se il determinista ammette l’esistenza del male. Ammettere che c’è un male reale significa implicare il rammarico — perché ciò significa che le cose sarebbero state migliori senza il male attuale — e, per il determinista, questo è inconcepibile. M. P. Ford, op. cit., p. 30. 34 James distingue poi questo soggettivismo in tre gruppi principali: avremmo un soggettivismo scientistico uno sentimentalistico e uno sensualistico. Cfr. WB, p. 128. Sinonimo di soggettivismo sentimentalistico è per James il romanticismo. Per il nostro autore Il determinismo è coerente solo con il pessimismo più radicale o con una rassegnazione di stampo
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di James può a buon diritto essere spesso definita soggettivistica, in una maniera che ovviamente non è sovrapponibile a quella con cui il nostro autore vuole qui definire un certo tipo di determinismo35. Il soggettivismo così descritto da James sarebbe allora quell’approccio ai fatti del mondo che vede il bene dell’atto criminale nello stimolare la nostra consapevolezza della malvagità della criminalità e il bene del nostro rincrescimento nella consapevolezza che questo rincrescimento ci porta del male dell’atto e allo stesso tempo della sua inevitabilità: Noi abbiamo così chiaramente mostrato a noi stessi quel che può essere chiamato il dilemma del determinismo36.
Un’alternativa di questo dilemma del determinismo è il pessimismo e l’altra e il soggettivismo. In altre parole, se il determinismo vuole non essere pessimistico, esso deve rinunciare a guardare al bene e al male della vita in una semplice maniera obiettiva e guardarli invece come materia, in sé indifferente, per la produzione, in noi, di una coscienza scientifica ed etica37. Non sarà certamente sfuggito che il determinismo che qui James prende in considerazione è ben diverso da quell’hard determinism ch’era invece il contraltare della prima parte del saggio. Come abbiamo sopra anticipato, James, nell’analisi delle conseguenze morali della dottrina deterministica non poteva che prendere in considerazione il soft determinism, l’unico che infatti ha la pretesa di conciliare determinismo e libertà, necessitarismo e moralità. Se questo cambiamento di prospettiva può essere a
romantico. Ma se i giudizi morali debbono avere un senso, deve esserci nell’universo uno spazio per l’incertezza; questo non comporta che l’universo debba essere totalmente casuale, ma solo che si diano delle effettive possibilità di scelta. R. Hofstadter, op. cit., p. 130. Come abbiamo già detto, e come vedremo meglio alla fine della nostra tesi, James cercò sempre di superare l’opposizione radicale tra mondocompletamente-ordinato e mondo-completamente-disordinato che animava la polemica fra deterministi e indeterministi; l’alternativa auspicata da James al block-universe monistico non è un nulliverso ma un multiverso, o meglio: un universo pluralistico: Quel che in realtà interessa maggiormente a James è mostrare che solo uscendo dalle strettoie della rigida opposizione di determinismo e indeterminismo è possibile avviare un discorso etico atto a render conto della “naturale” tendenza umana a giudicare le azioni in termini di ‘male’ o di ‘bene’, evitando sia la dogmatica negazione della libertà individuale, sia l’assimilazione della libertà alla mera casualità.. R. M. Calcaterra, op. cit., p. 45. Supporre l’azione del caso non significa altro che accettare l’incertezza del corso della realtà non meno delle nostre future volizioni; cosa che il determinista rifiuta decisamente, assumendo o un atteggiamento pessimistico per il quale anche le azioni più delittuose sono considerate come il frutto di una inevitabile necessità, oppure una posizione ‘gnostica’ per cui esse vengono giustificate quali occasioni predestinate a risvegliare l’idea di una finale condizione perfetta dell’umanità. Contro quest’ultima posizione, che James vede rappresentata dai Dati di etica di Spencer, viene sottolineata la drammaticità della scena umana, il continuo alternarsi di bene e male nella storia collettiva e individuale, e di fronte all’impossibilità di una spiegazione teoretica del significato del male, viene riproposto il soggettivismo, il valore dell’azione individuale, la lotta per l’affermazione del bene che ciascuno è chiamato a combattere. Ivi, pp. 45-46. 35
36
WB, p. 128.
37 Ivi, p. 129. Il pessimista ammette l’esistenza del male, lo ‘gnostico’ la nega. Entrambe le posizioni sono compatibili col determinismo. [...] Per lo ‘gnostico’ o il ‘soggettivista’, d’altro lato, non esiste né bene né male ma soltanto conoscenza — la realtà è eticamente neutrale. M. P. Ford, op. cit., p. 30. Il “dilemma” del determinismo è che esso non può dare alcuna spiegazione soddisfacente del male. [...] Se il male fosse invincibile, totalmente, allora l’unica via di salvezza dal pessimismo sarebbe rappresentata dal cinismo. D’altro lato, se Dio avesse creato il male solo per poi eliminarlo, la volontà dell’uomo sarebbe mera finzione e la vita nient’altro che noia. G. W. Allen, op. cit., p. 499.
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ragione considerato un’altra ‘imprecisione’ della linea argomentativa jamesiana, è altrettanto vero che solo così James può affrontare la dottrina deterministica da un punto di vista morale38. Ma come risolvere dunque questo dilemma? Quale alternativa dobbiamo scegliere tra il pessimismo e il soggettivismo? si tratta ovviamente di una domanda cui James non risponde direttamente39: per il nostro autore il determinismo si trova in una posizione ‘critica’ rispetto all’indeterminismo proprio perché esso mostra di dare vita a un dilemma che appare inevitabile e che sembra lasciare l’uomo in uno stato di lacerazione interiore difficilmente compatibile con la razionalità di una dottrina filosofica. James, come vedremo fra poco, pensa che solo attraverso una visione indeterministica e pluralistica del mondo si possa uscire dalle pastoie e dai dilemmi suscitati dal determinismo, ma egli non manca comunque, come è solito fare, di dare, prima di passare alla pars construens della sua analisi, il proprio giudizio all’interno di uno schema che comunque rifiuta. In breve: James, se fosse obbligato a scegliere uno dei due horns del dilemma del determinismo, opterebbe certamente per il soggettivismo: Se dovessi scegliere nel dilemma del determinismo tra il pessimismo e il soggettivismo, non vedo come potrei esitare da un punto di vista strettamente teoretico. Il soggettivismo sembra essere lo schema più razionale40. Si tratta comunque di una scelta che James non è affatto obbligato a prendere, proprio in virtù della libertà e dell’autonomia — prima di tutto intellettuale — ch’egli riconosce all’uomo. Certo, come abbiamo visto all’inizio dell’analisi del presente saggio, un criterio di adesione a un’ipotesi (ciò che deve favorire la nostra credenza) è la sua maggiore razionalità: a prescindere dalla giustezza di quest’ultima considerazione di James (che vede nel pessimismo meno razionalità che nel soggettivismo), possiamo dire che il dilemma si presenta a James in maniera fittizia proprio perché esso coinvolge un concetto ristretto di razionalità, un concetto che, come abbiamo già anticipato, viene superato nella maggior parte dei saggi della Will to Believe per lasciare spazio a un’idea più ampia di razionalità, dove il punto di vista “strettamente teoretico” (the strictly theoretical point of view) deve essere abbandonato per lasciare spazio a un punto di vista che non disdegni di considerare al proprio interno delle ragioni di ordine
D’altronde James era in qualche maniera ‘spinto’ a rivolgere la propria critica alla forma ‘morbida’ di determinismo poiché egli ben sapeva — e questo dimostra come i suoi scritti fossero dedicati, di volta in volta, a un pubblico ben preciso — che fra i suoi ascoltatori (e probabilmente anche fra i suoi futuri lettori), ben pochi erano gli hard determinist Devo supporre — dice James — che fra voi il numero dei deterministi ‘duri’ o ‘puramente meccanici’ sia esiguo. Il determinismo che più può sedurvi è quello che ho chiamato “soft determinism”, quel determinismo che pretende di unire considerazioni su ciò che giusto e ciò ch’è ingiusto con quelle intorno alla causa e l’effetto [...]. WB, p. 129. 38
39 Il determinismo non rappresentava per James un dilemma; egli rifiutava qualsiasi filosofia che rivelasse una qualche “antipatia all’idea di caso”, che negasse la possibilità del libero arbitrio e del potere personale. L. Simon, op. cit., p. 186. 40
WB, p. 131.
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pratico (practical order)41. Proprio giusta questa considerazione, ma solo dopo avere mostrato anche le conseguenze teoretiche di un approccio diverso, James si accinge a definire la propria posizione filosofica intorno alla questione del determinismo.
4.3.4 La fine delle ‘vacanze morali’: William James e l’etica dell’ottimismo42 Se il soggettivismo sembra essere l’alternativa più razionale del dilemma del determinismo, perché allora non dovremmo optare per esso? Le motivazioni che James ha per rifiutare il determinismo sono di specie morale: solo un “universo morale” può pretendere da noi questo vigoroso ed eccitante esercizio della volontà, con tutto ciò che di nobile e di tragico esso può contenere; l’universo deterministico, per quanto possa sembrare razionale, è “irrazionale in una maniera più profonda”, dal momento che esso “nega totalmente il (nostro) senso di realtà morale[...]”. Solo un universo nel quale i nostri atti liberi contino veramente qualcosa può pretendere di chiederci “di vivere e morire al suo servizio”43. L’universo deterministico soggettivistico porta con sé delle conseguenze che appaiono a James totalmente inaccettabili; ecco perché esso deve essere rifiutato, pur nella sua ‘prevalenza logica’ rispetto alla forma pessimistica di determinismo. Il punto cardine dell’argomentazione jamesiana, un punto che abbiamo già visto ampiamente parlando della critica del nostro autore nei confronti della filosofia spenceriana, è che il soggettivismo non può che avere come conseguenza la passività e passività significa porsi di fronte alla vita come degli oggetti piuttosto che come dei soggetti, significa rinunciare anche a pensare di potere cambiare una piccola parte della nostra vita e, nella sua forma filosofica ‘gnostica’, questa passività è ancora più pericolosa e pervadente in quanto viene apparentemente giustificata da un punto di vista psicologico. Ovviamente il soggettivismo può avere delle ‘conseguenze’ apparentemente differenti a seconda del campo in cui queste possono estrinsecarsi: In teologia il soggettivismo si sviluppa come la sua “ala sinistra” [vedi se tradurre con lato sinistro; chiedi Luisa], l’antinomismo44, in letteratura la sua ala sinistra è il romanticismo. James ammette che il pessimismo e lo ‘gnosticismo’ sono alternative logicamente valide, ma a suo parere sono insoddisfacenti in quanto violano l’istanza etica. Ogni visione del mondo che non può soddisfare l’istanza etica è per James inaccettabile. M. P. Ford, op. cit., p. 30. 41
Myers ha chiamato il rifiuto jamesiano di accettare la passività in psicologia e nel mondo “etica dell’ottimismo” [...]. G. Cotkin, op. cit., p. 170. 42
43
R. J. O’Connell, op. cit., p. 102.
44 Molte anticipazioni della conferenza su “Il dilemma del determinismo” sono già rintracciabili nelle sue prime esperienze [e qui si fa riferimento al diario post-Renouvier], ma si potrebbe chiedersi: perché questo teme gli stava tanto a cuore? La ragione è rintracciabile in una delle differenze che James sempre ebbe con il padre.: suo padre, pensava egli, troppo facilmente era approdato a una soluzione alta, estetica del
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Nella vita pratica diventa invece o un sentimentalismo snervato o un edonismo senza confini. Dovunque esso nutre la componente fatalistica della mente umana e rende coloro che sono già troppo inerti ancora più passivi. Come ci insegna la storia, il soggettivismo, non appena ha libero spazio d’azione, si traduce in ogni sorta di licenza morale, spirituale e pratica. Il suo ottimismo si traduce in un’indifferenza etica che ha come sua infallibile conseguenza la dissoluzione45. Di questo brano colpiscono almeno quattro cose: in primis un certo determinismo dello stesso James nel raffigurare lo scenario (senza troppi chiaroscuri) provocato dal soggettivismo. Ma questo d’altronde non deve stupire perché, come abbiamo già più volte avuto modo di notare, il motore dell’indeterminismo è per James l’azione libera dell’uomo e se questa viene rifiutata dapprincipio come ipotesi irrazionale sarà il determinismo dei fatti a sostituire immediatamente l’indeterminismo delle azioni. Bisogna poi ricordare che lo stesso James riteneva che l’esperienza passata potesse essere buona maestra, soprattutto in un clima di passività come quello ipotizzato o determinato dal pensiero soggettivistico (nelle sue varie forme, scientifica, filosofica, religiosa etc.) per chi la sapesse leggere46. Da questo brano emerge poi chiaramente qual è l’idea di uomo che secondo James deve essere stimolata da una dottrina filosofica o più generalmente da una visione della vita.
L’uomo che perde la sua capacità (che non è un bene inalienabile, ma deve essere coltivato con l’abitudine, lo sforzo e l’esercizio) di essere autonomo e di determinare, di guidare la propria vita è l’uomo che ha perso la sua essenza vitale e che ha rinunciato alla possibilità di essere faber fortunae suae e allo stesso tempo di essere responsabile delle proprie azioni; a un pensiero che ‘determina’ un uomo esteta e passivo bisogna trovare per James un ‘rimedio’ filosofico capace di stimolare quelle che in
problema del male, una soluzione che minava, secondo James, alla radice l’efficacia, l’importanza e la profonda serietà dell’attività morale dell’uomo. Negli anni a venire questa sarebbe stata l’obiezione principale [...] a tutte le forme di “hegelismo”, così com’egli le interpretava. L’adozione, già nei primi anni, di un atteggiamento “empiristico” andava a braccetto con la speranza che il “fatto” scientifico si sarebbe potuto riconciliare con la validità della religione. La vita, egli era convinto — e, paradossalmente, la lettura di Carlyle, amico del padre, lo rafforzò in questa convinzione — è una “battaglia reale”, contro mali reali [...]. Ivi, p. 28. In fondo dunque, la filosofia del padre, come abbiamo già ampiamente visto, era tutt’altro che capace di dare dell’uomo un’immagine dell’uomo come essere libero e del mondo come di un insieme di differenti pluralità capaci di interagire autonomamente; le categorie di monismo e di pluralismo sono in questo caso ancora più utili di quelle di determinismo e indeterminismo per comprendere la differenza fra la posizione del nostro autore e quella di suo padre. William James ammise che fra lui e il padre c’era “la più profonda delle differenze filosofiche”, quella tra pluralismo filosofico e rigido monismo. L. Simon, op. cit., p. 188. 45 WB, p. 132. Per James [...] il determinismo offriva solo passività — “vacanze morali” era il termine preferito da James. G. Cotkin, op. cit., p. 89. 46 Siamo perfettamente in grado di affermare ora che se lo gnosticismo hegeliano, che ha cominciato ad affacciarsi qui [negli U.S.A.] e in Gran Bretagna, diventasse una filosofia popolare, come lo fu in Germania, allora svilupperebbe anche qui il suo lato sinistro, e produrrebbe presto una reazione di disgusto. WB, p. 132. Scrive Wright Mills al proposito: La forza delle grandi dottrine idealistiche della Germania si fece pienamente sentire in America e in Inghilterra negli anni Ottanta e Novanta, e servì, in questi paesi, come legittimazione della religione in contrasto con le filosofie in cui si rifletteva la scienza. C. W. Mills, op, cit., p. 211.
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fondo erano poi per lui delle qualità naturali della persona umana47. Solo una filosofia che sostenesse la realtà del libero arbitrio avrebbe per James potuto sostituire all’uomo della passività l’uomo dell’azione. Infine è evidente, ancora una volta, quanto James tenesse in considerazione la filosofia da un punto di vista squisitamente pragmatico e cioè non in virtù delle sue ‘garanzie interne’, ma in ragione della sua capacità di influire, anche indirettamente attraverso la letteratura, la religione etc, sulla vita quotidiana dell’individuo.
L’unica maniera che James scorge per fuggire a una tale situazione di passività, che in letteratura è magistralmente rappresentata da Renan e Zola (sebbene con differenti sfumature), è quella di abbracciare una filosofia che ci faccia sentire amiche le parole di un grande scrittore inglese, amico di Henry James Sr., ma che un influsso tanto differente ebbe sul nostro autore: Thomas Carlyle:
Uccidi la tua sensibilità! Piantala coi tuoi piagnucolosi lamenti e coi tuoi piagnucolosi trasporti! Smettila con le tue scemenze emotive e mettiti al lavoro come un uomo48! Si tratta effettivamente della visione opposta a quella soggettivistica e James indubbiamente preferì sempre quest’ultima. In un brano James parla di un passaggio dalla filosofia soggettiva alla filosofia oggettiva; abbiamo già detto quanto questa distinzione jamesiana sia poco felice, ma qui mette conto di rimarcare che la filosofia soggettiva cui si riferisce James è quella filosofia che fa della relazione passiva del soggetto a ciò che lo circonda la propria essenza, mentre per filosofia oggettiva egli intende quella filosofia che è nient’affatto separata dalle esigenze, dalle passioni e dagli interessi della persona, ma in maniera che questi siano reali come sono reali gli oggetti del mondo con cui egli si scontra ogni giorno in una maniera che potremmo definire etica opposta a quella estetica della Weltanschauung soggettivistica: reale e non virtuale. Che questa filosofia oggettiva si fondi proprio sulla soggettività (sebbene intesa ben differentemente da quella dello gnostic determinism) è mostrato dallo stesso James verso quella parte finale della sua argomentazione che abbiamo definito la pars construens. Ma qual è l’essenza di questa filosofia della condotta oggettiva , così fuori moda e limitata, ma così casta e sana e forte, quando essa viene comparata con la sua rivale romantica? E’ il suo riconoscimento dei limiti, estranei e opachi alla nostra comprensione. E’ la sua volontà, Dopo tutto, James era un ottimista che credeva che, nonostante la tragedia della vita, uno potesse agire, fare la differenza. D. Bjork, op. cit., p. 228. Di fatto l’autoanalisi jamesiana riguardo al proprio carattere, anche nei momenti più neri, sembra essere profondamente sbagliata: Io sono cresciuto — scriveva William — in parte con l’educazione e l’esempio paterni, e in parte, penso, con un’innata tendenza a vedere la natura in maniera non ottimistica. TCWJ I, p. 161. 47
48
WB, p. 134.
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dopo avere ottenuto qualche bene esterno, di sentirci in pace; poiché la nostra responsabilità termina con il compimento di quel dovere e possiamo perciò lasciare il fardello di ciò che rimane a poteri più alti49. L’universo comincia a mostrarsi nella rappresentazione datane da James non più come un iron-block dove l’unica attività del soggetto si estrinseca in una passiva percezione della sua intrinseca razionalità e necessità: l’universo che emerge dal cambiamento di prospettiva auspicato da James, dalla passività all’attività, dall’estetica all’etica, è costituito da forze “semi-indipendenti”, capaci, attraverso il libero gioco dei loro rapporti, di mutare, secondo il confronto degli interessi e delle aspirazioni, il corso degli avvenimenti, che non è più visto come l’effetto necessario di una causa (o meglio di un’infinita serie di cause) altrettanto immutabile come il passato50. Ovviamente una visione del genere non può che essere inserita all’interno di un pensiero indeterministico. Determinismo e indeterminismo si oppongono non più in ragione delle loro prerogative logiche e scientifiche, ma in virtù della loro capacità di mettere l’uomo in prospettive differenti e differentemente accettabili. L’unica maniera coerente di raffigurarci un pluralismo e un mondo le cui parti si influenzino l’un l’altra attraverso la loro condotta, sia buona sia cattiva, è quella indeterministica51. James si rende conto delle difficoltà suscitate da una visione indeterministica del mondo, dove il caso e la possibilità debbono convivere con l’uniformità e la causalità. Egli è il primo a riconoscere la difficoltà, anche emotiva, di accettare una concezione di questo tipo, ma altrettanto consapevole è che l’alternativa non può essere preferibile, proprio in quanto essa frustra la nostra dimensione morale e si manifesta in quella forma dilemmatica , quel “labirinto52” dal quale il determinista non riesce a uscire. Ora, se lo vogliamo, potremmo tornare indietro sui nostri passi. Ma per conto mio, per quanto numerose possano essere le difficoltà che assediano la filosofia del giusto e dell’ingiusto oggettivi e per quante difficoltà sembra portare con sé l’indeterminismo, penso che il determinismo, con la sua alternativa tra pessimismo e romanticismo, contenga difficoltà ben maggiori53.
49
Ibidem.
Nella visione di quella filosofia [oggettiva] l’universo appartiene a una pluralità di forze semi-indipendendti, ognuna delle quali può aiutare o impedire, ed essere aiutata o essere impedita dal comportamento delle altre. WB, p. 135. 50
51
Ibidem.
52
Ibidem.
53
Ibidem.
409
Siamo giunti quasi alla fine dell’argomentazione jamesiana a favore di una visione indeterministica e pluralistica delle cose. Come abbiamo più volte anticipato il dilemma (questa volta quello tra libertà e determinismo) non può essere deciso su basi “strettamente teoretiche”, ma può invece essere deciso in virtù del principio di razionalità che noi decidiamo di adottare, seguendo i nostri impulsi, le nostre esigenze e i nostri interessi. Sia il determinista che l’indeterminista ritengono la propria dottrina più razionale, ma, per quanto James riconosca che nemmeno in questo caso sia possibile stabilire a priori quale razionalità sia razionale, egli è consapevole che una scelta fra le due forme di razionalità (quella che si incarna nell’uniformità e nella stabilità della natura e quella che si traduce nella moralità e nel pluralismo del mondo) può essere decisa on practical grounds, ovvero in base alle rispettive conseguenze pratiche, che interessano la nostra vita quotidiana nei momenti più importanti come in quelli meno significativi. Per una mente rapita dall’amore dell’unità a ogni costo [un universo pluralistico] apparirà ovviamente inaccettabile. Un mio amico dotato di una mente simile un giorno mi disse che il pensiero del mio universo lo aveva fatto stare male, come la vista di un’orribile massa di vermi che si muovono nella loro putrida carogna. Ma, per quanto io sia disposto ad ammettere che il pluralismo possa apparire per certi versi ripugnante e irrazionale, io penso che qualsiasi alternativa a esso sia irrazionale in una maniera più profonda. L’indeterminismo con i suoi vermi, se vi piace di parlarne in questa maniera, offende solo l’assolutismo innato del mio intelletto — un assolutismo che, dopo tutto, dovrebbe forse essere arrestato e limitato. Ma il determinismo con la sua carogna della necessità, per continuare la similitudine, e senza alcuna possibilità di avere dei vermi che lo divorino, viola profondamente il mio senso della realtà morale54.
i Vale la pena di riportare qui parte di una nota che James pone in calce al discorso intorno all’eguale legittimità delle ‘pretese’ morali e quelle scientifiche: si tratta di una lunga citazione tratta dalla Logik di Sigwart, un brano di cui James sembra servirsi in maniera autoritativa piuttosto che esemplificativa: L’intera storia delle credenze popolari riguardo la Natura rifiuta la nozione che il pensiero di un ordine fisico universale possa essere nato da un’osservazione puramente passiva [delle cose]e dall’associazione di particolari percezioni. Come è indubitabile che gli uomini inferiscono fatti ignoti dai noti, è ugualmente certo che questa metodologia, se limitata ai materiali fenomenici che spontaneamente si offrono alla nostra attenzione , non avrebbe affatto portato alla credenza in un’uniformità generale, ma solo a una credenza che la legge della natura descrive una variegata mutabilità. Strettamente da un punto di vista empirico, nulla esiste al di là
54
WB, p. 136.
410
della somma di particolari percezioni, con le loro coincidenze da un lato e le loro contraddizioni dall’altro. Che ci sia più ordine nel mondo di quanto appaia a prima vista non è scoperto fino a quando quell’ordine non è ricercato. Il primo impulso a ricercarlo sorge da esigenze pratiche. Quando dobbiamo raggiungere un fine, noi dobbiamo conoscere fiduciosamente i mezzi che infallibilmente possiedono una proprietà o che producono un dato risultato.[...]. E così, la soddisfazione intellettuale che inizialmente proviamo senza riflessione, alla fine eccita in noi il desiderio consapevole di trovare realizzate attraverso l’intero mondo fenomenico quelle continuità razionali, quelle uniformità e quelle necessità che sono l’elemento fondamentale e il principio guida del nostro stesso pensiero. WB, p. 116, n. 3.
411
Capitolo 4.4 Indeterminismo come libertà Le teorie, anche le più astratte e pure, hanno in fondo le loro ragioni e le loro fonti in bisogni biologici e nei sentimenti più profondi della specie umana in generale o di certi individui eccezionali in particolare (G. Papini) Come passare indenni tra la Scilla di Zenone, Berkley e Haeckel e la Cariddi di Hume? (H. M. Kallen)
4.4.1 Razionalità come sentimento James era convinto che la filosofia nasce come risposta all’esigenza di ottenere una visione più razionale delle cose (più razionale, più coerente rispetto a quella che ci viene fornita immediatamente dalle percezioni); ma chi si aspettasse una precisa definizione asettica di razionalità si troverebbe presto deluso. Non che questa definizione manchi, ma essa, come molte delle definizioni di James, è ricondotta alla sua dimensione soggettiva; James risponde dunque a un’altra domanda, che solo apparentemente è differente da quella che ci saremmo aspettati: come si accorge l’uomo di trovarsi di fronte a una teoria, a una belief più razionale di un’altra? La risposta di James è semplice quanto apparentemente sconcertante: L’unica risposta è che l’uomo riconoscerà la sua razionalità nella stessa maniera in cui egli riconosce qualsiasi altra cosa, cioè da alcuni tratti ch’egli sente soggettivamente. Quando ci sono questi tratti, allora egli sa di avere raggiunto la razionalità1. E quali sono questi tratti (marks) della razionalità? James non ha esitazioni in proposito: Una forte sensazione di pace e di quiete è uno di essi. Il passaggio da uno stato di dubbio e di perplessità alla razionale comprensione è pieno di vivo sollievo e piacere2.
WB, p. 57. Come si ricorderà, e come apparirà sempre più evidente col procedere della nostra esposizione, il pensiero di James sulla credenza è strettamente legato, se non direttamente debitore, a quello di Peirce (mutuato a sua volta, in parte, da Alexander Bain). Cfr. supra cap. 4.1, § 5 e in particolare (sulla figura di Bain) n. iii, p. 347. 1
Ivi, p. 57. James afferma che noi riconosciamo la razionalità come riconosciamo qualsiasi altra cosa — dal suo effetto soggettivo su di noi, in questo caso, un forte sentimento di pace e di facilità. P. K. Dooley, op. cit., p. 86. Interessa qui sottolineare che James si riferisce a un tipo di piacere ‘negativo’; piacere inteso come assenza di costrizione e di dolore. Utilizzando un tipo di similitudine a lui fra le più care — quello fra il mentale e il fisico — James afferma che la sensazione di piacere che proviamo quando sentiamo di avere raggiunto una credenza razionale è simile alla sensazione di piacere che sentiamo nel respirare dopo che questo ci è stato in qualche modo impedito. Cfr. ibidem. 2
Si tratta di una sensazione che però può essere raggiunta attraverso strade differenti, la prima è quella teoretica: I fatti del mondo si trovano sempre al nostro cospetto nella loro sensibile diversità, ma la nostra esigenza teoretica è quella di ridurre la loro complessità alla semplicità3. Si tratta del più riconoscibile ‘spirito scientifico’, presente oggi come al tempo di James e, prima ancora, di Galilei: secondo questo modo di interpretare la conoscenza della natura, l’ideale da raggiungere è un piccolissimo numero di leggi che riescano a spiegare un infinito numero di fatti4. Abbiamo già visto ampiamente questo spirito scientifico parlando dell’aspirazione all’uniformità che caratterizza tipicamente lo scienziato determinista. L’uniformità riscontrata in natura e la possibilità di classificare ogni fenomeno come un effetto di un fenomeno già conosciuto e come causa di un fenomeno prevedibile non soddisferebbe lo scienziato (né sarebbe poi ‘economicamente’ vantaggiosa) se egli non riuscisse allo stesso tempo a ridurre progressivamente il numero di leggi capaci di descrivere il mondo a un numero sempre più piccolo. Ma — dice James — accanto a questa ‘passione’ per l’uniformità, per la riduzione del molteplice al semplice, esiste, sebbene in minor grado e in un minore numero di ricercatori, una passione “sorella”:
[...] Esiste una passione sorella, che in alcune menti — sebbene esse probabilmente siano in minoranza — è la sua rivale. Questa è la passione del distinguere; è l’impulso a conoscere direttamente le parti piuttosto che a comprendere l’intero. Fedeltà alla chiarezza e all’integrità
3
WB, p. 58.
La filosofia meccanico-fisica onde siamo tutti così fieri, perché essa comprende la cosmogonia nebulare, la conservazione dell’energia, la teoria cinetica del calore e dei gas, ecc, ecc., comincia col dire che i soli fatti sono le collocazioni e i movimenti dei solidi primordiali, e che le sole leggi sono i cambiamenti di moto prodotti dai cambiamenti nella collocazione. L’ideale verso cui tale filosofia anela è una formula matematica universale, per mezzo della quale, se tutte le collocazioni e i movimenti di un dato momento fossero conosciuti, fosse possibile calcolare quelle in qualunque momento futuro si voglia, semplicemente considerando le necessarie implicazioni logiche, matematiche e geometriche [...]. Dei fatti e delle relazioni sentimentali è addirittura fatta strage in un colpo. Ma la razionalità così fornita è così superbamente completa nella forma, che per molte menti ciò compensa la perdita e riconcilia il pensatore con la nozione dell’universo senza scopo, in cui tutte le cose e le qualità care all’uomo, dulcissima mundi nomina, non sono che illusione della nostra fantasia affezionata alle nubi accidentali di polvere che saranno dissipate dall’estrema stagione del cosmo, con quella noncuranza con cui furono formate. PP, p. 1260. Scrive Peirce, riconoscendo questo afflato unificatore dello scienziato e allo stesso tempo riconoscendo la sua limitatezza: Se potessimo scoprire una qualche caratteristica generale dell’universo, un qualche manierismo nelle vie della natura, una qualche legge applicabile ovunque e universalmente valida, una simile scoperta sarebbe di tale segnalato aiuto a tutti noi che meriterebbe quasi il primo posto fra i principi della logica. D’altra parte, se si può dimostrare che non vi è nulla di simile da scoprire, e che ogni regolarità scopribile è di portata limitata, anche questo avrebbe la sua importanza logica. Quale specie di concezione dovremmo avere dell’universo, come pensare all’insieme delle cose, è un problema fondamentale nella teoria del ragionare. C. S. Peirce, L’ordine della natura, in N. Bosco ( a cura di), Dalla scienza alla metafisica; Antologia degli scritti di C. S. Peirce, cit., pp. 4-5. 4
413
della percezione, disprezzo per i profili imprecisi, per le vaghe identificazioni, queste sono le sue caratteristiche5. Il filosofo completo, secondo James, deve essere in grado di conciliare nella propria ricerca entrambe queste passioni, pena il rischio di fornire un’immagine delle cose troppo rigida e lontana dalla concretezza della realtà oppure troppo mobile, frammentata ed eterogenea, incapace quindi di superare il momento della conoscenza diretta6. Questa conciliazione si ottiene, per James, con la classificazione, dove il filosofo unisce il particolare con l’universale; ovviamente ogni classificazione è parziale, tiene conto cioè dell’elemento o dei più elementi in comune che servono per racchiudere dei fenomeni sotto lo stesso ‘tipo’ ma si dimentica (e non potrebbe fare altrimenti) di tutti quegli altri elementi che formano la concretezza dei fatti che vengono classificati:
Siamo così portati a concludere che la semplice classificazione delle cose sia, da un lato, la migliore filosofia teoretica, ma, dall’altro lato essa rappresenta un miserevole e inadeguato sostituto della pienezza della verità7. E questo sarebbe una mancanza di poco conto se per James la filosofia non fosse e non dovesse mantenersi il più possibile ‘vicina alla vita’, evitando, come abbiamo già rilevato, di diventare vuota chiacchiera accademica. Anche le due passioni teoretiche che abbiamo dianzi illustrato rimangono sterili se non si riconosce la passione pratica, con la sua validità artistica e filosofica, che sta dietro quella teoretica: l’esigenza pratica che è il motore di quella teoretica, apparentemente determinata dalla natura dell’oggetto piuttosto che dalle passioni, dalle esigenze, dalle attitudini del soggetto. Così il nostro studio torna dove avevamo cominciato. Ogni maniera di classificare una cosa non è che un modo di averci a che fare per qualche proposito pratico. La concezioni, i “tipi”, sono strumenti teleologici. Nessun concetto astratto può essere un valido sostituto 5 WB, p. 59. Ha scritto recentemente Giuseppe Riconda: Nel Sentimento di razionalità James parla di una duplice esigenza teoretica: di semplicità da un lato e di diversità e di chiarezza dall’altro, [...]. Sennonché subito dopo egli riconosce che, anche per chi sia in possesso di un sistema in cui queste due esigenze si concilino armonicamente permane, legato alla domanda ontologica che inevitabilmente nasce di fronte a questa attualità relativamente unificata e chiarificata: “Perché esiste qualcosa oltre al non essere; perché esiste questo dato universale e non un altro?” (WB, p. 72). L’esperienza come un tutto non è suscettibile di spiegazione, la realtà è cioè per noi un dato, un vorgefundenes che non si può spiegare, ma di cui non si può non tenerne conto. G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., pp. 80-91.
James fa l’esempio di due filosofi fra loro molto diversi, Spinoza e Hume; ovviamente il primo avrebbe ecceduto nella passione a unificare, mentre il secondo in quella a dividere. A prescindere dal valore di questa fulminea analisi storicofilosofica fornita dal nostro autore, quel che ci interessa notare è la sua insistenza sul fatto che il buon filosofo è colui che riesce a trovare un compromesso fra le due passioni succitate: La filosofia deve essere un compromesso tra un’astratta monotonia e una concreta eterogeneità. WB, p. 60. 6
7
Ivi, p. 61.
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per una realtà concreta a meno che non faccia riferimento a un qualche interesse in colui che lo concepisce8. Per questo, il concetto di razionalità deve per James essere allargato e dal campo puramente teoretico: esso deve spingersi anche coraggiosamente in quello pratico, dove le esigenze e le richieste del soggetto contano quanto l’evidenza empirica del fatto9. Si tratta di un’estensione necessaria affinché la filosofia non diventi mera logomachia e affinché l’uomo possa, filosoficamente, affrontare la vita armato di un ‘nuovo’ concetto di razionalità che possa essergli fedele guida nei momenti di scelta, nei bivi più difficili. Rimanere su un piano di razionalità teoretica (per quanto questa possa essere complessa e capace di seguire la varietà dei fatti) significa dimenticare le origini — pratiche — dell’esigenza del filosofare e lasciare al caso, se non all’autorità di qualche setta o semplicemente di qualche autore, le nostre decisioni più importanti riguardo alla nostra vita. Queste decisioni non possono essere comprese nella prospettiva di una razionalità ‘ristretta’, né possono essere poste in un confronto reciproco con posizioni diverse.
James, dopo avere ricordato che fino ad ora egli aveva considerato solo le possibilità della razionalità puramente teoretica, scrive:
Ma, come abbiamo visto all’inizio, razionalità significa solo assenza d’impedimento nelle funzioni mentali. Gli impedimenti che nascono nella sfera teoretica possono forse essere evitati se il flusso dell’azione mentale può passare nella sfera pratica. Lasciateci perciò indagare che cosa costituisce il sentimento di razionalità nel suo aspetto pratico10. Ivi, p. 62. Non può non balzare agli occhi la continuità del pensiero di James con quanto detto nei Principles a proposito della telicità della coscienza (che cominciava, nell’analisi jamesiana, dal riconoscimento dell’arco riflesso come paradigma di ogni azione umana). Come riassume efficacemente Riconda, dietro alla domanda teoretica c’è sempre una domanda, un’esigenza pratica, [...] l’esigenza di determinare il carattere dell’essere quale ci è dato in confronto ai nostri bisogni e alle nostre aspettative: può la realtà essere definita in modo da non frustrare quell’esigenza di valore che è alla base della nostra vita, o è l’irrazionalità l’aspetto ultimo della nostra esperienza? G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., p. 81. Abbiamo già visto la dimensione pratica che sta dietro all’apparentemente neutrale speculazione filosofica e scientifica già nella terza Parte, con particolare riferimento al darwinismo della posizione jamesiana al proposito: l’unificazione e la separazione fruttificano nella classificazione, ma questa come attività di selezione (dei vari elementi che possono definire un oggetto selezioniamo solo quelli che sono omogenei ad altri oggetti che vogliamo classificare nello stesso “tipo”) non può che essere guidata dai nostri interessi, interessi che solo apparentemente sono di ordine teoretico. Anche O’Connell sottolinea che il tema dell’interesse e della sua importanza nella determinazione delle nostre convinzioni, anche quelle squisitamente scientifiche, è già presente nei Principles, dove James sviluppa l’argomento che la credenza, il dare realtà alle varie “parti” di universo in cui ci muoviamo, [...] è sempre regolata dal nostro interesse attivo. R. J. O’Connell, op. cit., p. 92. Nella visione di James la fonte del nostro senso di realtà sta nei nostri interessi, ciò che soddisfa questi interessi è ritenuto reale. P. K. Dooley, op. cit., p. 48. 8
Per questo l’opposizione di James al determinismo sottende una differenza ancora più profonda; non si tratta solo di capire se l’uomo è libero o meno, quanto di capire il ruolo che la scienza deve avere nel contribuire al nostro giudizio: James è in disaccordo coi deterministi che fanno del metodo scientifico l’unico metro della razionalità. Egli crede che quando si parla di razionalità, si parla di qualcosa di più ampio. J. K. Roth, op. cit., p. 43. 9
10
WB, p. 65.
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Alcune righe dopo James esprime in poche parole il nucleo di questo saggio, canonizzando la ‘nuova’ razionalità che già avevamo intravisto e data per presupposta nell’analisi del saggio sul dilemma del determinismo: Bene, di due concezioni che sappiano soddisfare in egual misura l’istanza logica, quella che sveglia gli impulsi attivi o che soddisfa altre esigenze estetiche meglio dell’altra, verrà ritenuta la concezione più razionale e perciò dovrà prevalere11. E’ intorno a questo concetto ‘allargato’ di razionalità che ruotano quasi tutti i saggi raccolti da James nella Will to Believe, una razionalità che, per quanto possa prima facie sembrare contraddittoria con la scientificità dominante del tempo (e in parte lo era sicuramente), poté trovare in un filosofo attento come James la propria giustificazione in virtù dei recenti progressi scientifici: gli stessi scienziati proponevano teorie alternative capaci di spiegare in maniera ugualmente razionale il medesimo fenomeno. E allora, in questo caso, quale teoria deve scegliere l’uomo? Il concetto di razionalità puramente intellettuale è insufficiente sotto almeno due aspetti: prima di tutto esso non comprende al proprio interno quella “ricchezza della vita” che è poi il plenum nel quale l’uomo si trova a vivere e a filosofare (anche quando queste due cose sono artificiosamente separate); secondariamente — ma ovviamente si tratta in questo caso di una vera conseguenza della prima carenza — una razionalità puramente teoretica ci lascia di fronte a un dubbio insolubile anche per questioni puramente scientifiche. Quel soggettivismo che appare palesemente contrario allo scienziato che cerca di scoprire le leggi oggettive della natura risulta essere allora l’unica base da cui partire per non rimanere in una paralisi non solo teoretica, ma, cosa ben più importante, anche pratica. Ciò che per una razionalità puramente teoretica (una razionalità che comunque James pensava non esistesse se non nell’epistemologia degli scienziati e dei filosofi ciechi alle proprie passioni) sarebbe stato un ‘veleno’ diventa la ‘zuppa’ per la razionalità che riconosca all’interno dei propri confini quegli elementi di soggettività che, legati a quello che potremmo chiamare, col Perry, il character di un filosofo, rappresentano l’alfa e l’omega, il principio e il fine di ogni filosofia inscindibilmente legata alla vita del ricercante. Sarebbe però un errore ritenere che non esistano delle ‘regole’, per quanto flessibili, anche all’interno di questa razionalità ‘allargata’: come accade dunque che, poste due teorie teoreticamente ugualmente
11
Ivi, p. 66.
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razionali si scelga in base alla nostra aesthetic and practical nature12? Vedremo fra breve che la teoria darwiniana della selezione naturale verrà vista, anche in questo scritto (che secondo alcuni dovrebbe rifarsi esclusivamente alla filosofia renouvieriana) come la possibilità di comprendere genealogicamente e scientificamente il sedimentarsi nella mente umano di una serie di atteggiamenti e di comportamenti altrimenti inspiegabili.
James comincia col riconoscere che la scuola empiristica per prima ha trovato un sinonimo ‘pratico’ di razionalità nella familiarità. Secondo la definizione stessa di razionalità soggettivamente intesa (e qui analizzata nel suo campo pratico), di Sentiment of Rationality, è evidente che tutto ciò che ci è familiare, pro tanto è razionale, in quanto rende il nostro pensiero fluido e privo di quegli elementi di dubbio e di incertezza che, sentiti come qualcosa di “irritante”, debbono essere rapidamente superati per riportare il nostro flusso di pensiero su una strada la più possibile pervia. Ma se gli empiristi avevano per James visto giusto nell’identificare la razionalità pratica con la familiarità (che — appare evidente — è il corrispettivo pratico di ciò che rappresenta l’uniformità dal punto di vista teoretico testé analizzato) essi non avevano compreso quanto questa fosse intimamente legata a una particolare relazione di grande importanza pratica13, quella che si instaura tra una cosa (un evento, un pensiero) e le sue conseguenze:
Un oggetto, in quanto inusuale, frustra le nostre previsioni: esse sono invece totalmente determinate non appena esso divenga familiare. Perciò io propongo che il primo requisito pratico che una concezione filosofica deve soddisfare sia questo: essa deve, almeno in una maniera generale, eliminare l’incertezza dal futuro14. Ma perché non potrebbe essere altrimenti? James non si limita a descrivere una situazione che gli sembra poi pacifica. Abbiamo dianzi anticipato la presenza della teoria darwiniana anche fra le pagine più importanti della Will to Believe. Vale la pena di riportare qui la buona parte di un brano che dimostra non solo la conoscenza di prima mano che il nostro autore aveva dello scienziato inglese, ma anche quanto sia poi aberrante cercare di distinguere schematicamente il James psicologo dal James filosofo e quanto quest’ultimo sia magistralmente capace di far convivere con una dimensione morale una teoria ch’era nata esplicitamente per distinguere questa dalla scienza empirica:
12
Ibidem.
13
WB, p. 67.
Ibidem. La prima sott. è nostra. Poco sotto James aggiunge: la novità per se diventa un irritante mentale [mental irritant] mentre l’abitudine per se è un sedativo mentale, semplicemente perché la prima confonde mentre la seconda regola le nostre previsioni. Ibidem. 14
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L’utilità di questo effetto emotivo della previsione è perfettamente ovvio: la “selezione naturale” infatti l’avrebbe prima o poi portata alla luce. E’ della più grande importanza pratica per un animale l’essere in grado di prevedere la qualità degli oggetti che lo circondano, e particolarmente è importante ch’egli non si trovi impreparato in presenza di circostanze che potrebbero essere piene di pericoli o di vantaggi — per esempio, andare a dormire sull’orlo di precipizi, nei nascondigli dei propri nemici, o guardare con indifferenza qualche oggetto che appaia per la prima volta e che potrebbe, se cacciato, mostrarsi un importante contributo per la dispensa. La novità deve irritarlo. Ogni curiosità ha così una genesi pratica. [...] Il cane citato da Darwin, il cui comportamento in presenza di un giornale mosso dal vento testimonierebbe un senso “del soprannaturale”, era la semplice manifestazione dell’irritazione per un futuro incerto. Un giornale che poteva muoversi autonomamente rappresentava per l’animale un fatto così imprevisto ch’egli non avrebbe saputo quali nuove meraviglie avrebbero dominato il prossimo futuro15. Questo brano molto interessante rammenta la già rilevata continuità fra animale e uomo che tanto fece tremare i polsi degli avversari di Darwin e ci torna utile per l’individuazione di quel filo rosso che abbiamo seguito negli scritti jamesiani: il filosofo e lo scienziato che rifiutano qualsiasi dottrina indeterministica si comportano, absit iniuria verbo, come quel cane che si ritrae pauroso di fronte al foglio di giornale che si muove da sé16.
Mette subito conto di dire che questo primo criterio pratico di razionalità sembra essere tutt’altro che favorevole a qualsiasi dottrina indeterministica e pluralistica. Ma James non ha ancora terminato di illustrare le ‘regole’ della razionalità pratica; come vedremo fra breve c’è un’altra istanza che, pur essendo differente da quella della familiarità, può convivere con essa ed essere la base per una giustificazione razionale dell’indeterminismo. Quel che qui James vuole sottolineare è la prima (ma non la più importante) esigenza dell’uomo, che è quella di abbracciare una filosofia o più semplicemente una visione delle cose in cui il futuro sia, almeno in maniera generale, garantito. Nessuna filosofia che renda il mondo una insieme sconnesso di fatti totalmente indipendenti potrà mai apparire razionale all’uomo, proprio perché questa frustrerebbe la sua esigenza, evolutivamente spiegata, di avere un’immagine non ambigua del futuro. Il riferimento è in questo caso a quelle filosofie empiristiche che, cercando di sfuggire il demone monistico, hanno lasciato nelle mani dell’uomo un mondo frammentato in cui questi
15
WB, p. 68.
16 La rabbia della scienza contro i miracoli, e di certi filosofi contro la dottrina del libero arbitrio, ha precisamente la medesima radice, repulsione ad ammettere qualsiasi fattore ultimo delle cose che possa mettere in crisi la nostra previsione o sconvolgere la stabilità della nostra visione. Ivi, p. 69. Poche pagine prima James aveva analizzato similmente il contraddittorio della libertà e dell’incertezza: “La necessità”, dice Dühring, ed egli intende non la necessità razionale, ma quella data, “è il punto ultimo e più elevato che noi possiamo raggiungere (...), non è solo l’interesse della conoscenza ultima e definitiva, ma anche quello dei sentimenti, quello di trovare un sicuro riposo e un equilibrio ideale in un dato ultimo che semplicemente non potrebbe essere altro da quel che è.” Ivi, p. 64.
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non sa come comportarsi. In queste filosofie prevale la seconda esigenza teoretica della razionalità (quella di distinguere e di conoscere il particolare per se):
[...] Queste filosofie dell’incertezza non possono essere accettabili; la mente generale [the general mind] non riuscirà a sentirsi sicura in sua presenza, e cercherà una qualche soluzione più rassicurante. Noi possiamo allora, con sufficiente sicurezza, affermare di avere raggiunto un primo punto importante nella nostra indagine: il primo fattore della ricerca filosofica è il desiderio di definire le proprie previsioni: nessuna filosofia che non sarà in grado di soddisfare questa esigenza potrà mai trionfare definitivamente17. In questo brano comincia a emergere un punto molto importante su cui si regge tutta l’argomentazione jamesiana. Si tratta della concezione ‘generale’ della mente dell’uomo, e cioè della convinzione che gli uomini, pur nelle reciproche differenze passionali e caratteriali, sono tutti, se normali, uniti dalle medesime esigenze. Sopra James parlava di general mind; nel prossimo brano, come vedremo, parlerà di spontaneous powers, proprio in relazione al secondo criterio in base al quale una teoria o più semplicemente una credenza può essere considerata praticamente razionale. Passiamo ora alla prossima grande divisione del nostro argomento. Non è sufficiente per la nostra soddisfazione sapere che il futuro è determinato, poiché esso può essere determinato in molte maniere, piacevoli o spiacevoli. Perché una filosofia possa avere successo su larga scala essa deve definire il futuro in maniera congrua con le nostre facoltà naturali18. Appare ora evidente che per comprendere concretamente il significato ‘allargato’ della razionalità jamesiana dobbiamo qui definire il più precisamente possibile la natura di queste facoltà naturali. James, pur differendo eccessivamente la soddisfazione della curiosità del lettore non lascia dubbi in proposito: queste facoltà naturali, chiamate anche inclinazioni naturali (natural propensities) sono quelle che suscitano nell’uomo determinate emozioni: il coraggio, la speranza, l’entusiasmo, l’ammirazione, l’onestà e
Ivi, p. 70. Di fatto James, nel tentativo di schematizzare eccessivamente la distinzione tra filosofie che garantiscono l’omogeneità del futuro col passato e quelle che invece lasciano l’uomo solo a districarsi in un mondo frammentato, in un nulliverso, si spinge troppo in là parlando dell’impossibilità di queste ultime di prevalere definitivamente. Come vedremo fra breve, alla certezza che solo un approccio pluralistico può soddisfare veramente tutti i ‘canoni’ (teoretici e pratici) della razionalità, si affianca in James la consapevolezza che non ci sarà mai, proprio in virtù del ruolo svolto dal suo irriducibile carattere soggettivo, una filosofia che prevarrà definitivamente. 17
Ibidem. Continua James: Una filosofia può essere irreprensibile sotto altri riguardi, ma uno dei due difetti sarà fatale per la sua accettazione universale: il suo principio ultimo non deve frustrare ed essere contrario ai nostri desideri più cari e alle nostre facoltà più amate. Ibidem. Prima James ha parlato di “facoltà spontanee”(spontaneous powers) e ora di “facoltà più amate” (most cherished powers). Poche righe dopo parlerà delle “facoltà essenziali” (most intimate powers). Cfr. WB, p. 71. 18
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“simili”19. Al contrario, una filosofia che legittimi la paura, il disgusto, la disperazione o il dubbio difficilmente potrà per James, riscuotere un qualche successo. Come vedemmo sopra a proposito del sentimento della razionalità, James riconduce ora il giudizio intorno a un pensiero filosofico alla sua dimensione emotiva e soggettiva (per quanto si tratti di una soggettività che unisce gli uomini piuttosto che dividerli)20.
Questo è uno dei passaggi più deboli, anche considerandone l’importanza, dell’argomentazione jamesiana. Prima di procedere con la nostra critica, cerchiamo di capire però come il nostro autore giunga a queste discutibili conclusioni. Ancora una volta è l’evoluzionismo, qui unito alle più recenti teorie neurofisiologiche, a fornire la necessaria garanzia scientifica. Si è ancora lontani dal comprendere quanto l’intelletto si sia costruito su degli interessi pratici. La teoria dell’evoluzione naturale sta cominciando a rendere un buon servizio riducendo tutta l’attività mentale al modello dell’azione riflessa21. Apparentemente questo brano si rivela ben poco omogeneo rispetto a quanto detto sopra, ma solo perché James scavalca una serie di passaggi che dobbiamo qui ricostruire brevemente: prima di tutto, noi abbiamo già visto, nella parte Terza quanto fosse importante per la psicologia jamesiana la teoria 19 Cfr. Ivi, p. 72. Fortitude, hope, rapture, admiration earnestess sono i termini utilizzati da James; si tratta a dire il vero di un elenco abbastanza eterogeneo e certamente ben poche di queste sarebbero ritenute da uno psicologo delle “emozioni”, ma ben si capisce al carattere dell’uomo ‘normale’ cui egli vuole fare riferimento. 20 Come si ricorderà, la stessa credenza, la belief, è definita da James, sulla scorta di Bain e di Peirce, in termini emozionali; se questo fatto rappresenta per alcuni una grave fragilità del pensiero jamesiano, per altri invece è la base ontologica per comprenderne le sfaccettature: Dal momento che egli ritiene che la credenza sia uno stato di coscienza, simile all’emozione, caratterizzato dalla volontà ad agire, non sorprende affatto che gli interessi e i desideri della natura passionale dell’uomo influenzino le nostre credenze. P. K. Dooley, op cit., p. 91. Papini sembra invece non comprendere la dimensione intersoggettiva e unificatrice che assume in James la componente emotiva della razionalità come della credenza e proprio per questo oppone razionalità a sentimento: Siccome i sentimenti sono personali, variabili, molteplici, scompare il primo carattere della filosofia, la razionalità. G. Papini, Pragmatismo (1903-1911), Vallecchi Editore, Firenze 1920, p. 16. Ovviamente James era l’ultimo a volere livellare i sentimenti e il carattere degli uomini, ma queste differenze ai suoi occhi perdono consistenza di fronte al fatto che tutti gli uomini sono inseparabili dalla propria dimensione soggettiva. La frammentazione apparente nasconde quindi una più profonda somiglianza.
WB, p. 72. Come si ricorderà, la costruzione della teoria del comportamento umano sul paradigma dell’azione riflessa (che nell’uomo racchiude però la possibilità di una reazione non compresa nelle premesse dell’azione) si dimostrò essere il cuore di tutta la psicologia jamesiana dei Principles. Ora la dimensione telica della coscienza viene riproposta da James al fine di scorgere la genesi e la giustificazione evolutiva della nostra idea (che traduce un sentimento) di razionalità. Interessa qui riportare il resto delle parole di James al proposito: Il momento conoscitivo è secondo questa visione un qualcosa di fugace, una sorta di punto di passaggio di ciò che nella sua totalità è un fenomeno di azione. Per quanto riguarda le forme animali meno evolute, nessuno pretende che il momento conoscitivo sia qualcosa di più che una guida al comportamento. La prima questione che si pone alla nostra coscienza non è il teoretico “Che cos’è questo?”, ma il pratico “Chi va là?” o piuttosto, come Horwicz ha felicemente detto: “Che cosa bisogna fare?” — “Was fang’ Ich an?”. In tutte le nostre discussioni intorno all’intelligenza degli animali inferiori, l’unica verificazione che noi possiamo effettuare riguarda il loro agire come secondo un intento. La conoscenza, in breve, è incompleta fino a quando essa non si traduce in azione e, sebbene sia vero che lo sviluppo mentale successivo, che raggiunge il suo stadio più elevato nel cervello ipertrofico dell’uomo, dia vita a una gran quantità di attività teoretica oltre e al di là di ciò che d’immediata utilità pratica, la situazione precedente è solo differita, non cancellata e alla fine la natura attiva afferma i propri diritti. Ibidem. 21
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dell’azione riflessa e soprattutto come questa solo apparentemente fosse nemica di una concezione indeterministica dell’attività mentale dell’uomo. Ricordato questo punto fondamentale, dobbiamo però procedere oltre: James dice che tutta l’attività mentale (dunque anche quella che sembrerebbe più distaccata dalla sfera attiva e pratica dell’uomo, il pensiero filosofico) deve essere ricondotta all’azione. L’azione dell’uomo sul mondo non è mai priva di una reazione del mondo sull’uomo o, meglio, non è mai scevra di conseguenze a loro volta pratiche ed emotive; se queste conseguenze sono positive allora il pensiero che le ha provocate verrà selezionato positivamente, altrimenti esso verrà sostituito da un altro pensiero (che può essere ovviamente rappresentato da una lunghissima concatenazione — fluida — di pensieri artificialmente distinguibili) che verrà a sua volta verificato e selezionato. Una teoria filosofica è in questa prospettiva sottoposta allo stesso ‘tribunale’ di qualsiasi pensiero motorio (che appare immediatamente legato all’azione ch’esso produce solo per la sua semplicità e per la sua brevità); è perciò evidente — questa è la conclusione che sembra celarsi dietro l’involuzione di questo importante passaggio dell’argomentazione jamesiana — che quel pensiero che porterà l’uomo a provare emozioni di paura, di sconforto, di rassegnazione etc. difficilmente potrà trovare una reale e vasta accettazione da parte dell’uomo e questo perché — e qui si mostra prepotentemente l’influsso di Darwin — queste emozioni sono il frutto di “disposizioni”, “inclinazioni” e “atteggiamenti” poco utili alla sopravvivenza dell’individuo. Un individuo forte, fiducioso nelle proprie capacità e nella ‘collaborazione’ degli altri e del mondo stesso, sarà certamente più avvantaggiato nella lotta per l’esistenza rispetto a chi invece si senta in balìa del fato e delle forze esterne; similmente una filosofia che non sia in grado di suscitare le giuste emozioni frutto dei suoi natural powers.
Senza una spiegazione di questo tipo — che è giustificata dalla lettura di tutta l’opera di James (anche di buona parte di quella successiva alla Will to Believe) e dai due espliciti riferimenti del testo alla teoria evolutiva darwiniana (il primo chiaramente finalizzato a mostrare l’uomo nella sua perenne struggle for life) — il rilievo dato da James alla teoria dell’arco riflesso rimarrebbe inspiegabile22.
La conclusione storico-filosofica di James (rivolta pragmaticamente più al futuro che al passato) è dunque la seguente: Niente potrebbe essere più assurdo che sperare nel definitivo trionfo di quella filosofia che si rifiuti di legittimare, e di legittimare in maniera enfatica, le più potenti fra le nostre
Quest’enfasi sugli aspetti pratici piuttosto che teoretici delle funzioni della mente è correlata a elementi specifici della teoria evolutiva. P. B. Brennan, op. cit., p. 77. 22
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inclinazioni pratiche ed emotive. Il fatalismo, che risolve tutto dicendo che “tutto è vano”, non regnerà mai supremo, perché l’impulso di vivere coraggiosamente è indistruttibile nella razza23. Prima di concludere l’analisi del Sentiment of Ratinality — in quelle sue parti che ci servono per comprendere ‘l’allargamento’ del concetto stesso di razionalità che sta alla base della teoria jamesiana della volontà di credere — interessa qui aprire una breve parentesi su un aspetto della filosofia di James che è stato raramente preso in esame.
4.4.2 William James storico della filosofia James, nel tentativo di definire i marks — teoretici e pratici — che un pensiero filosofico deve possedere per potere essere considerato razionale, si addentra, quasi involontariamente, nel campo della storia della filosofia. Il suo fine è quello di mostrare, prendendo a esempio il successo di alcune scuole filosofiche, la correttezza della sua analisi. Abbiamo già delineato alcuni tratti del James storico della filosofia trattando della sua analisi della determinismo spenceriano e dello scetticismo cliffordiano, ma queste poche pagine del saggio che stiamo qui considerando sono per noi utilissime per cercare di cogliere il “centro della visione” di James di un soggetto ch’egli non trattò mai esplicitamente in un’opera generale, e cui dedicò solo alcuni passaggi di scritti anche molto differenti tra loro e che per lo più avevano al centro dell’interesse una determinata filosofia o un certo filosofo, come nel caso ben noto di Hegel. Prima di affrontare l’analisi della concezione jamesiana della storia della filosofia bisogna qui ricordare che oltre al metro ‘interno’ (della razionalità di una certa dottrina), James si è sempre servito di un metro ‘esterno’ e cioè quello dell’effettivo successo riscosso dalla filosofia che viene considerata. A questo si aggiunga che James aveva un’idea ben precisa di quel che fosse la filosofia e soprattutto di quello che avrebbe dovuto essere. Ne abbiamo già parlato nelle prime pagine di quest’ultima parte della nostra Tesi: la filosofia non deve essere esercizio speculativo praticato da pochi eletti in ambito accademico, ma deve essere prima di tutto confronto di pensieri che abbiano al centro la vita dell’uomo in tutte le sue dimensioni: etica, estetica e pratica. Non solo, James ritiene che la sua idea di filosofia sia in fondo quella giusta e che quindi si possano considerare vere filosofie solo quelle che corrispondono, nelle linee principali, a questi criteri tutt’altro che universali.
23
WB, p. 74.
422
In sostanza, James ritiene che ogni pensiero filosofico, in quanto tale, abbia come principio guida il fine di soddisfare il maggior numero di esigenze del maggior numero di persone possibile, o meglio, usando le sue parole, dell’average man. Il successo di una filosofia (che in James rappresenta la cifra della sua razionalità interna) dipende dunque dalla sua capacità di soddisfare i moral powers dell’uomo ‘normale’. Questo è forse uno dei luoghi della filosofia del nostro autore dove meglio si mostra la cultura filosofica di uno studioso tanto curioso e attento quanto educato al di fuori di un cursus studiorum filosofico specifico; se questo fatto, come abbiamo precedentemente rilevato, può essere visto positivamente e quasi come utile punto di partenza per dare vita a una filosofia ‘nuova’ e che non fosse troppo legata all’autorità delle precedenti dottrine filosofiche, allo stesso tempo pone James in una condizione di pericolosa ingenuità di fronte a una realtà ch’egli conobbe prima di tutto attraverso la scrittura delle sue opere piuttosto che attraverso lo studio di chi l’aveva preceduto24.
L’identificazione fra il successo di una filosofia e la sua intima razionalità (la razionalità ‘allargata’ di James) e il fatto che la filosofia debba rivolgersi e soddisfare — in una maniera molto simile a quanto dirà James a proposito dei princìpi morali — l’uomo medio, non può che portare a delle incongruenze quando egli si trova di fronte a dottrine che hanno avuto un grandissimo successo pur non essendo ritenute affatto razionali anche rivolgendosi al medesimo uomo medio ch’egli considerava il soggettooggetto di ogni pensiero filosofico. C’è infine un’ultima premessa su cui James fonda la propria interpretazione della storia della filosofia: una dottrina irrazionale, e che quindi non incontri le più profonde esigenze dell’uomo, non può essere da quest’ultimo apprezzata veramente a meno di non essere compresa. Si tratta di una premessa con cui, come vedremo, in qualche misura James riuscirà a giustificare il successo di dottrine da lui ritenute totalmente irrazionali come lo spencerismo.
Ma cominciamo da quelle filosofie che mostrerebbero la propria razionalità intima proprio in ragione dell’ampio successo ottenuto: Che cosa furono le missioni di Lutero e di Wesley se non richiami a quelle facoltà che anche i malvagi fra gli uomini porterebbero con sé — fede e self-despair — ma che erano personali e non richiedevano alcuna intermediazione clericale e che portavano chi le possedeva faccia a faccia con Dio? Che cosa provocò la rapida diffusione del pensiero di Rousseau se non il fatto ch’egli confermò la credenza che l’uomo fosse in armonia con la natura delle cose se solo si fossero eliminate le corruzioni paralizzanti delle consuetudini? Similmente, come abbiamo già visto, era accaduto per la psicologia; come James aveva una volta rivelato ironicamente, la prima lezione di psicologia ch’egli aveva ascoltato, coincideva con quella ch’egli aveva tenuto per la prima volta. 24
423
Come fecero Kant e Fichte, Goethe e Schiller a ispirare conforto ai loro tempi se non dicendo: “Usa tutte le tue facoltà; questa è l’unica obbedienza richiesta dall’universo”? E Carlyle25 con il suo spirito del lavoro, del fatto, della veracità, come può egli stimolarci se non dicendo che l’universo non ci affida dei compiti da eseguire se non tali che anche il più umile possa riuscirci? Il credo di Emerson che tutto ciò ch’è stato o che sarà è qui nell’ora che ci avvolge; che l’uomo deve obbedire solo a se stesso — “Colui che rimarrà in ciò ch’egli è, è una parte del Destino” — è in una maniera simile nient’altro che un esorcismo da ogni scetticismo e un invito a esprimere le proprie facoltà naturali26. Ma, posto che quest’analisi storico-filosofica sia valida, come spiegare allora il successo di quelle filosofie che non hanno affatto ‘parlato’ ai più profondi impulsi dell’uomo che James vede rappresentati nel coraggio, nella speranza, nell’autonomia etc?
James sembra non essere in grado di rispondere a questa domanda e anche quando pare convenire che, proprio giusta la differenza caratteriale che può influenzare la ‘scelta’ filosofica di un uomo, radicalmente differenti possono essere i frutti dei medesimi marks di razionalità, lo fa solo in maniera ‘formale’ per poi ritornare alla certezza che non esiste filosofia razionale che non soddisfi allo stesso tempo le pulsioni ch’egli vede come essenziali nell’uomo medio. James dice che gli impulsi attivi dell’uomo sono così differentemente composti che una filosofia che può soddisfare Bismarck, certamente non potrà soddisfare un poeta e questo dovrebbe farlo riflettere sul valore della propria concezione, ma sembra quasi che queste differenze ch’egli di fatto individua non siano poi effettivamente essenziali. È come se James dicesse: caratteri differenti vogliono filosofie differenti, ma tutti gli uomini condividono l’amore per la serietà, lo sforzo e la speranza, e quindi anche teorie che di fatto sembrano differenti non possono che soddisfare queste intime esigenze dell’uomo ‘normale’. Di fatto James, nell’elenco di filosofie razionali e di successo dianzi citato non solo si dimentica di un’infinità di autori che certamente avrebbero messo in crisi la sua teoria, ma si scorda anche di citare quegli autori ch’egli stesso aveva più volte riconosciuto, anche in un contesto squisitamente psicologico, incapaci di soddisfare i natural powers dell’uomo e l’ipotesi che una filosofia irrazionale (à la James) porti a uno stato di apatia e di taedium vitae sembra essere smentita nei fatti (e questi per James contano molto più che i proclami), dai sostenitori e dai seguaci di queste teorie. Perciò James, pur criticando il determinismo di entrambi, è — in maniera solo apparentemente paradossale — più vicino a Schopenhauer che a Spencer. Un’altra premessa di James, tutta da dimostrare, è che, anche posto che una filosofia sia irrazionale se non rispetta certi criteri, essa non possa però avere degli effetti contrari a quelli previsti (per motivi che Il saggi pubblicati nel 1898 col titolo The Will to Believe furono composti in parte già nel 1879, e sono la prova di come il suo autore, fosse, nella sua giovinezza, imbevuto del pensiero di Carlyle. TCBV, p. 38. 25
26
WB, p. 74.
424
non sono immediatamente visibili e che appartengono più al campo della psicologia piuttosto che a quello della storia della filosofia):
Per quanto possa essere vago in se, il predicato ‘vanità’ è chiaramente qualcosa che permette l’anestesia, la mera fuga dalla sofferenza come regola di vita. Non ci può essere più grande incongruenza per un discepolo di Spencer di proclamare che la sostanza delle cose è inconoscibile e, allo stesso tempo, che questo pensiero possa ispirarci timore, rispetto e voglia di cooperare con le cose del mondo27. Al contrario, il pessimismo totale di Schopenhauer, è da James ‘preferito’ proprio per la sua coerenza. Era profondo l’istinto di Schopenhauer che lo spingeva a rafforzare la sua argomentazione pessimistica con una serie di invettive contro l’uomo pratico e le sue richieste. Non c’è speranza per il pessimismo se questi non muore28! Per questo l’ottimismo spenceriano non può essere per James vero ottimismo, cioè ottimismo ‘ipotetico’ e ‘morale’. Ma, se di fatto la dottrina spenceriana ha portato a tutt’altro che inazione e paralisi, come spiegarne il successo? E’ sufficiente e credibile dire che si è trattato di una grande incomprensione e che se si fosse veramente compresa l’essenza della dottrina spenceriana l’uomo sarebbe dovuto necessariamente scivolare in uno stato di irreversibile inazione? Il problema, che riprenderemo brevemente alla fine, è quello del differente comportamento del determinista e dell’indeterminista: se una teoria filosofica non è separabile dai suoi effetti pratici ed è anzi giudicabile in base a questi, possiamo noi allora veramente capire, dal comportamento di due persone che sappiamo essere divise sulla questione della libertà, chi è il determinista e chi l’indeterminista? Forse la più grande ingenuità di cui James soffre, nelle pagine che qui stiamo trattando, è quella di credere che il legame fra filosofia e vita debba essere diretto, com’egli lo voleva, e quindi di avere sostituito una prescrizione a quella che doveva essere una descrizione.
All’impeto di alcuni passi in cui James sembra ipotizzare un futuro successo di quella razionalità filosofica ch’egli, con tanta sincerità e meno modestia, credeva incarnata dalla sua filosofia29 si alternano
27
Ivi, p. 73.
28
Ivi, p. 72.
29 James dovette aspettare gli anni ’90 per raccogliere le sue riflessioni filosofiche in un’opera omogenea, ma già all’inizio degli anni Settanta la sua ‘diagnosi’ storico-filosofica era ben delineata: Nel 1877 disse ad Alice ciò che aveva detto a se stesso nel 1873 e cioè che le due grandi tradizioni intellettuali del mondo occidentale, quella religiosa e idealistica e quella scientifica ed empiristica, non
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però dei momenti di maggiore lucidità (e di maggiore coerenza rispetto al proprio profondo soggettivismo e alla realtà dell’evoluzione del pensiero umano); l’esempio è ancora una volta quello dell’idealismo e del materialismo. Scrive James: Prendete l’idealismo e il materialismo come esempi di quel che voglio dire e ipotizzate per un momento che entrambi forniscano una concezione di eguale coerenza e chiarezza teoretiche. L’idealismo sarà scelto da un uomo di una certa costituzione emotiva [emotional constitution], il materialismo da un altro30. E’ la prima volta che James distingue materialismo e idealismo in base ai differenti caratteri dei rispettivi seguaci. La cosa è rimarchevole perché fino a ora James aveva mostrato più che altro le affinità fra le due teorie. Come abbiamo ricordato sopra, materialismo e idealismo sono per James le due più importanti declinazioni contemporanee del monismo filosofico; entrambe, pur nelle loro differenze, riducono le parti del mondo all’intero (the whole) in cui l’uomo non trova alcuno spazio di autonomia e perciò entrambe queste dottrine sono profondamente irrazionali, in quanto frustrerebbero una delle più importanti intimate faculties dell’uomo: il desiderio di essere artefici del proprio destino e di non essere ridotti a delle parti di un tutto che procede (per il bene o per il male) senza curarsi delle nostre aspirazioni e dei nostri desideri.
Ora James parla invece di due emotional constitutions profondamente differenti: l’idealista è colui che è dotato di una “natura sentimentale”, che vuole sentirsi parte del tutto, che, pensando che l’universo è essenzialmente pensiero, può dire di essere, almeno potenzialmente, tutto31. Il materialista viene invece dipinto come chi, spesso per reazione a questo desiderio di ‘comprensione’, di intimacy, si pone di fronte al mondo in una maniera antagonista, di reazione piuttosto che di immedesimazione.
erano in grado di spiegare il grande distacco tra il sé e il mondo, in sostanza, non erano in grado di spiegare la realtà. D. Bjork, op. cit., p. 103. Secondo l’illustre parere di Smith, James era tanto convinto della bontà della propria concezione filosofica (indeterministica e pluralistica) da ritenere le altre false anche a prescindere dall’accettazione della teoria della volontà di credere come metro di giudizi. In breve, mentre il problema dell’esistenza di Dio o dell’immortalità dell’anima sarebbero veramente imponderabili su un piano squisitamente intellettuale, non altrettanto per il ‘dilemma’ monismo-pluralismo, determinismoindeterminismo: Il problema di Dio per esempio, deve essere trattato in termini di conseguenze pratiche, ma non è così per il tema del pluralismo e del monismo. James aveva abbastanza chiaro in mente che certe forme di monismo sono false e che alla fine è “l’universo pluralistico” ciò che descrive meglio la realtà. J. E. Smith, op. cit., p. 124. Anche Brennan sembra riconoscere una sorta di dogmatismo di fondo nella filosofia di James: [... ] il pluralismo, accettando il male come reale e assegnandogli un ruolo significativo, mostra perciò la sua superiorità come ipotesi metafisica. Per questa e altre ragioni [...] il pluralismo deve essere considerato come l’unico postulato metafisico adeguato alle esigenze di un mondo morale. P. B. Brennan, op. cit., p. 29. 30
WB, p. 75.
31
Ibidem.
426
Io penso che in filosofia vedremo sempre il conflitto di questi due tipi di tempra mentale. Alcuni uomini insisteranno sulla ragione, la conciliazione che giace nel cuore delle cose, e con cui noi possiamo agire; altri sull’opacità del fatto bruto contro cui noi dobbiamo reagire32. Ancora una volta, a prescindere dal valore storico-filosofico che noi possiamo oggi attribuire a questa analisi, dobbiamo rilevare l’incongruenza della posizione jamesiana: prima di tutto, a quanto pare, l’elemento monistico appartiene più alle dottrine idealistiche piuttosto che a quelle materialistiche e quindi, in secondo luogo, l’originale distinzione fra filosofie monistiche e filosofie pluralistiche (di cui ovviamente l’indeterminismo jamesiano sarebbe una delle massime manifestazioni) sfuma nella nuova distinzione fra filosofie “conciliatorie” e “antagonistiche”. Non sarebbe questa una grande incongruenza se James non avesse mostrato di individuare nella prima distinzione (quella fra pensiero monistico e pensiero pluralistico) quella fondamentale sulla quale fondare la propria reazione filosofica e, soprattutto, se non fosse che quest’ulteriore distinzione mostra quanto lo stesso pensiero filosofico (ma anche scientifico) possa essere riguardato sotto diversi punti di vista, anche all’interno del medesimo schema interpretativo che lo vede strettamente legato al temperament dell’uomo che ne abbraccia la credenza.
In sostanza, James mostra involontariamente di avere dato un’immagine troppo schematica della divisione fra filosofie ‘buone’ e filosofie ‘cattive’, fra filosofie razionali e irrazionali. D’altronde anche lo stesso riferimento ai caratteri di razionalità pratica che una filosofia dovrebbe possedere sembrano essere smentiti dallo stesso James nelle pagine in cui vengono illustrati. E’ a questo proposito molto interessante un brano che se fa ricordare immediatamente il pensiero di un grande filosofo contemporaneo di James, Friedrich Nietzsche, mostra anche quanto James fosse lontano dallo scorgere le conseguenze, anche filosofiche, del successo del pensiero cristiano: Se noi analizziamo la storia e ci chiediamo che cosa caratterizza tutti i grandi periodi di rinascita e di espansione della mente umana, noi troveremo che si tratta di questo: “L’intima natura della realtà è congeniale alle facoltà che tu possiedi”. In che cosa consistette il messaggio emancipante della cristianità primitiva, se non nell’annuncio che Dio riconosce quegli impulsi deboli e teneri che il paganesimo aveva così rudemente trascurato33? 32
WB, p. 76.
Ivi, p. 73. Il brano prosegue così: Prendete il pentimento: l’uomo che non può comportarsi rettamente può almeno pentirsi per i suoi fallimenti. Ma per il paganesimo, questa facoltà di pentirsi era puramente superflua [...]. Il cristianesimo l’accolse e ne fece il potere che ci giungere direttamente al cuore di Dio. Ibidem. 33
427
Ma, posto che la razionalità (e il successo) di una dottrina filosofica si misuri in base alla capacità di questa di essere “congeniale alle facoltà possedute dall’uomo”, come non vedere che queste facoltà possono essere diversissime secondo l’epoca e il luogo? Come non vedere che le intimate faculties che trovano soddisfazione nell’uomo che abbraccia l’ottimismo spenceriano sono profondamente diverse, pur essendo non meno umane e non meno profonde, di quelle che spingono un uomo verso la fede cristiana o verso lo scetticismo positivistico o verso la filosofia buddista? Come poi potere spiegare la stessa evoluzione della filosofia — sempre secondo i canoni di James — se non come l’effettiva evoluzione (differente però in relazione al luogo) di una serie di complesse “intime esigenze”? E’ incredibile che uomini che sono essi stessi filosofi pretendano che una filosofia possa essere, o possa essere stata costruita senza l’aiuto dell’inclinazione personale [...]34. James di certo non pretendeva che la sua filosofia fosse esente da quel soggettivismo che ne è poi il vero cuore e il motore principale35, ma certamente nella sua visione dell’average man si perde quell’esprit de finesse che avrebbe dovuto fargli comprendere di stare parlando di un certo tipo di “uomo medio”, di una determinata epoca e di un determinato luogo (nonché di una determinata classe sociale); una possibile spiegazione di questa cecità di James (peraltro ‘tipica’ di chi voglia parlare dell’Uomo universalmente inteso, nel tempo e nello spazio) è probabilmente rintracciabile nell’eccessiva ed ‘estrema’ aderenza allo spirito darwiniano: lo stesso James riconosce che il cristianesimo — che non si può certo dire abbia avuto pochi seguaci — soddisfò certi powers che dal paganesimo erano visti come delle debolezze da estirpare. L’identificazione di James di certe facoltà con quelle da preferirsi — sempre e comunque — nella struggle for life delle dottrine (una battaglia sociale e non naturale, come riconosciuto peraltro dallo stesso James nel suo saggio più dichiaratamente darwiniano sui great men and their environment) lo ha portato a un’estensione indebita a tutta l’Umanità di certe caratteristiche limitate al proprio tempo e alla propria terra. William James, piuttosto che l’osteggiata incoerenza tra la filosofia spenceriana e le conseguenze pratiche auspicate dai suoi sostenitori (e dallo stesso Spencer primo fra tutti), avrebbe dovuto scorgere la pluralità delle sfaccettature delle moral faculties che possono essere ‘utili’ — sempre quindi rimanendo all’interno dello schema jamesiano — all’individuo.
34
WB, p. 77.
Certamente, ora che conosciamo a fondo gli aspetti principali del depressive period del nostro autore, possiamo affermare senza dubbio ch’egli non poteva che identificare la voglia di vivere e di essere padroni della propria vita con una filosofia indeterministica e che non frustrasse le sue intimate faculties; questa dimensione personale non può essere dimenticata anche nell’analisi più generale della figura di William James come incarnazione dell’average man dell’America vittoriana . 35
428
William James vedrà il fondamento del successo del pragmatismo nella sua capacità di venire incontro ai desideri e agli impulsi dell’uomo, dimenticando però la dimensione storica di questi e il pluralismo che sempre li caratterizzò e sempre li caratterizzerà. Bisogna però riconoscere che, alla consapevolezza di questa pluralità di caratteri e di esigenze, James tende spesso a opporre in maniera perentoria l’ambigua ‘normalità’ dell’uomo: Quando veramente messi di fronte alla domanda se la vita è degna di essere vissuta, i temperamenti possono cambiare, ma “un animo normale” risponderà “nell’unica maniera possibile” , cioè affermativamente36. E, se l’“animo normale” è quello che è dotato di normali e ‘sani’ impulsi e tendenze, razionale sarà quella filosofia che riuscirà, senza frustrare le esigenze dell’intelletto, a comprendere al proprio interno questi impulsi e queste tendenze: Per concludere: non potrà essere per lungo tempo considerata razionale quella filosofia che (oltre a soddisfare le esigenze logiche) [...] non verrà incontro a quelle facoltà della nostra natura che noi consideriamo in maggior grado37.
4.4.3 La volontà di credere, nella libertà dell’uomo Il saggio sul dilemma del determinismo e quello sul sentimento di razionalità si sono così rivelati di grande utilità per comprendere la posizione di James riguardo allo spinoso tema della libertà del volere umano. Il Dilemma of Determinism ha posto in rilievo la condizione lacerata in cui si trova chi voglia far convivere moralità con determinismo, responsabilità con necessità. Il Sentiment of Rationality ha infine mostrato come questa lacerazione sia dovuta all’incapacità della dottrina deterministica di incontrare l’uomo sul terreno delle sue più profonde inclinazioni e aspirazioni. Il necessitarismo nega all’uomo la sua dimensione più profonda, nega all’uomo l’autonomia di quella parte del sé, il sé spirituale, che dovrebbe essere invece il suo cuore e il suo bene più prezioso. Come abbiamo visto, James non oppone indeterminismo a determinismo con le deboli armi del sentimentalismo contro la dura forza della ragione scientifica. James combatte tutta la sua battaglia sul terreno della razionalità, allargandone i confini classici e riportando the whole man, con le sue passioni e la sua volontà, all’interno di un campo
36
R. J. O’Connell, op. cit., pp. 95-96.
37
WB, p. 89.
429
tradizionalmente lasciato al freddo rigore dell’intelletto. La Weltanschauung deterministica si è così dimostrata essere la più irrazionale, la più incapace di riconoscere la complessità della natura umana38. Giova concludere il nostro discorso sull’estensione del concetto jamesiano di razionalità sottolineando proprio una di quelle human passions cui solo una visione pluralistica e indeterministica riesce a dare respiro: Ora, c’è un elemento della nostra natura attiva che la religione cristiana ha enfaticamente riconosciuto, ma che i filosofi hanno di regola cercato di eliminare con grande insincerità nella loro pretesa di trovare dei sistemi assolutamente certi. Intendo l’elemento della fede. Avere fede significa credere in qualcosa di cui si può ancora teoreticamente dubitare: e, se la verificazione di una credenza sta nella nostra disponibilità ad agire, si può dire che la fede è la disponibilità ad agire senza avere alcuna certezza intorno ai risultati del nostro comportamento. E’ infatti la stessa qualità morale che chiamiamo coraggio negli affari pratici; e ci sarà una grande tendenza negli uomini di natura vigorosa [che dovrebbero essere per James i ‘normali’] a vivere una certa dose d’incertezza nelle loro convinzioni filosofiche, proprio come il rischio dà gusto all’attività di questo mondo. Le filosofie assolutamente certe che cercano l’inconcussum sono il frutto di nature mentali nelle quali la passione per l’identità (che noi abbiamo identificato come uno dei fattori dell’appetito razionale) gioca una parte eccessiva Nell’uomo medio l’avere fiducia, il rischiare un po’ oltre la pura evidenza, è, al contrario, una funzione essenziale. Qualsiasi modo di concepire l’universo che va incontro al suo generoso potere e che rappresenta l’uomo come se egli potesse contribuire a creare l’attualità della verità la cui realtà metafisica egli è disposto a condividere sarà sicuramente accolto da un gran numero di persone39. Questo brano è di eccezionale interesse: la fede, cioè il credere oltre (o meglio: prima) l’evidenza empirica, non è solo una un’utile conseguenza di ogni dottrina indeterministica e meglio ancora libertistica: essa è allo stesso tempo una delle più importanti esigenze che l’uomo vuole soddisfare e per James questa soddisfazione può passare solo attraverso l’adozione di una visione pluralistica dell’universo. Di due dottrine egualmente valide su un piano squisitamente intellettuale noi dobbiamo scegliere quella che ci soddisfa maggiormente e che ci appare più razionale (che è la stessa cosa se consideriamo l’aspetto soggettivo e passionale della ‘nuova’ razionalità jamesiana).
Ma per James [...] se due teorie sono fattualmente equivalenti, ci possono comunque essere ragioni di ordine economico, estetico o psicologico perché noi se ne preferisca una all’altra40.
38
Il determinismo, come il monismo, impone all’universo un carattere che è ripugnante e contraddittorio. P. B. Brennan, op. cit. p. 33.
39
WB, p. 76.
40
A. J. Ayer, op. cit., pp. 198-199.
430
[...] Di due punti di vista egualmente validi sotto il profilo logico su un determinato problema morale, quello che soddisfa maggiormente gli impulsi morali è il più razionale e quello da preferirsi filosoficamente41. E’ ora bene ricordare che questa conclusione non è che una parte, per quanto centrale, della teoria jamesiana della volontà di credere: essa suppone l’accettazione delle altri parte e, per quel che concerne l’argomento della nostra tesi, essa implica la condivisione dell’affermazione secondo cui il problema della libertà è uno di quelli che possono essere affrontati superando i confini della mera coerenza intellettuale e dell’evidenza empirica. Dobbiamo ora vedere se veramente il dilemma fra determinismo e indeterminismo può essere affrontato secondo la teoria della volontà di credere:
Come dicemmo all’inizio, James non pensava con la Will to Believe di proporre un’alternativa al metodo di ricerca scientifico. La volontà di credere non riguarda così argomenti che possono essere risolti con gli strumenti della coerenza logica e dell’evidenza empirica. In breve, la volontà di credere si applica alla dimensione morale dell’uomo e non a ciò che può essere deciso on intellectual grounds, riguarda quelle che, abbiamo visto, Peirce chiamava practical matters. Il problema della libertà rientra dunque, secondo quanto detto sopra, proprio in questa dimensione morale: la libertà non appare a James logicamente meno coerente della necessità42 e — i Principles sono al riguardo fondativi — il determinismo (delle azioni umane) non è empiricamente dimostrabile, proprio perché esso appartiene al mondo metafisico e non a quello fisico e, Riguardo al mondo metafisico, ovvero al significato ultimo delle cose, non c’è nessuna evidenza esterna — niente tranne concezioni del possibile43. E’ all’interno di queste condizioni del possibile che l’uomo di James può scegliere. Ma, come abbiamo visto all’inizio dell’analisi della linea argomentativa del nostro autore, perché una questione possa essere affrontata razionalmente (i. e. non più solo intellettualmente) essa deve soddisfare almeno tre condizioni44.
41
P. B. Brennan, op. cit., p. 84.
42 L’argomentazione, come abbiamo visto, è al riguardo molto semplice: dove si nasconde la maggiore logicità del dire che necessario è il legame che lega la causa all’effetto quando non sappiamo in che consiste questo legame? L’uniformità della natura e l’universalità del determinismo meccanico è “un altare a un dio sconosciuto”. Chi dice di non comprendere come a una data causa non possa che seguire un dato effetto non sa infatti dire perché a una data causa deve seguire un dato effetto. Determinismo e indeterminismo raggiungono così, seppure negativamente, un’equipollenza logica. 43
W. James, Der Moderne Pessimismus, in ECR, p. 313.
44
Oltre a non potere essere decisa su un piano schiettamente logico ed empirico.
431
Chiamiamo la decisione fra due ipotesi un’opzione. Le opzioni possono essere di tipi differenti. Esse possono essere 1) vive o morte; 2) forzate o evitabili, 3) importanti o triviali. Noi chiameremo genuina l’opzione che è viva, forzata e importante45. L’opzione è quella fra determinismo e libertà. Ma si tratta di un’opzione genuina? Se così non fosse, dovremmo dire che la teoria della volontà di credere (per quanto possa essere condivisibile) non ci è affatto utile per dirimere la questione della libertà del volere umano, ch’era rimasta in sospeso alla conclusione dei Principles. Purtroppo James, per quanto non lasci dubbi riguardo alla sua convinzione (che si tratti cioè di un’opzione genuina) alla fine del primo saggio, The Will to Believe, non applica la sua teoria al caso della libertà dell’uomo, ma a quello dell’esistenza di Dio. Prima di affrontare questo tema cercheremo di rispondere noi stessi alla domanda sulla genuinità della scelta fra determinismo e indeterminismo.
Cominciamo col punto più semplice: è viva l’opzione tra libertà e determinismo? Certamente sì. Non si tratta infatti di scegliere tra credere nel Mahdì o in Manitù, o anche nel Mahdì o in Gesù Cristo, ma nella libertà o nella necessità, una scelta che appare viva a noi tanto quanto al pubblico americano cui James si rivolgeva più di un secolo fa46.
E’ poi un’opzione forzata? Qual è l’alternativa tra la libertà e la necessità? Sembrerebbe proprio che tertiun non datur. Ovviamente l’idea di libertà può essere ben elastica. Come abbiamo visto verso la fine della terza Parte, la stessa idea jamesiana di libertà è sotto certi riguardi ‘limitata’ e per molti la sua idea di libertà è ben poca cosa, ma qui ci si intende se si definisce il determinista come chi ritiene che l’uomo non possa essere mai e in nessun modo libero, mentre l’indeterminista è colui che riconosce all’uomo una certa autonomia, per quanto limitata nel tempo e nel grado.
Si tratta infine di un’opzione importante? Purtroppo né l’inglese momentous né l’italiano importante riescono a tradurre efficacemente il pensiero di James. A tutta prima potrebbe infatti sembrare che questa terza distinzione non sia che un corollario della prima: se un’opzione è viva, allora non può che
45
WB, p. 14.
46 Come è evidente, e come riconosce lo stesso James, non si può dire se un’opzione è viva sub specie aeternitatis. Un’ipotesi è viva solo relativamente a un determinato periodo e a un determinato luogo. Nonostante ciò, sembra che James ritenesse certamente più universale (e quindi possibilmente viva per ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo) una questione che di fatto suscitava un enorme interesse da parte di giovani studenti che quotidianamente partecipavano, attivamente o passivamente, a dispute sul determinismo, la predestinazione, la libertà dell’uomo, la sua responsabilità etc.
432
essere importante.... Riconda spiega molto chiaramente che cosa intenda James per momentous. Descrivendo le tre caratteristiche necessarie perché un’opzione sia genuina, scrive il filosofo italiano: L’opzione deve essere genuina; essa cioè deve essere vivente, nel senso che deve essere per noi tale che vi portiamo interesse, forzata, nel senso di porsi come un dilemma basato su una disgiunzione logica completa senza possibilità di non scegliere, e importante, nel senso di possedere una sorta di rilevanza unica per la nostra vita, di proporci qualcosa di significante e di tale che la decisione che prendiamo non possa essere facilmente reversibile47. Come appare subito evidente, questo è il punto più fragile dell’applicazione della teoria della volontà di credere al problema della libertà. James aveva fatto l’esempio, forse autobiografico, di un’importante spedizione esplorativa per spiegare il significato dell’importanza di una credenza: se si rimane scettici sul successo della spedizione, oppure se si crede che non avrà successo, bisogna essere consapevoli che questa potrebbe essere per noi l’ultima chance per scrivere il nostro nome nella storia della scienza. Ma vale lo stesso per credenza nella libertà? Sembrerebbe proprio di no, nonostante la posizione affermativa di James: se io oggi rimango scettico intorno alla libertà dell’uomo e mi mantengo in una condizione agnostica, perdo forse la possibilità di ricredermi domani e di godere delle conseguenze (positive) della mia convinzione? Evidentemente no. Lo stesso James, come abbiamo ampiamente visto, aveva per molti anni abbracciato una filosofia deterministica e per molto tempo, dopo averne scorto l’inaccettabilità, era rimato a riguardo sui posizioni scettiche. Come abbiamo dianzi ricordato, James, alla fine del primo saggio della Will to Believe, applica la teoria della volontà di credere alla religione; conviene allora, per comprendere che cosa possa significare l’aggettivo “importante” in relazione all’ipotesi che l’uomo sia libero, fare riferimento a quanto egli dice a proposito dell’esistenza di Dio. l’ipotesi religiosa è importante e forzata: E’ importante [momentous] poiché supponiamo di trarne un vantaggio se vi crediamo, e di perdere un bene vitale se non vi crediamo. Inoltre, l’opzione religiosa è forzata, poiché noi non possiamo rimanere scettici e aspettare una maggiore chiarezza perché, sebbene eviteremmo l’errore nel caso l’ipotesi religiosa fosse falsa, noi ne perderemmo i vantaggi, se fosse vera, come se avessimo deliberatamente scelto di non credere48.
47
G. Riconda, Invito al pensiero di James, cit., p. 86.
48 WB, p. 30. Purtroppo qui James, chiarendo che cosa intenda per l’importanza di un’opzione, sembra ingenerare nel lettore confusione quando spiega che cosa si debba intendere per opzione forzata. Un’opzione, secondo quanto spiegato sopra chiaramente da Riconda e da James stesso in altri passaggi di The Will to Believe, è forzata quando non dà alternative e non quando il permanere di una posizione agnostica implica la perdita di un bene vitale; quest’ultima definizione appartiene infatti a buon diritto all’importanza di un’opzione.
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Il carattere dell’irreversibilità di una decisione (che ovviamente contempla la decisione di non decidere) lascia dunque spazio all’importanza di quanto si perde. Potremmo dunque dire che l’opzione fra libertà e determinismo è genuina in quanto una non-decisione implica la perdita di una quantità49 di bene che non può essere più recuperata: per quanto possiamo un giorno ricrederci e pensare che siamo liberi e quindi agire di conseguenza, gli anni trascorsi nell’agnosticismo (con la conseguente perdita dei beni che avremmo invece guadagnato abbracciando prima il pensiero indeterministico) non ci potranno più essere restituiti. Certamente rimane il fatto che quest’ultimo punto, quello dell’importanza della scelta fra determinismo e indeterminismo sembra essere l’anello più debole della catena argomentativa di James50. In conclusione, possiamo dire che per James l’opzione la scelta fra libertà e determinismo (delle azioni umane) rappresenta veramente un’opzione genuina:
Per molte persone l’idea del libero arbitrio è sostenibile — essa rappresenta un’opzione viva, vera, e certamente non triviale; ed è inevitabile, poiché non si dà una terza possibilità. Così, in assenza di alcuna evidenza, si ha il diritto di credere nella libertà, poiché non decidere sarebbe come decidere del contrario51. E, come scrive lo stesso James: Se io mi rifiuto di fermare un assassinio perché sono in dubbio se si tratta di un omicidio giustificabile o meno, io virtualmente sto sostenendo la perpetrazione del crimine. [...] Se, su un precipizio di una montagna, io dubito della mia possibilità di rischiare il salto, io contribuisco attivamente alla mia morte. Colui che si impone di non credere senza prove all’esistenza di Dio, del dovere, della libertà o dell’immortalità, non è affatto distinguibile da colui che li nega dogmaticamente. Lo scetticismo, nelle cose morali, è un attivo alleato dell’immoralità. Chi non è per è contro. L’universo non accetta la neutralità in tali questioni52. Bisogna qui aggiungere che il permanere di un atteggiamento agnostico nei confronti della libertà del volere umano può anche avere delle conseguenze negative sulla qualità della libertà stessa. Come abbiamo visto sopra, James riteneva che l’esercizio della libertà, diventando un’abitudine, un abito di comportamento, avrebbe moltiplicato le possibilità di essere liberi. 49
Chi poi credesse di potere individuare l’importanza dell’opzione della libertà (e — ancora più manifestamente — di quella dell’esistenza di Dio) solo in un momento dove ogni nostra decisione è veramente irreversibile (cioè un attimo prima della morte), dovrebbe tosto ricredersi: James infatti, proprio nella Will to Believe, ricorda che le nostre credenze hanno valore solo in relazione alle azioni che esse comportano e alla qualità delle conseguenze di queste azioni. Decidere di credere in Dio un attimo prima di morire è dunque la cosa più inutile che si possa fare, proprio perché in questo caso non potremmo dare valore e significato in questa vita, che l’unica cui James si interessa nel saggio che stiamo qui considerando. 50
51
J. Barzun, op. cit., p. 164.
52 WB, p. 88. Come dimostrano le parole di questo brano, una delle caratteristiche delle opzioni morali che debbono essere vagliate dalla nostra volontà di credere è quella di non potere dare alternative di comportamento. In effetti, rispetto al problema della libertà, io posso dire che né credo nella libertà, né credo nel determinismo, ma semplicemente: “io non so”; questa, dice James, è una terza via che di fatto non è percorribile e proprio a questo proposito emerge l’utilità della
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4.4.4 Over-belief e outcome case: la ‘parabola’ dell’alpinista Dunque, potremmo così riassumere le conclusioni cui siamo giunti fin qui in ordine al problema dell’atteggiamento che l’uomo deve assumere di fronte al dilemma della libertà: l’opzione tra libertà e determinismo si è dimostrata, nonostante alcune rilevanti difficoltà, essere un’opzione genuina; o meglio: James ritiene che l’opzione tra libertà e determinismo sia certamente genuina. Dunque, l’uomo ha il diritto di credere in base alla propria idea di razionalità, in base alla propria idea di come dovrebbe essere il mondo per potere soddisfare le sue più intime esigenze (sia di ordine pratico che teoretico). Non solo, l’uomo ha più che il diritto di credere nell’idea di mondo che più sente familiare: egli non potrebbe fare altrimenti, e quindi la possibilità si trasforma in una necessità e James mostra che solo con la consapevolezza del peso che ha tutto l’uomo (con la sua razionalità, il suo temperamento e il suo carattere) per la determinazione delle nostre più intime convinzioni sulla natura dela realtà (delle nostre idee metafisiche) egli può fare di necessità virtù, dove la necessità è l’obbligo di scegliere e la virtù consiste nel non lasciarsi trascinare da una visione comunque soggettiva, ma dove la nostra libertà, a causa di una supposto agnosticismo ineludibile, non ha alcun ruolo attivo.
Ma l’ultimo brano citato, unito a un’attenta lettura della parte conclusiva del saggio sulla Will to Believe e sul Sentiment of Rationality ci spinge ad approfondire ancor più l’analisi della posizione di James riguardo alla formazione della nostre più profonde credenze. Si tratta di un approfondimento che, pur non essendo sfuggito ad alcuni fra i primi e più profondi critici dell’opera jamesiana, solo negli ultimi anni, grazie ad autori come O’Connell e Dooley, è stato posto nella giusta luce. James scrive:
Se, su un precipizio di una montagna, io dubito della mia possibilità di rischiare il salto, io contribuisco attivamente alla mia morte. Colui che si impone di non credere senza prove all’esistenza di Dio, del dovere, della libertà o dell’immortalità, non è affatto distinguibile da colui che li nega dogmaticamente53. Questo brano sembrerebbe porre sullo stesso piano la situazione dell’alpinista che deve decidere se spiccare o no un salto impegnativo (che significa la propria salvezza) con quella dell’uomo che deve
definizione jamesiana di credenza come disponibilità ad agire. Mentre infatti fra credere in A e credere in non-A io posso scegliere di non credere né in A né in non-A, ma di rimanere nel mio agnosticismo, nell’azione io non posso non agire perché anche il non agire è un’azione allo stesso modo dell’agire e il mio agire sarà coerente o con A o con non-A. 53
Ivi, pp. 88-89.
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decidersi intorno a questioni come l’esistenza di Dio, dell’immortalità e del dovere, ovvero — ciò che qui ci interessa principalmente — della libertà dell’uomo. Di fatto, come vedremo fra breve, queste due situazioni sono ben differenti per James e il rapporto fra credenza e comportamento è nei due casi molto diverso. Condizione dell’analisi di questa differenza è la conoscenza e l’approfondimento di quell’esempio dell’alpinista che qui abbiamo citato e che può essere considerato uno dei loci più famosi della filosofia del Novecento e certamente uno dei più importanti del pensiero jamesiano: Supponete, per esempio, che io sia impegnato in un’escursione sulle Alpi e che abbia la sfortuna dio trovarmi in una posizione [di stallo] dalla quale la mia unica possibilità di cavarmi d’impaccio sia un terribile salto. Senza essermi mai trovato in un’esperienza simile, io non posso sapere se sono in grado di compiere un’impresa del genere; ma la speranza e la fiducia in me stesso mi rendono capace di non mancare al mio scopo e danno alle mie gambe quella forza che sarebbe impossibile esercitare senza quelle emozioni soggettive. Ma supponete che, al contrario, abbiano il sopravvento le emozioni della paura e della sfiducia o supponete che io, avendo appena letto The Ethics of Beief 54mi senta in colpa ad agire su un assunto non verificato da alcuna mia precedente esperienza: io esiterò così a lungo che alla fine, esausto e infreddolito, mi lancerò in un momento di disperazione e cadrò nel crepaccio. In questo caso (che è solo uno di un’immensa classe) il buon senso suggerisce di credere ciò che si desidera, al momento che la credenza è una delle condizioni indispensabili per la realizzazione del fatto. Ci sono casi nei quali la fede crea la propria verificazione. Credete e avrete ragione, poiché vi salverete; dubitate e avrete nuovamente ragione, poiché morirete. L’unica differenza è che è molto più vantaggioso per voi credere55.
IL riferimento ovviamente è allo scritto di William Clifford, il foil (insieme con Huxley) di gran parte dei saggi raccolti nella Will to Believe. 54
55 Ivi, p. 81. Questo brano è tratto dalla parte conclusiva del Sentiment of Rationality. James si servì dello stesso esempio (con alcune variazioni) anche in altri due saggi della raccolta che stiamo qui analizzando: nella Will to Believe e in Is Life Worth Living?. Nel primo si legge (a mo’ di conclusione): Noi ci troviamo fermi su un passo montano nel pieno di una bufera di neve e di densa foschia attraverso la quale possiamo scorgere a momenti i sentieri che possono essere pericolosi. Se noi rimarremo fermi in quella posizione, moriremo assiderati. Se prenderemo la via sbagliata ci sfracelleremo al suolo. Noi non sappiamo se ce n’è una giusta da imboccare. Che cosa dobbiamo fare? Sii forte e fatti coraggio. Agisci per il meglio, pensa positivamente e prendi quello che viene...Se incontreremo la morte, non potremo che incontrarla nella maniera migliore. Ivi, p. 33. In Is Life Worth Living? l’esempio è molto più simile a quello citato nel corpo del testo: Supponete, per ipotesi, che state scalando una montagna vi siete trovati in una posizione per uscire dalla quale l’unica via è un terribile salto. Abbiate fiducia nelle vostre forze e riuscirete a spiccare il salto con successo. Ma se perderete la fiducia e comincerete a pensare a tutte le belle parole che avete sentito dire dagli scienziati intorno ai forse, e voi esiterete così a lungo che alla fine, indeboliti e infreddoliti, vi getterete nel vuoto in un momento disperazione e morirete. In un caso del genere (e questo è solo uno di un’enorme classe) è saggio nonché coraggioso credere ciò che ci conviene, poiché solo in virtù di una tale convinzione le nostre esigenze verranno soddisfatte. Se non credete, avrete avuto comunque ragione, poiché morirete. Ma se credete, avrete nuovamente avuto ragione, poiché vi sarete salvati. Voi renderete uno o l’altro dei due universi possibili vero in virtù della vostra fiducia o della vostra sfiducia — dal momento che in questo caso entrambi gli universi sono in forse, prima che voi vi siate decisi ad agire. Ivi, p. 54. Come si ricorderà, James era un appassionato escursionista e proprio sugli Adirondacks egli aveva messo così a dura prova il proprio fisico da fiaccarsi irrimediabilmente il fisico. Cfr. al proposito TCWJ I, pp. 377-378. Il “salto” (un salto terribile, un salto nel buio) aveva in James un valore simbolico molto forte e in diverse occasioni se ne servì per rappresentare il coraggio, la fede o il passaggio da un ordine di fenomeni a un altro: James amava la metafora della perplessità dell’alpinista; essa gli evocava sempre la nozione di “coraggio”, il coraggio che spingeva la volontà a fare il salto della fede. R. J. O’Connell, op. cit., p. 20. E’ ipotizzabile (cfr. ivi, p. 19) che James avesse mutuato l’esempio del “salto” anche dalla lettura di Fitzjames Stephen oltre che dalla propria esperienza di alpinista. Un’altra ipotesi che ci sentiamo di avanzare qui è che James si fosse ispirato a un altro autore, che viene citato già nei Principles dove la metafora del salto è già presente e serve per rappresentare la situazione dell’uomo che si trova di fronte a una decisione da prendere. Il nostro autore cita a questo proposito J. Bahnsen, autore di Beitraege zur Charakterologie, 1867. Scrive Bahnsen: Colui che ogni giorno prende una decisione è simile all’uomo che, arrivato 4 sull’orlo del fosso [...] deve saltare [...]. PP, p. 128. C’è un altro passo dei Principles in cui James si serve della metafora del salto: Quando l’indecisione è grande, come prima di un salto pericoloso, la coscienza è in uno stato di intensa perplessità., Ivi. p. 145.
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Molte critiche sono state sollevate alla metafora dell’alpinista che certamente non è così lineare come James vorrebbe farci credere56. Noi però non siamo interessati tanto a capire quanto sia valido il consiglio jamesiano di avere fiducia (coraggio) e spiccare il salto (in montagna come nelle faccende della vita), quanto piuttosto a comprendere se la decisione di credere nella libertà (il tema della nostra Tesi) possa essere rappresentato effettivamente dalla metafora dell’alpinista. Come abbiamo anticipato all’inizio dell’analisi del saggio sulla Will to Believe, l’argomentazione jamesiana in favore di una credenza presa su basi non squisitamente intellettuali è duplice, sia nel primo saggio della raccolta, sia nel Sentiment of Rationality; ci troviamo qui di fronte a uno di quei casi in cui James sembra essere veramente responsabile dei possibili fraintendimenti del suo pensiero. Ma dov’è la duplicità dell’argomentazione?
James, nella Will to Believe, si propone di dimostrare come, in alcuni casi (fra cui quelli morali), la credenza dell’uomo possa essere fondata non sulle ragioni dell’intelletto, ma su quelle del cuore, o meglio (dopo avere analizzato il ‘nuovo’ concetto jamesiano di razionalità) su una razionalità allargata. In determinate situazioni, quando la questione (come può essere quella delle libertà dell’uomo) non può essere decisa intellettualmente, l’uomo ha il diritto di scegliere quell’opzione che più si avvicina al proprio intimo sentire. Questa conclusione, come abbiamo visto sopra, era fondata sulla neutralità dei fatti: i fatti non ‘parlano da soli’ e l’uomo non è in grado da una semplice analisi di essi, di giungere a conclusioni che non possano essere messi in discussione da un altro uomo che, dotato di differente sensibilità, li interpreti in maniera radicalmente opposta. Per non allontanarci eccessivamente dal tema della nostra Tesi e avvicinare il pensiero jamesiano a quella concretezza che sempre rimase il suo principale obiettivo filosofico: sic stantibus rebus si può essere deterministi e indeterministi; la nostra credenza non dipende dai fatti stessi, ma dalla nostra interpretazione. Decidere di non scegliere (tra indeterminismo e determinismo) è per James impossibile, non perché non sia concepibile un pensiero scettico in proposito, quanto piuttosto perché non è pensabile un comportamento neutrale.
Quando però si passa ad analizzare la metafora dell’alpinista, ci troviamo di fronte a una ben differente situazione: anche in questo caso la decisione che l’uomo si trova a dover prendere non è sostenibile su basi empiriche o intellettuali: James sottolinea il fatto che lo scalatore si trovi per la prima volta in quella difficile situazione e suppone ch’egli non abbia sotto mano delle statistiche che possano
56 Fra i primi a metterne in dubbio il valore e l’utilità è senza dubbio da annoverare il nostro Papini: La fede da sola non basta. Il credere soltanto che noi saremo capaci di un certo sforzo per compierlo non è sufficiente. G. Papini, op. cit., p. 152.
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farlo propendere per una decisione o per l’altra57. Ma le analogie terminano qui: nel caso dell’alpinista infatti si tratta di una faccenda di vita o di morte58. Inoltre, mentre nel caso dell’alpinista la verificazione della propria credenza è presto fatta (con la morte o con la vita), nel caso della credenza nella libertà o nell’immortalità dell’anima non si dà questa possibilità immediata di verificazione. Riprenderemo questo punto centrale verso la fine della nostra analisi, ma prima dobbiamo sottolineare l’ultima (ma più grande per ordine d’importanza) differenza: la metafora dell’alpinista, come afferma esplicitamente James, rappresenta uno di quei casi in cui la credenza è madre del fatto: il fatto (della sopravvivenza dell’alpinista) non si darebbe se egli non avesse precedentemente avuto fiducia nella sua realizzazione59. Può forse dirsi lo stesso per quanto riguarda le nostre credenze morali e metafisiche? Possiamo forse affermare che la nostra credenza in Dio crea il fatto dell’esistenza di Dio o che la credenza nella libertà dell’uomo crea il fatto dell’esistenza del libero arbitrio? Apparentemente non possiamo che rispondere negativamente a queste domande. Ma allora come si giustifica l’equiparazione che James fa tra la metafora dell’alpinista e la situazione di chi deve decidere intorno a questioni morali? Apparentemente non esiste giustificazione alcuna: ci troveremmo così di fronte a un’imperdonabile confusione del nostro autore, che avrebbe diviso la sua argomentazione in due parti ben distinte, unendole poi a posteriori e solo per dare coerenza al proprio pensiero.
Sono molti i critici che hanno sottolineato le incongruenze della Will to Believe, ma la maggior parte di questi hanno cercato di scorgere the center of the vision di William James cercando di superare le manifeste contraddizioni e incongruenze dei suoi scritti . Fra questi va sicuramente ricordato R. J. O’Connell che proprio sulla duplicità argomentativa che abbiamo dianzi illustrato ha fondato la propria interpretazione 57 Ovviamente perché si ponga una valida opzione, un’alternativa tra cui scegliere, dobbiamo supporre che ci sia la possibilità che l’alpinista venga soccorso da qualcuno nella sua posizione di stallo; è infatti evidente che se egli fosse certo del contrario l’alternativa non si porrebbe veramente e l’unica decisione (non la più saggia) per cercare di salvare la propria vita sarebbe quella di spiccare il salto. Leggendo però i brani succitati (a proposito della metafora dell’alpinista) sembra che James voglia mostrarci una situazione in cui l’uomo non può fare altro che saltare; l’alternativa ch’egli possa essere soccorso non viene per niente avanzata come ipotesi. Se così stessero le cose allora il discorso jamesiano da prudenziale diverrebbe estetico, tanto che, anche supposto che lo scalatore non possa salvarsi, parrebbe che James voglia consigliare di saltare comunque, perché questo sarebbe l’unico modo di trovare una “morte bella”.
l’opzione è momentous a un grado così elevato ch’essa sembra distinguersi anche qualitativamente da quella cui si trovi di fronte l’uomo che deve decidere intorno all’esistenza di Dio o del libero arbitrio. 58
James utilizza anche altri esempi simili a quello dell’alpinista, dove la credenza è madre del fatto Non possiamo qui citarli tutti, ma possiamo dire che molti critici hanno appuntato le loro critiche sulla apparente omogeneità delle metafore utilizzate da James. A proposito di uno di questi esempi (dove James ipotizza la necessità di una credenza, di una fiducia precedente all’instaurazione di un’amicizia) O’Connell sottolinea anche come un eccesso di “will to believe” possa essere “aberrante”: se uno a tutti i costi vuole vedere nell’altro ciò che egli vorrebbe da un amico, potrebbe incappare in una cocente delusione o addirittura potrebbe non accorgersi di essere “sfruttato”; in questo caso la “volontà di credere” può diventare ingenuità. Un’immoderata “volontà” di credere può facilmente privarci della lucidità di giudizio, e renderci oggetto della cinica manipolazione altrui. R. J. O’Connell, op. cit., p. 116. 59
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di tutta l’opera jamesiana60. Di fatto, scrive O’Connell, nella relazione che James pone tra la credenza e i fatti della credenza stessa, dobbiamo distinguere due ordini di fatti (e perciò due ordini di credenze): [...] noi stiamo parlando di fatti di due tipi ed è necessario tenerli accuratamente separati l’uno dall’altro. Il primo tipo comprende quei fatti e quelle relazioni tra fatti che noi prendiamo in considerazione nell’elaborazione delle nostre Weltanschauungen, nelle nostre visioni generali dell’universo. Si tratta dei fatti cui noi facciamo riferimento quando dobbiamo decidere intorno a questioni come queste: se la vita è degna di essere vissuta, se noi viviamo in universo dotato di un senso morale, se le azioni umane sono libere o determinate e se esiste o meno un Dio garante ultimo di tutto ciò che abbiamo detto. [...] Ma James, nei medesimi scritti, tratta anche di un’altra classe di “fatti”, lasciatemeli chiamare outcomes. Avrà successo l’alpinista nel saltare lo strapiombo? [...] Negli outcome cases come questo, James ritiene che chi agisce possegga una forte “credenza” che gli permetta di riuscire nella sfida che deve affrontare. Quella credenza sarà giustificata da una serie di “fatti futuri”, rappresentata dalla conclusione positiva della sua azione ispirata dalla fede. E, se la credenza è abbastanza salda, James sembra a volte volere intendere, essa “creerà il fatto” della sua verificazione61. Possediamo ora una terminologia che ci permette di definire le credenze che sono madri dei fatti che debbono verificare: gli outcome case62. Per quanto riguarda invece il prime ordine di fatti e di credenze O’Connell suggerisce di utilizzare (oltre a “credenze weltanschaulich” )un termine coniato dallo stesso James, sebbene successivo alla pubblicazione della Will to Believe: over-belief63. Come abbiamo detto sopra, non sono mancati i critici che hanno sottolineato l’ambivalenza del concetto jamesiano di credenza; il primo, sebbene sembra che questo non rappresenti per lui un problema di sorta, è stato forse Ralph Barton Perry:
Ovviamente non siamo qui interessati tanto ad analizzare la validità delle conclusioni interpretative cui O’Connell giunge nel suo interessantissimo William James quanto piuttosto a capire come le sue acute analisi possano aiutarci a comprendere la giustificazione jamesiana della credenza nella libertà del volere umano. Più avanti avremo comunque modo di comprendere quale sia la sua posizione (peraltro difficilmente contestabile). 60
61
Ivi, p. 160.
Dal momento che non ci è nota alcuna autorevole traduzione di questo composto, abbiamo deciso di lasciare l’originale nel testo. 62
63 Anche in questo caso sembra più conveniente non tradurre questo bel composto inglese, una volta compresone il significato. O’Connell fa riferimento, per l’utilizzo di questo termine, a una lettera di James a L. T. Hobhouse, datata 12/8/1904: Scrivendo a L T. Hobhouse, [LWJ II, p. 207] [...] James spiega che tipo di “credenze” egli aveva in mente; si tratta, come scrive, di “over-beliefs”, un termine che lascia indefinito, ma che ritiene il suo corrispondente debba comprendere senza alcuna analisi tecnica. Lo stesso termine è presente nelle note scritte da James per la preparazione delle Gifford Lectures [che costituiranno poi le Varieties of Religious Experience] [...] In una lettera a H. M. Kallen, del 1907, James distingue tra un tipo di credenza “che produce la verificazione” con la “produzione attiva del fatto creduto” e un secondo tipo che può “senza alterare i fatti dati, essere la credenza in un diverso valore di essi”. Ivi, p. 71. La lettera scritta a Kallen si può trovare in TCWJ II, p. 249. James distinse un primo tipo da un secondo tipo di credenze, che egli chiama over-beliefs; queste non “creano” i fatti della loro verificazione né alterano i fatti i qualche modo, mentre possono spingere colui che crede a vedere nei fatti un “significato o un valore” diverso da quello che un altro osservatore. R. J. O’Connell, op. cit., p. 72.
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Quando è giusto che la volontà determini la credenza? James dà due risposte. Prima di tutto quando astenersi dal credere o sospendere il giudizio significhi perdere la possibilità di afferrare la verità [...]. In secondo luogo, quando l’effetto della convinzione ci porta proprio a quei fatti che dovevano essere verificati64. John Smith, illustre storico del pragmatismo americano, sembra invece essere più critico: Ciò che James non distinse con sufficiente chiarezza, a parere dei suoi critici ma anche dei suoi sostenitori, è la differenza tra l’agire in base a una credenza quando lo scopo è quello di scoprire un certo fatto indipendente dai propositi, dagli interessi etc. di un individuo, e l’agire in base a una credenza quando lo scopo è di produrre [...] una certa situazione futura ovviamente non indipendente dagli sforzi che l’individuo stesso può impiegare65. Dooley, facendo un po’ di confusione tra criteri per raggiungere la verità e criteri per determinare la nostra credenza, espone questa dualità jamesiana in forma abbastanza neutrale: Gli unici criteri a noi disponibili per acquisire delle credenze sono 1) i bisogni pratici e teoretici della nostra natura e 2) la prova pragmatica dell’esperienza che corregge le nostre credenze. Inoltre 3) nel caso di credenze morali e religiose, le azioni che sono frutto delle nostre convinzioni producono effettivamente la propria verificazione66. Altri invece, come Madden, hanno ‘risolto’ questa ambiguità degli scritti di James distinguendo tra una forma debole e una forte della teoria della volontà di credere e cogliendo anche a proposito l’influsso di pensatori differenti ma egualmente importanti per la formazione filosofica del nostro autore67: Per la versione più debole di questa dottrina del diritto-di-credere [influsso della credenza sulle over-belief] James è debitore al suo amico Chauncey Wright, ospite abituale alla casa James in Quincy Street e per la versione più forte [influsso della credenza sugli outcome-case] egli lo è a Charles Renouvier, amico e corrispondente di James durante tutta la sua vita matura, i cui scritti James lesse con grande vantaggio, per il suo sviluppo filosofico come per quello personale68. 64
TCWJ II, p. 210.
J. E. Smith, op. cit., p. 61. Anche O’Connell rimarca questa confusione del testo jamesiano: Il problema era che egli [James] non fece una chiara distinzione tra le over-beliefs e gli outcome-cases. R. J. O’Connell, op. cit., p. 73. 65
66
P. K. Dooley, op. cit., p. 89.
67 E’ però anche vero che per molti critici — i meno attenti in verità — non esiste un’effettiva distinzione fra due modi di intendere la credenza: Strettamente legato alla fiducia di James nell’esperienza era quella nel potere creativo dell’atto volontario. Egli riteneva che le questioni pratiche con cui ha a che fare indirettamente la filosofia sono fondamentali per la vita di ogni giorno e che perciò è stupido aspettare troppo prima di decidersi sul che fare. Ognuno, dopo avere analizzato i fatti nella maniera migliore, avrebbe dovuto così scegliere e agire, anche in virtù di ragioni che in seguito avrebbe potuto giudicare sbagliate. Agendo in questa maniera, pensava James, gli uomini non solo avrebbero potuto trovare la verità, essi avrebbero anche contribuito a crearla. J. J. Putnam, William James, in L. Simon (a cura di), William James Remembered, cit., p. 23. 68
WB, p. xvi.
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Che dunque la teoria jamesiana della volontà di credere ‘nasconda’ al proprio interno due differenti corollari è fuor di dubbio; quel che ora ci interessa maggiormente è cercare di comprendere se l’opzione tra determinismo e indeterminismo, la credenza nell’una delle due teorie, sia ascrivibile al tipo delle overbelief o degli outcome-case. O’Connell non ha alcun dubbio in proposito: il problema della libertà (come quello dell’esistenza di Dio o della moralità dell’universo) è di tipo weltanschaulich, ovvero è una over-belief. Così stando le cose non possiamo dire che la nostra credenza crei il fatto dell’esistenza del libero arbitrio o che crei il fatto dell’esistenza di Dio. James avrebbe così avuto il diritto di distinguere fra due forme di credenze e due relative teorie volontaristiche, ma non avrebbe potuto servirsi della dimostrazione della giustezza di una teoria (come quella degli outcome-case) per portare acqua al mulino delle over-belief69: Sia i difensori che i critici condividono un certo numero di presupposti che, una volta mostrati chiaramente, si rivelano dubitabili. Essi presuppongono, prima di tutto, che la “volontà” di credere possa essere valutata escogitando casi come quello dell’alpinista; il mio quinto capitolo ha cercato di dimostrare che James, al contrario, era prima di tutto interessato alle over-beliefs anche se, in effetti, il suo riferimento a esempi e illustrazioni [come quella dell’alpinista] hanno introdotto elementi di confusione nel suo argomento principale. La prima di queste confusioni è quella di parlare della fede “che crea” i fatti della sua propria verificazione anche in riferimento a temi weltanschaulich. Ma lo stesso James ha in seguito incoraggiato il lettore a guardare questo tipo di fede-checrea-i fatti come fondamentalmente irrilevante rispetto a decisioni over-belief 70. La tesi che O’Connell sta cercando di sviluppare è questa: James, nella Will to Believe, è interessato più alle over-belief piuttosto che agli outcome-case; mentre nei secondi si può dare il caso che la nostra credenza alteri fatti futuri, nel primo caso la nostra credenza, la nostra fede può soltanto cambiare il significato che noi attribuiamo a questi fatti e non direttamente i fatti stessi. Poi, ovviamente, il diverso significato, il 69 Io ho criticato il fatto che James (e molti dei suoi difensori) ha sbagliato ad applicare la tesi della “fede capace di creare”, derivata dagli “outcome cases” a quella classe di fatti interamente differente che riguarda le nostre convinzioni weltanschaulich [i. e. le over-belief] R. J. O’Connell, op. cit., p. 161. [James] non può resistere alla tentazione di trattare questioni weltanschaulich in termini di outcome-cases. Ivi, p. 77. O’Connell non manca di sottolineare un punto fondamentale che differenzia gli outcome-case dalle over-belief : e cioè la diversa ambiguità che caratterizza i due tipi di credenze; solo nel caso delle over-belief l’uomo si troverebbe di fronte a uno scetticismo intellettuale di tipo radicale e quindi solo questi casi sarebbero veramente rappresentativi di quella situazione in cui l’uomo deve anteporre la decisione della volontà all’immobilismo dell’intelletto. L’ambiguità tipica di una “outcome situation”, come quella dell’alpinista [...], è di un tipo diverso dall’ambiguità di questioni weltanschaulich. Io chiamerei l’ambiguità del primo tipo un’ambiguità “accidentale” [cioè non un’ambiguità vera e propria], e cioè che non è necessariamente impensabile che l’alpinista [...] sia a conoscenza dei fatti rilevanti per compiere il salto o meno. [...] senza dubbio, come ha mostrato lo stesso Davis, uno studio scientifico avrebbe rimosso gran parte dell’ambiguità della situazione [ad esempio con studi probabilistici o statistiche precedenti o calcoli fisici etc.] Ivi, p. 81. 70 Ivi, p. 124. Il secondo presupposto è che egli abbia “autorizzato” il nostro lato passionale a intervenire solo dopo che il lato intellettuale abbia fatto il suo lavoro e non sia giunto ad alcuna conclusione. Il mio sesto capitolo ha mostrato con evidenza che James, sia all’inizio che alla fine [della sua carriera] ha tenuto una posizione contraria: la nostra natura passionale non solo può, ma deve esercitare un’influenza precursiva su ogni nostra attività e soprattutto nel risolvere queste questioni weltanschaulich in cui i fatti stessi sono essenzialmente, e non accidentalmente, ambigui. Ibidem.
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diverso valore che noi attribuiamo ai fatti può tradursi in un diverso atteggiamento e quindi in un diverso comportamento che ora sì, può veramente alterare i fatti; ma anche in questo caso il vero cambiamento dei fatti è subordinato a un cambiamento “generale”, intersoggettivo; quindi il cambiamento non solo non è “immediato”, esso non è nemmeno ascrivibile al singolo individuo71. Ora che abbiamo analizzato la posizione chiarificatrice di O’Connell e che possediamo una terminologia capace di rendere la duplicità (almeno fin qui pacifica) della teoria jamesiana della volontà di credere, possiamo riprendere la distinzione che operammo inizialmente tra una credenza che crea il fatto che deve essere verificato e una che invece soltanto ci dispone a interpretare in maniera differente la realtà data: Una credenza del primo caso [outcome case] può contribuire a creare il fatto in cui si crede: la convinzione dell’alpinista può contribuire a far sì che salti con successo. Ma, mi sono chiesto, questo vale anche per una credenza weltanschaulich come l’ipotesi teistica? Può veramente la nostra fede “creare il fatto” che verifica la nostra credenza nell’esistenza di Dio? O (per citare altre credenze che James vede sotto la stessa prospettiva) può la nostra fede “far sì che” la vita sia degna di essere vissuta, farci vivere in un universo morale, renderci liberi e non totalmente determinati? La mia risposta è stata: no72. 71 A questo punto conviene dichiarare esplicitamente quale sono le intenzioni interpretative di O’Connell; egli cerca di mostrare come per James non si dia la possibilità che le over-belief vengano verificate nella vita di un uomo e, visto che il problema affrontato nella Will to Believe è quello del come comportarsi concretamente, in sostanza non si dà alcuna possibilità che le credenze weltanschaulich vengano punto verificate; questo non sarebbe affatto un difetto della teoria jamesiana, ma anzi il suo punto d’onore: infatti O’Connell è uno dio quei critici che sottolineano l’importanza della volontà e della fede rispetto all’intelletto (e alla possibile verificazione) nella teoria jamesiana della formazione delle nostre credenze: avere una determinata Weltanschauung significa per O’Connell avere fede in essa senza che questa possa mai essere verificata (e quindi diventare una verità piuttosto che una credenza), significa rischiare in ogni momento in cui abbracciamo tale fede e non solo in un momento iniziale che lasci spazio a una più o meno immediata verificazione della nostra credenza (come nella metafora dell’alpinista). O’Connell poi prende in considerazione un’altra possibilità di equiparare over-belief a Outcome-case; se è vero infatti che la credenza in un fatto (per esempio nella moralità del mondo) potrebbe effettivamente aggiungere un elemento nuovo non precedentemente osservabile (perché inesistente) nella realtà dei fatti, allora potremmo dire che la credenza, anche nelle over-belief (come in quello della moralità del mondo) è generatrice di fatti che poi possono essere intesi come verificazione della nostra credenza stessa; in breve: se l’uomo crede nella moralità e quindi agisce moralmente, la sua stessa azione morale diventa parte di quei fatti del mondo che precedentemente non facevano pendere la bilancia della nostra credenza né da una parte (immoralità o amoralità del mondo) o dall’altra (moralità del mondo); in tal modo la credenza, la fede, nella moralità del mondo aggiungerebbe concretamente moralità al mondo stesso, confermando quella che precedentemente era una fede, una speranza; ma, scrive O’Connell: Sopra, io ho brevemente accennato alla possibilità che se un numero sufficientemente ampio di esseri umani agisse energicamente in base alle proprie convinzioni teistico-melioristiche, il mondo potrebbe ragionevolmente divenire un posto migliore, dove “i fatti” alla fine attesterebbero chiaramente la giustezza di tale credenza. Ho cercato un testo dove James incoraggiasse una tale interpretazione, invano. R. J. O’Connell, op. cit., p. 183. 72 Ivi, p. 162. Come abbiamo detto poc’anzi, O’Connell è però lungi dal riconoscere che una nostra determinata fede non possa concretamente contribuire a cambiare i fatti del mondo; ciò che sottolinea, e che in effetti qui conta, è che questi nuovi fatti non contribuiscono a levare l’uomo da quella situazione di scetticismo che sembra potersi risolvere solo con un continuo atto di fede: Per esempio, il fatto di cominciare a credere nell’esistenza di Dio non cambia eo ipso i fatti che sono “stati” precedentemente al mio atto di credere; il mio atto di fede non cambia le statistiche della criminalità, o non rende le tempeste meno impetuose o il cancro meno doloroso: ma (penso che ritenga James) senza “alterare” questi fatti dati, la mia fede ora mi rende capace di guardare a essi in una certa luce, da una certa prospettiva, di “trarre una differente conclusione da essi” per così dire. La mia fede mi rende ora capace di “vivere con essi” e probabilmente anche di agire rispetto a essi in una maniera differente da colui che non ha la mia fede. Ivi, p. 168. Una posizione, questa, molto simile a quella di Papini: [...] questa influenza diretta della credenza sulla realtà — che costituisce, insomma, l’idea più originale del James — non riesco proprio a vederla. G. Papini, op. cit., p. 150.[...] la fede non cambia le cose ma può cambiare il modo di comportarci dinanzi alle cose. Ivi, p. 151.
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A nostro giudizio questa conclusione è condivisibile soltanto in parte; è certamente vero che il fatto dell’esistenza di Dio o, meno platealmente, quello della realtà del libero arbitrio, non è creabile come il fatto del salto riuscito dell’alpinista. Altrettanto vero è che l’indecisione, lo scetticismo nel caso dell’esistenza di Dio (o della libertà del volere umano) è differente (accidentale, come direbbe O’Connell) da quello dello scalatore che non sa se ce la farà ad arrivare dall’altra parte del dirupo. E’ anche vero che il fatto cui fa riferimento una nostra over-belief deve essere considerato già esistente e non è un fatto futuro (come nella metafora dell’alpinista) e questo certamente rende le due forme di volontarismo (quella debole e quella forte, come direbbe Madden) radicalmente differenti, ma è altrettanto vero, di contro, che James — e qui O’Connell sembra non volere citare i passi che lo testimoniano chiaramente — non pensava che la credenza nella realtà della libertà fosse ininfluente sulla realtà stessa tanto quanto le nostre convinzioni sulla natura degli astri: I futuri movimenti degli astri o i fatti della storia passata sono determinati ora una volta per tutte, a prescindere dalle nostre opinioni. Questi fatti non si preoccupano dei miei desideri e in tutte le faccende che riguardano verità come queste la nostra preferenza soggettiva non gioca alcun ruolo ed essa può solo oscurare il nostro giudizio. Ma in ogni questione che comprende un elemento di contributo personale [...] nei casi in cui la futura realizzazione del fatto è condizionata dalla mia attuale fede in esso, sarebbe terribilmente stupido per me negare a me stesso l’uso del metodo soggettivo, il metodo della credenza basata su un desiderio73!
73
WB, p. 81.
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4.4.5 M + x = Una verificazione ‘a priori’ Se dunque è vero, come dice O’Connell, che il tema principale della Will to Believe sono le over-belief come le nostre credenze intorno al determinismo, all’esistenza di Dio, all’immortalità dell’anima e alla moralità dell’universo, è difficile pensare che James equiparasse questi fatti (il fatto della libertà, il fatto di Dio etc) ai “movimenti degli astri e i fatti della storia passata”; e infatti non è così. E poi, perché James avrebbe terminato il saggio sul sentimento della razionalità e quello sulla volontà di credere proprio con l’analisi degli outcome-case e con la felice, quanto discussa, metafora dell’alpinista?
D’altronde non sono pochi gli studiosi che la pensano in maniera opposta a quella di O’Connell. Uno fra tutti è Wernham, autore di un pregevole saggio sulla Will to Believe che propone un’interpretazione “eretica”74: La storia di A. C75. non vale solo per gli scalatori. La sua lezione vale per tutti noi. In parte essa rappresenta una replica all’etica della credenza di Huxley76. Ma, prima di tutto essa rappresenta una giustificazione prudenziale [e cioè non etica] del metodo soggettivo [...]. Il metodo soggettivo non avrebbe alcun ruolo, afferma risolutamente James, se la credenza si limitasse a un ruolo passivo. Il metodo soggettivo è il metodo giusto per la metafisica, poiché le credenze metafisiche, o alcune di esse, sono possono verificarsi da sé. Questa non è, a tutta prima, una tesi molto promettente. La credenza dell’alpinista riguardava se stesso, e così gli altri esempi di credenze che si possono verificare da sé [self-verifying beliefs]che possono venire in mente77. Sembra che James voglia sfuggire al naturale istinto del critico (o semplicemente del lettore) a schematizzare la sua posizione e questo, se può rendere il nostro lavoro più difficoltoso, è anche fonte di un maggiore interesse. A nostro giudizio il tema weltanschaulich della libertà (come quello dell’esistenza di Dio e gli altri che abbiamo spesso citato) deve essere riguardato secondo entrambe le prospettive che costituiscono la duplicità della teoria jamesiana della volontà di credere. 74 Il libro cui facciamo riferimento si chiama infatti: James’s Will-to-Believe Doctrine; A Heretical View.. Cfr. J. C. S. Wernham, op. cit. 75 A. C. sta qui per Alpine Climber. Il capitolo dell’opera di Wernham da cui è tratto questo brano si chiama infatti: From Mountaineering to Metaphysics. Cfr. Ivi, cap. III, pp. 24-30. 76
E di William Clifford, come abbiamo visto.
Ivi, p. 24. Come appare evidente alla fine di questa citazione, Wernham riconosce la difficoltà di comprendere questo ‘salto’ from mountaineering to metaphysics, ma non per questo rinuncia a comprendere la complessità del pensiero jamesiano affermando, come forse fa troppo semplicisticamente O’Connell, in una prospettiva ‘chiusa’ che distingua nettamente tra over-belief e outcome-case. 77
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In ogni proposizione la cui portata è universale (come sono tutte le proposizioni filosofiche), gli atti del soggetto e le loro conseguenze per l’eternità debbono essere incluse nella formula. Se M rappresenta il mondo intero meno la reazione del pensatore a esso e se M + x rappresenta assolutamente la materia totale delle proposizioni filosofiche (stando x per la reazione — e le conseguenze — del pensatore) ciò che sarebbe una verità universale se il termine x fosse di un tipo, potrebbe diventare un egregio errore se x alterasse le proprie caratteristiche. E non si dica che x è un componente troppo piccolo per potere cambiare il carattere dell’immenso tutto in cui si trova. Tutto dipende dal punto di vista della proposizione filosofica in questione78. Qui James è chiarissimo e sembra annullare la distinzione radicale che scorgemmo, e su cui fa leva O’Connell, fra over-belief e autcome-case. E’ infatti evidente che le proposizioni “la cui portata è universale” sono credenze weltanschaulich, sono over-belief. E altrettanto vero è che in questa sorta di credenze sarebbe per James terribilmente sciocco riguardare il nostro comportamento, la nostra reazione alla realtà data, ai fatti già esistenti, come ininfluente sulla totalità della realtà (M + x) che deve essere considerata per determinare le nostre più intime convinzioni, le nostre fedi morali e metafisiche; se esiste una distinzione tra over-belief e outcome-case, questa serve per separare le nostre concezioni su ciò che non viene toccato dalla nostra attività, come ciò che è passato o ciò è squisitamente fisico (i movimenti degli astri) da ciò che invece subisce il nostro influsso, come gli outcome-case (espresso esemplarmente nella metafora dell’alpinista), ma anche come quelle over-belief (come la moralità del mondo, il pessimismo, l’ottimismo, l’ipotesi teistica etc.) e non queste ultime dagli outcome-case. Mette conto qui di citare ancora buona parte di un passo jamesiano dedicato a spiegare l’importanza della formula M + x, che concerne proprio una delle overr-belief più importanti per l’uomo (e per il pensiero di James): l’ottimismo79. Prendete a esempio la questione dell’ottimismo e del pessimismo, che oggi fanno tanto rumore in Germania. Ogni essere umano deve un giorno decidere da sé se la vita è degna di essere vissuta. Supponete che un uomo, osservando il mondo e vedendolo pieno di miseria, di vecchiaia, di malvagità e di dolore, e realizzando quanto è incerto il nostro futuro, abbracci una visione pessimistica, coltivi il disgusto e la paura, smetta di lottare e infine si tolga la vita. Egli, così facendo, aggiunge alla massa M di fenomeni mondani, indipendenti dalla sua soggettività, il complemento soggettivo x, che rende il tutto un quadro totalmente 78
WB, p. 81.
79 Dobbiamo infatti ricordare che la fede nell’ottimismo (ci riferiamo qui ovviamente a un ottimismo ipotetico o a quello che lo stesso James chiamava meliorismo) è per il pragmatista americano un punto di unione, il centro simbolico di tutte quelle credenze (morali, metafisiche e religiose) che costituiscono l’essenza del Sé spirituale (the spiritual self) dell’uomo: non ci sarebbe infatti ottimismo senza la credenza della libertà dell’uomo, senza la fede in un Dio buono e che si occupa di noi, senza la credenza in un mondo pluralistico etc.
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nero, in cui non trova posto nessuno sprazzo di bene. Il pessimismo è completato, verificato dalla sua reazione morale e l’atto in cui si conclude, è vero oltre ogni dubbio. M + x esprime uno stato di cose totalmente cattivo. La credenza dell’uomo ha reso completo ciò che ancora era in forse e ora la credenza [che il mondo non vale la pena di essere vissuto] è stata confermata. Ma supponete ora che, data la stessa quantità M di mali nel mondo, la reazione x dell’uomo sia esattamente contraria. Supponete che, invece di abbandonarsi al male quell’uomo li affronti e trovi così, nel trionfare sul dolore e sulla paura, una gioia più forte di qualsiasi piacere passivo; supponete che quell’uomo lo faccia con successo, [...] non saremmo tutti d’accordo nel dire che il carattere cattivo di M è qui la conditio sine qua non del carattere buono di x? Non diremmo tutti allo stesso tempo che un mondo fatto solo per uomini tremolanti capaci solo di sentimenti passivi, ma privo di indipendenza, coraggio e forza, sia, da un punto di vista morale, incommensurabilmente inferiore a un mondo costituito in modo tale da suscitare nell’uomo una resistenza trionfante e una forte energia morale80? La domanda è ovviamente retorica e, per quanto abbiamo detto fin qui del carattere e della filosofia di William James, possiamo essere certi, prima di leggerla, che essa avrà una risposta affermativa. Prima però di analizzare la parte conclusiva di questo brano (che introduce un nuovo argomento rispetto a quel che si voleva spiegare con l’esempio della formula M + x), analizziamone il significato complessivo; il ragionamento di James è limpido: se l’uomo pensa che il mondo non vale la pena di essere vissuto e agisce di conseguenza, allora egli contribuirà a rendere effettivamente il mondo indegno di essere vissuto. Se invece penserà che, nonostante il riconoscimento dell’esistenza della stessa quantità di mali contenutivi, il mondo debba essere degno di essere vissuto, allora il suo comportamento conseguente sarà parte integrante del risultato finale M + x e in questo caso la fede (in un mondo morale) sarà confermata.
Non può sfuggire l’analogia con la metafora dell’alpinista; anche in quel caso la verificazione si dava in entrambe le alternative: se lo scalatore pensa di non farcela a saltare allora morirà e la sua fede (la sua mancanza di fede) sarà confermata, se invece pensa di farcela (e ce la fa) allora, anche in quel caso la fiducia in se stessi sarà confermata81. Sembrerebbe però che nel caso dell’alpinista, la verificazione non lasci alcun dubbio, mentre i dubbi, come rimarcherebbe O’Connell, permangono per le over-belief come quelle dell’ottimismo e del pessimismo82. Ma, questa è il nucleo della nostra tesi, ciò che importa non è
80
Ivi, p. 83.
81 All’interno di questa analogia non può ovviamente sfuggire la profonda differenza che si porrebbe nel caso che il salto non riuscisse; si tratta certamente di un punto debole dell’esempio jamesiano che, nel tal caso, si rifugia, come abbiamo visto, nell’esaltazione del salto (verso la morte) come esempio di morte bella. 82 Sebbene [James] cerchi, in un’occasione e (per quel che sono stato in grado di trovare) in una sola occasione (nell’argomento M + x), di equiparare tali questioni [over-beliefs] con gli outcome-cases, cercando ovviamente di portare la fede nelle questioni weltanschaulich all’interno del suo metodo pragmatico della verificazione, un’attenta analisi della cronologia dei suoi scritti mostra come egli pervenne a concludere che446 si trattava di un tentativo vano: nessun singolo filosofo può sperare di verificare una credenza veramente weltanschaulich nell’arco della propria vita; la sua fede rimane ostinatamente tale, una fede. R. J. O’Connell, op. cit., p. 182.
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tanto la verificazione (a posteriori), come è normalmente intesa (l’arrivare dall’altra parte del dirupo, nel caso dello scalatore); la verificazione si dà già prima di saltare e si dà già prima di vedere come cambia il mondo in seguito alla nostra azione. Questa è una differenza fondamentale anche per distinguere la teoria jamesiana della volontà di credere dal suo pragmatismo, considerato stricto sensu, come teoria della verità. La credenza riguarda infatti un nostro comportamento che precede la verificazione, che precede il discorso sulla verità della credenza. Per questo, come vedremo nelle nostre Conclusioni, è possibile trattare separatamente la Will to Believe da Pragmatism, il suo volontarismo, la sua teoria della credenza, dal suo pragmatismo83, dalla sua teoria della verità.
La teoria jamesiana della volontà di credere non starebbe in piedi se fosse considerata come metodo per scoprire la verità: essa è invece un metodo per decidere, per scoprire come dobbiamo comportarci. Avevamo detto sopra che il brano succitato finisce allargando la tematica iniziale dell’apporto di x all’ “insieme dei fatti mondani” M. Ora possiamo scorgere quest’estensione, per noi importantissima. Dire che sia il pessimista che l’ottimista trovano confermate le rispettive convinzioni significa dire che la verificazione morale che l’uomo deve cercare non sta tra le proprie credenze e la realtà, ma tra le nostre convinzioni e il nostro comportamento. Una credenza è verificata quando essa incontra il nostro sentimento di razionalità. Se un uomo sente che la natura sarebbe migliore se fosse morale, se esistesse la libertà, se esistesse un Dio buono etc, egli allora può trovare, nella medesima realtà che angoscia il pessimista, la prova della giustezza della propria credenza. L’errore che compie O’Connell è quello di guardare ai fatti come alla possibile verificazione delle nostre credenze, mentre la verificazione è data dai nostri comportamenti (dalla loro coerenza) e non dalle conseguenze (che infatti possono essere interpretabili in maniera opposta da due filosofi differenti, con diverse esigenze, con un diverso sentimento della razionalità).
Torniamo dunque al tema principale della nostra Tesi in relazione a questa fase del pensiero jamesiano, la credenza nella libertà. Come possiamo verificarla? La risposta di James — e non potrebbe essere altrimenti data la conclusione formalmente scettica dei Principles — è che essa può essere verificata solo moralmente, solo attraverso il nostro comportamento.
83 [...] James ritiene che la nostra esperienza possa fornirci una verificazione — o una contro-verificazione —per la nostra “credenza” nell’esistenza di Dio? Se è così, noi abbiamo diritto di chiamarlo un pragmatista, se no, egli, dobbiamo ammettere, è, al massimo, un volontarista. [...] il volontarismo di James vince sul suo pragmatismo. Ivi, p. 208.
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E’ importante notare che l’attribuzione della libertà non è come l’assegnamento di una qualche caratteristica presente e immediatamente posseduta come l’essere rossa della palla sullo scaffale, è piuttosto come l’asserzione che un’azione o un evento accadrebbe o verrebbe esperito se si agisse nella convinzione che la libertà non è un’illusione84. La libertà sarà confermata sempre per l’indeterminista e il determinista troverà sempre nel mondo ‘prove’ in favore della propria dottrina. Ciò non vuol dire di certo che James pensava di ridurre tutto a una questione de gustibus85 (per quanto a una prima impressione potrebbe sembrare così); come abbiamo visto sopra, James riteneva che esistesse un mondo più vero, più reale, di altri; ovviamente non si tratta di un mondo diverso da quello attuale, ex parte objecti. Il mondo più vero sarebbe la guisa in cui viene interpretato da colui che vive la vita coraggiosamente, in quello che James, nelle opere successive alla Will to Believe, chiamerà lo strenuous mood. Il mondo più vero sarà quello che sta negli occhi dell’uomo più vero. Ma, anche in questo caso, il relativismo di James è più debole della sua fiducia nel progresso dell’umanità (del progresso scientifico come di quello morale); O’Connell conclude scetticamente la sua analisi della Will to Believe in ordine alla possibilità di verificare le proprie over-belief rimarcando come James sottolinei che nella vita del singolo filosofo non può darsi verificazione. Effettivamente James conclude con queste parole apparentemente scettiche il suo saggio sul sentimento della razionalità, ma questa coda non sarebbe comprensibile rimanendo, come sembra fare O’Connell, ancorati a un concetto oggettivo di verificazione. Dire che la verificazione non può darsi nella vita del singolo individuo significa per James auspicare che in un futuro non lontano l’uomo sarà riuscito a educare se stesso e gli altri in maniera tale che l’average men, o — al limite della pensabilità — ogni uomo vivrà in quella maniera coraggiosa che permetterà di verificare, con la propria nuova interpretazione dei fatti, la propria credenza ottimistica. Un passaggio questo che sicuramente dovrebbe mettere a tacere coloro che accusano James di individualismo o di soggettivismo e che dimostra quanto il nostro autore, pur modificandolo anche nella sostanza, avesse compreso il pensiero intersoggettivo dell’amico Peirce, che proprio in una futura omogeneizzazione del pensiero della comunità scientifica vedeva la possibilità di usciere dalle strettoie del particolarismo. Giova qui concludere con un brano molto chiarificatore di James, dove ritroviamo, nella verificazione morale, quella virtuosità del circolo che si crea fra conoscenza (e credenza) e volontà (e libertà). Alla
84
J. E. Smith, op. cit., pp. 22-23.
85 La difesa jamesiana della legittimità della credenza fu così profondamente incompresa che egli fu accusato di giustificare la credenza in qualsivoglia cosa uno desideri [...]. P. K. Dooley, op. cit., p. 83. I suoi critici lo avevano accusato di pretendere assoluta libertà di credere, mentre , al contrario, egli aveva tentato di formulare delle regole per la credenza.. TCWJ II, p. 248.
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domanda se sia giusto o no sospendere il giudizio sull’alternativa tra determinismo e indeterminismo, egli risponde negativamente:
Poiché sospendere il giudizio sarebbe comunque una scelta, e una scelta con effetti sommamente pratici, dal momento che con essa noi potremmo perdere i possibili benefici di sposare coraggiosamente una possibile verità. Se questo fosse un mondo morale, ci sarebbero casi in cui una nostra indecisione intorno alla sua essenza deve essere morta per l’anima. Ora, se la nostra scelta è predeterminata, la faccenda è risolta. Che sia predeterminata verso la verità della fatalità o la delusione della libertà, è per noi una cosa sola. Ma se la nostra scelta è veramente libera, allora l’unica possibilità di abbracciare questa verità consiste nell’esercizio della libertà che essa implica. Qui l’atto del credere e l’oggetto della credenza si fondono [corsivi nostri]. E la logica essenziale della situazione richiede che noi non si aspetti alcun segnale esterno, ma, con la possibilità di dubitare che sta aperta dinanzi a noi, dobbiamo volontariamente scegliere l’alternativa della fede86.
W. James, The Emotion and the Will, by Alexander Bain, and Essais de critique générale, by Charles Renouvier, in ECR, p. 326. L’“assunto” di una fissità delle leggi di natura è così un postulato, come l’assunto di una legge d’indeterminazione potrebbe essere un postulato morale che utilizziamo in riferimento a certe decisioni dell’uomo. Questi due presupposti sono entrambi veri nella propria sfera o il determinismo è universale? Dal momento che nessun uomo può decidere empiricamente, bisogna rimanere per sempre nell’incertezza o bisogna anticipare l’evidenza e decidersi coraggiosamente per una delle due alternative? A parte il fatto che il dubbio è praticamente impossibile in quei casi che riguardano direttamente la condotta di vita, lo stesso dubbio è uno stato attivo, uno stato di volontaria inibizione o sospensione. Cosicché qualunque decisione si prenda, il risultato è frutto di altri fattori oltre alla pura ricettività dell’intelligenza. L’intera natura dell’uomo, intellettuale, affettiva e volitiva è (consapevolmente o no)esibita nell’atteggiamento teoretico che si prende in questioni come questa.. Ivi, p. 325. 86
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Conclusioni Lungo le pagine di questa Tesi abbiamo cercato di osservare il sorgere in James, fin dai primi anni di vita, ma soprattutto nell’età dell’adolescenza, dell’esigenza di libertà, un’esigenza che, prima di sublimarsi in stimolo alla riflessione psicologica e filosofica tesa a tracciare i confini dell’autonomia dell’uomo (e inizialmente della propria autonomia) divenne vera e propria voluntas di distaccarsi dalla figura paterna, un distacco che verrà sempre più accentuato negli anni, quando James ebbe occasione, alla Lawrence Scientific School, di confrontarsi con intelletti e sensibilità differenti da quella di Henry James Sr. Nell’analisi di questo lungo cammino compiuto da James alla ricerca della propria indipendenza, assurge al ruolo di ‘rito di passaggio’ quel periodo di depressione ch’egli attraversò a partire dall’inizio degli anni Sessanta e che culminò nella serie di acute crisi che lo travagliarono nel periodo immediatamente successivo alla laurea. Abbiamo dedicato molte pagine all’analisi delle cause e dei contorni psicologici ed esistenziali del depressive period di William James, fino a spingerci ai confini di una ricerca eziopatologica, non solo perché i critici più attenti e lo stesso James vi hanno dedicato molte pagine, ma anche perché, pur consci di rischiare una superficiale semplificazione dei fatti, abbiamo ritenuto di individuare negli ‘anni bui’ del filosofo americano i contorni di un travaglio liberatorio, più forte e più complesso di quello attraversato nei primi anni Sessanta: a una figura paterna rigida e contraddittoria si sostituisce infatti, o piuttosto si affianca, la contraddittorietà e la spietatezza di una scienza, la psicologia (soprattutto nella sua declinazione fisiologica), dove il soggetto-oggetto della sua ricerca sembra perdere irrimediabilmente la propria autonomia nel processo di quantificazione di tutte le sue dimensioni, anche di quelle più squisitamente spirituali. Molti critici attribuiscono la ‘rebirth’ di William James allo studio dell’opera del filosofo francese Charles Renouvier. Noi abbiamo cercato di mostrare, dando un ampio spazio a elementi biografici e ‘filologici’ e rifacendoci alla più recente letteratura sull’argomento, che Renouvier non rappresentò affatto l’illuminazione della ‘linea d’ombra’ da cui il nostro autore emerse solo nella seconda metà degli anni Settanta. Ciò nondimeno la figura di Renouvier non ne esce affatto sminuita, anzi: lo studio attento delle sue opere e dei suoi rapporti con James testimoniano di come egli rappresentò per il filosofo americano, oltre che uno sprone morale per sconfiggere i suoi demoni interiori, un’alternativa filosofica cui affidarsi non per trovare la risposta ai propri dubbi, ma per formulare nella maniera corretta domande che erano nate nello studio della psicologia e della fisiologia nervosa, un campo che occupò James quasi a tempo pieno per circa la metà della sua attività intellettuale.
Proprio in un nuovo approccio alla psicologia, o piuttosto in un originale approccio a una nuova scienza, James cominciò a dare forma al proprio pensiero indeterministico, in un tentativo, riuscito solo parzialmente, di non rinunciare alla scientificità della scienza psicologica conservando e anzi esaltando la dimensione libera e indipendente dell’uomo. La ‘lotta’ contro il pensiero deterministico e riduzionistico (che si declinava verso la fine dell’Ottocento nelle forme dell’epifenomenismo e del parallelismo psicofisiologico) fu quindi prima di tutto combattuta come una battaglia per la difesa, o meglio per la riconquista, della libertà dell’uomo. Se l’ottimismo deterministico spenceriano incarnò il foil cui James si rivolse, sempre animato da un profondo rispetto intellettuale, per costruire un proprio pensiero autonomo, l’evoluzionismo darwiniano si dimostrò invece una tagliente arma scientifica utile per combattere la passività cui Spencer, primus inter pares fra i filosofi deterministi, sembrava avere fatto precipitare l’uomo, uno strumento scientifico capace di restituire all’uomo, in un modo a prima vista paradossale, quella spontaneità e quell’autonomia che un’esasperata riduzione della vita alle sue componenti biologiche e fisiologiche aveva annullato in maniera apparentemente irrimediabile. Come abbiamo più volte sottolineato nel corso dei Capitoli centrali, James non riuscì (non avendone comunque l’intenzione) a dimostrare la libertà dell’uomo, riuscì invece a dimostrare l’equipollenza scientifica oltre che logica di determinismo e indeterminismo e a mostrare come l’indeterminismo oltre che a essere la conditio sine qua non di ogni coerente filosofia morale, dovesse anche essere il presupposto scientifico per una corretta psicofisiologia; la libertà dell’uomo, nel superamento dell’opposizione tra scienza e spirito, rappresenta così la condizione per la sua comprensione psicologica, prima ancora che per la sua determinazione morale. James non fu ovviamente soddisfatto di questo traguardo raggiunto, per quanto importante, e il prosieguo della sua attività intellettuale, sempre meno psicologica e sempre più filosofica, fu animata proprio dall’esigenza di trovare una soluzione razionale e morale a quel neutralismo che al nostra autore andava troppo stretto già verso la fine degli anni Settanta e che, pur giustificato da un dichiarato spirito ‘scientifico’ (i. e. metafisicamente neutrale) poneva le basi filosofiche e le premesse morali per il tentativo di non abbandonare l’uomo a un soggettivismo e a un particolarismo cui James si opponeva in maniera sempre più determinata. La Will to Believe rappresenta così il tentativo jamesiano di continuare, seguendo il filo rosso dell’autonomia dell’uomo, di sollevare l’indeterminismo psicologico a vera e propria libertà morale. Grazie agli stimoli intellettuali di Charles Sanders Peirce e di Chauncey Wright, James poté cominciare l’elaborazione di una filosofia che da alcuni è stata definita “umanistica” e che trovò inizialmente nello studio della genesi delle nostre credenze e del rapporto tra volontà e intelletto lo stimolo per comprendere la libertà come fine e come esigenza tipicamente umani. 451
La teoria della volontà di credere assurge così al ruolo di prima risposta morale e filosofica a quel dilemma di fronte al quale James aveva lasciato l’uomo concludendo i Principles of Psychology: se indeterminismo e determinismo sono logicamente e scientificamente validi alla stessa maniera, che cosa devo credere? Debbo considerarmi libero o no? Come cambierà la mia vita adottando l’una o l’altra di queste due alternative? James pensava che l’uomo fosse libero: libero di scegliere, di agire e prima di tutto di pensare secondo le regole ch’egli può, in armonia con le infinite leggi dell’universo, dare a se stesso; è proprio nel tentativo di intrecciare armonicamente le proprie esigenze di autonomia con le leggi del mondo e con le istanze degli altri uomini, sia presi individualmente sia considerati nella dimensione sociale, che James trova lo stimolo e la forza per uscire dalla comoda sicurezza del neutralismo metafisico della scienza psicologica ch’egli aveva generosamente contribuito a costruire. Se il suo volontarismo, per altro scevro da quelle componenti soggettivistiche e da quell’individualismo particolaristico di cui il nostro autore fu sovente accusato, non pone fine alla storica opposizione fra libertà e necessità, fra scienza e morale, certamente esso incarna il coraggioso tentativo di un uomo che trovò la forza delle sue argomentazioni non nell’arte dialettica che non aveva potuto imparare dai classici della filosofia, né nella formulazione di un nuovo sistema filosofico che si regga sull’immutabilità dei presupposti, ma nella coerenza di un cammino in cui lo scrittore attraversa il proprio travaglio di ‘liberazione’ a fianco del lettore che si accorge, addentrandosi nella sua opera, di condividere un medesimo sforzo di razionalizzazione e di istanze morali che rischierebbero altrimenti di rimanere inespresse. Non si intenda però che i limiti dell’opera jamesiana siano ascrivibili solo ai naturali limiti dell’intelletto umano. Molte delle critiche rivolte a James sono ben fondate e James stesso riconobbe più volte i limiti della propria opera. Alla fine della Parte terza abbiamo infatti rilevato l’incoerenza di un pensiero che si accontenti di postulare la libertà dell’uomo senza assumersi l’onere di mostrarne anche la pensabilità e l’intelligibilità. D’altronde il suo modus philosophandi, scevro da manierismi accademici e aperto, come abbiamo detto poc’anzi, a dialogare in prima persona col lettore che trova sempre maggiori spazi di autonomia nella lettura dei suoi scritti, gli permise sempre di trovare nelle critiche, anche le più dure e ingiustificate, uno stimolo piuttosto che un ostacolo a un’ulteriore riflessione. Proprio negli anni successivi alla pubblicazione della Will to Believe James cercherà di rispondere alle domande che ordivano l’intreccio dei fili logici ed epistemologici che sempre più complicavano, rendendola così più affascinante, la sua trama filosofica. Le opere jamesiane di questo secolo rappresentano proprio il tentativo di rispondere, con nuovi strumenti e con lo stesso spirito autocritico, alle domande con cui si erano conclusi i suoi primi scritti schiettamente filosofici: se l’uomo ha il diritto di credere nella libertà della coscienza e nella spontaneità della volontà, egli ha anche il diritto di ritenere 452
vera la sua credenza e perciò il dovere di spingere gli altri uomini alla condivisione delle proprie idee, in uno sforzo sempre più teso al superamento dell’idea — e del fatto — della filosofia intesa come chiacchiera accademica o come rifugio solitario? William James affronterà questi temi soprattutto in Pragmatism e amplierà lo scenario della sua ‘battaglia’ filosofica con nuovi orizzonti più squisitamente metafisici soprattutto in A Pluralistic Universe e negli Essays in Radical Empiricism. Poco abbiamo detto di queste opere e moltissimo è stato scritto e ci sarebbe ancora da scrivere; quel che possiamo qui affermare con sufficiente sicurezza è che anche nel prosieguo dell’attività filosofica del nostro autore il tema della libertà, pur intrecciato con nuovi percorsi argomentativi e con tematiche precedentemente inesplorate, rappresenta il vero filo rosso che permette di cogliere l’unità di un pensiero che trovò la propria coerenza più nell’omogeneità delle domande piuttosto che nella ripetizione e nella variazione delle risposte.
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Nota Bibliografica1
La presente Nota Bibliografica, lungi dall’esaurire la sterminata mole di scritti sul pragmatismo e sulla psicologia e filosofia jamesiane in particolare, è stata composta tenendo in considerazione i criteri dell’attinenza ai temi trattati (interazionismo e funzionalismo in psicologia e indeterminismo e volontarismo in filosofia), dell’importanza delle opere e della loro novità. Il risultato è una bibliografia parziale per quel che riguarda tutta la filosofia di James (per quanto la sezione su “Il pensiero di William James” sia dedicata proprio al tentativo di fornire le più importanti informazioni bibliografiche anche su aspetti del pensiero di James che non abbiamo trattato nella nostra Tesi), ma abbastanza esauriente per quel che concerne i temi che abbiamo maggiormente aprofondito. 1
Opere di William James
Le opere complete di William James sono state pubblicate nell’edizione Standard in 17 volumi, a cura di F. H. Burkhardt, F. Bowers e I. K. Srupskelis: The Works of William James, per i tipi della Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1975-88.
A Pluralistic Universe, Intr. di R. J. Bernstein, Harvard University Press, Cambridge 1977. Collected Essays and Reviews, a cura di R. B. Perry, Longmans, Green, New York 1920. Essays in Philosophy, Intr. di J. J. McDermott, Harvard University Press, Cambridge 1978. Essays in Psychical Research, Intr. di R. A. McDermott, ivi 1986. Essays in Psychology, Intr. di W. R. Woodward, ivi 1983. Essays in Radical Empiricism, Intr. di J. J. McDermott, ivi 1976. Essays in Religion and Morality, Intr. di J. J. McDermott, ivi 1982. Essays, Comments and Reviews, Intr. di I. Skrupskelis, ivi 1987. Manuscript Essays and Notes, Intr. di I. Skrupskelis, ivi 1988. Manuscript Lectures, Intr. di I. Skrupskelis, ivi 1988. Memories and Studies, a cura di H. James III, Longmans Green, New York 1911. Pragmatism, Intr. di H. S. Thayer, Harvard University Press, Cambridge 1975. Psychology; Briefer Course, Intr. di M. M. Sokal, ivi 1984. Some Problems of Philosophy, Intr. di P. H. Hare, ivi 1979. Talks to Teachers on Psychology; And To Students on Some of Life’s Ideals, Intr. di G. E. Myers, ivi 1983. (noi abbiamo utilizzato l’edizione della W. W. Norton & Co., New York 1958, con un’Introduzione di P. Woodring) The Meaning of Truth, Intr. di H. S. Thayer, Harvard University Press, Cambridge 1975. The Principles of Psychology¸ 3 voll., Intr. di G. E. Myers e R. B. Evans, ivi 1983 (esiste anche un’edizione in un solo volume — quella da noi utilizzata — che corrisponde nelle pagine a quella succitata, con un’Introduzione di G. A. Miller). The Varieties of Religious Experience, Intr. di J. E. Smith, ivi 1985. The Will to Believe, Intr. di E. H. Madden, ivi 1979.
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Principali edizioni italiane delle opere di William James
Gli ideali della vita (discorsi ai giovani e ai maestri), trad. Di G. C. Ferrari, Bocca, Torino 1906. Gli ideali della vita (discorsi ai giovani e ai maestri), trad. Di P. Poletti, Morcelliana, Brescia 1998. Il flusso di coscienza; I Principi di Psicologia, capitoli IX e X, a cura di L. Demartis, trad. di A. Civita, Bruno Mondadori, Milano 1988. Introduzione alla filosofia, trad. Di M. Malatesta, Bocca, Milano 1944. La volontà di credere, Libreria Edizione Milanese, Milano 1912. La volontà di credere, trad. Di P. Bairati, Rizzoli, Milano 1984. Le varie forme dell’esperienza religiosa. Studio sulla natura umana, trad. Di G. C. Ferrari e M. Calderoni, Bocca, Torino 1906. Le varie forme dell’esperienza religiosa. Studio sulla natura umana, trad. Di P. Poletti, Morcelliana, Brescia 1998. Pragmatismo; Un nome nuovo per vecchi modi di pensare, trad. E note di S. Franzese, Il Saggiatore, Milano 1994. Principi di psicologia, a cura e con un’Introduzione di G. Preti, Principato, Milano 1950. Principi di psicologia, trad. Con aggiunte e note di G. Ferrari e A. Tamburini, Società Editrice Libraria, Milano 1901 (più che una traduzione è una fusione, fra i Principles e il Briefer Course, autorizzata dallo stesso James). Saggi pragmatisti, a cura di G. Papini, Carabba, Lanciano 1910 (Contiene le traduzioni di: Concezioni filosofiche e risultati pratici; Le energie degli uomini; L’immortalità dell’anima; La nozione di coscienza). Saggi sull’empirismo radicale, trad. Di N. Dazzi, Laterza, Roma-Bari 1971. Un universo pluralistico, trad. Di M. Santoro, Marietti, Casale Monferrato 1973.
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Bibliografia e risorse in Rete. Sono molti i siti Web che si occupano di William James. Il più esauriente e approfondito è certamente quello curato da Frank Pajares della Emory University. (http://userwww.service.emory.edu/~mpajare/james.html) Il sito contiene inoltre i link più importanti ad altri siti dedicati a James; indicheremo ugualmente gli URL dei link più interessanti.
Il sito contiene numerosi edizioni elettroniche delle opere di James. Li riportiamo qui seguendo l’ordine originale: 1) Talks to Teachers on Psychology and to Students on some of Life’s Ideals 2) The Principles of Psychology. 3) Pragmatism 4) The Meaning of Truth 5) The Will to Believe Del saggio sono disponibili tre edizioni complete. Una curata dalla Internet Encyclopedia of Philosophy (http://www.utm.edu/research/iep/text/james/will/will.htm); l’altra da Marc Fonda (http://www.magma.ca/~mfonda/jamesw.html) e l’ultima dalla James Madison University (http://falcon.jmu.edu/~omearawm/ph101willtobelieve.html). Sulla Will to Believe sono disponibili diversi saggi: The Right to Believe, di Peter S. Williams (http://www.cix.co.uk/~jstangroom/james.htm) The Ethics of Belief, curato da A. J. Burger, include il testo del saggio The Will to Believe, lo scritto di William Clifford The Ethics of Belief e un saggio molto critico della Will to Believe dello stesso Burger (http://www.howard.net/burger/book.htm). Note e commenti del prof. Robbins dell’Indiana University Note e commenti del prof. Browning dell’University of Texas, Austin. http://www.utexas.edu/courses/hilde/Philhandouts/willtobelieve.html Note e commenti del Princeton philosophy course (http://www.princeton.edu/~grosen/puc/phi203/will.html) 6) Essays in Radcical Empiricism 7) The varieteies of Religious Experience Il testo completo è all’URL http://www.human-nature.com/reason/james/contents.html e anche a http://www.csp.org/docs/james-varieties.html. Sono disponibili dei commenti e delle note di Marc Fonda 499
(http://www.freeyellow.com/members6/hjones/JamesVRE.htm; http://www.psychwww.com/psyrelig/fonda/jamvre1.htm; http://www.psychwww.com/psyrelig/fonda/jamvre2.htm). Una lezione sulle Varieties di Ian Johnston della Malaspina University. (http://www.mala.bc.ca/~mcneil/lec/jamesw.txt) Una lezione di Russell McNeil, della Malaspina University, intitolato The Science of Religion (http://www.mala.bc.ca/~mcneil/lec/jamesw2.txt)
Al § intitolato Essays, excerpts, and reviews sono raccolti i seguenti scritti (manteniamo qui la descrizione bibliografica del sito):
1) The Ph. D Octopus, first published in the Harvard Monthly, March 1903 2) The Gospel of Relaxation - Chapter 1 of Talks to Students on Some of Life's Ideals. 3) On a Certain Blindness in Human Beings - Chapter 2 of Talks to Students on Some of Life's Ideals. 4) What Makes a Life Significant? - Chapter 3 of Talks to Students on Some of Life's Ideals. 5) The Moral Equivalent of War, Speech given at Stanford University, 1906. 6) What is an Emotion, “Mind”, 9 (1884), pp. 188-205. 7) The Chicago School, “Psychological Bulletin”, 1 (1904), pp. 1-5. 8) The Stream of Consciousness, Psychology (chapter XI). Cleveland & New York, World, 1892. 9) Does Consciousness Exist?, “Journal of Philosophy, Psychology, and Scientific Methods”, (1904) 1, pp. 477-491. 10) A World of Pure Experience, Journal of Phil., Psych., and Scientific Methods, 1 (1904), pp. 533-543, 561-570. 11) Secretary Taft a Biased Judged, Boston Transcript (May 2, 1904). 12) The Philippine Tangle, Boston Evening Transcript (March 1, 1899). 13) Address at the Annual Meeting of the New England Anti-Imperialist League, Report of the Fifth Annual Meeting of the New England Anti-Imperialist League (Boston: New England Anti-Imperialist League, 1903). 14) Great Men and Their Environment, Lecture given before the Harvard Natural History Society. Atlantic Monthly, October, 1880. Notes from Prof. J. Wesley Robbins of Indiana University South Bend. 15) Human Immortality, 1898. 16) James's review of The Anaesthetic Revelation and the Gist of Philosophy “Atlantic Monthly”, November, 1874. 500
17) Subjective Effects of Nitrous Oxide 18) Pluralism, Pragmatism, and Instrumental Truth or What at bottom is meant by calling the universe many or by calling it one?, 1907, from A Pluralistic Universe and Pragmatism. 19) What Pragmatism Means
Sono disponibili anche recensioni di alcuni libri su William James:
1) Richard Wakefield, recensione di Genuine Reality di Linda Simon. 2) Robert Coles, recensione di A Stroll with William James, di Jacques Barzum. 3) Eugene Taylor, recensione delle Manuscript Lectures pubblicate dalla Harvard University Press. 4) Tom Lutz, recensione di Manhood at Harvard di Kim Townsend. 5) Sergio Perosa, recensione di The Jamses di R. W. B. Lewis. 6) Henry Rosenberg, recensione di Democratic Temperament; The Legacy of William James, di Joshua Miller. 7) Scott Tossel recensione di Genuine Reality di Linda Simon. 8) Phillip Johnson, recensione di Science and Religion in the Era of William James, di Paul Croce.
Altri siti dedicati a William James
Sito di Owen Thomas, http://people.delphi.com/vlorbik/james.html. Sito di Garth Kemerling, http://people.delphi.com/~gkemerling/ph/jame.htm. Sito di Matthew Ou, http://web.singnet.com.sg/~ouwan/wj/wj.html. Foundations; William James and Functionalism, http://www.shelby.net/ggbolich/page4b3.html Three’s Company; Gertrude Stein, Ernest Hemingway and their Pal William James, http://knox.knox.edu:5718/~engdept/commonroom/Volume_One/wprellw/index.html Biological Consciousness and the Experience of the Transcendent; William James and American Functional Psychology, http://serendip.brynmawr.edu/Mind/James.html Le lettere di William James pubblicate dall’Atlantic Monthly, vol 1: http://www.theatlantic.com/atlantic/issues/96may/nitrous/jami.htm; vol 2: http://www.theatlantic.com/atlantic/issues/96may/nitrous/jamii.htm; vol 3: http://www.theatlantic.com/atlantic/issues/96may/nitrous/jamiii.htm 501
The Nitrous Oxyde Philosopher, di Dmitri Tymozko, http://www.theatlantic.com/atlantic/issues/96may/nitrous/nitrous.htm Recensione di The Manly Ideal di Pat Hoy, per l’Harvard Magazine, http://www.harvardmagazine.com/nd96/browse.manly.html William James and Individual Spirituality, di Susan Landau della Wesleyan University, http://wwwosf.wesleyan.edu/phil/moralpsych/students/slandau/ Ci sono anche dei links interessanti a Episteme Links, http://www.arrowweb.com/philo/Pers/JamePers.htm. Erractic.com dedica una pagina interessante a William James, come d’altronde a molti filosofi americani del ‘900 (Royce, Santayana etc.): http://www.erraticimpact.com/~american/html/james.htm. Russell McNeil cura un interessante William James Consolidated Database (http://www.mala.bc.ca/~mcneil/james.htm), alla Malaspina Univessity, che contine il catalogo della Congress Library, citazioni della National Library of Canada, e le citazioni COPAC (U. K.).
Altri siti dedicati al pragmatismo
The Pragmatism Cybrary - (http://www.pragmatism.org/); Sito dedicato al pragmatismo. Essays on Pragmatic Humanism. from Prof. J. Wesley Robbins, Professor of Philosophy, Indiana University South Bend. (http://sun1.iusb.edu/~wrobbins/Essays/recent.html) James, Pragmatism and Philosophy, from Prof. Smillie, Carroll College. (http://www.carroll.edu/msmillie/philocontempo/Jamesphilo.html) Swedenborghian Roots of American Pragmatism; The Case of D. T. Suzuki, by Eugene Taylor. (http://www.ssr.edu/StudiaSwedenborgiana/vol92/SwedenborgianRootsofAmericanPragmatism.ht ml)
Altri siti interessanti
The Online Books Page offre selezioni delle opere di William e Henry James: http://www.cs.cmu.edu/books.html Center for Dewey Studies, http://www.siu.edu/~deweyctr/. Arisbe è un sito dedicato a Charles Sanders Peirce, di cui contiene più di tranta scritti. http://www.door.net/arisbe/ Un altro sito dedicato a Peirce si trova all’URL http://www.peirce.org/ Welcome to George è un sito dedicato a George Herbert Mead: http://paradigm.soci.brocku.ca/~lward/. 502