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M. Evelina Buffa Nazzari: «Spesso sono arrivata seconda», ikonaLíber

collana Il teatro del mondo

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Maria Evelina Buffa Nazzari

Spesso sono arrivata seconda

vagabondaggi autobiografici di un granello di sabbia

prefazione di Francesco Crisafulli

ikonaLíber

A FrancescoA Leonardo e ai miei indimenticabili fantasmi

Prefazione

Con una sola eccezione, l’autrice di queste pagine ha sino a oggi pubblicato i suoi scritti sotto il proprio nome anagrafico, Maria Evelina Buffa. Spesso sono arrivata seconda, invece, esce sotto quel nome, lunghissimo e vagamente altisonante, che «sporgeva sul registro» costringendo la timida ragazzina che lo portava ad «arrossire per ben undici sillabe». Non saprei dire se si tratti di una svolta nel rapporto di Evelina con la scrittura, destinata a consolidarsi inaugurando una nuova stagione della sua produzione letteraria. Tuttavia, la scelta di firmare il libro con tutte le sue ‘identità’ non mi pare né casuale né priva di significato.

Una donna sola, nell’età dei bilanci, costretta a cambiare casa e a liberarsi di una massa di carte che non troverebbero spazio nella sua nuova abitazione, oppressa dal pensiero del declino che la perseguita dall’adolescenza, da un’esistenza che non ha mantenuto le promesse e che non fa che «sottrarre», dal dolore acuto di perdite recenti e da quello, mai veramente sopito, di piú antichi distacchi da persone, cose e progetti, deve, per proseguire un cammino esistenziale per il quale non è piú sicura di nutrire un vero interesse, cancellare, in un doloroso autodafé, le tracce di ciò che è stata, di ciò che l’ha circondata e da cui è scaturita: la vita, come diceva Kierkegaard, si valuta retrospettivamente ma si vive guardando avanti.

La legge dell’incompenetrabilità dei corpi solidi non fa sconti; e poi, a che pro conservare cimeli della vita di un «granello di sabbia», destinati comunque a una futura dispersione che Evelina sente inevitabile?

Saggezza vorrebbe che l’autodafé si compisse a occhi chiusi, con la stolida determinazione del sacrificatore che non vede gli occhi dell’animale legato sull’altare. Ma Evelina non può, non brucia a scatola chiusa.

Nel suo girovagare fra le carte, ritmato dai fiammiferi destinati ad accendere un rogo piú volte differito, la narratrice s’imbatte cosí in lettere, fotografie, cartoline, diari… Frammenti di un passato che, a volte, non è neppure, in senso stretto, il suo, ma quello di generazioni precedenti, persone che Evelina non ha mai conosciuto direttamente, o solo di sfuggita. Fatti ormai lontani, accaduti nel mondo che era prima di lei, dei quali non è stata testimone; relazioni di cui non ha veduto la nascita, lo sviluppo, la fine; drammi che si sono consuma-

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ti lontano dai suoi occhi; gioie e dolori che altri hanno provato e di cui lei può solo percepire l’eco cristallizzata in un’immagine, un suono, una frase. La memoria è il deus ex machina del racconto, ma non si tratta, banalmente, soltanto della memoria della narratrice. Gran parte dei ‘ricordi’ di Evelina sono custoditi nella memoria degli altri: i quali non sempre hanno scritto o raccontato, ma solo accennato, implicato, sottinteso, ‘bofonchiato’; che non possono piú essere interrogati o che sembrano aver perso la capacità o la voglia di ricordare. Una memoria di secondo grado, ricordo che filtra altri ricordi, spesso taciuti o sussurrati, incompleti o inesatti, indovinati o sospettati piú che tramandati, tra i quali Evelina deve districarsi ipotizzando, immaginando, cercando di immedesimarsi, colmando lacune, creando con l’empatia o la fantasia nessi e percorsi che a volte si perdono, lasciando crepe aperte e dubbi irrisolti.

Tra le carte, Evelina scova un diario scolastico del 1974 – 1975; il diario di una sedicenne, pieno, a sua volta, di ricordi: annotazioni, biglietti, fotografie, cartoline, lettere. Sarà la flebile e flessibile guida che, senza mai impedirle virate verso sentieri paralleli o tangenti, la condurrà attraverso l’affollato deserto della memoria: luoghi, fatti, persone cosí presenti, cosí irrimediabilmente assenti.

Strada facendo, la narratrice incontra le sue protagoniste, che altri non sono che lei stessa, declinata secondo le sue variegate identità, le sue stagioni, le sue molteplici vite. Bimba iperprotetta, ragazzina «innamorata dell’amore» e del padre-divo, giovinetta alla scoperta del sesso, figlia in conflitto e madre appagata, figlia riconciliata e madre schiantata, scolaretta ingenua, adolescente polemica, ragazza comme il faut catapultata dalla scuola al teatro, eterna ‘seconda’, attonita di fronte al futuro indecifrabile, fino all’attrice delusa e stanca, alla donna, indissolubilmente legata alle sue passate identità simboleggiate dalle nove combinazioni possibili (anche se non tutte sperimentate) dei quattro nomi in copertina, che deve, ancora una volta, darsi la forza di cambiare per continuare a vivere.

Attorno alla protagonista, unica e molteplice, si dipana una teoria cosmopolita di antenati mai conosciuti e parenti appena sfiorati, di genitori troppo tardi scoperti e compresi e troppo presto scomparsi, di figli nati, non nati, morti, di amici e compagni dell’infanzia e dell’adolescenza conservati o perduti, fidanzati, mariti, una sorella per elezione, colleghi, conoscenti. Figure dalle origini piú disparate, europee o levantine, nordiche o meridionali, locutori di idiomi diversi che

s’incontrano nel francese, esperanto familiare. Un garibaldino, una famiglia di ebrei convertiti, un eroe dell’Epanastasi, una nobile progenitrice, un divo del cinema precocemente e ingiustamente emarginato, un martire armeno, una vecchia signora crudelmente colpita dalla furia nazista, una giovane e bella danzatrice che volge le spalle alle lusinghe hollywoodiane, e molte altre figure vivide, estratte dal connubio tra memoria e fantasia, le cui vicende, piú o meno diffusamente narrate o anche solo accennate, tessono una trama che unisce l’Italia alla Grecia passando per la Francia e la Turchia.

L’obiettività empatica del racconto è resa stilisticamente dal tono cronachistico, dal linguaggio diretto e colloquiale ma non alieno da involate letterarie e brusche cadute di tono, dal fraseggiare breve e conciso ma con momenti di prosa piú distesa e articolata, dall’alternanza del dialogo e del discorso indiretto libero, della descrizione rapida e viva (quasi una soggettiva cinematografica) e del monologo interiore.

Sovrapposizioni e slittamenti fra piani temporali diversi si traducono in un abile e disinvolto uso dei tempi verbali e della consecutio, chiave decisiva per la comprensione del testo a cui il lettore farà bene a prestare attenzione. Qualcosa di analogo accade con i personaggi, che a volte irrompono nel racconto, per cosí dire anticipatamente, come semplici nomi dei quali poco o nulla si dice ma che, piú avanti, troveranno lo spazio narrativo adeguato al loro ruolo nella ricostruzione psico-anamnestica dell’autrice. A tratti, può sembrare difficile seguire la narratrice nel suo vagabondaggio. Ma basta un pizzico di pazienza e di fiducia: presto il puzzle si ricomporrà nella sua interezza e coerenza iconografica.

Romanzo esistenziale, piú che autobiografico, Spesso sono arrivata seconda conferma e smentisce, al tempo stesso, la strindberghiana convinzione che ciascuno conosce una sola vita: la propria.

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Francesco Crisafulli

Colui che è stato ormai non può piú non essere stato. Oramai il fatto misterioso e profondamente oscuro di aver vissuto è il suo viatico per l’eternità.

Vladimir Jankélévitch

Era il 23 marzo 1994 e scrivevo a Francesco. La mia casa è piena di luce e l’amo piú di quanto si debba amare un oggetto. Rappresenta l’inizio di un nuovo capitolo. Sarà la primavera, sarà perché ho un figlio straordinario, sarà perché ci sei, ma in questo momento sono di un’allegria sfrenata…

Bello avere la certezza di essere stati felici, almeno per un giorno.

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Nel silenzio di una domenica mattina ho acceso un fiammifero… Ma no, no, non posso incominciare da qui, questa parte verrà dopo. Ma non posso incominciare da nessuna parte, perché sono un tutto, un magma informe e disordinatissimo. In realtà non devo nemmeno cominciare, semmai continuare, perché ci sono già, dentro al caos, insomma, dentro la vita.

E ogni giorno è un inesorabile inizio, doloroso, struggente, insensato.

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Dopo qualche anno che non mi capitava sono partita in tournée.

Comincio da qui? Da questa storia recente? Dai debutti in giro per l’Italia? Da questo lavoro anacronistico? Il teatro, con tutto quello che c’è intorno, è un rituale antico, sempre fuori dal tempo perché cosí simile al tempo andato. Da Molière a Pinter, a parte l’aver ottenuto il privilegio della sepoltura in terra consacrata, tutto si svolge esattamente nello stesso modo, salvo alcune agevolazioni dovute al progresso. Ma si tratta di un progresso relativo, la sostanza non cambia.

Macchina al posto della carrozza, una specie di bolla semovente. Durante gli spostamenti si fanno grandi confidenze, si diventa inseparabili. O non si parla affatto, ognuno immerso nei fatti suoi, chi dorme, chi manda messaggini. Qualcuno telefona e chi non lo fa ascolta con discrezione un po’ distratta i fatti di chi telefona. Chissà cosa succedeva in carrozza. Probabilmente nascevano amori, si consumavano tradimenti, si soffriva. Come succede anche adesso, in fin dei conti. Soprattutto dietro le quinte è facile respirare un velato erotismo e ogni gesto pare ingigantito dal luogo magico. Saltava qualche bustino, una mano si infilava sotto i vestiti, nascevano figli che si aggiungevano al carrozzone ed entravano in scena in fasce. Oggi succede meno, ci sono gli anticoncezionali ed è obbligatorio mandare i bambini a scuola.

Poi c’è l’autogrill (invece della bettola), l’albergo (invece della locanda) e una nuova città, sconosciuta o dimenticata. Si arriva su piazza, un po’ di riposo e ci si sciacquetta in un bagno decoroso (non sempre) al posto della tinozza. Si va in teatro, si controllano uscite ed entrate, sempre leggermente diverse, piú larghe o piú strette, piú o meno strambe. Si scalda la voce, parte qualche vocalizzo accompagnato da qualche palpitazione. Trucco e parrucco, si infilano i costumi chiari, che dopo due giorni sono già piuttosto ombrati e impregnati di umori e sui quali gronda e si appiccica altro, nuovo sudore. Si entra in scena e si dimentica ogni dolore, perché il teatro è terapeutico, per la mente ma anche per il corpo. Magicamente, mal di testa e mal di schiena ci

abbandonano nel momento di entrare in scena e ci aspettano in quinta per essere riabbracciati a fine replica, in genere dopo gli applausi. Quindi si strilla e si gesticola, in alcuni casi ci si emoziona, e in due ore è tutto finito. Ci si spoglia e l’involucro di ogni personaggio è riappeso alle stampelle, infilate nei bauli. Tutta l’impalcatura è smontata e sistemata nel camion: ore di lavoro, per ricominciare il giorno dopo, tutto daccapo, tutto da zero, proprio come faceva Molière. Poi fame, decompressione, cibi ingurgitati malamente, vino, birra, risate necessarie. E ancora trucco che si toglie a fatica dalla pelle irritata; tardi, sempre piú tardi, si va a dormire nella camera piú o meno squallida, sconosciuta e anonima, nella quale si approda e che diventa casa, malgrado tutto, perché una casa bisogna averla, per un giorno, per una notte, per quel che serve.

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Per una sola notte sono stata in una casa vera, quella di Alessandra che da quando si è sposata vive a Milano. Arrivavo da un paese vicino ma ero già munita di chiavi. All’una e mezza tutti dormivano. Qualche luce era rimasta accesa, sono entrata cercando di non far scricchiolare l’antico parquet. Mi sono addentrata nel lungo corridoio alla ricerca della stanza che mi era stata assegnata, complice l’assenza di una delle cinque ragazze. Certo, era l’unica rimasta aperta. Ho fame, esploro il frigo dove c’è tutto il ben di dio e mi azzardo ad aprire una confezione di prosciutto che arraffo e ingoio famelicamente. Poi comincia il solito traffico con ovatta e latte detergente, gocce di sonnifero, lavaggio di denti insieme a mille riflessioni su dove mi trovo, dove la vita ha portato Ale, dove ha portato me, ai nostri destini cosí diversi, a quel suo viavai di fanciulle in fiore che cercano la loro strada. Alla mia solitudine, cosí abissale e immutabile.

A lei, famiglia numerosa alle spalle, è sembrato naturale fondare una tribú con cinque figlie. Lei ha costruito la vita. A me pare di aver fabbricato solitudine e morte.

Insomma, a parte una bella casa che ti accoglie sporadicamente, ti adatti al grigiore e cerchi di farlo tuo, di renderlo familiare, come l’amante di una sola notte, con la scusa della sopravvivenza. Una mia collega e amica cambia l’arredamento della camera d’albergo spostando mobili e quadri, anche se deve starci due giorni. Adrenalina ancora da smaltire, sonnifero, lettura, e il sonno crudele che si fa aspettare. Domani si replica altrove.

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Stamattina mi sono svegliata con l’idea fissa di scrivere, ma poi non l’ho fatto. Chissà da quanto ci penso, da quanto elaboro inconsapevolmente certe immagini che vogliono liberarsi da me. Troppo distratta a vivere, e poi a non vivere. Prima o poi lo farò. Voglio scrivere di mia madre, anche di lei, amata e incompatibile. La madre che qualche anno di psicanalisi mi ha fatto ritrovare nella sua essenza e con la quale mi sono concessa la riconciliazione. Senza il conforto della verifica, naturalmente, ho fatto pace con la mia madre interna, cosí dicono loro, gli psicanalisti. La formula mi si confà. Esiste una madre assoluta, oggettiva? La madre è una donna multiforme, ed è diversa per ogni figlio. Ma io non ho i fratelli necessari a stabilire un confronto. E poi ha poca importanza, alla fine tutto ha poca importanza. Per me e solo per me, è la donna che mi è cresciuta dentro e alla quale ho attribuito una lunga serie di fatti e misfatti, che ora ho addomesticato, cercando di vedere gli sforzi, le paure e la drammaticità di una vita scomoda.

Da parte di mio padre, Amedeo, mi sono arrivate notizie di una famiglia Sanguinetti. Origini ebraiche, di quegli ebrei liguri prima segregati nei serragli, o ghetti, da Amedeo VIII di Savoia, quindi fuggiti fra Toscana, Campania e (i miei) Sardegna, intorno al 1400, convertiti al cristianesimo per sfinimento. Nomi come Leone, Noemi e Ruth, erano rimasti una tradizione di famiglia.

Da parte di Irene, mia madre, so di un antenato, tale Andreas Londos. La tradizione gli attribuisce un cuore ricoperto di peluria persino esposto in un museo. Di questo non ho certezza. Ma di sicuro fu un eroe dell’insurrezione greca contro i turchi del 1821. Poi cadde in disgrazia e morí suicida. Questo fatto gli precluse per ben due anni gli onori della sepoltura cristiana. Si vede che poi, per i religiosi, il peccato dev’essere caduto in prescrizione. A casa ho un suo ritratto.

E poi un Genna, siciliano, carbonaro, probabilmente garibaldino, imprigionato e poi scappato dalle prigioni borboniche. Finito in Turchia (o dalle parti del Mar Nero, insomma, si parla ancora di Impero Ottomano), incontra una nobile francese, una certa D’Antin, con cui si sposa.

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Io approdo sulla terra da questi, e da altri sconosciuti intrecci.

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Mi piacciono le foto. E mi piacciono le cornici. Le prime fermano l’istante, le seconde lo incastrano, lo intrappolano, tolgono il respiro al tempo.

La vita mi è preclusa. Non riesco nemmeno a farmi un’innocua passeggiata a villa Ada. Niente è innocuo. Non lo è nemmeno questo posto dove l’ho portato cosí spesso a giocare e a respirare aria buona. Ché fa tanto bene, l’aria buona. Fa crescere sani. Ne è valsa la pena. Né sono innocue le distese di stupide margheritine che deve aver raccolto, per offrirmele, centinaia di volte. Né i bambini che intorno a me continuano a berciare mamma. E sono insopportabili anche quegli idioti adulti che corrono, perché vorrei tanto che fosse uno di loro. Ma che ci sono venuta a fare? Difficile persino accettare la fine dei lavori della metro cominciati quando Leo c’era ancora. Fine dei lavori, piazzetta ripristinata, asfalto e marciapiedi rifatti. Tutto come prima, meglio di prima.

Piú niente come prima, piú niente.

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Il mio papà è alto, forte, ha i baffi e con un pugno spacca tutto! Mi sento protetta dal mio gigante dagli occhi buoni. Non riconosco il divo eccentrico, l’uomo corteggiato da donne interessate o da loschi individui che respinge le responsabilità e l’amore profondo. Il bambino che si era rifiutato di aiutare suo padre a morire è diventato un padre attempato. Le sue mani nodose sono macchiate da anni di sigarette. Ma è rassicurante lo stesso, anche se fragile. Non si fida del suo istinto, pensa di non essere capace di fare il padre. Delega. Era frequente, allora. Delega l’educazione di sua figlia a sua moglie, che è molto piú giovane.

Amedeo è un uomo sconfitto. Ha lavorato nel cinema per piú di trent’anni quasi ininterrottamente e ora si sente ignorato da registi e produttori. Dopo averli fatti guadagnare eccome, i registi e i produttori. Dopo aver guadagnato cifre esorbitanti e mal gestite per piú di trent’anni. All’improvviso non lo cercano piú, o non gli propongono i copioni giusti, e lui si sente smarrito, finito, senza capire perché. E perde forza e sicurezza.

– Devi curare le pubbliche relazioni, amore mio! Di questi tempi anche il pizzicagnolo deve imparare a farlo. – Mi conoscono, no? Se vogliono mi chiamano. Ma non era piú cosí. Si era molto parlato, in casa, dell’occasione mancata di lavorare con Visconti. Che perfetto Gattopardo sarebbe stato Amedeo! Certo, Lancaster aveva un respiro internazionale, questo era innegabile. E dopo aver visto il film, entrambi avevano ammesso che anche lui era molto giusto nel ruolo. Ma quanto dispiacere, quanto cattivo sangue (si usava spesso questa espressione) per Irene, quasi piú per lei che per lui. Lei, che stava attaccata al telefono per ore, scatenava i suoi contatti, parlava con l’agente. Papà indicava il bottone della giacca, ecco Irene ha attaccato il bottoncino. Ma lei lo stimava e lo amava a dismisura. Sono sempre stata segretamente orgogliosa di essere figlia di un grande amore. Insomma, con lui si arrabbiava, ma lo portava in palmo di mano. Aveva tanto sperato che Visconti pensasse a lui anche quando progettava di girare La Recherche di Proust. Lei lo vedeva nel ruolo di Charlus. Poi Visconti non fece in tempo, una delusione in meno per loro.

Comunque mia madre era perennemente nervosa. Papà si permetteva il lusso di fare l’orso e lei girava per banche e strozzini a chiedere prestiti. La parola psaras 6 annunciava l’incubo, si doveva chiamare que-

6 Pescatore, pescivendolo.

sto pescivendolo di cui non ricordo il nome e farsi dare di che arrivare a fine mese. La pensione di Amedeo, che aveva tanto guadagnato in passato, spesso non bastava. Ogni tanto Irene faceva un salto al Monte di Pietà e il suo bel solitario o qualche altro oggetto prezioso spariva per sempre. La casa era grande, il combustibile costava molto e il riscaldamento si accendeva poco. Nella villa con piscina si moriva di freddo. E io rimanevo con la schiena attaccata al termosifone, quando si decidevano ad accenderlo. La piscina di mosaico turchese non si riempiva piú con l’acqua azzurrina che sa di cloro. Estate dopo estate era diventata un cumulo di foglie e sporcizia e, a volte, ci giocavo a palla con gli amici. Avevamo un pozzo (anzi due), ma l’acqua non era potabile. In macchina stazionava, fissa, una damigiana bianca col tappo nero (di quelle per la benzina), che si riempiva di acqua da bere alla fontanella di Monte Sacro tornando dalla città. La spesa si faceva nel quartiere africano, dove mio padre aveva ‘l’ufficio’, un punto d’appoggio per incontrare giornalisti o sbrigare gli incontri di lavoro. Lungo viale Eritrea e viale Libia, dove ora stazionano le macchine, c’era il mercato. Mia madre comprava frutta e verdura da Adele. A me è rimasta l’attrazione per i mercati. La signora che ora mi fornisce le verdure e la frutta variopinta si chiama Clara. Il cibo no, quello non mancava mai.

Le sere d’inverno, col camino acceso, si guardava la televisione sul divano, avvolti nei plaid scozzesi. Rischiatutto il giovedí, film il lunedí, commedia il venerdí, sabato c’era il varietà. Papà era seduto a una estremità, vicino al bracciolo, mamma gli era accanto. A volte io stavo in mezzo a loro, sdraiata, spalmata, direi. Crescendo, mi spostavo, via via sempre piú distante, fino a ritrovarmi all’estremità opposta del canapè. Spesso mamma sistemava i piedini minuscoli sul grembo di papà, che ricordo con le gambe accavallate e il maglione a collo alto; cercava di farsi massaggiare i piedi, Amedeo le dava retta distrattamente, per alcuni minuti, poi glieli schiaffeggiava bonariamente, quei piedini invadenti, segno che si era stufato.

Di domenica, poi, la grande casa fuori città, piena di animali e con le pecore che pascolavano di fronte, era un incubo peggiore che in settimana. La domenica serviva a studiare, mentre io ciondolavo senza scopo. O meglio, mi trovavo sempre da fare, giocavo o, da adolescente, fantasticavo. La vita non ha fatto altro che trasformarsi, tanto da non riconoscerla, ma l’incubo della domenica è rimasto. Il non senso della giornata a disposizione, la giornata in cui si possono fare tante cose e invece non si fa un bel niente. Perché gestire il tempo è sempre

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stata un’impresa ostica per me, con la testa nelle nuvole. Maria Evelina semble dépassée par les évènements, sembra superata dagli eventi, c’è scritto in una mia pagella delle elementari.

Insomma, la facciata era di lusso ma dietro covava la malinconia. Si sarebbe dovuto vendere per mille ottimi motivi, e in fretta, ma nessuno se l’accattava, quella casa. Quando ce ne liberammo era già successo tutto e la malattia aveva fatto da spartiacque fra la mia prima vita e tutte le altre.

Mia mamma non faceva un passo senza sua mamma, non sapeva cucinare e nemmeno preparare il tè. Quando io la frequentavo (quindi era già mia madre) e capitava che qualche fanciulla le annunciasse che si sarebbe sposata, la sua prima domanda era sai cucinare? A me, dopo sposata, domandava ogni giorno cos’hai cucinato oggi? Io le rispondevo guarda che non cucino sempre io, i tempi sono cambiati, a volte cucina lui, quello che capita, quello che c’è in frigo, si prende e si sbatte in padella.

Era timidissima ma parlava italiano, sua madre non era timida ma parlava solo greco.

In apparente simbiosi con sua madre, sembrava inconcepibile qualsiasi ipotesi di taglio del cordone ombelicale. Tempi e strumenti non autorizzavano certe riflessioni. E poi erano due donne sole in un paese straniero. Con quello che era successo era ovvio che si tenessero strette e si sostenessero a vicenda. Buttare un occhio nell’abisso che le separava era un lusso che non si potevano permettere. Si rimane avvinghiate e si fa blocco contro le avversità.

Sí, penso che non avrebbero potuto fare altrimenti. E credo che mia madre non avrebbe potuto essere una madre migliore. Cioè, per me adolescente è stata severissima, dispotica, antiquata, rigida e a tratti bigotta, ma non avrebbe potuto fare meglio di come ha fatto. – Com’è andata a scuola? – Il solito… – Non mi stai dicendo la verità. – Tanto poi vedi la pagella, almeno ti arrabbi una volta sola. Spesso io la dicevo, la verità. Poi, da adolescente, questione di sopravvivenza, avrei cominciato a dire qualche bugia.

A quella carezza del 1944 dovevo i suoi occhi indagatori, verdissimi e magnifici, ma terribilmente diffidenti. A quella signora che, nel 1944, le aveva fatto una carezza silenziosa ma cosí eloquente dovevo, in parte, la sua mancanza di fiducia cronica.

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Insomma, in quegli anni Cinquanta, in una pensioncina o nell’altra, o in un bar di via Ludovisi, si era formato un gruppetto di greci che si riuniva e faceva kefi.

Kefi è difficile da tradurre, deriva dal turco. Kefi è uno stato d’animo. Fare kefi è creare un’atmosfera di complicità e appartenenza; kefi significa stare insieme agli amici, alla comitiva, bere e mangiare in allegria ma con una punta di struggimento levantino; si può fare kefi

con un peso sul cuore, kefi è piangere e ridere insieme. Le minoranze, come sempre, si tengono caldo. E tutti insieme, in quelle serate di ricostruzione, si commentava qualsiasi avvenimento, l’ultimo film, la cucina greca e gli spasimanti di Bimba.

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Irene si sarebbe un giorno affrancata dalla madre soffocante e rancorosa che le sbatteva in faccia i suoi sacrifici per farla emergere, per darle, possibilmente, un futuro glorioso. Aveva persino rinunciato a un nuovo sogno d’amore abbandonando su due piedi ad Atene uno spasimante sbigottito e deluso. Ma in realtà, aveva soddisfatto un bisogno personale, il riscatto per essere stata una pittrice mancata e una moglie tradita. Ma tutto questo sarebbe successo molti anni dopo, in seguito a un inevitabile percorso di vita.

Dopo l’incontro con Amedeo, dopo essersi riconosciuta nell’amore e nella dedizione a lui e a me, convinta che le sarebbe bastato; dopo la sua malattia; dopo la morte di mio padre; dopo pochi anni dalla mia sana e fisiologica crisi adolescenziale; dopo la nascita del suo unico nipote; dopo un’esistenza ricca e sofferta, mia madre, ormai cinquantenne, si era ritrovata, per fortuite circostanze della vita, di nuovo sola, a tu per tu con sua madre, in una casa di città, di quelle in cui ci si incontra per forza. Solo allora aveva vissuto il suo personale distacco, terribile, velenoso, ridicolmente anacronistico. Aveva decretato il taglio del proprio cordone ombelicale, poi era morta.

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Sono sempre stata segretamente orgogliosa di essere figlia di un grande amore.

Trois allumettes une à une allumées dans la nuit La première pour voir ton visage tout entier La seconde pour voir tes yeux La dernière pour voir ta bouche Et l’obscurité toute entière pour me rappeler tout cela En te serrant dans mes bras 64 .

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64 Tre fiammiferi accesi uno ad uno nella notte / Il primo per vedere tutto intero il tuo viso / Il secondo per vedere i tuoi occhi / L’ultimo per vedere la tua bocca / E l’oscurità tutta intera per ricordare tutto questo / Stringendoti fra le braccia. [J. Prévert]

Grazie a mia cugina Dea per aver condiviso i suoi ricordi.

Grazie a Christina che, oltre a indagare sulla morte di Alberto e Franz, è riuscita a decifrare e riordinare le lettere di mia madre e degli altri parenti scritte in greco.

Grazie ad Anna, Rosario, Maria Gabriella, Donatella, Sofia, Roberta, Giuseppe e Alessandra per aver letto il manoscritto in fase embrionale suggerendomi utili spunti di riflessione.

Grazie a Fabrizio che ha creduto nel mio testo e col quale ho costruito amicizia e fiducia.

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Grazie a Caterina per aver letto il mio grumo di memoria con la condivisione di una sorella.

Grazie a Francesco per il suo sostegno profondo e incondizionato.

© Edizioni ikonaLíber, 2018 via Lago di Lesina, 15 • 00199 Roma tel. 06 • 86.32.96.53 ikonaliber@ikona.net ikonaliber.it

Tutti i diritti riservati. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, se non autorizzata.

ISBN: 978-88-97778-53-0

Collana Il teatro del mondo.

Progetto grafico: Fabrizio M. Rossi. Foto di copertina: Maria Evelina Buffa Nazzari. Impaginazione: studio Ikona [www.ikona.net]

Finito di stampare per ikonaLíber nel mese di novembre 2018 da Printí, Manocalzati (AV) su carte ecologiche certificate Fedrigoni Tintoretto, Arcoprint e Splendorgel. Composto in Scala e Scala sans.

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