Architectural Design BSc thesis - Politecnico di Milano

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POLITECNICO DI MILANO Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle costruzioni Corso di Laurea in Progettazione dell’Architettura

Relatore: Ferdinando Zanzottera Anno accademico 2016/2017 Sessione di laurea Settembre 2017 Ilaria Mollica, 830877

I QUARTIERI POPOLARI DELLA MILANO DEGLI ANNI SESSANTA: le due “grandi isole urbane” del quartiere Sant’Ambrogio I e II



I QUARTIERI POPOLARI DELLA MILANO DEGLI ANNI SESSANTA: le due “grandi isole urbane” del quartiere Sant’Ambrogio I e II

Relatore: Ferdinando Zanzottera Anno accademico 2016/2017 Sessione di laurea Settembre 2017 Ilaria Mollica, 830877 POLITECNICO DI MILANO Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle costruzioni Corso di Laurea in Progettazione dell’Architettura



Ringraziamenti Ringrazio anzitutto il professor Ferdinando Zanzottera, Relatore, senza il cui supporto e guida, questa tesi non esisterebbe. Proseguo con gli abitanti del quartiere Sant’Ambrogio mostratisi disponibili e pronti a condividere le loro esperienze, non dimenticando la signora Rosetta e il gruppo delle anziane che mi hanno accolto nei loro salotti. Un ringraziamento particolare va ai miei genitori ed agli amici che mi hanno incoraggiato o che hanno speso parte del proprio tempo per leggere e discutere con me le bozze del lavoro. Vorrei infine ringraziare le persone a me piÚ care sottolineando il grande aiuto datomi dai miei nonni che mi hanno permesso di venire a contatto con la reale identità del luogo.



Abstract L’obiettivo della ricerca è lo studio dei quartieri popolari a partire dal dopoguerra fino agli anni Sessanta, periodo in cui è possibile analizzare percorsi di ricerca e di riflessione su temi che oltre cento anni di edilizia residenziale pubblica hanno a lungo evidenziato e su cui il dibattito è ancora aperto. Dalla ricostruzione, attraversando contesti culturali e politici, si analizzano i ruoli degli architetti, lo sviluppo della legislazione e i risultati conseguiti nella costruzione di case, quartieri e spazi pubblici. Attraverso la tesi è possibile avere una visione del ruolo e significato storico, sociale, urbanistico e architettonico dell’edilizia popolare. Allo scopo di metter in luce e poter concretamente osservare le teorie e gli studi riportati nei primi capitoli, è stato ritenuto utile prendere in considerazione un caso studio, il quartiere Sant’Ambrogio. The aim of the research was to study the social housing districts from the post-war period up to the sixties. A period where it’s possible research and reflect paths on issues that have been long highlighted and on which the debate is still open after over a hundred years of social housing. From reconstruction, through cultural and political contexts, it was analyzed the role of architects, the development of legislation and the results achieved in the construction of houses, districts and public spaces. Through the thesis, it’s possible having a vision of the historical, social, urban and architectural role and significance of popular housing. To highlight and to concretely observe theories and studies reported in the first chapters, it was useful consider a case study, the Sant’Ambrogio district.



INDICE

Introduzione Capitolo 1

Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti” Capitolo 2

La nuova dimensione di Milano: ideologia ed evoluzione del quartiere autosufficiente Capitolo 3

Il quartiere Sant’Ambrogio I e II Capitolo 4

Rassegna fotografica

Conclusioni

Bibliografia

Indice delle figure



Introduzione Nel tessuto urbano contemporaneo si è soliti imbattersi in numerosi quartieri periferici e più nello specifico in quartieri di edilizia residenziale pubblica. Errore comune è quello di considerare tali zone come delle entità statiche in quanto questi sperimentano molteplici traiettorie di cambiamento, partecipando alle trasformazioni che hanno investito la città contemporanea. Lo studio del caso dell’edilizia popolare Milanese è sempre stato tema di interesse e di importanti studi, permettendo la realizzazione del più vasto campionario e rendendo la città protagonista assoluta del panorama italiano. Approvato il Piano Fanfani e dando inizio all’attuazione del Piano INA-casa, si diede avvio al progetto di ricostruzione e alla rinascita dell’Italia del dopoguerra. “Vi è una sola grande architettura consentibile, l’architettura sociale, dedicata innanzi tutto ai problemi della casa e dell’esistenza umana”1, scriverà Gio Ponti nell’immediato dopoguerra. Il problema della casa e l’interessamento all’esistenza umana sono i due aspetti innovativi dell’architettura e delle teorie dell’edilizia degli anni Cinquanta. Questi due temi necessitano e dipendono senza dubbio da una analisi della società. Il problema della casa cominciò a presentarsi in quegli anni a causa di un rapido cambiamento delle attitudini della popolazione, ponendo problemi sempre nuovi; la casa è la riflessione della società e proprio per questa ragione il mutamento di una, porta conseguentemente il cambiamento dell’altra. Le problematiche più avvertite partono dal cambiamento dei nuclei famigliari, sino ad arrivare all’invecchiamento della popolazione e il conseguente adeguamento delle strutture per gli anziani. Gestire, vivere e parlare di un patrimonio come quello delle case popolari appartiene senza dubbio alla società, restituendo agli abitanti il senso di appartenenza al proprio quartiere. Durante gli anni Sessanta l’architettura ha cercato di farsi rappresentante di queste esigenze. Risale a questi anni una grande produzione di edilizia residenziale pubblica che si concentra sullo sviluppo territoriale di Milano, 1. G. Ponti, in “Corriere della Sera”, 1944, 2 febbraio.

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Introduzione

mettendo mano alla periferia, meglio detta hinterland. Gli architetti affrontarono il tema della progettazione dei quartieri distanti dalla città, ma che potessero considerarsi autosufficienti. L’autosufficienza veniva data attraverso la realizzazione di servizi che rendessero il quartiere indipendente dal centro. Nella pratica questo era rappresentato dal cosiddetto “centro” che poteva essere sociale, civico e di quartiere. Sulla base di questo principio vennero realizzati i maggiori quartieri del periodo tra cui i tre insediamenti del Gallaratese (Gallaratese I, II e San Leonardo) e quelli localizzati lungo via dei Missaglia (Chiesa Rossa, Gratosoglio e Missaglia). Il motivo che ha mosso le ricerche sul quartiere Sant’Ambrogio è dovuto dalla possibilità di costruire proficui e duraturi rapporti diretti con gli abitanti del vicinato che mi hanno consentito di potere verificare personalmente l’efficacia dei servizi e degli spazi verdi, restando sempre aggiornata sugli sviluppi e sulle problematiche del quartiere. Questo è stato un presupposto fondamentale per approfondimenti disciplinari eseguiti sulla letteratura scientifica e i rapporti mi hanno consentito di raccogliere eterogenee informazioni e testimonianze dirette dei residenti. Gli abitanti si sono mostrati molto disponibili nella raccolta di informazioni e molti di loro, specialmente gli anziani, sono stati contenti di raccontare le loro esperienze. I primi a cui ho chiesto informazioni sono stati Elisa e Raffaele, trasferitisi nel quartiere Sant’Ambrogio I nel 2002, che mi hanno offerto a possibilità di riflettere sulle dinamiche di integrazione nel tessuto urbano e sociale presenti negli ultimi decenni. Questo rapporto mi ha inoltre consentito di conoscere e confrontarmi con un gruppo di signore anziane che si incontrano due volte a settimana, a turno nella casa di ognuna di loro, per discutere di attualità, confrontarsi sui problemi del quartiere, guardare programmi tv e giocare a carte. Si tratta di un gruppo di anziane di età compresa tra i 72 e i 89 anni, composto principalmente da donne vedove che abitano il quartiere sin dalla sua edificazione. Il gruppo è chiaramente noto a tutto il quartiere e nello specifico una di loro, la signora Rosa, è considerata “la

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Introduzione

nonna di tutti”. La signora Rosa o meglio Rosetta, prima di andare in pensione, lavorava come cuoca della mensa di una delle scuole del quartiere venendo così a contatto con tutti i bambini; tutti loro, ormai molto cresciuti, si ricordano di lei e questo la rende molto fiera. Ho avuto l’opportunità di confrontarmi anche con alcuni dei loro figli e altri abitanti nati e cresciuti nel quartiere, che hanno invece delle opinioni diverse rispetto alle madri. “Oggi si vivacchia tra incuria, tranquillità e vecchiaia!” afferma il signore Ernesto, presente dal 1967. Nel quartiere Sant’Ambrogio II ho avuto modo di incontrare altre persone e di conoscere l’esperienza un gruppo Facebook denominato “Quelli del quartiere Sant’Ambrogio…Milano!!!” dove, malgrado un’impostazione un poco nostalgica, vengono condivise fotografie e immagini dei decenni passati e si riflette sul futuro del quartiere. È composto principalmente da abitanti o ex abitanti che hanno vissuto infanzia e adolescenza nel quartiere, che attraverso i social network hanno avuto modo di rincontrarsi dopo anni. Le più frequenti sono foto delle classi delle scuole elementari e medie in cui la maggior parte di loro si riconosce, che permettono il riavvicinamento di vecchie amicizie e di proporre piccole testimonianze sugli spazi architettonici un tempo presenti.

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Capitolo 1

Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

Fig. 1 Proteste per il diritto alla casa a Milano negli anni Sessanta.

La problematica della casa, già chiara ai razionalisti milanesi dell’immediato anteguerra, emerse a causa del fabbisogno urgente di circa 15.000 alloggi a seguito degli eventi bellici; i bombardamenti avevano colpito oltre il 50% delle costruzioni e reso inaccessibile il 12% dei locali esistenti nel 19401. La carenza di abitazioni, aggravata dell’arresto dell’attività edilizia e dai bombardamenti, assunse dimensioni drammatiche tanto da sollecitare l’intervento dello Stato e questioni relative al ruolo dell’architettura all’interno della società. L’emergenza derivante dalle distruzioni belliche spinse verso un’opera di ricostruzione che si ponesse come risultato il tema della “casa per tutti”. Una nuova casa per un uomo che avesse l’intento di ricostruirsi 1. E. Tortoreto, La mancata “difesa di Milano” dal 1945 al 1950: considerazione sulle linee politiche della ricostruzione edilizia, in” Storia urbana”, 1977, n. 1, p. 97-99.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

sia moralmente che materialmente, diventando un’icona della liberazione dal passato fascista. La costituzione della Repubblica democratica fece sì che la ricostruzione si presentasse come l’occasione per affermare “un nuovo credo sociale, tecnico ed estetico”2, con mutati orientamenti e aspettative indirizzati al diritto alla casa. La nuova sfida per l’architettura, e il nuovo tema portato alla luce dalla ricostruzione, fu l’edilizia collettiva, o abitazione di massa. Si mise a fuoco un nuovo concetto di quartiere, più variato nelle sue risultanze urbanistiche e architettoniche, e più attento al benessere psicologico dei suoi abitanti. Fu l’VIII Triennale del 1947 ad aprire una finestra su un pubblico più ampio sulla posizione degli architetti riguardo la ricostruzione. La mostra aveva come tema l’architettura durante e dopo la guerra in rapporto alle grandi masse, evidenziando la necessità di una ricostruzione sociale, di uno studio sul dimensionamento dei locali e i caratteri qualitativi dell’abitazione. “L’VIII Triennale dovrà essere espressione del nuovo clima politico-sociale portato alla democrazia e affrontare e risolvere i temi che interessano le classi meno abbienti […]. Tutte le manifestazioni saranno orchestrate dalla mostra dell’architettura moderna portata ad una permanente funzione attiva, realizzata e rivolta ad un unico e grande tema: l’abitazione”3, dichiarerà Bottoni nel 1945. I provvedimenti adottati nel dopoguerra ebbero lo scopo di fronteggiare lo stato di emergenza attraverso la partecipazione attiva dello Stato, che intervenne nella ricostruzione e riparazione dell’edilizia danneggiata. La svolta significativa dell’epoca è riconducibile a due eventi paralleli: una nuova proposta urbanistica attraverso il piano AR, redatto dagli Architetti Riuniti, e l’attuazione del piano INA-casa, la cui stesura venne attuata dall’ente Istituto Nazionale per le Assicurazioni. I primi mesi del 1945 si aprono con una proposta di stesura di un nuovo Piano Regolatore da parte degli architetti, un gruppo di professionisti, composto tra i tanti da Franco Albini, Ludovico Belgiojoso, Piero Bottoni ed Ernesto N. Rogers, che sentì come proprio dovere quello di formare 2. Costruzioni-Casabella riprende le sue pubblicazioni, editoriale non firmato, in “Costruzioni-Casabella”,1946, n. 193 (marzo), p.2. 3. P. Bottoni, Il nuovo programma della triennale di Milano, in “Metron”, 1945, n. 3 (ottobre), p. 39.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

Fig. 2 Riepilogo delle costruzioni in Milano ultimate nel II semestre del 1953.

Fig. 3 Riepilogo delle costruzioni in Milano da ultimarsi nel 1954.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

una città che fosse esempio di un nuovo stile di vita italiano ed europeo. Tutti i componenti concordavano nel rifiuto di un modello radiocentrico e compatto di crescita della città di Milano, individuato dai piani precedenti, indicando come indispensabile l’utilizzo delle aree rese libere dai bombardamenti per permettere una crescita della città anche sotto l’aspetto viario e infrastrutturale. I temi delle argomentazioni riguardavano principalmente l’individuazione di direttrici principali per la crescita urbana, per l’organizzazione del tessuto urbano esterno in unità-quartiere autosufficienti. Il piano venne poi gradualmente modificato ed eroso dal Consiglio Comunale nel 1949, fino alla sua approvazione definitiva nel 1953. L’unica realizzazione della proposta sarà il quartiere QT8, quartiere sperimentale con cui si concretizzerà la proposta formulata da Piero Bottoni. Il progetto è inserito inizialmente come una delle zone di ampliamento del piano del 1949, e poi come piano particolareggiato in quello del 1953. Sempre negli stessi anni, nel 1949, venne approvata dal Parlamento una legge, in materia di abitazioni, la cui proposta venne sviluppata in occasione del concorso bandito per la stesura del piano stesso. Si tratta del Piano per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori 4, più noto come piano Fanfani, dal nome del suo proponente, o come piano INAcasa, dall’ente che ne costituiva la gestione. Si trattava di un piano di settore che, con uno scarso intervento statale, aveva la funzione di incentivare e correggere la crescita economica in mano all’iniziativa privata. Permise di varare un programma per la costruzione intensiva di abitazioni che garantissero una grande varietà tipologica e formale. Durante i due settenni dell’attuazione del piano INA-casa (1949-1956 e 1956-1963) fu portata a temine la più vasta produzione edilizia di alloggi di iniziativa pubblica mai realizzato in Italia, costruendo 2 milioni di vani e 355 mila alloggi, con un’incidenza sul totale delle nuove costruzioni del 18,8%5. La ripartizione sul territorio nazionale delle nuove costruzioni doveva tenere conto dei contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro, dell’indice di affollamento di ogni Comune e dell’entità 4. Legge 28 feb. 1949, n. 43. 5. L. Beretta Anguissola (a cura di), I 14 anni del piano INA-casa, Staderini editore, Roma 1963.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

delle distruzioni belliche. La Lombardia fu la regione che usufruì maggiormente dei fondi INA-casa con il 17,73% durante il primo settennio e il 14,75% durante il secondo6. Il tentativo di diffondere un certo standard qualitativo avvenne attraverso la realizzazione di piccoli manuali, che avessero l’intento di guidare la progettazione di alloggi e quartieri. Queste linee guida furono articolate inizialmente in due fascicoli, pubblicati rispettivamente nel 1949 e nel 1950: 1. Suggerimenti, norme e schemi per la elaborazione e presentazione dei progetti, dove viene affrontato il tema dell’alloggio, e 2. Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica. Progetti tipo, focalizzato sul quartiere. L’Istituto Autonomo per le Case Popolari (IACP) e il Comune furono a Milano i principali appaltatori del piano, cui vennero decentrate le attività di assegnazione degli alloggi, e i comuni dovettero provvedere loro stessi all’acquisizione dei terreni. Sia con l’attuazione del piano nel primo settennio che nel secondo, si verificò un intreccio di interventi di edilizia pubblica e privata in cui furono presenti anche fenomeni di speculazione. Agli inizi degli anni Cinquanta iniziarono ad essere riscontrati gli effetti del fenomeno migratorio, con masse provenienti dal meridione, che raggiunse l’apice nella seconda metà del decennio; il Comune di Milano aveva raggiunto una popolazione di circa 1.600.000 abitanti nel 1961, incrementando del 30% rispetto al decennio precedente. Il consistente sviluppo della città dovuto al miracolo economico di quegli anni, vide però nel decentramento, presupposto prioritario del piano, un inizio di fallimento dovuto principalmente alla mancata realizzazione delle infrastrutture necessarie e previste a supporto delle aree periferiche. All’edilizia sovvenzionata, infatti, venivano destinate le aree all’estrema periferia dove trovava ampia soddisfazione l’abusivismo, la speculazione edilizia e l’auto-costruzione di case monofamiliari. La scelta obbligata da prendere fu quella della realizzazione di quartieri autosufficienti. La definizione di quartiere autosufficiente proveniva dall’evoluzione della cultura razionalista basata su un equilibrio quantitativo tra abitazioni e servizi, tale che si potesse avere un effetto di decongestionamento delle città. Il fondamento principale 6. Art. 10, legge 28 feb. 1949.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

consisteva nella scelta di un insediamento di carattere estensivo, avendo rispetto “sia nei riguardi dell’igiene e della salute fisica, sia rispetto alla salute morale, la bassa densità di popolazione, la presenza di vegetazione, il sole e la luce” 7. L’aspetto critico di tale principio seguiva la stessa onda delle polemiche volte all’architettura razionalista. Si trattava di una troppo rigida definizione degli impianti e dei tipi edilizi che provocava una ossessiva ripetizione e la difficoltà di ambientamento da parte degli abitanti. Nel 1957, durante il secondo settennio, la gestione INA-casa pubblicò una guida per l’esame dei progetti da realizzarsi in questo periodo, ribadendo i criteri precedentemente formulati, accettando il requisito della bassa densità edilizia che a Milano trovò difficile applicazione. La ricerca sull’abitazione aveva portato alla luce la necessità di un perfezionamento della vita sociale affinché aiutasse a sviluppare e migliorare l’unità familiare. La dislocazione periferica dei quartieri provocava l’assenza dei lavoratori nelle ore diurne, essendo molto spesso notevole la distanza tra posti di lavoro e abitazioni. Fu necessario quindi preoccuparsi di stabilire dei luoghi di incontro tra la popolazione, in modo che almeno le donne e i bambini non si dovessero allontanare troppo dal quartiere. Accanto all’abitazione doveva essere quindi posto il centro sociale cooperativo che fornisse servizi assistenziali, culturali e ricreativi che avrebbero portato ad una graduale apertura e alla formazione di una comunità di quartiere. Le attività del centro sociale cooperativo erano chiaramente espresse dall’articolazione del complesso edilizio, il cui progetto doveva interessare anche gli abitanti. L’insufficienza di tali infrastrutture, ossia la mancanza della zona di incontro e socializzazione, faceva sì che la comunità non divenisse unita. Alla fine degli anni Cinquanta erano stati individuati nella periferia di Milano 25 centri di cui 6 adeguatamente attrezzati, 6 scarsamente dotati e 13 non equipaggiati. Durante il Primo convegno sugli sviluppi di Milano, tenutosi nel 1959, il collegio degli architetti decretò la necessità di iniziare una pianificazione più complessa della città includendo anche l’hinterland. Questa fase si concluse con l’ulteriore bisogno di intervenire nei degradati tessuti urbani delle zone semicentrali, tema 7. Case per i lavoratori, 2. Suggerimenti, norme e schemi per l’elaborazione e presentazione dei progetti. Bandi dei concorsi, Roma 1949, p.8.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

discusso e approfondito nell’ambito della XII Triennale. Sempre alla fine degli anni Cinquanta aumentò notevolmente il fabbisogno di locali per cui venne predisposto un piano quinquennale per la realizzazione di 120.000 locali che si realizzarono in tempo record. L’unico modo per attuare un piano di tali proporzioni fu quello di fare ricorso al sistema della prefabbricazione, tecnica già largamente adottata negli altri paesi europei e una totale novità per il nostro paese. La scelta di mantenere una tecnica al tempo arretrata, ripresa dal regime che sosteneva un largo impiego della mano d’opera, aveva impedito lo sviluppo e gli studi in materia di edilizia industrializzata e di sistemi di prefabbricazione. I progettisti, in questo modo, concentrarono il loro impegno nel piano di sviluppo e intervento non solo nella definizione dell’impianto tipologico ma anche nello studio attento dei particolari costruttivi. Attraverso i due settenni dell’attuazione del piano INAcasa prese il via la fase più consistente per l’architettura della casa popolare in Italia, sia considerando la quantità degli alloggi prodotti, sia l’incentivazione alla scoperta di nuove tecniche. “Il livello dell’edilizia sovvenzionata è stato portato dall’Ina-casa vicino al massimo assoluto che l’architettura italiana era in grado di raggiungere […] se l’edilizia popolare era prima un prodotto scadente, paragonato alle punte della produzione architettonica italiana, ora è un prodotto buono, il migliore che la classe professionale italiana è in grado di dare al giorno d’oggi” 8. Nel 1963 si chiude definitivamente il piano INA-casa e altri enti, quali la Gescal e i comuni che si dovettero occupare della liquidazione del suo patrimonio, iniziarono a promuovere nuove leggi e regolamenti a favore dell’edilizia economica popolare. Gli anni Sessanta furono anni di contestazione generale, di risanamento e di consolidamento; il problema delle abitazioni diventò sempre di più un’emergenza nazionale evolvendosi in una “lotta per la casa”. Il problema della casa, unitamente a quello del lavoro, era sentito e sofferto maggiormente dalla popolazione immigrata, costretta a vivere nelle condizioni meno raccomandabili sia per igiene 8. L. Benevolo, L’architettura dell’Ina-Casa, in “Centro Sociale”, 1960, n. 30-31, p.59-67.

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Fig. 4 Distribuzione dei condomini sulla superficie di Milano.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

che per sovraffollamento; gli uffici dello IACP di Milano, in quegli anni, erano soliti avere dalle cinquanta alle sessanta domande al giorno per l’assegnazione, in affitto o a riscatto, degli appartamenti costruiti dal Comune o dall’Istituto. Dal 1962 divenne sempre più concreto e necessario il progetto di far collaborare la pianificazione urbanistica con quella economica; si incominciò ad affermare la convinzione che lo Stato potesse essere uno degli organi in grado di gestire la domanda dell’abitazione, iniziando dalle aree edificabili fino ad arrivare al controllo dei prezzi. Gli istituti furono costretti alla ricerca di mezzi e forme per contrastare la riduzione della loro azione. “[…] sarà utile una adeguata riorganizzazione interna e la creazione di strumenti e uffici adatti al reperimento degli elementi indispensabili allo sviluppo di tale autonomia” 9. Attraverso la legge 167, la cui applicazione fu limitata dalle carenze della gestione del programma della Gescal, i Comuni furono in grado di indirizzarsi verso la formazione di nuove espansioni. Con questa legge si accentuò la rilevanza dell’edilizia popolare ed economica come espressione del maggiore impegno da parte dello Stato. Questo avvenne attraverso l’introduzione di piani di zona, i PEEP (Piano di Edilizia Economico Popolare), che resero possibile la realizzazione di insediamenti residenziali e relativi servizi. Si tese a costruire una terza cintura che fosse destinata all’abitazione di massa, ormai localizzata nelle residue aree agricole. Il PEEP di Milano individuava “zone di espansione adatte alla creazione di quartieri organici, secondo i criteri della moderna urbanistica” 10. La politica della casa iniziò a portare le conseguenze del processo di periferizzazione di alcuni ceti popolari. Di questi anni è la crisi dell’ideologia del quartiere autosufficiente e la eccessiva generalizzazione delle tecniche costruttive di prefabbricazione che rese necessaria una revisione dei criteri compositivi del decennio precedente. I quartieri realizzati negli anni Sessanta continueranno in ogni caso a replicare l’impianto del quartiere autosufficiente agendo invece sul rapporto tra sperimentazione tipologica e morfologia del luogo. 9. V. Bontadini, Aspirazioni e propositi, in “Edilizia Popolare”, 1960, n.38 (gennaio-febbraio), p. 1-2. 10. G. Astengo, Le prime applicazioni della 167, in “Urbanistica”, 1963, n. 39 (ottobre), p. 22.

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Capitolo 1 Il “problema della casa” nel dopoguerra: la ricerca di una “casa per tutti”

L’hinterland milanese raggiunse la massima espansione sulle sue direttrici: a Sud e a Ovest si manteneva il paesaggio agricolo, a Sud-Est iniziò a svilupparsi un polo industriale, a Est a causa della scarsa presenza di infrastrutture non erano presenti sostanziosi insediamenti, e a Nord sulle due storiche direttrici industriali si svilupparono molti quartieri. Durante questi decenni furono sperimentate eterogenee soluzioni urbanistiche e tipologiche, nella sua trama è possibile individuare l’evoluzione dei bisogni, dall’esigenza dello spazio domestico al traguardo dello spazio per la comunità, e l’adeguamento degli istituti e della legge alle necessità della collettività. Il passaggio della casa dalla concezione assistenziale a quella di un pubblico servizio; la presa di coscienza che il problema dell’abitazione interessi sia le dimensioni del quartiere che i servizi al suo interno. Lo IACP di Milano, sorto con lo scopo di mutuo soccorso, si è evoluto con funzioni più ampie, contribuendo allo sforzo della ricostruzione nazionale e arrivando a svolgere un ruolo fondamentale nella società moderna.

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Capitolo 2

La nuova dimensione di Milano: ideologia ed evoluzione del quartiere autosufficiente

Fig. 5 Quartiere Gratosoglio in costruzione.

A partire dagli anni Sessanta il territorio della città di Milano iniziò ad affrontare un cambiamento di scala insediativa, determinato da processi di trasformazione che manifestarono un nuovo ordine di grandezza. Le trasformazioni interessarono l’area di espansione oltre i limiti segnati dalla periferia, includendo quella che poi divenne conosciuta come “città-territorio” o “hinterland”, una nuova dimensione urbana che risentiva la necessità di una organizzazione dello spazio. Come affermato da Ernesto Nathan Rogers nell’editoriale di Casabella-Continuità dell’ottobre del 1961, la città stava subendo un cambiamento di dimensione e stava diventando sempre più una metropoli. Secondo il direttore, non si poteva parlare più di un unico grande centro di aggregazione, ma era necessario suddividerlo in minori organismi il cui carattere unitario era dettato

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Capitolo 2 La nuova dimensione di Milano: ideologia ed evoluzione del quartiere autosufficiente

dalla qualità delle relazioni tra di essi1. Milano doveva essere partecipe delle trasformazioni che iniziavano ad interessare gran parte delle città europee industrializzate, in seguito al boom economico. Se nei due decenni precedenti le discussioni si interessarono al tema dell’abitazione, ora non era più sufficiente parlare del problema in generale ma bisognava relazionarlo alla città; sarà il problema dell’abitazione visto sulla base degli sviluppi territoriali di Milano. La città-metropoli esercitava, nei confronti della zona circostante, una forza di accentramento che portava alla conseguente congestione. La soluzione, trovata durante il Secondo convegno sugli sviluppi di Milano, per eliminare l’affollamento fu una armonica distribuzione delle funzioni sul territorio, in particolare sottraendole alla città, e ridistribuendole ai poli meno attivi. “Si tratta per noi milanesi, di creare l’avvenire della nostra città, ossia di creare le condizioni per la vita e per la civiltà sociale di Milano”, affermò Gio Ponti in un intervento del convegno2. Un censimento della popolazione del 1961 aveva constatato come il 10% della popolazione vivesse all’interno della cerchia delle mura spagnole, il 30% tra queste ultime e la circonvallazione, e il 60% ai confini del Comune e oltre3. La periferia di Milano era in condizioni di carenza in modo diffuso di strutture, infrastrutture e servizi pubblici e privati. Venne istituita una Commissione Comunale, nel 1963, al fine di portare avanti una indagine che rilevasse le reali condizioni di questa parte di territorio. “L’esistenza e l’estensione del complesso dei servizi pubblici essenziali e dei servizi sociali alla periferia della città costituiscono uno dei problemi di maggiore gravità che deve essere impostato e risolto con assoluta urgenza e secondo linee operative del tutto chiare […] È necessario avere la conoscenza della situazione in atto nella periferia attraverso un’indagine diretta della consistenza ed 1. E. N. Rogers, Milano, Coscienza della metropoli, in “Casabella-Continuità”, 1961, n. 256 (ottobre), p.2. 2. L. Mariani (a cura di), Urbanistica, in “Edilizia Popolare”, 1961, n. 40 (maggio-giugno), p. 39-41. 3. V. Bini, La periferia di Milano nell’indagine della Commissione per il coordinamento dei servizi e dei lavori pubblici in periferia, in “Edilizia Popolare”, 1963, n. 51 (marzo-aprile), p. 17.

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Capitolo 2 La nuova dimensione di Milano: ideologia ed evoluzione del quartiere autosufficiente

Fig. 6 Le 52 zone della periferia.

efficienza dei servizi e degli elementi necessari”4. I lavori di indagine, iniziati a pochi mesi dall’elezione dei membri della commissione, si fondarono sulla raccolta di dati e successiva analisi di alcuni problemi: la definizione della periferia, la sua suddivisione in zone, gli elementi da rilevare, i fabbisogni minimi e la visualizzazione dei dati. Vennero determinati due criteri per definire il concetto di periferia: il primo fu il limite territoriale, ovvero la fascia oltre la circonvallazione esterna; il secondo fu invece funzionale, ossia dove si presentava la necessità di infrastrutture, attrezzature e servizi pubblici. Per necessità di studio, sin dalle prime indagini, risultò necessario suddividere la periferia in zone. Per zona si intese un agglomerato di abitazioni definite fisicamente da confini naturali e artificiali. Poteva altrimenti essere definita dalla presenza di centri di quartieri o centri di aggregazione che potessero creare attrazione. Nel primo caso queste avevano confini precisi, mentre nel secondo si identificavano più che altro dei nuclei tendenzialmente rurali. L’area urbanizzata, compresa tra il Comune e la Circonvallazione esterna, si suddivideva in un totale di 52 zone. Questa suddivisione fu fatta a priori e venne 4. Ibidem

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Capitolo 2 La nuova dimensione di Milano: ideologia ed evoluzione del quartiere autosufficiente

modificata successivamente all’indagine. Si era infatti rilevata la necessità di suddividere ulteriormente delle zone o aggregarne tra loro delle altre. Venne stilata una scheda di rilevamento sulla quale si impostò l’intera indagine attraverso tabelle che riferissero il grado di assolvimento delle diverse funzioni presenti e segnalasse quelle invece mancanti. I dati raccolti furono infine riformulati in una relazione finale facendo uso anche di mappe al fine di rendere più diretti e chiari i risultati. Il risultato dell’indagine rivelò una situazione molto più grave di quella prevista; nelle 28 zone analizzate, corrispondenti a circa la metà della periferia di Milano, 4 mancavano di centro civico, la maggior parte avevano problemi di edilizia scolastica e numerosi altri servizi. Le zone vennero divise in: adeguatamente attrezzate, con una efficienza superiore al 75%, scarsamente munite, tra il 50-75%, e non dotate, tutte quelle con una efficienza inferiore al 50%. Non tutte le carenze potevano essere colmate ma molte di esse, relative alle infrastrutture, potevano essere risolte attraverso opere di consolidamento. In conclusione l’indagine evidenziava che i quartieri di nuova formazione, definiti autosufficienti, presentavano in realtà carenze proprio in quelle stesse funzioni che dovevano renderlo tale. Non sempre questi quartieri tenevano conto della dimensione umana, acquistando il carattere di dormitorio e dipendendo per la maggior parte dai servizi delle zone limitrofe equipaggiate della città. I quartieri avrebbero dovuto avere uno standard minimo di attrezzature che assicurassero alla comunità residente una vita locale efficiente, così che la necessità di dipendenza dal centro del quartiere diventasse il punto di forza. Tra queste rientravano i cosiddetti centri, tra cui il centro sociale, il centro di quartiere e il centro civico. Il primo consisteva in un organismo con il compito di svolgere una azione di assistenza sociale e poteva o far parte del centro di quartiere oppure essere dislocato in singoli insediamenti; il secondo era il raggruppamento di alcuni specifici elementi necessari al fine di rendere autonoma la vita dell’agglomerato; il terzo centro riuniva alcuni uffici tecnici, comunali e amministrativi che, come conseguenza del decentramento, assumevano una dimensione fisica di

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Capitolo 2 La nuova dimensione di Milano: ideologia ed evoluzione del quartiere autosufficiente

Fig. 7 Quartiere Comasina.

un completo organismo rappresentativo della comunità locale. Era necessario trasformare la periferia da componente passiva della città in elemento attivo ed essenziale, integrato con il tessuto urbano; si doveva costruire una città nuova per la vita di tutti gli uomini che la abitano, secondo una concezione democratica della realtà. Già in uno dei primi e più periferici interventi dell’INAcasa, il quartiere Baggio II (1951-1952), la distribuzione delle case si svolgeva attorno ad uno spazio verde centrale in cui sorgevano i principali servizi come scuola, asilo, negozi e parrocchia. Sia gli edifici che il nucleo centrale si aprivano verso via delle Forze Armate, seguendo la tipica progettazione dei quartieri autosufficienti. Il quartiere Comasina (1953-1969) finanziato dall’INAcasa e dal comune di Milano, fu il primo quartiere autosufficiente realizzato in Italia dall’istituto. Il progetto prevedeva un centro civico, attorniato da unità residenziali inizialmente tipologicamente uguali. Successivamente, per arricchire il disegno di insieme, i tipi edilizi vennero diversificati attraverso le altezze dei corpi di fabbrica. Si trattò in totale della costruzione di 84 edifici con circa

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Fig. 8 Quartiere Feltre.

11.000 vani5, organizzati in quattro unità residenziali, progettati con criteri urbanistici avanzati e tenendo conto della zonizzazione dei servizi per uno studio accurato dei percorsi automobilistici e pedonali. Ognuna delle unità residenziali era servita da negozi, un asilo e un centro sociale, mentre tutta l’area era rifornita da una centrale termoelettrica. Il quartiere sin dall’origine ebbe il problema dell’eccessiva distanza dai luoghi di lavoro dovuta a problemi di trasporto che, assieme alla mancanza dei servizi minimi, non permettevano la sua autonomia. Come responsabili del fallimento del suo funzionamento furono individuati la scala e l’ubicazione, in quanto una delle caratteristiche primarie del modello del quartiere autosufficiente doveva essere il funzionamento del suo impianto micro urbano. Nonostante il loro fallimento, questa tipologia di edifici rimase il tipo edilizio standard del quartiere Feltre (19571963), considerato l’esempio meglio riuscito della fine degli anni Cinquanta. Fu progettato da un colto gruppo di progettisti, tra cui Lingeri e Minoletti, che rispetto al modello neorealista del quartiere a bassa densità, 5. Quartiere autosufficiente Comasina. Milano 1955-1958, Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Milano, quad. 1, Milano 1958, p.10.

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indicato come orientamento generale dalla gestione INACasa, proposero un insediamento ad alta densità con edifici di carattere spiccatamente urbano. All’epoca della sua costruzione, il comparto urbano in cui si trovava il quartiere Feltre era all’estrema periferia della città, a est della ferrovia e oltre il borgo di Lambrate che subiva un processo di trasformazione in tessuto industriale. Agli inizi degli anni Sessanta, lo IACP realizzò importanti interventi tra cui il quartiere Forlanini e Chiesa Rossa, in cui cercò di applicare le accuratezze della progettazione del Feltre affinché il loro funzionamento fosse il più possibile efficace. Da questo momento in poi si ebbe la nascita di grandi quartieri residenziali realizzati attraverso i più innovativi brevetti europei di prefabbricazione. Il quartiere Forlanini (1960-1964) si collocava all’estrema periferia orientale ed era caratterizzato da uno scarso impianto urbanistico. Si componeva di sei edifici a schiera di quattro piani, costruiti quasi tutti con lo stesso disegno con facciate in mattoni rossi incorniciate da fasce marcapiano bianche, rendendolo riconoscibile tra tanti. Il quartiere Chiesa Rossa (1960-1963) fu realizzato invece in seguito ad un concorso. Si compone di tre grandi isolati, separati dalle due strade principali, e serviti al loro interno dalla viabilità locale. I tipi edilizi, variamente disposti, furono due: le case in linea, di cinque piani, e gli edifici isolati a torre, di nove piani. L’elemento qualificante del quartiere è il centro civico, comprendente attrezzature pubbliche, commerciali, culturali e religiose, e caratterizzato da una piazza pedonale sopraelevata; la dotazione di servizi fu completata da svariati edifici scolastici e da una piscina. Se questi ultimi due cercarono di risolvere il problema compositivo attraverso le soluzioni progettuali impiegate nel quartiere Feltre, non trovarono risposta al problema dell’autonomia dalla città. Il dibattito cominciò ad aprirsi sui nuovi quartieri del Gallaratese: il quartiere Gallaratese G1 (1957-1958), poi completato dal quartiere Gallaratese G2 (1964-1974), e dal quartiere San Leonardo (19641974). Nonostante la volontà di ricerca di una soluzione, la loro impostazione replicava l’impianto che caratterizzava il modello del quartiere autosufficiente, adottandone conseguentemente tutti i problemi. Il progetto originario

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Fig. 9 Quartiere Gallaratese negli anni Settanta.

derivava del laboratorio sperimentale della VIII Triennale; il piano regolatore generale del 1953 prevedeva attorno all’area del QT8 un’espansione residenziale in direzione nord-ovest. La superficie complessiva delle nuove unità doveva essere di circa 155 ettari e il fulcro del progetto era una “strada viale” che riconnettesse le due unità tra di loro distanziate, fino a ricomprendere il QT8. Su questa strada si affacciavano edifici pubblici, uffici, attività commerciali e residenze di lusso, replicando i grandi viali commerciali della città; all’interno di questa cortina erano poste invece le residenze economiche immerse nel verde. Il collegamento con il centro urbano era garantito da una strada tangenziale a traffico veloce, che riconfermava l’impianto radiocentrico milanese. La replica in periferia delle condizioni di viabilità di un

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centro urbano sostitutivo non venne attuata, in quanto non considerata come migliore soluzione al problema, confermando e accrescendo quelli già emersi nel Comasina. Il quartiere Gallaratese nella sua completezza, che avrebbe dovuto costituire “l’esempio per gli sviluppi di quella che noi architetti moderni non vorremmo più sentire chiamare periferia […] ma la Milano nuova, alta e moderna”6, fu invece il maggiore esempio di quartiere dormitorio, un grande ghetto periferico che aveva intenzione di risolvere i problemi della crescita della città non tenendo conto della vivibilità. Fu uno dei primi quartieri in cui, negli anni Settanta, gli abitanti rivendicavano servizi e attrezzature mettendo in discussione il suo assetto urbanistico. Attualmente il Gallaratese appare come una giustapposizione di interventi frazionati riducibili a diversi piani in cui risulta difficile riconoscere l’idea di partenza. Dopo l’ennesimo fallimento, sia architetti che urbanisti cominciarono a parlare di “parti di città” e non più di quartieri, sposando l’idea della ricucitura del tessuto urbano attraverso l’intervento riqualificatore nei punti critici o irrisolti. L’integrazione urbanistica e il rifiuto dell’autosufficienza del quartiere trovarono riscontro nel quartiere Gratosoglio (1963-1971) costruito su progetto urbanistico e architettonico dei BBPR, suddiviso in nucleo Nord e Sud da una linea elettrica ad alta tensione. Fu posto tangenzialmente a via dei Missaglia, lungo la quale vennero spostate tutte le strutture commerciali e collettive a disponibilità di una via di grande scorrimento e collegamento con il centro urbano al fine di rendere queste ultime fruibili anche agli utenti esterni al quartiere. Le case, prefabbricate, furono disposte in schiere parallele e perpendicolari, orientate diagonalmente rispetto a via dei Missaglia, in modo da garantire una successione di spazi diversificati, raccolti in un anello viario di traffico locale e di strade private a traffico lento. La tipologia degli edifici a carattere urbano, sperimentata nel quartiere Feltre, trovò qui un ulteriore sviluppo con le grandi dimensioni e la monotona ripetitività degli edifici a torre direttamente progettati dai BBPR. I progettisti del Gratosoglio erano partiti dal presupposto che a Milano gli interventi potessero assumere l’aspetto 6. G. Ponti, A proposito della “Gallaratese”, in “Atti del Collegio Regionale Lombardo degli Architetti”, 1958, n. 8, p. 23-24.

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Fig. 10 Quartiere Gratosoglio, 1971

di nuclei residenziali distribuiti nel territorio, a condizione che fosse predisposta una integrazione di questi con il continuo urbanizzato. L’ideologia del quartiere autosufficiente non era quindi esclusa ma richiedeva una evoluzione e inclusione più concreta con la città. I flussi tra i quartieri e la città non dovevano avvenire esclusivamente in modo univoco, la città infatti doveva vedere in loro una possibilità di ampliamento che non provocasse un processo di periferizzazione dei ceti popolari. Il nuovo slogan degli anni Sessanta divenne quindi quello di evocare l’effetto urbano operando la ricucitura delle relazioni della città. Esempio di questo effetto fu il quartiere Sant’Ambrogio I (1963-1965) considerato un segno forte non solo per chi esce da Milano lungo l’autostrada, ma anche di chi vi vive. Lo stesso criterio micro urbanistico fu seguito nel vicino quartiere Sant’Ambrogio II con la sola differenza che i corpi di fabbrica erano stecche perimetrali di composizione più rigida. In questi due quartieri si attua una transizione dal modello del quartiere a quello della grande unità residenziale, passando ad una scala ridotta alla piccola comunità collocata nel più vasto complesso urbano. Stessa impostazione viene seguita anche nel quartiere Missaglia (1968-1972), costruito e interposto tra i complessi Chiesa Rossa e Gratosoglio costituendo

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il terzo consistente episodio attraverso cui si consolida l’edificazione lungo il versante Ovest della periferia Sud di Milano. I corpi di fabbrica rettilinei e paralleli a via dei Missaglia creano una doppia cortina edilizia schematica imposta dal sistema di prefabbricazione adottato. Prima della revisione dei piani di zona del 1969, che avrebbe previsto l’abolizione dell’edificazione dei lotti troppo periferici, venne realizzato il quartiere Quarto Cagnino. La realizzazione del quartiere risente dei limiti dovuti agli insediamenti la cui localizzazione era stata determinata dalla reperibilità di terreni a basso costo nelle aree più periferiche. I progettisti che dovettero affrontare il problema si posero come obiettivo quello di risolvere il problema della realizzazione di un quartiere in un contesto che presentasse dei vincoli. Il lotto era collocato tra l’ospedale San Carlo e il già consolidato tracciato di via Novara; venne realizzato un impianto definito dall’articolazione di pochi volumi lineari rivolti verso gli assi del traffico per originare rapporto con la città. A causa dell’ubicazione e delle dimensioni degli interventi da attuare, rivolti principalmente al soddisfacimento di una numerosa domanda su una superficie usata solo perché disponibile, i progettisti che operarono in questi anni non erano alla ricerca di una “bella architettura”, proponendo invece un trattamento uniforme degli edifici e un maggiore studio e caratterizzazione delle strutture sociali e degli spazi pubblici.

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Capitolo 3

Il quartiere Sant’Ambrogio I e II

Fig. 11 3 aprile 1966 - Inaugurazione del quartiere di edilizia popolare Sant’Ambrogio.

Il quartiere Sant’Ambrogio, realizzato tra il 1964 e il 1971, si colloca in un’area della periferia Sud di Milano. Adiacente all’Autostrada dei Fiori, già presente dal 1951, si espande a Sud di viale Famagosta sino al limite del territorio amministrativo dei comuni di Assago e Buccinasco. L’area in cui è collocato il complesso prende il nome di Barona ed è geograficamente racchiusa da un grande anello viario compreso tra le vie San Paolino, De Pretis, Boffalora, De Nicola, San Vigilio da cui ci si immette nelle vie Rudinì ed Ovada. Tutta l’area era caratterizzata dalla presenza di insediamenti agricoli in cui si trovavano poche abitazioni private, prevalentemente cascine agricole di interesse storico-ambientale tra cui la Cascina Monterrobbio, Boffalora e Cantalupa, e qualche

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Capitolo 3 Il quartiere Sant’Ambrogio I e II

fabbricato presso via Ovada e Rudinì. Il quartiere, al momento della costruzione, non costituiva un continuo urbano, ma due autentiche “isole urbane” a indipendenti. La composizione sociale della popolazione, secondo un’inchiesta campione condotta nel 1964, vedeva le professioni dei capi famiglia distribuiti per il 2,68% come dirigenti di azienda, il 0,56% di liberi professionisti, il 5,60% di artigiani, il 3,13% di commercianti, il 16,81 di impiegati, il 42,15% di operai, l’1% di contadini, il 17, 24% di pensionati e il 9,8% di professione non pervenuta. Inoltre fu rilevato che la popolazione fosse composta per oltre il 32% da immigrati1. L’incarico per il progetto e la sua conseguente realizzazione fu assegnato ad Arrigo Arrighetti, nominato direttore dell’Ufficio Urbanistico del Comune di Milano dal 1961 fino al 19702. Il quartiere fu suddiviso in due insediamenti ben distinti: tra il 1964 e il 1966, l’architetto fu incaricato della realizzazione del quartiere Sant’Ambrogio I e in seguito alla sua inaugurazione venne previsto un ampliamento in adiacenza, il quartiere Sant’Ambrogio II realizzato tra il 1968 e il 1971. Il quartiere Sant’Ambrogio I si posiziona a confine del Parco Agricolo Sud, tra le vie San Paolino e San Vigilio. Le prime notizie a riguardo risalgono al 1963 attraverso il Piano di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) dello stesso anno, quando il Comune di Milano rese esecutivo il progetto di costruire 28 fabbricati di edilizia economica e popolare. Il quartiere occupa ancora tutt’oggi una superficie di 152.120 m2 di cui 19.448 m2 coperta, con il 10,4% da abitazioni e il 2,4% da edifici pubblici rispetto al totale, e 132.672 m2 scoperta, con il 75,6% di verde e l’11,6% di strade. Nel 1965 furono ultimati circa 1.100 appartamenti per un totale di 3.150 locali, 12 attività commerciali ed ambienti vari per la localizzazione dei servizi3. Il complesso si articola in quattro edifici in linea, notevolmente sviluppati in lunghezza, disposti secondo geometrie curvilinee, una cortina continua la cui 1. A. Iosa, I quartieri di Milano, pubblicazione del circolo culturale Carlo Perini, 1971. 2. Carla Bodino (a cura di), Arrigo Arrighetti Architetto, Milano, Archivio storico civico, 1990. 3. A. Iosa (a cura di), Quaderno bianco. I quartieri della zona 16, Comune di Milano, Milano, 1984, p. 178.

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configurazione è relazionata con la conformazione delle infrastrutture autostradali adiacenti. Il quartiere fu, sin dall’inizio, un modello di riferimento per altre realizzazioni urbane, tanto da diventare oggetto di visite di numerosi esperti italiani e stranieri. “Caro Arrighetti, ogni volta che passo per l’autostrada dei fiori mi felicito mentalmente con te per il tuo quartiere curvilineo […] Quando ti pare ne pubblicherei delle emozionanti foto a colori, a piena pagina, su Domus.”, dichiarò Gio Ponti in una lettera destinata ad Arrighetti4. Il vasto spazio interno delimitato dagli edifici è rigorosamente pedonale con attrezzature per il gioco dei bambini ed è stato dotato, sin dalla realizzazione del quartiere, di tutti i servizi utili e necessari all’uso pubblico. Tra i più importanti emerge il Centro Civico di via San Paolino 18, il quale al suo interno conteneva la biblioteca comunale, il consultorio familiare, il servizio igiene mentale per l’età evolutiva, l’assistenza sociale, il presidio dei vigili urbani, la farmacia comunale, il servizio Medicina del Lavoro, il Centro Sociale, il centro commerciale ed ambienti idonei al ritrovo del comitato del quartiere e di un gruppo che operava nel campo delle tossicodipendenze. Con il passare degli anni ulteriori servizi si sono realizzati e ampliati all’interno del quartiere o nelle sue immediate vicinanze, tanto che oggi è possibile individuarvi: - l’Unione Sportiva Barona e il gruppo della Società Sportiva S. Ambrogio, il primo che praticava solo attività calcistica mentre il secondo altre discipline sportive presso la palestra della scuola elementare del quartiere; - l’ospedale San Paolo, in via Rudinì, la cui denominazione fu data per onorare il defunto Paolo VI; - la Casa di riposo Famagosta, annessa all’ospedale, che accoglie oltre 300 anziani; - la scuola materna ed elementare di via San Paolino, l’asilo nido di via San Vigilio e la scuola media di via de Nicola, nel limitrofo quartiere di Sant’Ambrogio II; - la chiesa di San Giovanni Bono, progettata dallo stesso Arrighetti e costruita nel 1968 al centro del quartiere e nelle immediate vicinanze del centro civico. Essa, con la sua forma dinamica e cuspidata, si contrappone all’andamento orizzontale degli edifici residenziali che la 4. Carla Bodino, Op cit, p. 103

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Capitolo 3 Il quartiere Sant’Ambrogio I e II

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attorniano e segna il principale elemento emergente del quartiere. La chiesa è stata oggetto di un grande incendio nel 1980 che provocò numerosi danni a cui rimediò un interessante progetto di recupero eseguito dallo stesso Arrighetti. I blocchi residenziali si sviluppano su otto livelli fuori terra e dal porticato continuo al piano terra, la cui altezza raddoppia in corrispondenza degli ingressi, che danno accesso ai gruppi dei corpi-scala. Questi ultimi fungono da collegamenti verticali per i due appartamenti per piano caratterizzati da diversi tagli abitativi con alloggi di 2,3 e 4 locali. Complessivamente nel quartiere si constata la prevalenza di bilocali e trilocali poiché nel quartiere sono presenti 420 appartamenti da 2 locali, 472 da 3 locali e 230 da 4 locali, con un volume comprensivo di 2364.820 m3. Ogni alloggio dispone di doppia esposizione: sul fronte rivolto alla città, si collocano gli spai di servizio, mentre su quello rivolto all’area verde, il soggiorno e camera da letto. Con il passare del tempo la maggior parte delle logge, affacciate su strada e su giardino, sono state chiuse permettendo l’ampliamento della volumetria internia agli alloggi. All’ultimo piano furono realizzati alloggi ricavati sotto la copertura mansardata. Alla movimentazione dei fronti contribuisce il linguaggio delle finiture, con il contrasto fra i mattoni a vista delle pareti piene e l’intonaco bianco con cui vengono segnate le pareti di fondo delle logge e i pilastri del portico al piano terra. I prospetti, che si estendono per diverse centinaia di metri, sono differenziati in funzione degli affacci. La facciata su strada è caratterizzata da ripetizione ritmica attraverso balconi in aggetto, mentre il fronte che prospetta sull’area verde è segnato da un’asimmetrica distribuzione di logge e aperture, che generano un gioco continuo di luci e ombre, di pieni e di vuoti. Alla realizzazione del primo quartiere ne seguì l’ampliamento, conosciuto con il nome di Quartiere Sant’Ambrogio II, collocato intorno alle vie De Nicola e De Pretis. Il quartiere fu costruito tra il 1970 e 1971 ad iniziativa

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Fig. 12 Schema pianta piano tipo suddiviso in alloggi di diverse dimensioni.

Fig. 13 Parte di pianta del piano tipo con due appartamenti di uguali dimensioni.

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Fig. 14 Fronti continui verso lo spazio interno.

Fig. 15 Fronti continui verso lo spazio esterno.

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Fig. 16 I due quartieri in adiacenza.

dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari a differenza del primo che venne invece finanziato dal Comune di Milano. I primi abitanti presero possesso dei loro alloggi nel 1972. In quegli anni il quartiere popolare contava 1.216 alloggi, distribuiti in 7 differenti edifici, per un totale di 4.864 locali capaci di accogliere una popolazione di circa 6.000 abitanti. Oggi il quartiere occupa una superficie di 117.232 m2 di cui 14.112 m2 coperta e 163.120 m2 scoperta. Gli alloggi ripropongono sostanzialmente le stesse caratteristiche del Sant’Ambrogio I. anche in questo quartiere tutti gli appartamenti sono muniti di servizi privati e constano di 2, 3 o 4 locali5. Oltre all’analogia nei caratteri d’insediamento abitativi, rimane invariato anche quelli dei servizi, sebbene vengono perse le geometrie curvilinee con un conseguente irrigidimento del disegno compositivo dovuto al sistema prefabbricato. Anche nel quartiere Sant’Ambrogio II i fabbricati delimitano un anello viario esterno e uno interno destinato ai servizi scolastici e agli spazi verdi di ampio respiro. Come il primo quartiere, anche l’insediamento Sant’Ambrogio II è provvisto di servizi essenziali come negozi, bar, scuole dell’obbligo e aree verdi attrezzate. Storicamente il servizio più rilevante del quartiere è costituito dalla sede dei servizi socio-sanitari e ricreativi, insediatosi nell’edificio un tempo occupato da una delle scuole materne. L’edificio, con impianto planimetrico 5. A. Iosa, Op. cit, p. 192.

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a “u”, in una delle due ali ospita il Centro Sportivo S. Ambrogio II, mentre nella seconda risiedono un centro sociale per anziani e un centro territoriale riabilitativo, entrambi gestiti dal Comune di Milano. Oltre ad alcuni testi prettamente architettonici, le prime testimonianze riguardanti la vita del quartiere si trovano nel quaderno “I quartieri della zona 16”, scritto da A. Iosa nel 1984, in cui l’autore raccoglie, dati, notizie e problemi prioritari raccolti dalla viva voce dei cittadini e dei consiglieri di zona. Il problema maggiore riscontrato dalla popolazione degli anni Ottanta in entrambi i quartieri riguardava la manutenzione del patrimonio edilizio. I quartieri furono per anni abbandonati dalle autorità competenti, facendo perdere alla comunità la caratteristica dell’autosufficienza. Il comitato del quartiere S. Ambrogio I si era fatto interprete del grande disagio dovuto alla gravità dei ritardi e dell’insufficienza nella manutenzione del patrimonio edilizio i cui costi continuavano ad aumentare. Fu prioritaria la necessità di rapporti più efficaci tra il Consiglio di Zona, il Comune e lo IACP (ora ALER), al fine di evitare lungaggini nei processi di intervento. Le problematiche di cui doveva occuparsi la manutenzione riguardavano: - il rifacimento della pavimentazione nell’anello viario di confine; - il completamento dell’impianto e della rete di riscaldamento attraverso la riqualifica della centrale termica; - la riparazione dei tetti che causavano continue infiltrazioni delle acque piovane negli appartamenti dell’ultimo piano; - la realizzazione di servizi sportivi e ricreativi per l’aggregazione di giovani ed anziani. Gli abitanti del quartiere S. Ambrogio II furono invece vittime di una vertenza tra la ditta costruttrice e lo IACP, in quanto i lavori che furono eseguiti non risultarono conformi a quanto previsto nell’appalto e quanto sancito negli accordi stipulati tra le parti. Oltre ai problemi citati precedentemente per il S. Ambrogio I, la popolazione di questi stabili lamentava problemi di igiene e sicurezza, compromessi dalla presenza di orti abusivi e baraccopoli edificate nelle vicinanze delle aree destinate alla

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Fig. 17 I due quartieri erano all’epoca collocati in aree di campagna.

coltivazione. Il problema venne superato con l’attuazione di un piano che prevedesse l’abbattimento delle proprietà abusive in favore della costruzione di recinzioni per quelle in regola. Molto pressante fu anche la domanda di un servizio di sicurezza nel quartiere sia da parte della polizia che della vigilanza urbana; i cittadini mandarono diversi esposti alle autorità per lamentare il disagio. La presenza di ampi spazi verdi favoriva l’aggregazione di giovani, sia appartenenti al quartiere che provenienti da altre parti della città, dediti ad attività tali che, oltre a fare uso di droga, molestavano i cittadini attraverso scippi, furti e atti vandalici di diversa natura. “All’ingresso della scuola elementare di via De Nicola si radunavano infatti gruppi di giovani emarginati che, provenienti anche da altre zone di Milano, ne combinavano di tutti i colori”6 riporta Iosa nel quaderno. Il problema della sicurezza iniziò con il tempo ad essere avvertito da grande parte della popolazione dell’intera circoscrizione travalicando i meri confini dei due quartieri. Venne richiesto con forza dal consiglio di zona un Comando di Vigilanza Urbana, che si insediasse nell’edificio 6. Ibidem, p. 199.

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precedentemente occupato dalla ex-scuola materna di via San Vigilio. Il servizio richiesto doveva essere completo e a servizio della totalità della zona. I due quartieri erano ben collegati tra di loro e in continuità con il sistema viario esistente. Il problema più consistente era il trasporto pubblico; i quartieri erano infatti collocati in un’area all’epoca marginale della città e i collegamenti con il centro non erano sufficienti a soddisfare le esigenze degli abitanti. L’unica linea presente era l’autobus 74, che collegava i quartieri, dopo averli con un lungo percorso, alla prima fermata disponibile della linea 2 della metropolitana, Porta Genova. Il problema del servizio fu la scarsa frequenza dei trasporti da cui ne derivava il sovraffollamento durante il loro utilizzo. I cittadini, nell’attesa dell’istituzione della nuova linea 71, chiedevano con urgenza un collegamento con i tram che percorrevano le strade adiacenti al quartiere. Le due linee di autobus sono ancora oggi a servizio della zona collegandola ai maggiori servizi circostanti e al centro città. Attraverso questa legge fu reso possibile l’acquisto di Durante gli anni Novanta, più precisamente nel 1993, fu emessa dallo stato la Legge 560, che definiva le “Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica”7. Attraverso questa legge fu reso possibile l’acquisto di circa 700 abitazioni del quartiere Sant’Ambrogio I da parte dei sui inquilini che abitavano gli appartamenti da almeno un quinquennio e che fossero in regola con i pagamenti, con una riduzione del prezzo di vendita compreso tra il 44% e il 50%. Importante elemento di riqualificazione delle infrastrutture fu l’inaugurazione della fermata della Metropolitana Famagosta. Dal 1 novembre 1994 il capolinea della metropolitana fu prolungato da Romolo fino a questa stazione e rimase tale fino al 2005, anno in cui la tratta venne prolungata ulteriormente fino ad Abbiategrasso. Approfittando di tale progetto, nello stesso anno fu realizzato un grande nodo di scambio ferrogomma per automobili ed autolinee extraurbane che collegasse Milano con il sud della Lombardia. Attraverso questi collegamenti, sia con il centro della città che con il resto della regione, la zona acquistò sempre più rilievo 7. Legge 24 dicembre 1993, n. 560.

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Fig. 18 Foto area dei due quartieri negli anni Novanta.

rispondendo alle esigenze espresse dalla popolazione del quartiere. La distinzione tra i due insediamenti si ridusse con il passare del tempo; i cittadini non si considerarono più due diverse comunità indipendenti, ognuna con i servizi propri, ma come parte di un univo quartiere. Negli anni Duemila l’amministrazione pubblica condivise la programmazione elaborata nel precedente decennio in favore di una nuova visione e riqualificazione della zona, rendendo i cittadini partecipi diretti dei processi decisionali attuativi. Dal 2003 l’intera area del quartiere è stata fornita di adeguati collegamenti per le nuove modalità di riscaldamento, sfruttando la stessa centrale elettrica all’interno del quartiere lasciata in disuso e non funzionante per parecchi anni. L’attuazione di tali misure ha favorito il risparmio energetico, i cui proventi sono stati impiegati per finanziare il miglioramento di servizi e delle infrastrutture. Nel 2010 venne attuato un progetto di riqualifica dei due quartieri che prevedeva un incremento degli alloggi di edilizia sociale per privilegiare l’ingresso di popolazione giovanile.

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Il progetto prese il nome di Progetto Foyer e intendeva attuare sperimentalmente nel quartiere Sant’Ambrogio il “modello foyer” favorendo l’autonomia abitativa dei giovani in ricerca attiva di occupazione, degli studentilavoratori e dei lavoratori con età compresa tra i 18 e i 30 anni. A queste persone fu dunque offerta una soluzione abitativa di buona qualità a costi calmierati, integrata con una serie di servizi di sostegno. All’interno del quartiere fu prevista, la ristrutturazione di alcune unità immobiliari inutilizzate (ex portinerie) di proprietà del Comune di Milano, che avrebbero consentito di realizzare 32 posti letto e un’ampia dotazione di servizi annessi, sia per i fruitori del servizio abitativo, sia per gli abitanti del quartiere. “La logica è quella di creare un mix sociale all’interno dei quartieri o di uno stesso stabile per evitare i ghetti. L’Amministrazione comunale ha già sperimentato questo sistema, ad esempio, con l’immobile di piazzale Dateo e le nuove case di via Appennini, inaugurate lo scorso dicembre. Vogliamo che anche il quartiere Sant’Ambrogio ritorni ad essere un centro vitale, in cui si mescolano famiglie di ceto medio, anziani, studenti universitari”8 spiegò l’Assessore alla Casa, Gianni Verga, durante una seduta di Giunta del 10 luglio 2010. Dalle indagini condotte per la compilazione delle schede NIL (nucleo di identità locale) del Piano di Governo del Territorio, è possibile recuperare utili informazioni riguardo la popolazione residente, i servizi presenti e programmati, i problemi, le potenzialità e le trasformazioni in atto sul territorio. I due quartieri appartengono al NIL numero 47, identificato con il nome di Barona. Esso calcola la presenza una popolazione complessiva di 16.804 abitanti, di cui il 13,7% minorenni (0-17), il 16,2% giovani adulti (18-34) e il 31,5% anziani (65+). Il dato preoccupante è la previsione della tendenza calcolata per il 2034, che vede una riduzione del 10,1 % della popolazione totale e una diminuzione dei giovani del 15,1% con un conseguente aumento delle persone anziane (over 85) del 93,2%9. La vocazione degli edifici dell’area e del quartiere è rimasta 8. Atti della seduta di Giunta del 10 luglio 2010. 9. I dati sulla condizione demografica di fonte anagrafica SISI Milano (31/12/2015).

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invariata negli anni, infatti, ancora ad oggi la destinazione d’uso degli edifici è principalmente residenziale, con il 51,7%, e i restanti si dividono nell’ordine in uso produttivo, di servizio, commerciale ed infine terziario10. All’interno dei due quartieri si nota ancora oggi la forte presenza di servizi per la cittadinanza nel campo dell’istruzione, del sociale e del commercio. I due quartieri contano la presenza di sei scuole comprendenti tutti i livelli d’istruzione: un micronido, due scuole dell’infanzia, due scuole primarie e una scuola media inferiore. Il problema più attuale per questo servizio risiede nelle strutture che lo ospitano; si tratta, in alcuni casi, di edifici ormai fatiscenti e obsoleti, in alcuni casi oggetto di riqualifica e in altri di chiusura, come nel caso della scuola primaria del quartiere Sant’Ambrogio I. Anche i servizi per il sociale sono rimasti numerosi e si specializzano principalmente per famiglie, minori e anziani, rispecchiando pienamente le esigenze degli abitanti dell’area. Si tratta di un Servizio Comunale di accesso per minori, di un Servizio territoriale per minori e di due Servizi di Assistenza domiciliare per anziani. Quest’ultimo inoltre ospita ancora oggi due mercati rionali, uno collocato al centro del quartiere e uno all’estremo di collegamento con il quartiere Sant’Ambrogio II. I mercati sono entrambi perfettamente funzionanti e la loro presenza è molto apprezzata dagli abitanti, che lo considerano uno dei maggiori spazi di aggregazione. Le problematiche rilevate attraverso l’analisi dei media, carta stampata e web, e degli incontri del Consiglio di Zona, riguardano principalmente la mancanza di iniziative e luoghi per il tempo libero; la presenza di luoghi o strutture dove i giovani possano riunirsi e l’organizzazione di iniziative culturali che permettano e incentivino l’affluenza della popolazione esterna all’area. Per la sua risoluzione, le due potenzialità che andrebbero sviluppate sono la riqualifica del Parco Teramo e la creazione di circoli culturali e sociali. Essendo l’area nata con la vocazione di chiaro indirizzo residenziale popolare, ha preso piede negli ultimi anni la costruzione di abitazioni a basso prezzo e residenze assistenziali, data la centralità e imponenza dell’ospedale San Paolo. Nonostante il passare degli anni, il quartiere ha mantenuto 10. Ibidem

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il suo carattere popolare. Camminando tra le strade e i giardini dei due quartieri si percepisce un sentimento di comunità, un’idea di vicinato, che lo rende un luogo molto piacevole. La popolazione residente è prevalentemente anziana, e può vantare la presenza di abitanti trasferitisi nel quartiere sin dalla sua edificazione. Questa parte di popolazione non lamenta particolari problemi in quanto abituata ad usare i servizi presenti nel quartiere da numerosi anni. I luoghi da loro più frequentati sono senza dubbio la parrocchia di San Giovanni Bono e il non molto distante Mercato rionale. Gli anziani del quartiere sono noti a tutta la popolazione residente avendo creato negli anni stretti rapporti di amicizia e conoscenza. Il problema maggiormente sentito sia dalla popolazione anziana che dalla restante, è la mancanza di alcuni servizi primari quali ipermercati per la grande distribuzione, oggi raggiungibili solo attraverso l’impiego di mezzi propri. La scelta di risiedere nell’area si basa principalmente sulla presenza dei numerosi servizi scolastici offerti oltre alla convenienza e accessibilità dei costi delle abitazioni. Gli abitanti giunti nei primi anni Duemila, rilevano invece altri problemi; il primo tra tutti è il progressivo e lento abbandono in cui gli enti stanno lasciando il quartiere, che dopo oltre cinquanta anni necessita di straordinarie manutenzioni. Tra i più considerevoli e apprezzati servizi, invece vi è il centro d’aggregazione giovanile Barrio’s. Si tratta di un centro nato nel 1997 dall’esperienza di Don Gino Rigoldi, presidente di Comunità Nuova onlus, già presente sul territorio al quale il comune di Milano che ha concesso l’area . Il Barrio’s è uno dei più attivi centri di aggregazione giovanile di Milano, collocato in una zona in cui i giovani vivono frequentemente una situazione di marginalità e disagio, diventando un punto di riferimento non solo per la comunità locale, ma per l’intera città. Gli abitanti di entrambi i quartieri, nonostante il passare degli anni, sono ancora una comunità viva, che rispecchia il carattere popolare e che sa accettare le difficoltà, i problemi e i cambiamenti della società che cambia.

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Conclusioni La ricerca condotta sull’edilizia residenziale popolare, partendo dal dopoguerra fino alla fine degli anni Sessanta, ha permesso di comprendere ed individuare i cambiamenti architettonici che quest’ultima ha subito in quasi tre decenni per ragioni economiche, sociali e politiche. Il tema dell’edilizia economico-popolare, e più nello specifico della “casa per tutti”, ha visto questi anni come uno più floridi periodi di sviluppo teoretico di nuovi modelli edilizi e di sperimentazione sociale. Lo studio di questa disciplina ha implicato una sua trasposizione pratica, avvenuta, in quegli anni, attraverso la costruzione di numerosi quartieri nella periferia di Milano, ed introducendo, talvolta, modelli non pienamente adeguati. Ben presto, infatti, venne giudicata superata la proposta di realizzare grandi insediamenti autosufficienti e furono abbandonate le ricerche condotte negli anni Cinquanta, optando per il recupero di dimensioni urbane più limitate, capaci di favorire virtuosi rapporti con il territorio metropolitano. A distanza di alcuni decenni dalla loro realizzazione, ci si chiede, oggi, se tali soluzioni siano compatibili con gli stili di vita attuali, interessati da profondi mutamenti della politica sulla casa e della stessa composizione e condizione sociale della popolazione. Negli anni Duemila il modello esige di un’attualizzazione e quindi il problema della casa torna a presentarsi, vedendo come unica soluzione quella di aggiornare e riadattare i complessi residenziali e i quartieri a nuove tipologie di utenza.

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Bibliografia e sitografia Camillo Ripamonti, Il problema della casa, La Cromotipo, Milano, 1954. Bontadini Virgilio, Apirazioni e propositi, in “Edilizia popolare“, 1961, n.38 (gennaio-febbraio), p. 1-2. Guarnerio Giovanna, Il cantiere sperimentale italiano di Milano-Forlanini, in “Edilizia popolare“, 1961, n.39 (marzo-aprile), p. 11-16. Mariani Leonardo (a cura di), Urbanistica, in “Edilizia Popolare”, 1961, n.40 (maggio-giugno), p. 39-41. Paoletti Alfredo, Aspetti generali dell’igiene dell’abitazione e fabbisogni dell’edilizia popolare, in “Edilizia popolare“, 1961, n.42 (settembre-ottobre), p. 28-33. Colombo Guido, La pianificazione territoriale urbanistica nell’esperienza lombarda, in “Edilizia popolare“, 1962, n.48 (settembre-ottobre), p.63-71. Bini Vittorio, La periferia di Milano nell’indagine della “Commissione per il coordinamento dei servizi e dei lavori pubblici in periferia“ eseguita dalla Ripartizione dei SS. e LL. PP. del comune, in “Edilizia popolare“, 1963, n.51 (marzo-aprile), p. 17-32. Erba Antonio, Il nuovo quartiere Chiesa Rossa dell’I.A.C.P. di Milano, in “Edilizia popolare“, 1963, n.52 (maggiogiugno), p.47-49. Villa Mario, Attuali problemi dell’edilizia popolare, in “Edilizia popolare“, 1963, n.53 (luglio-agosto), p. 3-4. Bini Vittorio, Dislocazione dei nuovi insediamenti, in “Edilizia Popolare”, 1964, n.56 (gennaio-febbraio), p.2528. Gennuso Ricciotti, Prospettive (Edilizia 64), in “Edilizia popolare“, 1964, n.58 (maggio-giugno), p.19-26.

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Bibliografia e sitografia

Stillo Saverio, Nel movimento migratorio di Milano una situazione nuova ed opposta a quella del “boom“ economico, in “Edilizia popolare”, 1965, n.63 (marzoaprile), p. 15-18. Lampredi Luigi, Il piano intercomunale milanese, in “Edilizia Popolare”, 1965, n.64 (maggio-giugno), p. 3-8. Erba Antonio, I nuovi grandi quartieri prefabbricati a Milano, in “Edilizia Popolare”, 1965, n.64 (maggiogiugno),p. 9-24. De Gregorio C., Stabilini M., Le prime esperienze dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Milano in materia di edilizia industrializzata, in “Edilizia popolare“1965, n.65 (luglio-agosto), p.3-10. S.a, Inaugurati dal sottosegretario on. De’ Cocci i primi quartieri prefabbricati dell’I.A.C.P. di Milano, in “Edilizia Popolare“, 1965, n.66 (settembre-ottobre), p. 7-13. De Gregorio Clemente, L’edilizia industrializzata nelle prime realizzazioni dell’I.A.C.P. di Milano, in “Edilizia Popolare“, 1966, n.73 (novembre-dicembre), p. 20-34. Dezani Mario, Il fabbisogno di alloggi, in “Edilizia Popolare”, 1967, n.67 (novembre-dicembre), p.3-4. Bini Vittorio, Ricerca della posizione dei centri comunitari della periferia di Milano, in “Edilizia Popolare”, 1967, n.67 (novembre-dicembre), p.22-23. S.a, I 60 anni di attività dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Milano, in “Edilizia popolare“, 1970, n.92 (gennaio-febbraio), p. 27-32. Maurizio Grandi, Attilio Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Zanichelli Editore, Bologna 1980. Antonio Iosa (a cura di), Quaderno Bianco. I quartieri della zona 16, Comune di Milano, Milano, 1984.

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Bibliografia e sitografia

Carla Bodino (a cura di), Arrigo Arrighetti Architetto, Arti Grafiche Matelli, Milano, 1990. Raffaella Pugliese (a cura di), La casa sociale. Dalla legge Luzzati alle nuove politiche per la casa in Lombardia, Edizioni Unicopli, Milano, 2005. Raffaele Pugliese (a cura di), La casa popolare in Lombardia 1903-2003, Edizioni Unicopli, Milano, 2005. http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture900/ schede/p4010-00258/ (data ultima consultazione: 18 agosto 2017) http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/news/ primopiano/archivio_2007-2011/casa/casa_accordo_ comune_aler_quartiere_sant_ambrogio (data ultima consultazione. 18 agosto 2017)

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Indice delle figure Fig. 1: http://www.ulianolucas.it/percorsi/68-un-anno-diconfine/#gallery/168/148 Fig. 2: Camillo Ripamonti, Il problema della casa, La Cromotipo, Milano, 1954, p.116. Fig. 3: Camillo Ripamonti, Il problema della casa, La Cromotipo, Milano, 1954, p.116. Fig. 4: Mariani Leonardo (a cura di), Urbanistica, in “Edilizia Popolare”, 1961, n.40 (maggio-giugno), p. 39-41. Fig. 5: https://i.pinimg.com/originals/e4/7e/92/ e47e92a3e9215a9ab73ebeea43c048b9.jpg Fig. 6: Bini Vittorio, La periferia di Milano nell’indagine della “Commissione per il coordinamento dei servizi e dei lavori pubblici in periferia“ eseguita dalla Ripartizione dei SS. e LL. PP. del comune, in “Edilizia popolare“, 1963, n.51 (marzo-aprile), p. 18. Fig. 7: http://3.bp.blogspot.com/-wybxbQ5VUBw/ ULY3agIdV6I/AAAAAAAAAAc/NeU7Ff-Vwlc/w1200-h630p-k-no-nu/COPERTINA.jpg Fig. 8: http://www.architetti.san.beniculturali.it/ architetti-portlet/showImage/fedora?pix=san. dl.SAN:IMG-00006618/DS_IMAGE_1 Fig. 9: https://c1.staticflickr.com/4/3067/2665252797_ cd964136bd_b.jpg Fig. 10: http://www.ulianolucas.it/percorsi/68-un-annodi-confine/#gallery/168/138 Fig. 11: http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/ schede/IMM-5w050-0000077/?view=ricerca&offset=7 Fig. 12: Carla Bodino (a cura di), Arrigo Arrighetti

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Indice delle figure

Architetto, Arti Grafiche Matelli, Milano, 1990, p.102. Fig. 13: Carla Bodino (a cura di), Arrigo Arrighetti Architetto, Arti Grafiche Matelli, Milano, 1990, p.99. Fig. 14: Carla Bodino (a cura di), Arrigo Arrighetti Architetto, Arti Grafiche Matelli, Milano, 1990, p.99. Fig. 15:Carla Bodino (a cura di), Arrigo Arrighetti Architetto, Arti Grafiche Matelli, Milano, 1990, p.99. Fig. 16: Carla Bodino (a cura di), Arrigo Arrighetti Architetto, Arti Grafiche Matelli, Milano, 1990, p.102. Fig. 17: http://www.ulianolucas.it/wp-content/ gallery/68-un-anno-di-confine/01_antologica_0052.jpg Fig. 18: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/1/12/ Milano%2C_Quartiere_Sant%27Ambrogio_02.jpeg

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