I ricordi del nonno per non dimenticare il passato

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“I RICORDI DEL NONNO� Per non dimenticare il passato.

Da qui parte la storia dei ricordi della mia famiglia. (Foto della bisnonna materna Antonia, della nonna Carmen, del nonno Vittorio e di mio padre Teodoro) Datata 1915

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Premessa Da una citazione di uno scrittore “La storia deve essere solo un pretesto, tutti noi dovremmo scrivere. La memoria non si può buttare via, va imbalsamata per soddisfare la curiosità di chi verrà dopo”.

Quante volte ho pensato di scrivere la storia della mia vita vissuta con i miei cari, genitori, figli, amici, parenti e conoscenti, ma tutte le volte mi sono fermato ai primi ricordi, sembrava che gli stessi non trovassero lo spazio o un pertugio per uscire dalle recondite e celate parti della mia memoria. Oggi finalmente mi si è aperto una finestra, nell’ormai offuscato mondo della memoria, colmo di situazioni, più o meno piacevoli, che la vita mi ha consegnato. Perché oggi, perché ieri sera ho avuto il piacere di assistere a un incontro con uno scrittore alpinista e sentendolo parlare in modo semplice, come peraltro solo un montanaro può fare, ho scoperto che per raccontarsi non servono particolari virtù ma basta essere attenti ai suggerimenti che la nostra memoria ci invia quotidianamente ma che noi, oppressi dalle problematiche di ogni giorno, non riusciamo ad ascoltare. L’altra considerazione che mi ha colpito, del suo intervento è, che raccontare deve essere fine a se stessi e fatto per tramandare le tue esperienze ai figli e forse ancor più ai tuoi nipoti i quali possano, leggendo, trarre spunto dalle esperienze da te descritte. Sentendolo parlare ho capito, anche se la mia esperienza montanara si limita ai brevi periodi di vacanza estiva o invernale nelle meravigliose valli e montagne delle Dolomiti, che forse basta sapere ascoltare quello che abbiamo in noi per riuscire a descriverlo sulla carta. Pensandoci bene, sin da giovane, quando avevo la fortuna di andare in montagna, mi piaceva perdermi nei boschi e salire su modeste cime per fermarmi a contemplare e pensare a quante cose belle circondava, spaziando, l’orizzonte. Ora immagino di trovarmi, magari sulla cima del Boè in Val Badia, salita qualche anno fa e che più mi ha impressionato per la vastità delle vedute spaziando dalla magnificenza della Marmolada, quello del Civetta oppure delle Tofane o dell’Antelao. Voltarsi e ammirare il Gruppo del Sella e il Sassongher mentre, rivolgendo lo sguardo verso il basso, puoi vedere laggiù, piccolo-piccolo, il paese di Corvara da dove eri partito molte ore prima. Ed è lì, davanti a quello scenario, che più mi ha fatto riflettere sulla bellezza della natura ed è proprio lì, dove l’occhio vaga tra cielo e terra e dove ci si sente sempre più vicini a Pagina | 2


Dio, che posso cominciare a fare defluire i lontani ricordi che mi hanno permesso di vivere e amare le cose terrene e confrontarmi perciò con la realtà presente. Si ora mi trovo lassù, solo in cima della “mia” montagna, maestosa e sempre più bella di quanto io possa immaginare, circondato solo, da nuvole che basse all’orizzonte, si estendono all’infinito nel campo della mia visuale ed è da lì che inizia il viaggio nei ricordi della mia vita. Mi sono chiesto allora cosa scrivere e perché e poi mi sono fatto una serie di domande tra le quali, una in particolare, mi ha permesso di identificare il percorso. La domanda era la seguente: come avrà vissuto il nonno nel rapporto con i suoi figli, con la nascita del suo nipote e cosa avrà pensato quando ha saputo che il male incurabile, che lo aveva colpito, gli concedeva pochi mesi di vita? Ho provato a fare un parallelo con la mia esperienza di padre e nonno ed ho immaginato “lui” felice di avere avuto due figli e contento di vivere e passare con loro momenti buoni e, momenti amari attraverso la prima guerra mondiale. Era stato inviato, come soldato, sul fronte a combattere con gli austriaci contro gli italiani e dove, ferito, era stato internato a Wagna mentre, la nonna e mio padre, erano stati inviati, esuli, a Torino al servizio di gente benestante. La nonna mi raccontava spesso di quel periodo da esule a Torino dove, presso quella ricca famiglia, curava i loro figli e badava, nello stesso tempo, alla crescita del suo bambino, mio padre Teodoro “Doro” (che al tempo aveva circa quattro anni), e dove spesso era invitata alla loro tavola, per fare vedere ai ricchi e viziati figli di quella famiglia, come si faceva a mangiare con buon appetito.

Papà Teodoro “Doro” a quattro anni

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Figurarsi, vista la fame che si trovava, quella era una manna per lei la quale non aspettava altro che arrivasse l’ora dei pasti per mettersi a disposizione, pronta a fare il suo “dovere” e, armata di forchetta e coltello, iniziava lo show. Finita la grande guerra e dopo il rientro a Monfalcone, mia nonna da Torino e mio nonno da Wagna, avevano potuto comprare una casetta, nella via delle baracche di Wagna, dove il nonno aveva ricominciato a vivere serenamente con la famiglia potendo finalmente abbracciare l’adorata moglie Carmen e il suo primo figlio “Doro” e riprendendo l’attività, già iniziata da giovane con suo padre (il mio bisnonno), di pescatore e più tardi, nel 1923, con la nascita del secondo figlio “Rino”, vedere la famiglia crescere e vedere il suo primogenito sposarsi e donargli la felicità di diventare nonno. Ebbene, per la legge del contrappasso, provo a fare una similitudine con la mia vita perché solo da adulti e con esperienze simili a quelle da lui passate, posso immaginare quali fossero i suoi pensieri nei confronti dei figli e dei nipoti. Sono certo che la felicità che ho provato io nell’avere i miei due figli, nel vivere con loro giorno, dopo giorno pur con le difficoltà che a volte la vita ti può riservare nel lavoro o nella salute, nel vederli vicini, sorridenti, prenderli per mano, abbracciarli, parlare con loro credo che sia stata una delle cose più belle che la vita ti può donare. E poi ecco che all’improvviso questi diventano ragazzi e poi adulti e quindi uomini e tu sei lì che fai di tutto per accompagnarli attraverso la vita cercando di trasmettere le tue esperienze, i tuoi timori e soprattutto cercare di capire se hai fatto bene il tuo dovere di padre. Ancora non basta perché quando sei giovane non riesci a riflettere su quello che i tuoi genitori ti hanno dato, non capisci l’amore che loro devono avere avuto per cercare di inculcarti l’educazione, il rispetto verso gli altri, il credere in te per farti avere una vita migliore molto più di quanto loro hanno potuto avere prima dai loro genitori, ecco che allora li trovi già grandi sposati e con una famiglia da mantenere e dei figli da crescere. E la catena della vita che ritorna a te quando vedi nascere i tuoi nipotini ed è allora che ritorni a tuo nonno, a tuo padre e cominci a capire che anche loro hanno amato, voluto bene ai loro figli, molto probabilmente con maggiori difficoltà di vita, ma pur sempre ricordando che l’amore è il seme della vita. Ritorno perciò al nonno a quando ha avuto il suo nipotino da stringere tra le braccia, sono certo che lo avrà fatto con lo stesso sentimento che oggi mi permette di volere bene ai miei due nipotini Sofia e Simone. Ed è in questo momento che riesco finalmente a sentire il tormento del nonno nel sapere che la vita con il suo adorato nipote sarebbe presto finita, purtroppo non ho avuto sentore di quel dolore poichè troppo piccolo perché capisca ma, vedendo attorno a me i miei figli e i miei nipotini posso immaginarmi il dolore dell’abbandono.

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Perciò, quale migliore medicina può fare guarire quello struggente ricordo se non trasmette ai figli e ai nipoti quello che tuo nonno ha passato e che forse, se fosse vissuto più a lungo avrebbero senz’altro cercato di trasmettere ai suoi figli e ancor più al suo nipote. E bene allora, che i ricordi incomincino a fiorire, per permettermi di descrivere i miei pensieri che altro non sono quelli che mio nonno o mio padre avrebbero voluto scrivere.

C’era una volta, tanti e tanti anni fa’ in un paese, situato tra’ il mare e il carso, viveva una famiglia di pescatori...

Sono nato nel 1939, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, eravamo nel periodo del fascismo e, alla mia nascita pesavo 5 kg e mezzo e, per questa ragione ma anche perché ero un bel bambino, il regime decise di premiare la mia famiglia con un compenso di 500 lire, che per il periodo erano dei bei soldi e di mettere la mia foto sul giornale locale in modo da fare vedere all’opinione pubblica tutti i bei figli che nascevano durante il regime fascista.

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‘’ La mia città ’’ Il primo flash che si accende mi riporta indietro nel tempo a quando ero molto piccolo. Era l’anno 1943 e avevo quattro anni. Ricordo che abitavo con la mia famiglia, il papà Teodoro (“Doro”) detto anche il Moro per la sua carnagione olivastra e i cappelli ricci e corti come quelli di un africano, la mia mamma Ida, mio nonno Vittorio, mia nonna Carmen e mio zio Vittorio (Rino) in una semplice casa in una via denominata, delle “baracche di Wagna”.

Monfalcone

La via si trova alla periferia della mia cittadina, Monfalcone, circondata a nord est dalle propaggini del carso e dove si erge imperiosa, la Rocca, simbolo dell’antica storia che la cittadina ha avuto nel tempo assieme ad alcuni simboli, ancora oggi visibili, che sono i castellieri. Questi sorgono, sin dalla preistoria, sulle cime delle colline carsiche tutt’attorno alla Rocca quasi a farle da guardiani, mentre a sud è delimitata dal mare che arriva sin dentro la città dove, con il suo porticciolo, ci si trova nel punto più a nord del Mediterraneo. La via inizia dal ponte dei “Draghi”, cosi chiamato, perché un tempo lo stesso aveva quattro colonne poste ai quattro angoli e sormontate da quattro draghi. La stessa prosegue in direzione est-ovest sino ad arrivare alla ferrovia che separava, la allora periferia, con i campi di “Aquilio” l’agricoltore proprietario di buona parte, dei terreni là confinanti.

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Accanto alla ferrovia passava un piccolo canale per l’irrigazione dei campi, dove noi piccini ci recavamo a fare il bagno, accompagnati dalle rispettive madri. Queste, provvedevano prima a chiudere, in prossimità dei tombini di diramazione, con una tavola normalmente usata per lavare i panni, facendo sì, che l’acqua, si potesse alzare fino a una misura sufficiente per saltellare e fare il bagno. Intanto loro, dall’altro lato, lavavano i panni con lo scuro sapone che si poteva trovare, durante la guerra, sbattendo con forza, sul bordo di cemento, i poveri panni sporchi. Monfalcone era conosciuta, già da allora, per i cantieri navali, dove erano costruite delle meravigliose navi che solcavano tutti gli oceani ed erano l’orgoglio della nostra cittadina anche perché davano lavoro alla maggior parte dei suoi abitanti. La cittadina, in quel tempo, oltre al cantiere, il porto “Rosega”, la Solvey e poche altre fabbriche (della “Pegola”, Scatolificio, Cotonificio, ecc) aveva anche una fiorente flotta di pescatori che erano, per la maggior parte, collocati nella zona della marina “Vecia” che si trovava dopo il Porto Rosega e prima della diga foranea.

I pescatori erano riuniti in una cooperativa, fondata nel 1932 e composta inizialmente da circa una quarantina di soci che si riuniva annualmente in assemblea (sopra è riportata la foto dell’assemblea del 1933 e il nonno Vittorio è il terzo della fila più alta, in piedi da sinistra) e aveva lo scopo primario quello di fare, nel periodo invernale, la tratta degli “scievoli” (muggini) che era fatta nel bacino interno del cantiere navale, dove sbocca il canale del Brancolo. Si tirava una grande rete, detta Trezza, che chiudeva trasversalmente il bacino quindi si gettava un’altra rete detta “Tratta” (la Tratta, lunga quasi un chilometro, fu costruita in un magazzino situato nel centro storico di Monfalcone, dietro il campanile, quindi portata in bacino e lì calata durante la notte quando la maggior parte dei pesci era entrata all’interno Pagina | 7


dove le acque erano più calde) e piano-piano si tirava per i due lati, con un buon numero di pescatori per lato, e lentamente questa era trascinata verso terra mentre altri pescatori, su delle barche accompagnavano, dal centro, l’avanzare della rete. Quando la rete formava un grande sacco, si procedeva, accerchiandola con le altre barche, alla raccolta del pesce che ormai stava ribollendo al suo interno, e con le “Voleghe” (Guadino) si buttava all’interno delle barche oppure in una grande chiatta che era prestata dai cantieri navali così come i palombari che s’immergevano per liberare la rete ogni qualvolta s’incocciava sul fondale. La tratta permetteva ai soci della cooperativa, in funzione delle quote sociali detenute, di racimolare in quegli anni di miseria un buon introito, tanto che permise anche al nonno Vittorio di comprare la baracca di Wagna, dove poi sarei nato io. Mediamente si raccoglieva circa 18-20 vagoni di pesce che corrispondevano a circa 18002000 quintali e che una volta venduti su tutto il territorio italiano, davano un bel dividendo fra tutti i soci il che permetteva loro, quindi, di passare un buon Natale con le famiglie.

I pescatori erano quasi tutti sistemati nella “Marina Vecia”, dove stazionavano i casoni che erano costruiti con tavole di legno e con il tetto ricoperto di lamiera ondulata e, davanti a ognuno di essi, c’era un pontile di legno sistemato su palafitte che permetteva loro di salire più facilmente sulle barche a esso ormeggiate.

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Ogni tanto, tra un casone e l’altro, c’era un grande focolare con sopra un enorme calderone, sempre ricoperto di fuliggine che serviva per tingere le reti con il “pais”per dare loro maggiore resistenza all’acqua di mare, e che emanava un forte odore di legno marcio ma che, nell’ambiente dove si trovava, dava una particolare atmosfera, e un profumo e un tocco di operosità. Ricordo che le reti, quasi tutte di colore marrone, erano fatte di un filo di cotone intrecciato (spago) di vari diametri e tenute assieme da due cime di corda una posta sul lato superiore che sosteneva, attraversandoli, dei cilindretti fatti con il sughero (detti Suri) larghi un dito e di diametro variabile seconda la dimensione della rete e della posizione in cui si trovavano, e avevano lo scopo di fare galleggiare le reti mentre la corda, situata nel basso, era avvolta, ogni tanti centimetri, con una lamina di piombo lunga circa cinque centimetri e che serviva a tendere la rete verso il basso. La rete veniva (per quelli che avevano i soldi) comprata, ed era l’investimento più importante dopo la barca e il casone, ma per gli altri questa era costruita, direttamente da loro durante le lunghe giornate, prima di andare a pescare. Li vedo ancora distintamente chini, davanti al loro casone, a intrecciare la rete con il grosso gomitolo di spago accanto ai loro piedi e uno strano ago fatto di un legno elastico, credo fosse fatto di canna d’india e sul quale, in una feritoia, era inserito lo spago. Poi si faceva passare, intrecciandolo, nella rete già iniziata formando, di volta in volta, dei quadrati che erano fissati negli angoli con un particolare nodo. Si proseguiva, quindi, per giorni e giorni a intrecciare la rete fino a che, la stessa, non avesse raggiunto la lunghezza desiderata. Quasi tutti i pescatori avevano un soprannome quello del nonno, che poi si tramandò a mio zio Rino, era “Floca”, non so per quale ragione gli avevano affibbiato quel soprannome perché, in dialetto bisiaco, floca (flocia) voleva anche dire. “bugia”. Altri erano: Nanà, Paparuci, Cana, Palet, Gudo e tanti altri e così, quando li sentivi parlare, non capivi a che cognome facessero riferimento, ma per loro era normale chiamarsi cosi. Accanto a loro, talvolta, c’erano degli altri pescatori che si fermavano per fare loro compagnia, ma la loro discussione, normalmente era centrata sulla pesca o sul tempo ed era fatta di monosillabi. Così succedeva di sentire: “Ciao, Floca come te va oggi?”......................... dopo qualche tempo la risposta “va ben”………………………… altro silenzio e ancora “te gà vist el Paparuci che el gà la rede nova?” …………………… silenzio e poi “el gà fat i soldi”. Si continuava così mentre uno cuciva la rete l’altro, magari seduto su uno sgabello, fumava la “spagnoletta” la sigaretta fatta, da loro, tirando fuori dalla tasca dei bisunti pantaloni o, dal liso panciotto indossato sopra la camicia di flanella colorata, la scatoletta metallica cromata con, all’interno il tabacco trinciato. Sulla parte interna del coperchio e fissate con una molla, le sottili cartine che servivano per avvolgere il tabacco formando cos’ la “spagnoletta”. L’operazione ha sempre destato in me un senso di profonda meraviglia sull’abilità che questi possedevano nel preparare la sigaretta, alcuni con una sola mano, togliere la scatoletta dalla tasca, aprire il coperchio a scatto, estrarre una cartina, versarne sopra il tabacco e quindi Pagina | 9


arrotolarla su se stessa e, sempre con una mano, leccarla su un lembo per inumidirla e permettere così, alla stessa di incollarsi all’altro lembo. I più benestanti si distinguevano, oltre che per il casone più grande, la batela migliore e il numero di reti anche perché usavano fumare il sigaro “Toscano” che portavano sempre, in bella vista, nel taschino del panciotto e, quando si accendeva, facevano apparire una gran nuvola di fumo e, un intenso odore si spandeva per l’aria. Sento ancora tra il profumo del “pais” che colorava le reti, quello della marina che emanava un persistente odore di sale, di fango e di alghe, anche l’odore forte del tabacco o del sigaro, che quei duri personaggi di pescatori fumavano. Devo dire che il carattere dei pescatori, forse perché, per molte ore del giorno e della notte si trovavano da soli, non era quello di un oratore e quindi, di solito, preferivano stare in silenzio, davanti al loro casone, a lavorare riparando le reti oppure sistemando le stesse ad asciugare, per poi pulirle, o ancora preparare la “batela” (barca) per la prossima uscita in mare. I casoni sorgevano in una posizione più elevata rispetto al livello più alto della marea ed erano protetti dal mare aperto da un’isoletta di terra, lunga e stretta, formando quindi un canale che i pescatori, per uscire in mare, dovevano percorrere. Durante questa fase di passaggio, era divertente osservare l’atteggiamento degli altri pescatori i quali studiavano le mosse, con fare indifferente, di quelli che uscivano o quelli che si preparavano a uscire, facendo un’infinità di commenti. Tra le osservazioni più comuni c’era quella del tempo e qualcuno gridava loro “Toni ma dove andè se xè troppa bonassa” oppure “Giovani ma non te vede che la luna, la ga, un alon torno, varda che xe un bruto segno” e avanti di questo passo salvo poi rapidamente verificare chi era stato il primo a uscire e, se il pescatore era ritenuto tra quelli che più spesso ritornavano con le reti piene, armare anche loro la barca e partire incuranti di quanto sino a poco tempo prima avevano commentato. L’uscita dei pescatori avveniva normalmente all’imbrunire. Ricordo che a quei tempi quasi nessuno aveva il motore e pertanto si usciva a remi salvo, vento permettendo, issare le vele una volta fuori dal canale dei casoni e, dopo avere superato la “Diga Vecia”.

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Ogni barca (batela o batana) più, o meno lunga era condotta da due uomini che con i lunghi remi posti sulle “forcole” (scalmi) con buona lena vogavano per recarsi sul luogo dove gettare le reti che andavano, da qualche centinaia di metri dalla riva, fino a qualche chilometro. Questo voleva dire delle grosse sfacchinate ed era pertanto importante avere una bella e buona “batela”. Mio nonno Vittorio m’insegnava a riconoscere le varie batele, anche se erano quasi tutte identiche nella costruzione, ma come mi faceva notare, tutte erano, infatti, dotate di rinforzi trasversali detti costole tenute assieme sul fondo da una spessa tavola che correva, da poppa a prua, detta chiglia. Erano quindi poste, sempre in senso longitudinale, le altre tavole che andavano così a formare il fasciame esterno ed erano fermate sulla ruota di prora (prua), che era fatta con un massiccio pezzo di legno trapezoidale con delle scanalature sulle quali andavano a incassarsi le varie tavole del fasciame. La parte posteriore, detto specchio di poppa (puppa), era fatta sempre con tavolame più spesso e assumeva la forma della batela. Nella parte bassa era avvitata, una lama di acciaio che era poi fissata alla chiglia, con un perno verticale (agugliotto), che aveva lo scopo di sostenere il timone. Anche questo era costruito con tavole di legno tenute assieme a delle reggette di ferro larghe qualche centimetro, che lo avvolgeva tutto. Nella parte alta dello specchio di poppa era sistemato un altro supporto forato (agugliotto), anch’esso costruito in ferro, che permetteva di ricevere il perno che era stato sistemato, alla stessa distanza, sul timone. Sul timone, una volta sistemato sui supporti, era applicata la barra di manovra, ovviamente fatta in legno, che aveva da un’estremità una rastremazione che permetteva di poterlo facilmente impugnare mentre nell’altra estremità era stata ricavata una feritoia che era infilata nella parte alta del timone. Succedeva spesso, per la vetustita’ dei materiali e il prolungato uso della batela, che i supporti del timone di ferro, ormai arrugginito, cedessero con la perdita del timone, che era prontamente riacciuffato, ma con l’impossibilità di governare a barca. In questo caso si faceva uso, quando si andava a vela, di un remo che era appoggiato su un incavo ricavato sullo specchio di poppa e fungeva da timone di fortuna. Aveva, anche, la funzione di potere inserire, un remo per eseguire delle manovre in spazi ristretti, quando non era possibile utilizzare i due remi laterali, e vogando in un modo particolare, che solo la perizia dei pescatori permetteva loro di manovrare, si potevano compiere le manovre volute per accostare e per ormeggiare. La batela infine era dotata, da ambo i lati della cinta (mastra) e del trincarino: che era una tavola verticale accoppiata a un’orizzontale formando così una “T” rovesciata che correva in senso longitudinale e per tutta la lunghezza della barca e serviva per fissare le costole e chiudere il fasciame esterno.

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Sul trincarino erano ricavate delle asole, distanziate a seconda la necessità di vogare con un pescatore oppure con due o più uomini permettendo così di infilarvi le “forcole” per sostenere i remi e di cambiare, la loro posizione, secondo l’equipaggio che doveva manovrare. La costruzione della “batela” era ultimata sistemando, a circa metà della sua lunghezza, un’asse traversale di uno spessore circa cinque-sei centimetri e largo venti-trenta, fissato al fasciame della barca avvitandolo sul trincarino. Questo oltre che per sedere ed eventualmente per remare, aveva lo scopo principale di reggere l’albero della vela. Infatti, aveva a metà, tra i due fianchi del fasciame e al centro, un foro dove era alloggiato l’albero che poggiava sul fondo e sulla chiglia su di un grosso pezzo di legno con un incavo dove si faceva poggiare l’estremità dell’albero. Ovviamente il fasciame della batela veniva prima calafato, inserendo a forza, con un particolare attrezzo che assomigliava a uno scalpello senza affilatura, negli spazi tra una fila di tavole e l’altra, della stoppa imbevuta di pece. Una volta che tutte le tavole, che formavano il fasciame erano state sigillate, la barca era accuratamente verniciata con una pittura resistente alla salsedine (a quei tempi non c’era ancora l’antivegetativa come oggi si usa sulla carena delle imbarcazioni) con colori verdi o azzurri che, per motivi di economia, era acquistata in comune tra più pescatori. Questo comportava che le batele si assomigliassero tutte, giacchè la maggiore parte era pitturata con lo stesso colore. Per personalizzarle ogni pescatore dava una propria impronta e cosi si vedevano, batele tutte verdi con la coperta azzurra, oppure tutte azzurre, con la coperta verde. Comunque il tratto distintivo era sempre imposto dal nome che capeggiava sulla prua, da ambo i lati, ed era scritto a mano dallo stesso proprietario con una scrittura personalizzata e a volte molto discutibile in quanto, le lettere, erano vergate con una grafia stilizzata oppure con un’arabeggiante, con molti fronzoli e con lettere di vario colore. Il nonno possedeva due batele: una che a me piccino sembrava enorme, era di colore azzurro con la cinta di verniciata di blu’ e portava il nome della nonna “Carmen” (la scritta era stata fatta di colore bianco con una grafia regolare ma leggermente inclinata all’indietro tanto da sembrare che la forza del vento l’avesse inclinata come un albero durante un temporale). Era dotata di una grande vela trapezoidale, colorata di marrone e giallo con, nella parte più alta, disegnato un sole splendente, con i raggi infuocati. La prua aveva una copertura che permetteva di sistemarci sopra le reti, in precedenza preparate e pulite, ed era ricoperta di una specie di tela incerata che permetteva così all’acqua di non filtrare al di sotto e nello stesso tempo poterla facilmente pulire, ogni volta che si ritornava dalla pesca. La cinta, all’altezza del trincarino, aveva dei fori che permettevano all’acqua di colare fuori bordo, in particolare questi fori erano fatti, un po’ più grandi, in corrispondenza dell’incrocio tra il trincarino e la coperta di prua perché quando si raccoglievano le reti dal mare, l’acqua potesse scorrere e fuoriuscire rapidamente, senza che questa finisse dentro la barca. Pagina | 12


La batela più piccola portava il nome di “Maria” (non so se era dedicato al nome della Madonna, oppure era dedicata a qualcun’altra) ed era di colore verdino con la cinta verde scuro e il nome di colore blu (lo stesso che era servito per dipingere la cinta della batela più grande) e serviva normalmente per le battute di pesca più vicine alla costa ed era dotata di due soli remi e senza vela. Qualche volta, ed era una gran festa, il nonno, veniva a prenderci alla “Centrale” che era il porticciolo, ora ricoperto, dove sostavano le barche da diporto. Lì, c’era anche un molo, dove ormeggiavano le barche più grandi, quelle da trasporto che scaricavano merci varie. Lo ricordo che spingeva sui remi, assieme a mio zio Rino, risalendo la corrente del canale “Valentinis” per poi ormeggiare, al molo e facendo salire tutta la famiglia compresa, la nonna, mio papà “Doro” e la mia mamma, sempre riluttante a salire poichè aveva una paura matta del mare, e perché non sapeva nuotare. Ovviamente la festa, sempre durante l’estate, iniziava molto presto il mattino. In quell’occasione, infatti, ci si alzava verso le cinque del mattino con l’odore del caffelatte e delle frittate che la nonna preparava e sistemava, nel pane nero, per portarle con noi assieme al vino e all’acqua. Era quello il periodo in cui tutti assieme ci si muoveva per andare, a piedi, lungo la via sterrata, che dalle baracche di Wagna conduceva alla centrale, passando davanti all’osteria “da Genio” e raggiungendo il canale de Dottori per poi proseguire lungo le sue rive sino al porticciolo, dove c’era il nonno che aspettava con la barca “Granda”.

Lui, fermo sulla prua come un vichingo con, in mano, al posto dell’elsa di una spada, un remo e con i suoi baffetti tirati a lucido, la riga sui cappelli ben fatta e il colore del volto segnato dal sole al vento, ci salutava saltando a riva per abbracciare il suo nipotino mentre, mio zio Rino era al timone, pronto ad aiutare gli altri a salire. Con molta attenzione si facevano salire la nonna e mia madre, sempre titubante davanti allo spazio tra la barca e il molo, quindi saliva mio padre prendendomi in braccio mentre il nonno mollava gli ormeggi e, saltando bordo si poteva iniziare la navigazione, a ritroso e con la corrente in favore, procedendo verso l’uscita del canale per immettersi nel mare aperto. Alla voga si alternavano mio nonno, mio zio e mio padre che con buona lena ma con cadenza lenta e costante spingevano i lunghi remi, sistemati sulla “forcola”. Non appena si alzava la Pagina | 13


brezza mattutina, “el borin”, si alzava la grande vela colorata e, accompagnati dallo sciabordio della prua che fendeva l’acqua io, mi raccontavano i miei genitori, mi addormentavo nel giaciglio posto sotto la coperta della prua della batela. Mi svegliavo solamente quando questa si fermava al punto stabilito, che normalmente era “il Caregon”, che era uno dei segnali usati per la misurazione della velocità dei famosi aerei idrovolanti “Cant” che erano costruiti, da prima della guerra, presso il cantiere navale Cosulich. Veniva, infatti, gettata l’ancora di ferro arrugginito con le marre a uncino e legata alla barca con una cima e, ammainata la vela, si procedeva alla sistemazione del tendalino parasole, che era una parte di una vela vecchia, ed era allora che svegliandomi, potevo osservare ciò che mi circondava. Il sole non era ancora alto all’orizzonte, tutt’attorno c’era solo il mare con qualche vela in lontananza, qualche rara nuvoletta vagava per il cielo: un profumo di mare, di legno misto al sale la fresca brezza che faceva appena muovere il tendalino parasole ed era giunta l’ora di fare il bagno in mare. Iniziava allora il rito del convincimento da parte di mio padre nei confronti di mia madre la quale, già dal momento dell’imbarco era in stato di panico, ora doveva scendere dalla barca e toccare l’acqua. Nota bene che il nonno, sapendo quanto la mia mamma avesse paura del mare, aveva ancorato la batela in pratica facendola arenare a un banco di sabbia dove l’acqua era alta sì e no venti centimetri. Dando l’esempio, scendeva per primo cosi che mia madre potesse vedere la profondità dell’acqua e allora, aiutata da mio padre, scendeva lentamente sino a toccare il fondo sabbioso. Tutti erano in costume da bagno, meno la nonna che indossava ancora il suo vestito nero raccolto e legato alla cinta, tanto da lasciare scoperte le bianche gambe e, anch’essa scendeva a bagnarsi i piedi camminando per la rena, che in quel punto era di un bianco abbagliante, quindi toccava il mio turno di scendere aiutato dal nonno e cominciare a sgambettare nell’acqua calda con il solletico sotto i piedi che affondavano nella soffice sabbia. Posso immaginare la gioia dei miei genitori e dei nonni nell’avermi portato con loro su quella spiaggia e, mentre i più grandi si tuffavano in mare per nuotare, io ero felice perché mi sentivo protetto e coccolato dalla mia mamma e mia nonna la quale, mi faceva correre e rotolare nella calda e bassa acqua. Si saliva quindi sulla barca, alcuni stesi sulla prua per asciugarsi e prendere un po’ di sole, le donne invece, assieme a me, si mettevano al riparo sotto il tendalino parasole iniziando a preparare il frugale pasto. Era, quindi, sistemato sulla panca centrale, dove si ergeva l’albero con la vela arrotolata, stendendo una tovaglia colorata portata da casa e predisponendo le varie porzioni composte prevalentemente dalle frittate fatte dalla nonna, il pane qualche pomodoro, colto al mattino dalla nonna nell’orticello di casa, e i bicchieri accanto alle bottiglie di acqua e vino. Pagina | 14


Lì, in quel momento credo che, per i miei nonni e i miei genitori, nonostante che la guerra fosse iniziata da qualche anno, fosse uno dei momenti di maggiore pace e tranquillità, lontano dalla gente e soli in mezzo al mare con accanto, il nipotino al quale rivolgere tutta l’attenzione che solo un bimbo può richiedere, e cercare di dare a lui tutte le risposte alle domande, che il momento e lo scenario facevano sorgere. Si approfittava, di quella “comunione”, per parlare liberamente di vari argomenti soprattutto legati alla famiglia al lavoro o del nipotino che magari aveva bisogno di qualche vestitino o delle scarpette. Oppure c’era la necessità di procurarsi della farina o del lardo magari andando in qualche casolare di contadini, in “furlania” (la “furlania” per noi erano tutti i paesi che si trovano, oltre il fiume Isonzo e perché quasi in tutti si parlava la lingua friulana), barattandolo con il pesce che il nonno giornalmente pescava. Ricordo che in famiglia non si parlava molto, forse dovuto al fatto che la nostra discendenza, da molte generazioni, veniva da famiglie di pescatori e che certo non erano simbolo di alta capacità oratoria e perciò, nonostante ci si trovasse tutti assieme, la discussione aveva una durata piuttosto breve. Dopo avere mangiato e bevuto alcuni bicchieri di vino, ognuno conquistava un posticino, dove stendersi, chi al sole e chi come me sotto il riparo e all’ombra, e nel silenzio più assoluto, rotto solo dallo sciabordio dell’acqua sul fondo della chiglia o da qualche garrito di gabbiano, placidamente ci si addormentava. Ci si svegliava quando qualcuno scendeva in acqua per rinfrescarsi e allora riprendeva il fermento con la discesa dalla barca per andare nuovamente a fare il bagno e a nuotare. Si passava così la giornata nell’assoluta spensieratezza, dimentichi dei terribili eventi che la guerra stava portando, sognando un futuro di prosperità e di felicità ritardando il più possibile il momento del rientro per ritornare ad affrontare la dura realtà della vita quotidiana, ma il sole iniziava a scendere all’orizzonte e, se pur a malincuore, si doveva procedere sulla via di casa. Levata l’ancora e alzata la grande vela trapezoidale colorata ci si dirigeva lentamente verso l’entrata del porto, distante varie miglia e, comodamente seduti, alcuni sulla prua altri come me in braccio alla mamma seduti sul fondo della barca. La nonna, allora, iniziava a cantare seguita dalla mamma e quindi da tutti gli altri dapprima sottovoce e poi, quando la canzone era da tutti conosciuta, il volume aumentava cosi come saliva la sensazione di benessere per quella giornata passata all’aria aperta, lontano mille miglia, dai tristi fatti che stavano succedendo in Italia e nel Mondo. Si rientrava all’imbrunire con il sole ancora caldo all’orizzonte ma rinfrescati dalla brezza derivante dalla lenta andatura che la vela ci permetteva di avere e, una volta passati per la stretta imboccatura del porto, un nuovo senso di freschezza si aggiungeva perché, dentro il bacino portuale, l’acqua era più fresca poichè miscelata con le fredde acque che uscivano dal Brancolo, il canale d’irrigazione e di deflusso delle acque sorgive, che provenivano dai paesi più lontani.

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Per evitare che il nonno e lo zio Rino si sobbarcassero una nuova faticata per risalire la corrente, che il mattino avevamo fatto con la stessa a favore, e arrivare al porticciolo della centrale la barca era fatta fermare vicino al molo del “Porto Rosega” e una volta scesi si procedeva a piedi sino alla nostra casetta di Wagna, dove rinfrescandoci con l’acqua della pompa a mano, s’iniziavano i preparativi per la cena che avveniva, non appena il nonno e lo zio Rino rientravano dal casone.

“Le Baracche di Wagna” La strada era, a quel tempo, in terra battuta con, ai lati due piccole fosse per fare defluire l’acqua piovana e un po’ più arretrate, come militari sugli attenti, partivano due lunghe file parallele, come i binari della ferrovia che passava alla fine della via, le casette bifamiliari, con un piccolo orto sul retro dove erano coltivati tutti gli ortaggi necessari per la famiglia, e che erano state costruite dopo la prima guerra mondiale e venduta, alle famiglie che erano ritornate dopo essere state deportate a Wagna, durante il primo conflitto mondiale. Le baracche erano abitate da povera gente, salvo in alcune che erano abitate da persone che erano riuscite ad ottenere qualche cosa in più dalla vita e avevano sostituito, la baracca con una casetta in muratura più grande ed elegante. Queste si potevano contare sulle dita di una mano, le altre, tutte uguali si distinguevano una dall’altra solo per il differente colore della facciata e degli “scuri” (persiane). Le famiglie comunque, in quel periodo di guerra, vivevano in maniera dignitosa e la solidarietà era una pratica quotidiana tanto che se qualcuno aveva bisogno di qualcosa, normalmente si trattava di cibo o medicinali, allora il passaparola si attivava e in breve tempo si riusciva ad ottenere la cosa richiesta. Come dicevo la via delle baracche era molto composita e risaltavano le figure più caratteristiche dei personaggi che le abitavano, alcuni di questi personaggi erano commercianti o artigiani ma la maggiore parte lavorava in cantiere. In particolare, ricordo:

“El fabro” Abitava a metà della nostra via e aveva molti figli e figlie e lavorava nella tettoia fatta di lamiera ondulata tenuta assieme da un traliccio fatto con dei tubi saldati tra di loro. All’interno c’era una forgia sempre accesa che era alimentata da del carbone “cok” e, la fiamma, era tenuta viva facendo girare una ventola con una manovella e, a volte noi bambini, andavamo ad aiutarlo, assieme ad uno dei figli che era nostro coetaneo, e allora la nostra immaginazione ci faceva sembrare il tutto come, l’antro dell’inferno. “El fabro” usava mettere a scaldare dei tondini o del ferro piatto e quindi su una grossa incudine iniziava a martellarci sopra trasformando il tutto in opere finite che servivano normalmente per recinzioni. La maggiore parte, però, erano elementi di porte o portoni che Pagina | 16


noi chiamavamo, “bartoele” (cerniere) che erano dei rinforzi fatti con del ferro piatto con una parte arrotolata su se stessa sino a formare un cilindro e con l’altra parte, rastremata sulla punta, era forata per farvi passare le viti che dovevano, in seguito, fissarlo al portone di legno. Ricordo che all’interno di questo inferno dantesco, oltre alla forgia e l’incudine c’era un trapano a colonna che era fatto girare con delle strane cinghie mosse da un motore elettrico un grande bancone con delle morse e sopra un’infinità di utensili che per noi, erano fonte di studio per interpretarne l’uso. “El fabro” era una brava persona, ma molto silenziosa, si vedeva stare ore nella sua tettoia a battere o limare e usciva solamente per andare a mangiare il frugale pranzo, che al tempo era possibile mettere assieme, quindi rapidamente ritornare nel suo antro e lavorare sino a tarda sera quando finalmente rientrava per cenare assieme ai suoi numerosi figlioli.

“El carboner” Viveva in fondo la strada, prima della ferrovia, possedeva la casa con il deposito del carbone sul retro della stessa ed era il proprietario di due baracche, in una viveva con la famiglia e la seconda la aveva affittata a gente di passaggio così che non sapevi mai chi abitasse realmente in quella casa. Ricordo una volta fosse stata abitata da una giovane signora e, in quel periodo, era molto frequentata da uomini che, in noi bambini, suscitava molta curiosità tanto da chiedere sovente, ai nostri genitori, del motivo di quel via vai e regolarmente c’era risposto che la signora in questione, faceva un lavoro particolare. Allora la nostra curiosità non aveva più limite fatto sta che, non appena faceva buio, andavamo sgaiattolando nell’oscurità sino sotto la finestra e sbirciando, attraverso gli scuri appena socchiusi, vedevamo la signora in abiti succinti sdraiata sul letto che leggeva oppure che si faceva fresco con un ventaglio. Si correva quindi ad avvisare gli altri amici e in un lampo il tam, tam del passaparola si attivava facendo arrivare, nel solito posto di raccolta di noi piccoli che era situata in un angolo, dove la nostra via incrociava una trasversale più piccola e che si trovava proprio davanti alla mia abitazione. Lì, s’iniziava a fare le scommesse su chi avesse più coraggio per recarsi ancora, sotto quella finestra, per “cucare” sbirciare, ancora all’interno. La cosa però non ebbe lunga durata perché la signora si affacciò proprio quando c’erano vari bambini che rannicchiati sotto la finestra stavano bisbigliando sul da farsi. Non immaginate cosa successe, fu il fuggi-fuggi generale con le urla della signora e con l’inevitabile uscita da casa di tutti i genitori che, vista la scena, corsero ad acciuffare i rispettivi pargoli fornendo loro una sonora dose di ceffoni e con il divieto più assoluto di andare ancora a disturbare la signora che stava “lavorando”. L’entrata del “carboner” era sul retro e l’ingresso per andare al deposito era chiuso con un grande portone di ferro così che quando si doveva entrare per comprare il carbone coke o la carbonella, (che era il carbone realizzato con la legna) si doveva prima passare per casa e farsi Pagina | 17


aprire da sua moglie. Questa, apriva il portone per farci entrare con la carriola e andare sino al deposito, che costruito da una struttura metallica ricoperta con lamiere ondulate, fissate con filo di ferro. Ad aspettare c’era lui “El caboner” il quale usciva da quell’antro scuro sempre sporco di polvere nera del carbone con, in testa una specie di berretto anch’esso nero e con mano un fazzoletto, che forse una volta era di colore bianco, ma che ora aveva assunto il colore stesso del carbone. Si passava, quindi, all’ordinazione “do chili de carbonela e dieci de cok” che lui raccoglieva, con un forcone da dei grandi cassoni di legno siti all’interno del deposito, mettendoli in delle ceste di vimini o sacchi di iuta e posandoli sopra a delle vecchie arrugginite bilance.

La carbonella era pesata normalmente, visto il peso esiguo richiesto, su di una stadera, e lui con molta perizia procedeva alle fasi della pesatura, che per me erano sempre fonte di una grande meraviglia. Rimanevo sempre affascinato dal modo con cui “El carboner” procedeva alla sistemazione della cesta di vimini su un gancio situato da un lato della stadera e, mentre una mano reggeva la bilancia, con la seconda procedeva alla pesatura spostando, sull’asta provvista di tacche graduate un peso (romano), che di tacca in tacca era spostato sino a che, l’asta non si fermava in equilibrio, sempre però a favore suo, cioè con l’asta che era sempre più bassa del punto di equilibrio. Le volte che andavo con mia madre ricordo che lei faceva osservazioni in merito al non giusto equilibrio dell’asta ma questi, “El carboner”, aveva sempre una giustificazione a suo favore “ma la varde siora che tegno conto del peso dela cesta” oppure “cossa la vol sta vecia balansa non la xe regolada ben perciò tigno cont del difeto” e via così. Per evitare di dovere trovare un altro “carboner”, si stava zitti e si procedeva alla pesa del carbone cok che, visto il peso più rilevante, questo era raccolto in un sacco di iuta e posto su di una bilancia a bascula e pesato. Ovviamente la pesata era sempre a suo favore quindi, era posto sulla nostra carriola, fatta con alcune assi di legno sistemate a v con due rinforzi laterali che fungevano da supporto per la ruota di ferro, (fatta dal fabbro) e da due manici, per sollevare e condurre la stessa. Un altro espediente per lucrare sul peso era di bagnare sempre il carbone e con la scusa di evitare di creare fumi nocivi per la salute sua ma soprattutto, diceva lui, per noi che andavamo a comprarlo. Pagina | 18


L‘aspetto più arduo avveniva ogni qualvolta pioveva e, guarda il caso, si rimaneva sempre senza carbone, si doveva allora andare dal “carboner” con la carriola e lì che avveniva, normalmente, il fattaccio. Si procedeva nel fango della strada (ovviamente in quel periodo la stessa non era ancora sistemata con ghiaia battuta né, tantomeno asfaltata) cercando di andare ai lati dove c’era “el troso”, una parte più solida con dell’erba che permetteva un migliore scorrimento della ruota, in ferro della carriola. Si entrava quindi nel cortile del “carboner” che era leggermente in discesa facendo attenzione a non scivolare e, fatto il rito della pesatura, si doveva procedere a ritroso verso l’uscita, che ora si trovava in leggera salita. Allora succedeva che la ruota affondasse nel fango e, per lo sforzo, questa uscisse dal suo supporto facendo così ribaltare il carico di carbone che si spandeva tutto intorno e, con le infinite lamentele della mamma, si procedeva al suo recupero, non prima di avere sistemato nuovamente la ruota, nel suo supporto. Si arrivava a casa e, oltre che fradici di pioggia, anche sporchi di fango e di carbone dalle mani ai piedi pertanto ci si doveva andare a lavare e questo era facile durante l‘estate, ma diveniva, un grosso problema durante l’inverno, perché si doveva prima riscaldare l’acqua e quindi a turno, in una tinozza di lamiera zincata, si faceva il bagno, in cucina, riparati solamente da un lenzuolo steso, a copertura da sguardi indiscreti.

“El pessar (pescivendolo)” Altro personaggio delle “Baracche di Wagna” era il venditore di pesce (El pessar), questi abitavano in una casa più avanti della mia assieme alla moglie, tre figlie e la nonna, che ricordo sempre seduta su di una poltroncina di legno, vestita sempre il solito abito nero e il solito fazzoletto, in testa, anch’esso nero. Ogni volta che, da bambino, passavo davanti a casa loro, voleva vedermi. Voleva che le andassi sempre vicino, ma essendo io un po’ impaurito dall’aspetto che, nella penombra della stanza, la faceva sembrare ancora più vecchia e scura, cercavo in tutti i modi di evitarla ma lei, sentendomi arrivare e, poichè non vedeva molto bene, mi chiamava per nome perché la raggiungessi e poi, una volta accanto mi accarezzava, dicendomi “……picio quando te sarà grando te ghe farà girar la testa a tutte le putele”. Detto questo, mi chiedeva come stava mia nonna e il nonno e poi mi lasciava andare a giocare, con le sue nipoti. Pagina | 19


La stessa storia si ripeteva a ogni mia visita alle sue nipoti: Mi piaceva andare per giocare con loro sotto la grande tettoia chiusa, dietro casa, e dove erano stivate le cassette di legno che contenevano il pesce. All’interno ristagnava sempre un intenso odore di pesce perché le cassette, pur lavate, avevano sempre attorno ai bordi ancora le squame argentee del precedente contenuto. Il pesser era considerato, da noi, una persona ricca, visti gli standard di vita del circondario, anche perché aveva un banco di vendita nel mercato del paese e inoltre, a casa sua, continuava la sua attività di vendita così che, tutti i residenti nella via, si rivolgevano a lui per rifornirsi di pesce. Credo, vista l’amicizia che regnava tra le nostre due famiglie, che il nonno vendesse il pesce anche a lui, oltre che alla cooperativa che esisteva tra i pescatori, ed era frequente che la nonna andasse dalla “Siora Gisela” per chiedere dei prestiti che regolarmente erano concessi e, non appena il nonno pescava le portava la merce per onorare il debito contratto. Mi piacevano molto tutti i membri di quella famiglia perché mi facevano sentire come a casa mia e in più potevo passare a giocare con Clara e Anna oltre ad avere l’opportunità, di volta in volta, di ricevere qualche cosa da mangiare al mattino o il pomeriggio. In quel periodo di guerra, eravamo nel 1943, a mano a mano che le informazioni sullo sviluppo delle fasi belliche arrivavano fino a noi facendo prevedere che la battaglia si sarebbe presto spostata verso il nord, la prima cosa che la famiglia del pescivendolo aveva realizzato era stata la costruzione di un bunker (rifugio) per permettere a tutti loro, compresa la loro nonna, di andare al riparo in caso di bombardamento. Il bunker era stato realizzato utilizzando parte della cisterna di raccolta fognaria di casa, apportando le dovute modifiche con l’allargamento della stessa, tanto che lo spazio era più che sufficiente per accogliere due o tre famiglie. Era stata rinforzata con pareti di cemento armato e il soffitto, anch’esso in cemento armato, era stato rinforzato con pali di legno che sostenevano il tutto. L’entrata era stata ricavata sotto la tettoia del deposito del pesce e da lì si scendeva, per una ripida scala di legno con una porta di ferro che era chiusa dall’interno. L’areazione era data utilizzando il foro, allora non più in uso, che in precedenza era usato come gabinetto e l’illuminazione ovviamente era realizzata con lampade a petrolio e con candele fatte di grasso di sego. Ogni qual volta erano accese, producevano un forte odore di rancido oltre che un persistente pennacchio di fumo nero che andava a formare delle grottesche figure sopra il soffitto che era stato, in precedenza, tinto di bianco, con la calce. Dal 1944 in poi, durante i bombardamenti avvenuti da parte degli alleati sul cantiere navale, avevo, assieme alla mia famiglia, usato quel rifugio dove, tutti in piedi e stretti fra noi, ci si aiutava a superare quei momenti di terrore raccontando i fatti quotidiani oppure le speranze di uscire indenni da quella guerra e ritornare felici alla vita di ogni giorno.

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Essendo il più piccolo ero spronato dalle donne, lì ricoverate e sempre impaurite, a pregare e ricordo molto bene che recitavo “angelo di dio che sei il mio custode…” Non solo una volta, dovevo continuare fino a quando non era suonata, dalla sirena del cantiere, la fine dell’allarme. Si ritornava allora ognuno alla propria abitazione ringraziando per prima cosa iddio di averci protetto e quindi ringraziare la famiglia del pescivendolo, per l’ospitalità.

“El frutivendolo” Abitava nella baracca proprio di fronte al pescivendolo e aveva anche lui costruito (si fa per dire), nel grande cortile dietro casa una tettoia simile a quella del pescivendolo, alle volte mi veniva da pensare che non ci fosse molta fantasia nel costruire quei ripari ma poi, riflettendo, devo considerare il periodo in cui ci si trovava e con la guerra ormai vicina e appena passati dalla precedente la grande guerra del 1915-18. Le materie prime erano di difficile reperimento, anche per la grande crisi del 1929, e pertanto si doveva ripiegare per la costruzione più economica, tubi in ferro per formare l’ossatura portante e lamierino ondulato in ferro per la copertura. Comunque aveva il funzionamento richiesto che era quello di riparare dalle intemperie la merce là immagazzinata e avere uno spazio sufficiente per sistemare il banchetto per la vendita provvista di una bilancia a doppio piatto e di una stadera che faceva bella mostra appesa alla struttura metallica con una cordicella.

Il banchetto era presidiato tutto il giorno, dall’alba al tramonto, dalla vecchia nonna del fruttivendolo assieme a sua figlia Giovanna, quando questa tornava dal mercato centrale dove gestiva un banco di vendita al dettaglio, verso le prime ore del pomeriggio oppure quando aveva finito di vendere le poche cose che a quel tempo riuscivano a procurare dai contadini o da qualche commerciante all’ingrosso che veniva ogni tanto da lontano a consegnare la verdura o i vegetali che riuscivano ad accaparrarsi nelle campagne del Friuli. Non faceva certo un grosso guadagno con il mercato centrale ma riusciva ad arrotondare vendendo direttamente a casa, nel suo cortile provvisto di banchetto e bilancia, quei prodotti che quasi nessuno riusciva a coltivare da solo nel proprio orticello di guerra dietro casa propria. Pagina | 21


Anche la mia famiglia aveva l’orticello, dove erano coltivate quasi tutte le verdure che servivano, giornalmente, ma specialmente all’estate, ci si andava per comprare l’anguria o il melone. Infatti, nelle sere calde d’estate, quando la nonna aveva incassato qualche lira dalla vendita del pesce che il nonno portava a casa, dopo avere venduto una parte del pescato alla cooperativa, ci si dava ai “bagordi”. Allora io andavo dalla “Siora Giovanna venderigola” a comprare una bella anguria, assieme al nonno Vittorio che, da esperto intenditore di angurie, procedeva nello scegliere dall’enorme mucchio quella più grossa e, battendola con le nocche sulla buccia, sentiva quale rumore faceva. Se questa dava un suono, che lui riteneva idoneo, allora faceva un’incisione a triangolo, con un coltello affilato e appuntito, sin dentro la polpa estrandone il pezzo e guardandone il colore quindi, se questo era bel rosso, si passava all’assaggio e, se soddisfatti, si comprava. Da bambini più grandicelli si usava andare a comprare l’anguria facendo prima la colletta dei pochi spiccioli che, normalmente ciascuno di noi aveva messo da parte, quindi si andava dalla “vendirigola” a contrattare cercando di ottenere la più grossa possibile con minore spesa. Alle volte, secondo la capacità di convincimento di chi era delegato all’acquisto, anche con l’uso di tutte le arti melodrammatiche e facendo anche la sceneggiata della fame o del fatto che, noi poverini, eravamo riusciti a racimolare solo quei pochi soldi, la “vendirigola”, cosa molto rara, si commuoveva e ci permetteva di scegliere dal mucchio, la più grande. Allora era vera festa, ci si recava nel cortile di casa di qualcuno disponibile a mettere a repentaglio i vetri delle finestre e s’iniziava la saga dell’anguria che consisteva nel tagliare in fette abbastanza uguali l’anguria e quindi dopo la conta “am-ba-ra-bà-ci ci-co-cò tre so-rel-le sul co-mò che fa-ce-va-no l’a-mo-re con la fi-glia del dot-to-re il dot-to-re si amma-lò am-ba-rabà-ci ci-co-cò”. Quello che era indicato per ultimo con il “cò” finale era il primo a scegliere la fetta che ovviamente era la più grossa, quindi altra conta e così sino all’ultimo più sfortunato, al quale non rimaneva, che la più piccola. Finita la conta e mangiata anche l’anguria si passava alla battaglia a base di “scorze” (bucce), ci si divideva in due gruppi e s’iniziava a tirarci addosso, gli avanzi dell’anguria, altro non era che il verde della buccia in quanto, per fame, la sì mangiava fino a che non la sì andava a intaccare. Prima la rossa e succosa parte interna, compresi i semi che venivano alcuni sputati e altri regolarmente ingoiati, quindi si passava alla parte bianca rosata un po’ acerba e per finire, non appena s’iniziava a masticare il verde interno della buccia e, solo allora, l’arma era pronta. Per correttezza devo dire che, dopo quel lavoro di morsicamento, quello che rimaneva non era altro che una sottile buccia, ma era comunque la nostra arma per scagliarla contro l’avversario. L’altro, rispondeva con lo stesso tipo di arma e, finite le proprie, si andava a raccogliere i pezzi caduti e, nello “sbrodolio” più completo, si usava quel che rimaneva a terra per spargerlo, sulla faccia dell’avversario. Così conciati, magari inseguiti dai genitori, si scappava andando a fare il bagno, in mutande, nel canaletto vicino la ferrovia dove, l’acqua corrente gelata, diventava rossa da fare sembrare Pagina | 22


una pozza di sangue. Così fradici, ci si stendeva sull’erba ai lati dell’argine per riscaldarsi al sole fino a che, mestamente, si ritornava alle nostre abitazioni.

“La Maria Tanaia” La baracca attaccata alla mia, (ricordo che le baracche di Wagna erano delle casette bifamiliari), era abitata da una mia parente, che era, la figlia della sorella di mia nonna. Per sue vicissitudini familiari dovute alla perdita del primo marito, con il quale aveva avuto tre figli (due femmine e un maschio, due di esse erano molto più vecchie di me mentre il maschio, cui noi avevamo dato, il soprannome di “cita”, aveva circa la mia età), si era risposata, subito dopo la guerra, con un uomo del sud che da noi era soprannominato “talian” (italiano) e da lì il soprannome di “tanaia”. Durante la guerra, da vedova, aveva sempre un comportamento allegro, forse perché aveva l’abitudine di alzare un po’ il gomito, e perché portava dei lunghi capelli neri e le piaceva molto divertirsi e ballare che la facevano sembrare diversa dalle altre donne del vicinato, ma era una buona donna sempre gentile e disponibile con tutti. Aveva poi un modo strano di gesticolare con una specie di tic che le faceva portare frequentemente le dita, della mano destra, alla bocca con un movimento di scorrimento delle stesse sulle labbra. Questo gesto inconscio lo faceva in ogni azione o lavoro anche quando preparava la sfoglia e quelle volte che assistevo osservavo quel veloce movimento delle dita che passavano prima sulle labbra per poi portarle a lisciare la pasta appena fatta. Ricordo che, quando mi offriva di rimanere a casa sua per mangiare, al solo pensiero di quelle leccate, regolarmente rifiutavo. Durante l’occupazione tedesca nella casa erano invitati ogni tanto, la sera, dei tedeschi che, assieme ad altre loro amiche, organizzavano delle specie di festini e durante una di queste feste, lo raccontò lei più tardi, aveva preparato una torta, ma non si sa come nella stessa finirono sabbia e sassolini, tanto che gli invitati tedeschi si arrabbiarono credendo che lei lo avesse fatto apposta per avvelenarli. Successe un pandemonio, con urla e pianti, tanto che furono invitate a seguirli in caserma, dal loro comandante, per giustificarsi del come e perché fosse accaduto l’increscioso incidente e finalmente all’alba, dopo il chiarimento sull’involontarietà dell’accaduto, rilasciate e rimandate a casa. Dopo quell’incidente, per molto tempo nella casa tutto rimase tranquillo sino al momento della liberazione e con l’arrivo degli alleati la “Maria tanaia” riprese le sue feste cambiando, questa volta, ballerini invitando più volte i soldati neozelandesi che si erano accampati nel campo dietro la nostra casa. Durante una di queste feste la figlia maggiore “Silvana” s’innamoro’ di un militare inglese che alla fine della guerra ritornò per sposarla e portarla con sé in Inghilterra e con la quale, sino a Pagina | 23


pochi anni fa, la mia mamma aveva continuato ad avere uno scambio di lettere non molti anni fa, era ritornata, da vedova, a trovarci in Italia dove abbiamo scoperto che, dopo la morte del marito, aveva acquistato un camper e da sola si era messa a girare per l’Inghilterra. Non so se sia ancora viva, poichè non ho, da molto tempo, più notizie di lei ma ricordo con piacere quella famiglia con la “Maria tanaia” sempre allegra e forse un po’ strana ma di un sentimento di bontà che si era tramandato anche ai suoi figli e in particolare alla seconda figlia “Alba” che ogni tanto, ancora oggi, incontro.

“La checchina” Abitava nella casa più bella della via che si trovava proprio di fronte alla mia abitazione così quando uscivo da casa, non potevo fare a meno di osservare quella costruzione che, per i tempi e le povere baracche accanto, mi sembrava essere un palazzo. Era costruita su due piani e occupava lo spazio che in precedenza era quello dove c’erano state due baracche con, al primo piano, un terrazzo dove si apriva una grande porta finestra ed era circondato da una ringhiera di ferro battuto, colorato di bianco. Sul frontale si aprivano quattro finestre con degli scuri colorati di verde che avevano ricavato al loro interno una porticina basculante che si apriva verso l’esterno con delle persiane mobili che, comandate dall’interno, potevano essere socchiuse per fare entrare la luce o l’aria specialmente nei periodi estivi. La casa aveva, sul davanti, un piccolo giardinetto con due grosse piante di rose una per lato del passaggio in cemento che dal cancello di ferro, anch’esso verniciato di bianco, portava direttamente dal portoncino di entrata principale alla strada, ed era circondato da un muretto con sopra una rete e con delle colonne formate da mattoni a vista intramezzati da blocchi di cemento bugnato con, sulla sommità, una specie di cappello anch’esso in cemento bugnato. Le poche volte che sono potuto entrare in quella “reggia”, ho notato una volta varcato l’ingresso degli scalini marmorizzati e tirati a specchio tanto che ti facevano sentire a disagio perché avevi il timore di sporcarli e, più avanti, c’era una scala che saliva al piano superiore. Ai lati della scala c’erano due porte di legno lavorato a quadrettoni e verniciate di bianco che ospitavano due famiglie mentre, al piano di sopra, che io non ho potuto mai avere la fortuna di visitare, abitava la signora “checchina”, che era rimasta senza figli ed era vedova, ormai da molti anni, di un uomo benestante. La “checchina” (Francesca ma anche checca – gazza oppure da checca - diversa) era il soprannome, che noi avevamo dato a quella strana figura, che raramente si faceva vedere ma che noi sapevamo si nascondesse dietro gli scuri, che erano sempre semi aperti. Questo modo di comportarsi aveva determinato quel suo soprannome dovuto al fatto che era sempre lì a guardare “cuccare” cioè a mettere il naso in tutto quello che succedeva nella strada Pagina | 24


sottostante e aveva un modo di vivere, che per noi sembrava essere molto diverso dalle altre donne, della nostra via. Le poche volte che si affacciava era, di solito, dovute alle nostre intemperanze di bambini perché avevamo preso a usare, il portone di ferro del suo giardino, come porta di calcio e dove, regolarmente, andavamo a calciare i tiri di rigore e, il più delle volte, il pallone finiva all’interno sopra le sue amate rose. Allora usciva sul balcone e iniziavano le litanie nei nostri confronti e sui nostri genitori che, secondo lei, non erano stati capaci di educarci nel rispetto delle cose altrui. Sul retro della sua casa, oltre il suo orto sempre ben curato, confinava una famiglia che per vivere faceva di tutto dalla raccolta del ferro vecchio, degli stracci, del vetro e mille altre cose e aveva adibito, come deposito del loro raccolto, il giardinetto che confinava con quello della “checchina”. Ovviamente il contrasto era così evidente che, solo passando, non potevi vedere ma, dal mucchio di oggetti raccolti, usciva e si spargeva un odore nauseabondo tanto che le discussioni con i vicini (leggi la “checchina”) erano, quotidiani. La famiglia era composta dalla madre non sposata con un figlio e, specialmente in tempo di guerra, la signora si arrangiava facendo il lavoro più vecchio del mondo tanto che, specialmente la sera, mentre eravamo seduti sulla panchina, davanti alla nostra casa, vedevamo in controluce sullo sfondo del vicolo, dove loro abitavano, il via vai degli uomini che entravano mentre, di giorno, immaginavi che “lavorava” perché il figlio, era mandato a sedere fuori di casa.

“El tenor” Nella casa, accanto alla “Maria tanaia”, abitava una famiglia composta di una madre vedova con due figlie e due figli di cui, il più giovane, “Renzo” aveva un talento particolare per il canto e, ogni giorno, si esercitava con i solfeggi e i vocalizzi tanto da allietare, buona parte della via. Noi bambini aspettavamo il primo vocalizzo per radunarci tutti quanti sotto la finestra per ascoltare da vicino i suoi gorgheggi che andavano, dalle note più basse a quelle più alte, in una sequenza continua di sonorità. E’ logico che, da parte di noi piccini, scattasse il senso di emulazione. E allora ognuno di noi iniziava a seguire il “Renzo” nelle sue evoluzioni canore, ovviamente la prova finiva quando, le sonorità, divenivano sempre più vicine ai ragli di un asino con, l’inevitabile uscita del futuro tenore che ci apostrofava e ci faceva scappare via, prima che potesse raggiungerci. La cosa aveva una sequenza periodica in quanto, se non eravamo occupati con altri diversivi, vedi pallone o altre iniziative di disturbo presso qualche figura particolare della via, si ritornava sotto casa sua ad aspettare che lui iniziasse a cantare e, se la melodia era di qualche aria di opera, si rimaneva silenziosi ed estasiati ad ascoltare la sua bella voce ma, non appena questi si fermava per passare ai gorgheggi, allora si ripeteva la sequenza di emulazione che terminava con la solita sceneggiata, e con il nostro fuggi-fuggi. Pagina | 25


Non ricordo che fine abbia fatto dopo la guerra forse perché anche noi eravamo cresciuti e avevamo scoperto altre fonti di divertimento e di presa in giro agli strani e variegati personaggi che vivevano nella via, delle baracche di Wagna.

“El sior arbitro” Era, infatti, a differenza degli altri genitori, impiegato all’ufficio tecnico del cantiere navale e questa posizione gli permettevano un discreto stipendio che, per il tempo d’allora, valeva molto, ma molto di più di quello di un operaio, inoltre faceva l’arbitro di calcio e questo, se non a livello economico, gli dava un grande prestigio a livello sociale. Viveva in un villino che era stato fatto da lui erigere al posto della precedente baracca a circa metà della nostra via, ed era considerato una persona benestante rispetto agli standard della mia famiglia, con la moglie e due figli, un maschio e una femmina, che avevano circa la mia età, ed erano anche i miei migliori amici. Anche questa casa, come quella della “checchina”, aveva un muretto di cinta in mattoni e blocchi di cemento bugnato, forse era stato eretto dallo stesso muratore, con le colonne agli angoli e altre due che sostenevano il portone d’ingresso fatto di ferro e lamiera pitturata di marrone chiaro, con i bordi in marrone più scuro. Il portone permetteva il passaggio per accedere alla casa il cui ingresso si trovava sul retro mentre sulla facciata, che dava sulla strada, c’erano due grandi finestre che, a differenza di quasi tutte le altre finestre delle case della via, avevano serramenti provvisto di rollè (avvolgibili rollanden). Il passaggio che dal portone principale portava all’ingresso della casa era ricoperto di ghiaia bianca sempre tenuta pulita e sul retro della casa si apriva un cortile, anch’esso ricoperto di ghiaia bianca che dava un tocco di eleganza al tutto. In fondo al cortile c’era una costruzione in muratura con, di sotto una cantina che si poteva raggiungere, con una scala esterna e, attraverso una porta di ferro, si aveva accesso direttamente al locale che funzionava anche da lavanderia. Talvolta all’interno del locale era portata qualche gallina che, in quel tempo di guerra, non era facile da trovare e da comprare ma, poiché, qualche soldo a quella famiglia non mancava, “El sior arbitro” riusciva comunque a trovarla da qualche contadino. Così, dopo averla riposta nel locale in fondo al cortile, si doveva passare al tragico momento della sua soppressione, incarico che era demandato alla padrona di casa, la quale era già in crisi, sin dal momento dell’arrivo della stessa a casa, e ora doveva provvedere, all’ingrato compito. Iniziava così il dramma con noi bambini, raccolti in un angolo, a guardare e osservare la scena della signora che saliva mestamente le scale per andare a prendere la gallina la quale, non appena era aperta la porta della cantina, prendeva il volo saltando al di fuori e correndo per il giardino inseguita dalla padrona di casa e con noi bambini a darle una mano per catturarla. Pagina | 26


Dopo svariati attimi di suspense derivati dal fatto che si doveva evitare che la gallina saltasse oltre il recinto di casa l’operazione terminava con la cattura del povero animale il quale, messo all’angolo della casa, sembrava quasi a chiedere pietà per l’imminente uccisione e qui, legato alle zampe, era restituito alla padrona di casa che ancora più impietosita per il trantran della caccia iniziava a piangere e per quel giorno la gallina era salvata. La storia si ripeteva il giorno seguente, quando finalmente la padrona di casa si faceva forza, e aiutata da noi che tenevamo, ferma la gallina, questa era decapitata tra le lacrime di noi tutti che mestamente ritornavamo nel cortile a giocare. Il cortile confinava su un lato con il retro della stalla del contadino che abitava accanto ed era costruito con tavolame grezzo dalle cui fessure uscivano fiotti di fieno oppure di foglie di pannocchie (mais) o grano, secondo il raccolto che era immagazzinato. Talvolta succedeva che si vedeva uscire qualche topo di fienile con il suo vispo musetto o peggio, alle volte, qualche “pantegana” ed ecco allora che scoppiava l’inferno con le grida delle donne e l’avvio della battuta di caccia, da parte di noi bambini, con l’inevitabile fuga della bestia sotto la parete di legno della casa accanto. Per rendere la parete di legno più elegante, questa era periodicamente pitturata di bianco con la calce così che l’aspetto del cortile era sempre lindo e brillante. Per accedere all’abitazione si doveva salire una larga scala con pochi gradini fatta di cemento e ghiaia levigati di diversi colori che faceva sembrare ancora più elegante il tutto. La scala era protetta da un passamano in cemento con tubi di ferro verniciati di marrone che reggevano il passamano e da lì si aveva accesso a una veranda, dove erano sistemate, sempre, delle piante che la padrona di casa curava amorevolmente. Dalla veranda si aveva accesso, direttamente, al soggiorno cucina con un bel tavolo, una credenza e lo “spargher” (sportlet), ma a differenza del nostro, questo era fatto in acciaio colorato di bianco con inserti cromati e i pomelli degli sportelli in ottone, mentre la parte superiore era ricoperta da una piastra di ghisa dove erano ricavati dei fori per sistemarci sopra le pentole. Questi erano chiusi con degli anelli concentrici, anch’essi di ghisa, e venivano di volta in volta levati a seconda la dimensione della pentola da usare. Lateralmente era inserita la caldaia dell’acqua calda che era tenuta chiusa con un coperchio cromato. La famiglia ci ospitava frequentemente a giocare con i suoi figli ma la cosa che più mi aveva colpito era il rito che si ripeteva ogni anno a Natale. In quel periodo, alla vigilia, ci si ritrovava con tutti gli amici a casa loro e da qui, tutti assieme rumorosamente, si procedeva per la strada sino al Duomo, per assistere alla messa di mezzanotte. A messa finita, si ritornava tutti a casa loro che si trovava sempre ben riscaldata, per celebrare un rito, che con il tempo si era venuto a consolidare. Questo era un modo per festeggiare l’arrivo del Natale, attorno al tavolo del loro soggiorno, per mangiare un piatto di crauti e (luganighe) salcicce di Vienna con la senape. Vista la fame che ci si ritrovava, era letteralmente divorata in pochi bocconi poi, soddisfatti, fatti gli auguri e ringraziata la famiglia, si ritornava tutti alle proprie fredde case. Pagina | 27


“La mia baracca di Wagna” La casetta era composta di due sole stanze adibite a camere, una per i miei genitori e una per i miei nonni e mio zio Rino e una più piccola, che serviva da cucina. Questa aveva, in un angolo, lo “spargher” (fornello a legna con forno) un tavolo di colore azzurro, con sopra il marmo, e una credenza, anche lei azzurra con la vetrina, che serviva a contenere gli oggetti “preziosi”, quali i piatti e i bicchieri, ricevuti in regalo dai miei genitori, per il loro matrimonio. Questi facevano bella mostra di sé e potevano essere ammirati attraverso i vetri della credenza mentre quelli di ogni giorno erano sistemati in una bacinella di lamiera zincata, accanto allo spargher il quale era spesso acceso con sopra il bricco di lamiera smaltata dove era fatta bollire l’acqua e dove la nonna metteva, di volta in volta, un cucchiaio di una miscela di caffè che, alle volte mi veniva, il dubbio fosse fatto con la segatura di qualche albero marcito. La nonna, sì la ricordo molto bene: alta e dignitosa nell’incedere, sempre avvolta da un fazzoletto nero che portava sulla testa, il quale raccoglieva i lunghi cappelli grigi, arrotolati e fermati con delle lunghe forcine di osso, formando il “cocon”. Vestiva il solito vestito grigio scuro e sul davanti portava comunemente un grembiule, anch’esso di colore scuro con, agli orecchi, due piccoli orecchini pendenti con un rubino incastonato che lei orgogliosamente portava e non li levava, quasi mai, neanche per andare a letto. Credo che il colore predominante, che era il nero, derivasse dal fatto che, a quel tempo (guerra), era particolarmente difficile trovare della stoffa e, il tessuto nero era l’unico che si poteva trovare di contrabbando, facendo scambio con il mangiare e noi, con il nonno pescatore, almeno il pesce lo avevamo sempre. Pertanto, il vestito di lavoro e quello buono per la festa, erano solo di quel colore. In quel tempo la nonna era ancora la “regina” della casa e comandava, come peraltro potevano fare solo le donne che si trovavano da sole a condurre la casa poichè il nonno era per molto tempo nel casone, oppure a pescare. La cucina era il suo regno, si alzava la mattina molto presto per accendere il fuoco e riscaldare lo stesso bricco di miscela, aggiungendone il solito cucchiaio, facendo bollire il latte che era portato fresco, da una contadina del posto, facendo molta attenzione che il bollore non facesse tracimare, dal pentolino, il latte che, cadendo sulla piastra calda dello sparger, emanava un terribile odore di latte bruciato. La cosa che più mi colpiva era il rito dell’accensione del fuoco che iniziava con lo svuotamento della cenere della sera precedente ed era fatto attraverso due distinte operazioni. La prima consisteva nel sollevare i vari cerchi concentrici che formavano, secondo le necessità, delle dimensioni di diametro differenti e che andavano dalla misura più larga che serviva per raccogliere la “cagliera” il cosiddetto contenitore in alluminio che serviva per preparare la polenta, al diametro più piccolo che era utilizzato per sistemarci sopra la pentola per la minestra oppure la “farsora” che era una padella per cuocere le uova o arrostire la polenta. Pagina | 28


Altra fase era di estrarre il cassetto portacenere, situato sotto la griglia dove ardeva la legna, facendo attenzione di non rovesciare il contenuto sul pavimento che, a quei tempi, era fatto di tavole di legno e che con una maldestra estrazione poteva finirci con inevitabili discussioni e lamentele sul fatto di dovere raccogliere e lavare la parte sporcata dalla cenere.

Talvolta, tale operazione doveva essere fatta più volte il giorno e pertanto le situazioni di rischio venivano a sommarsi con l’aggravio che la cenere calda, contenente delle braci incandescenti, cadendo sul tavolato faceva delle bruciature che rimanevano a perpetua memoria a ricordare le operazioni andate male. Quando infine il caffè era pronto e il latte bollito si alzavano i miei genitori dal loro letto, situato nella camera “buona” perché, a differenza della seconda stanza da letto utilizzata dai nonni, questa conteneva il letto matrimoniale che veniva dalla mia mamma risistemato, giornalmente, con la copertura elegante fatta con un copriletto bifacciale, che ricordo ancora, essere stato di raso trapuntato con grandi fiori bianchi, con una parte blu e l’altra rosa, e da un “comò” (trumeau) con un grande specchio e da due comodini accanto al letto con sopra due lampade stile liberty. Completava l’arredamento, che era stato acquistato dai nonni paterni per il matrimonio dei miei genitori, un grande armadio a quattro ante e un quadro. Questo era appeso sopra la testata del letto, che ancora oggi mi sovviene raffigurante due figure di persone sotto il pergolato di un’unica pianta di vite che usciva da quello che, a me, è sempre sembrato, essere stato una tomba. La stanza era dipinta di verde pallido con delle decorazioni verticali, impresse con un verde più scuro, che rappresentavano delle foglie di vite, fatte a “rullo”. Il “rullo” era un cilindro di gomma con incise, in negativo, le stesse foglie e che veniva, di volta in volta, immerso nel secchio, contenente la pittura ad acqua, calce e il colore scelto e fatto passare verticalmente sul muro in precedenza tinto, a pennello, dello stesso colore verde pallido. La seconda camera, quella riservata ai nonni, con il pavimento fatto da tavole di abete, i muri dipinti sempre con lo stesso disegno della precedente, ma di colore rosa, conteneva oltre il letto matrimoniale, anche un grande armadio con due larghe ante e, alla base, erano inseriti due enormi cassetti i quali, erano colmi della biancheria della famiglia.

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La particolarità della stanza dei nonni, oltre che permettere il passaggio dei miei genitori quando dovevano andare a letto, era che, il materasso, a differenza di quello della stanza buona che era di crine, questo era fatto di foglie di pannocchie secche messe all’interno di un sacco di cotone bianco, con disegnate delle larghe righe colorate, e posto sopra delle reti a molle. Tale materasso era anche la cassaforte di famiglia. Infatti, la nonna, che a quel tempo era la tenutaria delle magre finanze, aveva un grosso portafoglio di colore nero con molte tasche. Quando era aperto, sembrava il mantice di una fisarmonica, ed era tenuto chiuso con una stringa di cotone che si attorcigliava attorno allo stesso quindi, dopo una successiva ispezione che il tutto fosse legato bene, era inserito cautamente nei profondi recessi, in mezzo alle foglie dì pannocchia che riempivano il materasso. Il momento più drammatico era quando si dovevano aprire i cordoni del portafoglio per estrarre le banconote, che ricordo essere state di grosse dimensioni che in quel periodo mi sembravano dei grossi tovaglioli colorati, per procedere all’acquisto, normalmente di generi alimentari o di pezze di stoffa per fare abiti. Allora la famiglia era fatta riunire in cucina, attorno al fogolar e iniziavano le lamentele della nonna sulle spese esose che erano richieste. Per la nonna le spese erano esose anche quando si doveva andare a comprare un etto di conserva e tanto più esose se poi si doveva andare a comprare una pezza per farne dei vestiti, allora la discussione si protraeva per ore tanto che alla fine io ero colto dal sonno e portato nel lettino a dormire. Le reti a molle erano fatte da tanti sottilissimi fili di acciaio zincato intrecciati fra loro a spirale, poste longitudinalmente e che, appena nuove, sembravano due perfetti piani ma dopo qualche mese perdevano l’elasticità iniziale e formavano, al centro, una conca tale da farti trovare, al risveglio, tutto rannicchiato nel bel mezzo del letto. Le reti erano sorrette da due traverse di legno che poggiavano su due bordi ricavati sulle “bandine” e che, se non si faceva attenzione, queste scivolavano dal loro supporto facendo cadere sul pavimento l’intera rete con il suo materasso.

“Il nonno Vittorio” In quel periodo, era l’inizio della seconda guerra mondiale, mi si apre la prima finestra dei ricordi con l’immagine di mio nonno Vittorio che mi accompagna su per una grande scala di marmo e un ascensore fatto in ferro legno e vetro e dipinto di nero, con il quale saliamo ai piani superiori di una grande casa dove mi trovo in una sala, con altre persone in attesa, e sono lì lasciato con la mia mamma, mentre il nonno entra in un’altra stanza. Ricordo di avere percepito qualcosa di strano, all’uscita del nonno da quella stanza, ma solo dopo diversi anni ho saputo che quella casa era lo studio di un dottore che aveva visitato il nonno e diagnosticato una grave malattia. Pagina | 30


Il secondo flash si apre con un momento particolarmente doloroso per me e, anche se molto piccolo, ricordo di essere entrato, accompagnato dalla mamma, nella camera dove ho potuto vedere, il nonno adorato, sdraiato immobile sul letto di morte. Ancora oggi lo vedo distintamente vestito con il suo abito migliore, pettinato con la riga in parte e i baffetti che tanto mi solleticavano, quando mi baciava. Il resto mi sfugge dalla memoria e per quanto mi sforzi di ricordare nulla appare, forse il dolore, anche se inconscio per l’età, ha rimosso ogni immagine di quel buio giorno. Quella era stata la mia prima triste esperienza della vita appena iniziata, ma non la percepivo così drammatica in quanto, a quattro anni, la sensazione del dramma mi sfiorava appena. Certo che la scomparsa del nonno è stata per la mia famiglia un grosso dramma veniva, infatti, a mancare una grossa parte di aiuto, sia economico sia affettivo. Il nonno Vittorio era, infatti, un pescatore, proprietario di due barche da pesca, di un “casone” situato nell’area dei pescatori della “Marina Vecia” ed era aiutato da suo figlio, mio zio Rino, e possedeva molte reti da pesca che erano sempre stivate all’interno del casone, mentre altre erano sempre appese, davanti allo stesso, ad asciugare per essere preparate per la pesca della notte. Sento ancora oggi il profumo delle reti sulle quali, a detta di mia madre, ero posto a dormire mentre il nonno e lo zio mangiavano quello che era preparato dalla nonna ed era, loro portato con la bicicletta, da mia madre. Il ricordo ritorna impetuoso riportandomi qualche anno più tardi nel buio profondo della guerra dove le immagini appaiono più chiare dovute alle terribili sensazioni che la guerra può consegnare a un bambino. In quel periodo era nata la mia sorellina perciò mi sono trovato trasferito nella camera dei nonni perché il lettino dove dormivo, essendo nata la sorellina, doveva essere a lei consegnato. Il lettino, che ancora oggi ricordo, comperato dal nonno Vittorio per il suo primo nipote, era fatto in acciaio cromato con le due sponde mobili fatte di rete in cotone bianco a trama larga e sostenute da due aste orizzontali che scorrevano attraverso due montanti posti lateralmente alle testate del lettino. Queste servivano per evitare che io da piccolo, che poi tanto piccolo non ero, poichè ero nato di oltre cinque chilogrammi ed ero anche stato premiato, per quel peso dall’allora regime, potessi cadere giù dal lettino che era collocato, ai piedi del letto dei miei genitori. Pertanto, non avendo un altro letto solo per me, sono stato messo a dormire nel letto con la nonna la quale, per farmi dormire, mi raccontava, perché da me continuamente sollecitata, delle storie le quali di solito erano sempre buie e, a me facevano particolarmente paura. La paura era alimentata dal fatto che le case erano scarsamente illuminate così come le strade e quasi mai nessuno usciva la sera dalle proprie abitazioni e sui muri erano continuamente Pagina | 31


proiettate delle ombre le quali assumevano le forme più strane, per cui i genitori e la nonna, per farci stare buoni ci dicevano che, quelle ombre erano il “liut”o “vincul” erano gli “spiriti dei morti” che vagavano durante la notte, per prendere i bambini cattivi. In quel tempo, infatti, l’illuminazione era fatta prevalentemente con un lume centrale a petrolio posto sul soffitto della cucina, che doveva essere costantemente alimentato immettendo, nell’apposito serbatoio, il liquido infiammabile.

Questa era un’operazione particolarmente pericolosa ed era fatta normalmente di giorno o prima del buio in quanto, per prima cosa, si doveva far raffreddare il lume spegnendolo. Sollevando la campana di vetro trasparente che racchiudeva lo stoppino e che, una volta acceso faceva illuminare la stanza, si svitava la parte portante dello stesso e per una feritoia era lì infilato. Lo stoppino era fatto di cotone e mentre un lembo era immerso nel petrolio, l’altro lembo era fatto uscire verso l’alto, mediante una rotellina zigrinata esterna e una ruotina dentata all’interno, attraverso il supporto che serviva per regolare la luce. Infatti, una volta acceso lo stoppino e rimessa la campana di vetro a chiudere il tutto, si procedeva alla regolazione della fiamma, più alta era più luce si otteneva salvo che, se la fiamma era regolata troppo forte, la campana di vetro regolarmente si spaccava con le inevitabili discussioni familiari sull’eccessivo spreco di luce che si aveva nella stanza e sull’oneroso costo che si doveva affrontare, per l’acquisto di una nuova campana. La lampada era anche un fattore di decorazione della cucina, infatti, essendo appesa al soffitto, poteva assumere varie forme e in particolare, quelle più eleganti erano fatte con la base, dove era contenuto il petrolio di porcellana decorata. La nostra era fatta semplicemente con la base bianca di porcellana con un supporto, di filo di ferro zincato, per appenderla al soffitto. Ora, poichè la lampada era appesa al soffitto, questa, una volta accesa, emanava un odore di petrolio bruciato e, se non regolata bene faceva salire, attraverso la campana di vetro, un denso fumo grigio che andava a spandersi sul soffitto. Questo, inizialmente di colore bianco ma, dopo qualche mese, assumeva un colore grigio per passare con il tempo, a un colore Pagina | 32


sempre più vicino al grigio fumo, pertanto si doveva periodicamente ritingere il soffitto, nuovamente di bianco.

“Acqua corrente” La cucina, che era il centro vitale della famiglia, aveva un tetto fatto con travature di legno ricoperto con fogli di eternit mentre il soffitto, per essere più accogliente, era stato ricoperto da uno strato di sottili canne vegetali (“cannelle”) smaltate con della malta e pitturato con la calce bianca. Sta di fatto che, quando pioveva, iniziavano le procedure di emergenza per la raccolta dell’acqua che cadeva, attraverso varie falle del tetto, giù dal soffitto. A mano a mano che gli anni passavano, le sorgenti della caduta delle gocce andavano ad aumentare con la necessità di fare continuo ricorso a tutto il vasellame che avevamo, comprese le pentole e i bicchieri. Ecco, allora l’ingegno paterno; “cercare di concentrare la caduta delle gocce in un'unica o, in una minore parte, della cucina”. L’idea era di canalizzare le varie gocce accompagnandole con un dito tenuto sul soffitto e fatto strisciare sino al punto più basso del soffitto stesso quindi, una volta regolarizzato il flusso, si riduceva il ricorso a molti recipienti. Il tutto procedeva se la pioggia era costante perché, una volta canalizzata, la goccia proseguiva con un flusso costante. Si doveva comunque controllare periodicamente che le gocce seguissero il sentiero tracciato, altrimenti si doveva cercare di ripristinare la traccia ma, dando fondo ai miei ricordi, di solito essa doveva essere convogliata creando una nuova via di scorrimento. Il problema aumentava quando la pioggia era a carattere intermittente per cui tali operazioni dovevano essere ripetute molte volte. Questo lavorio era chiamato da mio padre “la produzione di acqua corrente” e si vantava con i vicini di essere tra i primi, della via delle “baracche di Wagna”, ad avere acqua corrente fresca in casa!

I “Mussati” (Zanzare) Altro aspetto importane della baracca erano le finestre, che erano composte di due ante con il telaio di legno e all’interno sistemati quattro vetri sostenuti da una crociera, anch’essa in legno, e fissati sul bordo con dei chiodini e sigillati con dello stucco steso lungo il bordo con un dito e quindi lisciato con una spatola di acciaio. Le finestre avevano all’esterno due scuri a battente che permettevano di oscurare l’interno ma poco servivano per proteggersi dalla “bora” e dalla pioggia giacché, quasi mai essi combaciavano con gli stipiti. Inoltre, con il poco aiuto dato dalle finestre, anche queste prive di tenuta, il vento passava inesorabilmente attraverso e ci raggiungeva con degli spifferi che d’inverno facevano gelare l’acqua sul comodino. Pagina | 33


Il freddo si compensava mettendo, prima di andare a letto un mattone refrattario, che era stato tenuto tutto il giorno dentro il forno della cucina per riscaldarlo, e avvolto in uno straccio di lana, per non bruciare i piedi, e s’infilava in modo da creare un po’ di calore tra le lenzuola. Questa soluzione aveva però, alla fine, un inconveniente ed era dovuto al fatto che, appena entrato sotto le lenzuola, si usava mettere i piedi a contatto con il calore del mattone ma, avendo i piedi gelati, si formavano quelle che tutti noi avevamo e che chiamavamo le “buganse” (geloni) e si potevano vedere al mattino quando, infilando le calze di lana, ci si accorgeva delle chiazze blu rosa sui piedi e in particolare sulle caviglie e sui calcagni. Queste sparivano solamente con l’arrivo dell’estate quando il caldo aiutava il sangue a scongelarsi, dopo il freddo inverno appena trascorso, ed era il segno distintivo degli abitanti delle baracche di Wagna. Ma, l’estate portava un altro spiacevole inconveniente, sempre dovuto alle finestre, ed erano le zanzare. Durante la guerra, la proliferazione di questi insetti era aumentata in maniera esponenziale tanto da fare credere che la malaria appena debellata, dopo la bonifica degli anni ’20 delle paludi che si trovavano vicino a Monfalcone, dovesse ritornare. Si continuava a dare ai lavoratori il chinino ma noi, nelle baracche di Wagna non avevamo certamente le zanzariere e le finestre, che non proteggevano dal freddo, e non ci tenevano lontani dai “mussati”. Allora iniziavano le manovre estive di combattimento nei confronti di questi piccolissimi e famelici insetti. Si aspettava la sera, quando la luce della lampada illuminava la stanza e questi si disponevano, in ordine sparso, sul soffitto bianco della cucina ed era allora che aveva inizio la caccia. Le prime manovre di caccia iniziavano normalmente con l’attacco diretto dell’insetto spiaccicandolo sul soffitto ma, dato che il piccolo vampiro aveva succhiato già molto del sangue della famiglia, questo lasciava, a perenne memoria, delle chiazze rossastre che alla fine, dovevano essere pulite ma, dopo alcune settimane, si doveva inevitabilmente pitturare il tutto. Allora la tecnica si perfezionava escogitando nuovi metodi di caccia e di buon mattino s’iniziava nel preparare le armi che erano un manico di scopa (facendo però molta attenzione a non rovinare la scopa di saggina della nonna perché altrimenti erano guai per tutti) con, in cima, inchiodato un coperchio di scatola della pattina, usata in precedenza per pulire le scarpe, che normalmente era di colore marrone o nero e quindi, prima di andare all’attacco, si metteva all’interno un poco di olio di macchina per cucire e poi via, iniziavano le grandi manovre. Avevo spesso osservato e appreso la tecnica da mio padre il quale era piuttosto alto e quindi non aveva problemi nel raggiungere il soffitto che, in realtà, era piuttosto basso tanto che, se mio padre allungava le braccia, riusciva a toccarlo con estrema facilità ma, l’uso dello Pagina | 34


strumento di caccia preparato al mattino, permetteva una migliore efficacia nel catturare la preda. Allora provavo io e, dopo diversi insuccessi, riuscivo finalmente a catturarne qualcuno ed ecco che allora entrava in scena tutta l’arte che avevo imparato guardando mio padre: prima provavo direttamente da terra allungando l’arma (il manico di scopa con la scatola di pattina attaccata) il più possibile sino a toccare il soffitto quindi lentamente spostandomi piano, piano andavo verso “el mussat” (la zanzara) e quando ero sotto di lui, con un preciso colpetto, facevo salire il coperchio con l’olio chiudendo così, la sanguisuga bestiolina, all’interno dove cadeva nell’olio e lì rimaneva. Le prime volte però la tecnica lasciava a desiderare tanto che il più delle volte, “el mussat”, riusciva a sgattaiolare e dopo alcune giravolte si fermava in un altro luogo sul soffitto. Si ricominciava allora la caccia ma, dopo vari tentativi, avevo affinato la tecnica e avevo osservato che era meglio non inseguire il mostriciattolo appena scappato perché questi era ancora all’erta. Perciò, se lo volevi riprendere, era il momento sbagliato pertanto dovevo rivolgere l’attenzione a un altro, che era leggermente più lontano del primo, e non era pertanto in stato di agitazione. Succedeva, alle volte, che il coperchio con l’olio si rovesciasse cadendo per terra e così si doveva pulire immediatamente il pavimento di legno perché, altrimenti, l’olio sarebbe stato assorbito dalle tavole e questo avrebbe formato un alone di unto sul pavimento che doveva allora essere lavato con la soda e tanto olio di gomito, con le inevitabili e sonore osservazioni della nonna sul malcapitato, che aveva commesso il danno. Ora, tutto questo lavorio era compiuto dopo la cena, poichè si doveva mangiare con la luce accesa e, anche se si cercava di chiudere le finestre, questi esseri passavano con facilità dagli spifferi che le finestre e le porte avevano. Così che, dopo un poco, anche perché il caldo si faceva sentire, si apriva completamente il tutto lasciando il campo agli stormi di “mussati” che finalmente avevano ampia libertà di scelta, sui poveri “umani” che stavano cenando.

“Il giardino d’estate” La cena si terminava con l’uscita di tutta la famiglia dalla stanza della cucina per recarsi, come diceva mio padre, a teatro, sedendoci su di una piastra di cemento, con dei fori ovali nel mezzo, che dovevano servire per i tombini che sarebbero dovuti essere sistemati sulle fognature ma che, per la guerra, erano stati lasciati lì in attesa di essere nuovamente utilizzati, non appena la stessa fosse finita. Tutti occupavano posto, là dove trovavano lo spazio e, per noi bambini, era stesa una coperta sul bordo della strada, dove c’era la canaletta di scarico delle acque piovane e dove si era formato un piccolo lembo con dell’erba che il papà chiamava “il prato inglese de Wagna”. Mentre lui, la mia mamma, la nonna e lo zio Rino, quando non era a pescare, si sedevano sulla pietra aspettando i vicini che, dopo un poco, arrivavano, ciascuno munito di sgabello o sedia. Pagina | 35


Quel raduno era diventato ormai da molti anni una prassi, tanto che se mio padre non usciva, dopo cena, la preoccupazione dei vicini diventava sempre più palpabile tanto che dopo un poco qualcuno entrava in casa per verificare che nessuno fosse ammalato. Il ritrovarsi lì ogni sera d’estate, in quel particolare momento dove le preoccupazioni dell’avvicinarsi, verso la nostra regione, della guerra, che al momento era ancora lontana e non ancora realmente vissuta, davano una sensazione di benessere, di felicità nel sentire l’anfitrione, che era mio padre, nel raccontare delle buffe situazioni della vita che erano integrate con delle battute degli altri attori lì presenti e in particolare ricordo tre personaggi sempre presenti a quelle serate. Una in particolare era la figura del nostro vicino di casa che si chiamava “Libero” ed era un bravo ometto, sempre affaccendato così come la moglie “Erminia”, che aspettavano la sera per passare un paio d’ore con mio padre “Doro” e arrivava sempre con una piccola “carega” (sedia) impagliata e con l’immancabile cappello sulla testa. Si sistemava vicino a mio padre e aspettava l’inizio dello show sollecitandolo continuamente perché raccontasse altre storie. L’altra figura che era sempre lì con noi era Adelino, “el lombard” che era nato in provincia di Milano e, anche lui, arrivava con sua moglie “siora Ina” e con i due figlioli, che avevano circa la mia età, ed erano parte della combriccola di amici che vivevano nelle baracche di Wagna. Adelino era l’unico della via a possedere una moto con il carrozzino ed era amante dei cani, teneva, infatti, una cagna lupa femmina in giardino, ed era piuttosto pericoloso entrare da loro quando la cagna partoriva dei cuccioli così, si doveva chiamare i suoi figli o la siora Ina, prima di entrare. La terza figura che ricordo era di “Berto mat” (matto) che, in effetti, era una persona molto mansueta, ma non era completamente a posto con le “rotelle” e abitava all’inizio della via verso il canale, in una “baracca” con sua madre. Quando passavi vicino a casa sua, lo vedevi sempre affaccendato con i lavori di casa, che faceva con molta cura e dedizione, tanto che la sua specialità conclamata era scopare il pavimento, con la scopa di saggina. Quasi ogni sera passava davanti al nostro raduno serale del giardino d’estate, si fermava a parlare col mio papà che, bonariamente, gli chiedeva se aveva pulito bene il pavimento e, lui, con un modo di parlare un po’ particolare, poichè tendeva a fare uscire la lingua proprio nel momento che emetteva i suoni, rispondeva che aveva pulito tutto il giorno e ora rientrava per finire parte della cucina. Al momento di andarsene, salutava tutti e iniziava a incamminarsi verso la sua abitazione ma, fatti pochi passi, mio padre lo salutava di nuovo e allora ritornava velocemente sui suoi passi per ridarci la buona notte e ripartiva. Fatti altri pochi passi, non appena mio padre lo salutava di nuovo, egli ritornava e allora la cosa si protraeva fino a che mio padre la smetteva di salutarlo, allora guadagnava lentamente la via di casa per ricominciare il giorno dopo la stessa solfa.

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La strada era quasi completamente all’oscuro sia per il periodo di guerra e sia perché c’erano solo poche lampade in tutta la strada che emettevano una fioca luce ed erano sistemate in alto di traverso la via, tenute da due fili di acciaio zincato sostenuti da dei tubi, anch’essi zincati e fissati al muro di alcune baracche. Pertanto, se ricordo bene, le lampade dovevano essere state non più di quattro o cinque, per illuminare tutta la strada. Alcune serate, quelle senza luna, erano dedicate alla visione del “cinema” come diceva mio padre, che iniziava con l’osservazione dei movimenti che avvenivano nel fondo della stradina di fronte a noi e dove, in controluce, si vedeva l’andirivieni di uomini che entravano e uscivano dalla casa del “Strazariol” (stracci vecchi). Questa era posta al confine con quello della Checchina perciò il flusso dei clienti, la sera, era più intenso dando a noi la possibilità di un maggiore spettacolo per il lavoro che la signora, la in fondo alla strada, stava facendo. Ricordo la felicità di quei momenti, perché là, sdraiato sulla coperta assieme ad alcuni amici, si poteva contemplare il cielo d’estate pieno di stelle. In quei tempi si potevano vedere bene le stelle poiché il buio della strada era quasi totale e, nel silenzio rotto solo dal chiacchiericcio dei presenti, il più delle volte ci si addormentava. Allora, la mamma, mi prendeva in braccio e mi portava a dormire nel letto della nonna. Quel modo di vivere potrebbe sembrare oggi incivile ma, credo, di là dai mussati che almeno là fuori ci concedevano un poco più di tregua, la condivisione e socializzazione tra vicini fosse una forma istintiva di autodifesa nel confronto della società più benestante che viveva più in là, oltre il canale e verso il centro. Inoltre, la partecipazione ai dolori, ai sacrifici e alle gioie era condivisa da tutti mentre oggi, a distanza di tempo, quel tipo di rapporto si è dissolto, lasciando ognuno con le proprie pene e i propri dolori forse, in quel tempo, tutti noi eravamo come una grande famiglia.

“La guerra” Nel 1943, dopo la morte di mio nonno e la nascita di mia sorella, incominciarono ad arrivarci le notizie dal fronte della guerra che riportavano, nel luglio di quell’anno, lo sbarco in Sicilia degli alleati e del fronte che iniziava a spostarsi verso nord creando terribili battaglie di cui sapevamo attraverso “Radio Londra” o che c’erano riportate da chi aveva la corrente elettrica e la radio. Iniziava così un periodo di difficoltà sia economiche ma soprattutto dovute alla mancanza di cibo tanto da costringere mia madre ad andare, e fu vera fortuna, a lavorare dai “Naibo” una famiglia meravigliosa che lavorava a mezzadria la terra nella zona detta “Alberoni” e che si trovava a circa dieci chilometri da casa verso il mare e in una zona che era stata bonificata negli anni venti, dall’allora regime. Mio papà “Doro” era stato richiamato al servizio militare e inviato a Modena, dove rimase per un breve periodo e in seguito congedato per ridotte capacità. Aveva, infatti, contratto la “malaria” ma, nel breve periodo che era richiamato, la mamma mi portò con il treno sino a Pagina | 37


Modena per vederlo. Non ricordo molto di quel viaggio ma presumo che per il periodo fosse una grande avventura per tutti noi e immagino mio padre felice di rivedere la cara moglie ma soprattutto di potere riabbracciare il suo primogenito.

Papà a Modena il 12 maggio 1940 Al suo ritorno fu impiegato nuovamente come operaio presso il reparto “squadra rialzo” e credo si occupasse di riparazioni alle carrozze ferroviarie, ed è lì che subì il primo trauma della guerra in quanto, durante un bombardamento del mese di Aprile 1944, nello scappare per andare a ripararsi nei rifugi antiaerei costruiti all’interno del cantiere, una bomba cadde vicino al rifugio, proprio nel momento in cui lui stava entrando e lo spostamento d’aria fu così forte da sbalzarlo all’interno, contro un muro di contenimento dove subì una ferita alle gambe.

Appena la sirena suonò il cessato all’allarme, fu portato all’infermeria e medicato ma ricordo ancora la sua espressione di terrore quando ritornò a casa e ci raccontò di quella disavventura. Credo che da quel momento, unitamente al fatto di avere contratto la malaria, si debilitò fortemente tanto da ridurre il suo stato di allegria che era insito nella sua persona. I bombardamenti continuarono nei mesi successivi e mio padre, quando ritornava dal cantiere, ci raccontava dei fatti del giorno e in particolare di come si erano organizzati, per area, a scappare nei rifugi a loro destinati. Questi erano fatti in cemento armato e avevano la forma di una grande bomba, con la parte aguzza rivolta verso l’alto e un ingresso protetto, da una porticina di acciaio, riparata da un muretto e da un tetto, anch’esso in cemento armato, che permetteva l’ingresso da ambo i lati e poteva contenere, solo poche persone. Nel cantiere erano stati costruiti anche dei bunker più grandi, che potevano contenere fino a 200 persone, e avevano una forma d’imbuto rovesciato con la cima chiusa da una grata conica, Pagina | 38


in acciaio, da dove passava l’aria per gli occupanti il rifugio e in questo, varie volte, mio padre trovò riparo durante tutta la guerra. Noi vivevamo nel terrore che, le ondate di aerei che bombardavano il cantiere, potesse fare cadere qualche bomba sulla nostra casa perciò eravamo sempre preparati a scappare nei vari rifugi, sia quello della pescivendola, vicino a casa oppure, se si faceva in tempo, scappare nel rifugio principale che era stato costruito sotto il colle della Rocca. L’entrata era collocata sia dalla parte della piazza, ora chiusa dalla scalinata che dalla Piazza Centrale, vicino all’ex prefettura, sale verso la Rocca oppure, dal lato opposto, dove era stata ricavata con uno scavo, dietro la ferrovia e, si poteva raggiungere attraverso un sottopasso dei binari che univa Trieste con Venezia o Udine. Si dormiva in pratica vestiti, tanto che una notte, quella tra l’11 e il 12 aprile del 1944, subito dopo la Domenica di Pasqua, ricordo che iniziò il bombardamento con enorme fragore. Prima ancora che le sirene di allarme suonassero, svegliati nel cuore della notte e ancora frastornati da quegli scoppi, la mamma ci venne a prendere, dal letto dove dormivo assieme a mia sorella e a mia nonna e, in fretta nel buio più totale e con la paura che cresceva con l’aumentare dello scoppio delle bombe, raccogliemmo le nostre povere cose, che avevamo sempre a portata di mano ed erano contenute in una piccola borsa di tela con i manici, e scappammo lungo la via per andare al primo rifugio che si riusciva a trovare. Mentre noi scappavamo la nonna, che aveva difficoltà di correre, rimaneva imperterrita a casa e si metteva, come faceva a ogni bombardamento, sotto lo stipite della porta che dalla cucina dava alle camere e diceva, rassegnata “Dio dà e Dio prende se xe il mio destino che così sia”. Certo che, pensandoci oggi, viene da sorridere ma in quel drammatico momento cercavamo in tutti i modi di convincerla a seguirci ma lei, testarda ci congedava con un bacio. Quella notte la ricordo molto bene perché era una notte particolarmente buia e non faceva molto freddo e noi a piedi, mentre mio padre reggeva sulle spalle mia sorella piccola, iniziavamo il calvario alla ricerca di un rifugio, tanto che dopo avere chiamato la siora Gisela, che era già dentro il suo bunker privato questa, uscendo, ci comunicava che il rifugio era già al completo e spiacente, quasi piangente, si scusava di non poterci ospitare. Al che, sempre più impauriti e tremanti con la mamma che iniziava a piangere e la mia sorellina anche lei impaurita dagli scoppi, sempre più vicini, iniziammo a correre, nel buio più assoluto, verso il rifugio centrale della Piazza. Passato il ponte del canale de’ Dottori e giunti all’altezza dell’asilo delle suore, di via Roma, una potente esplosione ci fece cadere tutti a terra e, rapidamente, cercare di trovare riparo vicino al muretto di recinzione. Sempre più impauriti, stremati e piangenti, non appena rialzati e non sapendo se avremmo raggiunto per tempo il rifugio principale, corremmo nuovamente per cercare di trovare un altro bunker o un qualsiasi altro posto dove ripararci. Fu allora che mia madre disse di provare a chiedere a una zia che abitava lì vicino e così, con il fiatone e con la mia mamma che mi stringeva per mano e mio padre che portava la sorellina in braccio raggiungemmo, la casa chiamando poi, a gran voce, il nome della zia che, nonostante il rumore degli scoppi, riuscì a sentirci e a ospitarci nel suo rifugio privato. Era anch’esso, come quello della pescivendola, Pagina | 39


ricavato sotto terra nella cantina della loro casa ed era stato rinforzato con travature per sorreggere il soffitto. Qui, finalmente al sicuro di un tetto sopra le nostre teste, lentamente abbiamo ripreso fiato, rinfrancati dalla loro calda ospitalità e attenzione, riservata specialmente a noi piccini, offrendoci del latte caldo e un giaciglio dove riposare e sul quale dopo pochi minuti stanchi e assonnati ci siamo addormentati dimentichi dei sordi boati che erano filtrati dagli spessi muri del rifugio. Non ricordo quanto tempo abbiamo passato lì, nel caldo abbraccio di quelle care persone ma, non appena la sirena del cessato allarme suonò, i miei genitori ci svegliarono e, dopo i averli ringraziati per la loro generosa ospitalità, lentamente uscimmo proprio quando la notte stava per finire e le prime luci del mattino facevano capolino, da dietro le colline della Rocca. Appena usciti, abbiamo sentito le sirene delle ambulanze e quelle dei pompieri che sfrecciavano per andare a prestare i soccorsi nelle zone, lì vicino dove erano cadute delle bombe e dove c’erano stati molti morti. Trovammo, per la strada, molti conoscenti che ritornavano, alle loro case, dal rifugio centrale della piazza. Tutti avevano avuto le informazioni sui danni e sulle persone uccise, dal bombardamento che aveva colpito, l’albergo operai del cantiere navale e parte delle case, di via Randaccio e Colombo, nella zona della fabbrica della Solvey. Tutte queste persone assonnate e impaurite, grate di essere sopravvissute a quell’incursione, procedevano nelle varie strade come degli zombi così che, anche noi, ci siamo uniti a quella fiumana e abbiamo raggiunto la nostra casa. Trovammo la nonna ancora sotto lo stipite della porta, tremante di paura ma felice di riabbracciare i propri cari. Poi, dopo i consueti commenti sull’accaduto, la nonna riaccese il fuoco nello “spargher” sistemandoci, quindi, sopra la cuccuma del caffè di cicoria, non prima di avere aggiunto il solito cucchiaino di nuova cicoria, scaldando il latte e preparata la frugale colazione, che la guerra ci permetteva di mangiare. Quello che ancora oggi mi è rimasto, di quella notte, è stata l’angoscia nel ricercare un posto protetto dove ripararsi e l’affanno nel correre, attraverso i rombi delle bombe che ti rompevano i timpani, nella buia notte che incombeva su di tutti noi. Oggi, infatti, lo posso descrivere perché anch’io sono padre, vedo i miei genitori preoccupati, non per loro stessi, ma, bensì per i due figli piccoli, che stavano cercando di portare in salvo, e posso intuire i loro sentimenti e il loro dramma interiore nel non potere proteggere le loro amate creature. Dopo quella notte, altri bombardamenti si erano susseguiti ma, in quelle occasioni, avevamo potuto usufruire del rifugio della “Gisela la pescivendola” che lì ci ospitò, assieme alle sue figlie, le mie care amiche Anna e Clara, cosi che la paura veniva in parte diluita dalla loro presenza. Purtroppo, durante una delle ultime incursioni aeree notturne, era la notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 1944, non essendo potuti rifugiarsi tempestivamente da loro, abbiamo dovuto correre sino al rifugio della piazza centrale. Per nostra fortuna, siamo entrati dall’ingresso posteriore, quello dopo la ferrovia ed è lì che mia madre, nella calca, ci ha perso cadendo per terra e riuscendo, per una vera fortuna a sollevarsi, prima che la ressa delle persone impazzite dalla paura, la schiacciasse sotto i loro piedi. Pagina | 40


Noi, assieme a mio padre, eravamo riusciti a entrare e a trovare uno spazio libero dove potere sedere, tremanti, nella fioca luce che c’era in quell’antro pieno di gente affranta dal dolore e dalla paura. Iniziammo, quindi, a chiamare il nome della mia mamma e a chiedere ai vicini se avessero visto una donna sola che cercava i suoi cari ma, dopo un lungo e interminabile momento di panico per non riuscire a vederla, finalmente eccola riapparire tutta sanguinante alle braccia, dovuta alla caduta, correre verso di noi abbracciando il marito e i suoi due figlioletti. La galleria che serviva da rifugio, era stata scavata sotto la collina, e i due ingressi erano stati protetti con un muro a forma di elle che lasciava uno stretto corridoio per passare ed è lì che, sotto la spinta, di quei poveri esseri impauriti, la calca si faceva sempre più pericolosa e, se a mia madre era andata bene, dall’altra entrata della piazza, dove normalmente si accalcava la maggioranza delle persone, quella notte un bambino, tre anziani e un adulto morirono schiacciati, a causa di quel panico. Non appena si sparse la notizia, fu un susseguirsi di lamenti e di grida che imploravano di conoscere i nomi degli sfortunati e, in quel frastuono di voci che venivano ancor più amplificati dalla volta della galleria, tutti noi ci stringemmo a pregare e ringraziare Dio di averci concesso l’opportunità di essere ancora vivi e uniti. La galleria poteva contenere qualche migliaio di persone ed era stata costruita in forma semicircolare con la volta ancora grezza, da dove scendevano inesorabili delle gocce di acqua che filtravano attraverso gli strati di roccia sovrastante, e sulla quale scorrevano i fili della corrente. Credo che questa sia stata fornita da dei generatori autonomi, che alimentavano le poche lampade, appese al soffitto, e che producevano una fievole luce che permetteva appena di vedersi seduti, uno accanto all’altro. L’odore, o sì l’odore, lo sento ancora oggi, a distanza di settant’anni, che mi penetra nelle narici solleticandole con l’aspro odore di terra umida dove, unito all’odore forte del sudore e della paura che t’impediva quasi il respiro, passavi anche diverse ore, ad aspettare che la sirena del fine allarme tornasse a farsi sentire e a permettere che, quella folla tremante e vociante si riversasse, attraverso le uscite, verso le proprie case. Dopo quella notte, i bombardamenti notturni cessarono, e le incursioni aeree iniziarono ad avvenire anche di giorno per cui mio padre decise, dopo una riunione di famiglia, di andare sfollati a San Polo, che distava sì e no un chilometro, in linea d’aria, dalle baracche di Wagna. Ma, a differenza dei più, che erano andati sfollati nelle campagne del Friuli, la decisione di andare sfollati in quel posto fu descritto da mio padre, come un posto molto più sicuro perché lì vicino era sistemata la batteria contraerea e che, secondo lui, lì noi saremo stati più protetti e al sicuro, di non essere colpiti dai bombardamenti. Il giorno del trasferimento ci siamo svegliati molto presto e abbiamo iniziato a smontare i nostri poveri letti e a caricarli su di un carro trainato da un cavallo, prestatoci dai Naibo, assieme al comò e al tavolo della cucina compresa la credenza con le sei sedie qualche valigia contenente ciascuna i nostri indumenti personali. Dopo alcune ore, e dopo avere fissato il tutto, che nel frattempo aveva formato una specie di cumulo, con delle corde io sono salito in Pagina | 41


cima e così conciati, ci siamo avviati verso la nostra nuova residenza, che era stata individuata, e che si trovava nella casa di mia zia Teresina. Ci era stata data la possibilità di prendere alloggio nella soffitta, che si era liberata dai precedenti inquilini che, guarda caso, erano andati sfollati in un paesino della “furlania” perchè ritenevano, la soffitta e la casa, troppo pericolose poichè vicine alla postazione delle batterie contraeree ma che, secondo la filosofia di mio padre tale posizione fosse, al contrario, esattamente tra le più sicure. Siamo arrivati nel loro grande cortile e abbiamo iniziato a scaricare la mobilia partendo dalla cima, dove ero salito ed ero stato abbarbicato per tutto il viaggio, passando le cose più leggere che potevo sollevare e quindi sceso giù dal carro cercare di dare una mano ai miei genitori nel fare scendere le cose e portarle lentamente su per le rampe di scale sino alla nostra nuova residenza che, visto da dove provenivamo (baracche di Wagna) mi sembrava una reggia. L’alloggio era formato da due sole stanze e da un minuscolo locale destinato a gabinetto che conteneva solamente la turca e un lavandino. L’accesso all’appartamento avveniva attraverso una porticina che io riuscivo appena a entrare in piedi mentre i miei genitori dovevano chinarsi ogni volta che entravano o uscivano, pertanto la disposizione dei locali fu facilmente decisa; uno spazio fu dedicato a stanza da letto per i miei genitori e per il lettino della mia sorellina mentre l’altra stanza fu dedicata a cucina con il tavolo e le sei sedie e dove, in un angolo, ero stato sistemato io su di una rete da letto con sopra un materasso di crine. Avevamo lasciato la nonna Carmen sola nella baracca perché, diceva lei, doveva difendere la proprietà dai ladri e coltivare il piccolo orticello che noi avevamo sul retro della baracca e che in quei tempi era l’unica fonte di ortaggi e frutta, uva e ciliegie, mentre mio zio Rino era scappato, con grande dispiacere di mia nonna, su per i monti a fare il partigiano.

Mia sorella ed io, mentre il babbo era al lavoro al cantiere e mia madre a fare i servizi dai Naibo, eravamo portati dalla nonna nella baracca di Wagna e lì lasciati a giocare con gli altri amici della strada fino al ritorno dei genitori e, dopo avere salutato la nonna e raccolto Pagina | 42


qualche ortaggio e qualche ciliegia, si ritornava nel nostro “sicuro” rifugio vicino alla postazione della contraerea che talvolta entrava in azione con incredibili botti che ci assordavano e che la notte ci tenevano svegli per diverse ore. Una giornata di maggio di quell’anno, mentre eravamo all’esterno della baracca della nonna, assieme al vicino “sior Libero” sempre con il suo cappello in testa, è suonato l’allarme e, cosa strana, per la prima volta, nessuno si è mosso dal luogo, dove ci si trovava così noi, in piedi sulla porta di casa del vicino, abbiamo visto una formazione di bombardieri che dal mare venivano verso noi e che dopo avere sganciato le bombe sul cantiere alcune di esse cadere nei campi di Aquilio in fondo alla nostra strada e dopo il canaletto e la ferrovia. Le stesse, credo fossero tre, caddero, fortunatamente per tutti noi, non sulla ferrovia che dovevano presumibilmente colpire ma nel campo adiacente scoppiando con un immenso fragore, creando uno spostamento d’aria tale da farci trovare, sbalzati, a terra con il cappello del “sior Libero” che volava lontano e fu allora che la scena divenne esilarante poichè il bonario “sior Libero”, alzatosi immediatamente da terra correre a recuperare il suo amato cappello che dopo qualche metro riuscì a raccogliere e con fierezza rimetterselo sul capo per tornare poi velocemente presso dì noi che eravamo ancora a terra. Poichè tutti eravamo sani e salvi e la zona, quando il fumo si diradò, non aveva riportato alcun danno corremmo sul posto, dove erano cadute le bombe per vedere, più da vicino, cosa era di fatto successo. Trovammo dei grandi crateri ancora fumanti lasciati dallo scoppio delle bombe e da lì a poco altre persone, grandi e piccine, correre verso di noi per sincerarsi sull’accaduto, e allora i commenti si sprecavano sul fatto che se quelle bombe avessero colpito la massicciata e i binari della ferrovia sicuramente non saremmo ancora lì a parlarne. Dopo un po’ di tempo arrivarono i pompieri, che erano stati prima impegnati a soccorrere i feriti all’interno del cantiere navale, facendoci segno di allontanarci per evitare che gli aerei, che ancora stavano passando, sganciassero altre bombe. L’ultimo bombardamento che ricordo fu quello del giugno del 1945, verso mezzogiorno iniziarono i bombardamenti verso Portorosega e durante tal evento una bomba cadde sui casoni e distrusse anche il casone del nonno comprese le due batele (barche) che erano state lasciate incustodite, dopo la morte del nonno, poichè mio zio Rino si era arruolato con i partigiani. Durante quel bombardamento, che noi dapprima stavamo guardando, giacché le bombe cadevano piuttosto lontane, gli aerei si spostarono verso di noi per cui ci fu il fuggi-fuggi generale e, noi bambini fummo fatti scappare nei campi di Aquilio e da lì a guardare dove gli aerei sarebbero andati a sganciare le bombe. Nascosti dietro l’argine dei canaletti d’irrigazione, abbiamo visto che gli aerei si erano posti sopra i ponti di Pieris (i due ponti affiancati dove passavano la strada statale 14 e la ferrovia

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Trieste-Venezia) e, con un’incredibile serie d’incursioni, sganciare le bombe nel tentativo di distruggere le due arterie senza peraltro colpirle completamente. L’azione del bombardamento durò parecchio tempo tanto che, se inizialmente diffidenti, stavamo nascosti dietro l’argine, con il passare del tempo l’audacia prese il soppravvento tanto da farci uscire dai nostri ripari e in piedi osservare stupiti le evoluzioni degli aerei che, partendo dall’alto, scendevano in picchiata sui ponti sganciando e mitragliando e quindi con una rapida cabrata risollevarsi per andare in coda alla formazione e ridiscendere ancora velocemente. Finita l’azione, così com’erano arrivati, gli aerei sparirono lasciandoci ancora lì per molto tempo a commentare l’accaduto fintanto che ritornarono i miei genitori, che erano al lavoro, afferrandoci per mano non prima di averci fatto una sonora lavata di capo sui rischi che avevamo cercato nel starcene in piedi, come “salami”, senza pensare alle possibili conseguenze di essere feriti da eventuali sparatorie.

“Pippo” Il terrore più grande per noi, oltre ai bombardamenti, erano le operazioni notturne che erano fatte, nelle fasi finali della guerra, da parte di aerei solitari che arrivavano, senza che l’allarme fosse suonato, perché (così ci è stato raccontato dopo la guerra) volavano a bassa quota senza che i radar, della nostra contraerea, li potessero individuare. Questi aerei alleati, sembra che partissero dalle basi avanzate situate a Falconara Marittima con aereo tipo Mosquito (nome che fu utilizzato in seguito anche per una marca di motociclo) perché producevano uno strano rumore, non molto forte, ma quasi metallico come se qualche pezzo di ferro fosse in contatto con l’elica. Colpendo nell’oscurità essi rappresentavano una presenza misteriosa e incombente tanto da creare una vera psicosi per noi tutti così che a questi “fantasmi” fu affibbiato il nomignolo di “pippo”. Quando si sentiva arrivare, allora si smetteva anche di respirare non prima di avere rapidamente corso a spegnere la poca luce della lanterna e poi, seduti in silenzio, s’iniziava a pregare con la speranza che non ci fossero luci nelle vicinanze perché allora il pericolo era, molto più serio poichè “pippo” poteva sganciare uno “spezzone” (bomba incendiaria) cosa che ogni tanto accadeva nei dintorni.

“Il partigiano” Mentre le truppe alleate stavano faticosamente risalendo la penisola, a Monfalcone iniziarono le prime retate e deportazioni e, durante una di queste, nell’Agosto del 1944, mio padre fu preso in cantiere, dove stava lavorando e, assieme ad altri lavoratori, dopo essere stati radunati davanti all’ingresso, furono informati che sarebbero stati trasferiti al campo di concentramento della Risiera a Trieste. Pagina | 44


Ricordo che la voce si sparse in un momento e tutti noi, inorriditi e preoccupati per la sorte dei nostri cari e in particolare per mio padre andammo, correndo, verso il luogo del raduno a vedere se anche mio padre era tra di loro ma, per quanto ci sforzassimo di guardare, non riuscivamo a vederlo. Da qui la prima sensazione di tranquillità nel non riconoscerlo tra quei poveri esseri impauriti e consci della sorte che li attendeva più avanti. La colonna a un certo punto si mosse seguita e sorvegliata da un certo numero di soldati tedeschi che erano comandati da uno strano personaggio, seduto su di una macchina nera, anch’egli vestito di nero che impartiva degli ordini in una lingua che non capivo, ma dai cenni, fu chiaro che ci ordinava di allontanarci dalla colonna e di disperderci. Piangenti stavamo lentamente ritornando verso la nostra casa quando, da dietro il casello ferroviario che serviva per chiudere al traffico la strada di via Cosulich ogni qual volta il treno della linea Ronchi-cantiere navale, che portava le lamiere provenienti dalle acciaierie, doveva passare, vedemmo due persone correre e nascondersi dietro lo stesso e, con fare circospetto, farci segno di non guardare, dalla loro parte, e di continuare a procedere verso casa. Non avevo osservato bene quelle due figure, che, sgusciate via dalla fila nel momento in cui i soldati si erano girati e approfittando anche della curva che c’e’ prima del casello, si erano buttate letteralmente dietro la siepe che costeggiava la ferrovia e lì stavano rannicchiate per non farsi scorgere dai soldati tedeschi. Guardando mia madre la vidi sorridere e, felice, abbracciarmi per dirmi piano in un orecchio che una delle due figure era senza dubbio mio padre. Al solo pensiero di sapere mio padre in salvo ci faceva sentire come librati in aria tanto che in un attimo e quasi correndo abbiamo raggiunto la nostra casa e ci siamo messi ad aspettare il ritorno di mio padre che tardò molto a ritornare perché, come ci disse poi, si rifugiò per parecchie ore al riparo del campo di Aquilio dietro l’argine del canaletto d’irrigazione vicino alla ferrovia coperto dalle piante di pannocchie che aspettavano di essere raccolte. Era quasi notte quando fece ritorno, sudato fradicio e pallido come un cencio, tanto che ci vollero molti giorni affinché tornasse alla normalità e iniziasse a raccontarci com’era riuscito a fuggire rischiando di essere visto e fucilato. Ormai regnava l’odio più assoluto nei confronti dei nazifascisti e dei loro alleati tedeschi che con lo stile tipico degli assassini si comportavano ferocemente con la povera gente e soprattutto con quelli che ritenevano essere legati ai partigiani, andando nelle loro case a infierire fisicamente e psicologicamente con gli inermi e i vecchi. Quelle persone, che prima della guerra erano gente mediamente analfabeta e viveva miseramente, con la fratellanza dei fascisti e dei loro alleati tedeschi, divennero i signori incontrastati della città tanto da costringere chi sentiva l’oppressione nazista e soprattutto fascista, a scappare sui monti e combattere come partigiani. Ricordo quando mio zio Rino, aveva allora venti anni, una sera del 1943, mentre eravamo a tavola per cenare le povere cose che mia madre riusciva a trovare andando a lavorare dai Pagina | 45


contadini “i Naibo” oppure andando con la bicicletta in giro per i paesi della furlania a barattare il pesce, da lui pescato, con galline, uova e poco altro, ci informò della sua decisione di andare a unirsi alle brigate partigiane che stavano sorgendo sui monti della vicina Jugoslavia. Fu un terribile colpo per tutti noi ma soprattutto per sua madre, mia nonna Carmen, la quale iniziò sommessamente a lamentarsi mentre suo fratello “Doro”, mio padre, cercava di convincerlo della pericolosità di quella scelta e sul fatto che avrebbe abbandonato la barca e il casone, lasciatoci dal nonno Vittorio dopo la sua morte, e ci avrebbe messo in grosse difficoltà economiche senza il suo contributo con il frutto del suo pescato. Tra pianti e lamenti, pur con le azioni di convincimento del fratello maggiore a lasciare stare quella decisione, egli fu irremovibile spiegandoci chiaramente com’era maturata quella decisione ma soprattutto perché l’odio nei confronti nei nazifascisti era tale che era pronto a sacrificare la sua vita pur di non subire l’onta infame di coloro che si erano alleati con gli oppressori tedeschi e tra di loro c’erano anche delle persone che abitavano vicino a noi e che sino a prima della guerra, pur nella loro mediocrità e ignoranza, ci erano stati sempre amici. Partì in una notte buia e piovosa con un piccolo zaino contenente i suoi pochi indumenti personali, un maglione fatto dalla nonna e un cappotto che ricordo essere stato fatto da mia madre usando una vecchia coperta di lana, qualche tozzo di pane e un berretto che era stato prima usato da mio nonno e, dopo avere baciato sua madre in lacrime e abbracciato gli altri membri della famiglia, sparì nel buio di quella notte piovosa. Non avemmo più notizie di lui sino al mese di Maggio 1944 quando una persona si presentò da noi e ci consegnò una lettera scritta dallo zio Rino con la quale ci annunciava di trovarsi in un posto segreto tra le montagne nei dintorni di Sezana, sopra Trieste, e di essere ammalato pregando di portare a lui degli indumenti, una coperta e del cibo oltre che alcune medicine e di confermare, dopo avere bruciato la lettera, al latore della missiva se qualcuno fosse potuto andare a trovarlo. La decisione fu immediata e, visto che mio padre doveva essere presente al lavoro e soprattutto per non creare dei sospetti, fu deciso che sarebbe stata mia madre ad andare a trovarlo e portare quanto richiesto. Stabilito, con la persona che ci aveva portato la lettera, il giorno che mia madre sarebbe andata da lui, lo stesso ci diede delle informazioni, ovviamente segrete, su come fare per andare a raggiungerlo e non prima di averci fatto giurare di non rivelare la posizione dove incontrare lo zio. La mamma avrebbe dovuto raggiungere Sezana, (che per quei tempi non era proprio vicina (circa quaranta chilometri) e tantomeno sicura perché, oltre ai soldati tedeschi di stanza in quella zona, parecchie formazioni di partigiani stavano operando con diverse azioni militari nei confronti degli invasori nazisti), andare in una certa osteria e aspettare che qualcuno la raggiungesse per accompagnarla dallo zio Rino. Pagina | 46


Partito il messaggero che ci aveva spiegato la situazione della salute dello zio, iniziarono i preparativi per il viaggio di mia madre, che al tempo aveva venticinque anni e aveva da poco partorito la secondogenita, mia sorella Silva. Con le raccomandazioni di mia nonna e di mio padre si mise a raccogliere le cose, da portare allo zio, in un sacco di juta riempito di fieno, per non creare sospetti e, dopo avere preparato la bicicletta che era la nostra unica fonte di movimento e trasporto, il mattino presto del giorno dopo, iniziò il suo viaggio difficile e pericoloso attraverso tutto il carso triestino fino a Sezana, luogo dell’appuntamento. Fortunatamente per lei, il tempo era bello così poté procedere lentamente, con il suo bel sacco di fieno in bilico sul manubrio, e iniziare a salire fino a raggiungere l’altopiano sopra Sistiana nel paese di Malchina e da lì procedere per la strada tortuosa, attraversando diversi paesi e villaggi, e dopo quasi cinque ore raggiungere il punto fissato per l’incontro vicino a Sezana. Durante il viaggio incontrò solo poche pattuglie di soldati tedeschi che non fecero caso a lei e al suo sacco di fieno ma, vicino a Monrupino, la gomma anteriore, (che ricordo essere fatta con un cilindro di gomma piena avvolto attorno al cerchione e tenuto assieme da un gancio, in acciaio, che infisso tra’ le due estremità del cilindro le teneva unite e permetteva allo stesso di formare una specie di copertone, non molto morbido, ma sicuramente efficace), si staccò facendo finire mia madre per terra con tutto il sacco. Fu un momento di particolare terrore vuoi per la caduta ma soprattutto per la ruota che si era rotta, si mise comunque a provare a sistemare la gomma ma inutilmente. Fortunatamente dopo un po’ passò una famiglia di contadini sopra un carro tirato da dei buoi e, fermatisi accanto, provarono ad aiutarla a riparare la bicicletta ma, visto che l’operazione era difficile, presero mia madre e la bicicletta con il sacco, e la sistemarono sul carro accompagnandola sino al loro casolare dove l’uomo riparò con degli attrezzi adatti la ruota. Nel frattempo mia madre si riposò presso quella meravigliosa famiglia che parlava con difficoltà l’italiano perché usava la lingua slovena, facendo colazione con un po’ di latte e un tozzo di pane appena sfornato e raccontò il motivo di quel viaggio. Certamente fu incauta nello svelare loro il vero motivo del suo viaggio ma, poi scoprì che la stessa famiglia aveva anch’essa un figlio partigiano e che si trovava praticamente nella stessa compagnia di mio zio Rino, dando anche a mia madre del pane fresco da portare a quella povera gente nascosta sui monti lì attorno. Salutata e ringraziata quella famiglia, mia madre riprese la via verso Sezana che non distava molto da quel paese e, verso mezzogiorno, si trovò nell’osteria ad attendere l’incaricato che doveva accompagnarla da mio zio. Questi si fece vivo dopo poco tempo e, dopo avere verificato chi era veramente mia madre e accertatosi che nessuno la avesse seguita, incominciarono il viaggio, sempre in bicicletta, e attraverso foreste sempre più fitte, raggiunsero un gruppo di baracche che erano adibite a ospedale (in seguito abbiamo saputo da mio zio che quel luogo era l’ospedale di Franja e che durante la guerra avevano lì curato centinaia di partigiani) sino alla baracca dove era ricoverato, mio zio Rino.

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Mi raccontò, mia madre, della commozione che avvolse entrambi mentre, stretti in un abbraccio e piangenti, mio zio raccontò le vicissitudini passate in quei mesi all’addiaccio e alle paure delle ritorsioni dei tedeschi nei loro confronti e di come si fosse procurata una grave polmonite che ora stava lentamente curando con l’aiuto dei medici del campo. Mia madre, vedendolo in quello stato, denutrito e magro, con gli abiti sudici e rattoppati gli consegnò il mangiare che voracemente divorò e quindi la parte rimanente la divise equamente con gli altri poveri esseri lì accanto, ricoverati. Prima di fare ritorno a casa e prima che sopraggiungesse la notte, badò a lavargli la sua biancheria e, portando i saluti di noi tutti e, prima di tutti quelli della nonna, gli raccomandò di essere prudente e di fare attenzione alla sua salute. Riprese quindi la via di casa, dove arrivò la sera tardi trovandoci ancora alzati ad aspettarla per sentire le notizie sul viaggio e su come aveva trovato lo zio. Il 1945 fu, per tutti noi, il periodo più duro poichè c’era una reale difficoltà a trovare qualcosa da mangiare e si andava avanti con i pochi soldi che mio padre riceveva dal lavoro al cantiere e dalle cose che la mamma riusciva ad ottenere, in cambio del suo lavoro dai Naibo, ma che ci permettevano almeno di sopravvivere. Ci mancava il pescato che lo zio Rino, ora partigiano, non portava più a casa e non permetteva alla mamma di andare a barattare nei paesi della furlania. Fu così che s’iniziò a mangiare la polenta per pranzo e per cena e, alle volte, c’era data al mattino a spesse fette, fredde che noi si metteva nel caffelatte e si addolciva, mancando lo zucchero, con una presina di sale da cucina. Ricordo che, al solo odore del latte e della polenta, al mattino per me era un vero incubo tanto che ancora oggi ho difficoltà a bere il latte perché sento ancora il sapore amaro del sale ma, essendo l’unico alimento reperibile il mattino, mi tappavo il naso come fosse una medicina e bevevo quell’orribile intruglio tanto più che il caffè, mentre nei primi anni di guerra era fatto con la cicoria, a fine guerra avevi difficoltà a comprare anche quello e allora l’ingegno paterno si scatenava.

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Si usava allora, almeno nel mese di settembre, dopo aver raccolto la poca uva che avevamo, e spremuta per fare il vino, raccogliere gli acini schiacciati, spargerli su una grande lamiera zincata, e lasciati a essiccare al sole. Dopo la separazione dalle bucce, si raccoglievano i semini rimasti e, asciugati, si mettevano a tostare in un tegame particolare che era fatta con la base come la padella ma chiusa superiormente da un coperchio tronco conico con uno sportellino che si poteva chiudere. Al vertice del cono c’era una manovella metallica con, alla sua estremità superiore, una manopola di legno, che entrava nel coperchio e reggeva una specie di elica a due braccia che erano fatte ruotare dopo avere posto tale strumento sul fuoco a tostare. Pertanto, avendo molta cura nel non disperdere nemmeno un semino per terra, dopo avere posto la padella sul fuoco, si buttavano, all’interno dello sportellino che era poi chiuso, i semini e s’iniziava a girare la manovella piano-piano sino a quando non iniziava a uscire un gradevole odore di tostatura. Allora, s’iniziava ad aprire lo sportellino per sincerarsi che gli stessi non bruciassero troppo e quando la nonna, che era la responsabile della cucina, dava il suo consenso, era ritirata dal fuoco la padella e si facevano uscire i semini tostati, su di un piatto. Quindi, dopo che si erano raffreddati, si passava alla loro macinazione.

La macinazione era fatta con l’apposito attrezzo detto “masinin” (altro non era che il macina caffè) fatto di legno e anch’esso composto di una base quadrata con un cassettino estraibile munito di un pomello di ceramica bianca e con, sulla parte superiore, un coperchio semisferico con uno sportellino, anch’esso metallico, che reggeva una manovella a z che aveva, alle due estremità, un supporto girevole in legno e all’altra estremità, che entrava nel

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supporto quadrato, aveva una ruota dentata conica fatta di ottone che poggiava su di una base anch’essa conica e anch’essa dentata. Si procedeva quindi con l’operazione di macinatura prendendo, piano-piano, i semini tostati infilandoli nello sportellino e girando lentamente la manovella si trasformavano in una polvere scura, che odorava di tostatura, e che cadeva nel sottostante cassetto. Una volta terminata la macinatura di tutti i semini, era estratta dal cassettino e riposta, chiusa, in un contenitore metallico munito di coperchio e lì conservata sino al momento del suo uso per preparare il finto caffè che, di là dal colore, credete a me, faceva uscire un intruglio che niente aveva del sapore, non dico del caffè che al momento nessuno ne ricordava il gusto ma neanche di quello, meno costoso, che era quello di cicoria.

I tristi episodi della guerra raggiunsero anche Monfalcone e, oltre ai bombardamenti che si erano susseguiti nell’arco del 1944 e parte del 1945, ci furono parecchi episodi d’intolleranza fra opposte fazioni di coloro i quali sostenevano il fascismo e quelli che stavano patteggiando con le milizie jugoslave. Pertanto non c’era giorno che qualche atto di violenza accadesse e fu così che iniziarono ad arrivarci notizie di stragi perpetrate ora da una fazione ora dall’altra, sulle colline che circondavano la nostra regione e in particolare sulle barbare uccisioni di uomini, donne e bambini che erano fatti sparire gettandoli nelle foibe. In quel periodo sembravano solo fantasie della gente ma, come fu tristemente noto dopo la guerra, furono riesumate migliaia di salme a conferma della ferocia che la guerra aveva saputo generare, non solo nei confronti degli invasori tedeschi ma, e soprattutto, tra persone che sino a poco prima vivevano ed erano considerate genti civili ma che, prive di propria ideologia, si lasciarono usare dalla follia di pochi fanatici fascisti per scatenare l’odio tra gli amici e i fratelli italiani. Nel mese di maggio del 1945 le truppe alleate neozelandesi entrarono a Monfalcone e una loro compagnia si accampò nel campo proprio dietro casa mia sistemando delle tende, e una cucina da campo, a ridosso della rete di cinta del mio orto. Per noi bambini fu una vera e propria cuccagna giacché era diventato il nostro ritrovo quotidiano e dove trovavamo dei generosi mecenati i quali iniziarono a viziarci nel donarci le cose più buone che la loro cucina poteva preparare, così ci trovammo a mangiare finalmente del buon pane, della cioccolata (ahimè e chi se la ricordava così buona!) E delle pietanze che loro preparavano per tutta la compagnia. Pagina | 50


Divenni, in breve tempo, la mascotte della compagnia tanto che, se per un giorno non mi facevo vedere, il cuoco del campo veniva da mia nonna a chiedere se per caso stavo male e le consegnava sempre qualche leccornia per me. Il mangiare, visto anche la fame che ci si ritrovava, era molto buono, anche se in alcune pietanze usavano mettere del dolce che sinceramente ne rovinava il gusto, in particolare era difficile mangiare la pastasciutta condita con della conserva e con sparso sopra del sugo una cosa dolce che non ho mai capito cosa fosse. Talvolta, quando la mamma riusciva a portare a casa qualche gallina dai Naibo, allora la nonna preparava un pasto luculliano con la gallina “in tocio” (sugo) e una grande polenta che era versata, una volta cotta, su di un tagliere di legno tondo e, fatta a pezzi usando un filo che era passato, al di sotto la fumante polenta e quindi sollevato provvedendo prima a dividerla per metà poi in quarti e cosi via fino a ottenere le dimensioni delle fette necessarie.

Quando il profumo della polenta si spandeva per l’orto e arrivava fino alla cucina da campo dei neozelandesi, vedevi il cuoco che arrivava da noi portandoci della cioccolata che negoziava con la nonna per una fetta di polenta. Era uno spasso nel seguire le trattative tra uno che parlava neozelandese (qualche parola d’italiano) e mia nonna che tentava di spiegarsi in “bisiaco antico”, ma alla fine trovavano sempre un compromesso e così, mentre il cuoco se ne ritornava, con la sua brava fetta di polenta fumante, al campo per prepararla, l’ho visto di persona, friggerla su di un tegame con un po’ d’olio e cospargerla di zucchero e di una polvere marrone (cannella) e quindi, al riparo dagli sguardi indiscreti, beatamente mangiarsela. Verso la fine del 1945 i neozelandesi lasciarono il loro campo per altre destinazioni e, ricordo, la commozione di noi tutti nel salutarli quando, smontate le loro tende, salirono sui grossi camion e lentamente andarsene salutati da uno stormo di ragazzini festanti e da qualche adulto con le lacrime agli occhi. Non appena se ne furono andati, noi ragazzini ci precipitammo sul mucchio di scatoloni vuoti che erano rimasti nel campo e lì a giocare aprendoli e tirandoseli addosso fino a che il mucchio, che era stato lasciato ben stivato e ordinato, non si ridusse a un campo di battaglia con pezzi di cartone che volavano e ragazzini che cercavano qualcosa al loro interno. Fu durante quella battaglia dei cartoni, che aprendone uno trovai al suo interno una banconota da cento lire (in quel periodo un operaio guadagnava mediamente 600 lire il mese). Pagina | 51


Avevo all’epoca circa sei anni e non avevo bene l’evidenza di quanto valore potesse avere quella banconota quindi, facendone uso a mo’ di banderuola la feci vedere agli altri amici che come me non ne avevano mai vista una e allora feci la cosa più stupida che un ragazzino potesse fare. Invece di andare a casa dai miei genitori per chiedere consiglio, assieme al branco scatenato di amici mi recai nell’osteria “de Milio”, che era confinante con il campo dove avevamo trovato la banconota, per chiedere all’oste se potevamo comprare da bere qualche cosa. Per nostra sfortuna “el sior Milio” era andato in cantina a travasare il vino così chiedemmo a un avventore, lì presente, cosa era e quanto valeva quella banconota rossa e, da disonesto qual era e molto probabilmente lo sarà ancora oggi, approfittando di noi poveri e sprovveduti bambini prese la moneta e ci disse che per poterla usare bisognava recarsi in banca a cambiarla con monete più piccole. Da poveri e ingenui, quali eravamo, davanti ad un adulto ci lasciammo convincere pregandolo se poteva recarsi lui in banca a cambiare la banconota mentre noi avremo aspettato lì finche non fosse ritornato con le monete più piccole. Lui prese la banconota e velocemente si avviò, come ci disse, verso la banca che si trovava a centro di Monfalcone mentre noi, seduti sui gradini, fuori dall’osteria già pregustavamo l’idea di bere, dopo un po’, un bel bicchiere fresco di spuma (la sola bevanda che si trovava in quel locale a parte il vino). L’attesa all’inizio non ci sembrava così lunga ma, passate alcune ore, cominciammo a maturare il sospetto che qualcosa non avesse funzionato nel chiedere aiuto a quel “bravo signore” cosi entrammo a chiedere all’oste, secondo lui, quanto tempo ci voleva per andare e tornare dal centro città e fu lì, che fummo colpiti dall’atroce verità, che il buon “Milio”, avendo capito la situazione, ci svelò insegnandoci, per la prima volta che “fidarsi e bene ma non fidarsi è meglio” e che la nostra ingenuità aveva fatto sì che quelle cento lire andassero a finire in tasca di “quel figlio di p... na” come bene si espresse l’oste “Milio”. La storia non si fini lì perché ritornato a casa, raccontai tutta la storia alla nonna e alla mamma e, non sto a riferire quello che dissero, ma oltre alla sonora ramanzina ricevetti anche un castigo: per due giorni fui costretto a starmene rinchiuso in camera mia.

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“Il dopo guerra” E poi finalmente la guerra finì, era il mese di aprile del 1945, lo ascoltammo alla radio e così tutti noi, gridando di gioia, ci precipitammo in strada dove, dopo un po’, si riversarono tutte le infinite anime sofferenti di quel triste periodo passato nascoste in sostanza nei bunker o rinchiuse in casa ad attendere che qualcosa succedesse a sollevare lo spirito ma soprattutto a risollevare le speranze di un futuro di vita migliore e riuscire finalmente a riscoprire le vere amicizie e non continuare a vivere nel sospetto che il tuo vicino potesse essere quello che si chiamava, in quei tempi, collaborazionista di quegli ignobili esseri, che erano i fascisti. Furono giorni e mesi ancora più terribili dei bombardamenti perché l’odio dei torti subiti fece scatenare la ritorsione nei confronti di questi ultimi che, quando erano rintracciati, o erano gettati nelle foibe oppure, ed era la cosa che succedeva più spesso, presi nel buio e riempiti di botte. Io credo, anche se ero ancora piccolo per capirlo, che non fosse quella la via per trovare la pace ma, se ricordo le notti di terrore che passavo quando, durante il periodo fascista, gruppi di facinorosi venivano sotto le nostre finestre a cantare e a inneggiare al Duce, solo perché mio zio era andato a fare il partigiano, allora, forse, tutto può essere accettato. Ho riconosciuto molti di quei vigliacchi che, non appena la guerra finì, si trasformarono in tanti codardi agnellini giurando davanti a tutti che loro niente avevano avuto da fare con il passato regime e questo perché non erano uomini ma solo voltagabbana pronti a tutto, anche di uccidere o fare uccidere il loro migliore amico, solo per salvare il proprio c… lo. In quell’anno, era estate inoltrata, un bel giorno ricevemmo la sorpresa di vedere arrivare di ritorno mio zio Rino, dal fronte dove era stato partigiano, ancora con la divisa grigio-verde e il berretto con la stella rossa tutto sporco e sudato salutare tutti e, prima di farsi abbracciare, avvisarci che era pieno di pidocchi e che aveva bisogno di fare un bagno e rasarsi completamente. Mentre lui si riposava, sotto l’albero di ciliegie, e mangiava una scodella di minestra mia madre, accese il fuoco nel “casotto”, che era stato costruito in legno e lamiera ondulata nell’orto di casa e che serviva da deposito di legna e per preparare la “lisciva” per lavare gli indumenti. Preparò una grande tinozza di metallo zincato piena di acqua calda dove lo zio, dopo essersi tolto tutti gli indumenti che furono immediatamente bruciati con tutto il loro contenuto di pidocchi, entrò nell’acqua calda e fumante e assaporò finalmente il profumo dell’acqua e del sapone. Rimase lì immerso nell’acqua fintanto che la stessa divenne fredda quindi, dopo essersi asciugato, inizio a rasarsi completamente la barba e i capelli uscendo, dopo più di un’ora, completamente rigenerato riacquistando finalmente l’aspetto della sua giovane età che allora era di ventidue anni. Finalmente poté, dopo più di due anni, riabbracciare la vecchia madre, il fratello Doro, la cognata Ida e, abbracciandomi felice, mi disse quanto gli ero mancato. Infine poté anche abbracciare la mia sorellina che era nata dopo che lui era andato partigiano e che non aveva avuto il piacere di conoscere. Pagina | 53


E piano-piano la vita si avviò verso la tranquillità della pace ritrovata. Nuovi valori iniziarono a farsi sentire e anche nella nostra famiglia s’iniziò a pensare di fare nuove cose e, dopo il rientro dello zio Rino, con il suo contributo di pescatore, ritornammo ad avere da mangiare il pesce e ad avere la possibilità di vendere alcuni chili alla cooperativa oppure alla “Gisella pescadora”. La vasca della pompa a mano, dove alle volte ci si lavava, era pulita per poi mettere il frutto del pescato dello zio e così potevi vedere all’interno tutta una varietà di pesci compresi anche dei “bisati” (anguille) che ogni tanto riuscivano a uscire dalla stessa e iniziare a strisciare per il giardino, allora succedeva di sentire l’urlo della mamma che, non essendosi accorta della provenienza di quegli strani animali, iniziava a scappare dentro casa. Fortunatamente c’era la nonna Carmen che velocemente andava a raccogliere i fuggitivi e li rimetteva al loro posto dentro la vasca fino al momento di andare a preparare il pranzo o la cena. Allora andava a prendere il pesce più appropriato per il brodetto oppure per la frittura o al forno e ritornava. Alle volte sembrava medusa attorniata dalle serpi, nel lavabo di casa iniziava la mattanza. Tagliava di netto, con una specie di macete, la testa del “bisat” lo sventrava pulendolo delle interiora facendolo quindi a pezzi e dopo averlo salato, a seconda se faceva il brodetto, oppure lo friggeva, lo infarinava e quindi lo gettava nella padella, con l’olio di semi bollente e lo friggeva. Normalmente il pesce fritto si mangiava per pranzo accompagnato da una “bombetta” (panino) di pane seguito da un po’ di radicchio del nostro orto, bevendo un po’ del vino che il papà riusciva a ricavare dalle poche viti che avevamo, ma poichè normalmente questo sapeva di “pet” (scoreggia) com’era normalmente indicato dalla nonna il sapore del vino, questo si allungava con l’acqua “Alberani”, altro non era che l’antesignana dell’acqua minerale gassata. L’acqua Alberani era fatta con della polvere bianca effervescente che si compravano in scatole contenenti delle bustine di due colori una rossa e una blu. Si prendeva una bottiglia con tappo piena d’acqua, (la ditta Alberani iniziò regalando una particolare bottiglia, non cilindrica come le altre, ma sfaccettata con un tappo a molla fissato sul collo della bottiglia munito di guarnizione di gomma), quindi si procedeva con metodo buttando il contenuto della prima e si seguiva mettendo subito l’altra chiudendo immediatamente il tappo perché, la combinazione dei due elementi, faceva ribollire l’acqua. Si agitava, volendo, un po’ la soluzione interna e dopo un paio di minuti si otteneva una meravigliosa acqua frizzante che assieme al poco vino disponibile formava la bevanda ideale per pasteggiare.

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Subito dopo avere pranzato e lavati i piatti nella “scafa” (lavabo), mentre noi bambini andavamo a riposare e la mia mamma a rassettare e rammendare, la nonna Carmen iniziava a preparare la cena, sempre a base di pesce, che in quel caso era il brodetto oppure il pesce al forno e lo lasciava andare, a fuoco lento, sullo “spargher” alimentandolo di volta in volta con un pezzo di legno o con un po’ di carbone coke oppure con qualche “torsul” di pannocchie fintantoché il brodetto era pronto quindi, anche lei si sedeva sulla sua poltroncina in vimini sotto la pergola e lì si addormentava. Normalmente era svegliata da noi ragazzini che, con circospezione, andavamo dietro la sua poltroncina e con un “bau” la svegliavamo. A distanza di tempo, posso dire di essere certo che lei lo facesse apposta nel fingersi addormentata, ma lo faceva solo per farci contenti nel farsi svegliare di soprassalto e gridare spaventata. Giocava quindi con noi e ci seguiva nei nostri spostamenti fino a che mio padre o mia madre rientravano a casa. Con l’imbrunire, quando iniziava a fare un po’ più fresco, ed erano le sette o le sette e mezzo, iniziava a preparare la polenta di farina bianca, mettendo sul fuoco la “cagliera” (paiolo in alluminio a forma semisferica con un manico semicircolare, in ferro, che era attaccato alla pentola mediante due orecchiette fissate all’estremità della stessa con dei ribattini sempre di alluminio) riempita d’acqua, che si andava a raccogliere dalla pompa a mano nel cortile, e lì lasciata con una spruzzata di farina sopra fino a quando l’acqua non iniziava a bollire. Allora la nonna prendendo dal sacco di juta, che si trovava dentro la credenza, con la “sessola” (una specie di grosso cucchiaio usato per svuotare l’acqua dalle barche da pesca) una buona quantità di farina, la faceva colare lentamente, nell’acqua in ebollizione, e iniziava a mescolarla energicamente con il “mestul” (mestolo per polenta) fino a che la stessa non diveniva più dura.

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E lì a rimestare per parecchio tempo fino a quando non si formavano delle croste sui bordi interni della cagliera allora, tolta dal fuoco, si ribaltava sul suo tagliere di legno con manico, di dimensione sufficiente a raccogliere tutta la polenta e dato che noi eravamo in sei, credo che la dimensione del tagliere fosse di circa cinquanta centimetri di diametro. La polenta che si usava cucinare, in quel periodo, era fatta con la farina bianca proveniente dal mais coltivato dai Naibo, i contadini dove lavorava la mamma, in cambio dei servizi che erano richiesti per governare quella famiglia numerosa. La polenta era di una consistenza piuttosto soda e ci permetteva, dopo averla tagliata con il filo a fette, di usarla al posto del pane e talvolta anche per dolce. La polenta era versata sul tagliere quando noi avevamo apparecchiato la tavola con la solita tovaglia a quadrettoni bianchi e verdi e, non appena lo zio Rino tornava dai casoni prima di ritornare a pescare la notte, s’iniziavano le manovre di attacco alla polenta. Si faceva la gara a chi riuscisse a tagliare e trasformare più in fretta i bocconi pronti all’uso. Pertanto, ognuno dalla sua parte e con una zona ben delimitata, si tagliava con la forchetta, direttamente dalla polenta ancora fumante, tanti pezzi della grandezza di una pallina da pingpong e si metteva a raffreddare sulla tovaglia che ricopriva il piano del tavolo di marmo. Sembrava a quel punto un campo di battaglia pronto alla guerra che si scatenava, non appena la nonna metteva nei piatti il brodetto. Si partiva all’attacco e velocemente, ma non per la gara quanto per la fame che ci si ritrovava, prendendo avidamente i singoli bocconi, che nel frattempo si erano raffreddati, inzupparli di sugo e quindi infilarseli in bocca e velocemente ingoiarli per poi passare al successivo boccone che era lì pronto e invitante che ti stava sfidando, per essere preso. Quando i bocconi pretagliati e quasi freddi, ma difficilmente diventavano freddi, mentre si masticava il boccone precedente con la forchetta, si andava a prepararne degli altri tagliandoli dalla polenta ancora fumante che era tenuta calda ricoprendola con un panno, stendendoli come i precedenti sulla tovaglia a raffreddare e si arrivava così all’assalto dell’ultima fetta che era aggiudicata al primo che aveva terminato di mangiare tutti i precedenti bocconi. Pertanto, quella fetta, era detta da mio padre “el boccon de Dio” perché permetteva di farne una specie di palla dove era infilato, al suo interno, un pezzo di formaggio, sempre dono dei Naibo, e il suo possessore la mangiava deliziato davanti a tutti noi che ingoiavamo, saliva a ogni boccone che spariva nella bocca del vincitore. Finita la cena e dopo avere sparecchiato, mentre noi bambini andavamo a giocare in strada con gli altri amici, mio zio Rino ritornava ai casoni. La nonna si sedeva a rammendare qualche panno mentre mia madre lavava i piatti e mio padre si metteva ad ascoltare il “giornale radio” dalla nostra nuova radio “CGE” (marca in voga allora) che faceva bella mostra sopra la credenza e che si poteva ora ascoltare dopo che era ritornata finalmente la corrente elettrica. Si ritornava nella serenità famigliare e s’iniziava a uscire dalla brutta esperienza della guerra.

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L’estate che sopraggiunse ci permise anche di andare al mare con la barca dello zio Rino e tornare lentamente a sorridere delle poche cose che ora si riusciva a preparare, ma, soprattutto, s’inizio a pensare al futuro. Un giorno d’estate, era una domenica, eravamo riuniti tutti attorno al tavolo della cucina (la mamma, il papà, la nonna, lo zio Rino, mia sorella Silva ed io) e stavamo mangiando il brodo di gallina. Era uso, la domenica, mangiare il brodo, perché ti permetteva di soddisfarti a pranzo assieme ad un po’ d’insalata e anche la sera, per cena, perché usavi la carne bollita, che non dovevi mangiare a pranzo, per preparare le polpette che erano cucinate con il sugo di conserva ed erano mangiate con la polenta. A un tratto sentiamo bussare alla porta e uno strano individuo zoppo si fece avanti chiedendoci l’elemosina. Sul momento mia madre si alzò per prendere qualche lira dal portafoglio ma non fece in tempo ad alzarsi perché lo zio Rino con un balzo fu addosso al mendicante prendendolo per la canottiera e iniziando a colpirlo con dei sonori ceffoni, quindi presolo di peso, lo accompagnò fuori dalla porta e nel giardino continuò a colpirlo con delle pedate finché lo zoppo riuscì a scappare. Quando lo zio Rino rientrò e si calmò ci raccontò di chi era quel losco individuo, era stato durante il fascismo il più feroce collaborazionista e la persona più disumana che il genere umano potesse creare, era, infatti, lo spione dei fascisti e chi, come Giuda, andava a prelevare tutti quelli che non erano iscritti al fascio, compresi molti degli amici di mio zio e, lui stesso riuscì a scappare, andando sui monti a fare il partigiano, prima che quell’infame zoppo potesse catturarlo. Per questo motivo, anche se mio zio era una brava e buona persona, la vista di quell’individuo lo fece letteralmente infuriare vedendolo ora venire a chiedere aiuto a casa di coloro al quale aveva fatto del male anche attraverso la deportazione nei campi di concentramento. Fu così che quella domenica il brodo si raffreddò perché nessuno riuscì a pranzare pur con la fame che ci si trovava ma, passata la buriana, la sera riuscimmo a mangiare non solo il brodo, ma anche le polpette con la polenta. Così le serate d’estate ripresero il loro tran-tran quotidiano con il papà “Doro” che raccontava le sue storie e i vicini che ripresero a venire nel nostro “giardino d’estate” e a dimenticare le invidie e gli odi che erano sorti alla fine della guerra. L’estate passò in fretta e arrivò il tempo per me di andare all’asilo (scuola dell’infanzia nonno, mi direbbe ora la mia nipotina Sofia) per cui fui portato da mia madre dalle suore che gestivano l’asilo in via Roma e lì lasciato. Rimasi da loro qualche ora, poi sgaiattolai via e lentamente me ne ritornai a casa tra lo stupore di mia nonna che mi vide dì fronte a lei piangendo e supplicandola di non rimandarmi dalle suore. Non immaginate cosa successe in asilo. Le suore iniziarono a preoccuparsi dal fatto che, pur cercandomi dappertutto, non riuscivano a trovarmi e allora fu necessario chiedere l’intervento della polizia comunale e dei carabinieri i quali iniziarono una vera ricerca, Pagina | 57


all’interno dell’asilo, dalla cantina alla soffitta e, non trovandomi, iniziò a subentrare il panico alle povere suore per cui decisero di andare a casa mia per informare i miei genitori della mia scomparsa. Al loro arrivo, la madre superiora e il maresciallo, vedendomi tranquillamente seduto davanti all’uscio di casa, chiesero alla nonna chi era andato a prendermi ma la nonna, spiegò loro che ero appena arrivato da solo a casa e che anche lei non sapeva come fossi arrivato fino a lì, ma che pensava di informare le suore non appena mia madre fosse ritornata dal lavoro. Poichè mi avevano ritrovato sano e salvo e dopo avere chiarito le posizioni sul come fossi arrivato da solo nuovamente a casa, pregarono la nonna di riferire alla mamma che l’indomani sarei dovuto essere accompagnato nuovamente in asilo a parlare con la madre superiora. La sera, al ritorno della mamma e del papà, fu riunita la famiglia per decidere il da farsi e chiedendomi del perché me ne fossi scappato via dall’asilo e cosi dichiarai che le suore mi facevano paura e che io non volevo ritornare più in quell’orribile luogo. Non ricordo bene quale fosse stato il risultato della riunione di famiglia, ma sta di fatto che l’indomani mi trovai nuovamente condotto per mano, da mia madre, fino all’asilo e dopo l’incontro con la madre superiora, fui riconsegnato alla mia maestra con la preghiera che fossi tenuto sempre sotto stretta sorveglianza e che fossi riconsegnato, la sera, quando mia madre fosse passata a prendermi. Quel giorno, nonostante le lacrime, passò e riuscii anche a giocare un po’ con i miei amici ma il tempo non passava mai e man mano che il tempo trascorreva, diventavo sempre più irrequieto tanto che fui più volte redarguito e anche portato davanti alla superiora che ricordo ancora era una donnetta piccina vestita con il tipico abito nero delle suore e con il capo ricoperto sempre da un copricapo nero con una parte interna bianca, la quale m’incuteva un terribile terrore al pensiero che fossi castigato e sgridato, ma la pia donna anche se molto severa, era pur sempre una donna e vedendomi tremante cercò in tutti i modi di calmarmi e convincermi di proseguire a frequentare l’asilo. Credo che il periodo della mia permanenza da loro fosse stata di breve, durata perché un giorno, non so per quale motivo, iniziai a farmi la pipì addosso così che le suore dovettero spogliarmi e lavare le mie mutandine e i miei pantaloni lasciandomi chiuso nel bagno in attesa che i panni si asciugassero. Quindi, dopo avermi lavato e asciugato, mi rivestirono e mi portarono a casa dalla mia nonna, credo che quello sia stato l’ultimo giorno della mia frequenza, all’asilo di via Roma. Ma il mio spirito di avventura non finì con la sola fuga dall’asilo bensì ebbe una serie di spericolate uscite da casa tanto da fare impazzire la povera nonna, che mi aveva in custodia. Infatti, una delle tante volte che scappai da casa, mi raccontava mia nonna Carmen, fu quando in un momento, non appena lei entrò in casa per preparare il pranzo e, sicura di avermi lasciato in giardino mentre ero impegnato nel mio gioco preferito (che era quello di piantare dei grossi chiodi per terra con un grosso martello, pensate che a distanza di molti anni, Pagina | 58


quando ero ormai ragazzo, abbiamo dovuto scavare il giardino per fare una soletta di cemento e, dallo scavo uscirono fuori centinaia di chiodi arrugginiti sparsi su tutto il giardino) quando la nonna uscì dalla cucina, non mi trovò lì, dove mi aveva lasciato. Nuovo dramma. La nonna inizio a cercarmi dappertutto in giardino e in casa, poi si recò dai vicini e quindi, mentre la disperazione della nonna stava aumentando all’inverosimile per avere perso di vista il piccino, iniziò a camminare piangendo verso il canaletto e i campi che si trovavano in fondo alla strada aiutata dai vicini. Non trovandomi qualcuno provvide a chiamare i carabinieri che arrivarono dopo un po’ e, sentite la nonna e le altre donne, decisero di estendere le ricerche in un’area più ampia fino ad arrivare al centro della città. Erano intanto passate diverse ore e finalmente qualcuno mi trovò seduto sugli scalini del municipio mentre stavo osservando il via vai della gente. Fortunatamente la persona che mi trovò era un vicino di casa che, vedendomi solo soletto, mi chiese cosa facessi lì e se ero solo oppure se aspettavo la mamma. Sentendo la mia risposta, iniziò a preoccuparsi, mi prese per mano e assieme facemmo ritorno verso casa dove, all’altezza del ponte dei Draghi, incontrammo la gente della strada che, accompagnata dai carabinieri, si stava avviando verso il centro di Monfalcone. Fu allora che la nonna per poco non svenne quando finalmente poté riabbracciarmi e, dopo avere ringraziato tutti, in processione accompagnati dalle altre donne, andammo verso casa.

“Guerra fra bande” Avevo in quel periodo sette anni e dovevo ancora andare a scuola perché, essendo nato di febbraio, perdevo un anno e fu cosi che avevo più tempo per dedicarmi ai giochi assieme agli amici più grandi della via i quali iniziarono a farmi partecipe delle guerre con gli altri rioni e in particolare con il nostro rivale di sempre che era quello delle “Ville”, dove abitavano le famiglie più agiate della zona, ed erano state costruite dai Cosulich per gli impiegati e i dirigenti del cantiere navale. Dato che abitavamo nella via delle baracche di Wagna, era inevitabile lo scontro di cultura e di posizione sociale tra noi e loro ma, mentre durante la guerra questa rivalità era rimasta assopita dai terribili giorni della guerra, non appena questa finì scoppiarono le prime liti tra le due bande dovute per il predominio del canale de’ dottori dove, negli ultimi giorni della guerra, i tedeschi in fuga avevano gettato in quelle acque un’infinità di munizioni e altro materiale bellico. Mentre alcuni dei più grandi si buttavano nel canale per cercare di recuperare qualche bomba a mano tipo Balilla, (ricordo ancora com’era fatta e il colore rosso e argento del suo rivestimento con una linguetta forata che permetteva, una volta tolta la sicura, di tenerla chiusa fino al momento del lancio e dopo pochi secondi questa esplodeva), i rivali del rione delle ville si tuffavano anche loro per contenderci la refurtiva: era inevitabile quindi lo scontro che si tramutava normalmente in una scazzottata. Pagina | 59


La cosa peggiore doveva ancora avvenire e successe un giorno quando il canale fu prosciugato per permettere, agli artificieri, di bonificarlo. Allora fu la corsa al recupero di quante più cose fossero possibili accaparrarsi prima che arrivassero gli altri contendenti. Furono organizzati dei gruppi mentre noi piccini avevamo il ruolo di sentinelle ed eravamo appostati dietro le siepi del campo accanto al canale, i più grandi scesero silenziosamente dentro l’alveo del canale ormai asciutto e iniziarono a raccogliere quante più cose potessero trovare scegliendo in particolare le bacchette di miccia che ci servivano per giocare nel far saltare dei barattoli e le bombe a mano Balilla queste venivano da noi usate quando ci recavamo, durante la giornata, sino alla “marina vecia” in cima alla diga foranea e lì, dopo essere stati istruiti dai più grandi, le lanciavamo in mare per cercare di catturare qualche pesce. Una sera, era piuttosto tardi, io non c’ero perché ero stato messo in castigo perché avevo probabilmente combinato qualche guaio, i più grandi si recarono al canale per recuperare ancora del materiale bellico quando furono attaccati dalla banda rivale delle ville. Iniziò una vera e propria guerra con botte da orbi, sassate e quant’altro tanto che parecchie teste furono colpite e malridotte e, dopo l’arrivo dei carabinieri, ci fu il fuggi-fuggi generale ognuno nella propria casa. Il mattino ci ritrovammo, come ogni altro giorno, nel solito luogo di raccolta che era la “campagnetta” (campo) situata accanto all’osteria “da Genio” dove avevamo scavato le nostre trincee con delle vere e proprie caverne dove avevamo sistemato tutta la nostra refurtiva e dove i più grandi ci iniziavano sulle tecniche di battaglia sia con la lotta, con i pugni e con le più strane armi di offesa e difesa che riuscivamo a preparare. Quando penso a che cosa facessimo in quel tempo mi vengono i brividi al solo pensiero che ci si sistemava all’interno di quegli anfratti scavati nella terra senza nessuna preoccupazione ne, tanto meno senza avere prima badato a rinforzare il soffitto con delle travature. Fortunatamente per noi, non successe mai niente e noi lì ci si sentiva come degli eroi pronti a scendere in guerra con l’odiato avversario delle ville. Quel giorno pertanto fu la scintilla che fece accendere il fuoco della vendetta, poichè ci ritrovammo con parecchia gente malridotta, chi con un occhio bendato, chi con un “bergnocco” (bitorzolo) in testa e altri con le mani fasciate. Allora i capoccioni più grandi iniziarono a preparare la strategia per riuscire a sconfiggere gli avversari che erano meglio equipaggiati di noi per il fatto di avere qualche lira a disposizione per comprare fionde oppure elmetti da guerra tedeschi o alleati. La strategia era di attirarli nella “campagnetta” ritenuta da tutti, area neutra perché si trovava vicino la centrale idroelettrica vicino all’omonimo porticciolo che si trovava lì nei pressi, quindi, dopo le dovute dichiarazioni di guerra con insulti vari che andavano dalle sorelle ai genitori, mentre una parte di noi si era nascosta prima a ridosso del porticciolo, i più grandi avrebbero attaccato frontalmente con i bastoni e le fionde, facendo in modo che il gruppo nemico arretrasse verso di noi nascosti e quindi, presi tra due fuochi, dargliele di santa ragione. Pagina | 60


E cosi facemmo e fu subito un successo tante’ che, se non fossero intervenuti i carabinieri, le cose per loro si sarebbero messe molto male ma si ridussero solo a qualche ammaccatura e a qualche occhio nero quindi, con l’arrivo dell’arma e l’arresto di alcuni dei contendenti più grandi, noi ci sciogliemmo come neve al sole e in un attimo l’area della battaglia fu completamente libera. Per un bel po’ di tempo le cose si quietarono e noi passammo a giochi molto più tranquilli spostando il nostro campo d’azione verso il mare e in particolare alla “marina Vecia” dove nessuno veniva a importunarci e dove, finite le “Balilla”, s’iniziò a svolgere dei giochi molto meno cruenti. Poichè era estate, s’iniziò a fare il bagno e a tuffarci dall’alto della diga oppure andare a correre nella bianca zona di scarico dei fanghi della fabbrica della Solvey che scaricava esattamente dietro la diga foranea, della marina Vecia. Il gioco più bello era quello di provare a correre in quel bianco fango senza caderci dentro e poi tutti bianchi ci si tuffava direttamente in acqua per pulirci e rinfrescarci.

“Il vino fatto in casa” L’orto di casa in quel tempo, (oltre al casotto dove si lavava la biancheria, oppure si utilizzava come deposito della legna e del carbone e talvolta era usato per cucinare o friggere il pesce), era composto di alcuni alberi da frutta, pesche e susine e circondato da delle viti di uva malvasia coltivate a pergola con la quale il papà cercava invano di fare il vino. Questo riusciva, spesso, con un sapore di “pet” (scoreggia) o di fondo di barile marcio nonostante, ogni anno, mio padre cercasse delle soluzioni sempre più ricercate per migliorarne il sapore. Aveva comprato diverse “pirie” (imbuti) in acciaio, in rame oppure fatte di rame e acciaio ma ciononostante il sapore non migliorava e allora si doveva comunque convivere con quel sapore e, visto che non si poteva comprarne dell’altro, si utilizzava durante i pasti. La quantità di vino prodotta si aggirava intorno ai 150 litri e il processo di preparazione era comunque un avvenimento per tutta la famiglia. S’iniziava nel mese di settembre con la vendemmia e noi tutti, nonna compresa, si saliva su delle sedie per arrivare a tagliare l’uva appesa nell’alto della pergola quindi, versata in una grande tinozza di legno, imprestataci dal sior Libero, il vicino, e quando tutta l’uva era raccolta, si passava alla sua spremitura che consisteva nel pigiare con i piedi tutti i grappoli fintanto che questi si trasformavano lentamente in mosto.

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Quello era il mio compito assieme a mia sorella Silva ma dopo un po’ di tempo, quando si iniziava ad essere stanchi, allora entrava in azione mio zio Rino che con vigorose pestate finiva il lavoro quindi, mio padre assistito da mia madre, passava alla spillatura del mosto prodotto togliendo con molta precauzione il tappo di legno che era stato infisso a mo’ di chiusura, nel foro fatto apposta per la raccolta del vino. Con un secchio, anch’esso di legno, infilato sotto il foro, si cercava di fare uscire lentamente il liquido che era lì raccolto, ma non sempre l’operazione riusciva bene, talvolta nel togliere il tappo e non essendo stati abbastanza veloci, il flutto di mosto schizzava lontano al di fuori del secchio. Figurati cielo! Scoppiava il finimondo perché la mamma e la nonna all’unisono gridavano creando cosi ancora più difficoltà al papà per rimettere nuovamente il tappo nella sede del foro. Finalmente chiuso il foro e cercato di portare la calma alle signore si procedeva alla nuova apertura questa volta con maggiore attenzione e mettendo il secchio di legno direttamente vicino al tappo che era lentamente tolto passando, quindi, a spillare il mosto sino al suo completo riempimento e, una volta chiuso nuovamente il tappo, si portava il secchio fino a una tinozza, anch’essa di legno, dove era versato il liquido ancora grezzo e pieno di bucce. I raspi d’uva e le bucce che rimanevano nella tinozza, dopo la spremitura e la spillatura del mosto, erano raccolti e posti su di una carriola di legno e trasportate nella baracca del sior Libero il quale si era attrezzato con tutti gli accessori per produrre il vino, che ovviamente anche lui produceva, compreso il torchio a vite. Questo era stato prima preparato allestendo, sopra il basamento, una gabbia di legno composta di doghe verticali e tenute assieme da una serie di anelli circolari che poggiavano tutto attorno alla vite madre. Si versavano quindi, al suo interno, i raspi e le bucce d’uva ancora contenenti del succo e si sistemava, sopra il cilindro ormai pieno, un coperchio anch’esso di legno che aveva un foro al centro per permettere il passaggio della vite. Si sistemava sulla vite madre un grande dado con applicate due estremità cilindriche ai due lati e s’iniziava ad avvitare fintantoché la vite cominciava a premere sul coperchio superiore e, avvitando ancora aiutandosi con dei tubi inseriti alle due estremità cilindriche, si schiacciavano i raspi e le bucce facendo scolare dalle feritoie il mosto rimasto.

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Era anche tradizione che la prima uscita di mosto, dal foro di spillatura, fosse raccolta in una brocca e tutti noi seduti attorno ad un basso tavolino si facesse merenda con le omelette di marmellata che la nonna nel frattempo aveva preparato e a noi piccini era dato da assaggiare, perché faceva bene alla pancia, quel liquoroso e dolciastro liquido mentre, i “grandi” bevevano un bicchiere a testa assieme alle omelette fumanti. Questa tradizione fu mantenuta per parecchi anni fintantoché, dopo gli anni ’50, fu più economico andare a comprare un litro di vino all’osteria “de Miglio”. La preparazione del vino, divenuta una vera saga di famiglia, si concludeva con due operazioni particolari. La prima era quella, (una volta che il mosto nella tinozza avesse bollito, cioè la fermentazione finiva), di passare al “travaso”, togliendo lentamente le bucce venute a galla da sopra il livello del liquido divenuto più chiaro, e con un recipiente di acciaio, lo si raccoglieva e lentamente lo si versava in delle damigiane di circa cinquanta litri e lì veniva lasciato, andando periodicamente a vedere come procedeva la sua maturazione. Nel caso di un aspetto, che mio padre riteneva impuro o con un sapore troppo forte di “pet”, si procedeva al suo travaso in un’altra damigiana passandolo attraverso una “piria”, che di anno in anno poteva cambiare, una volta in rame oppure in acciaio, per cercare di migliorarne la qualità che, come già detto, difficilmente si discostava dalla qualità degli anni precedenti. Si attendeva la sua completa trasformazione in vino che avveniva, per noi, nei primi giorni di novembre, con la festa di tutti i santi, quando era celebrata la festa “granda” e quando erano preparate le castagne arrosto o bollite. Venivano anche mangiate le sardelle salate che erano state preparate in estate, quando le portava lo zio Rino pescatore sistemandole, in grossi barattoli di latta che erano stati usati per la conserva di pomodoro. Questi c’erano regalati dal “bottegher” che aveva il negozio di generi alimentari nella strada parallela alla nostra, in strati alternati le sardelle ricoperte da uno strato di sale grosso da cucina e quindi si ripartiva sistemandone un altro strato di sardelle fino a che il vaso era quasi pieno, si copriva allora con un ultimo strato di sale e si poggiava sopra un tondo di legno, del diametro del vaso, poggiandovi ancora sopra dei mattoni o altro peso in modo che le varie file di sardine e sale lentamente si schiacciassero.

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Anche quest’operazione richiedeva una buona preparazione e ancorpiu’ una buona conservazione in luogo scuro e fresco. Data la stagione e non avendo la cantina, si sistemavano scavando una fossa nel pavimento del gabbiotto in giardino e coprendo il tutto con tavole di legno. Purtroppo, come per il vino, non sempre le cose riuscivano bene e il più delle volte si doveva buttare il tutto perché si era marcito tutto il contenuto. Comunque, quelle volte che almeno un vaso si salvava, durante la festa dei Santi si travasava il primo vino, che era ancora molto dolce, e si preparavano le castagne mentre il papà puliva le sardelle dal sale, le sistemava su di un piatto, le cospargeva di cipolla e ci versava sopra un po’ d’olio (solo un po’ diceva la nonna) quindi, invitati tutti i vicinanti (Adelino con la famiglia, il sior Libero con la siora Erminia e tutti noi compreso mio zio Rino), ci si metteva a tavola iniziando a bere il vino novello, mangiando qualche sardella salata e si finiva sempre con le castagne arrostite o bollite. Noi bambini non si beveva, normalmente, il vino ma per la festa c’era concesso una piccola quantità anche per accompagnare le sardelle e soprattutto le castagne che lentamente t’intasavano la bocca richiedendo inevitabilmente un sorso di vino e di acqua. La festa iniziava normalmente all’imbrunire e si procedeva fino a sera tarda con racconti e canti gustando finalmente i nuovi tempi di prosperità e benessere che si sarebbe succeduto negli anni a venire.

“La grappa” Le bucce raccolte dopo la spremitura con “el torcio” (torchio) erano poste in un luogo fresco e asciutto nella cantina del sior Libero e lì lasciate fino a che non sopraggiungesse una giornata particolare che doveva avere due aspetti: Il primo essere senza luna e il secondo essere molto fredda per preparare la grappa con l’alambicco, che lui teneva mascherato da fascine perché non fosse scoperto dalle guardie annonarie del comune e, liberato la notte che sarebbe servito per distillare le bucce di uva conservate. Va ricordato che in quel periodo era un grave reato farsi la grappa da sé e pertanto si dovevano prestare tutte le precauzioni al fine di non fare spandere l’odore della distillazione tutt’attorno alla via. Ecco perciò la necessità di mascherare quell’odore con altri più forti e cosa era meglio che svuotare la cisterna di raccolta delle feci che si trovava tra le due case sotto i porticati d’ingresso delle stesse ed era resa accessibile da una botola che si trovava esattamente sul confine delle due case. Ricordo che durante la guerra molte di queste cisterne erano utilizzate per ricavarne un rifugio, dopo averle svuotate, pulite e tinte con della calce. Verso la fine di settembre capitava sempre una giornata così e allora, dopo avere svolto il consiglio di “guerra” tra il sior Libero e mio padre, i preparativi iniziavano subito dopo la cena e verso le nove di sera si procedeva all’apertura della botola, e non vi dico con quali effluvi! Quindi, con dei particolari strumenti che assomigliavano a due grossi cucchiaioni fatti con una lunga asta di legno con attaccato da un lato un grosso vaso di latta (quello di conserva da dieci chili) uno usato dal sior Libero e uno da mio padre s’iniziava a svuotare, immergendo gli attrezzi nella fogna e quindi ritirati e velocemente portati a svuotare nelle “vanese” (solco arato) dell’orto in fondo a ciascuna casa. Pagina | 64


Una volta svuotata la vasca, ci voleva qualche ora, e sparso il liquame per l’orto, questa era rinchiusa con la botola di cemento e solo allora s’iniziavano le operazioni di distillazione della grappa accendendo l’alambicco, mettendo al suo interno dell’acqua e le vinacce (bucce e raspi d’uva) quindi si faceva bollire il tutto facendo molta attenzione al raggiungimento della dovuta temperatura che, come mi faceva vedere il sior Libero, quando raggiungeva gli ottanta gradi e iniziava a uscire del vapore e delle gocce di distillato questo (si chiamava testa) doveva assolutamente essere scartato perché, come diceva lui, qualche sorso di quell’intruglio era molto velenoso (ma non sapeva dirmi il perché) quindi si faceva salire la temperatura fino ai cento gradi e solo allora si raccoglieva il liquido che usciva che era assaggiato da mio padre e dal sior Libero. Dato che era ormai notte inoltrata io, ero mandato a dormire mentre i due “distillatori”, continuavano fino il mattino e comunque fino a che le vinacce non erano state tutte utilizzate all’interno dell’alambicco.

Sinceramente non ho mai verificato se qualcuno avesse scoperto, durante quelle notti, se era più forte l’odore di fogna o quello della distillazione ma era ormai intesa tra i vicini che, quando si sentiva quell’odore, era segno che el sior Libero stava distillando e nessuno si permetteva di fare la spia o tantomeno lamentarsi degli effluvi che salivano dallo spargimento del liquame nell’orto tanto che, per farsi perdonare di quegli inconvenienti, portava ai vicini una piccola (dico bene molto piccola) bottiglia della sua meravigliosa (come normalmente diceva) grappa. Il mattino, quando mi svegliavo, correvo a casa del sior Libero per vedere a che punto stavano le cose e potevo vedere che i due addetti distillatori erano poco lucidi e non credo fosse dovuto alla stanchezza della notte insonne quanto ai vari assaggi di verifica, della qualità del distillato.

“La scuola elementare” L’estate era ormai finita ed era ora per me di andare alla scuola elementare per frequentare la prima classe (avevo allora quasi sette anni). Fui portato dai miei genitori il primo giorno di scuola e affidato alla maestra Lina del Missier, una donnina piccola ma, come più tardi scoprimmo, era di una severità eccezionale tanto che, dopo la prima ora di lezione, avevo il terrore di fare qualche cosa che non andasse bene e di essere richiamato e rimproverato. Pagina | 65


La scuola Duca D’Aosta, ovviamente situata nell’omonima via, era una struttura molto grande a più piani con molte aule e un ampio giardino sul davanti con dei grandi alberi che facevano ombra durante la ricreazione. L’entrata avveniva da un grande portone di legno e portava in un ampio atrio e da lì salivammo le grandi rampe di scale che portavano ai piani superiori dove, se ricordo bene, c’era anche la mia aula che conteneva circa una ventina di banchi a due posti, una cattedra e una lavagna in ardesia supportata da due piedistalli di legno che le permettevano anche di ruotare su se stessa in modo che, quando la capovolgevi, da un lato era tracciata con dei quadretti e dall’altro lato era completamente liscia. Sotto la cattedra era sistemata una grande pedana di legno che permetteva alla maestra, anche quando era seduta, di controllare tutti gli allievi e soprattutto i banchi con i ripiani verniciati di colore verde e già segnati da geroglifici in parte decifrabili che, per noi della prima classe, erano scritti con delle strane lettere che erano completamente sconosciute. La classe era composta di circa una trentina di bambini della mia età più due ragazzi più grandi che, forse per la guerra, non avevano potuto iniziare la scuola e ci incutevano un timore reverenziale perché li vedevamo molto più grandi di noi con comportamenti notevolmente più aggressivi nei confronti della maestra tanto che, negli anni successivi, questi furono allontanati perché portavano un reale disturbo sia all’insegnante sia a tutta la classe.

La terza classe elementare nel 1948

Io, che per la mia età ero già alto, fui sistemato nei banchi in fondo alla classe assieme a un ragazzo che aveva qualche anno più di me per cui era inevitabile che fossi distratto dal suo modo di fare che denotava già una conoscenza del mondo della scuola che per me, appena arrivato, era tabù e fu così che mi trovai nei guai per colpa sua. La prima cosa che osservai, appena seduto nel banco dove ero stato assegnato, era che aveva due posti con due calamai inseriti in due fori ricavati nel piano del banco, due incavi dove sistemare le penne e le matite e un ripiano sotto il tavolo dove erano riposte le nostre cartelle con la merenda (pane, burro e marmellata), e pertanto stavo a gomito a gomito con il Pagina | 66


compagno di classe più vecchio di me di qualche anno il quale cominciò a farmi dei dispetti prendendomi, da sotto il banco, la merenda e iniziando a mangiarsela. Ovviamente cercai di farmela restituire ma questi imperturbabile iniziò a mangiucchiarla, fu allora che cominciai a strattonarlo per avere indietro le mie cose ma cosi iniziai a fare un gran rumore che richiamò l’attenzione della maestra la quale sopraggiunse richiamandomi all’ordine e chiedendomi cosa volessi ma, poichè il compagno di banco mi aveva reso la merenda mettendola nuovamente sotto il banco nella mia cartella, non sapevo più cosa fare. Fu allora che la maestra mi prese per l’orecchio e mi portò dietro la lavagna e mi mise in castigo fino a che la campanella dell’intervallo non suonò e mi salvò da quell’ingiusta punizione. Promisi a me stesso che mi sarei vendicato e così feci, non subito, ma dopo diverse settimane e dopo averne parlato con gli altri compagni di classe che anche loro subivano le angherie dì quello, concordammo la punizione. Quando fu chiamato alla lavagna a fare un esercizio, la sua merenda, a base di pane e lardo, fu trasformata mettendoci dentro della carta, strappata dal mio quaderno, e imbevuta d’inchiostro e rimessa nuovamente nella sua cartella. Così, quando dopo andammo a fare il “riposo” (ricreazione), e tutti noi andammo nel cortile a giocare lui, che fino a quel momento era stato alla lavagna, ritardò un po’ ad arrivare. Noi ci mettemmo a osservare la scena che arrivò di lì a poco quando, con il primo boccone, capì che nel pane non c’era più il lardo e allora infuriato, aprì il panino e vide cosa c’era all’interno. Fu allora che vedendomi sorridere capi chi era stato a fargli lo scherzo ma la prese con filosofia e facendo buon viso a cattivo gioco se ne tornò al suo banco senza avere potuto mangiarsi la merenda. Da quel giorno divenimmo amici e non si provò più a farmi degli altri scherzi tanto che, molti anni dopo quando ci incontrammo, ne riparlammo con simpatia andando con i ricordi a quella merenda condita con carta e inchiostro. Il primo anno di scuola terminò con l’avere imparato a scrivere delle semplici parole ma ricordo vagamente le lunghe giornate di aste e filetto che dovevamo fare riempiendo pagine, su pagine curando molto i margini delle righe (molto larghe) con cui erano segnate le stesse. Si proseguiva per alcune ore anche a casa, con i compiti, quando invece avresti desiderato andare in strada a giocare con gli amici che, quando erano più veloci di te a fare i compiti, venivano sotto la finestra di casa a chiamarti mentre tu stavi ancora li tirando aste e filetti, sotto gli occhi attenti della nonna. Sinceramente non ho dei bei ricordi sul periodo della scuola elementare anche perché in quegli anni, appena usciti dalla guerra, non c’era molto da ricordare o forse, ed è più probabile, ho rimosso completamente quel periodo che ricordo solo con fugaci flash di momenti più legati ad aspetti collaterali alla scuola come ad esempio ricordo quel negozietto di frutta e verdura che si trovava in via Roma, proprio di fronte all’asilo, e quando passavo accompagnato dalla mamma, ero attratto dalle leccornie lì esposte.

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E’ così che ricordo quello strano frutto che era apparso un giorno in vetrina, a fare bella mostra di sé, tanto da farmi giornalmente fermare a guardarlo per capire cosa fosse perché aveva una forma ovale con dei bei colori rosso e giallo con delle strane spine che lo circondavano. Tanto fu che un giorno lo chiesi a mia madre la quale non sapeva neanche lei cosa fosse e cosi decidemmo di entrare nel negozio per chiedere lumi su quello strano frutto. Detto e fatto entrammo e chiedemmo al gentile negoziante cosa fosse quella cosa lì in vetrina e venimmo a sapere che non era altro che il fico d’India, e che era coltivato nel sud dell’Italia e in particolare in Sicilia e lui riusciva a farselo inviare perché aveva degli amici che periodicamente si recavano al sud per lavoro. Ovviamente chiesi subito alla mamma se potevamo acquistarlo ma, saputo il prezzo, abbandonammo l’idea. L’immagine del fico d’India rimase per molto tempo ancora viva nella mia mente e solo dopo molti anni, quando le cose in famiglia migliorarono e qualche soldo arrivò solamente a Natale riuscii a farmene regalare uno che mangiai con religiosa attenzione e dopo attento studio. I primi anni di scuola si succedevano con la solita monotonia, i mesi passavano senza che cose particolari succedessero e le giornate di scuola si alternavano con i periodi di studio e gioco, che poi era la cosa più importante per noi ragazzini, tanto che appena arrivati a casa e dopo avere pranzato, si facevano rapidamente i compiti che “la siora maestra” ci aveva assegnato. Dopo i primi periodi di aste e filetto, passammo a iniziare a scrivere prima nel quaderno a righe grandi e poi, salendo di classe, in quello a righe più piccole e a comporre frasi sempre più complesse e iniziando a leggere, dall’abbecedario, varie storie che colpivano la nostra fantasia di giovani studenti. Appena finiti i compiti, poichè i compagni che abitavano nelle baracche vicine, erano nella mia stessa classe era buona norma, per chi finiva prima le esercitazioni, andare a chiamare tutta la “banda” che, nonostante le lamentele e le grida delle mamme, si riuniva nel posto stabilito per le nostre riunioni e, a seconda se faceva freddo, oppure era estate, s’inventava qualche gioco che, guarda il caso, non era mai una cosa semplice bensì delle vere e proprie avventure che alle volte solo la fortuna o il volere del buon dio ci hanno preservato da guai e incidenti gravi, ma il più delle volte si ritornava a casa con qualche ginocchio sbucciato o qualche colpo nella testa. Un inverno particolarmente freddo, con la strada quasi del tutto innevata, ci siamo inventati il pattinaggio (slisigade) su ghiaccio. In quel periodo per non consumare le suole delle scarpe buone, ne avevo solo un paio, la mamma mi aveva messo ai piedi degli zoccoli di legno ricoperti da una tomaia di pelle grezza che, ricordo ancora oggi, era di una durezza tale da farti venire i duroni alle dita dei piedi ed era attaccata alla suola di legno con delle “brocche” (chiodi) a testa larga. Ovviamente per tenere caldi i piedi s’indossavano delle calze grezze di lana che pizzicavano e ti facevano continuamente grattare le gambe e, tanto per rendere la cosa ancora più fastidiosa indossavo un paio di calzoni alla zuava colore grigio topo con gli indumenti intimi fatti di cotone imbottito sia per la maglietta con le maniche lunghe sia per le mutande sia, erano Pagina | 68


lunghe per sentire meno il freddo. Dato che ero piuttosto delicato di pelle, mio padre mi canzonava dicendomi che ero delicato come le “monighe” (monache). Quando ritornavo a casa, avevo le cosce completamente arrossate e doloranti e, per far passare l’arrossamento, la mamma, cospargeva la parte arrossata con della vaselina liquida nel tentativo di lenire il bruciore ma, almeno per i primi minuti, era una vera sofferenza tanto che alle volte mi doveva soffiare sopra per cercare di calmare le mie urla. Durante una di queste “slisigade” in casa del mio amico Berto contadino, avevamo improvvisato, proprio davanti alla porta di casa sul retro, dove era stato steso un lamierino di ferro per permettere il passaggio (in quanto, quando pioveva, lì davanti si formava una grande pozzanghera e questa, visto il freddo che faceva, si era completamente ghiacciata) ed ecco inventato il gioco che consisteva nel prendere la rincorsa e scivolare sul ghiaccio fin dalla parte opposta. Tutti iniziarono a provare prendendo un bello slancio quindi mantenendosi in equilibrio, si scivolava fin davanti alla porta d’ingresso e lì si aspettava che anche gli altri facessero lo stesso. Poi fu il mio momento. Presi una bella rincorsa e di slancio iniziai a “slisigare” ma, dato che indossavo gli zoccoli di legno, (per non consumare troppo la suola, erano stati “imbroccati” cioè si erano piantate delle brocche “chiodi” a testa larga sotto la suola formandone una seconda di brocche. Queste, pur avendo il vantaggio di preservare il legno dall’usura, facevano sì che gli zoccoli diventassero molto più scivolosi) e fu così che, mentre scivolavo sulla lastra di ghiaccio, presi troppa velocità andando a finire oltre il bordo ghiacciato e, facendo un gran ruzzolone. Caddi, con la faccia in avanti proprio sopra un “badil” (vanga) in ferro finendo, con la guancia destra, sopra un angolo tagliente della stessa che si conficcò all’interno lasciandomi dolorante e sanguinante per terra. Subito gli amici mi aiutarono a sollevarmi per accertarsi su cosa mi ero fatto ma, vedendomi ridere per la mancata scivolata, non fecero caso al taglio sulla guancia che dopo un po’, forse perché era troppo freddo, cominciò a dolermi e a sanguinare copiosamente tanto che, tenendo premuta la ferita con il fazzoletto, corsi a casa dove trovai la nonna e la mamma le quali vedendomi tutto sanguinante cominciarono a gridare prendendomi in braccio e portandomi al calduccio all’interno della cucina. Dopo avermi lavato e disinfettato con l’aceto (sì l’aceto perche, l’alcool costava troppo) guardarono la ferita e scoprirono che questa era trapassante tanto che quando mettevo la lingua vicino la ferita questa usciva verso l’esterno. Frettolosamente fui preso e portato a piedi al Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile dove fui medicato, ma sinceramente non so perché, il medico di turno decise che non serviva fare dei punti per chiudere la ferita mi mise un po’ di tintura di iodio e con un grande cerotto sulla guancia destra mi spedì a casa. Dopo molti giorni la ferita si rimarginò ma questa è ancora sulla mia guancia destra quale segno indelebile dell’avventura di gioco (slisigada) finita male. Durante quel periodo di grande freddo, (forse non era così intenso come mi sembrava, ma sarà perché le case erano poco riscaldate oppure perché gli alimenti che si mangiavano erano poco calorici oppure gli abiti indossati erano miseri), sta di fatto che tutti gli anni del dopo Pagina | 69


guerra erano contrassegnati da grandi nevicate e da forti ghiacciate, tanto che la maggior parte del nostro tempo si passava nella cucina che era l’unico ambiente riscaldato dal grande “spargher”, dove la nonna era l’indiscussa regina. Nei mesi invernali pertanto la neve cadeva abbondante, ed era frequente che nevicasse per parecchi giorni dell’anno e, alle volte, succedeva che iniziasse a piovere sopra la neve ma, invece di scioglierla, durante la notte il tempo cambiava e buttava in bora con l’unico effetto di svegliarsi al mattino e trovare tutto ghiacciato con delle stalattiti che scendevano dalle grondaie tanto da sembrare di essere in qualche grotta carsica. Allora iniziavano i preparativi per andare fuori a spalare la neve e il ghiaccio ma, con la bora che ancora soffiava forte, la cosa diventava particolarmente ardua e faticosa ma, pala alla mano, assieme a mio padre s’iniziava dall’ingresso di casa per andare piano-piano verso il portone di legno che ci separava dalla strada. Ovviamente non esistevano i giacconi imbottiti in “goretex”, ma il mio giaccone era stato ricavato da una coperta di lana vecchia che la mamma aveva, visto che era una brava sarta, tagliato a misura e cucito con l’unica cosa meccanica che possedevamo in casa e che era la preziosa macchina per cucire “Singer”, durante le molte notti passate, a prepararmi l’indumento che una volta preparato era portato in tintoria per il cambio del colore tanto per mascherare la nota provenienza.

Non stava meglio mio padre e anche lui indossava il cappotto, ritinto già molte volte e divenuto ormai piuttosto stretto, sulla testa, il cappello mentre le mani erano prive di guanti, ma lavorando di lena dopo un po’ di tempo ci si doveva togliere il cappotto rimanendo solamente con il maglione anch’esso fatto a mano da mia nonna. Nonostante ciò riuscivamo ad aprirci un varco dalla porta di casa fino alla strada tanto da permettere alla donna che ci portava ogni mattino il latte, di potere passare ed entrare in cucina per versare la nostra quantità, in precedenza ordinata, dal suo grande contenitore cilindrico che portava sulle spalle dentro il nostro recipiente e, visto che la povera donna era intirizzita dal freddo, s’invitava a sedere vicino al fuoco offrendole del caffè di cicoria fumante appena tolto dal fuoco che la nonna aveva già prima preparato, poichè, era sua usanza alzarsi molto presto per prepararci la colazione. La giornata proseguiva con il babbo che si recava al lavoro mentre io, accompagnato dalla mamma, mi recavo a scuola tutto imbacuccato nel mio cappotto ritinto di nuovo e con un berretto e un maglione di lana grezza (non sicuramente in cashmire) che quando sudavi un Pagina | 70


po’ ti faceva prudere l’intera testa e il collo mentre, alle mani, portavo dei guanti anch’essi di lana grezza che ti tenevano caldi sì, solamente se questi non si bagnavano perché altrimenti al freddo divenivano dei pezzi di ghiaccio e alla fine ti donavano delle belle “buganze” (geloni) che scomparivano solamente con l’estate inoltrata. Al ritorno dalla scuola, dopo avere fatti i compiti ed essere usciti, tempo permettendo, a giocare, si rientrava, aspettando il rientro della mamma e del papà seduti, assieme a mia sorella, sopra lo spargher, in una zona piastrellata vicino alla caldaia, dove bolliva sempre l’acqua. Questa era l’unica fonte dell’acqua calda sia per cucinare sia per lavarsi ovviamente prelevandola con un particolare mestolo, a forma rettangolare, che era immerso nella caldaia, dopo avere tolto il coperchio di acciaio cromato che la chiudeva, e lentamente si versava nella minestra oppure nella tinozza per fare il bagno.

Sopra quel ripiano e sotto la “nappa” (cappa) che copriva tutto lo spargher e dove c’era anche il foro del camino che portava i fumi o il vapore della cucina al tetto, ci si sedeva su due piccole “careghette” (seggiole) impagliate e lì, al caldo, si leggevano i compiti fatti alla nonna, oppure si osservava cosa e come lei cucinasse da mangiare e già assaporando e pregustando, con l’acquolina in bocca, il momento della cena che avveniva non appena tutti erano rientrati a casa, compreso mio zio Rino che talvolta arrivava presto per la cena per poi ritornare di nuovo a pescare, solamente quando non faceva troppo freddo e magari la marina era ghiacciata. La nonna era una brava cuoca. Iniziava al mattino presto con la preparazione del caffè che nel dopo guerra divenne più bevibile in quanto, oltre la cicoria che per molti anni abbiamo usato, arrivò, anche da noi, la caffettiera napoletana e s’iniziò a usare del vero caffè che andavamo a comprare, in grani, nel negozio di generi alimentari del “sior Barbariol” e macinato direttamente, con il macinino a mano, a casa in modo che l’aroma rimanesse sempre buono. Quindi, appena sparecchiata la tavola dalla colazione, iniziava a preparare le pietanze per il pranzo che, come già detto in precedenza, erano a base di pesce oppure preparava la minestra di fagioli o di verdure e dopo avere mangiato il pranzo, eccola di nuovo ad attizzare il fuoco per preparare la cena. Pagina | 71


La poverina non aveva un momento di riposo, considerando anche che in casa c’erano quattro adulti e due bambini, per cui poteva concedersi un riposino solamente la sera, quando, avendo finito di preparare la cena, lasciava a mia madre, che era già tornata dal lavoro dai Naibo, le incombenze derivanti dallo sparecchiare la tavola e lavare i piatti e le pentole così lei si metteva seduta sulla sua sedia di vimini preferita accanto allo spargher raccontando delle storie a me e mia sorella che, seduti sopra il ripiano dello spargher sulle nostre due “careghette” la stavamo ad ascoltare per delle ore. Qualche volta però, specialmente in inverno, quando vinta dalla stanchezza, usava mettere i piedi a scaldare sopra lo sportello del forno, che era prima aperto, e lì continuava a raccontarci le storie salvo che normalmente si appisolava e così per parecchio tempo, magari quando noi eravamo impegnati a leggere i compiti, senza accorgersi del calore che usciva dal forno. Tanto fu che una sera, sentendo un odore di lana bruciata, abbiamo chiamato la mamma per dire che qualcosa andava a fuoco. Scoprimmo così che erano le calze della nonna che, vinta dalla stanchezza e dal sonno, si era addormentata sulla sedia con i piedi troppo vicini al forno facendo sì che le calze iniziassero a bruciare senza che la poverina, al momento, sentisse il dolore del fuoco sui piedi ma, una volta che la mamma la destò, immediatamente sentì il dolore e iniziò a gridare e correre per la cucina in cerca dell’acqua dove immergere le calze andate a fuoco. Inizialmente fu una comica che ci fece molto ridere ma poi, quando la nonna piangendo riuscì a spegnere il fuoco, ci accorgemmo che la bruciatura era seria tanto da doverla ricoverare all’ospedale per la medicazione delle dita del piede destro. Credo che quel fatto abbia fatto capire a tutti noi che la nonna aveva dei problemi di circolazione poichè, veniva a mancare la sensibilità degli arti dovuta, come scoprimmo più tardi, al mal funzionamento del suo cuore che la portò, molti anni dopo, alla completa immobilità con frequenti periodi di ricoveri in ospedale. L’inverno portava normalmente delle giornate difficili con la neve e, il più delle volte, con molte giornate di bora che rendevano difficile uscire per giocare e andare a scuola così la maggior parte del tempo, il pomeriggio e la sera, si passava a casa facendo i compiti e giocando in cucina, che era l’unico ambiente riscaldato e ricordo un sabato, quando mio padre era a casa dal lavoro, che la sera prima aveva nevicato molto e lui uscì nell’orto e costruì un bel pupazzo di neve che fu la gioia di noi bambini quindi, ed era la prima volta che lo vedevo fare, mise delle trappole per uccelli nascoste sotto la neve, ci sparse sopra delle briciole di pane e rientrò dicendoci di stare attenti a quando gli uccellini sarebbero arrivati perché bisognava correre a liberarli, dalle trappole e catturarli, prima che soffrissero troppo. Quando avvenne, la prima cattura fu per noi un trauma nel vedere quel piccolo essere dimenarsi svolazzando per il giardino tant’e’ che ci mettemmo a piangere e pregare il babbo di andare a liberarlo, cosa che lui fece immediatamente, portandoci la povera bestiola in casa perché ci rendessimo conto che non aveva subito danni e dopo averlo accarezzato e dati i “bacini” sulla testolina lo lasciammo andare facendolo volare dalla finestra aperta, quella fu’ la prima e ultima volta che mio padre usò le trappole per gli uccellini. Pagina | 72


Una volta mi raccontò che se non volevo fare del male ai poveri uccellini potevo, prenderli con le mani. Mi sembro piuttosto strana la cosa e chiesi come dovevo fare. Allora mi spiegò che dovevo prendere del sale grosso da cucina poi, lentamente andare dietro il passerotto, che si era calato nell’orto a mangiare le briciole di pane che avevamo sparso, e mettere il sale nella coda, questo lo avrebbe addormentato e cosi lo avrei potuto catturare senza fargli del male. Quella fu la prima lezione di vita che appresi da mio padre, feci come lui mi disse e, messo il cappotto, il berretto di lana e i guanti, mi feci consegnare da mia nonna del sale che misi nella tasca e poi lentamente, per non fare rumore, uscii da casa e lentamente mi avvicinai all’orto. La neve aveva coperto quasi tutto e, vedendo un gruppo di passeri intento a becchettare le briciole di pane che avevamo gettato in precedenza, mi sdraiai sulla neve e lentamente mi avvicinai, agli ignari uccellini, già pregustando la cattura ma, non appena presi il sale dalla tasca e allungai la mano per mettere il sale sulla coda al passero più vicino a me questo con un colpo d’ali, seguito a ruota dai suoi compagni, si librò nell’aria lasciandomi con il sale in mano e la costernazione di avere fallito nell’intento della loro cattura. Mi girai e vidi mio padre che mi osservava dalla finestra e sorrideva, fu allora che cominciai a capire la lezione e quando rientrai mio padre disse “che ero rimasto con pugno di mosche” e mi spiegò il vero significato della vita dicendomi “non sempre le cose che uno ti dice sono vere, ascoltalo poi rifletti se quanto lui ti propone, è fattibile nella realtà del momento”. Mi fece capire perché quello che mi aveva detto in precedenza fosse un’assurdità “se riuscivi a mettere il sale sulla coda al passero, tanto valeva che lo prendessi con la mano” e lì mi lasciò a riflettere su quanto appena successo e, guardando fuori dalla finestra, vidi nuovamente i passeri nello stesso posto che mangiavano le ultime briciole, rimaste e, guardandomi, cinguettavano quasi a prendermi in giro.

“A letto con la nonna” Dopo quell’avventura e dopo avere cenato e mentre io riposavo seduto sulla “careghetta” sopra lo spargher, la mamma preparava il letto che dividevo con la nonna Carmen, mettendo sotto le lenzuola, un mattone avvolto allo scialle della nonna, che prima era stato messo a scaldare dentro il forno e, ricoperto il tutto con la trapunta (coperta) imbottita, che pesava un accidente perché era fatta con un’imbottitura di lana, ma che permetteva di rimanere al caldo. Quindi, indossato il pigiama di flanella a righe verticali che sembrava quello dei carcerati, m’infilavo nel letto appoggiando i piedi sul mattone finché non me li ero scaldati, quindi aspettavo che la nonna si coricasse e allora mi rannicchiavo vicino a lei, cosa che lei apprezzava molto, tanto che quando non lo facevo mi pregava “dai bambin vien qua a scaldarme la schena che go fredo” allora mi appoggiavo a lei e massaggiavo la schiena mentre lei ricambiava, raccontandomi le storie della sua vita. Ricordo che nella stanza da letto della nonna, dove dormivo assieme a lei, il freddo era pungente perché non c’era il riscaldamento e alle volte, la nonna si portava un bicchiere di acqua, per la notte, che appoggiava sul comodino ma tant’e’ che il mattino l’acqua, che quasi mai beveva, era diventata un pezzo di ghiaccio, e alzandosi presto la nonna, lo portava a Pagina | 73


scongelare in cucina gettando, il pezzo di ghiaccio, dal bicchiere direttamente nella caldaia dell’acqua dello spargher. La camera, come peraltro anche l’altra stanza, aveva il pavimento di legno che era stato messo sopra delle travi anch’esse di legno formando un’intercapedine tra la terra e il pavimento ma le assi non erano sempre ben fissate fra, di loro così, ogni tanto, qualche tavola si scostava un po’ lasciando vedere la terra che stava sotto. Soprattutto permetteva alla bora, quando soffiava forte ed era abbastanza frequente, di sibilare attraverso le fessure e ogni tanto il papà ci metteva sopra un pezzo di legno inchiodato così che alla fine si formavano delle strane composizioni che, noi bambini, cercavamo di interpretare dandone diversi significati. Tra il muro e le tavole del pavimento era stato sistemato un vasolino di legno colorato che doveva servire di finitura della stanza ma, poichè la mamma era particolarmente attenta alla pulizia della casa, ogni settimana passava sopra il pavimento di tavole, non verniciate, la spazzola di saggina immersa nell’acqua e varecchina e ci dava con “olio di gomito” fino a rendere splendenti il tavolato ma lavaggio, dopo lavaggio anche il vasolino, che era in precedenza verniciato di marrone, divenne di colore naturale del legno come peraltro le tavole del pavimento. Tra i vari animali che noi possedevamo in casa, il gatto era il nostro preferito perché si comportava ormai come uno della famiglia, veniva a scaldarsi sullo spargher vicino a noi poi, quando si andava a letto, lui era il primo ad andare a dormire, infilandosi dentro le lenzuola del mio letto e si rannicchiava accanto al mattone, vicino ai miei piedi, per rimanerci fino all’alba quando la nonna si alzava per preparare la colazione. Allora sgusciava fuori per andare a mangiare il latte che la nonna gli preparava in una, ciottola quindi usciva un momento per fare i suoi bisogni ma era buffo vederlo quando la nonna gli apriva la porta di casa e lui si trovava improvvisamente davanti al mucchio di neve, che la bora della notte aveva accumulato davanti all’uscio, e rinculando cercava di rientrare in casa. Allora la nonna doveva prenderlo per “el cupin” (collo) e buttarlo letteralmente nella neve dove improvvisamente si accorgeva di quanto freddo, c’era e allora frettolosamente faceva le sue cose nel solito angolino da lui designato per fare i suoi bisogni e quindi nuovamente si recava davanti alla porta di casa a miagolare sino a perché, la nonna, non gli apriva nuovamente la porta. Allora se ne andava a tuffarsi nuovamente nella sua cuccia accanto allo spargher e aspettando che io mi alzassi per venirmi sulle ginocchia mentre io facevo la mia colazione, poi quando finivo di mangiare, lo riponevo nel suo giaciglio e lì rimaneva per tutto il giorno salvo una breve uscita, per fare i suoi bisogni. Certo che non era un gatto affamato né tantomeno un cacciatore di topi perché, tra i vari animali che giravano per casa (e, come diceva mio padre, eravamo dei fortunati perché a noi non serviva andare allo zoo, per vedere gli animali, noi lo avevamo in famiglia) il cane, il gatto, il canarino e le tortorelle c’era anche un simpatico topolino marrone che aveva la sua tana sotto il pavimento e aveva un buco, tra il battiscopa e il pavimento, da dove ogni tanto usciva per andare a mangiare le briciole di pane o di formaggio che noi bambini gli mettevamo vicino alla sua tana. Era diventato la nostra mascotte tanto che era normale vederlo girare indisturbato Pagina | 74


per la casa andando anche sotto il naso del nostro gatto che non lo degnava neanche di uno sguardo, apriva appena un occhio guardava la bestiolina che girava accanto a lui e poi, sistemandosi meglio, continuava a ronfare. Il topolino aveva per noi anche un altro interesse. Era uso, infatti, quando i dentini da latte cadevano sistemarli alla sera davanti alla tana del topolino e, il mattino ci si svegliava molto presto per vedere se il topolino avesse portato qualche cosa, trovavamo al loro posto dei soldini (dieci lire) che per noi bambini era una grossa somma e che mettevamo nel nostro personale salvadanaio, che era un maialetto di gesso colorato, che era sistemato sopra la credenza della cucina. Con quel sistema avevamo creato il nostro primo business, infatti, se ogni dentino erano dieci lire, dieci erano cento lire, così si cercava in tutti i modi di accelerare la caduta dei denti e, non appena qualcuno iniziava a muoversi, era nostro compito accelerarne il movimento prendendo il dentino e iniziando a dondolarlo, giorno dopo giorno, fino a che questo non si staccava. Allora si aggiungevano dieci lire nel salvadanaio, non so se questa pratica era una cosa ben fatta, ma per il nostro business, era sicuramente un bel guadagno mentre non lo era per i miei genitori che pregavano che i dentini da latte finalmente cadessero tutti.

“Bianco Natale” L’inverno con il suo gelo, dentro e fuori di casa, portava sempre una cosa bella che era il periodo di Natale e, per la quale non c’era giorno cui, noi bambini, non facessero riferimento. La prima cosa era che a scuola ti facevano scrivere gli auguri di Natale per i tuoi genitori. Ricordo molto bene le volte che ho provato a scrivere, prima molte volte sul quaderno, quindi prendere il foglio a righe larghe, che si usava nella terza classe, e iniziare a comporre il testo che già varie volte avevi provato a scrivere. Finalmente riuscivi a scriverne uno in bella calligrafia e quindi consegnarlo alla maestra affinché lo tenesse fino alla vigilia del Natale quando lo ricevevi di ritorno per portarlo a casa e consegnarlo, il giorno di Natale, ai tuoi genitori i quali, una volta letto lo riponevano nella “cassetta dei ricordi”, che era il contenitore di cartone per le scarpe che il babbo aveva comprato per il suo matrimonio. Poi arrivava finalmente la vigilia di Natale e iniziavano i preparativi dell’albero e del presepe che comportavano delle operazioni fondamentali che erano: prima cosa andare a comprare un albero, si fa per dire perché non si potevano spendere troppi soldi per l’acquisto e allora si ritornava a casa con un albero che era sempre frutto di aspri commenti da parte della nonna la quale normalmente diceva “xe un alber trop striminsi” (è un albero povero senza rami). Allora, la mamma, doveva rimediare e renderlo più fitto aggiungendoci dei rami, raccolti presso il venditore di alberi, in modo da farlo sembrare molto più bello. L’albero era posto in un vaso di fiori pieno di terra e lì conficcato avendo avuto cura, prima di mettere la terra, di sistemarci dentro dei grossi sassi in modo che l’albero con tutto il vaso non Pagina | 75


si ribaltasse. Quindi si passava al suo addobbo con palle di vetro colorate, molto fragili, che erano appese ai rami con dei ganci metallici che uscivano dalle stesse e aggiungendo delle finte palle fatte con la stagnola dei pacchetti di sigarette al cui interno erano avvolte, di volta in volta, delle noci oppure dei mandarini oppure ancora con dei dolcetti fatti in casa dalla nonna. Si completava l’addobbo dell’albero sistemando, sulla sua cima, una punta colorata anch’essa fatta di vetro che era molto fragile e aveva nella parte bassa una zona cilindrica che era fatta inserire nella cima dell’albero, dopo che questa era stata spogliata dagli aghi di pino. Ma non era anno che per un motivo o per un altro questa si rompesse e tra le grida della nonna e della mamma si doveva cercare di ripararla magari legandola con dello spago alla cima dell’albero. Erano poste quindi le candeline colorate che erano fatte di cera e avevano una base, dove erano infilate e sotto di questa era attaccato un morsetto con dei dentini che era fissato sui rami. Si finiva di decorare l’albero ponendo sopra i rami del cotone idrofilo che dava l’aspetto della neve, ma aveva un inconveniente che se a contatto con le candeline questo prendeva fuoco e non c’era anno che ciò non avvenisse con gli inevitabili danni all’albero ma soprattutto ai muri di casa per fortuna che ogni qualvolta l’albero era acceso, qualcuno della famiglia era sempre presente e pronto a intervenire e fare da pompiere. Il presepe era preparato utilizzando della carta da impacco che era prima bagnata poi asciugata e quindi pitturata con dei colori ad acquarello marrone e verde, tanto da sembrare una copertura mimetica per militari, erano sistemati dei mattoni o dei pezzi di legno laddove si pensava sarebbero dovute essere fatte le montagne si stendeva, quindi, la carta sopra questi rilievi e piano-piano adattandola ai contorni si cercava di creare le montagne. Per finire si faceva il laghetto mettendo lo specchietto, che la mamma usava per il trucco, in un luogo che era scelto sulla base di trattative tra noi bambini e gli adulti di casa così che dopo parecchie discussioni si sistemava nella posizione definita. Si completava il tutto mettendo del muschio, che era raccolto o sul carso, vicino alla Rocca, oppure salendo sul tetto della baracca dove si formava, in grosse placche e, con un coltello, si asportava e si portava in casa per essere sistemato in varie parti del presepe, in modo che sembrasse il verde dei campi. Si preparavano quindi le strade che erano fatte con del ghiaino, raccolta in precedenza dai bordi delle strade non asfaltate, messo in un recipiente contenente della varecchina e lasciato per una notte in modo che, il mattino dopo, questa avesse assunto un bel colore bianco che ben si adattava alla delimitazione delle strade. Ovviamente il presepe era completato con la sistemazione delle statuine dei personaggi, fatte con l’argilla e colorate, comprate un po’ per volta ogni anno, sistemando finalmente la capanna con, all’interno il bue e l’asinello, San Giuseppe e la Madonna con il suo mantello azzurro. Infine, la mattina di Natale, quando eravamo tutti svegli e dopo avere fatto colazione, si procedeva alla sistemazione del Bambino Gesù che, prima di essere riposto nella sua culla, veniva da tutti baciato e quindi solennemente adagiato poi, tutti in ginocchio davanti al presepe, s’iniziava a recitare le preghiere mentre ognuno di noi mentalmente chiedeva la sua protezione per l’anno che stava arrivando. Pagina | 76


Il giorno di Natale era una grande festa, specialmente dopo alcuni anni che la guerra era terminata. La nonna, che normalmente si alzava all’alba, quel giorno iniziava ancora più presto tanto che credo non andasse neanche a dormire per dedicarsi completamente alla preparazione del pranzo di Natale che consisteva sempre nel brodo di gallina, che era donata alla mamma dai Naibo (contadini dove lavorava), con il riso che a me piaceva moltissimo tanto che ero diventato un esperto mangiatore di quel tipo di brodo. Quando era servito nel piatto fondo del servizio, ricevuto in regalo di nozze dai miei genitori, prendevo il riso dal fondo del brodo e lentamente lo riponevo sul bordo del piatto in modo che questo si raffreddasse velocemente cosicché quando era rimesso nel brodo caldo, abbassava la temperatura permettendomi di ingoiarlo senza venire ustionato sulla lingua. Dopo il brodo seguiva il bollito che era composto prevalentemente da pezzi di gallina e, quando c’erano i soldi, anche della carne e degli ossi, con l’aggiunta del “muset” (cotechino), sempre regalo dei Naibo, dei crauti e del purè che facevano sembrare quel pranzo, come diceva mio padre, il “pranzo dei siori”. Si finiva il tutto con la torta e lo strudel che erano fatti dalla nonna, aiutata dalla mamma e tra una portata e l’altra, una chiacchierata e una risata si finiva il pomeriggio tardi, con la solita frase che mia nonna pronunciava sempre dopo avere finito di mangiare “e anche per oggi gavemo conzova” (non ho mai chiesto alla nonna cosa volesse dire quella parola ma presumo il significato fosse: e anche per oggi abbiamo consumato il pranzo), quando arrivavano i parenti e gli amici a festeggiare il Natale con noi bevendo un po’ di quel vino bianco (che sapeva di pet) preparato da mio padre e assaggiando un pezzo di dolce fatto in casa. La vigilia di Natale era uso, assieme a tutti gli altri amici, radunarsi in casa del “sior arbitro” verso le ore 23 e, da lì, andare a piedi fino al Duomo che si trova in centro città per assistere alla messa di mezzanotte dove potevi trovare quasi tutti gli altri amici e conoscenti per fare gli auguri. In quegli anni il freddo era particolarmente intenso con molta neve e bora forte tanto che, per coprirsi, non bastava mettere il cappotto, fatto con la coperta di lana e recentemente ritinto tanto per fare sembrare fosse nuovo. Ci si doveva coprire anche indossando vari maglioni e portando sotto la biancheria nuova di flanella mentre le mani si riparavano con guanti di lana fatti dalla nonna così come il berretto. La cosa che più mi faceva invidia erano le scarpe del figlio del “sior arbitro” che, a differenza delle mie, che avevano la suola di cuoio consunto e bucato, con il buco provvisoriamente tappato con una pezza di copertone vecchio della bicicletta che lasciava filtrare l’acqua così che, quando arrivavo in chiesa, avevo le calze umide e i piedi che si stavano congelando, quelle sue erano nuove e fatte con una grossa suola di gomma “carro armato” che gli mantenevano i piedi sempre asciutti. “sono riuscito ad avere le “mie scarpe carro armato” solamente negli anni ’60 quando sono andato a lavorare e, con i primi soldi, mi sono tolto la soddisfazione di indossare le scarpe che, per molti anni, hanno accompagnato i miei sogni di potere finalmente camminare nella neve senza dovermi bagnare i piedi e quelle scarpe carro armato sono ancora lì in soffitta a perenne ricordo di tutta l’invidia patita per non avere potuto anch’io indossarne un paio”. Pagina | 77


Durante la messa la chiesa era completamente gremita tanto che a malapena ci si stava in piedi tutti ammassati e questo era un bene perché, dopo un po’, ti sentivi riscaldare e dimenticavi per un po’ le scarpe bucate e i calzini bagnati così che all’uscita non sentivi subito il freddo e potevi andare tranquillamente a salutare i parenti e gli amici facendo loro gli auguri di buon Natale. Poi, sempre camminando nella neve fresca che nel frattempo era caduta, si ritornava verso casa alle baracche di Wagna, dove eri invitato, dalla famiglia dell’arbitro, nella loro calda casa a mangiare un piatto di crauti con i wurstel e la senape poi, dopo avere ringraziato la generosa famiglia, ritornavo nella mia fredda casa ma accolto sempre dal calore e dall’affetto dei miei genitori. Un anno, negli anni cinquanta, l’inverno raggiunse il suo apice dovuto a una particolare concomitanza di eventi. La notte prima aveva nevicato molto aggiungendosi a quella caduta, nei giorni precedenti, cosicché la neve aveva raggiunto i trenta - quaranta centimetri per cui appena svegli, assieme al papà, abbiamo indossato i cappotti (quel vecchio detto “per casa”) e siamo usciti pala alle mani e abbiamo iniziato a spalare un viottolo che ci permettesse di andare dalla porta di casa fino al portone, fatto di legno e verniciato di verde pisello, che permetteva di uscire sulla strada e da lì lentamente aprirsi un varco per andare sulla strada, che non era stata spazzata da nessuno perché al tempo non esistevano servizi di spalatura comunali organizzati, e al grigio chiarore dell’alba, incontravi tanti altri esseri infreddoliti che procedevano come degli zombi nella spalatura della neve davanti alla propria abitazione. Quel particolare giorno, dopo che mio padre era andato a piedi al lavoro nel cantiere navale, iniziò a piovere intensamente ma, a differenza di altre volte quando la pioggia portava più caldo e normalmente scioglieva la neve, quella volta e dopo qualche ora il tempo girò e venne la bora con raffiche particolarmente forti abbassando immediatamente la temperatura per cui la pioggia iniziò a gelare formando, sopra la neve fresca, una lastra di ghiaccio tanto che, dopo qualche ora, era in pratica impossibile uscire da casa. Saltammo così le lezioni e rimanemmo al caldo dello spargher aspettando il ritorno del babbo mentre noi, io e mia sorella, seduti sulle “careghette”, sopra lo stesso, stavamo ad ascoltare i racconti della nonna mentre preparava il mangiare con accanto, il gatto che ronfava nella sua cesta sotto il focolare. Di tanto in tanto si andava a guardare dalla finestra i mucchi di neve gelata e, vedendo i poveri passerotti infreddoliti che cercavano con il loro becco di prendere qualche cosa da mangiare impietositi, si usciva un attimo per buttare loro qualche pezzettino di pane e, a modo loro, sembrava ti ringraziassero saltellando e becchettando allegramente quel ben di Dio e, raccolto qualche pezzo più grosso di pane volare via con, in bocca il boccone appena raccolto, per poi ritornare subito dopo per raccoglierne ancora degli altri pezzetti e così sino a che tutti i pezzetti di pane erano stati presi. Quella sera mio padre rincasò tardi perché, come ci spiegò, non si poteva camminare per strada perché era diventata una lastra di ghiaccio tant’e’ che parecchie persone finirono all’ospedale con rotture varie così lui sul lavoro dovette preparare dei rampini di acciaio che avevano tre punte acuminate ed erano attaccate con dei chiodi alle suole delle scarpe e con quel sistema riuscì a ritornare piano-piano sino a casa portandoci anche un paio per ciascuno Pagina | 78


di noi che utilizzammo subito, dopo averli fissati bene con dei chiodi, andando a provarli su quella lastra di ghiaccio che era ancora la strada. Il freddo aumentò durante la notte tanto da costringerci a dovere tenere, per la prima volta nei miei ricordi, la porta delle camere aperte per permettere che il poco caldo, che normalmente avevamo in cucina, si propagasse espandendo un po’ di calore anche lì dentro ma questo voleva dire maggior consumo di legna e soprattutto di carbone cok con le inevitabili lamentele della nonna sul dispendio di denaro. Ma l’espediente ebbe successo e per la prima volta l’acqua della nonna sul comodino non ghiacciò anzi, cosa per lei molto strana, si addormentò e si svegliò dopo che la mamma e il babbo erano già in cucina a preparare il caffè, tante’ che preoccupati vennero a vedere se stavamo bene. Poichè la nonna ronfava come un ghiro ci lasciarono ancora dormire finché la nonna, svegliatasi, entrò in cucina e disse: “da oggi tignaremo sempre taca’ el fogo e verte le porte dela camera e sensa madon tal let perché go dormi come una siora” (da oggi in poi terremo sempre le porte aperte perché finalmente si poteva dormire come i ricchi al caldo senza dovere mettere il mattone prima di andare a letto). Il freddo quell’anno durò ancora per molti giorni tanto che avevamo il tetto della “baracca” ricoperto di neve e ghiaccio che sciogliendosi formava delle stalattiti di ghiaccio tutt’attorno alla grondaia dando così la sensazione di essere degli abitanti della Siberia perciò periodicamente dovevamo andare a pulirli per evitare che il peso sopra il tetto lo facesse crollare.

Le tortorelle e l’albero “de sariese” (ciliegie) Finalmente il freddo cessò e arrivò la primavera concedendoci un po’ di sollievo dal freddo intenso patito quell’inverno e, con il caldo, ricevetti una bella sorpresa che mi rese felice per molto tempo. Trovai, infatti, sul grande albero di ciliegie che avevamo in cortile e che spandeva le sue fronde sopra il casotto di lamiera che stava al di sotto, e che faceva due tipi di ciliegie uno giallo e l’altro rosso, ma comunque tutte e due grosse e deliziose, un nido di tortorelle con due pulcini al suo interno. Non vedendo nessun genitore venire a portare loro da mangiare, il giorno successivo li presi e me li portai in casa assieme al nido sistemandoli sopra la vetrina della cucina ovviamente dopo avere combattuto contro la nonna e i miei genitori che non erano molto d’accordo su quella soluzione. Tanto feci e, tanto pregai che riuscii nel mio intento e così ci trovammo, oltre al gatto, anche quei due piccoli esseri che, come scoprimmo più tardi, oltre a essere voraci erano due grandi casinisti perché tubavano, continuamente ma, dopo un po’ fecero parte integrante della famiglia. Ogni giorno, appena alzato, badavo a pulire il nido, cambiare l’acqua e il mangiare poi mi sedevo a tavola per fare la colazione e questi due esserini terribili, non appena divenuti un po’ più grandi, si affacciavano dal bordo del nido e seguivano le mie mosse. Fu’ cosi che pianopiano iniziarono a lasciarsi accarezzare e prendere in mano e un giorno, ecco l’incredibile. Mentre uscivo dalla stanza da letto, ed ero fermo sulla soglia della porta, vidi le due tortorelle, Pagina | 79


prima una e poi l’altra, volare e venire verso me andandosi a poggiare, una per ciascuna spalla e lì, con il loro continuo “cru-cru”, rimanerci fintanto che io non mi fui seduto a tavola. Solo allora, con un altro cru-cru volare e andare nuovamente al loro nido aspettando che portassi loro il mangiare. Questa cosa si ripeté ogni mattino, non appena uscivo dalla stanza da letto eccole volare e, attraversata tutta la cucina, posarsi sopra la mia spalla inscenando il loro festoso cru-cru. La cosa si ripeté per parecchi mesi fintanto che non scoprirono la finestra di casa e da lì volarsene fuori per andare a poggiarsi sull’albero di ciliegie dove le avevo raccolte da piccine. A quel punto pensai che non le avrei più riviste ma queste rimasero sui rami per tutto il giorno e la sera ritornarono nel loro solito posto, sopra la vetrina della cucina, finché un giorno, dopo essere volate sull’albero, iniziarono ad allontanarsi per fare ritorno dopo un po’ di tempo con pezzetti di legno nel becco iniziando a costruirsi un nuovo nido sopra l’albero di ciliegie e, una volta terminato, ho visto la femmina iniziare a covare le uova deposte e dopo varie settimane spuntare dal nido due nuove testoline che, intriganti, iniziarono a guardarci per poi allietarci con il loro cru-cru finché, divenute grandi, sparirono definitivamente dal nostro giardino. Oltre alle tortorelle e al gatto, che veniva a letto con me, avevo anche un cane chiamato Roli ed era un bastardino bianco e nero di piccola taglia ma aveva una dote: faceva dei salti partendo da fermo che alle volte superavano la mia testa ed era sempre in movimento tanto che dovevamo rinchiuderlo nel canile perché, appena libero, questi scappava per la strada e ritornava solo quando doveva mangiare. In quel periodo, siamo nel 1949, di automobili ne passavano molto poche se non addirittura nessuna ma, quando ne passava una, la cosa diventava un avvenimento e un problema per le famiglie e per noi ragazzi. La strada era ancora in terra battuta e, specialmente d’estate quando la terra era molto asciutta, quando ne passava una, sollevava una tale quantità di polvere da fare sembrare tutto ricoperto di nebbia rossa allora, per ovviare al polverone, tutte le famiglie iniziarono a bagnare la parte di strada adiacente alla propria abitazione. Questo era un lavoro che veniva, a noi affidato, ma in quel tempo, non c’era l’acqua corrente in casa (salvo quella di mio padre che cadeva dal soffitto) pertanto si doveva andare con lo “sborfador” (innaffiatoio) alla pompa, che quasi tutte le case avevano in giardino, e lì dandoci di “olio di gomito”, pompare l’acqua nello sborfador (conteneva circa dieci litri di acqua) fatto in lamiera zincata e una volta riempito portarlo sin davanti casa e iniziare a irrigare la strada fino alla sua metà perché, l’altra era bagnata dal dirimpettaio. Per noi comunque quel “lavoro” era fonte di divertimento perché era consuetudine bagnare la strada tutti assieme, a una certa ora che di solito corrispondeva con il rientro dal mare, che avveniva normalmente verso le sette del pomeriggio allora, ancora con il costume addosso, si andava a riempire i “sborfador” e di corsa via a bagnare la strada ma in realtà a guerreggiare tra di noi su chi riusciva a bagnare meglio l’avversario e alla fine la strada era sì, bagnata, ma i più bagnati eravamo noi che anche per quel giorno avevamo finito, con un altro momento di divertimento. Pagina | 80


Si rientrava a casa e si andava direttamente sotto la doccia che era sistemata all’aperto sotto la pergola ed era stata costruita da mio padre con un contenitore, da circa un ettolitro, fatto di lamiera zincata e pitturata di nero perché cosi attirasse meglio il calore del sole e riscaldasse prima l’acqua, sistemato sopra la tettoia del gabinetto che era accanto alla casa. Quindi, con un tubo portato sopra la pergola e sistematoci una valvola con un doccino e preparato uno spiazzo di cemento dove poggiare i piedi, si procedeva alla doccia quotidiana con il sapone Marsiglia che ti bruciava gli occhi e anche la pelle ma tante’ che altro non c’era comunque il risultato era che, prima di entrare in casa eravamo perfettamente puliti, cosa che la mamma non transigeva e alle volte procedeva con l’ispezione dei piedi e delle mani, prima di andare a tavola. Alle volte, quando faceva molto caldo e mangiare in casa era una sofferenza, si andava a cenare sotto l’albero di ciliegie dove avevamo sistemato un grande tavolo rettangolare di colore avorio e lì sistemata la tovaglia a quadrettoni, bianchi e blu, messi i piatti con le stoviglie e i tovaglioli e la bottiglia di vino del papà si preparava l’acqua Alberani versandoci le due bustine colorate e quindi, tappata la bottiglia, si aspettava un po’ ed eccola pronta bella frizzante e fresca perché fatta con l’acqua presa dalla pompa. Arrivava quindi la nonna con il pentolone del brodetto, che era la normale cena, assieme alla polenta e quindi si dava avvio al nostro pasto al fresco sotto l’albero ma questa soluzione alle volte comportava un inconveniente. Sull’albero di ciliegie avevano trovato la sistemazione alcune “rughe” (bruchi) giganti che erano di un bel colore a strisce di verde più chiaro e più scuro ed erano anche pelose. Così accadeva che ogni tanto una di queste bestiacce cadesse dall’albero sulla tovaglia con le urla della mamma e della nonna e così, mentre loro fuggivano, noi uomini si doveva provvedere alla loro cattura e al loro allontanamento che di solito era fatto con uno stecco posto sotto la “ruga” sollevata e lentamente portata in fondo al giardino dove c’erano gli altri alberi. A operazione compiuta le donne ritornavano e si riprendeva la cena.

L’albero di ciliegie era la fonte della nostra frutta quotidiana perché non ricordo che a casa si andasse a comprare la frutta per pranzo ma si saliva sul gabbiotto e quindi sull’albero per andare a raccogliere le ciliegie e, dopo averne fatta una scorpacciata, si scendeva con un cestino pieno che erano mangiate dai miei familiari. Qualche volta, anche perché era più interessante e perché le ciliegie di alcuni alberi nella zona erano più buone, si organizzava una spedizione per andare a “fregar” (rubare) un po’ di quelle più buone, in un giardino di una villa sita a qualche strada più in là. Aspettando la sera, dopo Pagina | 81


cena, tutta la “clapa” (gruppo) di amici, più coraggiosi, si avviava silenziosamente e, dopo avere saltato la rete di recinzione, ci si arrampicava sull’albero e direttamente sul posto, appoggiati al tronco tra due rami, s’iniziava la razzia delle ciliegie. Un po’ mangiandole frettolosamente senza badare se, le stesse, fossero marce e magari con il verme e tantomeno si aveva il tempo di sputare l’osso, che era comunemente ingoiato, mentre le altre si mettevano dentro la canottiera quindi, sempre silenziosamente com’eravamo arrivati, scendevamo dai rami e scappavamo nella nostra via, delle baracche di Wagna dove, seduti sulla nostra pietra di “ombrinale” preferita, si finivano le altre ciliegie raccolte donandole agli altri amici più paurosi. Una notte, però, mentre eravamo rannicchiati sui rami, la porta del padrone di casa s’illuminò e uscirono nel giardino due persone le quali tutte avvinghiate fra loro, si appoggiarono all’albero dove noi eravamo appollaiati e tremanti dalla paura di essere scoperti, silenziosi tanto che non usciva neanche un alito di fiato dalla nostra bocca, stando lì a fissare i due che lì sotto stavano abbracciandosi e baciandosi. La cosa proseguì per parecchio tempo tra effusioni e sussurri tanto che per poco qualcuno di noi non si mise a ridere ma per fortuna nostra non successe niente e i due, finite le loro espansioni amorose, ritornarono all’interno della casa lasciandoci finalmente liberi di respirare e, dopo un’ulteriore attesa, scendere dall’albero questa volta senza ciliegie e, saltata la rete, scappare come mai avevamo fatto in precedenza. Quando arrivammo dai compagni in attesa delle ciliegie, tutti sudati e affannati, ci circondarono per avere notizie sull’accaduto e, raccontato il fatto, ci sedemmo ancora un po’ con loro perché furono incuriositi dalle cose di cui eravamo stati testimoni e vollero sapere nel dettaglio le effusioni che avevamo visto e sentito tra i due amanti. Con l’estate iniziarono i bagni. Veramente il primo bagno si andava a fare già il primo maggio (tempo permettendo), “alle giarette” che era la spiaggia libera più richiesta dalla gente del circondario, perché aveva la sabbia più bella e soffice dell’intero litorale di Monfalcone Staranzano e San Canzian d’Isonzo ed era quella più frequentata dai giovani che lì si trovavano per dare sfogo ai giochi più stravaganti che andavano dal gioco del pallone, al “pendul” che altro non era che una specie di baseball fatto con una mazza di legno ricavata dal manico di una scopa di saggina tagliato a giusta lunghezza (circa un metro). Ognuno ne aveva una personalizzata, che serviva per colpire “el pendul”, che era ricavato da un pezzo del solito manico di scopa lungo circa quindici centimetri rastremato da ambo, le parti, che era posto su di una cunetta di sabbia e quindi colpito con forza su una delle punte. Quando questo schizzava in alto con abilità, si doveva colpire per farlo andare il più lontano possibile sperando che la squadra avversaria, disposta in varie posizioni, non lo afferrasse prima che toccasse terra. In quel caso eri squalificato e alla mazza si poneva l’altra squadra oppure, quando “el pendul” cadeva per terra, senza essere afferrato dagli avversari, la mazza di battuta era messa per terra, sulla riga dove si era colpito “el pendul”, e gli avversari raccoltolo dalla stessa posizione dove era caduto, lo dovevano tirare cercando di colpire la mazza posta sulla sabbia e, se riuscivano a colpirla, il battitore era squalificato e iniziava una nuova partita.

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Finito quel gioco, si passava quasi subito a un altro che poteva essere il gioco della cavallina o delle “musse” ma, mentre la cavallina era mettere una fila di ragazzi, posti a una certa distanza l’uno dall’altro piegati, con le mani tenute alle caviglie, quindi s’iniziava la corsa con il primo della fila che correndo saltava su quello più vicino poggiandogli le mani sulla schiena. Quelli più abili riuscivano, nel salto, a dare anche un calcetto nel sedere con un piede per poi passare subito all’altro salto e così via fintanto che sfiniti, non ci si fermava chiamando ad alta voce, “caffè”, al che tutti si buttavano sdraiati sulla sabbia e ci si riposava per un po’ fino a che, il meno stanco, non suggeriva un altro gioco che era normalmente quello delle “musse”. Per giocare alle “musse” cercavi normalmente un albero oppure ci si appoggiava all’argine, lì accanto, dividendoci in due squadre e mettendo tutti gli elementi della prima, piegati e avvinghiati, l’uno sulla schiena dell’altro, fino a formare una lunga catena. Poi i componenti dell’altra squadra dovevano prendere la rincorsa e saltare il più avanti possibile sulle schiene dei poveri amici piegati ad attendere il salto degli avversari senza cedere e fare cadere la lunga fila avvinghiata. Quando il primo era ben saldo, sulla schiena avversaria, partiva un altro cercando di saltare anch’egli più a lungo possibile magari cercando di saltare sopra di quello che aveva appena saltato e cosi via fino alla fine dei componenti la squadra che doveva saltare. A quel punto tutti dovevano resistere il più a lungo possibile senza cedere sotto il peso di quelli che avevano saltato sopra di loro e per quelli, invece, che erano sopra evitare di scivolare giù dalla schiena dei poverini che sotto stavano sforzandosi di non mollare. Prima, o poi l’una o l’altra squadra cedeva e se era quella sopra, che aveva appena saltato, allora le parti s’invertivano con gran sollievo di quelli che avevano subito il carico sino allora e, una volta riformatosi, la “mussa” con la squadra perdente, s’iniziavano nuovamente le procedure di salto che molte volte, per vendicarsi delle sofferenze precedenti, si faceva apposta cercando di saltare non solo in lungo ma anche in alto per arrivare sulla schiena degli avversari nel modo più pesante possibile. Questi giochi, fatti comunemente sotto il sole cocente, ti facevano sudare perché per correre sulla sabbia, a prendere “el pendul”, saltare la cavallina o la “mussa”, era molto pesante così, dopo una buona ora, eri diventato fradicio di sudore. Allora, dopo esserci rotolati nella sabbia diventando come delle polpette impanate, di corsa a correre nell’acqua, che in quella zona era sempre molto bassa, e percorrere un bel pezzo di “strada” prima di trovare dell’acqua più profonda tanto da permetterti di tuffarti, spingendosi uno contro l’altro in modo tale da sembrare un branco di vermi avvinghiati e urlanti. Si arrivava alle “giarette” in “bici” (bicicletta), quella che per quel tempo era possibile avere, e la mia era, una bici da donna, della ditta “Bianchi” di colore nero, senza cambio e con il “carter” (copricatena) che proteggeva la catena ma, pur essendo bella, aveva un problema che era quello che quando ti usciva la catena dalla ruota dentata, non potevi rimetterla a posto se non dopo averne tolto il carter ma, per fare tale operazione, bisognava avere degli attrezzi opportuni che nessuno di noi aveva. Pertanto, quando questa usciva dalla ruota dentata, dovevi ritornare a casa a piedi oppure, se trovavi un amico disposto a sobbarcarsi la faticaccia, salire sullo “stangon”(stangone) della “bici” dell’amico e, tenendo la tua bici senza catena per Pagina | 83


mano, cercare di arrivare a casa senza cadere nel fosso di scarico delle acque che costeggiava la strada sterrata. Le bici fungevano, oltre nostro unico mezzo di trasporto, anche come riparo dal sole e, visto che al mare ci si andava al mattino presto per rimanerci fino a tardi, allora si prendevano le bici, si capovolgevano, formando un quadrato senza un lato e stendendoci sopra un lenzuolo. Questo era di volta, in volta sottratto, a rotazione, alla famiglia di ciascuno di noi, quindi posto sopra le ruote delle bici, capovolte, e fermato con dei “ciapini” (mollette da bucato) ai raggi così da formare una specie di capanno dove erano lasciati i nostri indumenti e la borsa di tela contenente il pasto per il pranzo. Normalmente questo consisteva in un panino con il formaggio o la mortadella mentre, per bere, ci si recava dai “Naibo”, la casa di contadini, dove mia madre prestava servizio, e lì si andava direttamente all’albio (vasca dove si abbeveravano gli animali) che aveva una fonte di acqua fresca e potabile che sgorgava autonomamente dalle falde sottostanti e lì, tra lazzi e spruzzate di acqua gelida, ci si dissetava per poi correre nuovamente in spiaggia. Con la bici, o con la bici rotta a piedi oppure sul “stangon”, si faceva ritorno a casa all’imbrunire, per la strada sterrata che, dalle giarette, portava alla via delle “baracche de Wagna” passando accanto ad una casa di contadini, che si trovava sul nostro tragitto e che aveva, come confine con la strada, degli alberi di gelso con delle more bianche e succose che erano la nostra delizia. Così, ogni volta che si passava da lì, la sosta era inevitabile e, con il consenso dei proprietari, si saliva sugli alberi e s’iniziava il luculliano banchetto a base di more che finiva quando, impiastricciati sia le mani sia la faccia e con la pancia piena, si scendeva dagli alberi e, montati in sella cantando, si faceva ritorno a casa.

“El perdon de Barbana” La nonna, appena finita la guerra, voleva andare “al perdon de Barbana” ma solo nell’estate del 1948 riuscì a trovare i soldi e convincere i miei genitori di lasciarla andare da sola, cosa che non fu accettata dai miei perché ritenevano che lei non fosse in condizioni di affrontare il viaggio sino all’isola di Barbana (vicino a Grado). Fu allora che, mentre eravamo andati a dormire sul lettone della nonna, escogitammo il piano di convincimento dei miei genitori e il mattino, durante la colazione, io suggerii che avrei accompagnato la nonna e le sarei stato sempre accanto durante tutto il viaggio così, dopo varie insistenze, ottenemmo l’autorizzazione al viaggio. “El perdon de Barbana” è una vecchia tradizione secondo la quale, la nascita del santuario della madonna di Barbana risale all’anno 582, quando una violenta mareggiata minacciò la città di grado: l’eccezionale evento meteorologico, che allora destò grande stupore e preoccupazione, si inserisce probabilmente nella genesi dell’attuale laguna. Al termine della tempesta un’immagine della madonna, trasportata dalle acque, venne ritrovata ai piedi di un olmo (o, secondo un’altra tradizione, sui suoi rami), nei pressi delle capanne di due eremiti originari del trevisano, Barbano e Tarilesso. Il luogo era allora relativamente lontano dalla linea di costa e il patriarca di grado Elia (571-588), come ringraziamento alla madonna per aver salvato la città dalla Pagina | 84


mareggiata, fece erigere una prima chiesa. Attorno a Barbana si formò una prima comunità di monaci che resse il santuario per i successivi quattro secoli. In questo arco di tempo il mare proseguì la sua avanzata: nel 734, da un documento di papa Gregorio III, si apprende infatti che Barbana era già un’isola. La chiesa venne probabilmente ricostruita più volte e la stessa immagine della madonna, non si sa se una statua o un’icona, andò perduta. Attorno all’anno mille, subentrarono i benedettini che ufficiarono il santuario per cinquecento anni. A questo periodo risale la pestilenza che investì grado nel 1237 e l’origine del pellegrinaggio annuale della città a Barbana.

El pardon de Barbana era uno dei più importanti pellegrinaggi ai santuari della nostra regione perché, gli altri due pellegrinaggi che per la nonna erano eventi tali da averla vista andare, ogni anno a Scala Santa e a Monte Santo. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e i successivi confini con la Jugoslavia, questi pellegrinaggi non fu più possibile compierli ed ecco allora divenire molto più importante, anche per lei, il pellegrinaggio al santuario di Barbana. Il viaggio per terra, in quegli anni, era piuttosto avventuroso e lungo fu così che si organizzò un viaggio via mare con un vecchio barcone da trasporto che fu per l’occasione riadattato a trasporti passeggeri. Il barcone di colore bianco e celeste lungo forse una ventina di metri aveva due grandi alberi che una volta supportavano delle vele ma che era stato modificato sistemandoci un grosso e rumoroso motore diesel ed era governato dalla timoneria sistemata in una tuga chiusa che permetteva solamente al timoniere di entrarci. Sopra la coperta erano state ricavate delle file di panchine che potevano ospitare una cinquantina di passeggeri protetti dal sole con dei grossi teli grezzi chiari tirati a mo’ di tenda da un albero all’altro. Il barcone partiva dal molo situato vicino la centrale idroelettrica alla fine del canale de Dottori la mattina molto presto, prima dell’alba, per cui io e la nonna il giorno prima avevamo preparato le cose da portare con noi. Mentre la nonna preparava il mangiare a base di frittatine con uova e salame, uova sode, acqua Alberani e vino, io preparavo un piccolo zaino, dove avevo messo all’interno della biancheria intima (mutande), calzini e una maglia mentre Pagina | 85


per il viaggio indossavo la cerata che mi aveva prestato “la siora Gisela pescadora” e ai piedi avevo “le papuze de corda”. Il giorno della partenza ci svegliammo verso le quattro del mattino e, dopo una fugace colazione con caffelatte e polenta fredda con l’aggiunta di poco zucchero (il sale nel caffelatte, finita la guerra, era finalmente dimenticato e ora si riusciva a trovare lo zucchero con la tessera annonaria) e, come suggeriva mio padre, anche delle gallette biscottate per evitare il mal di mare (cosa dì cui non ho mai sofferto) quindi, dopo gli abbracci ai genitori, ci avviammo a piedi sino all’imbarcadero posto al molo vicino la centrale e qui arrivati trovammo già molte persone radunate in attesa che il comandante ci permettesse di salire, cosa che fece, non prima di avere incassato la cifra concordata per il viaggio di andata e ritorno quindi, mollate le cime, ci avviammo lentamente nella fresca brezza mattutina, seduti ciascuno al proprio posto, attraverso il canale mentre l’alba stava appena spuntando. Arrivammo all’altezza della boa luminosa, che segnalava l’ingresso del canale per entrare nel porto Rosega, quando il sole fece capolino da dietro le montagne del carso triestino illuminando con i suoi raggi lo specchio di mare che ci circondava e facendo guizzare di lamelle argentate le increspature delle onde che si frangevano contro la prua del barcone carico di pellegrini festosi per l’inizio di quella che si presentava come una meravigliosa avventura. Il viaggio procedeva lentamente perché quel barcone era spinto da un grosso motore diesel molto rumoroso e la velocità era forse di quattro o cinque nodi per cui ci trovammo “al traverso” delle foci dell’Isonzo che il sole era già alto all’orizzonte per cui iniziammo a fare merenda. Seduti sul ponte di coperta io e la nonna aprimmo il nostro zaino ed estraemmo le pietanze preparate, in precedenza, da lei e lentamente, godendoci beatamente della fresca brezza, iniziammo a mangiare le frittatine. Il barcone proseguiva intanto lentamente la sua corsa lasciando sulla dritta le foci dell’Isonzo a Punta Sdobba e tenendoci molto al largo per evitare le secche della “Mula de Muia”. Iniziammo a scorgere le case di Grado quando erano ormai le ore nove passate e, dopo un’altra ora, imboccammo il canale, segnato dalle bricole, che ci introdusse nella laguna di Grado. Dopo avere passato il ponte girevole e lentamente navigando per vari isolotti e seguendo il canale costeggiato dalle bricole, finalmente avvistammo l’isolotto di Barbana con il suo torreggiante campanile. Finalmente, dopo molte ore di navigazione e con molti passeggeri colti dal mal di mare, approdammo al molo del santuario di Barbana giusto in tempo per assistere alla messa di mezzogiorno.

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La chiesa era stipata da persone, poichè quello era uno dei primi “pardon de Barbana” dopo la guerra, e i pellegrini seguivano con trasporto la Santa Messa con canti e litanie e con la lunga fila di fedeli che si recavano a ricevere la comunione compresi, io e la nonna. Dopo avere intinto le dita nell’acqua santa e prostrati davanti alla Madonna di Barbana, uscimmo lentamente e con le nostre poche cose, la borsa della nonna e il mio zaino, ci recammo a cercare un posto dove prepararci al nostro pranzo al sacco. Non fu molto facile trovare un piccolo spazio accanto a quella moltitudine vociante, ma trovatolo, stendemmo la nostra coperta sull’erba del prato, riparati dalle fronde degli alberi, ed estratte le pietanze preparate per l’occasione, iniziammo voracemente a mangiarle bevendo io l’acqua Alberani e la nonna sorseggiando un po’ di vino e acqua. Quello fu per l’occasione un pranzo indimenticabile perché la pace e il silenzio arrivarono dopo qualche ora, quando i pellegrini che sino a poco prima avevano mangiato e bevuto, si addormentarono dando modo anche a noi, stesi sulla coperta e sazi, di addormentarci stanchi dal lungo viaggio, iniziato molte ore prima quando era ancora l’alba, dal molo di Monfalcone. Credo che dormimmo per diverse ore perché, quando ci svegliammo, la temperatura era leggermente scesa e, il sole era calato all’orizzonte. Allora, mentre la nonna rimase seduta sulla coperta, io iniziai l’esplorazione dell’isola che per me era la prima volta. Cosi iniziai passando vicino alla chiesa, andando verso il convento e, giunto alla riva del mare, la costeggiai sino a fare quasi completamente il suo periplo trovando molte cose interessanti da vedere, compreso lo spazio dedicato alla ristorazione e alla vendita di ricordi e souvenir del santuario ma, non avendo con me neanche una lira dovetti ritornare dalla nonna, che era un po’ preoccupata per la mia assenza, e convintala, andammo assieme a comprare alcuni oggetti da portare ai miei genitori. La giornata volgeva al termine così tutti i pellegrini rimasti sull’isola ritornarono in chiesa per seguire la funzione del pomeriggio e alla fine risalire sulle loro imbarcazioni per fare ritorno ai luoghi di provenienza. Così facemmo anche noi che, unitici agli altri pellegrini partiti assieme a noi da Monfalcone, salimmo a bordo del nostro barcone e, dopo avere mollato gli ormeggi, lentamente facemmo ritorno verso casa.

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Lasciammo il canale di grado quando il sole era ormai basso all’orizzonte e, appena lasciata l’imboccatura, notammo che il mare si era ingrossato con onde piuttosto alte e nuvole scure gravavano non molto lontano da noi. Ci fu un momento di panico nelle persone a bordo, non tanto per me e la nonna che eravamo cresciuti praticamente in barca, così ci fu un lungo consulto tra il comandante, il marinaio e con alcuni degli uomini che avevano intrapreso quel viaggio sin dal mattino e la conclusione fu piuttosto drammatica. Ci fu spiegato, che il tempo stava mettendosi al brutto con l’arrivo dello scirocco e questo voleva dire trovare al largo delle onde ancora più alte per cui il disagio poteva aumentare notevolmente. Allora il comandante suggeriva di sbarcare alla “Quarantia” (foce dell’Isonzo) perché da lì per proseguire con il barcone per arrivare a Monfalcone si doveva ancora fare un lungo tragitto di mare con il timore, con quel tempo, di andare a sbattere su qualche mina vagante che ancora si poteva trovare perché la bonifica dell’area non era stata completata. Proseguimmo pertanto nella notte completamente buia e senza alcuna luce all’orizzonte per darci un minimo di direzione solamente con l’esperienza di lupo di mare del comandante che, a sua detta, conosceva perfettamente ogni dettaglio di quel mare per avere navigato ogni giorno da Grado a Trieste e Monfalcone per portare della merce in quelle località. Pertanto ci affidammo alla sua capacità per navigare a vista sino al punto stabilito dove, secondo lui, avremmo potuto sbarcare. La navigazione procedette tra molte difficoltà, dovute soprattutto al mare molto mosso e con l’inevitabile mal di mare di parecchie persone, fino a raggiungere la costa a est della foce dell’Isonzo in località Quarantia dove il comandante riuscì ad attraccare e farci scendere. Dopo averci indicato la via per fare ritorno verso casa, mollò gli ormeggi e lentamente virò di bordo per fare ritorno verso Grado. Ora che ci ripenso vedo quel gruppo numeroso di pellegrini stanchi e fradici di acqua di mare contarsi verificando che non mancasse nessuno e, stabilito che c’era fra, noi una persona che conosceva quei luoghi, seguendo le sue indicazioni, lentamente a piedi ci incamminammo nella buia notte verso le nostre case. Il gruppo composto di più di cinquanta persone molto variegato con diversi bambini, molte donne tra di cui qualcuna, come mia nonna, anziana e qualche uomo stretti gli uni con gli altri, (avevo la sensazione di essere con un gruppo di prigionieri che andavano verso la libertà, tanto era lo spirito e la volontà che questi esseri infreddoliti stavano dimostrando), tenedoci per mano per non perderci e arrancando arrivammo così agli Alberoni dove c’era la casa dei Naibo e da lì, con ancora una decina di chilometri da compiere avanzammo nella notte buia senza stelle con l’incubo della pioggia. Procedemmo faticosamente per la strada sterrata con me, piccino, che procedevo davanti alla nonna cercando di togliere i sassi più grandi affinché questa potesse camminare senza il pericolo di farsi male ai piedi o peggio ancora cadere. Eravamo in cammino ormai da un paio d’ore quando raggiungemmo il ponte girevole sul canale del Brancolo e lì, nella località “della Checca”, ci dividemmo in due poichè un gruppo doveva andare a Staranzano mentre il mio gruppo doveva procedere in direzione di Monfalcone. Perciò dopo i saluti e gli abbracci dovuti alla comune avventura subita ognuno, si Pagina | 88


avviò nella sempre più scura notte verso le abitazioni che raggiungemmo, ormai stremati e con la nonna che a stento riusciva a camminare. Nella via delle baracche di Wagna c’era un gruppo di persone che sostavano davanti alla mia abitazione e si era adunata quando la mamma, preoccupata dalla nostra assenza e vista anche l’ora tarda, si era rivolta alle donne del vicinato per sapere se avevano avuto notizie su quel ritardo. Cosi che, quando svoltammo l’angolo della via, la mamma ci vide e assieme a mio padre corse verso di noi per abbracciarci felici del nostro ritorno aiutandoci, attorniati dalle altre donne, e chiedendoci di raccontare cosa era successo e quale avventura avevamo passato prima di fare ritorno alla nostra casa. Finalmente ristorati e riposati realizzammo che era ormai la mezzanotte e che pertanto eravamo in piedi da quasi venti ore, dalla mattina verso le quattro quando c’eravamo svegliati al momento del nostro ritorno, cosi che rimandammo il racconto della nostra avventura all’indomani, e dopo avere salutato tutti, io e la nonna ci coricammo nel nostro lettone che mai era stato così bramato e, dopo una breve preghiera, andare velocemente in “braccio a Morfeo”. Il mattino dopo, al nostro risveglio, che per la prima volta fu verso le ore dieci, durante la colazione che facevamo io e la nonna sul tavolo all’aperto sotto l’albero di ciliegie, arrivarono tutti i vicinanti per ascoltare le peripezie attraversate. Poi con i soliti commenti, più o meno colorati, la nonna descrisse quello che avevo fatto per lei avendo avuto cura di pulire la strada, prima di ogni suo passo, ricevendo le lodi di tutti meno che dagli amici che nei giorni successivi, per deridermi, quando arrivavo iniziavano una pantomina imitando, con le scarpe, il gesto della pulizia dei sassi dalla strada e facendo finta di essere vecchi con la gobba. La scena durò per diversi giorni fino a che la nonna non si accorse della burla. Allora, approfittando di un giorno che tutti gli amici erano radunati sotto la nostra pergola di uva malvasia, davanti ad una tavola imbandita che la mamma e la nonna usavano preparare per invitare gli amici a mangiare le “cape longhe” (cannolicchi) (che venivano da noi raccolte ai “caregoni” delle giarette e, dopo averle lasciate depurare per un paio di giorni nella vasca di casa, queste erano prima scaldate affinché si aprissero e quindi messe, due per ogni vulva con pane grattugiato e prezzemolo, a cucinare nel forno e quindi servite in grandi teglie sul tavolo dove eravamo sistemati) si parò davanti con le mani sui fianchi, tanto da sembrarci un generale dei carabinieri, guardando fisso uno per uno ogni ragazzino lì seduto, comunicò che se vedeva ancora quella pantomina dei sassi avrebbe smesso di invitare tutti a mangiare le “cape longhe” e avrebbe raccontato alle loro madri cosa continuavano a fare nei miei confronti. State pur certi che, pur di continuare a mangiare le “cape longhe”, nessuno mi dette più fastidio.

“Sposalizio zio Rino (1949) ” L’estate, per noi ragazzi, era il periodo più bello dell’anno perché ci permetteva di godere delle vacanze estive e di andare a divertirci e giocare dal mattino presto alla sera tardi e, quando non si andava al mare alle “giarette”, allora bisognava inventare qualche cosa o qualche gioco da fare. Così che il mattino era normalmente dedicato alle attività sociali, cioè ci si trovava di solito nella “campagnetta” vicino ai canaletti e all’osteria “de Miglio” e lì o ci si sedeva sugli Pagina | 89


argini o i tombini del canaletto e s’iniziava a pensare a cosa fare per passare la giornata oppure, come più volte accadeva si andava a caccia di “verdoni” (ramarri) cercando di stanarli dalle loro tane con tecniche più o meno cruente. Una tecnica era di infilare uno stecco all’interno del foro di entrata del “verdone” e quindi solleticarlo finché questo disturbato, o come dicevamo “incazzato”, saltava fuori come un razzo dalla sua tana e bisognava essere molto rapidi nel prenderlo facendo molta attenzione per dove lo prendevi perché, per difendersi da noi intrusori della sua privacy, se non lo prendevi per la testa, questo ti si rivoltava contro morsicandoti con i suoi piccoli dentini aguzzi che si trovava. Altra tecnica era di riempire il foro della tana con dell’acqua e attendere un po’. Quando il “verdone” sgusciava fuori come un siluro, si tentava di prenderlo al volo con la tecnica che ciascuno di noi aveva escogitato. Alcuni si mettevano seduti accanto alla tana nella mano un fazzoletto, per meglio proteggersi dai suoi morsi altri, invece, avevano preparato un barattolo che era posto sopra l’uscita della tana e, quando questi usciva, era subito chiuso con un coperchio. Una volta catturati i “verdoni” erano minuziosamente studiati cercando di capire le differenze di colore oppure quale di questi era maschio oppure femmina, credo comunque che quella, per noi ragazzi, fosse una delle più grandi lezioni di anatomia animale che neanche a scuola potevi apprendere. I verdoni venivano quasi tutti, una volta esaminati, rimessi all’interno delle loro tane, salvo alcuni che il mio amico “Giordano” usava portare a casa per procedere a vari esperimenti tra i quali verificarne il comportamento all’interno di un grande scatolone contenente del cibo e dell’acqua e per diversi giorni osservarne le mosse e i comportamenti di socializzazione con gli altri animali presenti (topolini, ranocchie e altro ancora). All’interno di quella specie di Arca di Noè, che era il suo caravanserraglio e, quando qualche essere moriva, lo voleva imbalsamare mettendolo in un vaso di vetro con dentro dell’alcool oppure, visto che aveva già allora lo spirito del capire “com’era fatto”, lo sezionava con delle lamette da barba per capire l’anatomia interna dell’animale ma questo era per noi una cosa che ci faceva schifo perciò di solito, alle sue richieste di assisterlo per le sue operazioni chirurgiche, tutti noi avevamo improvvisamente qualche cosa di urgente da fare e lo lasciavamo da solo ai suoi esperimenti. Dopo avere pranzato e normalmente schiacciato un pisolino, perché il caldo era particolarmente intenso, e uscire nella strada sterrata come allora era, voleva dire scottarsi i piedi o ancora sporcarseli di terra rossa e grigia che il sole aveva ridotto quasi a un deserto tanto che, se si sollevava un alito di vento, questo formava dei mulinelli di terra che ricopriva la poca erba che si trovava a bordo della strada. Così chiusi in casa e stesi sul pavimento della cucina su cui la mia mamma stendeva prima la “coperta imbottita”, che si usava all’inverno per metterla sopra il letto per scaldarci, perché era più morbida e lì stesi, con solo le mutandine addosso, cercavamo di dormire immobili evitando così che anche i piccoli movimenti ci facessero sudare. Quello per noi era il nostro condizionatore. Così imparai un’altra legge della fisica che l’aria calda era più leggera e saliva verso l’alto pertanto, lo stare sdraiato sul pavimento di pietra, riduceva la sensazione di caldo sia per la posizione diretta del freddo pavimento sotto la coperta imbottita che per il fatto di essere nel punto più basso ti dava la sensazione iniziale di Pagina | 90


un certo benessere ma che si riduceva a mano a mano che il corpo, appoggiato alla coperta iniziava a sudare allora ti dovevi alzare e andare alla pompa dell’acqua a rinfrescarti e a bere l’acqua Alberani che era avanzata durante il pranzo quindi, rinfrescatoti, ritornavi alla tua coperta imbottita stesa sul pavimento e iniziavi nuovamente a riposare. Verso le quattro del pomeriggio, con il sole ancora molto alto all’orizzonte, sentivi l’incantevole suono, non delle mitiche “sirene”, ma della trombetta di “Pippo” il gelataio ambulante che, provenendo dall’altra strada parallela alla mia, appena svoltato l’angolo dava fiato alla sua tromba gridando a gran voce “eccolo che è arrivato Pippo, bambini ecco il gelato più buono del mondo”. Non appena sentivi quel suono e, la sua voce, cosa che era peraltro fortemente attesa da tutti noi, vedevi uscire ragazzi correndo da ogni casa scalzi e con le sole mutandine addosso, insensibili al caldo e alla strada arroventata, cercando quel filo di erba che cresceva ai lati della strada, correre incontro al carretto di Pippo.

Il carretto di Pippo era montato sopra di un triciclo con, sul davanti, un cassone pitturato con colori sgargianti e sulla parte centrale ricavati due contenitori cilindrici, che erano tenuti ghiacciati dal ghiaccio che era sistemato esternamente in un apposito ripostiglio, contenente due tipi di gelato uno al gusto di cioccolato e l’altro al gusto di vaniglia ed erano ricoperti con due coperchi conici lucenti di ottone cromato che li facevano splendere al sole dando così ancora più fascino all’insieme. Il carretto era ricoperto con un tendalino colorato con delle frange che correvano tutt’attorno, che proteggeva dal sole i due contenitori, ed era sorretto da quattro colonnine anch’esse cromate che oscillavano quando il carretto spinto da Pippo si muoveva per venire verso tè ed era così invitante che non potevi fare a meno di andare a comprarne una pallina di quella succosa leccornia che i due contenitori luccicanti ti ammiccavano dicendoti vieni-vieni che il bel gelato ti aspetta. Allora iniziavano le prime difficoltà per andare a comprare il gelato, cosa che peraltro si ripeteva quasi ogni giorno salvo quando, tutti noi, eravamo andati al mare alle giarette. Si doveva, infatti, andare dalla nonna o dalla mamma a chiedere le famose dieci lire (questo era il costo di una pallina) inscenando la solita pantomina “nonna o mamma mi puoi dare dieci lire per il gelato, ti prometto che domani non lo prenderò” oppure “mi puoi comprare il gelato cosi posso fare i compiti delle vacanze più bene” o ancora “ti prometto che sarò più buono e ubbidiente per i prossimi giorni” e via così fintantoché non riuscivi a ottenere quello che avevi voluto cioè una o più palline (cosa che avveniva solo quando compivi gli anni) di gelato. Pagina | 91


La sera, quando il caldo scemava, dopo cena ci si trovava per giocare ed era allora che si scatenava la voglia di divertirsi con poco. Bastava, infatti, trovarsi tutti assieme dopo avere fatto il giro per le case della via per raccogliere gli amici titubanti a uscire o peggio convincere le loro madri a lasciarli uscire anche se questi erano stati messi in castigo con l’assoluto divieto di uscire da casa, ma con l’insistenza di una decina di scatenati ragazzini anche la più severa delle madri alla fine cedeva. Allora ci si radunava, ragazzi e ragazze, ogni volta in un luogo differente per realizzare il passatempo della serata che poteva essere quello di andare a rubare le ciliegie oppure, se la fantasia e la voglia non c’erano, passare al più tranquillo gioco che era quello del nascondino. Ricordo che la via era poco illuminata c’erano, infatti, sì o no tre o quattro lampade a emanare una tremula luce che permetteva appena di scorgere le case di fronte ma era perfettamente adatta a giocare a nascondino perché bastavano pochi metri per essere nascosti dal buio più totale. Ci si metteva, allora, in circolo e uno iniziava a fare la conta per individuare colui il quale avrebbe dovuto fare il palo eseguendo il solito rito con la solita filastrocca “bin, bun bon tre sorelle sul porton che facevano l’amore con il figlio del dottore il dottore si ammalò bin, bun bon tocca a ti’”. Su chi finiva la filastrocca contando, questo diveniva il palo e poggiandosi con gli occhi chiusi al muro, iniziava a contare fino a trenta, mentre gli altri velocemente andavano nei posti più impensati a nascondersi quindi alla fine della conta il palo iniziava a cercare uno a uno tutti gli altri. Una volta trovatone uno, doveva correre a battere il suo nome sul posto dove al palo aveva fatto la conta e se arrivava prima dell’altro, allora questi era eliminato e doveva andare a sedersi per aspettare che tutti gli altri fossero trovati. Il problema più grande per il palo era quello si di trovare gli altri ma anche di guardarsi alle spalle che nessuno, che si era nascosto, da un altro lato, potesse correre prima di lui battendolo sulla velocità e, così facendo, battendo la mano sul posto dove era stata fatta la conta dicendo “tutti liberi”, si permetteva a quelli trovati e a quelli ancora nascosti di ritornare in gioco liberandoli. S’iniziava quindi nuovamente il gioco con lo stesso palo che non era riuscito a trovare gli altri. Il gioco si protraeva, visto che si era in vacanza, anche sino a tardi e si faceva ritorno a casa quando la siora Ina oppure siora Gisella o mia madre iniziavano a urlare il fatidico richiamo “Giordano xe ora de andar a dormir” oppure “Clara xe tardi” e così uno dopo l’altro, non prima di avere risposto “ancora un momento” per prolungare al massimo il nostro gioco, mestamente si ritornava alle nostre case, normalmente zuppi di sudore e sporchi di terra, andando alla pompa dell’acqua a lavarci e a raffreddarci quindi puliti e freschi infilarci nel letto con la nonna e, dopo le preghiere serali, cadere in un profondo sonno ristoratore. L’estate purtroppo per tutti noi finì presto e iniziarono nuovamente le scuole elementari, facevo allora la quarta classe, quando a ottobre del 1949, mio zio Rino si sposò con la zia Giorgina che era nata a Villesse ma che aveva conosciuto a Monfalcone dove faceva servizio presso l’ospizio di via Romana. Fu così che qualche mese prima la nonna mi parlò dell’avvenimento e dei preparativi per realizzarlo. Pagina | 92


Qualche giorno prima dello sposalizio la nonna iniziò a preparare la cena di nozze poiché, si era deciso che, il matrimonio doveva celebrarsi nella chiesa di Villesse e, in quel luogo, si sarebbe mangiato il pasto nuziale quindi, tutti gli invitati si sarebbero recati a Monfalcone, per partecipare alla cena, e consolidare così la cerimonia delle nozze. La nonna pertanto iniziò a “tirare il collo”, il giorno prima, a molti polli e galline e ad alcuni tacchini che aveva premurosamente allevato nel nostro recinto in fondo all’orto, sin da quando aveva saputo la data delle nozze dello zio. Mio padre, assieme a mio zio, avevano iniziato a liberare la stanza da letto della nonna (dove dormivo anch’io) smontando il lettone e il letto più piccolo dello zio. Passarono quindi a smontare l’armadio e il “comò” lasciando la stanza completamente libera per sistemare poi una serie di tavoli, alcuni prestatici dai vicini, disposti a U attorno alle pareti, in modo da fare sedere, da ambo i lati, gli invitati che erano numerosi (circa cinquanta), lasciando al centro lo spazio per il passaggio delle pietanze preparate con maestria dalla nonna. Ricordo che, mentre mio padre, mia madre e mia sorella assieme allo zio si recarono a Villesse per celebrare il matrimonio, io e la nonna rimanemmo a casa per preparare la cena e così, mentre facevo l’aiutante di cucina, approfittavo per assaggiare le pietanze che la nonna stava cucinando. Rivedo ancora oggi la nonna che puliva prima i polli e le galline. Dopo averle spennate e passate sul fuoco per abbrustolire i pennacchi rimasti attaccati alla pelle, erano sviscerati, togliendone le budella, “el durion” (rene) i fegatini quindi, dopo averle tagliate a pezzi e messe a macerare con aceto e vino e con vari odori, lasciate lì per alcune ore. Si passava a pulire i tacchini procedendo con lo stesso criterio dei polli e, dopo averli lardati con il lardo e la pancetta, messi al forno, uno a uno e lasciati molte ore a cucinare. Nel frattempo, io avevo il compito di pulire le budella delle galline che erano prima fatte macerare nell’aceto e quindi prendendo un pezzo di budella per volta, lungo circa una cinquantina di centimetri, farvi passare all’interno un ferro da calze quindi, dopo avere legato l’estremità’ al ferro, si tirava facendo rivoltare il budello in modo che l’interno si ponesse all’esterno. Allora si mollava la legatura e dopo una lavata s’immergeva nuovamente nell’aceto finché questo non diveniva bianco e pulito. A quel punto i budelli erano tagliati a pezzettini e messi nella “farsora” (padella) con olio e tanta cipolla poi, aggiunti anche i fegatini, si faceva saltare in padella per un paio di minuti quindi, tolti dal fuoco e versati nei piatti per essere mangiati, erano una vera leccornia. Non ricordo quanti ne abbia mangiati, ma so che la nonna lo raccontò a tutti gli invitati i quali si complimentarono per la mia voracità. Verso sera, quando arrivarono gli invitati da Villesse dopo la celebrazione del matrimonio e del pranzo, tutti erano già abbastanza alticci e sazi ma lentamente, dopo i saluti degli sposi alla nonna e al sottoscritto, occuparono il posto a tavola, che trovarono già completamente imbandita con la posateria mista, cioè parte con quella ricevuta per il matrimonio di mio padre e mia madre e con altra parte prestataci da varie famiglie dei vicini così che, alternandola, sembrava fosse stata predisposta volutamente per l’occasione. Pagina | 93


S’iniziò con il brodo di gallina con il riso servito per l’occasione da delle vicine che si erano gentilmente prestate a fare da inservienti ma coadiuvate sotto stretto controllo dalla nonna che verificava ogni piatto e, una volta serviti tutti gli ospiti, si sedeva anche lei a mangiare a tavola per poi, una volta tolti i piatti, tornare in cucina per preparare il piatto successivo che, in questo caso, consisteva nel bollito di gallina aggiunto a quello di carne di vitello e accompagnato da una purea di patate. La cena era accompagnata da del vino bianco e rosso donatoci, per l’occasione, dai Naibo (la famiglia dei contadini dove lavorava mia madre) che era una vera bontà tanto che non si faceva a tempo portare a tavola una caraffa che questa era già consumata e così che bicchiere, dopo bicchiere l’allegria nella sala iniziò ad aumentare anche perché accompagnata dalle battute di spirito che mio padre di tanto in tanto sfornava e faceva ridere a crepapelle tutti i commensali. Poi s’iniziarono a servire gli arrosti di pollo al tegame e i tacchini al forno accompagnati da patate anch’esse al forno e con degli spinaci al burro che completarono la cena. Nel frattempo era già passata la mezzanotte e, mentre uno degli invitati suonava la fisarmonica, gli altri iniziavano a cantare e altri a ballare, io lentamente m’infilai sotto un tavolo in un angolino più tranquillo e lì, sazio da fare paura e stanco di quella lunga giornata di lavoro per aiutare la nonna, lentamente mi addormentai sdraiato a terra. Ancora oggi non ricordo come o chi mi accompagnò nella stanza da letto dei miei genitori, lì accanto, dove mi svegliai solamente il mattino successivo verso mezzogiorno. Tutti gli invitati erano già ritornati casa loro e gli sposi partiti per il “viaggio di nozze”, altro non era che andare nella nuova casa affittata per viverci dopo sposati, ma ritrovando la camera, dove si era tenuta la cena, già ricomposta con i letti, l’armadio e il trumeau pronto per essere nuovamente destinata al suo uso originale da stanza da letto. Lo sposalizio dello zio comportò una piccola rivoluzione logistica nella casa, infatti, io potei finalmente avere un mio letto, mia sorella lasciò la camera dei genitori e si trasferì nel lettone con la nonna e finalmente i miei genitori poterono avere la loro intimità. Per me, oltre al fatto di avere un mio letto, era la coscienza che finalmente, nel letto dove ero stato sistemato, avrei avuto il privilegio di ricevere un maggiore calore poiché, lo stesso, era sistemato accanto al muro che confinava con lo spargher e il calore si propagava attraverso di esso sino a riscaldare leggermente anche le mie coperte. Per questa sistemazione e vantaggio fui da tutti chiamato il “principe” (te dormi finalmente come un principe) e, infatti, era così che mi sentivo ogni volta che andavo a letto specialmente nelle fredde serate d’inverno quando anche il bicchiere d’acqua, sul comodino si congelava.

“I Naibo” L’estate successiva, avevo ormai undici anni, durante le vacanze estive fui mandato dai Naibo, la meravigliosa famiglia che aveva dato lavoro e aiuto alla mamma durante la guerra e che ci aiutava ancora, e che gestiva delle terre a mezzadria nella zona degli Alberoni vicino all’argine Pagina | 94


della marina e delle giarette. Fui accettato come uno di loro, dal padrone di casa, il vecchio padre (il nonno per me), dai sette fratelli, – Giacomo, Rico, Angelo, Miglio, Giovanni, Piero e il Cice, la moglie del primo, Giacomo, la siora Catina e dalle loro due figlie. La casa colonica si trovava in fondo a un grande vialone alberato di “talponi” (platani) che partendo dal canale del Brancolo in località “la Checca”, arrivava diritto, come un tiro di schioppo, quasi davanti alla casa in quanto, poco prima, si diramava in una biforcazione con una strada che portava alla Quarantia e alla foce dell’Isonzo. La casa era una costruzione molto grande composta di due parti attaccate: una era dedicata ad abitazione e aveva un piano terra e un secondo piano, dove erano ricavate le stanze per la numerosa famiglia mentre accanto c’erano la stalla con le vacche e i cavalli con sopra il fienile e il granaio e la “tesa” (tettoia) dove erano riposti gli attrezzi, i carri e la “brisca” (calesse), la trebbiatrice e molte altre cose ancora che per me ragazzino erano una continua sorpresa e novità.

Sul lato verso il mare c’erano due grandi silos cilindrici che contenevano il fieno per gli animali con accanto ad una specie di giardino recintato pieno di finissima sabbia bianca e che, al primo momento, mi faceva pensare fosse un posto dove andare a fare le sabbiature. Come scoprii più tardi, era dedicato alla coltivazione degli asparagi bianchi che, nella stagione della maturazione la mamma portava a casa e, io, assieme ai miei famigliari, ne facevo delle grandi scorpacciate uniti alle uova sode con un po’ di sale, un filo di olio e un po’ di pepe. Sul retro della casa c’era un grande giardino, dove razzolavano galline, galli tacchini e delle oche che a me sembravano degli struzzi tanto grandi queste erano e, quando arrivava qualcuno, anche senza i cani che, in effetti, c’erano, queste facevano un chiasso infernale correndo tutte assieme verso l’intruso che se non era veloce a scappare queste lo circondavano beccandolo con i grossi becchi che si trovavano. Chiudeva, dal lato opposto l’entrata di casa, un’altra costruzione composta di un locale adibito a porcile con, all’interno sempre tre o quattro maiali che ricordo essere sempre tenuti puliti e lindi come dei putti e da un altro locale adibito a “lisciera” (lavatoio). In questo locale erano lavati a caldo i panni di tutti gli inquilini di quella grande casa colonica, ed era Pagina | 95


settimanalmente il regno di mia madre che tra’ i vari compiti, stirare e rammendare, doveva fare la “liscia” (lavaggio). Per questo compito alle volte ero coinvolto anch’io perché dovevo andare a prendere, con secchi di lamiera zincata da dieci litri, l’acqua fredda che sgorgava perennemente da una canna (tubo) posta accanto all’albio (abbeveratoio) dove giornalmente si abbeveravano le mucche e i cavalli e dove starnazzavano i “mazurini” (germani reali). Riempirli e lentamente, uno per volta, portarli alla “lisciera” fino a riempire “el caglieron” (la grande cagliera) che stava sopra un focolare che nel frattempo mia madre aveva acceso alimentandolo con fascine di legna o dei tralci di uva o, meglio ancora, con i “torsi” (torsoli di pannocchia) che una volta accesi formavano delle braci che davano un bel calore. Questo compito settimanale io lo facevo quando ero in vacanze estive e, pertanto il caldo, che già era di per sé gravoso, era aumentato a dismisura all’interno della “lisciera” dove il fuoco ardeva e l’acqua bolliva tanto da fare sembrare l’antro dell’inferno dantesco e la povera mamma, la strega maligna che preparava il calderone per le pozioni velenose. Ma, ad aggiungersi al calore era il vapore acqueo che usciva dalla “cagliera” nel quale la mamma metteva della soda caustica unita con della cenere raccolta da sotto il braciere e, una volta che l’acqua bolliva, immergeva i panni sporchi lasciando raffreddare lentamente l’acqua e lisciva con i panni dentro ma periodicamente rimestati con un lungo bastone. Quando l’acqua e gli indumenti si erano raffreddati, erano portati con la carriola, al vicino “albio” e lì uno a uno immersi più volte nell’acqua fredda fintantoché questi assumeva un colore e un profumo di pulito. Allora, ricaricandoli sulla carriola erano portati a stendere o su dei fili tirati apposta tra diversi pali oppure stesi per terra sull’erba che si trovava intorno alla casa. Ho sempre pensato a mia madre quando oggi si parla di lavori usuranti, magari da quei poveri e falliti personaggi che della politica o del sindacato fanno il loro “usurante” lavoro e che devono definire quali sono i lavori usuranti della povera gente che come mia madre li ha fatti per molti decenni o li sta ancora facendo in questo terzo millennio. Come dicevo, oltre al compito settimanale della “liscia” per aiutare mia madre avevo anche il compito, molto più gradito, di andare al mattino in giro per i covoni di fieno a raccogliere le uova, che le galline depositavano liberamente in giro per tutto il cortile, e con il grande cesto di vimini in mano, all’alba, subito dopo la colazione, mi avviavo alla ricerca delle uova nascoste. Non era semplice trovarle ma, facendo attenzione e dopo una lezione sul campo da parte del nonno Naibo, avevo acquisito una sostanziale autonomia ed ero diventato un abile scopritore di uova nascoste tanto che, dopo le prime infruttuose spedizioni, riuscivo a ritornare anche con una ventina di uova che erano consegnate alla siora Catina che le depositava nella dispensa posta al piano terra. La raccolta delle uova divenne anche il modo per fare un’altra colazione, dopo di quella che le donne di casa preparavano al mattino, quando tutta la famiglia, me compreso, scendeva dalle Pagina | 96


camere e si sedeva attorno alla grande tavola apparecchiata con scodelle di latte caldo accompagnato dal pane appena sfornato che, credetemi, ancora ne sento il profumo perché mi arrivava alle narici, prima del risveglio, e iniziavo ad assaporarne il meraviglioso gusto già scendendo dalle scale. Quindi, seduto con gli altri uomini, ero il solo ragazzino perché nella famiglia avevano solamente due ragazze della mia età, Maria e Giovannina e si dava inizio a quell’abbondante libagione che veniva anche accompagnata dal burro con fette di lardo e uova strapazzate con la pancetta. La colazione era molto importante per quei bravi contadini i quali subito dopo si alzavano calcandosi addosso al cappello e, chi a piedi e chi con il carro si recavano nei campi ad arare o falciare il fieno oppure, per alcuni, accudire alle mucche mentre le donne si prendevano cura degli altri animali del cortile. Una figura che più mi è rimasta nella memoria, forse perché era inconsciamente associata al mio povero nonno, morto tanto tempo prima, era il vecchio padre di quei numerosi e laboriosi figli che componevano la famiglia, che tutti noi ragazzini chiamavamo nonno e che stava di solito seduto su di una sedia impagliata vicino alla porta secondaria d’ingresso che dava direttamente accesso alla dispensa per cui non riuscivo a capire se era lì per fare la guardia alla dispensa oppure era l’unico posto, dove c’era più pace. Lo ricordo come fosse ora davanti a me, lì seduto con la sua solita, “mise” composta dai pantaloni neri ormai sgualciti con la camicia bianca a maniche arrotolate al gomito con addosso a un panciotto, anch’esso di colore nero e sulla testa, perennemente, il cappello anch’esso nero e, per lunghi periodi del mattino, tenere in mano, un fiascone di vetro senza paglia dove all’interno ci metteva la panna e poi, sempre sbattendolo sulla coscia, lo trasformava in burro. Era quella una delle operazioni che più mi affascinava cosi, non appena avevo finito di eseguire il mio ruolo di raccoglitore di uova, con la cesta piena mi recavo da lui prima per mostrargli quante uova avevo trovato e secondo, la più importante, era per sedermi sul pavimento accanto ai suoi piedi e guardarlo mentre con lentezza, ma con energia, sbatteva il fiascone e nello stesso tempo spiegarmi del lavoro che stava facendo e della trasformazione, della panna in burro, che serviva poi alla numerosa famiglia per preparare le buone e genuine pietanze della siora Catina, moglie del figlio Giacomo, il primogenito che ora, vista l’età del nonno, era diventato il capofamiglia. Mi raccontava, durante tutto il tempo che occorreva per preparare il burro della sua giovinezza da quando dalla sua Sacile si era dovuto trasferire in quella tenuta per lavorare a mezzadria assieme alla moglie e ai numerosi figli. Infatti, dopo la bonifica fatta in quella zona durante il regime fascista, la terra fu concessa ad alcuni grossi proprietari terrieri, i quali, per coltivare tutte le nuove terre, avevano bisogno di manodopera specializzata e la trovarono in prevalenza nelle zone rurali del pordenonese. Così armi e bagagli alla mano si trasferirono in quella grande casa colonica e lì, con l’aiuto dei proprietari terrieri, che fornirono loro inizialmente alcuni capi di bestiame e, un carro, iniziarono ad arare e seminare e, con grossi

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sacrifici di tutta la famiglia riuscì, piano-piano, a produrre sempre di più e meglio fino ad arrivare ad avere una buona autonomia economica. Il nonno Naibo era molto geloso della dispensa e raramente mi faceva entrare ma, sarà perché ero l’unico ragazzino maschio lì presente a ricordargli il suo passato di padre, mi voleva un gran bene e così passati i primi momenti di diffidenza, mi diede la chiave, che conservava gelosamente nella tasca del panciotto, che ricordo era scura con un grande occhiello da un lato mentre l’altra estremità era provvista da un’appendice a esse che serviva per essere introdotta nella “toppa” della serratura e permetteva l’apertura della porta della dispensa, e una volta aperta entrare in quello che per me era il “ben di Dio”. C’erano, infatti, oltre alle grosse botti e alle damigiane piene del vino da loro prodotto per l’uso domestico, appesi a delle intelaiature che erano fissate tra due muri e sulle quali erano stati inseriti dei chiodi a uncino, un’infinità d’insaccati che andavano dalle bande di un profumatissimo lardo con delle striature trasversali rosate, ai salami, alle pancette, ai cotechini e altro ancora tanto che, ogni volta che entravo, il mio primo pensiero era di prendere la scala a pioli posata lì accanto, e che serviva per prelevare le cose per preparare i pasti della giornata, salirci sopra, prendere una di quelle leccornie e mangiarmela all’istante. Ma la coscienza subito s’intrometteva nei miei pensieri dicendomi che comunque parte di quelle buone cose mi sarebbero arrivate, tanto che il nonno Naibo che mi guardava sorridendo, aveva capito la mia tentazione allora mi faceva salire a prendere un salume e, poi, prima di sedermi accanto a lui sulle travi che sostenevano le botti, mi mandava in cucina a prendere, dalla siora Catina, un pezzo del suo meraviglioso pane. Poi, ritornato da lui prepararci un bel panino composto dal pane, che ancora era tiepido dopo la sua sfornatura mattutina, e infilandoci delle grosse fette di lardo oppure di salame o pancetta, assaporando quelle delizie, con il nonno Naibo accanto, e divorare il tutto con il vecchio nonno che beatamente si godeva, della mia espressione di “goduria” che sicuramente traspariva dal mio viso. Tutto questo avveniva normalmente durante il periodo che passavo da loro, durante le vacanze estive della scuola. Era perciò il periodo dell’estate così, mentre il mattino, dopo essermi dedicato alla raccolta delle uova e avere passato diverso tempo con il nonno Naibo, mi avanzava del tempo per recarmi a fare il bagno nella spiaggia lì vicino, che si trovava di là dell’argine e che separava dal mare le terre appena bonificate, dove l’acqua era così bassa e con dei meravigliosi fondali di sabbia, che ti permettevano di correre per parecchio tempo, fin quasi al “caregon” (era stato usato quale segnalazione per la verifica della velocità dei “Cant”, gli aerei costruiti nei cantieri navali dei Cosulich prima, e durante la seconda guerra mondiale). Lì finalmente trovavo dell’acqua più alta per potermi tuffare e godermi della felicità di essere, come un Robinson Crusoè su un’isola deserta. Poi, finalmente stanco della corsa e del bagno, ritornare lentamente verso la casa dei Naibo che, trovandosi più in basso, era protetta dall’argine. Arrivavo alla casa che era l’ora di pranzo dove mi attendeva un altro compito, era quello di aiutare le donne di casa ad andare a portare il mangiare, nei vicini campi, agli uomini che erano al lavoro. Cosi si mettevano dei grandi cesti di vimini, contenenti le vettovaglie, sul Pagina | 98


manubrio della bici e in equilibrio, facendo molta attenzione a non rovesciare il tutto, ci si recava dagli affamati contadini. Questi, non appena ci vedevano, smettevano il loro lavoro e, dopo essersi rinfrescati e lavati con l’acqua della “roia” (sorgiva) che passava lì vicino, sedutisi sotto il carro per dare un po’ di refrigerio e di ombra. Dopo avere steso sull’erba una grande tovaglia, ci si posava sopra nel mezzo le pagnotte del profumatissimo pane della siora Catina e accanto ad ognuno dei commensali delle gamelle d’alluminio che erano normalmente riempite dalla minestra di fagioli o di verdure, che i nostri operosi e affamati uomini divoravano in un battibaleno. Dopo un paio di bicchieri del vino da loro prodotto, passare al secondo piatto che era normalmente composto di patate stufate tagliate a dadini con dentro rosolata della pancetta con accanto, un pezzo di cotechino che era stato conservato, sin da quando era stato ammazzato il maiale. Ciò avveniva nel mese di Gennaio, mettendo i cotechini all’interno di contenitori sigillati e immersi nel lardo fuso cosi che una volta raffreddato questo assumeva un colore bianco che li avvolgeva facendo si che così si conservassero, nella fresca dispensa del nonno Naibo, per quasi tutto l’anno. (Mamma mia al solo ricordo mi viene l’acquolina in bocca, tanto erano deliziose). Ricordo che mi univo, per pranzare, assieme a loro sedendomi accanto a Piero (era uno dei fratelli più giovani ed era il mio compagno di stanza nella loro grande casa colonica) e avevo il compito di versare, inserendo il “caziol” (mestolo) nel recipiente, (dove una volta si trasportava normalmente il latte che era venduto alla latteria comunale, e che era composto di un contenitore cilindrico di alluminio da circa dieci litri con un coperchio con guarnizione di gomma a tenuta stagna), e che ora era utilizzato per trasportare la minestra ai contadini nei campi, e lentamente riempire le gamelle di ogni singolo uomo. Sarà perché ero ragazzino oppure perché a casa il mangiare non era mai in abbondanza, fatto sta che alle volte mi facevo anche due gamelle di minestra e magari due porzioni di patate e cotechino poi, magari dopo un piccolo sorso di vino con acqua mi sdraiavo sotto il carro nell’erba fresca e con l’ombra del carro che mi riparava e lì mi addormentavo mentre gli uomini rifocillati e riposati riprendevano il lavoro nei campi che, in quei mesi caldi, era dedicato prevalentemente alla raccolta delle pannocchie. Quando mi svegliavo, alle volte, andavo anch’io nel campo in mezzo alle piante delle pannocchie e lì avevo il compito di raccogliere i fagioli che erano stati seminati in mezzo e che ora erano cresciuti avvolti alle canne delle pannocchie allora munito di un cesto di vimini, m’inoltravo in quella selva calda e umida e lentamente iniziavo a raccogliere i fagioli e, quando uscivo dall’altra parte del campo, dopo avere completato una “vaneza” (solco con una fila di pannocchie) mi asciugavo dal sudore e quindi mi ributtavo dentro ad un’altra “vaneza”. Quel compito era molto faticoso in quanto, essendo allora non ancora molto alto, le pannocchie mi coprivano completamente tanto da non farmi nemmeno scorgere la luce del sole. Così riuscivo a fare sì e no quattro “vaneze” poi, dopo essermi riposato un po’ sotto il carro, inforcavo la bicicletta e facevo ritorno alla casa dei Naibo, dove trovavo mia madre che stava stirando o rammendando attorniata dalle donne di casa, le salutavo e uscivo nuovamente per andare a fare un altro bagno in mare.

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“Cena e a letto” All’imbrunire, al ritorno degli uomini dai campi, mi recavo sulla “tesa” (tettoia) dove erano sistemati i carri da lavoro e, una volta tolti i finimenti ai cavalli, questi erano da me accompagnati all’albio (abbeveratoio) dove li lasciavo bere. Nell’attesa mi recavo al fienile sopra la casa e, attraverso una botola, con un forcone gettavo da basso il fieno che serviva per dare da mangiare ai cavalli e alle mucche quindi saltavo giù dal fienile, attraverso la botola cadendo sul mucchio di fieno che avevo fatto cadere e da lì correndo andavo a recuperare i cavalli all’albio i quali ormai dissetati mi guardavano arrivare con i loro occhioni curiosi e con un nitrito mi salutavano e mi permettevano di accompagnarli alla loro stalla. Una volta sistemati nei loro box, davo loro da mangiare il fieno aggiungendoci alcune manciate di crusca di grano che era molto ben gradita tanto che, alla mia giumenta preferita, davo delle porzioni più abbondanti. Finiti i cavalli, passavo a spargere il fieno nelle lunghe mangiatoie di cemento sistemate accanto ai muri periferici della stalla, mentre il mio compagno di stanza, il penultimo dei fratelli Naibo, che si chiamava Piero, procedeva alla pulizia della zona, adibita alle mucche da latte, togliendo la paglia vecchia e sostituendola con della nuova e pulendo il letame che si era accumulato durante il giorno, cosa che era fatta nuovamente al mattino prima di andare a lavorare nei campi. Finita tutta l’operazione di pulizia della stalla e dopo avere salutato la mamma che ritornava a casa dai miei alle baracche di Wagna, io andavo all’albio a lavarmi, in quel getto di acqua fredda che proveniva continuamente dalle falde sotterranee. Entravo quindi nella grande cucina, dove campeggiavano il grande focolare a legna e un grande tavolo rettangolare e dove erano già seduti tutti i fratelli Naibo assieme al vecchio padre (le donne di casa la Catina e le sue due figlie, Maria e Giovannina mangiavano nella sala tinello accanto). Quindi, era servita la cena comunemente a base di polenta e carne o di maiale oppure di selvaggina perché il “Cice”, il più giovane dei fratelli, amava andare a caccia con i suoi due meravigliosi bracchi che gli davano sempre la possibilità di catturare delle lepri, dei fagiani oppure dei “mazurini” che, cucinati con la bravura della siora Catina, divenivano dei prelibati piatti che io, assieme a tutti gli altri, divoravo con solerzia e voracità. Ricordo ancora quella tavolata con quei bravi e laboriosi uomini uniti in una famiglia unica di bontà e capacità professionali e umane difficili da trovare oggigiorno e lo stare assieme a loro mi ha temprato lo spirito oltre che il corpo. Rimpiango quei bei tempi, anche se arrivati dopo la miseria, umana della guerra e degli stenti che tale periodo aveva comportato ma, seduto lì accanto ai “grandi”, mi sentivo fortunato di avere ricevuto la loro amicizia. Così, tra un boccone di lepre e una fetta di pane accompagnato da un sorso di acqua e vino, li seguiva uno a uno mentre mangiavano a capo chino e rispondevano, ogni tanto, a monosillabi alle domande del “vecchio nonno”, il loro padre, su cosa era stato fatto nei campi, se il raccolto era stato buono, ma soprattutto erano programmati i lavori da fare all’indomani. Finita la cena e ognuno libero di uscire, io mi recavo correndo all’argine della marina per vedere tramontare il sole, ma solo per pochi minuti, perché si doveva scappare dall’invasione delle zanzare che ti assalivano ferocemente succhiandoti e punzecchiandoti su tutto il corpo. Allora, sempre correndo, rientravo in casa salutando il nonno e la siora Catina e salivo su per le ripide scale di Pagina | 100


legno per andare a coricarmi sul mio materasso fatto di foglie di pannocchia e quasi subito, stremato, mi addormentavo profondamente svegliandomi all’alba completamente riposato e pronto a riprendere un’altra giornata da contadino. La fine delle vacanze di scuola si avvicinava ed era così giunto il tempo di andare a raccogliere le pannocchie nei campi lì vicino dove i Naibo le avevano seminate e, in quel periodo le canne delle pannocchie erano tagliate a mano, una per una, da un primo uomo mentre un secondo, che veniva dietro, staccava le pannocchie dalle canne e le gettava per terra tra le “vaneze”. Quando tutto il campo era stato tagliato, allora si prendevano dei grandi cesti di vimini e ogni uomo passava per il solco della “vaneza” raccogliendole e, quando la cesta era piena, si doveva ritornare indietro a vuotarla nel carro che era sistemato all’ingresso del campo stesso quindi, con la cesta vuota, si ritornava lentamente al punto precedente e si proseguiva nella raccolta di tutte le pannocchie. Era un lavoro piuttosto faticoso per cui ero esonerato dalla raccolta delle pannocchie, ma avevo il compito di spigolare cioè andare a recuperare eventuali pannocchie lasciate indietro ma sopratutto raccogliere le zucche, di tutte le dimensioni, che erano cresciute là in mezzo alle pannocchie e che servivano prevalentemente per darle da mangiare agli animali. Una volta finita la raccolta, si rientrava a casa con il carro pieno di pannocchie e zucche e si portavano sotto la “tesa” per essere scaricate dal carro e gettate sempre a mano sul piano del solaio del fienile dove erano ammucchiate in attesa di essere preparate e appese ad apposite aste sistemate al soffitto del fienile lontano dai roditori e messe in modo che si asciugassero senza marcire.

“Vendemmia e scabotar” (scartocciare le pannocchie). Appena iniziata la scuola fui chiamato a dare una mano ai Naibo per la vendemmia e per la preparazione delle reste delle pannocchie che avevamo raccolto qualche settimana prima. Perciò rimasi a casa dalla scuola per alcuni giorni giusto il tempo di andare ad aiutare, assieme ai miei genitori, a raccogliere l’uva nei campi dei Naibo che si trovava proprio dietro la loro casa colonica degli Alberoni e a ridosso dell’argine, che proteggeva la vigna dal mare. Le viti crescevano su dei filari sempre perfettamente curati e direttamente piantate sulla terra che era prevalentemente composta di sabbia bianca ma, forse perché c’era la sabbia, fatto sta che l’uva si maturava molto bene e produceva un vino che ricordo essere considerato da tutti un vero nettare tanto questo era buono. La produzione di vino, circa cento ettolitri, era composta prevalentemente da vino bianco (tokai) e da cabernet pertanto la vigna era piuttosto estesa, con centinaia di viti e molti filari, pertanto si doveva procedere partendo dalla stradina che la separava dalla casa e piano, piano arrivare al fondo del filare, per poi passare a quello successivo. Ognuno di noi era munito di un secchio metallico zincato che era spostato da una vite all’altra ed era riempito con i grappoli d’uva che erano tagliati con delle forbici, che ognuno di noi Pagina | 101


aveva portato da casa, e che, dopo un po’ di tagli, diventavano tutte appiccicose dal succo (nettare di Dio, come diceva il nonno Naibo) prodotto dagli acini d’uva cosi che, dopo poco tempo, anche le mani assumevano lo stesso colore e la stessa viscosità e si doveva fare molta attenzione alle vespe, le quali, attirate dall’inebriante odore di mosto, arrivavano a frotte attorno a te e se non facevi attenzione, ti beccavi qualche dolorosa puntura che era lenita, schiacciandoci sopra la lama delle forbici. Una volta riempito il secchio, si portava al carro, che procedeva tra i due filari, e che era munito di sponde per permettere all’uva di non cadere e quando anche questo era pieno, si trainava con i cavalli sino all’aia, dove era stata preparata una grande tinozza che serviva alla raccolta. Poi l’uva era fatta passare per una macchina attrezzata con una coclea che prendeva l’uva versata nella tinozza e la trasportava a una specie di torchio che pressava l’uva facendo defluire il mosto in apposti contenitori di legno dove rimaneva per il tempo necessario alla bollitura. Si procedeva pertanto filare, dopo filare dal mattino alla sera fermandoci brevemente per fare il pranzo seduti all’ombra delle viti per terra mangiando dei bei panini imbottiti di salcicce conservate nello strutto ma che al contatto del pane caldo appena sfornato dalla siora Catina, assumeva un delizioso e fragrante boccone che era accompagnato da un bicchiere del loro vino (per me c’era acqua e un goccio di vino) quindi, sollecitati dal nonno Naibo, che era sempre presente nonostante la sua età (anche se credo avesse sì e no i sessant’anni, ma a me sembrava ne avesse cento) ci si alzava e si procedeva nella vendemmia. Ricordo un particolare che mi è rimasto sempre nella memoria. C’erano accanto ai filari del tokai e del cabernet, alcuni filari particolari, dove la raccolta era fatta solamente dopo avere finito tutta la vendemmia dell’altra uva ed erano autorizzati alla raccolta, di quei grappoli, solamente i fratelli Naibo mentre noi avevamo accesso solamente per aiutare a versare i secchi nel carro. Quando chiedevo spiegazioni, il nonno Naibo mi rispondeva che quell’uva era particolare perché produceva un vino, che era considerato quasi una medicina, ed era prodotto in piccolissime quantità curate direttamente da lui e conservato in apposite botti tenute nella dispensa di casa, sotto il suo stretto controllo. Questo era consumato con parsimonia solo in particolari eventi (battesimo o matrimonio) oppure quando il nonno Naibo riteneva che fosse opportuno festeggiare qualche cosa, tanto che sono riuscito ad assaggiarlo solo poche volte e nelle occasioni di compleanno o del matrimonio di un suo figlio, il terzogenito “Miglio” e lasciatemi dire, anche se la mia giovane età non mi permetteva di berne molto, questo aveva un sapore così squisito e dolce che ti faceva letteralmente inebriare. Ripensandoci, dopo molto tempo e quando il nonno Naibo era già morto, mi sono recato a vedere nuovamente quei filari ed ho osservato che i grappoli producevano solo pochi doratissimi chicchi e allora chiedendo delucidazioni in merito, al mio amico “Piero”, questi mi spiegò che quel vino era il famosissimo “Picolit” e che era prodotto lì, sulla sabbia, solo perché il nonno Naibo aveva voluto provare a farlo crescere e ne aveva ottenuto la produzione proprio per la sua indomabile capacità di coltivatore. Pagina | 102


Nonostante il numero dei fratelli e con il nostro contributo, la vendemmia si protraeva per diversi giorni così che anche i miei genitori erano ospitati, dai Naibo, nella loro casa dando loro una stanza da letto di due fratelli, che per l’occasione si spostavano a dormire nel fienile. In questo modo si poteva procedere senza interruzione la vendemmia che iniziava al mattino presto, subito dopo la colazione, e terminava all’imbrunire per procedere poi, subito dopo la sostanziosa cena che la siora Catina preparava, andare tutti quanti sul solaio della stalla dove erano depositate le pannocchie a “scabotar” (scartocciare dalle bratee le foglie delle pannocchie). Quello era forse il periodo più bello e atteso da tutta la famiglia Naibo tanto che era diventato ormai consuetudine ritrovarsi tutti quanti seduti sopra montagne di pannocchie per iniziare a “scabotar” e ascoltare il giullare del gruppo, che era mio padre “Doro” il quale, per la sua particolare predisposizione a raccontare i fatti della vita quotidiana, era sempre atteso. Egli non mancava mai di intrattenere quei bravi uomini e donne nello stare ore, e ore a togliere le foglie delle pannocchie e lasciarne solamente tre attaccate alla pannocchia per permettere a queste di essere in seguito sistemate, annodandole a dei supporti, per la loro conservazione. Il papà “Doro” era, come detto, un anfitrione ed era amato da tutti per la sua bontà e il modo naturale di porsi nei confronti di tutti. In particolare nei confronti di quegli umili contadini che avevano trovato in lui uno, con la stessa bontà d’animo, ed era stato subito accettato nella loro casa tanto che, non c’era occasione che non fosse invitato nella loro casa per intrattenerli raccontando scene più o meno reali ma comunque sempre così buffe da fare sorridere anche il figlio Angelo, che normalmente era il più schivo e restio a parlare. Io seguivo le battute di mio padre ma sinceramente non ne capivo bene il senso e così non partecipavo attivamente alle loro discussioni e alle sue “boutade”, ma m’impegnavo a “scabotar”, seduto sul mucchio più alto di pannocchie e lanciando quelle finite nel mucchio che era stato già preparato più in disparte e se, qualche volta sbagliavo di togliere le foglie e magari non ne lasciavo le previste tre’, ero subito ripreso, bonariamente, dal nonno Naibo pregandomi di fare maggiore attenzione alle prossime. Si lavorava alacremente fino a tardi tra risate e bicchieri di vino. I mucchi di pannocchie sembravano mai finire tanto che quel lavoro proseguiva per parecchie sere tanto che mi sorgeva il dubbio che, volutamente, si volesse prolungare quel lavoro, tanta era la felicità che tutti i Naibo trovavano nello stare a sentire mio padre. Ma le ore passavano inesorabili e poichè all’indomani si doveva riprendere il lavoro nei campi e finire la vendemmia, verso mezzanotte tutti si ritiravano nelle loro stanze a godersi il meritato riposo.

“Madonna missionaria” Il 1950-51, anno in cui, finite le scuole elementari, dovetti scegliere a quale istituto secondario andare a iscrivermi e poichè esistevano due differenti istituti “le Medie” e “l’Avviamento”, ci fu una riunione di famiglia per ponderare la scelta e dato che alle medie erano iscritti normalmente i figli delle famiglie più benestanti giacché quella era la via che ti portava Pagina | 103


normalmente alle scuole superiori (liceo o istituto tecnico) con un successivo sbocco all’Università. Quest’aspetto significava impegnare la famiglia ad affrontare molti anni di sacrifici, fu deciso che il mio destino dovesse essere indirizzato, contrariamente alla mia volontà, a frequentare l’Avviamento Professionale con un’eventuale possibilità di proseguire ancora negli studi frequentando un triennio di Scuola Tecnica Professionale. Iniziai così a frequentare, a mala voglia, l’avviamento dove mi trovai con una classe di oltre trenta alunni con ragazzi della mia età ma con molti ragazzi più vecchi di me che erano ripetenti già da vari anni e che erano i leader della classe dove ogni cosa veniva da loro proposta e, se non eri d’accordo, ti prendevi anche qualche ceffone. Una volta, infatti, durante la ricreazione mi sono recato ai gabinetti, (che ricordo avere all’ingresso ancorato al muro un grande lavabo di acciaio zincato con molti rubinetti in ottone che uscivano dal muro e dove ti rinfrescavi o ti lavavi le mani), e dopo avere bevuto un po’ d’acqua, accanto ad altri ragazzi, uno di loro prese con le mani dell’acqua e la gettò sopra il muro, che divideva il lavabo dai gabinetti che erano chiusi con porte di legno, e velocemente scappò, lasciandomi lì ancora con le mani bagnate. Così, quando la porta del gabinetto si aprì, né usci uno spilungone molto più alto e vecchio di me e, vedendomi con le mani bagnate, credendo fossi stato io a buttare l’acqua, senza neanche chiedermelo se fossi io il colpevole, mi dette uno sganascione sul viso e mi lasciò lì inebetito a piangere e, guardandomi allo specchio, notai chiaramente l’impronta delle sue dita stampate sulla guancia. Quando ritornai in classe piangendo, il professore mi chiese cosa era successo e, una volta raccontato l’accaduto mi portò dal Preside il quale mi costrinse a raccontare tutto. Una volta capita cosa era successa, mi chiese di indicare chi fosse stato. Un po’ per la paura e un po’ perché sinceramente non ricordavo il volto del ragazzo che mi aveva colpito, dissi che non importava ma che sicuramente la prossima volta avrei fatto più attenzione agli stupidi scherzi fatti dagli altri ragazzi. Quell’inverno fu, come in quelli precedenti, un periodo di molto freddo con neve e bora e sempre con la solita “mise”: il cappotto girato e ritinto, le braghe alla zuava di lana grezza. Quando camminavi, alla fine della giornata, ti trovavi con l’interno delle cosce completamente scorticate e brucianti tanto che, una volta rincasato, la mamma mi metteva della glicerina che leniva un po’ il dolore ma che al momento ti faceva urlare dal bruciore, il berretto di lana sulla testa con anche il paraorecchie, sempre di lana, a protezione delle stesse, le calze sempre di lana grezza fatte dalla nonna e le solite scarpe con la suola di cuoio usurate tanto che, dopo pochi passi, eri già bagnato. Così vestito si doveva comunque andare a scuola perciò, messa la cartella in spalla e presa sottobraccio la tavola da disegno, che aveva una bella dimensione, si procedeva a stento sulla neve fresca. Ma il problema più grosso doveva venire poco più avanti quando giravi l’angolo della via, dove c’era l’osteria di “Genio” vicino al canale e lì, se non eri svelto a mettere la tua tavola da disegno con il lato più sottile controvento, ti trovavi regolarmente sdraiato sulla neve e allora, ancora più bagnato, a stento ti rialzavi e provavi nuovamente a procedere sino alla scuola. L’inverno procedette con il solito gelido vigore ma, e oggi posso dirlo, il freddo era in gran parte dovuto alla mancanza d’indumenti adatti, cappotto, scarpe e quant’altro e soprattutto la Pagina | 104


casa, dove il caldo lo trovavi solamente in cucina. Il problema era quando dovevi andare in gabinetto (in quel tempo il gabinetto era ancora staccato dalla casa ed era costruito in legno con delle tavole che lasciavano passare le gelide folate del vento, attraverso di esse, una turca con accanto il supporto “chiodo” dove venivano infisse le carte di giornale tagliate a pezzi “carta igienica?”) allora la faccenda si faceva più seria perché lì il freddo regnava sovrano. Subito fuori dalla porta del gabinetto e, prima di entrare in cucina, era posta una vasca di cemento supportata da due mensole di ferro, affisse al muro con un secchio pieno di acqua che, durante l’inverno, era regolarmente gelato, e dovevi prima rompere il ghiaccio per sciacquarti le mani. Ricordo un Natale particolarmente freddo quando, la sera, vennero a trovarci i soliti amici di mio zio e mio padre, Genio e la Zora, Corrado con la moglie, Alferio e moglie e molti altri (ricordo che la cucina di casa a stento conteneva tutta la gente) e dopo gli auguri di rito procedere con i racconti, in particolare quelli di mio padre che suscitava sempre l’ilarità dei presenti, e con i bicchieri di vino accompagnati dallo “strucolo” (dolce a forma di strudel ma coninterno cioccolato, noci e altro che la nonna Carmen era solita preparare per la ricorrenza) tanto che dopo qualche ora di bevute e chiacchiere l’atmosfera si surriscaldava e le canzoni cominciavano a echeggiare. A un certo punto “Genio” (marito della Zora, che era nativa di San Michele del Carso e che il Genio la chiamava, scherzosamente “scìava”, ma che era una brava persona anche se un po’ severa soprattutto con suo marito perché questo, quando alzava un po’ il gomito, non riusciva a fermarsi dal bere, e allora iniziavano le manovre di occultamento del bicchiere, da parte della Zora, con le inevitabili liti tra i due) già alticcio per i bicchieri bevuti, si alzò per andare in gabinetto. Uscì all’esterno senza giacca, mentre fuori faceva un bel freddo ma, dopo diversi minuti e non vedendolo rientrare, la moglie cominciò a preoccuparsi si alzò e usci di casa per andare a vedere dove fosse rimasto. A quel punto successe il finimondo. La “Zora” cominciò a gridare aiuto e tutti i presenti correre verso l’esterno per vedere cosa era successo ma, appena fuori, la scena che si presentò fu al primo momento, drammatica poichè trovammo “Genio” immerso con il sedere dentro la grande tinozza, che la nonna teneva per raccogliere l’acqua piovana, che dormiva completamente ubriaco insensibile al ghiaccio che si era rotto sotto il suo peso e ora aveva il sedere completamente sommerso dalla gelida acqua. Ci vollero tre uomini per sollevarlo e portarlo velocemente in casa quindi toltigli i pantaloni e copertolo con una coperta di lana, si fece accomodare vicino al focolare e lì, passato lo spavento, iniziarono le litanie della Zora molte delle quali in sloveno che, noi non capivamo ma che erano evidenti cose poco carine ma il Genio, ripresosi dallo spavento, chiese gli fosse data della grappa per potersi riscaldare anche all’interno e suscitando l’ilarità’ dei presenti ma la grossa contrarietà della Zora. La festa si finì ben oltre mezzanotte tra canti e racconti e, quando finalmente fu l’ora di andarsene, buona parte della compagnia si alzò traballante, per i molti bicchieri bevuti, e tra lazzi e canzoni si diressero verso le loro abitazioni senza sentire il freddo e la bora che soffiava gelida in quel momento. Pagina | 105


Arrivò finalmente un’altra primavera che riscaldò un po’ di più l’aria e in quella primavera del 1951 iniziarono ad arrivare le notizie che il parroco don Foschian, che era un omone grande e grosso, avrebbe fatto visita ai parrocchiani per portare la benedizione e la parola del vescovo e di comunicare la novità sulla preparazione ad accettare la visita della Madonna Missionaria che sarebbe passata di casa in casa a tutti i parrocchiani che ne avrebbero fatta richiesta. Saputo dell’avvenimento ogni famiglia, si preparò a ricevere la visita del parroco il quale un bel giorno di primavera si presentò alla porta della mia casa dove fu ricevuto da mia nonna e da mia madre alla presenza mia e di mia sorella Silva e, fatto accomodare sulla sedia migliore nella nostra cucina, gli fu offerto il caffè, che per l’occasione la nonna non allungò troppo con l’acqua, ma aggiunse una maggiore quantità di caffè nella miscela, e dopo averci salutati e benedetti ci informò dell’iniziativa della Madonna Missionaria. Fu un incontro piacevole anche se intimoriti da quell’uomo così grande e grosso, ma come ricordo molto bene in una sua visita molti anni dopo mi squadrò e vedendomi già molto cresciuto e vicino al metro e ottanta propose a mia madre se voleva che lui si prendesse cura per mandarmi a studiare e fare il corazziere, viste le sue relazioni con gli uffici romani, ma la proposta non piacque a mia madre che ringrazio per l’interessamento ritenendo che la mia vita futura si sarebbe svolta a Monfalcone vicino alla famiglia e accanto a lei e suo marito. La Madonna Missionaria iniziò ad arrivare nella via delle baracche di Wagna nel mese di Maggio del 1951 iniziando il suo pellegrinaggio dalle case vicino al canale e al ponte dei Draghi e giorno, dopo giorno passare da un parrocchiano all’altro sino ad arrivare alla nostra casa. Lo spostamento della Madonna Missionaria era accompagnato, ogni volta, da molti residenti nella via che, in processione e cantando le canzoni mariane, si spostava da una casa all’altra. Una volta arrivati alla casa seguente, sostavano per una mezz’ora a pregare assieme ai proprietari e quindi festeggiavano con loro l’arrivo della Madonna e brindare perché la stessa fosse portatrice di speranza e salute. Intanto nella nostra casa fervevano i preparativi per accogliere al meglio la Madonna Missionaria poiché, a un certo punto, fu quasi una gara a chi avrebbe preparato la migliore accoglienza e preparato il più bell’addobbo. Poichè la mamma era esperta di cose della chiesa, avendo vissuto per molti anni in collegio dalle suore a Savona e perché aveva anche una sorella suora (mia zia suor Maria Luigia), fu per noi facile allestire l’altare dove sarebbe stata collocata la statua della Madonna.

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Durante quei preparativi sapemmo della vita passata da mia madre la quale, appena nata (1919), perdette la mamma che morì di parto subito dopo averla data alla luce e così, la poverina, avendo anche un padre poco presente, fu accolta nella famiglia della zia Teresina che la allevò come una di loro. Con la crisi del 1929 le difficoltà iniziarono a subentrare tanto da avere difficoltà a sfamare tutti così, fu mandata in una casa di contadini, sul Carso sopra Sistiana, a pascolare le vacche. Lei poverina, a dieci anni, si trovò miserabilmente sola su per i monti senza aiuto e con l’obbligo ti stare tutto il giorno a pascolare in aperta campagna e facendo ritorno alla casa colonica all’imbrunire per ricevere solamente, come ricompensa, un misero piatto di fagioli. La cosa però fu notata dalla sorella suora (la zia suor Luigia) che, viste le condizioni della mamma, la aiutò a entrare in un collegio, a Savona, dove rimase a governare le orfanelle e ad andare a fare la questua presso le famiglie savonesi per procurare quel poco cibo dì cui le numerose orfanelle avevano bisogno. Lì imparò a rammendare, lavare e stirare e soprattutto condivise con le suore e le altre orfanelle, la rigidità e la severità del collegio e, ora che scrivo, mi rendo conto del perché la mamma fosse così severa con noi, figli tanto che alle volte eravamo presi a schiaffi ogni qualvolta facevamo qualche marachella. Ma, pensandoci bene oggi, sicuramente le meritavamo anche perché si sommavano ai pensieri che la poverina doveva avere nel dovere andare giornalmente a fare i lavori, dalla mattina alla sera, nella casa dei Naibo e, una volta ritornata, doveva svolgere i lavori di casa, anche se, per fortuna, in quegli anni la nonna Carmen era ancora in gamba e provvedeva almeno a preparare i pasti. Comunque a suo favore va detto che ci ha sempre tenuti come dei principini, ovviamente con i limiti di denaro che potevamo avere con il lavoro di mio padre operaio e mia madre che non prendeva soldi, ma era pagata con tutti i prodotti che ci servivano per mangiare, ed era un bel mangiare quello che i Naibo le offrivano. Eravamo, comunque, sempre ben vestiti, anche se il cappotto era girato e tinto più volte, ma i vestiti erano sempre puliti e profumati di bucato e sempre perfettamente stirati. Pagina | 107


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“Nel compimento del suo 90 anniversario ho preparato per lei una pergamena, che conservo gelosamente con me, dove in poche righe credo di avere descritto bene la sua esistenza ma troverò più avanti spazio per dedicarle il giusto ringraziamento e il merito per la sua dedizione alla famiglia e verso mio padre che ci lasciò ancora ragazzi e che lei, con molti sacrifici, riuscì a fare crescere”.

Così, con l’esperienza della mamma, preparammo l’altare, dove avremmo deposto la Madonna che arrivò un bel giorno anche da noi scortata dagli altri vicinanti. La processione varcò la nostra soglia e, cantando le odi alla Madonna questa fu collocata nel posto a lei dedicato, quindi, inginocchiati noi bambini (io e mia sorella) leggemmo i salmi e recitammo il rosario. La cosa si protrasse per oltre un’ora poi, dopo avere invitato gli ospiti, compreso il prete che accompagnava la statua, a brindare e mangiare dei dolcetti, questi ci lasciarono e noi proseguimmo le orazioni alla Madonna, sotto la severa supervisione della mamma, ancora per parecchio tempo prima di andare a letto per la notte e proseguire, il mattino, con altre preghiere sino al momento dello spostamento della Madonna Missionaria, nella casa della famiglia vicina.

“Acqua alta nella via”

Sempre negli anni ‘50, un’estate, durante il mese di Luglio, ci fu una forte pioggia che durò parecchie ore e alla fine sommerse completamente la strada. In quel periodo questa era ancora in terra battuta e senza fognature adeguate, per cui permise a noi ragazzi, di uscire a dare libero sfogo per giocare e razzolare nell’acqua piovana appena caduta, con addosso le sole mutande, a scorazzare avanti indietro per la via urlando e tuffandoci nell’acqua che, appena caduta era limpida, ma che dopo pochi minuti di assalti scatenati di tutta la tribù divenne marrone. Man mano che il sole scaldava nuovamente l’aria, e questa divenne rovente, l’acqua cominciò a riscaldarsi e piano-piano evaporare lasciandoci sempre meno acqua per starnazzare fintanto che questa assunse sempre più la consistenza del fango che lentamente ci si appiccicò addosso lasciandoci come statue di argilla che, con il procedere del caldo, ci iniziò a scottare addosso. Allora, frettolosamente correre ai “canaletti” d’irrigazione che passavano vicino alla ferrovia in fondo alla strada e li, incuranti dell’acqua gelida, tuffarsi e spruzzarsi Pagina | 109


allegramente con l’acqua corrente che scorreva nel canaletto poi, finalmente stanchi del tanto movimento di quel pomeriggio particolare, sdraiarsi sull’argine del canale e lì riposare fino a che il sole ancora alto ti faceva scappare all’ombra della tua casa. Lì ti aspettava la nonna o la mamma e dopo una bella sgridata e qualche scapaccione per tutto il baccano che avevamo combinato ci obbligava a lavarci per bene e andare, a riposare, in cucina prima di prepararsi per la cena.

“Banda musicale” La banda "Oratorio San Michele" è stata fondata nel 1951, per volontà di don Pino de Luisa, con l'intento di aggregare, sotto l'egida della musica, bambini, ragazzi e adulti. Molti anni sono passati durante i quali, all'Oratorio San Michele, il fondatore reclutava, istruiva e successivamente dirigeva i suoi musicisti guidandoli alla testa di una banda che ormai aveva cominciato a far parte del folklore monfalconese. Sagre, processioni, il carnevale diventarono ben presto appuntamenti la cui colonna sonora era rappresentata dal repertorio della banda. La creatura di don Pino è maturata e, con la maturazione, come un ragazzo che inizia a portare i calzoni lunghi, si manifesta la voglia di autonomia e di sperimentazione.

Durante la prima “Avviamento” (scuola secondaria), era il 1951, seppi, tramite alcuni amici, che all’Oratorio San Michele, luogo di ritrovo e socializzazione di tutti i giovani della mia età, stavano cercando ragazzi per suonare in banda. Ritornato a casa, comunicai ai miei genitori il desiderio di andare anch’io a frequentare i corsi per diventare suonatore nella nuova banda che don pino stava allestendo. Nella riunione serale, davanti alla solita polenta, i miei genitori discussero con me dell’opportunità’ di seguire tali corsi e, visto che il tutto era a titolo gratuito, la decisione dei miei fu sostanzialmente positiva con l’indicazione che la scelta dello strumento musicale fosse la tromba oppure il clarino in quanto, a detta dei miei, ci sarebbero state delle potenziali possibilità di proseguire negli studi musicali magari andando al conservatorio. Così, il giorno dopo, mi precipitai all’Oratorio San Michele e chiesi di incontrarmi con i maestri della banda che stavano mettendo assieme un congruo numero di ragazzi che come me volevano partecipare alla costituzione della banda, e trovatoli, m’informai su come avrei dovuto procedere per l’iscrizione. Pagina | 110


Fui inviato da vari maestri, ricordo il maestro Verzegnassi, il maestro Fabris e il maestro Drosolini che mi spiegarono quali strumenti erano ancora liberi e tra i quali avrei potuto scegliere, ma, vista la poca disponibilità di strumenti liberi, un oboe, un trombone e un basso tuba e, la scelta, che fecero i maestri per me poichè ero già uno spilungone, cadde inevitabilmente sul basso tuba “el trombon” in mi bemolle che mi fu immediatamente assegnato affinché ne prendessi confidenza e iniziassi a provare a soffiarci dentro. Non vi dico la mia prima impressione sul quel grosso affare da portare in spalla e con un grosso bocchino che ti copriva quasi tutta la bocca quindi, seduto assieme ad altri ragazzi che come me erano appena arrivati nella sala prove, iniziare a soffiare dentro quell’enorme bocchino e i suoni che ne uscirono furono simili a delle urla o dei gemiti che sembravano provenire da qualche animale inferocito tipo elefante o leone. Dopo il primo terribile approccio con quel grosso affare che era il Basso Tuba, ma con l’aiuto e la pazienza del maestro Drosolini piano-piano ne presi confidenza tanto che dopo qualche ora ero già in grado di modulare quelle che sembravano essere delle note musicali. Iniziò cosi la mia prima esperienza musicale. Dopo avere ricevuto le istruzioni del caso, fummo informati che, prima di passare a suonare gli strumenti, avremmo dovuto seguire un corso di solfeggio e teoria musicale. Ricevemmo così istruzioni su quando e quante volte la settimana avremmo dovuto partecipare ai corsi di teoria musicale. La prima giornata terminò con l’assegnazione ufficiale degli strumenti affidati a noi per la conservazione e la loro cura e manutenzione. Poi messo a tracolla il Basso Tuba, mi avviai verso casa attraversando parte del centro cittadino dove fui accolto da sguardi di curiosità su quel grosso affare che mi portavo a tracolla ma, anche se un po’ intimidito e vergognandomi da quelli sguardi, riuscii lentamente ad arrivare all’inizio della via delle baracche di Wagna dove incontrai i primi amici che erano seduti sullo scalino di una casa e incuriositi correre verso di me per vedere cosa mi portavo appresso. Non vi sto a raccontare le burla sul fatto di avere scelto quello strumento e così, nonostante le mie spiegazioni su quell’unica scelta, mi accompagnarono verso casa radunando tutta la tribù dei miei compagni. Poi, come in processione, proseguire fino all’ingresso del cancello di casa dove, richiamata dalle urla dei ragazzi, comparve mia nonna la quale vedendomi con quel “coso” iniziò a preoccuparsi ma, dopo le spiegazioni del caso, riuscii a calmarla e, salutati gli amici, entrare finalmente in casa dove potei posare lo strumento e riposare. Verso sera rientrarono mia madre e mio padre e, vedendo quell’ingombrante cosa in mezzo alla stanza, rimasero perplessi sulla mia scelta e allora fu necessario ritornare a spiegare il motivo che mi aveva fatto scegliere quello strumento così grande e grosso. Convinti che non avessi dichiarato loro la verità, il giorno dopo mi accompagnarono dai maestri della banda i quali altro non poterono fare che confermare quelle che erano state le possibilità di scelta. Quindi, capito come stavano le cose, se ne fecero una ragione e mi permisero di proseguire nello studio della musica in chiave di basso, che allo strumento occorreva per suonare. Ora la “cosa” era parte della famiglia e si doveva conservare e lucidare così la mamma si assunse, con il mio aiuto, il periodico compito di lucidatura del Basso Tuba. Questo Pagina | 111


comportava, prima, l’acquisto del “Sidol” (pasta per lucidare i metalli) poi con del cotone iniziare a spargere pezzo, per pezzo sullo strumento la pasta quindi, dopo un po’ che si era asciugata, passare con uno straccio asciutto strofinando energicamente fino a che, la parte interessata, non diventava perfettamente lucente. Poi, dopo avere tolto le varie parti mobili di raccordo che erano state predisposte per essere svuotate da eventuali liquidi dovuti all’umidità’ o alla saliva, si procedeva allo smontaggio dei cilindretti dei tasti che dovevano essere costantemente oleati con olio di macchina ma, costando troppo, si usava quello di semi per cucinare che aveva l’inconveniente di ossidarsi e puzzare cosi che dopo ogni suonata si doveva ripetere la pulizia. Per permettermi di trasportare meglio quel grosso “trombon” e poterlo conservare dalle intemperie e dall’ossidazione, la mamma preparò, usando una vecchia tela blu che serviva per fare “el terlis” (tuta da lavoro) per mio padre, una copertura dove potevo riporre infilandolo da un lato, lo stesso, chiudendo la parte aperta con un cordoncino fatto passare all’interno del risvolto sullo stesso lato e sistemata una tracolla in modo che potessi portarlo direttamente sulla spalla, agevolando cosi il suo trasporto. Le lezioni teoriche, accompagnate da momenti di prove pratiche con lo strumento, si prorogarono per quasi due anni con momenti di scoraggiamento individuali e generali. Ma con la costanza dei maestri di disciplina strumentale e soprattutto dalla vigoria ed energia e soprattutto da tanta pazienza le cose procedettero bene finché fu il momento di iniziare le prove a gruppo riunito sotto la direzione di don Pino. Fummo sistemati, seduti su delle sedie di legno, nella grande sala prove al primo piano dell’oratorio dividendoci secondo una logica bandistica, che solo don pino capiva, e così mi trovai, visto che ero il solo basso tuba della banda, con il mio ormai fedele “trombon” sulle ginocchia, sulla fila dietro a tutti gli altri strumenti con davanti a ognuno di noi un leggio e uno spartito e vicino al mio amico Erman, sassofono baritono, con vicino la grancassa e il tamburello. Iniziarono, quindi, le prime prove con quello che si potrebbe dire oggi uno “strimpellamento” ma, scansando le inevitabili bacchettate che don Pino ogni tanto tirava verso qualcuno che non era attento o magari chiacchierava con il vicino, piano, piano iniziarono a uscire delle decenti composizioni musicali e, dopo avere ripetuto centinaia di volte, alla fine riuscivi a imparare a memoria l’intero brano. Il gruppo bandistico era composto prevalentemente da ragazzi della mia età 13-14 anni ma c’erano alcuni personaggi più vecchi e che avevano già suonato in altre bande che tenevano a bada noi giovani e in particolare alcuni ragazzi, che erano la spina nel fianco di don Pino per la loro vivacità e indisciplina tanto, che alle volte, don Pino si sedeva accanto a loro per farli stare seduti e seguire la musica. I mesi passavano e la musica fluiva sempre più costante e limpida da quegli strumenti suonati da noi ragazzini e allora s’iniziò a pensare di preparare un minimo di repertorio per organizzare un concerto in piazza oppure seguire qualche processione, non solo a Monfalcone ma anche nei paesi vicini. L’occasione venne nel 1953 durante l’anno Eucaristico (04 maggio

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1953) dove fummo invitati alla solenne processione svolta a Gorizia alla presenza del vescovo di allora, don Ambrosi. La prima uscita però fu quella svolta durante la processione per il patrono sant’Ambrogio (1952) quando, pur con il freddo della giornata di Dicembre, la processione attraversò tutto il centro cittadino e noi, guidati da uno scatenato don Pino, seguire eseguendo l’unico brano musicale, che avevamo imparato quasi a memoria, che era il “Noi vogliam Dio”. Proseguimmo così, ripetendo il brano per infinite volte, acclamati dalla gente che assiepata ai lati ci salutava festanti nel vedere quella banda composta di giovanissimi ragazzini suonare con tanto brio e bravura.

Dopo quelle prime uscite, il programma della banda prese consistenza con brani sempre più impegnativi ricavati da arrangiamenti di pezzi d’opera o da brani di celebri marce per bande. Il ritrovarsi, cosi, un paio di volte la settimana, normalmente la sera, ci permetteva di acquisire sempre più padronanza con il nostro strumento e i concerti in piazza divennero un appuntamento costante con la cittadinanza che accorreva sempre numerosa ad assistere alle varie esibizioni di quei giovani suonatori. In particolare l’appuntamento più importante era per il carnevale dove ci si trovava sul palco nella piazza centrale a mezzogiorno per intonare l’inno di Monfalcone e poi in successione tutto il repertorio di canzoni monfalconesi. Particolare ricordo va a una processione per il patrono della città di Capriva: era in Settembre, eravamo partiti dalla chiesa parrocchiale al seguito di una lunga e partecipata processione di fedeli che cantavano le varie canzoni religiose seguendo la nostra musica inoltrandoci attraverso tutte le vie del centro per poi passare attraverso alcune strade della periferia della città, che s’inoltravano nei campi circondati da vigneti stracolmi di uva matura sia bianca sia nera. Così io e il mio ormai compagno di coda della banda, il sax baritono Erman a un certo punto, quando la strada affrontò una stretta curva, e avendo finito il brano musicale e sapendo che il prossimo sarebbe iniziato dopo pochi minuti, decidemmo di sgaiattolare tra le vigne e raccogliere alcuni di quegli invitanti grappoli dorati. Grappolo, dopo grappolo e magiandone alcuni ci accorgemmo che la banda aveva iniziato nuovamente a suonare così, lasciati alcuni succosi grappoli sulla vigna, corremmo per raggiungere la coda della banda che ormai era a più di cinquanta metri avanti. Ma, don Pino si era accorto che qualche cosa non andava ed era ritornato indietro per vedere cosa fosse successo con l’accompagnamento dei bassi e, non Pagina | 113


vedendoci stupito, si voltò indietro scorgendo noi due che io, con il basso tuba ballonzolante tra le braccia ed Erman con il sax baritono impugnato a mo’ di clava, stavamo affannosamente rincorrendo la processione. Ovviamente la banda proseguì senza interruzioni di sosta ma noi fummo assaliti dallo sguardo trucido di don Pino che al momento non disse niente, ma ci squadrò facendoci segno che dopo avremo fatto i conti per la nostra scappatella. Alla fine della processione e finita la musica, la banda fu invitata dal locale parroco all’interno del giardino della canonica, dove erano allestiti dei tavoli con delle bevande e delle squisite pietanze offerte dai devoti parrocchiani e lì, prima di potere assaggiare nulla don Pino ci mise all’angolo chiedendoci della nostra estemporanea fuga attraverso i filari. Non bastò la giustificazione datagli che la nostra fuga era per esaudire un bisogno corporale ma la vista delle nostre mani ancora appiccicose di succo d’uva non lasciò segno al pentimento tanto, che per punizione, fummo relegati in un angolino a guardare i compagni di banda che si abbuffavano di quelle meravigliose delizie sparse sui tavoli imbanditi per l’occasione. La cosa non fini, lì. Al ritorno sulla corriera che ci aveva condotto sin lì da Monfalcone, il buon don Pino raccontò l’accaduto a tutti i presenti sconsigliando future simili condotte che potevano compromettere il buon nome della banda e, quanto a noi, avremmo dovuto fare ammenda andando più volte a lezioni di teoria e inoltre ci aspettava, il mattino seguente prima della messa delle sette, a confessarci nel suo confessionale, che si trovava sotto l’altare maggiore del Duomo di Monfalcone. Così il giorno dopo, io ed Erman, alle sei del mattino ci trovammo davanti al suo confessionale e uno per volta inginocchiati davanti a lui a raccontare il nostro peccato compreso quello della scappata nelle vigne e, visto che alla fine della confessione, oltre ai soliti peccati, quella volta finii con il dire ”padre ho detto, anche delle bugie” dopo avermi benedetto e datomi una ventina di Ave Maria e Padre Nostro, quali penitenze, mi aspettò di sopra vicino l’altare, e mi disse: ‹‹Non capisco se tu mi prendi in giro, oppure mi stai raccontando la verità perché alla fine mi hai detto “padre, ho raccontato bugie” ciò vuol dire che non mi hai confessato, il vero ?›› Allora, precisai, che così avevo detto solo perché avevo dimenticato di confessarlo prima, al che mi salutò con un arrivederci, alle prossime prove della banda. Proseguii frequentando la banda ancora per molti anni andando a suonare per le diverse processioni e per fare dei bei concerti in piazza a Monfalcone con sempre maggiore scelta di programmi musicali andando anche, assieme a tutta la banda, a Verona a vedere l’opera all’aperto “il Barbiere di Siviglia” e, per l’epoca, fu un’esaltante esperienza di musica e di viaggio poiché, pochi di noi avevano, prima di allora, varcato i confini della nostra regione e quel viaggio in pullman, organizzato da don Pino, fu un meraviglioso premio al nostro impegno e costanza, nel frequentare la banda. Dopo avere lasciato la banda nel lontano 1956, fummo nuovamente coinvolti in due distinte occasioni particolari: una fu un viaggio organizzato dalla banda, una gita in pullman, guidata da un ex compagno di banda, a trovare l’altro nostro ex compagno di banda Lamon che era emigrato in Francia e si era stabilito a “Pau” dove aveva aperto un ristorante. Ci ospitò per una Pagina | 114


meravigliosa cena dei ricordi nel suo locale e dato che “Pau” era vicina a San Sebastian, approfittammo per fare una visita anche in Spagna. Poi, sulla via del rientro, ci fermammo a Lourdes per una visita, che mi rimase infissa nella mente come una spina di corona di Gesù’, nel vedere quelle lunghe file di umana sofferenza procedere lentamente, chi a piedi chi in ginocchio e chi, più sfortunato degli altri, sospinto su una carrozzella, o peggio, immobile su una lettiga in attesa di giungere alla grotta della madonna per chiedere aiuto in una miracolosa guarigione.

Quando più tardi ce ne andammo, per molto tempo non proferimmo parola ma ognuno rimase chiuso nei suoi pensieri rimuginando su quanto dolore e sofferenza esista al mondo e ringraziando Dio di averci dato la salute e la fortuna di essere stati lì a vedere con i nostri occhi quello che da qualche tempo c’era riportato, così, mentre all’andata era stato un viaggio di allegria e canti, il ritorno si rivelò un pensieroso e mesto viaggio. Nel 1991 ci fu’ la seconda occasione di ritrovo dei vecchi “bandisti” per la celebrazione del quarantennale della fondazione avvenuta nel lontano 1951 e ci vide riprendere con lena i nostri vecchi strumenti musicali e ritornare, e con rinnovata volontà a provare e riprovare per preparare una serie di brani da eseguire durante le celebrazioni che si sarebbero tenute nel teatro Comunale di Monfalcone. Purtroppo per ragioni di lavoro mi recai in Egitto e dovetti così saltare la celebrazione che con tanto impegno, assieme ai miei vecchi compagni di banda, avevamo preparato. Ancora oggi me ne dispiaccio.

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“Boy scout” Sempre in quell’anno inizia a frequentare il gruppo scout dell’Asci di Monfalcone 1° che aveva la sede all’Oratorio San Michele ed era condotta da un gruppo di validi capi scout come Gino, Dario, Orlando i quali, essendo più grandi di noi, avevano il compito di gestire i nuovi arrivati insegnando loro la vita dello scout. La nostra sede era locata nello scantinato dell’oratorio e ogni squadriglia aveva una sua stanza addobbata con un armadietto e varie sedie con un tavolo centrale dove erano svolti i giochi di abilità come quello di ricordare, dopo averli osservati per pochi secondi, gli oggetti che erano rimasti coperti fino a un momento prima da un fazzoletto e subito dopo nuovamente ricoperti quindi ognuno scriveva su un foglio gli oggetti che, secondo lui, erano apparsi sul tavolo. Era un importante gioco di abilità che ti permetteva di visualizzare nel più breve tempo possibile le cose che apparivano e nel frattempo ti davano la possibilità di razionalizzare e mentalmente fotografare le cose cosi com’erano apparse. Un’altra importante attività era dedicata alla trasmissione dell’alfabeto morse con i suoni (fischietto) o mediante segnalazione luminosa o con l’alfabeto semaforico utilizzando delle bandierine e seguendo un codice internazionale che secondo la posizione delle bandierine determinava una lettera dell’alfabeto.

Dopo avere appreso i rudimenti della vita degli scout e per diventare ufficialmente scout dovevi prima fare la promessa che era sempre preceduta dalla veglia e dalla preparazione alla promessa. Pertanto molti giorni prima, assieme agli altri nuovi iscritti, dovevi imparare il testo della promessa ripetendola molte volte di fronte ai tuoi colleghi: Promessa scout Asci « Con l'aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio: Per compiere il mio dovere verso Dio e verso la Patria; Di aiutare il prossimo in ogni circostanza; Di osservare la legge scout. » Pagina | 116


Poi dovevi comprare la divisa che era composta di pantaloni corti di colore cachi, una camicia con le maniche lunghe dello stesso colore, un paio di calzettoni di lana con il risvolto al ginocchio, un cappello (tipo boero) a tesa larga marrone e un foulard con una banda bianca sul bordo e che si teneva annodato al collo e fermato con un anello in cuoio. Completava, infine, la divisa una fibbia particolare riportante lo stemma del giglio, che era anche il simbolo, dell’Asci (rappresenta i tre punti della promessa scout), e un lungo bastone con puntale metallico che serviva per sorreggerti e per altri usi come ad esempio formare una barella provvisoria con l’uso di due bastoni e varie cinture da scout.

La parte più importante della vita degli scout era senza dubbio la “promessa scout” per la quale ti preparavi, da qualche tempo. La sera prima della promessa, era dedicata alla veglia di preghiera che per me, quell’anno, fu fatta nella chiesetta del Rosario dove, assieme ad altri “novizi”, ci trovammo la sera per passare diverse ore nella preghiera e nella contemplazione aiutati dai nostri capi scout e da don Pino, che era la nostra guida spirituale. Così per molto tempo in silenzio, rotto solo da brevi momenti di preghiera, ognuno di noi rimase fino a tardi in preparazione alla giornata dell’indomani quando sarebbe venuto il momento di fare la promessa. Ricordo, ancora oggi, molto bene quella sera. Ero sicuramente emozionato dal pensiero dell’indomani ma coinvolto emotivamente nei miei pensieri durante quella veglia dove, da giovane cristiano quale ero, mi ripromettevo di preparami al meglio riflettendo sul mio futuro di scout. Soprattutto sulle parole della promessa che m’impegnava a seguire le tre regole fondamentali: Lealtà, rispetto e osservanza delle leggi e lì, in quella piccola chiesetta semibuia odorante d’incenso e ceri, mi sono ripromesso, una volta fatta la promessa, di mantenerne vivi i principi enunciati anche quando fossi divenuto grande senza sapere cosa, la vita mi avrebbe riservato negli anni a venire. Certo non immaginavo che la vita sarebbe stata così infida e bugiarda dove per vivere devi continuamente adattarti al compromesso e mai avrei pensato che il male peggiore del compromesso fosse dettato da chi continuamente giura di rispettare la Costituzione e la Patria. Questi miserabili esseri lo fanno ben sapendo di mentire quando, una volta entrati in politica, di tutto fanno meno che essere onesti e aiutare il prossimo. Anzi sbeffeggiano i poveri elettori riempiendoli di promesse che poi non mantengono, durante il loro giuramento e il loro mandato, per rubare e arricchirsi alle spalle della gente che, credulona, da’ loro il voto convinto che “loro” Pagina | 117


li avrebbe aiutati. Poveri illusi, anche quelli che da giovani erano scout ed hanno fatto la solenne promessa di scout, si sono rivelati i più grandi ladroni della Patria e del prossimo. Tutto questo lo avrei imparato più tardi quando, mentre scrivo questo diario, da qualsiasi parte mi rivolgo, vedo ignobili figuri di politici corrotti, gente senza Dio, privi di cultura umana e senso civico che spadroneggiano, per i consigli provinciali e regionali, sperperando soldi pubblici. Soldi che potrebbero viceversa aiutare veramente chi soffre o non arriva alla fine del mese e deve andare a mendicare un tozzo di pane mentre loro sperperano denaro pubblico per pagarsi i trans oppure le patatine fritte (che pena!). Poi se vai a vedere più su a livello dì governo e parlamento lì le cose sono ancora peggiori perché la corruzione è norma comune a tutti tanto che, per fare sembrare più normale il loro comportamento, ti suggeriscono di fare come loro, di essere ladroni di non pagare le tasse e soprattutto di evadere (a oggi siamo a un’evasione pari a 120 MDI di euro) perché, vedi loro come sono bravi, possono ricevere in regalo senza saperlo, una casa milionaria oppure possono portare i soldi dei partiti in Africa, per comprare diamanti, mentre noi dobbiamo fare i conti giornalmente con le tasse, la bolletta della luce e del gas e magari vedere di ridurre qualche alimento perché non ti è permesso di ingrassare! Certo che, se in quella notte di preghiera e di preparazione, avessi avuto sentore di quanto sarebbe accaduto da grande, probabilmente avrei riflettuto sulla verità di quel giuramento. Nonostante tutto, non mi pento di quel giuramento fatto con la promessa di scout che mi ha permesso di proseguire rettamente nella mia vita dandole un significato morale con un valore che nessuno di quei piccoli e insignificanti personaggi politici hanno nel loro dna. Venne finalmente il giorno della promessa che ci vide radunati tutti quanti attorno all’altare e vestiti da boy scout procedere, uno a uno, al giuramento solenne pronunciando ad alta voce la promessa che ci ha permesso di diventare finalmente anche noi, dei veri boy scout. Dopo la promessa e divisi per squadriglia, iniziammo a prepararci per il campo estivo rispolverando le tende che erano ammucchiate nel ripostiglio dello scantinato dell’Oratorio e portarle nel campo di calcio, lì accanto, per provare a innalzarle e verificare che non ci fossero rotture o altri danni evidenti. In quel tempo a nostra disposizione avevamo, una per squadriglia, una grande tenda piramidale a base quadrata (credo in dotazione durante la guerra alle forze alleate) con un grande palo centrale che sorreggeva nel mezzo la tenda e dei tiranti laterali che servivano per tendere la tenda e permettere di potere stare in piedi anche sui lati. La tenda era provvista di un ingresso, che si poteva chiudere, e pertanto all’interno della tenda potevano essere ricavati sei posti letto e sistemarvi anche tutto il materiale occorrente per vivere quasi un mese al campo estivo che quel primo anno fu tenuto a Pesariis (Comeglians) in una grande radura, nella zona detta di Pradibosco a circa 1200 metri di quota, messaci a disposizione dalla parrocchia del luogo. “La Val Pesarina si estende per una ventina di chilometri sulla direttrice ovest-est dalla Forcella di Lavardet, che la collega al Cadore, alla confluenza dell'omonimo torrente, che la incide per tutta la sua lunghezza e dal quale prende il nome, con il fiume Degano tra Ovaro e Comeglians. Pagina | 118


E' detto anche canale di San Canciano o canal Pedarzo o, più semplicemente, Cjanal, così come Cjanaloz sono chiamati i suoi abitanti. E' delimitata a nord dalla catena delle Dolomiti Pesarine, ove spiccano le cime del Creton di Clap Grant e di Culzei, Siera, Creta Forata, Fuina e Pleros che si frastagliano in muraglie e torrioni; mentre a sud i profili più dolci e verdeggianti, i fianchi boscosi e le cime dei monti Morgenlait, Pieltinis, Navarza e Losa la separano dalla conca di Sauris”. Ricordo i ferventi preparativi prima del campo. Ognuno di noi preparò intrecciandola, come si fa con la rete da pesca, un’amaca che sarebbe stata poi fissata sopra a dei supporti piantati nel terreno e posti a circa cinquanta centimetri dal suolo. Poi, stesa come fosse una rete da materasso, si poneva sopra, il sacco letto, fatto in quei tempi, con la coperta imbottita di casa costruito a mo’ di sacco e cucito tutt’attorno in modo da permetterci di entrarvi dentro a dormire. Raggiungemmo il campo di Pesariis con un camion telonato sul quale erano state ricavate delle panche per sederci durante il viaggio e con, nel mezzo, anche tutto il materiale da campo per cui il tragitto si rivelò, non una passeggiata, ma una dura esperienza di viaggio. Tanto più che le strade non erano tutte asfaltate per cui ti trovavi continuamente a sobbalzare e dondolare, ma per noi quel viaggio così lontano divenne motivo di orgoglio e di racconti una volta che avremmo fatto ritorno alle nostre case. La zona scelta per il campeggio era situata un po’ lontano dal paese di Pesariis ed era in un’ampia radura erbosa con un fienile ricavato in una casa fatta di pietre e legno proprio al limite della radura stessa. Accanto ci passava un torrente e la radura era tutta circondata da abeti fitti e diritti tanto da sembrare fossero stati piantati lì apposta per nasconderla tanto, che sino a quando non superammo il varco di delimitazione, non potemmo notare la bellezza di quel posto. Attorno a noi spaziavano, oltre le cime degli alberi, maestose vette dolomitiche che suggellavano con la loro bellezza quell’incantevole posto dove avremmo posto il nostro campo estivo.

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Scaricati i materiali dal camion, che subito ripartì, divisi per squadriglie, iniziammo il montaggio delle tende piramidali, che sarebbero state per molti giorni la nostra casa, scavando attorno a quattro lati delle canalette per lo scolo delle acque piovane quindi, muniti di accetta, ci avviammo nel bosco dove avevamo ricevuto il permesso di recidere degli alberi per preparare i nostri letti e predisporre l’interno delle tende con dei supporti rialzati dove poggiare i nostri zaini e le cose che c’erano necessarie per vivere quell’esperienza. Finita la sistemazione dei letti e, posate sopra le nostre amache, ci recammo a preparare la cucina da campo in un’area dove si potesse usare il fuoco senza creare incendi e stendendo sopra a essa un grande telone dove poterci riparare per cucinare e per mangiare. Poi procedemmo nella costruzione dei gabinetti che furono sistemati vicino al greto del torrente innalzando una palizzata con una porta e ricavato, sul fondo un foro, tipo “turca”, dove potere fare i nostri bisogni. La giornata finì sul tardi dopo che la squadriglia incaricata, a rotazione, aveva preparato il pasto e, tutti assieme, attorno al tavolo appena costruito, avevamo cenato il semplice pasto che era stato possibile preparare ma che, giovani com’eravamo, avevamo divorato all’istante. Poi, dopo la preghiera della sera, sotto un cielo che era chiaro dallo splendore delle stelle che, a quell’altezza, ti permetteva di osservare e ammirare in perfetta contemplazione tutte le costellazioni che sembrava si potessero prendere con una mano, correre al torrente per lavarti e quindi velocemente entrare nel tuo sacco, fatto di coperta imbottita, sopra la tua amaca e dopo poco cadere nel profondo sonno dovuto alla stanchezza del viaggio e del lavoro fatto per sistemare il campo.

La mattina dopo ci siamo svegliati presto al suono del fischietto del capo reparto e, ancora appisolati, uscire dai nostri giacigli infreddoliti, con solo i pantaloncini corti e la canottiera, correre al torrente per lavarci e fare i nostri bisogni. Ritornare, quindi alla tenda per vestirci e andare a fare la colazione per poi, iniziare un’altra giornata di lavori e giochi di abilità, con le altre squadriglie. Quella fu la mia prima esperienza lontano di casa e, a dodici anni, dopo qualche giorno incominci a sentire la lontananza dei tuoi cari e allora subentra la malinconia ed ecco allora

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che arrivano altre occasioni di svago. Una in particolare ha lasciato in me il segno dell’amore per le montagne. Successe, infatti, dopo esserci preparati per giorni a osservare le carte topografiche che avevamo in dotazione, decidemmo di fare un’escursione sino al rifugio Garibaldi, sul monte Clap Grande, a 1800 metri di altezza che si stagliava proprio sopra il nostro campo e visto da lì sotto sembrava una parete inaccessibile tanto era ripida e irta di rocce bianche macchiate del verde degli abeti mentre, più in alto, facevano emergere le sole cime spoglie di qualsiasi forma di vegetazione. Il mattino successivo, subito dopo la messa e la colazione, ci mettemmo in cammino in fila indiana squadriglia, dopo squadriglia, con addosso la nostra divisa e il nostro bastone da boy scout e iniziammo a salire lentamente per il sentiero che si snodava attraverso il bosco. Dopo avere attraversato il torrente che delimitava il nostro campo arrivare, dopo circa un’ora, a un ampio nevaio che scendeva in una conca tra le rocce dolomitiche e attraversava il nostro sentiero in modo tale da obbligarci ad attraversarlo. Fu allora che il nostro capo reparto ci mostrò come fare uso del nostro bastone che avevamo con noi per attraversarlo in sicurezza. Puntammo il nostro bastone verso valle al lato del sentiero ricavato nella neve ghiacciata e, quindi sempre in fila, una squadriglia alla volta, iniziammo a procedere con cautela senza guardare verso il basso dove, alla fine del nevaio, vedevi lontana la strada che portava a Pesariis. Così piano, piano riuscimmo a raggiungere l’altra sponda e proseguire sempre più faticosamente verso il rifugio. Ricordo che a un tratto fummo raggiunti da dei montanari che portavano in spalla delle enormi gerle colme di viveri, che poi scoprimmo, servivano per la ristorazione degli alpinisti che passavano e sostavano al rifugio prima di cimentarsi nella scalata delle cime circostanti e, quando furono vicino a noi, si fermarono per chiederci chi eravamo e dove stavamo andando. Poi, salutatici, per un po’ cercammo di tenere il loro passo ma incredibilmente, pur con quei pesi sulle spalle, il loro incedere era costante e passo dopo passo ci lasciarono alle spalle tanto che dopo un po’ li perdemmo di vista. Quella è stata la prima lezione che mi ha insegnato come andare per monti. Infatti, ho potuto osservare il loro modo di camminare che era lento e continuo con pochi movimenti delle braccia e leggermente curvi in avanti e mai con improvvisi passi veloci come invece facevamo noi che procedevamo a scatti un po’ velocemente per poi, senza fiato, dovere fermarci a recuperare le energie che avevamo inconsciamente bruciato. Raggiungemmo comunque, dopo circa un’altra ora di salita attraverso un sentiero privo di alberi, il rifugio Garibaldi che era posto a quota, 1800 metri dove trovammo i montanari già da un bel pezzo arrivati e che ci aspettavano per aprire, per noi, il bar. Quindi rifocillarci con i panini, che avevamo portato con noi dal campo, mentre loro ci offrirono da bere e poi, gentili, ci fecero una lezione sullo scenario che circondava e si espandeva tutt’attorno in uno dei più bei paesaggi che, la natura avesse creato.

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Sulla terrazza che dominava la valle, lassù più in alto, era ricavata una piccola cappella, dove assieme al nostro prete, don Pino, partecipammo alla messa che sotto quei picchi che si stagliavano alti nel cielo ci faceva ancora più partecipi di quello che il creatore ha voluto metterci a disposizione ma che talvolta, vinti dalla nostra cecità, non sappiamo apprezzare. Mentre i più grandi, i rovers, si avventurarono nella scalata di una cima che ci era stata indicata dai gentili montanari, noi più giovani iniziammo lentamente a scendere a valle dopo avere ringraziato e salutato i gestori del rifugio. Non prima, però di avere ancora una volta fissato nella mente quelle meravigliose montagne e, se pur a malincuore, fare mestamente ritorno al nostro campo che raggiungemmo all’imbrunire. Dopo esserci rinfrescati procedere, ognuno per i propri incarichi, nel prepararci ad affrontare un’altra notte sotto lo splendore del cielo terso, che quel luogo ci riservava quasi ogni notte. I giorni passavano veloci tra giochi di abilità ed escursioni ed eravamo tutti sempre impegnati a svolgere vari lavori come quello della pulizia delle tende, la sistemazione del campo e soprattutto la preparazione dei pasti. Questo lavoro era svolto incaricando a rotazione una squadriglia dopo l’altra che usava i fornelli, preparati all’arrivo, sui quali si faceva bruciare la legna, che era raccolta dalle varie squadriglie, e posandoci sopra le grandi marmitte di alluminio che ci erano state donate e con le quali si cucinavano i pasti. S’iniziava al mattino nel preparare la colazione usando il latte in polvere, donatoci dalla croce rossa, che altro era il latte lasciato, dopo la fine della guerra, dagli alleati e che era diluito con l’acqua del ruscello e fatto bollire. Questo era servito assieme al pane nero, che la squadriglia incaricata era andata al paese ad acquistare, e con l’aggiunta di un po’ di zucchero. La colazione era servita nelle gavette, che ognuno di noi aveva in dotazione. Non vi dico il gusto che ne usciva dalla combinazione latte in polvere e pane nero, era una cosa un po’ ripugnante ma nonostante ciò, giacché altro non era disponibile e che la fame dei tredici anni era persistente, il tutto era trangugiato in un attimo, subito dopo avere alzato alto il canto: “Per la bellezza del cammino E per quest'oggi e per doman Per questo pan Che noi mangiam Per tutto, o Dio, Noi ti lodiam”. Finita la colazione, mentre la squadriglia incaricata alla cucina si recava al ruscello per lavare le pentole e le altre stoviglie con del sapone e soda aggiungendoci manciate di sabbia che trovavamo nelle anse del ruscello, dove l’acqua vorticando depositava quella sabbia bianca. Si strofinava fino a che tutto il nero, prodotto dal fumo della legna usata per il fuoco e che si era accumulato nel fondo della marmitta, lentamente se ne andava lasciando il pentolone lucido e pulito. Non appena si era finita di pulire la pentola, era già ora di procedere alla preparazione del pranzo che era composto prevalentemente dal minestrone di fagioli oppure dalla pastasciutta Pagina | 122


e che aveva come contorno il formaggio conservato in grossi barattoli di latta da cinque chili, anch’esso regalatoci e comunque proveniente sempre dalle scorte alimentari, che gli alleati, avevano donato alla Croce Rossa. Questo era raccolto dal vaso con un coltello e diviso in porzioni ed era dato ai commensali, come secondo piatto, con l’aggiunta di un pezzo di pane nero e una mela acquistata nel paese il giorno prima. Dopo avere proceduto al lavaggio delle stoviglie, si andava un po’ a riposare nella tenda oppure, stesi sull’erba sotto un abete. Dopo di che si riprendevano le attività di gioco o di altra azione quotidiana in modo tale che non si aveva tempo per oziare. Dopo la cena e la preghiera della notte, s’iniziava con le attività notturne che normalmente consistevano nell’osservazione delle costellazioni e nell’individuare la stella polare con l’aiuto di Orione o con altra costellazione. Oppure si faceva il gioco di abilità che consisteva nell’eliminare l’avversario della squadra opposta mediante l’uso della torcia elettrica e più, precisamente, il gioco procedeva nel seguente modo: Si formavano due squadre, mentre una si nascondeva nel bosco a difesa del gagliardetto del reparto, che era sistemato in una radura, la seconda doveva snidare gli avversari dal loro nascondiglio, cercando di prendere il gagliardetto, da loro difeso. Ovviamente il gioco si faceva nelle notti senza luna per cui il buio era pesto e credetemi, a tredici anni non era facile inoltrarsi nel buio della foresta circostante ma si andava avanti magari assieme ad un amico che come te se la faceva sotto dalla paura, così lentamente strisciando e cercando di ascoltare, nei rumori della foresta, quelli che potevano essere prodotti dai tuoi avversari nascosti, ti portavi sempre più vicino al trofeo che dovevi catturare e portare al campo. Talvolta quel gioco durava varie ore così, quando avevi catturato il gagliardetto, oppure tutti gli avversari erano stati eliminati, il gioco finiva e si faceva ritorno alle nostre tende e finalmente, stanchi, si andava dentro i nostri sacchi e lì si rimaneva sino al mattino nel completo abbandono di un sonno ristoratore.

Ma nonostante gli impegni dopo un paio di settimane iniziava a subentrare la nostalgia dei genitori e così, quando fummo informati che di lì a pochi giorni sarebbero arrivati a farci visita i nostri cari, la vita riprese con maggiore vigore e allegria e, contando le giornate che mancavano al loro arrivo. Ci si preparava allo spettacolo che noi tutti avremmo offerto ai Pagina | 123


nostri parenti e che consisteva nella messa da campo tutti riuniti con l’ausilio di canti e preghiere, offrendo loro il pranzo da noi preparato con maggiore cura e con l’aggiunta di alimenti conservati per l’occasione per finire, nel pomeriggio. Prima della loro partenza avremmo proceduto con l’accensione del bivacco e tutti attorno inneggiato con canti scout per terminare la giornata con il canto dell’addio (sotto riportato) e che alla fine, con il pensiero che i parenti sarebbero andati via, riuscivi a malapena a finire senza piangere anche perché non volevi che i tuoi cari pensassero fosse troppo pesante il distacco. E' l'ora dell'addio, fratelli, è l'ora di partir, il canto si fa triste, è ver, partire è un po' morir. Ma noi ci rivedremo ancor ci rivedremo un dì. Arrivederci allor, fratelli, arrivederci, sì. Formiamo una catena con le mani nelle man, uniamoci l'un l'altro prima di partir lontan. Ma noi ci rivedremo ancor... Iddio che tutto vede e sa la speme d'ogni cuor, se un giorno ci ha riuniti qui saprà riunirci ancor ma noi ci rivedremo ancor... Alla fine dei canti si abbracciavano i nostri genitori, sempre facendo finta di essere sereni per la loro partenza, e mentre loro si avviavano per fare ritorno verso casa, noi si ritornava mestamente alla nostra tenda per poi raggiungere le nostre brande e cercare di scordare la loro assenza per cadere poi finalmente in un sonno ristoratore privo di sogni e tale da farci entrare nell’oblio dei ricordi. Riguardando oggi, con molta nostalgia, le foto di quelle visite devo riconoscere che mentre per noi era un grande momento rivedere i nostri cari, dopo diverse settimane di lontananza ma, per i nostri genitori, quella si trasformava nell’unica giornata, nell’arco dell’anno, dove potevano permettersi di fare una gita in quanto i soldi, per i divertimenti, non facevano parte del loro contesto di vita. Infatti, ogni singola lira era destinata ai figli per vivere e per permettere loro di andare a scuola. Perciò quella giornata diventava molto più che la visita ai loro figlioli lontani di Pagina | 124


cui senz’altro sentivano la mancanza, ma si trasformava nella loro gita annuale per cui i preparativi di quella giornata avvenivano già al momento della nostra partenza per il campo. Infatti, il papà “Doro”, da buon anfitrione qual era, iniziava, durante gli incontri serali nel nostro “giardino estivo” alla presenza di Adelino, della Maria e di altri vicinanti, a organizzare la gita in montagna a trovare i figli al campo scout. Così s’iniziava a formare un numeroso gruppo di genitori e simpatizzanti con i quali si organizzavano i modi per affrontare quel viaggio che in quegli anni era di per sé avventuroso, perciò, stabilito il numero di persone che erano d’accordo nel partecipare, si dovevano trovare i mezzi di trasporto che potevano essere moto o automobili oppure con i mezzi pubblici affittati dagli scout per il trasporto di tutta quella gente. Normalmente, mentre le donne, mia madre assieme alla siora Ina, alla Maria e altre viaggiava con l’autocorriera, messa a disposizione dagli scout, per risparmiare sul costo del biglietto, il papà viaggiava con “Adelino” che era proprietario di una moto Gilera 500 con carrozzino e con quello si avventuravano nel lungo percorso fino al campo scout dell’anno passando per strade completamente sterrate tanto che, quando arrivavano, dovevano andare al ruscello a lavarsi la faccia tanto erano impolverati. Durante uno di quei viaggi, non ricordo bene ma mi sembra durante il campo di Pesariis, mentre attraversavano il greto di un torrente e mio padre era seduto dentro il carrozzino, questo si staccò lasciando mio padre in mezzo al guado perciò, mentre Adelino fermava la moto, mio padre usci, impaurito dalla forza dell’acqua che scorreva, immergendo le scarpe e parte dei pantaloni nel torrente e a grandi passi guadagnare la riva dove “Adelino” era in attesa accanto alla moto. A quel punto nacque il problema di recuperare il carrozzino staccatosi e fermo in mezzo al greto del fiume ma pur provando a spingerlo, immersi nell’acqua gelida fino al polpaccio, non riuscirono a smuoverlo per cui decisero di ritornare indietro a trovare qualcuno che potesse dare loro un aiuto. Inforcata la moto con Adelino alla guida e mio padre seduto sul parafango posteriore, non esisteva, infatti, il sellino, e poggiando sul parafango una coperta a mo’ di sellino, si avviarono alla ricerca di aiuto che trovarono in una casa di contadini poco lontano e trovato il padrone di casa, raccontarono l’accaduto. Mosso a pietà il contadino, prese dalla stalla una mucca e con questa, bardata per il traino, si avviò sino al torrente dove, imbragato il carrozzino, facilmente lo trainarono in secca. A quel punto, poiché ormai si era fatto tardi, decisero, dopo avere ringraziato il gentile contadino, di avviarsi con la sola moto con mio padre cavalcioni del parafango posteriore, come fosse un puledro, per arrivare sani e salvi sino al campo scout dove già la mia mamma e la siora Ina erano in pensiero. Spiegato l’accaduto, la giornata si avviò tra lazzi e canti e con delle buone bevute dando fondo a tutte le vivande che tutti si erano portati con sé e, dopo avere assistito alla messa al campo Pagina | 125


officiata dal nostro don Pino, i vari gruppi di genitori si divisero per conoscenze. Si formarono così, attorno al campo scout, tanti punti di ristoro con travasi di pietanze mentre per le bevande si era messa a disposizione una tenda dove erano state depositate le damigiane di vino e che era stata battezzata, per l’occasione, la “privata” del campo.

La “privata” con mio padre in piedi con la maglia e accanto “Adelino” ancora con la tuta da motociclista.

Dopo altre due settimane, venne finalmente il giorno di smontare il campo per fare ritorno a casa. Così, il mattino molto presto, iniziammo a procedere con la demolizione delle cucine, dell’altare e infine dei gabinetti per terminare con lo smontaggio delle tende piramidali. Poi, non appena il camion che ci doveva riportare indietro, arrivò, iniziammo a caricare il tutto mentre, un’altra squadriglia, procedeva nella bonifica del prato che consisteva nel riempire le eventuali buche rimaste nel terreno, nell’ammucchiare la legna tagliata che era servita per l’allestimento del campo. Finito il sopralluogo, salimmo a bordo del camion e, sempre con i soliti sobbalzi e dondolii, facemmo ritorno alle nostre famiglie che ci stavano aspettando nel recinto dell’Oratorio San Michele. Dopo i saluti e i ringraziamenti di rito, ritornammo finalmente alla mia casa, nelle baracche di Wagna, dove potei riabbracciare la mia sorellina e mia nonna e andare a dormire nel letto di crine, accanto a quello della nonna.

“1951, alluvione del Polesine”

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Nel novembre di quell’anno, il 1951, una grande catastrofe sconvolse l’Italia, l’alluvione del Polesine, dove piovve per parecchi giorni in modo tale da fare esondare il fiume Po e allagare paesi e campagne della provincia di Rovigo dove fece ottantaquattro morti e 180.000 senzatetto. La notizia la sentì mio padre che, com’era suo solito, ascoltava alla radio (la mitica CGE) le opere quando fu interrotta la trasmissione per comunicare la terribile notizia dell’inondazione e delle molte perdite di vite umane e dei molti senza tetto. Cosi fummo avvisati e corremmo a sentire i vari notiziari che erano diramati di continuo con notizie sempre più preoccupanti. La notizia si sparse in un baleno tanto che dopo poco tempo i capi scout, di Monfalcone, si attivarono andando, casa per casa, a chiamare a raccolta tutti i boy scout per organizzare qualche forma di aiuto. Fu deciso che il gruppo scout asci di Monfalcone si sarebbe mobilitato per raccogliere aiuti per le popolazioni colpite dal tremendo dramma. Si costituirono tre centri di raccolta indumenti e alimenti e, con l’aiuto di un camion messoci a disposizione dalla ditta di autotrasporti Bonezzi, con la guida del figlio “Tazio” fui arruolato per andare, assieme a lui, a raccogliere, in giro per Monfalcone, tutti gli aiuti che la maggior parte delle famiglie donavano. Noi li raccoglievamo sistemandoli nel camion e quindi, una volta carichi, li depositavamo alla croce rossa di viale Cosulich affinché fossero selezionati e preparati per essere inviati nelle zone alluvionate. La raccolta durò per molti giorni così io, essendo coinvolto nella raccolta, il mattino andavo a scuola mentre il pomeriggio mi presentavo nella stazione della Croce Rossa dove mi aspettava “Tazio” e iniziavamo il giro della raccolta. Fu durante uno di questi giri che il “Tazio”, il quale era impegnato dalla mattina alla sera, si portava sempre la merenda che, approfittava di mangiare, nei momenti in cui si depositavano le cose alla croce rossa e, in una di quelle soste, mi offrì del pane con del formaggio che, al momento, credevo fosse avariato e dissi a “Tazio” che puzzava ma lui sorridendo mi spiegò Pagina | 127


che quel formaggio si chiamava “gorgonzola” e quello era il suo tipico odore e che lo avrei potuto tranquillamente mangiare. Fu la prima volta che assaporai quello strano formaggio e, nonostante il sapore e l’odore, anche perché la fame era il bagaglio giornaliero che mi portavo addosso, lo mangiai inizialmente turandomi il naso ma poi, dopo averne gustato il sapore e stabilito che non era poi così male, ne chiesi dell’altro fino a che tutta la confezione portata da “Tazio” non fu’ completamente divorata. Procedemmo ancora per parecchi giorni tanto che, oltre la scuola, mi trovavo a rientrare a casa per ora di cena e per poi infilarmi, subito dopo, a letto perché la stanchezza iniziava a pesare sulla mia giovane età, ma, e lo posso dire oggi a distanza di tempo, credo di avere svolto la mia “buona azione” quotidiana come peraltro richiesto ai boy scout dopo la loro promessa di giuramento. Devo senz’altro dire che quella promessa mi ha sempre guidato durante la mia vita, sia sociale sia lavorativa, ma che con il tempo ho potuto costatare sulla mia pelle che le promesse, anche quelle di boy scout, venivano e sono tuttora disattese dall’atteggiamento dei politici nazionali e ancor più da quelli locali che sfruttano la loro ambiguità nel promettere cose che sanno già in partenza che non manterranno. In questi ultimi anni, infatti, la politica si è degradata al punto che un grosso personaggio di un partito e, che era un rappresentante nazionale dei boy scout, ha sottratto milioni di euro, di noi contribuenti, per i suoi loschi affari, sapendo che la politica lo avrebbe comunque tutelato (quando mai il ladro parla male dell’altro ladro). Cosi, quel losco figuro sarà forse indagato, ma i milioni che ha rubato li avrà già fatti sparire e lui tra poco sarà nuovamente in politica per ricominciare a rubare, e questo è solo un capitolo della promessa non mantenuta e del giuramento che, quando eri boy scout, avevi fatto. Così, mentre per alcuni, come me, ha avuto senso nel perseguire con tali principi anche dopo avere lasciato l’attività’ con i boy scout, altri invece sé ne sono fregati portando vergogna nel nome degli scout per i quali avevano giurato di onorare Dio e la Patria.

Gli anni passarono impegnato nelle molteplici attività svolte con i boy scout e in particolare ricordo la celebrazione di una festa di San Giorgio, il patrono degli scout, che si svolse nella pineta di Sistiana con l’organizzazione di un campeggio con la partecipazione di tutti gli scout della provincia di Gorizia e Trieste. Pagina | 128


Durante tale campo, che durò solo due giorni, furono organizzate delle manifestazioni di abilità e per le quali era premiata la squadriglia che otteneva più punteggi per cui, essendo in quel tempo diventato capo squadriglia delle Aquile, partecipammo a tutte le gare che spaziavano dal riempimento di un recipiente senza usare contenitori che non fossero le mani oppure il cappello di scout andando a prelevare l’acqua da un altro recipiente posto a dovuta distanza dal primo. Oppure camminare in equilibrio su di un tronco e di fare passare nel più breve tempo tutta la squadriglia o ancora chi preparava meglio un modellino di altare. Alla fine della giornata fummo premiati come la migliore squadriglia perché non solo avevamo ottenuto dei buoni punteggi con le prove di abilità, ma ricevemmo il migliore punteggio in assoluto per avere realizzato un modello di un altare, che ricordavo averlo costruito in grandezza naturale in un campo estivo a Valbruna, che rappresentava il giglio scout, e lo costruimmo usando dei rami flessibili di albero che saggiamente riuscimmo a modellare e legare assieme a delle cordicelle. La premiazione avvenne alla presenza del vescovo di Gorizia don Pancrazio il quale conferì al nostro gagliardetto, la medaglia ricordo che fu poi portata in sede, all’oratorio San Michele, dove faceva bella vista sopra la parete di fronte l’entrata. Un altro campo che ricordo molto bene fu quello svolto a San Leopoldo, vicino a Pontebba, in un prato messoci a disposizione dalla famiglia di “mamma Lina” la signora che abitava in una casa lì accanto e che ospitava, in varie occasioni, le coccinelle e i lupetti dell’oratorio San Michele, nelle stanze della grande casa colonica che lei gestiva con i suoi figli. Durante quel campo avemmo la fortuna, quale buona azione, di aiutare il parroco di San Leopoldo a segare molti abeti di proprietà della chiesa e che si trovavano nei dintorni del nostro campo. Fu cosi organizzata la spedizione coinvolgendo tutte le squadriglie e armati di asce e segacci ci avviammo, seguiti dal parroco, verso i boschi della montagna che torreggiava sopra il nostro campo. Quella fu una vera avventura perché, per la prima volta, potei assistere da vicino al taglio di grossi abeti e con l’aiuto del parroco procedemmo al loro abbattimento che iniziava prima nell’individuare quell’albero, che era stato indicato prima dalla guardia forestale che aveva apposto un segno con della vernice colorata sopra di esso. Si attaccava, quindi, la base dell’albero con il segaccio facendo un primo taglio orizzontale fino a circa metà tronco poi, con la “manera” (scure), incidere una specie di mezza V dandoci dentro con forza dei fendenti passando, quindi, dal lato opposto e incidendo, sempre con il segaccio, ma con il taglio fatto più in alto rispetto al precedente, per proseguire poi con la “manera” nel togliere lentamente la parte sopra il taglio fino a che l’albero sotto il suo peso s’inclinava lentamente verso il taglio più basso, allora, frettolosamente, scappare lontano dalla parte opposta dove stava cadendo. Una volta caduto si doveva provvedere al taglio di tutti i rami, a colpi di manera oppure con i segacci, e una volta spoglio dei rami si doveva procedere nel toglierne la corteccia sempre con

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l’uso della manera e, una volta scortecciato, si doveva segare in pezzi di una lunghezza di circa tre- quattro metri e accatastarli in piramidi a lato della strada che passava accanto al bosco. Quel lavoro ci coinvolse per quasi tutto il tempo che passammo al campo, tanto che man mano che i giorni passavano la fatica, si faceva sentire e la sera pochi giochi si facevano poiché quasi tutti, non appena finito di cenare, ci si coricava e si partiva velocemente nel mondo dei sogni senza badare al freddo o alla pioggia, che cadeva spesso in quel luogo. L’inverno seguente fummo invitati dal parroco ad andare, suoi ospiti, nella sua casa di San Leopoldo e così per una settimana, per la prima volta, il nostro gruppo poté partecipare a un campo invernale anche se era improprio chiamarlo campo, perche non c’erano le tende, si trasformò in una bella vacanza invernale, sotto la neve. Purtroppo la vacanza si rivelò per me una sofferenza perché gli indumenti che usavo erano poco adatti al reale freddo che trovammo in quel periodo perché avevo solo dei pantaloni di lana con sotto, per ripararmi al meglio dal gelo, usavo mettere dei mutandoni di flanella imbottita e sotto la camicia portavo, sulla pelle, una maglietta anch’essa di flanella imbottita che dava inizialmente un po’ di calore ma, quando ti trovavi all’esterno con temperature a meno dieci, dopo un po’ il freddo ti entrava nelle ossa e dovevi incominciare a sbattere le braccia per ottenere un po’ di calore. Sopra la camicia portavo il maglione di lana fattomi dalla nonna e così, le calze, i guanti e il berretto quindi, su tutto, indossavo un giaccone che usavo anche in autunno tanto era piuttosto leggero per quel posto. Infine, ai piedi, portavo un paio di scarponi in cuoio che era lo stesso paio che usavo, quando andavo al campeggio d’estate. Bene, con quell’abbigliamento, il giorno dopo che eravamo arrivati con il treno a San Leopoldo, iniziammo a salire sulla montagna, trainandoci dietro una grossa slitta adatta per il trasporto dei tronchi, su per un sentiero innevato. Ad ogni passo, quel peso, ti faceva affondare con tutta la scarpa così da trovarti, dopo un po’, con tutti gli scarponi pieni di neve fresca che poco dopo si scioglieva, diventando acqua. Appena s’inzuppavano il suo interno ti faceva gelare i piedi tanto che, dopo pochi passi, ti dovevi fermare per batterli per tenerli caldi. Alla fine della salita arrivammo laddove, l’estate passata, avevamo accatastato i tronchi completamente sudati nel corpo ma gelati nei piedi così, prima di iniziare a caricare i tronchi sulla slitta, seduti sulla stessa il buon parroco ci offrì del pane e formaggio accompagnato da un bicchierino di grappa che ci permise di recuperare le energie e di sentire un po’ più di calore. Iniziammo, quindi, a procedere sotto l’esperta guida del parroco, a preparare uno scivolo che ci permise di fare rotolare i tronchi sulla slitta quindi, appena caricata e fissati gli stessi fra loro con una corda ci sistemammo, io e un altro boy scout, sopra la slitta, uno davanti e uno dietro poi, dopo essere stati spinti dai compagni e avendo acquistato velocità scendemmo a valle, per il sentiero appena salito.

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La cosa sembrava essere divertente, finché il sentiero procedeva diritto ma, non appena le curve diventarono più strette e la discesa più accentuata, iniziammo a entrare nel panico perché il peso dei tronchi non ci permetteva di governare bene e con sicurezza la guida della slitta.

Iniziammo a sbandare pericolosamente prima da un lato e poi dall’altro fino a che, dopo molti sforzi, riuscimmo a rallentare e a capire il modo corretto per governare quella slitta che non ne voleva sapere di essere guidata. Arrivammo finalmente a valle, dove c’era in attesa un altro gruppo di scout che badò a scaricare i tronchi e permettere, pertanto a noi, di iniziare nuovamente a salire per lo stesso sentiero appena percorso e lentamente procedere, questa volta senza sentire il freddo, tanto eravamo emozionati da quella prima esperienza con la slitta. Questo lavoro procedette, con discese e salite, per tutto il giorno che era molto breve in quanto, lì in montagna e tra i boschi, la luce iniziò a scarseggiare presto così che, verso le tre del pomeriggio, facemmo ritorno in paese dove ci aspettavano gli altri boy scout che erano rimasti per preparare i pasti e riordinare le stanze dove avevamo installato le nostre brandine. Così accanto al caminetto acceso ci rifocillammo, non prima di esserci tolti gli indumenti bagnati, e con i piedi mezzi congelati andare subito a fare un bel bagno caldo e ristoratore. La settimana proseguì con il trasporto dei tronchi a valle e a giorni alterni ci si dava il cambio per rimanere a casa per cucinare e sistemare le stanze. Così un giorno che toccava a me rimanere a casa fui incaricato, assieme al mio amico Giordano di andare a Pontebba, che distava circa cinque chilometri, a piedi a comprare le “luganighe” per preparare la cena.

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Ci avviammo che iniziava a imbrunire e incominciava a nevicare leggermente e piano, piano a bordo della strada statale, ricordo in quel tempo le macchine che passavano erano abbastanza rare, con la strada ricoperta di neve procedemmo fino ad arrivare, dopo circa un’ora, al centro del paese di Pontebba e chiedere dove si trovava la macelleria. Seguendo le indicazioni raggiungemmo finalmente il negozio, che era situato nella casa del proprietario al cui interno era stata ricavata una stanza adibita a macelleria, e chiedemmo delle “luganighe”. Il macellaio disse che aveva solo delle salcicce al che, Giordano ed io ci guardammo in faccia e ripetemmo la richiesta di volere delle “luganighe”, e non delle salcicce. Quello ci squadrò e sorridendo, prese dal frigo, alcuni chili delle stesse le pesò quindi, dopo averle incartate e chiestoci i soldi, ci salutò dicendoci di fare buon uso di quelle salcicce o “luganighe”. Usciti dalla casa-negozio con il pacco in mano Giordano ed io ci fermammo chiedendoci se le salcicce andavano comunque bene invece delle “luganighe” e con quel dubbio facemmo ritorno a San Leopoldo. Arrivammo quando la neve stava già cadendo copiosa e i nostri capi avevano iniziato a preoccuparsi del nostro ritardo per cui felici di essere nuovamente al caldo del focolare informammo gli altri che non avevamo trovato le “luganighe” e che pertanto avevamo dovuto comprare delle salcicce che speravamo, sarebbero state comunque gradite. Non vi dico l’ilarità’ che suscitò quella notizia con il parroco e i nostri capi che si sbellicavano dalle risa poi, vedendoci in imbarazzo di fronte alla loro ilarità, ci informarono che le salcicce e le “luganighe” erano la stessa cosa e che era ora di passare a cucinare e divorare le luganighesalcicce che avevamo comprato.

1954 - Campo Nazionale boy scout in Val Fondillo (Abruzzo). Dopo altri campi estivi a Valbruna e Prato Carnico venne l’opportunità di partecipare al campo nazionale in Val Fondillo nel Parco Nazionale d’Abruzzo (Pescasseroli) dove si celebravano i dieci anni dalla rifondazione dell’Asci e al quale partecipavano gruppi scout da tutta Italia e di altri paesi, con oltre 3500 partecipanti. Ci preparammo per molti mesi accumulando diverse cose: Per ragioni di peso ricorremmo alle tende più leggere che erano le canadesi da otto posti, mentre per la sussistenza raccogliemmo vario scatolame e in particolare, oltre le uova in polvere e il latte sempre in polvere, e condensato, anche diversi vasi da cinque chili di formaggio fuso che come sempre facevano parte della nostra alimentazione, durante i campi estivi. Finalmente venne il giorno della partenza, ci radunammo all’oratorio San Michele, dove separammo le cose da portare con noi in maniera che ciascuno avesse un peso tale da essere singolarmente maneggiato per cui, oltre al nostro zaino, ognuno di noi aveva anche un collo di tenda, oppure un pacco di alimenti poi, dopo i saluti ai nostri genitori, in fila marciammo verso la stazione, dove attendemmo il treno che ci avrebbe portato a Roma.

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Per me era la prima volta che mi recavo a Roma, pertanto l’emozione era alle stelle. Così occupato il posto negli scompartimenti di terza classe che avevamo riservato, per un po’ riuscimmo a fare passare le ore cantando poi, a mano a mano che le ore passavano, la stanchezza s’impadronì di noi e dopo poco i canti si spensero mentre qualcuno iniziava a ciondolare la testa e piano, piano addormentarsi cullati dall’uniforme canto delle ruote sulle giunture dei binari che con il loro “tum –tum” ci accompagnò, sino al nostro arrivo a Roma. Arrivammo a Roma al mattino successivo in una giornata calda e radiosa tanto che tutti noi ci affacciammo ai finestrini per goderci lo splendido scenario che si stagliava lontano all’orizzonte dove si ergeva maestosa la cupola di San Pietro che lasciò in me un immenso senso di stupore per la sua magnificenza. Fermati al nostro binario, iniziammo a scaricare le nostre cose e, seguendo i nostri capi, uscimmo da quell’immensa stazione dove ci attendevano delle autocorriere che erano già state in precedenza assegnate ai singoli reparti per cui, quando arrivò il nostro turno, caricammo nel bagagliaio tutte le nostre cose e quindi partimmo alla volta del Parco Nazionale d’Abruzzo, dove avremmo posto il nostro campo. Il viaggio fu emozionante perché la prima parte passò per il centro di Roma dove potemmo vedere di sfuggita alcune delle bellezze locali tra cui ricordo bene il Colosseo e poi lentamente nella calura del giorno, che iniziava a splendere, percorrendo strade sempre più strette avvicinarsi alle maestose montagne che dominavano il Parco Nazionale d’Abruzzo e la Val Fondillo. Raggiungemmo la base del nostro campo al primo pomeriggio e li fummo accolti da un gruppo di scout che ci accompagnò nell’area a noi riservata per piantare le nostre tende e preparare il fornello da campo per cucinare i nostri pasti. Quindi, una volta pronti, ogni squadriglia iniziò a esplorare il campo, che era di una vastità immensa con una moltitudine di tende colorate (quasi tutte di grigio verde) e con migliaia di esseri che si muovevano come formiche in tutte le direzioni per cui, dopo avere individuato i posti più importanti quale il bivacco, l’altare e la tenda della direzione, con i capi scout nazionali, ritornammo alle nostre tende per preparare il fuoco e cucinare la cena. Il giorno successivo ci vide impegnati in alcune attività con altri reparti, ma il gioco più grande e coinvolgente fu fatto il giorno 20 luglio quando furono ripetute le gesta del leggendario colonnello americano “Custer” a Little Big Horn, dove ci fu lì famoso massacro dei soldati americani da parte degli indiani, perciò i circa tremila partecipanti furono divisi in due gruppi. Uno rappresentava gli indiani e l’altro i soldati, pertanto ognuno di noi si doveva mettere il foulard, che tenevamo al collo, dietro la schiena con un lembo infilato nella cinta dei pantaloni e quindi seguendo le istruzioni, il gruppo degli indiani si portò da un lato mentre i soldati dall’altro. Poi a un segnale le due orde di boy scout scatenati iniziarono a correre per cercare di prendere il foulard dell’avversario ma la cosa non fu così facile perché la massa dei Pagina | 133


partecipanti era sparsa su di un’area enorme che andava dalla strada provinciale fin verso la Camosciara (monti che circondavano il campo). L’evento si finì solamente nel tardo pomeriggio quando gli ultimi sopravvissuti a quell’enorme gioco cedettero e ognuno ritornò alla propria tenda stanco e sporco di polvere e sudore così, dopo essersi rifocillati e lavati, la sera ci si ritrovò, tutti assieme, al bivacco e il Grande Capo Nazionale commentò quella grande manifestazione appena conclusa con le parole ”Chi ha vinto non importa saperlo, perché in un grande gioco il risultato più importante non è la vittoria, ma lo stile con cui si è giocato” a quelle parole il ricordo dell’evento rimase perennemente in me tanto che ancora oggi vedo le migliaia di giovani scout che con lealtà si battevano per sottrarre all’avversario il foulard e quindi eliminarlo. Due sere dopo, era il 22 luglio, tutti i tremila e più scout si radunarono per un grande bivacco nell’area centrale dell’immenso campo e lì furono accese due immense pire che illuminarono la scena del fuoco da campo su cui si alternarono le danze regionali e i canti scout. Anche quello fu un evento emozionante nel vedere quell’enorme folla unita cantare liberamente le loro canzoni, anche a memoria delle difficoltà che anni prima durante il vergognoso regime fascista, quando era stato proibito ma che, i pochi e valorosi scout rimasti nella clandestinità, nel loro cuore cantavano ogni giorno.

La serata si terminò tardi e subito andammo alle nostre tende a dormire in quanto all’alba saremmo dovuti partire per fare un’escursione sulla montagna della Camosciara a vedere i camosci e, se possibile, rintracciare anche l’orso marsicano. Ci svegliammo prima dell’alba e ci recammo al punto di riunione vicino al bivacco della sera, che era ancora fumante, e da lì scortati dalle guide del parco con le torce elettriche accese, iniziammo ad arrampicarci per un comodo sentiero che passava in mezzo ad alberi di faggio e abeti. All’alba eravamo arrivati a circa 1800 metri di quota e il sole apparve splendente lontano all’orizzonte tanto da permetterci di camminare senza usare la torcia quando sbucammo fuori dal folto del bosco e ci trovammo in una zona di pini mughi che ti pungevano completamente Pagina | 134


le gambe che erano coperte solo dai calzettoni ma con i pantaloni corti per cui dovemmo attraversare un bel tratto in mezzo a quei pungenti aghi per arrivare alla sommità da dove, secondo le guide, avremmo potuto osservare i camosci ed eventualmente anche l’orso marsicano. Il tragitto si protrasse per circa un’ora in quella pungente selva per arrivare sul dosso della montagna della Camosciara dove finalmente ci riposammo e facemmo colazione mentre le guide andavano più avanti a cercare di individuare il punto dove potere scorgere gli animali. Ritornarono dopo un po’ e ci guidarono sopra una cengia rocciosa da dove, in silenzio e accovacciati, potemmo scorgere un gruppo di camosci composti di un maschio con due belle corna, da una femmina e da un piccolo il quale stava brucando lentamente l’erba. Questa idilliaca visione rimase per un po’ di tempo nel nostro campo visivo ma poi, all’improvviso, il maschio alzò la testa fiutando l’aria quindi, guardando dalla nostra parte, rimase qualche secondo a osservare e a fiutare poi, con un balzo, seguito dagli altri due rapidamente, tutti e tre, scapparono correndo e saltando sulle rocce fino a che scomparvero dalla nostra vista. Rimanemmo ancora un po’ lì affascinati da quella vista poi lentamente ritornammo sui nostri passi e andammo a cercare di individuare un’eventuale presenza di orsi marsicani. Ma, pur se accompagnati dalle guide del parco, non fummo fortunati ma riuscimmo solamente a individuare, presso uno stagno, alcune orme di orso che secondo la spiegazione della guida era passato poco prima ad abbeverarsi. Riuscimmo pertanto a rilevare il calco dell’impronta con il gesso e fare ritorno quindi verso il campo nazionale dove arrivammo per pranzo e per poterci finalmente riposare dalla camminata e dalla levataccia che avevamo fatto quel mattino. Venne purtroppo il giorno della partenza (era il 25 luglio 1954) ma prima tutti gli scout si adunarono attorno all’altare per celebrare la messa di chiusura tenuta da “don Sergio Pignedoli”, il primo assistente Asci dopo la rinascita, che finì la sua omelia con la frase che mi rimase nella mente e che diceva “più sono lontane le tende e più sono vicini i cuori”. Il pomeriggio ci fu la cerimonia di chiusura con lo ammaina bandiera dai pennoni centrali, dove per otto giorni aveva garrito al vento assieme alle bandiere di Francia e Inghilterra e con il canto dell’addio fatto all’unisono dai 3500 scout che ancora oggi mi fanno rimbombare alto il canto nel mio cuore. Salutati i tanti amici, che avevamo incontrato in quei giorni, e caricate le nostre masserizie sul pullman, facemmo mestamente ritorno verso Roma, dove arrivammo a sera inoltrata e fummo ospitati per qualche giorno presso un seminario dalle parti della via Appia Antica dove, fatta una leggera cena, ci ritirammo immediatamente sulle nostre brande, dove potemmo riassaporare il gusto di dormire su dei veri materassi. I giorni seguenti furono dedicati alla visita della città di Roma dal Vaticano ai musei e alle catacombe e quelle giornate di visite cosi affascinanti, crearono in me il senso di un profondo desiderio di conoscere e di avventurarmi verso la scoperta di quelle che erano le millenarie Pagina | 135


civiltà che avevo appena potuto scoprire durante quel viaggio e che avrei avuto modo di approfondire molti anni dopo quando per lavoro mi sarei recato in giro per il mondo andando finalmente a trovare e vedere civiltà come quella egizia o quella cinese. L’ultimo giorno, rientrato da una di quelle visite, decisi, e non so ancora darmene spiegazione, di andare a trovare la zia suora che era in un convento sito al IV Miglio della via Appia Antica. L’indirizzo lo avevo avuto da mia madre la quale mi disse che se mi fosse successa qualche cosa durante il mio soggiorno romano, di rivolgermi a lei per aiuto. Partii subito dopo avere cenato e senza avvisare nessuno e, con una sola mappa della città di Roma in tasca, presi a camminare nella direzione che avevo individuato e verso la quale immaginavo, essere il convento della zia. Così piano, piano mi ritrovai ai bordi di una via non molto illuminata e a quel tempo poco trafficata. Dopo circa un’ora, quando il buio era ormai così fitto da permettermi appena di camminare senza cadere in qualche buca, sorpassai la chiesa del Domine Quo Vadis e procedetti senza indugio verso la mia meta, che non avevo chiaro quanto distasse, per trovarmi a un certo punto accanto all’ingresso delle catacombe di San Sebastiano e quindi dopo un altro po’ passare accanto al Mausoleo di Cecilia Metella dove finalmente vidi un bar aperto e m’infilai dentro per chiedere se la direzione era quella giusta. Il proprietario mi guardò meravigliato dal fatto che un ragazzo cosi giovane andasse da solo in giro per quella zona quindi, forse preoccupato per la mia giovane età, mi chiese cosa mi spingesse ad andare in giro la notte e dopo avere appreso le mie intenzioni, mi comunicò che sì, la direzione era quella giusta, ma che ci volesse ancora un po’ per trovare l’istituto religioso. Prima di lasciarmi andare, mi offrì da bere dell’acqua e dopo le spiegazioni del caso mi salutò dicendomi di fare attenzione quando fossi arrivato nei paraggi perché l’istituto che si trovava alla mia sinistra proseguendo, aveva un grande portone e un cartello indicante l’ordine delle suore. Lo salutai e lo ringraziai per le informazioni e per l’acqua offertami e uscii nuovamente nella buia via dove ripresi questa volta a camminare con più lena. Arrivai finalmente davanti al portone indicatomi, credo saranno state le ore ventitré, e suonai al campanello e attesi fintantoché una suora fece capolino dallo spioncino chiedendomi cosa volessi e quando dissi che ero lì per vedere mia zia suor Luigia questa mi aprì il cancello e mi fece accomodare nella sala di attesa dicendomi di aspettare che sarebbe andata a chiamare la zia. Passò un bel po’ di tempo prima che la zia arrivasse, accompagnata dalla madre superiora, e vedendomi, corse incontro me per abbracciarmi chiedendomi il perché della visita senza essere prima avvisata. Non avendo giustificazioni valide da darle se non la voglia di vederla, assieme alla madre superiora m’interrogò sulla locazione del mio gruppo scout e dove erano

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alloggiati e cosi, per fortuna ricordai il nome del seminario, dove eravamo stati ospiti e dove si trovava il mio gruppo. Vista l’ora, avevamo fatto quasi mezzanotte, la superiora decise che avrei dormito lì da loro e il mattino dopo avrebbe cercato di mettersi in contatto con il mio gruppo. Cosi mi assegnarono una stanza da letto. Dopo essermi lavato, mi sdraiai sul letto e caddi immediatamente in un sonno profondo e ristoratore dovuto alla lunga camminata fatta poco prima. Fui svegliato dalla zia suora, il mattino presto, la quale mi condusse in refettorio dove mi fece fare colazione e, mentre ero impegnato a mangiare, la superiora riuscì finalmente a entrare in contatto con i miei superiori e con don Pino il quale poté finalmente respirare e calmarsi per essere riuscito a trovarmi in quanto, dalla sera precedente, non avendomi più visto, aveva mobilitato tutto il seminario e anche le forze dell’ordine per denunciare la mia scomparsa. Così risolto il dramma, la superiora chiamò un taxi e dopo i saluti alla zia e la ramanzina della superiora, su quanto avevo combinato, anche lei mi baciò e messomi sul taxi, mi fece accompagnare fino al seminario sito sulla via Cristoforo Colombo, dove arrivai, un’ora dopo, accolto da tutti i miei amici e dai superiori con l’inevitabile richiamo di don Pino su quello che avevo appena combinato e su quello che poteva succedere se non mi avessero trovato. Ebbi appena il tempo di raccogliere le mie cose e, assieme a lui, correre al bus per recarci alla stazione ferroviaria dove ci aspettavano già gli altri scout per prendere il treno per fare ritorno a Monfalcone.

“Le navali” Finita l’avventura del Campo Nazionale in Val Fondillo e rientrati a casa, passai le giornate a raccontare ai miei genitori, a mia nonna e ai miei amici la bella esperienza passata in quella settimana, assieme a 3500 scout di tutta Italia. Raccontai loro della mia solitaria fuga in cerca della zia suora, con l’inevitabile ramanzina fattami, dai miei genitori, dopo che avevano saputo, da don Pino e da mia zia suora, della mia solitaria visita presso il convento di Roma. In seguito provai un senso di rifiuto nel proseguire a frequentare il gruppo scout, perciò un giorno mi recai dai miei capi e comunicai loro la mia decisione di abbandonare non senza avere, prima, riflettuto sul perché di quella scelta. Ma credo fosse venuto il momento per me di affrontare nuove scelte di vita anche perché avrei dovuto frequentare una scuola superiore e questo voleva dire un maggiore impegno nello studio. La cosa fu accettata dalla mia famiglia subito dopo che fu presa la decisione su quale istituto iscrivermi. La mia prima scelta cadde sull’Istituto Tecnico Volta di Trieste ma, dopo attenta valutazione, soprattutto in termini economici, andare a Trieste per cinque anni comportava una spesa che non poteva essere sostenuta dalla famiglia. Scegliemmo un istituto di Monfalcone, che era Pagina | 137


stato da poco istituito, ed era l’Istituto Tecnico Professionale Navale di durata triennale e si teneva presso la scuola Emilio Ceriani, dove peraltro avevo frequentato le scuole di avviamento professionale, per cui mi fu facile andare giornalmente a scuola. La scuola mi piacque subito perché erano trattati argomenti pratici legati alla costruzione delle navi, che erano il fulcro portante della nostra locale economia e dove quasi tutti i giovani trovavano lavoro nelle officine del Cantiere Navale Oscar Cosulich che in quel tempo si chiamava CRDA (cantieri riuniti dell’adriatico), e alcuni insegnanti erano tecnici che lavoravano al cantiere con un grosso bagaglio professionale che veniva a noi tramandato attraverso dispense, da loro prodotte, e che mi permisero l’acquisizione di una buona conoscenza tecnica sulle costruzioni navali.

Come dicevo la scuola navale era stata da poco istituita pertanto ci sentivamo una classe superiore e di elite nei confronti delle altre classi che frequentavano l’Istituto Professionale biennale e anche perché noi eravamo alloggiati in un’ala della scuola appena costruita per i nostri corsi e dove peraltro era stata ricavata, al primo piano, una sala tracciato dove eravamo addestrati alla tracciatura e allo sviluppo del fasciame della nave. La stanza, che era molto grande, era divisa in due parti, una serviva come aula con i tradizionali tavoli e sedie e l’altra, separata da questa con un muretto, era costituita da un grande pavimento di legno verniciato di bianco dove noi eseguivamo lo sviluppo del fasciame in scala uno: uno con tutti gli stessi attrezzi che erano usati nella sala tracciato del cantiere, ed era un bel fare formazione perché era fatta direttamente sul “campo”. L’aula era usata per la maggiore parte del tempo per la lettura dei disegni ma talvolta, per ragioni di orario, era utilizzata per alcune lezioni d’italiano che erano svolte da un professore siciliano il quale aveva un grosso difetto che era quello di fumare molte sigarette per cui, ogni tanto, si assentava per andare a farsi una sigaretta e poi scoprimmo che era molto superstizioso tanto che faceva tutto uno strano giro prima di salire sulla cattedra oppure attraversare la porta.

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Sta di fatto che decidemmo di fargli uno scherzo durante le ore di lezioni d’italiano che dovevano essere tenute quel giorno. Alle prime ore del mattino e prima della sua venuta preparammo una serie di croci con i gessetti e le sistemammo sopra la cattedra quindi tutta la classe che era composta di quindici alunni, corse a nascondersi dietro il muretto che divideva l’aula dalla sala tracciato e lì in silenzio sdraiati di là dal muretto aspettammo che lui entrasse in aula. Dopo poco entrò e non vedendo nessuno, si avvicinò alla cattedra, dove vide le croci, non vi dico cosa successe. Iniziò a gridare e spargere tutte le croci sul pavimento quindi, sempre imprecando, uscì dall’aula per andare a chiamare il Preside mentre noi riuscivamo a stento a non ridere perciò, appena se ne fu andato, uscimmo da quel nascondiglio e ci mettemmo tutti seduti al nostro posto ad aspettare il suo ritorno. Fece ritorno dopo pochi minuti, assieme al Preside, e appena entrato rimase di stucco vedendoci tutti quanti seduti ai nostri posti tanto da non sapere cosa dire al Preside che gli stava chiedendo del perché lo avesse fatto venire in aula quando tutti gli allievi erano al loro posto. Perciò, dopo avere salutato il professore, il Preside uscì dall’aula e noi rimanemmo con lo sconcertato professore il quale capì finalmente cosa era successo e allora, con molto stile si fece una risata e iniziò le lezioni come se niente fosse accaduto. Quel trimestre avemmo tutti un bel cinque in condotta! La scuola mi appassionava veramente perché le attività didattiche che erano svolte erano tutte connesse alla costruzione navale e, a parte l’italiano, avevamo lezioni d’inglese e di teoria della nave oltre che il disegno tecnico navale. Eseguivamo, su un grande foglio da due metri per uno; il disegno prospettico di una nave merci e quel disegno lo conservo ancora oggi. Impiegai quasi un anno per la sua realizzazione che era fatta per una parte a scuola e un’altra a casa, dove portavo il foglio e lo stendevo, dopo cena, sul tavolo con il piano di marmo e lì disegnavo per alcune ore fintantoché, vinto dal sonno, mi recavo nella mia camera a dormire. Un’altra attività che mi piaceva fare era lo sviluppo del fasciame nella nostra sala tracciato dove c’era assegnato un compito e noi lo realizzavamo tracciandolo sul pavimento bianco utilizzando centine flessibili e pesi di piombo per fermare, nelle giuste posizioni, in modo da dare forma alla lamiera del fasciame sviluppato. Infine c’era la parte pratica di falegnameria che era destinata alla costruzione di un’imbarcazione di legno da circa dieci metri, completa di cabina e albero maestro. Questa era sistemata all’interno dell’officina su apposite selle e, dove noi iniziammo a sistemare sulle costole, già poste, i corsi del fasciame di legno teak che erano prima immersi in un lungo recipiente dove era fatto passare del vapore acqueo per far sì che le tavole lì immerse divenissero più malleabili. In tale modo, una volta estratte, queste potevano essere adattate perfettamente alle curve che formavano il fasciame.

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Una volta poggiata e adattate, queste dovevano essere fissate con delle viti in ottone alle costole e sormontandone un lembo venire unite tra di loro. Questo era un procedimento che durava molto tempo e doveva essere fatto con maestria e sotto l’occhio vigile del professore che, provenendo dal mondo del lavoro, pretendeva, da noi poveri ragazzi alla prima esperienza di falegnameria, la massima precisione e rapidità poiché la tavola ancora calda del vapore doveva venire fissata prima che questa si raffreddasse. L’operazione più delicata però era la foratura delle tavole che comportava una precisione e una fermezza della mano notevole perché altrimenti si rischiava di spezzare la punta del trapano all’interno della tavola con l’inevitabile strigliata del professore sulla nostra inettitudine e sul fatto che si dovevano utilizzare troppe punte di trapano a scapito del budget che la scuola assegnava per la realizzazione dell’imbarcazione. Onestamente devo dire che quel mestiere del falegname non mi si addiceva molto, infatti, dopo avere rotto diverse punte, il professore decise di assegnarmi un altro incarico che era quello della tracciatura e sviluppo del fasciame con mio e suo compiacimento nel non rompere più le punte di trapano così preziose. Un’altra attività, che faceva parte del nostro insegnamento, era la fucina dove apprendevamo l’arte della forgiatura dei metalli e dove regnava incontrastato il “maestro della forgia” sempre vestito con una vestaglia nera. Aveva due grosse “manone” callose e maneggiava l’incudine e il martello come fosse il Dio Vulcano tanto che quando entravi nella grande fucina, lo trovavi già lì che, curvo sull’incudine, battendo con il suo martello, forgiava i metalli con un’abilità disarmante. Le prime lezioni, furono dedicate a usare le varie apparecchiature e attrezzature che andavano dal maglio pneumatico, che quando era in funzione faceva un rumore terrificante, alla forgia ventilata che quando era accesa emanava un nauseabondo odore di carbone coke per finire al forno dei trattamenti termici dove avevamo imparato a temperare gli acciai e altri strumenti. Per farci prendere maggiore confidenza ci mostrò la sua incredibile capacità e manualità trasformando un semplice pezzo di ferro, messo prima nella fucina a riscaldare sino a che non era diventato di colore bianco poi, con pochi semplici colpi di maglio, farlo appiattire e quindi con il martello e l’incudine, trasformarlo in una bellissima foglia che, dopo essere stata immersa nell’olio ancora calda e gettata nell’acqua, assumeva le sembianze di una Pagina | 140


vera foglia. Era in seguito arricchita con tralci di vite tanto da darle una nuova parvenza di una foglia vera. Ovviamente dopo toccò anche a noi provare a realizzare la foglia ma la cosa che più si avvicinò, a una parvenza di foglia, era una strana cosa piatta che sembrava più a un posacenere. Dopo reiterati suggerimenti e rimproveri riuscimmo a migliorare la nostra produzione artistica fino a riuscire a realizzare una cosa che aveva le sembianze di una foglia. Il ”sior maestro” era una persona di una bontà squisita ma ogni tanto, di fronte a quindici scatenati ragazzi che, ogni qualvolta usciva dalla fucina, si scatenavano nel fare delle”cazzate” tra le quali tirarsi l’acqua addosso o peggio inzupparsi di olio le mani e andare ad accarezzare il vicino il quale, ovviamente, ti ricambiava la carezza. Alla fine, quando rientrava e trovava tutto sottosopra, s’infuriava come una belva e allora erano dolori tanto che la cosa migliore, se riuscivi, era scappare fuori dalla fucina oppure nasconderti dietro il maglio perché, el “sior maestro”, perso il lume della ragione, iniziava a tirare in tutte le direzioni ogni cosa gli capitava per le mani. Potevano essere martelli, tenaglie e magari qualche pezzo di ferro ancora incandescente che tracciavano l’aria come meteore e andavano a colpire le pareti come colpi di fucilate. Per fortuna, sua e nostra, non ricordo che nessuno ne subì le conseguenze magari ricevendone qualche pezzo in testa. Questo suo carattere era principalmente dovuto al nostro comportamento che non era certo di allievo modello, ma, alla fine della scuola, riuscì non solo a plasmare il metallo ma anche il nostro carattere tanto che “el sior maestro” rimase per noi fonte di esperienza e amicizia fino alla sua morte. Veniva, infatti, da tutti gli ex allievi, ricordato come una persona ricca di capacità ma soprattutto di umanità e, ogni volta che t’incontrava per strada, anche dopo molti anni quando eri già grande, ti fermava e ti chiedeva come andava la tua vita e, facendoci assieme una risata, passavamo in rassegna tutte le meteore infuocate che egli aveva lanciato per la fucina ma che ci aveva, con quei lanci, fatti crescere e capire che la vita non è solo un gioco ma va affrontata seriamente cercando di apprendere quante più cose fosse possibile. Caro “sior maestro”, come aveva ragione, certo se fosse ancora, qui ora probabilmente dovrebbe accendere nuovamente la forgia e tirare le sue meteore infuocate a destra e a manca perché vedrebbe in quale caos, stiamo andando a parare e certamente direbbe che è l’ora di finire di fare “casino” e prendendo, con le sue grosse “manone” incallite, un bel martello lo darebbe sicuramente sulla testa vuota agli attuali politici che ci governano oggi. Perciò “sior maestro” stia là che sta sicuramente meglio che in questa Italia avviata al fallimento e all’arretratezza culturale e morale.

“Gita a Milano” Il secondo anno di scuola alle navali (1956) fu organizzata una gita scolastica a Milano e Torino, assieme a varie classi dell’Istituto Professionale “Emilio Ceriani” e, nonostante le difficoltà economiche della mia famiglia, riuscii ad aggregarmi alla comitiva che contava circa una quarantina di ragazzi e accompagnatori che viaggiavano su di un unico pullman. Pagina | 141


Partimmo presto in un mattino di aprile del 1956 ed era, per quasi tutti noi, un viaggio memorabile alla volta delle due città industriali più importanti del paese con alcune fermate intermedie. La prima fu Cittadella, in provincia di Padova, dove sostammo per una breve visita alla città e in particolare alle sue mura del 1200 per proseguire poi alla volta di Milano.

Fu la prima volta che vedemmo un’autostrada che era il tratto che andava da Mestre a Padova per proseguire fino a Milano e cosa ancora più strana fu vedere gli autogrill cui di tanto in tanto passavamo accanto e fu ancor più piacevole fermarsi, verso Brescia, a uno di questi e potere entrare e vedere tutte quel ben di dio che era lì esposto ma che, per quanto mi riguarda, potei usare solamente per il bagno e per farmi un bicchiere di acqua. Raggiungemmo nel tardo pomeriggio la città di Milano e fummo sistemati in un bell’hotel, non ricordo molto bene ma credo della catena degli Jolly hotel che si trovava abbastanza centrale. Prese le nostre valige entrammo in una grande sala di aspetto che al primo momento mi dette una sensazione di sgomento nel trovarmi, per la prima volta, all’interno di un albergo, per i miei standard di allora, così lussuoso. Dopo avere fatta la registrazione davanti a quell’imponente bancone di legno e rispondendo alle domande della signorina del ricevimento, tutta agghindata nella sua sfavillante divisa, mi sentii un miserabile verme che non sapeva rispondere alle sue semplici domande. Prendendo coraggio, riuscii ad avere la chiave della stanza e salii, assieme al compagno di classe che sarebbe stato sistemato nella mia stessa stanza. Accompagnati da un valletto che, con il moderno ascensore che stava vicino all’entrata raggiungemmo, dopo avere ancora attraversato un lungo corridoio ricoperto da un tappeto rosso, finalmente la nostra stanza dove il valletto depositò le nostre valige e ci mostrò la stanza e il bagno e gli interruttori principali. Poi fece l’atto di andarsene ma indugiò davanti alla porta per cui credemmo volesse darci la mano per salutarci. Cosi, io e il mio amico, andammo verso di lui e gli stringemmo la mano cosa che lasciò allibito il valletto e impettito se ne andò brontolando mi sembrava di avere capito “tirchi” ma riuscimmo a svelare l’arcano più tardi quando chiedemmo lumi ai professori i quali ci spiegarono che il ragazzo tendeva la mano per farsi elargire la mancia.

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Una volta soli nella stanza, che a me sembrava una reggia con quei due letti perfettamente rassettati e con le lenzuola bianche e profumate di bucato con i due comodini accanto con sopra un abajour di ottone e vetro bianco latte e con due bei tappeti scendiletto accanto ad ogni letto, ci sdraiammo immediatamente sopra per assaporarne l’odore e sentire la morbidezza del materasso. Rimanemmo così, completamente vestiti, per un paio di minuti quindi decidemmo di andare a esplorare il bagno per vedere, anche se era possibile fare una doccia. Entrò per primo il mio amico il quale uscì, dopo un po’, con una faccia pensierosa che mi fece capire che aveva qualche cosa da chiarire con me. Mi chiamò e mi disse di affacciarmi anch’io dentro il bagno dicendomi se sapevo a cosa servisse quel “coso” che stava accanto al water e che assomigliava a un lavandino perché aveva anch’esso due rubinetti per l’acqua calda e fredda, ma era troppo basso per potersi lavare la faccia. Iniziammo a fare delle elucubrazioni sul suo effettivo uso poi, dopo averne scartate alcune, decidemmo che quel sanitario servisse per lavarsi comodamente i piedi poiché aveva, accanto, anche uno sgabello bianco. Ciò dedotto, procedemmo con il farci la doccia. Rivestiti con la nostra migliore camicia con cravatta, giacca e pantaloni scendemmo nell’atrio, dove ci aspettavano tutti gli altri compagni di gita e anche i nostri professori con a capo il preside dell’istituto. Prima di andare a cena, visto come si comportavano i nostri insegnanti, raggiungemmo il bar per ordinare qualche cosa da bere non prima di avere letto la lista delle bevande e, visto i prezzi, scegliemmo la cosa che costava di meno e che era un bicchiere di acqua minerale con limone. Poi con fare molto distinto, sempre con il bicchiere in mano, gironzolare per il bar fintanto che ci imbattemmo nel nostro professore più simpatico al quale, con molto riguardo, ponemmo la fatidica domanda su che cosa serviva quel “coso” che si trovava nella nostra stanza da bagno e che a noi non serviva se non per lavarci i piedi per cui, quando lui si mise a ridere, rimanemmo a disagio fino a che ci spiegò che quel “coso” era il bidet e serviva per lavarsi le parti intime dopo avere utilizzato il water. Fu amore a prima vista perché salimmo immediatamente alla nostra stanza per procedere con gli esperimenti di uso dell’ormai svelato mistero di quel “coso” procedendo a turno con la prova sul campo dell’oggetto del mistero che era il bidet (scusate, ma noi a casa avevamo appena la tazza del water e il sedere si lavava solamente quando si faceva il bagno serale) quindi, soddisfatti delle prove, ritornammo al bar dove poco dopo ci recammo a cena nel ristorante dell’albergo. Fu emozionante entrare in quell’enorme sala tutta allestita per la cena con molti tavoli già occupati dai clienti che stavano consumando varie pietanze su tavoli preparati con tovaglie candide e inamidate sormontate da candelabri argentei e molte posate disposte secondo un ordine a me, in quel momento, sconosciuto per cui fummo accompagnati dal maitre ai nostri tavoli che erano composti di sei posti e ci sedemmo in attesa del servizio. Pagina | 143


Rimasi particolarmente turbato dalle posate poste accanto al piatto perché, mentre a casa avevi a disposizione al massimo tre posate, forchetta, cucchiaio e coltello, ora mi trovavo con davanti a me molte più posate poste in una sola posizione. C’erano, infatti, altrettante a sinistra e, per aumentare la confusione, c’erano anche due posate poste in alto davanti al piatto. La scelta della posata giusta iniziò a balenare nella mia mente ma fui subito rassicurato perché vedevo dipinto nella faccia dei commensali del mio stesso tavolo la mia stessa perplessità per cui non appena il primo piatto mi fu posto davanti attesi che la prima mossa la facesse qualcun altro ma, vedendo che nessuno voleva fare il primo passo, presi la prima forchetta che mi stava in destra e iniziai a mangiare la pietanza che mi era stata servita. Su di un piccolo piatto posto dì fronte a me c’erano due fette di prosciutto cotto, un pezzo di formaggio e tre grosse olive verdi che mi adocchiavano sfidandomi a prenderle per essere mangiate. Allora, senza indugio iniziai a tagliare le fette di prosciutto, non prima di avere osservato di sottecchi il comportamento dei vicini, quindi, con l’indifferenza di un esperto frequentatore di ristoranti, infilarmi il pezzo di prosciutto in bocca e mangiarlo con voracità poiché la fame aveva fatto capolino e il mio stomaco recriminava il cibo. Poi, ormai credendomi un esperto commensale, procedetti con il formaggio, per passare quindi alle tre impertinenti olive che mi stavano sfidando, rimaste per ultime pronte per essere mangiate. Diedi, perciò, un deciso colpo con la forchetta sull’oliva con l’intento di infilzarla e portarmela poi alla bocca ma l’intrigante oliva si mosse appena facendo sì che il mio colpo cadesse di sbieco facendo volare l’oliva lontano dal mio piatto per andare a finire vicino al commensale che stava accanto a me. Rimasi di stucco e, arrossendo, mi alzai andando a riprendermi la fuggitiva e, dopo averla pulita con il tovagliolo, infilarla nella forchetta e quindi mangiarmela tra lo stupore delle persone che mi stavano osservando. Riuscii a portare a termine la mia cena senza problemi, salvo verso la fine del pasto, quando fu servita la frutta, che in quel caso era una pera, e allora subentrò l’altro problema: la scelta delle posate giuste, che risolvetti dopo essermi guardato attorno ma, il problema si ripropose, quando dovetti passare al taglio della pera che per, evitare delle brutte figure come in precedenza con l’oliva, la presi con la mano e iniziai a sbocconcellarla, piano piano, assaporandone il gusto sino alla fine. Quindi, finita la cena, ci alzammo e andammo tutti assieme al bar dove, mentre i professori bevevano il caffè, noi ci facemmo l’ennesimo bicchiere di acqua gassata con limone. Il giorno seguente, con il pullman, andammo a visitare il Duomo dove salimmo su per le lunghe scale per arrivare prima sul meraviglioso tetto tutto circondato da guglie intarsiate e poi salire ancora più in alto fino a raggiungere la guglia della Madonnina. Fu uno degli spettacoli più belli che avessi visto in quel periodo perché, sino allora, al massimo riuscivi ad andare, quando facevi “scapola” (non andare a scuola), sulla rocca di Monfalcone. Poi, dopo la discesa e visitato il maestoso interno del Duomo, riprendere il pullman per recarci a vedere la Fiera di Milano, dove passammo un intero pomeriggio, attraverso tutti gli stand e osservando tutte le meravigliose cose esposte e facendo incetta di depliant tanto da ritornare la sera, al pullman, con un enorme pacco di colorati opuscoli, che badammo a impaccare con dello spago Pagina | 144


e, dopo averci posto sopra il proprio nome, sistemarli all’interno del bagagliaio dello stesso pullman. Quindi, lasciata Milano, proseguimmo per la nostra seguente destinazione che era il lago Maggiore dove soggiornammo, ad Arona, in un hotel lussuoso in riva al lago, proprio di fronte all’Isola Bella. Il giorno dopo andammo a visitare prima la grande statua di San Carlo Borromeo e potemmo anche salire all’interno per arrivare fino alla testa del santo che dominava dall’alto la città di Arona, poi scendemmo e ci imbarcammo su di un battello coperto che ci portò sino all’isola bella dove passammo il resto della giornata nella visita del meraviglioso parco e della villa stessa.

Rientrammo prima di cena quindi dopo avere fatto la doccia e usato anche il “coso” (bidet) e indossati gli abiti migliori che avevo portato con me che erano sostanzialmente il vestito (buono) grigio con la giacca a doppio petto con un bottone, un gilet blu scuro e camicia bianca con le balene di osso sul colletto (tendicollo) e una cravatta a righe, scendemmo al bar per procedere al solito rito del bicchiere di acqua minerale con limone, quale aperitivo. Mentre ero al bar, con alcuni amici, vidi entrare una famigliola composta di tre persone, padre, madre e figlia che parlavano una strana lingua, credo fosse olandese, e si avvicinarono al bancone del bar sistemandosi proprio accanto a me e, rivolgendosi a me nella loro lingua, mi dissero alcune cose, che non capii, ma che il barman tradusse per me dove mi si chiedeva da dove venivo e cosa facevamo lì all’albergo. Cosi, aiutato dal barman, spiegai quanto chiestomi e poi, mentre i due genitori si recarono al ristorante io, rimasi solo con la figlia che venni a sapere, si chiamava Susan e aveva diciannove anni ed erano di passaggio per poi proseguire verso la riviera ligure dove avrebbero passato le vacanze estive. Così parlando più a motti che comprendendoci con la lingua, la ragazza che era molto carina e molto disinvolta tanto da crearmi una certa soggezione, mi fece capire che mi avrebbe aspettato, dopo cena, nuovamente al bar. Era la prima volta che mi capitava di incontrare una bella straniera ed era la prima volta che una ragazza, più grande di me, mostrasse interesse nei miei confronti. Perciò, nella mia mente, Pagina | 145


si accavallava una serie d’interrogativi e di paure sul da farsi poiché il limite della lingua era un grosso ostacolo e la disinvoltura del rapporto mi rendeva ancora più guardingo nei suoi confronti perché, fino a poco prima, l’unico contatto con le ragazze era stato con le coetanee delle baracche di Wagna con le quali il rapporto era paritetico e le consideravo solo come dei compagni di gioco. Ora la cosa si faceva seria e, pur cercando di trovare soluzioni al mio malessere, non riuscivo a dare una risposta. Perciò non vi dico la cena, fu troppo lunga non finiva mai, ero impaziente di rivedere la bionda Susan che intravedevo laggiù, in fondo alla sala, mentre cenava ed era molto allegra con i suoi genitori mentre io fremevo nell’incertezza del momento in cui sarei stato nuovamente vicino a lei. Così, senza quasi avere mangiato, mi alzai e velocemente mi recai nella mia stanza per rinfrescarmi e lavarmi i denti, quindi scesi e, con molta disinvoltura (apparente), mi recai al bar e mi sedetti sullo sgabello del bancone dove, dandomi un certo contegno e con fare da uomo maturo ed esperto, ordinai un martini (era la mia prima volta che ne vedevo uno) che il barman mi appoggiò davanti chiedendomi se avessi bisogno di aiuto per tradurre quello che la bionda Susan avrebbe detto, poiché stava per raggiungermi. Rifiutai e andai incontro alla bionda olandese suggerendole di andare a sedere nei tavolini più appartati dove ordinai, anche per lei, un martini (con il costo dei due martini mi bruciai quasi tutti i soldi che i miei genitori mi avevano dato per la gita) e iniziammo il tentativo di conversazione che riuscì a farci sorridere e stare per un’oretta seduti lì come due innamorati, poi Susan mi afferrò per mano e m’invitò ad accompagnarla nella sua stanza che era situata al mio stesso piano. Pensavo che una volta saliti al piano mi salutasse e mi lasciasse andare alla mia stanza, ma non fu così. M’invitò a entrare nella sua camera e si sedette sul letto guardandomi senza dire una parola. Allora sopraggiunse, in me, il terrore perché non sapevo cosa fare e come procedere nei suoi confronti tanto più che un pensiero mi sorse nella mente ormai in tilt ed era “e se questa ragazza mi chiedesse dei soldi per andare a letto con lei come avrei fatto se non avevo un centesimo da buttare?” Così il tempo passò senza che io decidessi nel fare la prima mossa mentre lei lì, imbronciata sul letto, stava aspettando che mi facessi avanti e sicuramente voleva fare, all’amore. Passò qualche minuto quando a un tratto si alzò, aprì una porta comunicante e si affacciò all’interno parlando con i suoi genitori nella loro lingua con un tono che capii, era tutt’altro che amichevole e indicandomi con il dito mi disse qualche cosa e si rifugiò nella loro stanza lasciandomi lì come un perfetto idiota, in piedi. Poi, la porta si aprì nuovamente e il padre entrò e, afferrandomi per un braccio, mi scaraventò fuori dalla stanza gridandomi qualche parolaccia in olandese. Poi, sbattendomi la porta in faccia, mi lascio sull’uscio tremante di paura ma ancor più di rabbia per il mio stupido approccio nei confronti di quella bella ragazza olandese che mi ero lasciata sfuggire senza approfittare di quella sua offerta di sesso. Me ne andai sconsolato nella mia stanza lasciando la porta socchiusa in attesa di vedere se c’erano delle evoluzioni dopo quella sceneggiata. Così, dopo un po’ notai la bella Susan uscire Pagina | 146


dalla sua stanza e andare al bar per ritornare nella sua camera dopo poco assieme ad un mio professore il quale rimase nella sua stanza per una mezz’ora. Poi lei uscì e scese al bar ritornando con un altro professore che fece entrare nella sua stanza, allora capii che avevo avuto ragione nel pensare al denaro perché, la ragazza, era una prostituta. Quella certezza mi fu confermata più tardi quando, rinfrancato dalla confusione che mi si era creata nel mio cervello e sbollita la rabbia per la mia mancata prestazione, scesi a bermi un altro bicchiere d’acqua con limone e chiesi al barman lumi su quella ragazza. Egli mi confermò che era una prostituta che spesso passava da quell’albergo e s’intratteneva con i clienti e mi precisò che i due signori, che erano con lei, non erano i suoi genitori, bensì i suoi protettori. Quella notte dormii poco e male, ma poi riflettendo, mi consolai con la certezza di avere fatto bene, anche se per molto tempo dopo continuavo a vedere i meravigliosi capelli biondi e gli occhi azzurri della bella Susan. Credo che quella fosse stata una lezione di vita importante che mi permise di capire i miei sentimenti e soprattutto farmi avere la certezza che le mie sensazioni erano esatte e mi permettevano di comprendere velocemente le persone che avevo di fronte a me, fossero esse donne o uomini, e quest’aspetto me lo portai con me sempre nella vita e mi aiutò spesso a capire l’interlocutore e, con la sensazione che di volta in volta mi scaturiva, riuscii a superare molte difficili sfide e soprattutto mi permise di individuare le persone oneste sin dal primo incontro cosa che con il tempo definii “percezione sensitiva”. Il giorno seguente non rividi più la bella Susan e dopo colazione partimmo per Torino, dove arrivammo verso mezzogiorno. Sostammo in un hotel del centro, anche questo della catena Jolly, e dopo avere riposto le nostre valige, ci recammo, sempre con il pullman, a visitare il Museo Egizio. Quella visita, se pur fatta a soli diciassette anni, mi è rimasta sempre nel cuore e ha rinnovato, in me, l’ardore dell’esplorazione e dell’avventura che ho sempre coltivato segretamente ma che davanti a quelle sale colme di reperti egizi mi faceva sognare di essere lì in mezzo a loro. Quel pomeriggio, passato all’interno del museo, è stato l’avverarsi di un sogno che avevo potuto conoscere solo attraverso la lettura di libri sull’antico Egitto. Trenta anni dopo ho potuto realizzare il mio sogno egiziano andando per diversi anni a lavorare in Egitto dove ho avuto l’opportunità’ di girare attraverso il paese andando a visitare i più reconditi siti dell’antico Egitto dei faraoni rimanendo affascinato dalla grandezza delle cose da loro realizzate che ancora oggi sono lì a testimoniarne la bravura e la capacità costruttiva.

Finita la visita al Museo Egizio, il giorno seguente siamo stati ospiti del gruppo FIAT con la visita allo stabilimento del Lingotto, dove abbiamo potuto visitare tutta la linea di produzione, che in quell’anno era di moda, che era la prima FIAT 500, passando con il nostro pullman all’interno dello stabilimento partendo dalla stamperia metalli dove stazionavano delle Pagina | 147


immense presse idrauliche che schiacciavano le lamiere e formavano le varie parti componenti, la vettura. Proseguendo visitammo il settore delle lavorazioni meccaniche, dove giravano centinaia di torni e frese che sfornavano un’infinita quantità di semilavorati che venivano, sempre attraverso la catena di montaggio, assiemati fino a formare il motore. Trasportati da rotaie sopraelevate, passavano alla sala montaggio, dove venivano, assiemati sui telai delle macchine, che in precedenza erano passate alla sala verniciatura, quindi arrivavano al reparto finitura dove subivano l’ultimo ritocco prima di andare alla pista di collaudo, che si trovava sul tetto dello stabilimento.

Fummo quindi fatti salire su dei pulmini e portati sul tetto dello stabilimento, dove sorgeva la pista di collaudo delle autovetture, e lì iniziammo a fare una serie di giri su quel grande anello, dove accanto a noi sfrecciavano le nuove macchine appena costruite. Fu un’esperienza indimenticabile e, dopo il saluto postoci dalla direzione, lasciammo lo stabilimento con ancora stampate nella mente le spettacolari e impressionanti dimensioni di quell’enorme fabbrica di automobili che era la FIAT. Il giorno successivo terminò la nostra gita scolastica a Torino con il mesto ritorno alla nostra casa e alla realtà della nostra piccola ma bella Monfalcone.

“Giri in bicicletta” Il 1956 terminò con la fine del secondo anno delle “Navali” e fui promosso alla terza classe con una buona media e, visto che la frequentazione di quella scuola non prevedeva l’essere rimandati ma solo promossi o bocciati, mi permise così di essere completamente libero da impegni di studio e di dedicarmi al divertimento che per me, e i miei compagni di giochi, si trasformò in grandi giri con la bicicletta (usata), che mi era stata regalata dai miei ed era una vera rarità perché fatta di alluminio, con uno scambio campagnolo a cinque rapporti, ed era molto leggera il che era fondamentale per fare le gite domenicali in varie zone del Friuli.

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Si partiva, infatti, il mattino presto munito, di pantaloncini corti e maglietta con annodato sul retro l’impermeabile di plastica (era appena uscito) un berretto e un paio di occhiali e un panino fissato sul portapacchi che ognuno di noi aveva fissato dietro la sella e si procedeva senza una meta prefissata. Normalmente si raggiungeva la località di Pontebba o di Tolmezzo dove, trovato uno spiazzo erboso sotto qualche albero, ci si fermava a fare merenda poi, dopo avere riposato sdraiati sull’erba per una mezz’ora, s’inforcavano le nostre biciclette e si faceva ritorno, sempre in fila indiana per meglio ripararsi dal vento e dandosi dei cambi regolari, alle nostre case verso l’imbrunire. Certo in quel tempo era abbastanza facile girare in bicicletta perché di macchine ne passavano ben poche perciò era realmente un divertimento spostarsi anche solo per andare al mare a Sistiana oppure a Duino che poi era il nostro posto preferito.

A Duino c’era una spiaggia, dietro il castello dei Torre e Tasso che la sovrastava, dove il nostro gruppo, saremo stati forse una decina tra ragazzi e ragazze, si recava quasi giornalmente. Non era facile da raggiungerla se non scendendo, per un dirupo scosceso di una cinquantina di metri, dopo avere lasciato le nostre biciclette legate assieme attorno ad un albero, portando con noi solo l’asciugamano e la merenda con una bottiglia di acqua Alberani. Scendendo lentamente pietra, dopo pietra, aggrappandosi per i pochi cespugli che si trovavano sulla bianca roccia carsica, raggiungevamo la spiaggetta, dove c’eravamo solo noi ad avventurarci giù da quel dirupo e delle poche barche che allora veleggiavano per il mare Pagina | 149


solo alcune, si fermavano alla spiaggia. Così noi, novello Robinson Crusoe, stavamo tutto il giorno a nuotare oppure, come lucertole al sole o stesi come un branco di leoni marini si sonnecchiava, magari iniziando ad amoreggiare con le ragazze. Quelle che facevano parte del gruppo erano considerate più come amiche che come ragazze di approcci amorosi perciò, talvolta, ingaggiavamo le loro amiche per portarle con noi e dedicar loro le nostre attenzioni amorose. Lo stare tutto il giorno lì al mare, su quella deserta spiaggia di sassolini bianchi, ci faceva diventare sempre più robusti e abili nuotatori tanto che era per noi normale andare a nuotare, circumnavigando il promontorio del Castello di Duino, per arrivare sino alla Baia di Sistiana oppure quella di Duino e una volta, sempre a nuoto, arrivare sino alla Marina Vecia vicino al Porto Rosega di Monfalcone (saranno state due o tre miglia) e fare quindi ritorno alla spiaggia del castello. Altre volte ci s’immergeva, (la profondità era di circa 6 o 8 metri), per andare a raccogliere sul fondo le “cape tonde” (vongole) o i “pedoci” (mitili) e talvolta, qualcuno di noi aveva anche il fucile a elastico per la pesca subacquea. Nuotando sotto le pareti a strapiombo del castello si prendevano dei saraghi oppure dei calamari e allora, dopo avere acceso il fuoco, si mettevano a cucinare, sopra una lamiera che avevamo portato da casa, i pedoci e le cape oppure il pesce catturato e poi via a mangiarlo come fosse stato cucinato da un grande chef. L’anno prima avevamo organizzato, con altri due amici Elvio e Silvio, un giro in montagna con le nostre biciclette che durò una quindicina di giorni attraversando gli incontaminati scenari dolomitici che ci dovevano portare a Cortina, Dobbiaco, Bolzano, il lago di Garda, Verona, Venezia per un totale di circa 750 chilometri.

Preparammo con molta cura l’itinerario cercando di non particolarmente impegnative e dividemmo il percorso in tappe di chilometri per far sì che potessimo frequentemente fermarci per goderci il nostro tempo in completa libertà. Poi preparammo

affrontare delle salite circa cinquanta -settanta ammirare il panorama e le biciclette oliandole e Pagina | 150


sostituendo i cavi dei freni con degli altri più robusti, in considerazione delle lunghe discese che dovevamo affrontare. Per finire, montammo sul retro di ogni bicicletta un portapacchi, dove sistemammo a turno la tenda canadese da tre posti che avevo avuto in prestito dagli scout e il grosso e pesante sacco contenente i paletti per montare la tenda che, a differenza di quegli attuali, erano fatti di acciaio zincato e composti di diversi pezzi che venivano, prima di montare la tenda, inseriti uno sull’altro. Quindi, c’erano i picchetti anch’essi in ferro zincato e un mazzuolo di gomma che serviva per piantarli al suolo. Dividemmo il tutto in parti uguali e aggiungemmo, sempre sul portapacchi, anche il nostro zaino con gli indumenti personali. Poi, fermato il tutto con una corda elastica, salutati i genitori, iniziammo la nostra avventura ai primi raggi del sole mattutino di quel 18 luglio 1955 verso la nostra prima destinazione. Pedalavamo in scioltezza e tranquillità nella dolce brezza del mattino dandoci dei regolari cambi davanti per sobbarcarci l’onere di tagliare il vento a quelli che seguivano e cosi parlando del più e del meno con la spensieratezza dei nostri sedici anni si procedeva lentamente verso la nostra sospirata meta della giornata che doveva avvenire a Vittorio Veneto dopo circa 110 chilometri dalla nostra partenza e dopo circa 4 - 5 ore di pedalata. C’eravamo prefissati di fare circa una sessantina di chilometri il giorno, di media, considerando che buona parte del nostro viaggio avrebbe toccato località di montagna con diversi passi dolomitici quali la Sella di Fadalto, Cima Gogna, il Tre Croci e il Carbonin per poi scendere verso Bolzano e il lago di Garda. Pedalando allegramente arrivammo all’altezza di Mortegliano, sulla Strada Napoleonica, quando per uno scarto di Silvio, che mi seguiva, la sua ruota davanti andò a incastrarsi nel mio cambio Campagnolo, appena revisionato, che si ruppe bloccandomi la ruota posteriore e allora iniziarono i guai perché ci dovemmo fermare a lato della strada e dopo avere sbloccato la ruota di Silvio, che era incastrata nella mia, dovemmo provvedere lentamente a cercare di raddrizzare il mio cambio per far sì che potessi proseguire. Dopo molti tentativi riuscimmo a sbloccare in modo provvisorio il mio cambio, che rimase però pericolante, e ci permise di proseguire alla ricerca di un meccanico che fosse aperto dato che eravamo di sabato. Proseguimmo lentamente fino a Casarsa dove, posteggiate le bici dietro un filare di vigna proprio davanti alle caserme militari, andammo dal piantone che era fermo davanti all’ingresso, e chiedemmo informazioni su dove avremmo potuto trovare un meccanico per riparare la bicicletta. Ci informò che il meccanico si trovava in centro a Casarsa ma che avrebbe chiuso verso mezzogiorno per cui, poiché erano già le undici, avremmo dovuto fare in fretta a raggiungerlo prima della chiusura.

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Così decidemmo che dopo avere scaricato tutti i pesi che avevamo legato sul portapacchi posteriore di ogni bicicletta, io sarei rimasto a guardia delle nostre cose mentre Elvio e Silvio, portando per mano la mia bicicletta, avrebbero raggiunto il meccanico e sarebbero rientrati appena finito di riparare il cambio della bicicletta. Rimasi così in attesa, seduto al riparo del sole sotto la fresca ombra della vigna e dopo un po’ mi sdraiai e mi appisolai per un po’ ma il tempo passava e non vedevo ritornare gli amici per cui iniziai a preoccuparmi anche perché erano ormai le due del pomeriggio e loro erano via da più di due ore. Finalmente li vidi arrivare con la mia bicicletta per mano e mi raccontarono il lavoro che il meccanico aveva dovuto fare per riparare il cambio ma che non c’era stato verso di poterlo aggiustare così avevano preso la decisione di smontare totalmente il cambio fissando la catena. Dopo opportuna modifica di accorciamento, su un unico pignone dentato, era stato scelto quello intermedio, mi ritrovai con la mia bella bicicletta menomato dalla possibilità di cambiare proprio ora che avremmo iniziato ad affrontare le prime salite. Il tutto, però, ci costò la bellezza di 600 lire delle 5000 che ognuno di noi aveva portato con sé per tutto il viaggio così, si decise che la somma fosse divisa per tre e così fu. Sistemammo nuovamente le nostre cose sui portapacchi e, quando erano già le quindici, riprendemmo lentamente la via verso Vittorio Veneto, dove arrivammo verso le sei del pomeriggio e iniziammo a cercare un campeggio o un posto, dove potere piantare la tenda. Trovammo un piccolo campeggio, subito fuori la città di Vittorio Veneto, all’inizio della salita della Sella di Fadalto dove, accanto al laghetto di Santa Maria, c’era uno spazio dedicato al campeggio. Qui potemmo montare la nostra piccola tenda canadese quindi, dopo esserci lavati e cambiati ci recammo, a piedi, al bar che faceva parte del campeggio dove potemmo cenare a base di uova e patate fritte. Sostammo brevemente con l’oste che ci chiedeva da dove venivamo e qual era la nostra meta. Raggiungemmo nuovamente la nostra tenda dove, stesi sulla nostra coperta e chiacchierando per un po’, ci addormentammo stanchi di quella prima inaspettata giornata di fatica. Credo che quella fu una delle notti passate nel più profondo sonno vinto com’ero dalla stanchezza e immerso in quel silenzio della natura e dal profumo di erba e di lago che saliva dal basso tanto che, la mattina dopo, pur svegliandoci presto, il sole era appena sorto e si vedevano i primi raggi filtrare tra le cime delle montagne che circondavano il nostro campeggio. Andammo a lavarci alla fonte ghiacciata che scorreva lì accanto, smontammo la nostra tenda e caricammo il tutto sul portapacchi delle nostre biciclette modificando però il mio carico, poiché le salite stavano per iniziare e perché ormai ero senza cambio, per cui non avrei potuto ridurre lo sforzo cambiando pignone dentato, gli altri due amici si sobbarcarono un peso in più della tenda alleggerendo così, di fatto, il peso che avrei dovuto portare io da ora in avanti.

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Dopo una breve colazione a base di latte e un pezzo di pane, iniziammo la salita della Sella di Fadalto che raggiungemmo, con una certa fatica, dopo circa un’ora per poi lanciarci in discesa verso il lago di Santa Croce con la strada che lo costeggiava per un bel pezzo e poi lentamente procedere, con la strada in dolce salita, attraversando longarone per arrivare alla località Perarolo dove, appena girato a destra e passato il ponte sul fiume Piave, iniziava una strada in salita particolarmente impegnativa e da dove iniziarono le vere sfide con la mia handicappata bicicletta. Prima di iniziare a salire ci fermammo in un’osteria per bere un po’ di acqua e mangiarci un pezzo di pane che avevamo acquistato in un panificio appena sorpassato. Poi, saliti nuovamente in sella, iniziammo a pedalare con lena per raggiungere il paese di Calalzo e quindi Cima Gogna e raggiungere Auronzo la tappa che avevamo prefissato sin dal mattino. L’avvio su per quelle dure salite si dimostrò molto più faticoso del previsto tanto che, ed io in particolare che non potevo avvalermi del cambio alla bicicletta, riuscivo a procedere per circa un chilometro e poi esausto mi dovevo fermare a riprendere fiato e forza. Procedemmo così per parecchio tempo fintantoché, un ciclista di passaggio, vedendomi in piedi sui pedali a forzare e sudare come un matto, mosso a pietà si affiancò a me e spingendomi, seduto sulla sua bicicletta, mi accompagnò per l’ultimo tratto restante fin quasi all’ingresso di Pieve di Cadore dove, dopo un caloroso ringraziamento per l’aiuto che mi aveva dato, lo salutai e potei quindi procedere più speditamente poiché ora la strada si faceva più pianeggiante. Ci fermammo per pranzo (panino) a Pieve di Cadore dove, dopo esserci dissetati a una fonte, ci concedemmo il lusso di un caffè seduti al riparo del sole sotto l’ombrellone, colorato a strisce bianche e rosse, che stava proprio davanti al locale ed era frequentato da tanta bella gente che lì passava la villeggiatura agghindati nelle loro belle vesti stile tirolese. Fu un bel sogno stare lì in mezzo a loro ma fu breve perché era già l’ora di ripartire così, inforcate nuovamente le nostre biciclette ricominciammo a pedalare verso il paese di Auronzo che ormai si trovava a poco più di venti chilometri. Appena passata Cima Gogna, si aprì uno scenario meraviglioso con le cime delle dolomiti che si stagliavano alte nel cielo di un azzurro intenso dove rare nubi sonnecchiavano pigre nella sua vastità. A metà pomeriggio raggiungemmo felici, anche se molto stanchi, il lago di Auronzo, dove trovammo il campeggio che ci avrebbe ospitato per un paio di giorni per darci modo di recuperare le forze e poterci finalmente rinfrescare nelle acque fresche del lago dove si specchiavano le meravigliose cime che sovrastavano il nostro campeggio. Piantata la tenda, ancora sudati per la fatica, correre sino alla sponda del lago, che confinava con il campeggio, e lì senza esitare un attimo tuffarsi gridando e giocando come dei felici bambini in un catino di acqua prima del bagnetto.

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Passammo un’intera giornata ad Auronzo, dove ci riposammo e facemmo dei bagni al lago ma la cosa più bella era stare lì, al campeggio in riva al lago, a guardare le meravigliose montagne che lo circondavano e si riflettevano come fate incantate davanti ad uno specchio. La sera era piacevole passeggiare per il centro della cittadina di Auronzo e ammirare il via vai dei molti villeggianti, che io invidiavo per la loro possibilità di potere permettersi quella vacanza mentre io, con la mia famiglia, al massimo si poteva andare al mare alle “Giarrette”. Ciò nonostante ero conscio che un giorno anch’io mi sarei potuto permettere vacanze simili in montagna assieme alla mia futura famiglia, perciò mentre andavamo a piedi verso il centro, riflettevo su quello che sarebbe dovuta essere la mia futura esistenza ripromettendomi che un giorno sarei divenuto anch’io uno di loro. In quei giorni però il massimo che potevamo permetterci era una bibita al bar seduti come villeggianti in mezzo a quella folla festante e ben vestita che rideva e si divertiva mentre noi, seduti in disparte, osservavamo le famigliole che passeggiavano e si scambiavano saluti oppure si organizzavano per la gita dell’indomani magari in cima a qualche vetta del gruppo delle Marmarole che troneggiavano sul paese. L’indomani riprendemmo la via per il nostro giro che ci avrebbe dovuto portare sino a Dobbiaco per cui, svegliatici presto ai primi raggi del sole, e inforcate le nostre biciclette riprendemmo a pedalare per salire piano, piano nella fresca e tonica aria mattutina per portarci più avanti possibile prima che il caldo sole, che s’intravedeva tra le cime, spuntasse e ci assalisse con i suoi caldi raggi. Dopo una ventina di chilometri da Auronzo, mentre stavamo attraversando una fitta foresta di abeti e larici, si aprì una radura e da lì estasiati potemmo finalmente ammirare le mitiche e favolose Tre Cime di Lavaredo che in quel momento erano illuminate dal sole e si stavano accendendo di mille colori tanto da rimanere senza respiro per quella magnificenza che la natura ci offriva. Ci fermammo per un po’ ad ammirare quello che avevo sempre sognato di potere vedere e che in quel momento si stava avverando e lì come bambini imbambolati, davanti al presepe, fermi e in piedi in silenzio rimanemmo per parecchio tempo a contemplare quella indimenticabile e meravigliosa scena. tanto che, per molti anni, portai dentro di me quella visione e mi ripromisi, non appena mi fosse stato possibile, ritornarci magari recandomi ancora più vicino fino a toccarne le stupende rocce verticali che sembravano tre immensi campanili. Proseguimmo faticosamente sulla strada in salita che chilometro, dopo chilometro diveniva sempre più ardua e, fermandoci dopo ogni chilometro per riposare, raggiungemmo il bivio che da un lato portava al passo Tre Croci e dall’altro portava verso Misurina. Dopo avere fatto una breve sosta, ci consultammo e, poiché non erano ancora le dieci, decidemmo di proseguire fino al lago di Misurina dove, sistemate le bici accanto ad un bar, raggiungemmo il lago a piedi e li affittammo una barca per farci un giretto e goderci così meglio lo spettacolo delle cime che si riflettevano nelle azzurre acque del lago. Pagina | 154


Rimanemmo sdraiati sulla barca godendoci il calore del sole che era ormai alto nel cielo quindi sazi, di quella splendida visione, ritornammo alle nostre bici fermandoci prima al bar per mangiarci il solito panino con l’aranciata quindi rifocillati, rimontammo in sella alle nostre biciclette e ci avviammo ad affrontare la nuova impervia salita che portava al passo Tre Croci a metri 1809 sopra il livello del mare. La fatica ci stroncava le gambe ma, chilometro dopo chilometro, finalmente raggiungemmo il passo dove, spossati e ansanti dalla fatica, ci lasciammo cadere in uno spiazzo d’erba sul ciglio della strada e lì senza fiatare rimanemmo per alcuni minuti poi ripresici dalla fatica, ci recammo a una fonte a rinfrescarci, a comprare una cartolina del passo, compilarla e spedirla a casa a testimonianza dell’ardua ascesa appena compiuta. Riprese le nostre cavalcature (bici) ci gettammo giù a capofitto, per l’impegnativa discesa che dal passo portava ai 1200 metri di Cortina, scendendo a una folle velocità, sicuri dei nostri freni che avevamo, prima della nostra partenza da casa, maggiorato mettendoci dei cavetti di acciaio più grossi e dei pattini del freno più grandi, fatto sta che in un battibaleno ci trovammo all’ingresso della meravigliosa Cortina con le fantastiche ville adagiate tutt’attorno alle montagne e circondate dalle favolose vette delle Tofane, del Cristallo e del Faloria. Raggiungemmo il centro città, dove potemmo osservare tutta quella bella gente che passeggiava e sostava oziando nei vari bar sorseggiando delle bevande e al nostro passaggio fummo osservati come fossimo delle bestie rare visto il nostro abbigliamento, non certo di classe, e con le nostre biciclette piene di zaini e tende, ma noi, senza troppo badare a loro, ci fermammo a un bar. Poggiate le nostre biciclette, ci sedemmo a un tavolino tra la curiosità degli altri avventori e per fare vedere la nostra classe ordinammo una birra, pur sapendo che ci avrebbe sottratto buona parte del nostro budget di viaggio, ma tanta era la nostra voglia di sentirci come loro che sborsammo l’esosa cifra che c’era richiesta. Poi con la stessa indifferenza con la quale eravamo arrivati, rimontammo in sella e partimmo alla volta di Dobbiaco meta della nostra prossima sosta. Pagina | 155


Lasciata Cortina, ci avviammo per il passo di Cimabanche e da lì, passato il bivio del Carbonin, iniziammo la discesa verso Dobbiacco. Alcuni chilometri prima di entrare nel paese vedemmo, in un prato accanto alla strada, un fienile e decidemmo, all’istante, di andare a vedere se era aperto. Giacché, era possibile entrarci lo esplorammo con cautela e ritenendolo adatto a riparo per la notte, poiché quasi pieno di fieno, infilammo le biciclette al suo interno. Sistemate le nostre coperte sul fieno, andammo a piedi lì vicino, dove passava il torrente Rienz per lavarci nelle impetuose e gelide acque, poi lentamente risalire e andare a stenderci sui nostri giacigli improvvisati all’interno del fienile dove, dopo avere sgranocchiato l’ultimo tozzo di pane, senza molte chiacchiere cadere letteralmente in braccio a Morfeo e sprofondare in un pesante sonno ristoratore che, grazie anche al tepore del fieno, ci permise di riposare fino a tarda mattinata quando fummo svegliati dal contadino che, aprendo la porta del fienile, vide quei tre poveri esseri sdraiati sopra il suo fieno.

Al rumore dell’apertura della porta del fienile ci svegliammo di soprassalto e impauriti, vedendo sopra dì noi la figura del contadino, stavamo per scappare quando, però capimmo che l’uomo non era “incazzato” con noi per l’intrusione ma ci accolse con simpatia e dopo averci lasciato il tempo per recuperare dallo spavento ci chiese da dove venivamo e dove eravamo diretti. Viste le nostre condizioni e mosso da pietà ci invitò nel suo maso, che si trovava poco distante dal fienile, e fattici entrare nella sua stube ci portò del latte caldo, del pane nero e del burro e ci lasciò fare colazione guardandoci pietosamente mentre noi, affamati, stavamo divorando quel meraviglioso nettare che ci aveva offerto poi, dopo averci chiesto del nostro viaggio, ci lasciò per proseguire la nostra avventura verso Brunico e Bolzano dove arrivammo tardi, la sera, e soggiornammo in un campeggio che trovammo lungo la strada. Rimanemmo, a Bolzano, un giorno il tempo per visitare la città e per riprenderci dalle tappe alpine appena passate poi, il giorno successivo, riprendemmo il nostro viaggio attraverso la bella e lussureggiante vallata attraversata dal fiume Adige con le colline, tutt’attorno, piene di vigneti. Arrivammo prima a Trento e poi proseguendo abbiamo attraversata Rovereto,

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raggiungemmo quindi la meta della nostra tappa fissata, per quel giorno, che era Riva del Garda dove piantammo la nostra tenda, in un bel campeggio, in riva al lago stesso. Il mattino successivo, dopo avere fatto colazione al bar del campeggio, ci recammo alla spiaggia sita accanto allo stesso e lì passammo la nostra giornata in maniera spensierata godendoci il sole e facendo il bagno fino al tardo pomeriggio. Rientrando verso la tenda, io incontrai una ragazza con la quale iniziammo a cercare di farci capire poiché lei era francese ed io conoscevo sole poche parole di quella lingua che avevo studiato per un anno a scuola. Così proseguendo verso la nostra tenda lei mi salutò facendomi capire che sarebbe ritornata più tardi per approfondire la nostra conoscenza. Dopo esserci rinfrescati alle docce del campeggio e indossati i nostri migliori vestiti (pantaloncini e maglietta un po’ più pulita delle altre), ci sedemmo davanti alla nostra tenda ad aspettare la ragazza francese, della quale avevo informato i miei amici, che dopo un po’ arrivò accompagnata da due altre amiche. Fatte le presentazioni, lei si chiamava Chantal, con le difficoltà dovute alla lingua francese, riuscimmo a capire che provenivano in autostop da Annecy, dalla regione dell’Alta Savoia a sud di Ginevra, ed erano dirette in Toscana per passare le vacanze in qualche campeggio vicino alla spiaggia di Viareggio. Erano lì già da diversi giorni e dovevano ripartire all’indomani così, pur tra mille difficoltà di comprensione, le convincemmo ad andare prima a cenare in qualche locale economico del posto e poi andare a trovare un luogo dove passare la serata a ballare. Prese le ragazze sottobraccio, in precedenza ognuno di noi aveva già individuato quale scegliere, ovviamente io presi quella che per primo avevo conosciuto e che mi era piaciuta per la sua spontanea allegria e perché era anche una bella ragazza, alta, bionda e disinvolta. Così allegramente più a gesti che a parole, ci avviammo verso il centro del paese dove trovammo un posto che ci sembrò adatto alle nostre tasche e a quanto sembrava anche adatto alle tasche delle nostre amiche. Poi seduti al tavolo, ordinammo una pasta al pomodoro e una birra che mangiammo con gusto e con buon appetito poi, pagato il conto “alla romana”, ci avviammo alla ricerca di un posto, dove potere ballare e, trovatolo, ci gettammo nelle danze avvinghiati alle nostre belle francesine. Rimanemmo a ballare più che a parlare ma la cosa fu piacevole tanto che dopo la prima ora di musica eravamo strettamente abbracciati in mezzo alla pista e guancia, a guancia iniziammo ad amoreggiare e a baciarci ignari delle altre coppie che ballavano accanto a noi. Poi stanchi e inebriati di amore, ancora abbracciati, salutammo gli amici, che avevano anche loro altro cui pensare, e ci dirigemmo sulla spiaggia del campeggio dove ci abbandonammo alle più dolci carezze e baci ma che non poté andare oltre in quanto, la mia giovane amica francese, non voleva perdere la sua verginità. Così continuammo con le carezze e i baci anche intimi, ma il tutto, dopo qualche ora, ci costrinse a considerare l’opportunità’ di lasciarci e ritornare alle nostre tende dove, dopo gli ultimi abbracci di commiato, raggiunsi i miei amici che stavano già dormendo. Al mio arrivo, si Pagina | 157


svegliarono chiedendomi su com’era andata e, quando sentirono la mia delusione di non avere consumato un rapporto con la mia amica, mi confessarono che la stessa cosa era successa anche a loro. Così con il pensiero di quella notte passata con la mia francesina, mi addormentai sognando il suo bel visino gioioso. Ci svegliammo tardi il mattino dopo e, usciti, scoprimmo che la tenda delle francesi non c’era più perciò mestamente anche noi smontammo la nostra tenda e ripartimmo in bicicletta alla volta della nostra penultima tappa che fu Padova. Quel giorno passò trovandoci spesso a pedalare in silenzio perché avevamo ancora davanti a noi il volto delle nostre amiche e sentivamo, struggente, la loro mancanza così ci trovammo vicini a Padova che era già pomeriggio inoltrato. Dopo avere trovato un campeggio dove passare la notte e dopo esserci fatto un panino, ci ritirammo nella nostra tenda, dove finalmente riuscimmo a raccontarci tutta la travolgente notte precedente passata con le francesi. Ognuno di noi descrisse le avventure passate con le amiche ma che, come nel mio caso, si finì con un nulla di fatto in termini di rapporti intimi definendo la nostra esperienza “la serata del bianco”. Da Padova, al mattino successivo, ripartimmo alla volta di Monfalcone, distante circa 150 chilometri, e che raggiungemmo verso il pomeriggio. Entrammo nella nostra via delle baracche di Wagna accolti, dagli amici e dalle famiglie, come degli eroi. Dopo gli abbracci dei parenti e la preoccupazione che traspariva dai loro occhi nel vederci ridotti come negri, tanto eravamo scuri e abbronzati dalle lunghe giornate passate a pedalare al sole, e dal fatto che eravamo dimagriti a dismisura per il poco cibo che avevamo potuto mangiare così, dopo la foto di rito, ognuno di noi raggiunse la propria abitazione dove, dopo un salutare bagno, la nonna, viste le mie condizioni di magrezza, si prodigò immediatamente a preparare il brodetto con la solita polenta che divorai con la velocità e l’ingordigia di un affamato appena uscito dai campi di concentramento.

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Fu quella una vera esperienza di vita, la prima lontano di casa ad arrangiarmi nel gestire la mia giornata e le belle esperienze di vita nell’avere attraversato dei posti meravigliosi, di avere visto delle stupende montagne e degli scenari unici che solo attraverso il lento andare in bicicletta mi ha permesso di apprezzare e di immagazzinare nella mia memoria. Molti anni dopo, mi avrebbero permesso di riscoprire andandoci, nuovamente, con la mia famiglia a soggiornare. Inoltre quell’esperienza di vita mi ha permesso di avere un primo approccio con il mondo femminile di un altro paese riuscendo a carpire i segreti della loro mentalità e la filosofia di vita di quelle stupende ragazze che, pur accettando di passare con me la serata nella più completa intimità hanno salvaguardato la loro idea di rimanere illibate fintantoché non avrebbero trovato l’uomo con cui passare il resto della loro vita.

“Complessino musicale” Prima di riprendere la scuola, poiché il mio amico Elvio aveva comprato una chitarra e aveva iniziato a studiare musica con un maestro, comprai anch’io un contrabbasso e quindi andai a prendere alcune lezioni dal maestro Versegnassi, lo stesso che mi aveva avviato all’uso del basso tuba alla banda. Così dopo alcuni mesi incominciammo a provare a suonare qualche brano di musica rock, io con il mio contrabbasso il mio amico con la chitarra e un altro amico con il bongo (tamburello) e piano, piano incominciammo ad apprezzare la musica, o almeno quello che a noi sembrava potesse essere musica, quindi, rinchiusi nel garage del mio amico Elvio, incominciammo a comporre e suonare per intero qualche brano popolare di quegli anni.

Poi man mano che il nostro affiatamento si faceva più preciso, iniziammo a provare a suonare in qualche teatrino parrocchiale o ricreativo, cosi s’instaurò un giro di amici cui piaceva la musica e formare un gruppo più numeroso di suonatori. Così, a un certo punto, passato l’inverno a provare, cambiammo alcuni elementi trovando un amico che aveva comprato una batteria nuova ed era ben dotato sul piano musicale e, con l’aiuto di suo padre che suonava il trombone a tiro, formammo un quartetto composto dalla chitarra, dal contrabbasso, dalla batteria e dal trombone e dopo avere provato alcune volte brani di musica da ballo (valzer e Pagina | 159


tanghi e qualche rock) andammo a cercare qualche posto dove iniziare la nostra carriera di musicisti. La nostra prima uscita pubblica la facemmo durante una sagra paesana, il lunedì di Pasqua del 1956, a Marcotini (vicino a Doberdò del lago), dove su di un palco improvvisato facemmo sfoggio del nostro repertorio, che per la verità era molto limitato, ma ripetendo a intervalli la stessa musica riuscimmo a portare a termine la nostra esibizione, anche se in alcune occasioni, ci trovammo a suonare contemporaneamente differenti melodie per cui il trombone suonava una cosa e noi un’altra. Per nostra fortuna i ballerini, vuoi per le abbondanti libagioni e per le notevoli quantità di vino bevuto, non si accorsero di nulla e continuarono a ballare sino a tarda sera quella che ben poco sapeva di musica ma che era comunque allegra e rumorosa. Ci congedammo dalla festa, dopo avere ricevuto come convenuto le nostre prime “mille lire” ciascuno e caricati i nostri strumenti sul camioncino, messoci a disposizione dal gestore della festa, ritornammo felici alle nostre case, dove potemmo finalmente fare la nostra prima valutazione di quell’esperienza. Ci ripromettemmo di organizzarci al meglio preparando un repertorio con maggiori brani musicali e ricercando, per prima cosa, alcuni musicisti di comprovata esperienza che potessero portarci una nuova capacità professionale per affrontare uno scenario musicale della nostra regione. Dopo avere ricercato e preso contatto con diversi musicisti trovammo, a Gorizia, finalmente uno disponibile a suonare con noi che era un professionista già conosciuto a livello regionale e che decise, prima di accettare, di provare alcuni pezzi con noi. Così organizzammo una sera, nel garage del mio amico, quegli arrivò, con la sua FIAT Topolino, con gli strumenti che erano una fisarmonica (una meravigliosa “Soprani”) e, un Vibrafono con il quale ci inebriò con la sua musica che, a quell’epoca era dedicata ad Art van Damme (meraviglioso suonatore jazz di fisarmonica) e a Lionel Hampton, e trovandoci in sintonia con lui, pur conscio delle nostre limitate capacità ed esperienza musicale, decidemmo di andare a offrirci a qualche proprietario di sale da ballo.

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Avemmo subito fortuna perché trovammo, nell’allora sala da ballo dell’albergo Roma di Monfalcone, una delle sale più importanti della regione, la disponibilità del proprietario a offrirci un contratto per suonare, tutti i fine settimana e per sei mesi, al the danzante e al ballo serale in quanto, proprio in quel periodo, la band che là suonava se ne era andata. Così spostammo i nostri strumenti nella sala e, per una settimana, andammo ogni sera a provare tanto da mettere insieme un discreto numero di brani musicali che spaziavano dal rock, jazz ai lenti al valzer e ai tanghi e beguine.

Finalmente venne il gran giorno e il sabato alle sedici iniziò la nostra esibizione con il nostro primo the danzante, vestiti con l’abito scuro la camicia rigorosamente bianca e un papillon nero. Sistemati i nostri strumenti sul palco, iniziammo a suonare, dapprima molto impacciati ma con il passare del tempo, vista anche l’approvazione del pubblico che di tanto in tanto ci batteva le mani, prendemmo coraggio e maggiore confidenza tanto che, alla fine del pomeriggio, quando la sala fu chiusa in attesa della riapertura delle ore ventuno per la serata danzante, rimanemmo ancora lì a suonare. Smettemmo con la musica leggera per dare invece spazio all’improvvisazione con musica jazz, con brani di Art van Damme e Lionel Hampton, che si protrassero fin quasi alle venti dove ci prendemmo una breve pausa per andare a mangiare un panino al bar accanto all’albergo. Riprendemmo la serata danzante con il nostro migliore repertorio anche perché la sera, era noto che il pubblico era più esigente per cui credo che quella nostra prima serata fosse da parte nostra, ma soprattutto da parte del nostro bravissimo fisarmonicista e vibrafonista, una prestazione veramente a un buon livello tanto che numerose furono le dimostrazioni di plauso nei nostri confronti che ci confortarono nel proseguire nella ricerca di brani sempre più attuali e moderni. Certo che ripensandoci oggi mi viene il dubbio che la nostra sfacciataggine nell’avere affrontato quella sfida avesse un che di follia perché la nostra preparazione musicale era piuttosto limitata ma, con l’appoggio del nostro nuovo e bravo maestro, la nostra disinvoltura divenne, di settimana in settimana, sempre più evidente tanto che già dopo le prime settimane Pagina | 161


potevamo contare su un buon numero di fans che venivano sotto il palco a chiederci di suonare le canzoni che al momento erano di moda. Devo dire che quella prima esperienza mi ha aiutato molto negli anni successivi ad affrontare situazioni più o meno imbarazzanti e inoltre mi ha permesso di conoscere il pubblico riuscendo, di volta in volta, ad assecondarlo oppure modificandone le richieste in funzione della nostra possibilità di risposta in termini musicali. Così che, a un certo punto, la confidenza con vari gruppi di giovani che frequentavano il tè danzante ci permise di allearsi un discreto numero di frequentatori che divennero dei veri fans e ci supportavano continuamente nelle nostre esibizioni ed erano normalmente quelli che si fermavano, alla fine del tè danzante, per ascoltarci a suonare della musica jazz di cui noi eravamo innamorati. Dopo un certo periodo di tè e serate danzanti, durante le quali molte volte io scendevo a ballare con qualche bella ragazza, fui avvicinato da un gruppetto di giovani della mia età che mi chiesero se potevo dare loro la chiave della saletta, dove noi riponevamo i nostri strumenti quando finivamo di suonare, durante le nostre esibizioni per ritirarsi ad amoreggiare con le loro amichette e in cambio ci avrebbero sostenuto e pubblicizzato, all’esterno, la nostra bravura musicale. Tanto fecero che mi convinsero a dare loro la chiave e così, dall’alto del palco, potevo assistere alle varie scene di approccio e convincimento degli stessi nei confronti delle loro ragazze quindi lentamente scivolare, confortati dalle luci soffuse della sala da ballo, nella saletta riservata e uscirne fuori, dopo diverso tempo, tutti arruffati e arrossati dai baci e abbracci che sicuramente si erano consumati nel suo interno. Quindi, con l’ok del pollice all’insù mi segnalavano la buona riuscita della seduta oppure, ed erano più quelle le volte che il pollice scendeva verso il basso, mi segnalavano il fallimento dell’impresa. Dopo un po’, vedevi la ragazza che se ne andava frettolosamente e il giovane rimanere deluso seduto sulla sedia dandosi un contegno per non fare apparire la delusione di quella mancata conquista amorosa. Fu quel periodo un’esperienza sicuramente positiva e spensierata che mi permise di arrotondare le misere finanze personali senza dovere ricorrere agli aiuti familiari tanto più che riuscimmo a fare anche alcune serate, al di fuori dell’albergo Roma, che mi permisero di acquistare finalmente quello che era il mio sogno cioè avere una chitarra basso. Questa fu acquistata al negozio di Policardi che era l’unico in città che tenesse degli strumenti musicali ed era gestito da un proprietario giovane e molto disponibile ad aiutare quelli che, come me, si avviavano verso la musica. Per questo, un giorno, mi recai da lui e mi mostro alcune chitarre basso ma la mia scelta fu su una Hofner che avevo visto suonare a “Paul mac Cartney dei Beatles” in vari concerti.

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La spesa era sicuramente alta per cui decisi di dare un anticipo e quindi di pagare, il rimanente, a rate tali da permettermi di avere ancora con che vivere durante la settimana ma, con quello strumento, riuscii meglio a esprimermi con la musica. Aiutato anche dal mio primo amplificatore da 100 watt, che mi permise una volta finita l’esperienza con i tè danzanti e le serate musicali all’albergo Roma di inserirmi con un nuovo gruppo musicale che stava nascendo a Ronchi dei Legionari con i quali iniziammo a provare in un magazzino, messo a disposizione da “Bruno” batterista del gruppo che era anche proprietario di un negozio di salotti. Così assieme ad altri quattro scatenati amici due chitarre e canto, un pianoforte e un sax formavamo un sestetto che piano, piano si affiatò tanto da riuscire a offrirci, sul fiorente mercato della musica da ballo, in diversi luoghi tra cui il locale per eccellenza dei tempi che era l’Arenella di Fiumicello (ospitò tra’ gli altri Mike Buongiorno e Pippo Baudo) in provincia di Gorizia dove suonammo per alcuni periodi. Trasferendoci poi al Fungo di Lignano Sabbiadoro e per molti mesi a Grado, presso la sala in un hotel che era ritenuto un punto molto importante per la musica da ballo di allora, e con la nostra musica, molto rock, con brani dei Beatles e di altri compositori, riuscimmo a farci conoscere nel giro ma rimanendo, però, sempre più legati a suonare per nostro divertimento che per un reale desiderio di sfondare a livello musicale.

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Continuai a suonare con lo stesso complessino fino agli anni ‘61 (l’anno successivo la morte di mio padre e l’incontro con la mia futura moglie avvenuta nel Capodanno del 1960 a un veglione in un locale di Sagrado), quando pure durante un capodanno in un locale di Latisana, accompagnato dall’allora fidanzata, allo scoccare della mezzanotte mentre stavo suonando, mi avvicinai alla mia fidanzata, che era seduta al tavolo a noi riservato accanto al palco, per darle il bacio di Buon Anno. Chinatomi, mentre la stavo baciando una scossa elettrica, si trasmise tra me e lei lasciandoci per un momento senza fiato, e credendo che quello fosse un bacio appassionatamente elettrizzante. Come scoprii più tardi, era solamente un difetto della mia chitarra basso Hofner che aveva un filo elettrico a massa. Riavuti dalla scossa, brindammo assieme alle altre fidanzate degli altri elementi il nostro gruppo e quindi finimmo la nostra serata musicale (che si terminò al mattino presto) quando, finito il ballo e ricevuti i nostri soldi, salimmo in macchina (era una seicento multipla) del Bruno batterista e stanchi ma felici ritornammo alle nostre case. Quella fu la mia ultima partecipazione con lo stesso complesso musicale perché, dopo quel concerto decidemmo di sciogliere la nostra compagine e di dedicarci di più alle nostre fidanzate.

“1957 Cantiere Navale CRDA” Il 1957 si terminò con la fine della scuola navale e, dopo avere superato brillantemente l’esame finale, a settembre di quell’anno fui assunto dal cantiere navale, cosa che all’epoca era l’unico sbocco naturale per quasi tutti noi giovani di Monfalcone. Con la felicità dei miei genitori che vedevano finalmente realizzati i loro sogni di avere un figlio a lavorare in cantiere, con una borsa di studio per un anno a 17.000 lire il mese (in quel periodo un operaio guadagnava mediamente 45.000 lire il mese) dove fui inserito, assieme ad altri compagni di scuola delle “navali”, in sala tracciato dove rimasi per circa sei mesi, per poi essere mandato prima a bordo delle navi in costruzione in scalo e quindi in officina salderia, dove si costruivano i blocchi prefabbricati delle navi. Il fatto di girare nelle diverse aree era il modo che il cantiere navale usava per fare acquisire maggiori esperienze in tutti i settori produttivi aziendali così, il primo anno, passò velocemente osservando varie lavorazioni e soprattutto conoscendo una moltitudine di persone, giovani e vecchi, che sempre, e devo onestamente ammetterlo, mi hanno sempre sostenuto aiutandomi a inserirmi nel loro gruppo e comunicandomi tutte le informazioni necessarie per lo sviluppo futuro del mio lavoro.

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Tra le varie posizioni girate quella che più mi piaceva era il lavoro di sala tracciato dove, in quell’immensa area con il pavimento pitturato di bianco e ricoperto da milioni di righe diritte o curve con colori diversi, fui assegnato a un primo operaio che era addetto alla rilevazione dei “quadrelli”. Questi erano delle lunghe aste di legno (dai quattro ai sei metri) dove erano riportate tutte le misure di strutture o di lamiere, che servivano poi all’officina, tracciatori per riportare quelle misure sulle lamiere che erano in seguito tagliate, oppure determinavano i punti, dove sistemare le varie strutture (le costole o i longheroni ecc). Pertanto assieme al mio “mistro” ogni giorno prendevo dei nuovi quadrelli ancora intonsi e ponendoli sul bianco pavimento della sala tracciato, dove la nave era sviluppata in grandezza uno a uno, rilevavo i vari corsi del fasciame oppure le parti degli elementi che dovevano essere riportate sulle lamiere in officina. All’inizio quel lavoro fu un po’ traumatizzante perché, per un neo-assunto come me, non era facile individuare e districarsi in quella fitta ragnatela di linee colorate e soprattutto perché si doveva stare per parecchio tempo inginocchiato e curvo sul tavolato della sala. Tanto che dopo un po’ ti sentivi tutto indolenzito e dovevi alzarti per stirarti gli arti e la schiena perciò non vedevi l’ora che venisse mezzogiorno per andare alla mensa a mangiare e quindi velocemente ritornare per andare a sdraiarti in qualche angolo della sala, magari dietro a delle seste di legno che si stavano preparando per essere inviate all’officina presse per formare qualche struttura particolarmente complessa (vedi il bulbo della carena di prua o la cuffia di poppa, ecc), e li schiacciare un pisolino per riposare prima di riprendere il lavoro. Talvolta succedeva che due strani personaggi, un falegname e un tracciatore, per problemi di carattere personale ma molto più probabilmente d’incompatibilità di carattere, venissero in diverbio tra di loro. Allora il capo reparto usciva velocemente dal suo ufficio e ci faceva uscire immediatamente dalla sala e ripararci dietro le varie seste oppure dietro i banchi dove erano preparati i quadrelli. La prima volta non riuscivo a capirne il motivo ma compresi immediatamente cosa voleva dire il capo, infatti, dopo le prime schermaglie orali dove erano evocati tutti i Santi e i parenti più stretti dei due contendenti, gli stessi si disponevano in due differenti zone della sala tracciato e impugnando le prime cose che capitavano loro per le mani, iniziavano a tirarsele addosso. Così vedevi martelli da falegname che volteggiavano per la sala piombando vicino al tracciatore il quale scansava l’oggetto e rispondeva Pagina | 165


immediatamente tirando un peso di ferro di qualche chilo, che serviva per fermare le “cantinelle” (aste di legno flessibili), alla volta del falegname e si continuava così fino a che i due esausti si ritiravano, ognuno nel proprio posto di lavoro e allora, dopo il cessato allarme, il capo ci invitava a ritornare al lavoro come se niente fosse accaduto. Quella scena si ripeteva periodicamente ma non ho mai capito il perché nessuno fosse intervenuto per sedare gli animi ma soprattutto per risolvere definitivamente la questione ma, con il passare del tempo, credo di averne individuato il perché. I due erano per prima cosa dei raccomandati ad alto livello e seconda cosa, molto più importante, era che erano ambedue dei bravi operai con del reale talento e questo, di là del loro particolare carattere, permetteva all’azienda di avvalersi di due professionisti nel loro campo perciò anche se di tanto in tanto con l’uscita del capo sala al grido “via tutti” il lavoro, si doveva interrompere il risultato era che la sala tracciato funzionava veramente bene ed era considerato, all’interno del cantiere navale, come un posto molto ambito, dove era difficile rimanerci a meno di non avere dei buoni zii in direzione oppure essere benevolmente appoggiati da alcuni sindacati.

Così, dopo quella bella esperienza in sala tracciato, fui spostato a bordo e affidato al capo “Gigi Carnera” che mi affidò a un operaio specializzato che stava lavorando a prua di una nave in costruzione. Egli era completamente sordo e di pochissime parole e cosi mi trovai, in una giornata uggiosa di marzo, accanto a quest’operaio che mi disse solo due parole “mulo qua dovemo darse da far” (ragazzo qui si deve lavorare sodo). Senz’altro dire, iniziò a battere con una pesante mazza su dei cunei di ferro che servivano per fare accostare i lembi delle lamiere del fasciame che doveva essere, in seguito, fissato alle costole della nave. Questo, era fissato con chiodi di ferro che erano prima riscaldati, nella “foghera” e, quando questi divenivano di colore bianco incandescente, erano presi, con delle lunghe pinze metalliche, e portati a un altro operaio che li inseriva nel foro tra la lamiera e la costola. Quindi prendendo un martello pneumatico, iniziava a martellarci sopra fintanto che il chiodo assumeva la forma di una cappella di fungo che, una volta raffreddatosi, stringeva in una ferrea morsa la lamiera contro la costola. In quel tempo la nave aveva molte parti ancora chiodate mentre altre erano saldate per cui mi trovai, dopo il meraviglioso periodo passato in sala tracciato, in quel bailamme di assordanti Pagina | 166


rumori fatto di martelli pneumatici che ribattevano i chiodi, il “mistro” sordo che insensibile ai rumori dava senza sosta delle potenti mazzate sui cunei di ferro. Ci aggiungevi poi la pioggerellina che insistente cadeva e ti bagnava la tuta da lavoro e i guanti di pelle, che per fortuna ti davano in dotazione, mentre non erano previste protezioni per le orecchie. (In quel tempo il sindacato poco faceva per gli operai se non quello di raccomandare qualcuno per l’assunzione. Infatti, se non eri iscritto a un sindacato, poche chance avevi di entrare in cantiere, e così vedevi che alcune figure di sindacalista erano venerate proprio per il ruolo che assumevano, nella vita della povera gente) e tanto meno si usavano precauzioni nell’uso di mascherine o estrattori di fumi. Così, oltre al rumore infernale, dovevi anche respirare il fumo nocivo che era prodotto dagli elettrodi usati per la saldatura.

Ricordo che quel giorno ritornai a casa piangendo e, promettendomi che in quel posto da matti ci sarei stato poco, raccontai la mia giornata appena passata a bordo della nave ai miei genitori i quali si preoccuparono per la mia salute, ma cercarono di farmi capire che un posto di lavoro come quello non si trovava facilmente e per calmarmi dai miei propositi di abbandono, mi promisero che mi avrebbero comprato la giacca blu e i pantaloni grigi che avevo visto in un negozio e me ne ero innamorato. Così, con l’illusione di avere la mia giacca e i pantaloni tanto sognati, continuai a recarmi al lavoro affiancando il mio sordo “mistro” e piano, piano prendendo confidenza con l’ambiente. Poi, per fortuna, il capo “Gigi Carnera” mi cambio di squadra assegnandomi al “mistro Aldo” che era un suo protetto, perché molto bravo e capace, trovai finalmente delle persone più giovani che presero a ben volermi. Così che, assieme all’altra squadra del “Gaiardo” formammo un bel sodalizio di lavoro e di bagordi che si trasformò, a ogni saldo della paga (ricordo che allora si era pagati con un acconto, ogni quindici del mese e, il saldo alla fine del mese dove, fra le altre voci della retribuzione c’era anche il saldo del cottimo; altra voce simbolo dello sfruttamento della persona), nel ritrovarsi tutti quanti gli elementi delle due squadre, circa sei persone, dopo l’orario di lavoro alla “Osteria della Gisella”. L’osteria si trovava prima del cavalcavia per Ronchi, e lì a giri alterni erano consumati bicchieri di vino accompagnati da sardelle impanate, rane fritte, polpette e tutto quello che la Gisella astutamente portava di volta in volta e metteva in bella mostra davanti a noi. Mentre i miei colleghi anziani trangugiavano smoderatamente io, dopo i primi due bicchieri, mi sentivo completamente sbronzo tanto che, per mia fortuna, a un certo punto non riuscivo più a bere nemmeno un altro bicchiere di vino per cui mi sedevo, mestamente in un angolo, magari Pagina | 167


mangiando qualche “sardella panada” e aspettando che gli altri, ormai brilli, decidessero di abbandonare la Gisella e di andarsene a casa loro, cosa che avveniva molto ma molto tardi la sera. La mattina successiva, come se niente fosse successo la sera prima, ci si ritrovava nel casotto sotto lo scalo che era adibito a spogliatoio per la nostra squadra ed era il massimo dei servizi, che l’allora dirigenza concedevano a noi, poveri operai, mentre loro ovviamente si rintanavano nei loro splendidi uffici (con i divani foderati della pelle umana e dal sudore di molti operai morti sul lavoro che ancora, in quegli anni ’60 si era trattati come bestie). Lì in quello stretto bugigattolo fatto dai “mistri”, Gaiardo e Aldo, con legname di scarto trovato sotto gli scali e ricoperto con del lamierino ondulato, ci si cambiava facendo attenzione all’orario. Infatti, alle ore otto esatte, se non eri al tuo posto di lavoro ed eri trovato, ancora lì nel casotto che ti stavi cambiando, se passavano le ronde dei guardiani, “i carniei” (gente infame senza scuola né cultura ma adatta solo a ubbidire all’ancora più infami capi guardiani che ordinavano loro di multare tutti quelli che non si facevano trovare nel loro posto), ti trovavi con una bella multa e dovevi poi andare a giustificarti con il tuo capo. A tale proposito ricordo uno di questi miseri personaggi che, poverino doveva rendere ogni giorno conto agli altrettanti squallidi capi guardiani delle multe fatte perché, probabilmente, riceveva per premio le famose trenta monete di Giuda. Era alto forse un metro e sessanta, vestito con la divisa nera e il berretto nero in testa (mi ricordava un fascista che ai tempi del Duce si divertiva a girare per le vie di Monfalcone a cercare i “titini” e quando finì, la guerra fu preso, una sera dai partigiani, e riempito di botte tanto che sparì dalla circolazione) che compariva regolarmente alle otto in punto sotto lo scalo dove c’erano i ”casotti spogliatoi”. Alle volte rincorreva qualche poverino ritardatario, sotto gli scali in mezzo ai blocchi di cemento, che reggevano la nave in costruzione. Una volta questo era raggiunto, con fare da gerarca, fermarlo e prendere il suo nome e il numero di matricola. Così visto l’assurdo comportamento del bassotto “carniel” un giorno, decidemmo di tirargli un bello scherzo. Ci appostammo sopra le impalcature che ricoprivano le fiancate della nave in costruzione dove gli operai passavano per andare al loro posto di lavoro oppure lavoravano sulla fiancata della nave. Raccolto un bel grumo (qualche chilo) di “scevo” (grasso) che serviva per lubrificare i pattini della nave durante il varo (a quei tempi la costruzione della nave era fatta su uno scalo inclinato e per vararla si mettevano due pattini di legno, uno per parte, che scivolavano uno sull’altro con mezzo uno strato di scevo che permetteva così un migliore scivolamento) quindi, nascosti dietro ad un cassone, attendemmo che il miserabile passasse sotto rincorrendo qualche povero diavolo. Al momento opportuno lasciammo cadere il grasso che colpì in pieno l’omino il quale, nella foga della corsa a rincorrere l’operaio, si trovò completamente ricoperto da quel viscido elemento e, dato che il grasso aveva ricoperto anche gli occhi, non riuscì a vedere da dove era caduta la cosa e tantomeno riuscì a vedere chi l’aveva tirata. Così, finalmente soddisfatti di esserci vendicati dai soprusi dell’ometto, ritornammo velocemente al nostro posto di lavoro.

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La cosa più umiliante che poteva succedere era il controllo, che questi bastardi facevano nei nostri confronti. Infatti, ogni volta che andavi al bagno e dovevi scendere dallo scalo, questi guardavano, dove andavi e, poichè ti recavi al bagno, dopo un po’ ti seguivano e venivano a vedere cosa facevi in bagno e perché ci mettessi tanto tempo. Dovete sapere che le porte dei gabinetti erano dotate di un grande foro circolare a circa un metro e mezzo da terra che permetteva ai “carniei” di infilare la loro “testolina” e di guardare all’interno mentre tu eri lì accucciato che facevi i tuoi bisogni e guai a te se vedevano che leggevi qualcosa, allora era un reato, e ti aspettavano fuori dalla porta per darti la multa. Ancora oggi tra le ingiustizie che ho subito nella mia vita, quella degli allora guardiani è stata la più umiliante e non capisco qual era la logica di tale atteggiamento se non quella di considerarci degli animali da lavoro. Inoltre non riuscivo a capire il sindacato che niente faceva per quello che era il diritto dei lavoratori, ma, più tardi, avrei capito che esistevano delle commistioni tra il padrone e loro dove, a fronte dello spazio che era dato loro per utilizzare il clientelismo nelle assunzioni (solo chi era iscritto a un certo sindacato in voga allora era fatto assumere), il sindacato tollerava quella forma di razzismo nei confronti di noi poveri operai. Con il passare del tempo, verso gli anni sessanta, qualcosa cambiò in peggio e il lavoro che fino allora era a cottimo abbastanza gestibile divenne ai cosi detto “passo sessanta” e fu la più stupida invenzione di qualche arrivista dirigente dell’ufficio cottimi che iniziò a inviare dei gruppi di baldi giovanotti, muniti di tavoletta e cronometro, senza alcuna esperienza specifica di lavoro, rilevare il tuo tempo che impiegavi per produrre una certa costruzione (blocco o struttura) quindi ritornati nei loro loculi (ufficio) produrre dei documenti di cottimo che erano la quintessenza del lavoro umano. Tanto per dare un esempio, ero ritornato a lavorare in sala tracciato, e stavamo tracciando lo sviluppo del fasciame di una nave e ricordo ancora oggi che il cottimo per ogni lamiera da sviluppare era di lire 1.875 e così eri costretto ad appostarti vicino al gabbiotto dei cottimisti e attendere che il tuo collega, che stava tracciando la lamiera, appena finito ti ordinasse di chiudere il cottimo altrimenti avresti sballato e avresti rimesso dei soldi. La stessa cosa si ripeteva anche a bordo oppure in salderia, dove per alcuni mesi ero stato mandato assieme a un altro amico Mario, a tracciare i blocchi della nave e a costruire parti della nave per cui, mentre vedevi gli operai più anziani che entravano in panico nel dovere affrontare la costruzione di quei blocchi, poiché il cottimo era sicuramente sballato ed estremamente ridotto, presi dall’ansia partire con il piede sbagliato sistemando le strutture al contrario. Quindi per adattarle dovevano fare enormi sforzi a colpi di mazza e cunei oppure facendo uso di martinetti idraulici (si pensi che, allora c’erano alcuni vecchi operai i quali si facevano costruire delle mazze da vari chili con il manico particolarmente lungo e flessibile per meglio battere sui cunei). Mario ed Io, che venivamo dalla sala tracciato e conoscevamo bene il disegno, per prima cosa studiavamo la costruzione sul disegno quindi disponevamo le lamiere su delle selle appositamente costruite, rilevando le curvature direttamente in sala Pagina | 169


tracciato, poi sistemavamo le varie strutture sulle lamiere che si adattavano perfettamente alle stesse e, senza quasi sforzo, le saldavamo tra di loro. In quel modo non solo riducevamo i tempi del cottimo ma introducemmo un nuovo metodo di lavoro più semplice e con meno fatica. Ritornato a bordo negli anni sessanta, dopo la morte di mio padre, mi riunii con la vecchia squadra di e del Gaiardo con il capo Gigi Carnera e iniziò un periodo di lavoro tranquillo perché eravamo assegnati a compiti più agevoli, di maggiore qualità e anche di guadagno perché succedeva, talvolta, di uscire con la nave nelle prove a mare. Una volta, credo fosse la petroliera “Esso Roma”, partimmo alla volta di Venezia per fare carenaggio in quel bacino e fu lì che per la prima volta mi ubriacai. Successe, infatti, durante l’ultima serata a Venezia, all’indomani la nave sarebbe ritornata a Monfalcone, dove il nostro gruppo decise di scendere e di andare a festeggiare in Piazza San Marco. Lasciata la nave, cambiati e vestiti di tutto punto, ci recammo con il vaporetto sino alla Riva degli Schiavoni e da lì, seguendo i miei “mistri” mi portarono a cena all’Antico Pignolo che era allora un ristorante rinomato e caro e, perché loro erano di casa in quel posto, mi fecero assaggiare tutte le specialità della casa, a quei tempi l’appetito non mi mancava. Poi usciti, iniziammo a passeggiare per i calli veneziane per finire, prima di ritornare a bordo della nave, in un bar che si trova proprio sotto l’orologio con i due mori all’ingresso di Piazza San Marco. Mi fecero assaggiare la “trappa al salto” che era grappa con seltz, zucchero e, dopo una leggera scaldata con l’erogatore del cappuccino, infilare nel bicchiere un cucchiaino e farlo roteare velocemente fino a che nel bicchiere si formi una schiuma e solo allora, senza aspettare un attimo, ingoiarne il contenuto in un unico sorso. Ricordo che ne bevvi alcune di queste “trappe al salto” poi il tutto si fece buio e i ricordi si fermarono in quel bar fino il mattino quando, al risveglio, mi trovai in un posto che non conoscevo sdraiato nudo su di un letto con attorno a me le lenzuola intrise di vomito e un odore ripugnante di grappa stagnare nella stanza. Realizzai finalmente dì essere in un hotel, perciò barcollando, riuscii ad andare al gabinetto per fare una doccia, spalancare le finestre della camera e rivestitomi rapidamente scappare dalla scena del misfatto senza dire nulla al portiere. Poi giacché la stanza era già pagata, velocemente mi dileguai e sempre barcollando riuscii a raggiungere un bar, dove ingoiai diverse tazzine di caffè bollente e solo allora riuscii ad andare verso la stazione ferroviaria, dove presi il treno per ritornare a casa. In quel periodo, era di estate, stavamo lavorando a bordo di una petroliera della società Esso ed eravamo sotto il copertino del castello di prua, dove dovevamo fissare delle squadre di sostegno dei “bagli”. Dato che il caldo era terrificante, il sole a picco batteva sulla lamiera del copertino creando al di sotto temperature attorno ai cinquanta gradi, per cui riuscivamo a fissarne alcuni e poi bisognava scappare al di fuori per evitare di ustionarsi e prendere un colpo di calore. Procedemmo fin quasi a mezzogiorno quando, un po’ prima della sirena di pausa pranzo, uscii da sotto dì quel posto infernale e, sudato come una bestia, mi recai alla vicina vasca, che era usata dai pompieri per spegnere dei principi d’incendio. Questa altro non era che un bidone tagliato a metà, piena di acqua e aprii la valvola che serviva per attaccarci le Pagina | 170


manichette antincendio e iniziai a inzupparmi il volto e la tuta con l’acqua per cercare di calmare il tremendo calore che ancora stagnava dentro la mia tuta da lavoro e nei guanti di pelle di sicurezza, che erano usati per le lavorazioni. Quando ecco arrivare il guardiano di turno che si trovava sempre a quell’ora in cima allo scalandrone, che serviva per scendere dal bordo della nave, e con la consueta arroganza di chi è culturalmente impreparato ed è investito da una divisa e un berretto, aggredirmi insultandomi per la mia poca serietà sul lavoro e sul fatto che mi stessi lavando le mani prima della sirena del pranzo. Allora, cercando prima di spiegargli il motivo della mia azione, che però non era accettato, anzi ero deriso dal fatto che stavo dicendo il falso, persi il lume della ragione e prendendo il guardiano per il collo lo sollevai di peso e stavo per buttarlo oltre il parabordo della nave in acqua. Fortunatamente ci raggiunse il Gigi Carnera che fermò il mio gesto e, dopo avere ascoltato la mia giustificazione e quella del mio mistro, prese in disparte il “carniel” e con fare deciso lo invitò a scendere dal bordo prima che lui stesso finisse l’opera che stavo per fare io. Fu in quel mese di estate che successe un grave infortunio ai miei due amici, il mistro Gaiardo e un suo aiutante, con il quale assieme al mistro Aldo stavamo lavorando in un trunk di prua dove dovevamo sistemare un’apparecchiatura particolarmente delicata e ingombrante. Il trunk era uno spazio molto stretto e, per raggiungere la chiglia della nave, dove sarebbe stata sistemata l’apparecchiatura, si doveva scendere per una ripida scaletta per circa dieci metri. Dato che non c’erano altre uscite, si doveva fare passare, per lo stesso spazio, anche le manichette del cannello ossiacetilenico che ci avrebbe permesso di tagliare il foro, dove porre l’ingombrante apparecchiatura. Il giorno prima, era di Domenica, andammo a lavorare perché c’era urgenza nel finire quel lavoro e, mentre noi quattro ci calavamo all’interno giù per la ripida, scaletta, il capo Gigi Carnera stava all’esterno per verificare che tutto procedesse bene e non ci fosse successo niente. Fu un lavoro terribile tanto che, a un certo punto, dovemmo aprire la valvola di ossigeno del cannello da taglio per cercare di respirare, (come detto, le dotazioni di sicurezza non facevano parte del bagaglio culturale della dirigenza), così quando uscimmo più tardi per riposare e prendere un po’ d’aria, dissi al Gigi Carnera perché non potevamo aprire un passaggio nella paratia che divideva il trunk con una cisterna e da lì avremmo potuto passare più comodamente e avere un po’ più di aria per lavorare in sicurezza. La risposta fu che non era permesso fare fori nelle paratie per non diminuirne la solidità così, pur profondamente scettico e, poiché io ero l’ultimo arrivato, accettai la risposta e mi calai nuovamente per raggiungere i miei compagni, che erano già scesi. Il lavoro proseguì per tutta la Domenica e avrebbe dovuto continuare anche il Lunedì successivo per cui, salutati gli altri amici, me ne ritornai a casa e dopo essermi lavato, mi recai a suonare, con il mio gruppo, a Lignano dove rimanemmo fino a dopo mezzanotte. Quindi rientrato a casa, me ne andai subito a letto in quanto al mattino mi sarei dovuto svegliare presto per andare al lavoro.

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Quella notte mi sognai con mio padre, che era morto da pochi anni, e mi lasciò una strana sensazione tanto che, il mattino, quando mi svegliai a un certo punto, non so’ per quale forza del destino, dissi a mia madre che invece di recarmi al lavoro me ne sarei andato al mare a fare il bagno. Così, presa la mia nuova vespa 150 GS, me ne andai a Sistiana, dove rimasi tutto il giorno a crogiolarmi al sole e scherzare con gli amici. Rientrai a casa che era già tardi e trovai mia madre ad attendermi sul portone di casa e raccontarmi cosa era accaduto quel pomeriggio. Mi disse che verso le sedici era venuto a casa mia Gigi Carnera a chiedere se ero andato al lavoro e mia madre, temendo che lui fosse lì perché non ero andato a lavorare, non sapeva cosa rispondere ma poi sentendo che era successo un grave incidente sul lavoro raccontò, a lui, che quel mattino avevo deciso di andare al mare. Sentendo ciò il buon Gigi Carnera abbracciò mia madre dicendole che per un vero miracolo mi ero salvato perché i miei compagni di lavoro erano morti arsi vivi all’interno del trunk dove il giorno prima c’ero stato anch’io. Non vi dico il dolore per la perdita dei due miei cari compagni di lavoro e tanta fu la paura che mi prese che tremante me ne andai a letto piangendo e allora mi venne in mente il sogno, fatto la sera prima, e le parole che mio padre mi aveva detto e che non avevo capito. Ma il segno del destino che si presentò attraverso lui mi aveva salvato da una fine orribile per cui il mattino seguente mi recai al cantiere ma, invece di andare al posto di lavoro, passai prima da Gigi Carnera, dove comunicai a lui e poi al dirigente che mai più sarei salito a bordo di una nave e che, quanto prima, me ne sarei andato dal cantiere. Cosa che avvenne l’anno successivo quando, trovando un bando dove si cercavano allievi istruttori per frequentare un corso di sei mesi a Genova, immediatamente inviai la mia domanda e dopo pochi mesi fui accettato. Dopo avere ottenuto un permesso dal cantiere navale, me ne andai ben felice di lasciare quel posto che per me fu da sempre considerato la quintessenza dello sfruttamento, dal clientelismo e dalla mancanza e lungimiranza nell’offrire un lavoro più sicuro e umano specialmente alla classe operaia. Ho avuto notizie che dopo la morte dei miei due amici e compagni di lavoro subito si sono fatte delle aperture sulle paratie di tutta la nave primo sintomo di accettazione del fatto che con la volontà e la testa, e non solo dopo la morte di due operai, le paratie si potevano forare permettendo un maggiore grado di sicurezza sul lavoro.

“1958 Slovenia e i primi amori” L’anno dopo essere stato assunto al cantiere navale, come promesso, i miei genitori mi comprarono, su mia scelta, il primo vestito completo che era composto di una giacca di colore blu elettrico e un paio di pantaloni grigi fatti su misura dal sarto che abitava in crociera. Completava il tutto, una camicia bianca (per la verità le maniche erano un po’ corte ma quello era il massimo che potevo avere allora) e una cravatta blu tipo Regimental e infine un nuovo paio di scarpe nere che erano della misura quarantacinque, la massima che si trovava in quel Pagina | 172


tempo, ed erano come sempre, per me, leggermente corte (io, infatti, calzo il numero quarantasei) ma pur girando, per i pochi negozi di Monfalcone, dovetti scegliere quelle perché mi calzavano meglio, anche se le dita dei piedi erano un po’ in sofferenza. Così bardato a festa per la prima volta, mi recai a ballare nel locale, che allora era alla moda, che era la Societa’ Velica Oscar Cosulich, dove assieme ai miei amici di allora entrai, un po’ a disagio, sotto lo sguardo ammirato di molte ragazze e iniziai ad andare a chiedere, non senza timore reverenziale e in maniera piuttosto impacciata, alle ragazze di ballare.

Poiché oltre al vestito nuovo ero anche un bel ragazzo, dopo le prime difficoltà di approccio incomincia ad affinare l’arte del corteggiamento ottenendo in breve un buon successo di conquiste e così potei ballare per tutto il tempo del tè danzante con varie ragazze e, alla fine, accompagnare a casa la più carina con la quale rimanemmo in contatto e potemmo rivederci più volte ancora al ballo. Sempre in quel periodo, era il 1958, quando al cantiere navale ricevetti finalmente la mia prima paga da operaio qualificato (erano circa 48.000 lire), potei realizzare il mio secondo sogno che era l’acquisto di una “Vespa Piaggio modello 150 GS” che, per il periodo, era il massimo per noi giovani. Così, con quel meraviglioso mezzo argenteo a quattro marce da oltre 110 km l’ora, potei finalmente recarmi in giro per la regione a ballare e fare diverse gite in montagna assieme ai soliti amici di sempre che, anche loro, avevano acquistato o la Vespa oppure la Lambretta. Diverse furono le uscite e i viaggi più o meno lunghi ma un anno decidemmo di organizzare un giro, di una decina di giorni, attraverso le dolomiti, ripercorrendo lo stesso tragitto fatto l’anno prima in bicicletta, per arrivare quindi a Milano a trovare i parenti di Adelino (il lombardo amico di mio padre) il cui figlio Luciano ci accompagnò assieme a Elvio all’altro Luciano “detto cita” e altri quattro amici. In un bel giorno d’estate partimmo con i nostri zaini, posti sui portapacchi, anteriore e posteriore (avevamo aggiunto un portapacchi davanti per Pagina | 173


sistemare il bagaglio dell’amico che viaggiava con me). Raggiungemmo la nostra prima destinazione che era Auronzo di Cadore dove trovammo un alloggio economico, in una casa che affittava delle stanze e poi, a differenza dell’anno prima che eravamo stati lì in bicicletta, potemmo dare sfoggio dei nostri nuovi scooter girando per diverse volte per la piazza del paese per fermarci con molto sussiego al solito bar del centro dove, parcheggiate le nostre vespe e lambrette, sedersi al tavolino per gustarci il paesaggio, bere una birra e guardare le ragazze che passavano per la via.

Proseguimmo il giorno seguente per le altre mete quali Cortina, San Candido e Bolzano, dove cercammo un posto per dormire ma fu cosa impossibile perciò decidemmo di proseguire affrontando il Passo del Tonale e cercando a ogni paese che incontravamo un posto dove potere passare la notte. Ma fu invano così a notte inoltrata ci trovammo a Edolo, un piccolo paese dopo il passo e il paese di Ponte di Legno, dove non avendo altra scelta perché erano ormai le dieci di sera, decidemmo di andare a suonare nella canonica, che trovammo accanto alla chiesa, dove c’era una luce ancora accesa. Dopo un po’ si apri la porta e si affacciò all’uscio un vecchio prete il quale un po’ spaventato da quell’orda di ragazzi, che si trovava davanti, ci chiese cosa volevamo e, sentito il nostro racconto e senza aspettare un minuto, ci fece entrare in casa dove ci fece accomodare dandoci da bere dell’acqua e facendoci raccontare del nostro viaggio e del perché fossimo ancora in giro a quell’ora. Dopo le nostre spiegazioni e il motivo del viaggio e avendo immediatamente capito la nostra situazione ci ospitò in una sala che era accanto alla sua permettendoci di passare la notte nel pavimento scusandosi di non avere sufficienti letti o materassi da darci. Così dopo averci augurato la buona notte, ci sistemammo al bene e meglio per terra e dopo pochi minuti cademmo in un pesante sonno ristoratore che ci permise, l’indomani, di essere nuovamente in piena forma. Appena svegli, dopo avere detto messa, il buon prete ci fece fare colazione dividendo con noi il suo cibo e, dopo averlo ringraziato della sua ospitalità, riprendemmo il nostro viaggio alla volta di Milano che raggiungemmo dopo alcuni giorni e altre fermate intermedie. A Milano, dopo avere fatto visita ai parenti di “Adelino”, questi ci trovarono un posto per passare la notte in una casa in affitto lì accanto. Poi lasciati i bagagli in camera, ci recammo con il tram al centro per vedere il Duomo e il Castello Sforzesco. Ritornati alle nostre stanze e Pagina | 174


lì passata la notte il giorno successivo riprendemmo la nostra via verso casa fermandoci, subito dopo il ponte su Po, sull’argine del fiume e vista la giornata particolarmente calda, decidemmo di andare al fiume a fare il bagno. Così senza pensarci un attimo, toltici i pantaloni e in mutande scendemmo correndo come forsennata verso la riva sabbiosa del fiume dove, senza riflettere, ci buttammo nell’acqua gelida e impetuosa del “Po” tanto che dopo qualche minuto che eravamo sguazzanti nelle gelide acque, fummo raggiunti da un nugolo di ragazzini, anche loro in mutande, che si aggiunsero a noi per starnazzare come uno stormo di oche.

L’ultimo giorno del nostro viaggio in scooter lo passammo a Venezia dove, dopo avere parcheggiato le nostre Vespe e Lambrette a Piazzale Roma, ci dirigemmo a piedi verso Piazza San Marco e con il nostro unico abbigliamento di allora che era composto prevalentemente da blue jeans, scarpe mocassino e camicette colorate, tanto da sembrare dei teddy boy. Vicino alla stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia, scherzando ci dirigemmo verso la riva del canale, dove passavano i vaporetti e le gondole, e facendo finta di fare l’autostop cercammo di fermare le gondole che passavano accanto a noi. La cosa durò per un po’ sino a che un gondoliere si “incazzo” e diretta la gondola verso riva e ormeggiatala inizio a rincorrerci per i calli urlando imprecazioni che è meglio non riportare mentre noi, spaventati dal trambusto, scappavamo come lepri scansando i poveri passanti che a quel punto stavano osservando la scena. Per nostra fortuna il gondoliere si stancò prima di noi tanto da permetterci di infilarci dentro una chiesa e lì, tremanti, aspettare per una buona mezz’ora prima di uscire sempre con il timore che l’uomo fosse lì fuori ad aspettarci quindi, poiché nessuno c’era nei paraggi, lentamente ci dirigemmo verso la Piazza San Marco guardandoci bene dal ripetere la scemenza di prima.

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Arrivati in Piazza San Marco, che erano ormai le ore 13, affamati cercammo un posticino, dove potere mangiare e trovato un bar in un calle, che ci sembrava economico, ordinammo un panino quindi, ci dirigemmo verso il centro della piazza dove, per nostra inesperienza, ci sedemmo su un tavolino del bar centrale dove un’orchestrina stava suonando musica classica e lì, convinti di fare i turisti danarosi, ordinammo al cameriere che ci raggiunse vestito con giacca nera e papillon, una birra ciascuno. Inebriati dallo spettacolo che la Piazza San Marco sa offrire e dalla moltitudine di passanti e migliaia di colombi svolazzanti passammo una bella ora a riposare e a godere anche del sole che picchiava a quell’ora, poi chiedemmo il conto al compito cameriere che, dopo un po’, c’è, lo portò, assommava a quasi diecimila lire. Alla sua lettura sbiancammo e per poco non svenivamo quindi dolorosamente tirammo fuori le nostre ultime risorse economiche che appena raggiunsero tal esosa somma poi, senza salutare il cameriere né tantomeno elargendogli la mancia, mestamente e senza più soldi in tasca facemmo ritorno verso Piazzale Roma dove, riprese le nostre Vespe e Lambrette, velocemente facemmo ritorno verso casa, dove arrivammo che iniziava già a imbrunire. Dopo quell’avventura, nell’autunno dello stesso anno, dopo avere ottenuto la mia prima “Propusnica”, (che era una specie di passaporto, che era rilasciato dalla Questura di Gorizia ai residenti entro la fascia confinante con l’allora Jugoslavia. Tale documento ci permetteva di entrare, in quel paese, sempre però all’interno di una fascia di alcuni chilometri salvo deroghe, che dovevano essere richieste in anticipo alla Questura di residenza), iniziai ad andare con la Vespa oltre confine per trovare luoghi per ballare e per mangiare poiché, da loro, il costo della vita e della benzina era molto più basso che da noi.

Fu durante una di quelle uscite, con la mia argentea Vespa GS 150 sport che, dopo avere cenato in un locale (Gostilna) di San Peter (San Pietro) vicino a Nova Gorica, uscendo vidi che stava piovendo a dirotto e dove un ragazzo italiano, che stava sotto la pioggia, cercava invano di fare ripartire la sua Vespa. Così, senza pensarci, corsi verso di lui per provare a spingerlo finché la Vespa si mise in moto allora questi scese e, per ringraziarmi dell’aiuto, m’invitò a bere una birra all’interno della stessa Gostilna dove avevo cenato. Lì, in quel momento, nacque la nostra amicizia e conobbi “Sergio” con il quale iniziai un periodo di avventure che ci permise di girare per molto tempo, durante quasi tutti i fine settimana, alla conquista di ragazze e di visitare molti luoghi di quel bel paese. Pagina | 176


Il fine settimana successivo ci ritrovammo a casa sua per organizzare la nostra “spedizione” oltre confine e, visto che l’autunno era ormai avanzato e il tempo era diventato già molto freddo, decidemmo di montare il parabrezza frontale in modo tale da permetterci di ripararci un po’ dal vento gelido e dalla pioggia. Quindi vestiti con il nostro “trench” con sotto solamente un maglione e la camicia, un paio di pantaloni di lana e le scarpe della domenica, partire verso sera per andare ad affrontare la nostra prima avventura, in terra Jugoslava. Decidemmo, per prima cosa, di fermarci alla Gostilna di San Peter (Nova Gorica) e qui cenare, con il massimo che potevamo permetterci, che era la “luganiga de cranio” (salciccia di Cranio) con una buona dose di crauti e tanta senape due o tre panini e mezzo litro di birra “Lasko” serviteci dalla bella cameriera “Lidia” la quale poi sarebbe diventata la mia migliore amica e poi il mio primo platonico amore. Con lei passammo alcune ore a chiacchierare un po’ in italiano e molto in sloveno (attraverso l’interpretariato di Sergio che conosceva e parlava correttamente lo sloveno) quindi salutatala inforcammo le nostre Vespe e ci dirigemmo in una sala da ballo ricavata in uno spiazzo all’aperto, davanti ad una Gostilna di nome “Oddih” che si trovava all’inizio della strada che da Nova Gorica portava al Monte Santo e, pur facendo freddo, molti giovani stavano ballando su quell’improvvisata pista da ballo al suono di una fisarmonica, un tamburo e una tromba. Cosi ci fermammo anche noi per vedere se c’erano ragazze con cui ballare e, trovatene due, chiedemmo loro di ballare gettandoci letteralmente nella tumultuosa mischia di ballerini che, al suono di musiche popolari, oltre a ballare emettevano continue grida di esclamazione e di gioia che accompagnavano i vari passaggi della musica. Così, dopo un po’, anche noi iniziammo a gridare come loro confondendoci così nella mischia stringendo le nostre due ragazze appena trovate. La ragazza che avevo trovato si chiamava “Wanda” ed era carina e molto spiritosa e pur nella difficoltà della lingua, per fortuna parlava un po’ d’italiano, iniziammo ad amoreggiare tanto che dopo un paio di balli e diverse birre decidemmo di andare a passare la serata in un altro locale dove si ballava al chiuso in una sala ricavata in un’aula di una scuola e lì, scherzando e ridendo, conoscendoci meglio, diventammo sempre più amici e più ubriachi tanto che a un certo punto, mentre eravamo avvinghiati in mezzo alla sala ballando, mi baciò e mi disse di accompagnarla a casa. Lasciammo Sergio e la sua amica, fissandoci appuntamento nella casa di suo zio che ci ospitava e che si trovava nel vicino paesino di Merna, e fattala salire sulla mia Vespa, partii per accompagnarla a casa che, come scoprii più tardi, si trovava alla periferia di Salcano ed era una casa colonica. Arrivati, erano ormai le due del mattino, m’invitò a entrare e mi fece accomodare in cucina che era ancora calda, perché lo spargher era ancora acceso, poi si versò e mi offrì una rakija che sorseggiammo lentamente poi, si avvicinò a me e incominciò a baciarmi.

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Per me quella era la prima volta che una ragazza mi faceva delle avance così evidenti tanto da lasciarmi stordito e interdetto su come procedere. I pensieri andavano ai genitori che abitavano in quella casa e che potevano entrare trovandoci in quelle condizioni ma i miei pensieri furono sopraffatti dalle emozioni che provavo per quella bella ragazza che si stava concedendo a me e, credo che lei lo capisse, perche andò a spegnere la luce poi, nel buio pesto dove si vedeva brillare solamente la fiamma dello spargher, la sentii avvicinarsi a me e sussurrarmi “prendimi” e si mise a correre attorno alla stanza rimanendo in silenzio. A quel punto lasciai cadere ogni dubbio e senza indugio incominciai anch’io a rincorrerla inciampando nelle sedie e facendo un gran baccano finché decisi, di stare fermo in un punto accanto al tavolo e attesi che lei mi arrivasse addosso quindi abbracciandola, la baciai e, mentre sentivo che lei si spogliava, io ritornai nel panico perché era la mia prima volta che facevo l’amore con una ragazza. Wanda, capendo il mio imbarazzo, mi guidò dentro di lei e cosi facendo iniziammo un lungo amplesso anche piuttosto rumoroso tanto, che a un tratto e sul più bello del rapporto, sentii delle grida in sloveno provenire dalle stanze superiori e Wanda che, sempre facendo all’amore, rispondeva gridando qualche frase che non capii, servì a zittire l’intrusa poi, senza altre interruzioni, finimmo il nostro rapporto. Poi, sempre abbracciati, ci sedemmo su delle sedie accanto allo spargher continuando a baciarci ebbri dell’amore appena vissuto quindi, visto che stava già albeggiando, mi salutò e mi disse che il nostro amore sarebbe finito lì quella sera e che non avremmo più dovuto rivederci perciò, ancora più confuso di prima, le diedi l’ultimo bacio e me ne andai, con la mia Vespa 150 GS argentea, mestamente verso la casa che ci ospitava a Merna. Entrando in camera trovai Sergio che anche lui era appena arrivato e ci raccontammo le avventure appena passate poi stanchi di quell’intensa notte passata, ci addormentammo per svegliarci l’indomani tardi per fare la colazione che lo zio di Sergio ci aveva preparato. La colazione fu una vera sorpresa per me in quanto, essendo lo zio, un contadino era usanza fare al mattino un abbondante e sostanzioso pasto che era composto da una ciottola di latte caldo fumante, da del pane appena sfornato che emanava un meraviglioso profumo che ti faceva venire l’acquolina in bocca al solo odore e un piatto pieno di una cosa bianca che, al primo momento, credevo fosse formaggio ma poi, quando presi una cucchiaiata di quella cosa bianca, capii che altro non era che dello strutto (grasso del maiale fatto raffreddare) che aveva all’interno qualche pezzo di carne di maiale. Per finire, accanto al piatto vicino al latte fumante, c’era un bicchiere da ottavo pieno di un liquido bianco che credevo fosse acqua ma che al primo sorso capii che era rakija. Così vedendo gli altri mangiare con appetito e, poiché il mio stomaco era completamente vuoto e reclamava del cibo, mi buttai anch’io sul cibo davanti a me e tra sorsi di latte e sorsi di rakija mangiai tutto il contenuto del piatto compreso tutto il pane che trovai nel paniere di fronte a me. Lo zio di Sergio, a quel punto, ci chiese se volevamo dei dinari (poiché avevamo concordato con lui che, vista la difficoltà di portare denaro Jugoslavo dall’Italia, dove il cambio in nero era Pagina | 178


molto alto e favorevole a noi, perché quando passavi il confine, eri regolarmente fermato e controllato in ogni recondito spazio dei vestiti e della mia Vespa e se nascondevi dei dinari e te lì trovavano addosso a questi erano immediatamente confiscati). Così ci organizzammo concordando, con lo zio, che noi avremmo lasciato l’equivalente del cambio lira-dinaro, che era applicato in nero sul mercato quella settimana, in Italia dalla mamma di Sergio e lui ci avrebbe consegnato la somma che avevamo pattuito direttamente in dinari. In quel modo risolvemmo i problemi dei controlli alla frontiera e inoltre, se ce’ ne fosse stata la necessità, ci poteva anticipare la somma che ci fosse stata necessaria. Perciò presi i dinari, che avevamo concordato, lasciammo la casa dello zio avvisandolo che non avremmo alloggiato quella sera da lui ma che avremmo trovato un’altra sistemazione in qualche albergo e lentamente ci avviammo verso il paese di San Peter, dove ci fermammo alla nostra solita Gostilna e dove trovammo la nostra amica Lidia per bere una Lasko e mangiare la solita luganiga di cranio. Parlando con Lidia, dicendole della nostra decisione di trovare un albergo dove andare a dormire, scoprimmo che avevano appena aperto una nuova Gostila-albergo che si chiamava Kekec e si trovava sulla collina che sovrasta Nova Gorica. Dopo avere salutato Lidia, ci avviammo verso la nostra destinazione e iniziammo a salire con le nostre Vespe verso il Kekec. Non fu’ una cosa molto facile salire, sin lassù, perché la strada non era asfaltata ed era molto ripida tanto che spesso dovevamo scendere dalle nostre Vespe e spingerle su per l’impervia salita. Comunque dopo vari sforzi raggiungemmo la Gostilna e scoprimmo che era stata costruita in una posizione incantevole da dove potevi dominare tutta la valle del goriziano e vedere in lontananza il mare con l’inconfondibile sagoma della basilica di Barbana. Entrammo nel locale, dove trovammo il caminetto acceso e, seduti accanto al fuoco, c’erano alcune persone tutte vestite da cacciatori con i quali facemmo amicizia e ci intrattenemmo con loro a bere birra e rakija e mangiare dell’ottimo prosciutto di cinghiale. Parlando con loro, venimmo a sapere che quella sera ci sarebbe stata la festa d’inaugurazione del locale, così ci invitarono a restare a cena con loro poi, scoprendo la nostra intenzione di fermarci a dormire nel locale, chiamarono la cameriera che ci accompagnò alla nostra stanza che, essendo l’unica rimasta, dovemmo dormire, Sergio ed io, nei due letti che si trovavano all’interno. Feci subito amicizia con la cameriera che era una ragazza più grande di me di qualche anno e che mi disse di chiamarsi “Vilma” che era stata assunta proprio quel giorno al Kekec e che avrebbe soggiornato, anche lei, nell’albergo poiché non era facile scendere a valle, non avendo mezzi propri, per cui ci fissammo appuntamento per più tardi quando gli altri avventori se ne sarebbero andati. Scendendo incontrai Sergio il quale aveva stretto amicizia con l’altra cameriera del locale e si erano dati, anche loro, appuntamento per più tardi, dopo che la gente se ne sarebbe andata. Cosi preparammo la strategia di approccio con le due ragazze e decidemmo che io sarei Pagina | 179


andato a dormire, con Vilma nella nostra stanza mentre lui si sarebbe recato nella stanza delle ragazze. Fatto il piano, ci lasciammo trasportare dalle chiacchiere degli altri ospiti impegnandoci di seguirli nel loro smodato modo di bere fatto di bottiglie di birra accompagnate da bicchierini di rakija mentre sul caminetto fu posto a cuocere un grosso cinghiale che girando lentamente sul girarrosto sfrigolava e profumava l’aria di odore di carne cotta, su cui era versato olio e vino, con abbondanti spruzzi di rakija. Erano ormai le nove della sera quando il cinghiale fu pronto per essere servito allora alcuni cacciatori lo sollevarono dai supporti del girarrosto e lo posarono su di un tavolo preparato. Dopo i discorsi di rito sulle virtù della preda e sull’abilità del cacciatore che lo aveva ucciso nei boschi attorno al Kekec, si diede inizio alle libagioni. Ognuno, munito di un coltello, si serviva da solo tagliando la parte che più gli piaceva e, posta sul suo piatto, se ne andava a mangiarlo seduto ai tavoli che erano stati preparati lì attorno. A quel punto i fiumi di vino scorrevano velocemente e il volume delle voci farsi sempre più alto tanto che, per parlarsi, si doveva gridare. La cena durò per molte ore in un crescendo di cibo e vino con aggiunta di rakija finché, saranno state ormai le due del mattino, la stanchezza e il grado alcolico raggiunsero il suo apice. Allora, mentre alcuni si erano già appisolati sulle loro sedie, altri intonando dei canti, ci salutarono e iniziarono la discesa verso valle a piedi nel freddo e buio della notte. Cosi lentamente, singolarmente o a gruppi, tutti gli avventori si avviarono verso valle lasciando soli noi due, Sergio ed io, e le due cameriere che, invece, dovevano provvedere alla pulizia della sala. Così, mentre loro si davano da fare nella sala ridotta a un campo di battaglia, noi due decidemmo di salire nella nostra stanza per riposare e farci passare la sbornia chiedendo alle due ragazze, non appena avessero terminato il lavoro, di venire a svegliarci. Saliti nella nostra stanza, dopo esserci lavati, cademmo letteralmente in un profondo sonno nei nostri letti e li rimanemmo, non ricordo quanto tempo passò. Fui svegliato da un corpo che si stendeva accanto a me ma, pur sentendo il calore di quella vicinanza, non riuscii a fare altro che baciarla e quindi riprendere a dormire e rimanere abbracciati sino al mattino successivo quando, i raggi del sole che era ormai alto all’orizzonte, mi svegliarono mi accorsi, solo allora, di Vilma che placidamente se ne stava addormentata, sotto la mia stessa coperta. Guardandomi attorno scoprii che anche nel letto di Sergio c’erano due persone abbracciate che ancora dormivano. Allora svegliai, con un bacio, la mia compagna di letto e con un cenno ci avviammo nella sua stanza, dove finalmente potemmo consumare il nostro amore che però ebbe un finale piuttosto burrascoso perché Vilma voleva che il nostro rapporto finisse solo dopo che l’avessi messa incinta. La cosa mi fece sobbalzare al solo pensiero di quella richiesta ma lei, con molta calma e cercando di fare atto di convincimento, mi spiegò che il volere essere messa incinta le serviva per emigrare in Australia dove, essendo incinta, avrebbe potuto chiedere e ottenere la Green Card per divenire cittadina di quel grande paese. Pagina | 180


Ovviamente non potei accettare la sua richiesta per cui pur continuando il nostro rapporto amoroso, con le precauzioni che il caso voleva, rimanemmo ancora abbracciati per lungo tempo poi, visto che erano ormai le dieci del mattino, ci alzammo e, mentre ognuno di noi ritornava nelle proprie stanze, incrociai Sergio che m’invitò ad andare a fare colazione al bar di sotto. Davanti ad una fumante tazza di caffèlatte, potemmo raccontarci dell’avventura appena passata e quando dissi a lui di quella strana richiesta fattami da Vilma, mi consigliò di andarcene velocemente prima che le due ragazze scendessero. Così, dopo avere salutato il padrone del locale, che era nuovamente salito dopo il baccanale della sera precedente, raggiungemmo le nostre Vespe e velocemente c’e’né andammo. Quella fu’ l’ultima volta che vidi Vilma. Molto tempo dopo ho saputo dalla sua amica, che era con Sergio quella notte, che Vanda era andata veramente in Australia e che le aveva scritto dicendole che se mi avesse rivisto di dirmi che lei aveva veramente voluto un figlio mio perché si era innamorata di me perdutamente quella notte. Dopo quella sera al Kekec molte altre avventure vivemmo nei fine settimana successivi e dove, a ogni fine settimana, cambiavamo ragazze sino a che, un sabato pomeriggio mentre eravamo a Nova Gorica decidemmo di andare al cinema, che si trovava nel grande palazzo sito nella piazza centrale. Appena entrati, andammo a sederci in una fila centrale, proprio dietro ad un gruppo di ragazze che, al nostro arrivo, iniziarono a chiacchierare con noi, diciamo con Sergio perché io poco conoscevo lo sloveno, e tra una battuta e l’altra ci scambiammo i nostri nomi e una in particolare si rivolse a me e, un po’ in italiano, mi disse di chiamarsi “Metka” che in italiano voleva dire “Margherita”, fu amore a prima vista. Dopo la rappresentazione uscimmo tutti dalla sala e decidemmo di andare a bere un caffè nel bar lì accanto dove potei fare amicizia con Metka e conoscerci meglio. Qui scoprii quanto gioiosa e simpatica era la ragazza la quale mi disse che abitava a Lubiana e che era lì per passare il fine settimana dalla zia, che abitava in Nova Gorica, mentre a Lubiana abitava con la mamma e un fratello a “Cernuce”, un paesino della periferia nord est della città, e che lavorava in una ditta in centro a Lubiana in quanto, essendo senza padre, doveva provvedere, assieme al fratello, al mantenimento della mamma. Essendo ormai piuttosto tardi e dovendo lei rientrare dalla zia, mi chiese di accompagnarla fino a quella casa, che non era poi molto lontana dal bar dove c’eravamo fermati, e parlando più a motti che a parole, lentamente mi prese la mano e prima di lasciarmi, davanti alla porta di casa della zia, mi scrisse su un pezzo di carta con il suo rossetto l’indirizzo, dove avrei potuto scriverle. Quindi, senza indugio, mi baciò sulla bocca tenendomi per un lungo momento senza fiato poi, giratasi, mi salutò ed entro nella casa mentre io stavo ancora lì imbambolato ad assaporare il bacio appena ricevuto. Poi lentamente ritornai da Sergio che era nei dintorni con le altre amiche. Finimmo quella fine di settimana con due infermiere che stavano frequentando il convitto presso l’ospedale di San Peter le quali ci invitarono ad andare da loro, nelle loro stanze nel Pagina | 181


convitto, indicandoci prima, la via dove passare senza essere visti, che era un buco nella rete di recinzione dell’ospedale. Quindi, subito dopo che loro erano entrate, passammo la recinzione e cautamente ci avviammo verso la finestra indicataci, che trovammo aperta cosi, scavalcatala, entrammo nella stanza delle due infermiere che ci stavano aspettando. Quella sera facemmo molto tardi, anzi presto il mattino, perché erano passate le tre del mattino quando sgusciammo fuori dalla finestra delle due infermiere e, oltrepassata la recinzione, riprendemmo le nostre due Vespe e alternandoci a turno nello stare davanti a fare da guida, riparati dal parabrezza perché il freddo era molto intenso, guidammo fino alle nostre case che raggiungemmo verso le quattro del mattino. Riposta la mia Vespa nel garage (gabbiotto di lamiera che avevo costruito in giardino) di casa lentamente e senza fare rumore nel buio più assoluto aprii la porta di casa ma, non feci neanche il tempo di entrare, che mi sentii arrivare una serie di schiaffi e d’improperi da mia madre che si era appostata dietro la porta di entrata e mi stava aspettando furiosa dal fatto che rientrassi a quell’ora e che lei si fosse molto preoccupata per il mio ritardo. A nulla valsero le mie giustificazioni, lei continuò a menare schiaffi e a gridare fino a che mio padre, uscendo, la calmò dicendomi che sarebbe stato meglio per me, in futuro, indicare prima l’ora del mio rientro anche perché quel mattino, di lì a poche ore, avrei dovuto recarmi al lavoro. La cosa non si ripeté più in quanto, ogni volta che me ne andavo, il Venerdì sera avvisavo mia madre dicendole che sarei sicuramente rientrato, il Lunedì successivo, in tempo per recarmi al lavoro. Cosi fu’ nei mesi che seguirono e per tutto il mio periodo di avventure nella vicina Jugoslavia. Quell’inverno passò velocemente con tutte le avventure che, ogni fine settimana, passavamo scorazzando con le nostre Vespe, sempre munite di parabrezza, con temperature polari e neve abbondante per tutti i paesi e le sale da ballo che trovavamo nella zona di Nova Gorica e dintorni sempre a caccia di ragazze alle quali, vista la misera situazione economica che regnava nel paese in quel periodo, portavamo delle calze di nailon e delle borsette di plastica che compravamo al mercato di Monfalcone. Con quelle riuscivamo ad avvicinare molte ragazze che, di ballo in ballo, conquistavamo portandocele prima a cena e, il più delle volte, anche a letto nella nostra dimora ufficiale che era diventato l’albergo Sabotino di Salcano a Nova Gorica dove eravamo diventati clienti abituali. Di tanto in tanto ricevevo lettere dalla mia amica Metka da Cernuce che mi facevo tradurre da Sergio la quale sentiva la mia mancanza e voleva che andassi a trovarla a Lubiana cosi decidemmo, con Sergio, che l’estate prossima saremmo andati a trovarla, in Agosto, durante il suo periodo di vacanza che avrebbe passato a Cirkvenica con la sua famiglia. Iniziammo quindi a organizzare la vacanza scrivendole e concordando con lei le date e il periodo di permanenza in quel meraviglioso luogo di villeggiatura che è Cirkvenica e che si trova poco distante da Rijeka (Fiume) all’inizio della costa dalmata. Stabilimmo di mettere da Pagina | 182


parte un bel gruzzolo di lire, che avremmo lasciato a deposito presso la mamma di Sergio e che l’equivalente in dinari lo avremmo ritirato dallo zio che stava in Merna senza dovere passare i terribili controlli dei finanzieri jugoslavi.

Mettemmo da parte una discreta somma (quasi 200.000 lire che all’epoca erano quasi quattro stipendi di un operaio) e quando finalmente arrivò il giorno stabilito ad Agosto, salutati i nostri famigliari, ci avviammo presto al mattino per la nostra prima tappa che doveva portarci a Koper (Capodistria) e poi a Crikvenica con l’intenzione di arrivare sino a Dubrovnik e ritornare quindi, passando per Mostar, Banjia Luka, Zagabria e quindi Lubjiana e Cernuce dove saremmo stati ospiti di Metka.

Prima di andare a Koper passammo a prendere l’equivalente delle lire depositate in Italia, in dinari dallo zio di Sergio il quale fu felice di ospitarci e di consegnarci la cifra concordata. Poi, dopo averlo ringraziato e salutato, riprendemmo la via verso Koper, dove arrivammo al primo pomeriggio e, affittammo una stanza nell’allora importante Hotel Triglav, sito proprio sul mare di fronte al porticciolo, dove sostavano le molte barche di pescatori. Quindi dopo esserci riposati un po’, facemmo un breve giro sino alla spiaggia, dove ci concedemmo un bel bagno nelle azzurre acque di quel posto. La sera, dopo avere cenato a base di pesce ed esserci concessi il lusso di ordinare una bottiglia di Malvasia d’annata, servitaci da un cameriere in pompa magna e con noi che, in quel frangente, ci sentivamo come dei veri nababbi poiché avevamo nelle nostre tasche un bel gruzzoletto di dinari, fummo avvicinati da due meravigliose ragazze che, senza scrupoli, si Pagina | 183


sedettero al nostro tavolo facendosi servire un po’ del nostro vino e iniziarono a corteggiarci tanto che sia io che Sergio eravamo senza parole per la loro disinvoltura e la loro grazia poi, durante la cena, venimmo a sapere che le due ragazze erano delle ballerine nel Nocni Klub (night) dello stesso albergo e che più tradì si sarebbero esibite nel locale. Finimmo in allegria la serata al ristorante dopo avere consumato varie bottiglie di malvasia poi ormai brilli, accompagnammo, dopo avere pagato una discreta somma per la cena, le due ballerine nel night. Mentre loro si esibivano nel loro repertorio, assieme ad un gruppo di altre ragazze che scoprimmo, essere russe noi, ormai completamente brilli, ordinammo dello champagne Moet e Chandon e, neanche fossimo due milionari, per dare maggior risalto alla nostra esibizione ci facemmo portare anche del caviale quindi, dopo che lo spettacolo ebbe fine, fummo raggiunti dalle due ragazze e continuammo a spassarcela con loro per tutta la notte tra balli e risate e altre bottiglie di champagne. La cosa si protrasse sino all’alba quando arrivò un cameriere con il conto pregandoci di saldarlo poiché il locale stava chiudendo. Cosi presa la ricevuta e letta la cifra, la sbornia ci passò in un attimo perché la cifra era esattamente la metà dei soldi che avevamo portato con noi per tutto il viaggio. Così, pur senza fare trasparire niente di quell’esosità pagammo e, dopo un breve conciliabolo con sergio, decidemmo di salutare le due ragazze, che nel frattempo ci avevano proposto di salire in camera con loro con una modesta aggiunta alla cifra appena sborsata, e di andare direttamente a smaltire la sbornia e recuperare lo shock, appena subito, dopo il pagamento del conto di quella serata, appena conclusa. Facemmo un bel giro per Koper poi, verso le cinque del mattino, andammo a letto a riposare per alcune ore avendo deciso che saremmo dovuti ritornare dallo zio di Sergio a Merna per farci anticipare degli altri dinari poiché ne avevamo consumati, più della metà, in una sola giornata. Prima di mezzogiorno eravamo dallo zio di Sergio a Merna e, dopo avergli spiegato “l’incidente accadutoci a Koper”, egli si fece una bella risata e commento’ “cari fioi per far i siori bisogna essere nati siori se meio che ande’ driti dalle vostre mule perche’ altrimenti dove’ vendar anche la vespa”. Cosi’ detto tiro fuori dal cassetto i dinari che avevamo chiesto poi con un saluto prese il carro e si avviò verso i campi a lavorare la terra mentre noi rimanemmo a rimuginare quanto appena dettoci dallo zio. Dato che era troppo tardi per mettersi in viaggio verso Cirkvenica, dove mi attendeva la Metka, decidemmo di andare a passare la notte a Bovec e da li salire sino a “Trenta” per vedere le sorgenti dell’Isonzo e così facemmo. Salutati i parenti di Sergio a Merna, ci dirigemmo verso Bovec, dove arrivammo il primo pomeriggio quindi, dopo avere trovato un hotel per passare la notte, lasciammo le nostre cose nella nostra camera e ci dirigemmo direttamente verso Trenta, dove salimmo sino alla sorgente dell’Isonzo dove sostammo per un po’ al fresco del luogo.

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Ritornammo per cena all’hotel, dove scoprimmo che, durante la nostra assenza, erano arrivati alcuni pullman di turisti americani e tra i quali molti erano di colore cosi, nel caos che si stava creando nella lobby, incontrammo delle donne di colore, non proprio giovanissime, che aiutammo nel portare la loro valigia con l’ascensore sino alla loro camera che era situata vicino alla nostra. Cosi, dopo averle salutate, io mi avviai nella mia stanza per fare la doccia mentre Sergio lo lasciai parlare ancora con loro (non ho ancora capito come faceva Sergio a intrattenersi e a dialogare, in americano, con le due negre) ma dopo un po’ mi raggiunse e mi disse che dopo cena aveva l’appuntamento con una di loro al bar dell’hotel perciò, una volta cenato, mentre io mi recavo a riposare nella mia stanza, Sergio andò all’appuntamento con la procace nera che lo stava aspettando. Non riuscii a sentirlo ritornare in camera ma mi disse al mattino che era rientrato verso mezzanotte e che era stato invitato nella stanza da quella signora di colore e che aveva fatto all’amore con lei. Sulle prime parole fui tentato di dubitare di quanto mi stava dicendo ma poi, anche dai particolari che mi svelava, dovetti ricredermi tanto più che il mattino, a colazione, vidi la negra avvicinarsi al nostro tavolo e baciare Sergio sulla bocca lì, davanti a tutta la sala, facendomi vergognare e arrossire tanto che, dopo averli salutati, me ne andai nella mia stanza a preparare la valigia. Quel mattino non parlai più dell’accaduto con Sergio cosi, prese le nostre Vespe, in silenzio ci dirigemmo verso Rijeka (Fiume) e Crikvenica, dove arrivammo verso le ore 17 giusto in tempo per incontrare Metka nel punto concordato in precedenza, per lettera, che era il lussuoso Hotel Therapija di Crikvenica.

La trovammo che ci stava aspettando nell’atrio dell’hotel e vedendomi mi corse incontro gettandomi le braccia al collo e piangendo di felicità mi baciò appassionatamente poi, dopo avere salutato anche Sergio sali sulla sua Vespa, lasciandomi per un momento nel panico per quella scelta con la gelosia che mi tormentava, ma, capii dopo, era solo dettata dal fatto che poteva spiegare meglio a lui in sloveno, dove saremmo dovuti andare. Seguii la loro Vespa sino a una casa del centro della cittadina e vicino al mare, dove Metka era riuscita ad ottenere un posto provvisorio per dormire perché, in quel mese di Agosto, non si trovavano stanze libere da nessuna parte perché tutto era già esaurito da molto tempo. Pagina | 185


Ricordo, infatti, che in quegli anni il governo jugoslavo dava l’opportunità’ alle famiglie di passare, a prezzi simbolici, le vacanze estive nelle varie zone turistiche del paese per cui, essendo Crikvenica una meta molto ambita per il mare e per la sua posizione geografica, molte famiglie di Lubiana venivano abitualmente in quell’amena località di mare.

Cosi raggiunta la casa e incontrata la padrona, questa ci fece accomodare all’interno e, salendo le erte scale di legno, raggiungemmo la terrazza sopra il tetto, dove normalmente erano messi ad asciugare i panni e, spiegando a Sergio che quella sarebbe stata la nostra stanza da letto, ci accompagnò in un ripostiglio, dove trovammo due materassi che prendemmo. Dopo avere messo sul pavimento un lenzuolo, poggiammo sopra i due giacigli, poi sistemammo sopra il filo che serviva per stendere i panni, un altro lenzuolo formammo una specie di tenda che fissammo ai quattro lati con dei mattoni. Poi, sistemate al bene e meglio le nostre cose nel piccolo ripostiglio, scendemmo per salutare Metka che se ne tornava a casa fissandoci appuntamento, per dopo cena, per andare a ballare all’Hotel Therapia. Più tardi raggiunsi Metka a casa sua, dove era ad aspettarmi sulla porta d’ingresso quindi, presola a braccetto, ci avviammo verso il mare, dove trovammo un angolino, riparato da sguardi indiscreti, e ci sedemmo su di una panchina attorniata da profumatissimi “fiori di arancio” che, dopo un po’ che eravamo lì abbracciati, questi ci inebriarono completamente tanto da farci dimenticare il luogo dove eravamo e abbandonarci a effusioni sempre più eccitanti. Dopo un po’ non potendo trattenerci dal desiderio facemmo l’amore in modo bramoso quasi animalesco tanto era il desiderio di esserci ritrovati dopo molti mesi. Passata la foga del desiderio, ci ricomponemmo e rimanemmo ancora per molto tempo abbracciati e innamorati, non solo dal desiderio fisico ma dal piacere di stare vicini a guardarsi e pronunciare le poche parole che Metka sapeva d’italiano ed io delle poche in sloveno. Quindi, riacquistato il senso e la realtà del momento, ci avviammo lentamente verso l’Hotel Therapia, dove incontrammo Sergio che aveva riservato un tavolino per noi e che nel frattempo aveva conosciuto una ragazza locale che si unì a noi. Quella notte finì, molto tardi tra’ brindisi del meraviglioso vino bianco dell’isola di Krk (Veglia) il “Vrbnička Zlathina”, e balli nella bella cornice dell’hotel poi, verso l’una del mattino, Pagina | 186


accompagnai Metka a casa sua dandoci appuntamento per l’indomani verso l’ora di pranzo. Quindi mi avviai verso la nostra camera all’aria aperta sul terrazzo della casa, dove finalmente trovai anche Sergio che già stava dormendo. Il mattino ci svegliammo, nonostante il sole splendesse già alto all’orizzonte, piuttosto tardi e uscendo dalla nostra improvvisata tenda, ci accorgemmo di essere osservati da diverse ragazze che stavano ridendo dalle finestre delle case, più alte, che ci circondavano. Salutammo anche noi le ragazze e a motti facemmo cenno ad alcune di loro di scendere in strada per incontrarci. Così, poco dopo, scendemmo anche noi dalla nostra strana camera all’aperto e trovammo ad aspettarci alcune di quelle ragazze con le quali, con l’aiuto di Sergio, ci presentammo. Poi tutti assieme ci recammo a fare colazione nel bar della spiaggia, che era lì vicino, quindi decidemmo di andare tutti assieme a fare il bagno nella spiaggia pubblica. Così il tempo passò tra bagni e sole dimenticandomi completamente dell’appuntamento che avevo con Metka. Questa arrivò in spiaggia e, vedendomi con le altre ragazze, fece una sfuriata tale da fermare tutta la spiaggia a guardarci e a nulla valsero le mie scuse. A quel punto, viste come si erano messe le cose, dovetti velocemente scappare e rintanarmi a casa, sulla terrazza e sotto il sole cocente. Rimasi lì per un bel po’, sudato e arrossato sotto la provvisoria tenda che avevamo sistemato il giorno prima e mentre ero lì che rimuginavo sul da farsi apparve Metka la quale si sedette accanto a me e piangendo chiese scusa per la scenata e per farsi perdonare baciandomi si offrì a me per fare all’amore. Dopo quell’incidente mi guardai bene di cercare altre ragazze, anche se cerano molte a disposizione così, ogni giorno, andavo a prendere Metka a casa sua e assieme andavamo, con la Vespa, alla ricerca di posti solitari, dove potere stare soli a fare il bagno e all’amore. Un giorno mentre eravamo in una spiaggetta vicino a Selce (località vicino a Cirkvenica) decidemmo di andare, nuotando, sino all’isola che stava proprio di fronte a noi e che era l’isola di Krk (Veglia) e che era distante un paio di chilometri. Così, mentre Metka tentava di dirmi qualche cosa in sloveno che non riuscivo a comprendere “morskih riba, morskih riba, ecc” senza darle ascolto ci tuffammo nelle meravigliose acque azzurre dello stretto di mare che ci separava dall’isola e, piano piano, raggiungemmo la costa dell’isola di Krk vicino al paesino di Silo. Quindi, dopo esserci riposati, ci avviammo verso le prime case del porticciolo che distava pochi metri da dove eravamo arrivati. Trovammo un pescatore che stava cucendo le reti. Chiesi se capiva il mio italiano e al suo assenso le spiegai da dove venivamo e delle parole che Metka mi stava continuamente dicendo. Allora il poverino spaventato mi disse che lei voleva avvisarmi che in quelle acque c’erano, alle volte, dei pescecani e che era molto spaventata per avere attraversato quel lembo di mare rischiando di incontrare tali creature e che, come stava spiegando al nostro interlocutore, lei non sarebbe assolutamente tornata nuovamente a nuoto fino a Crickvenica.

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Quando mi resi conto del pericolo passato, dopo avere abbracciato Metka per cercare di calmarla, chiesi al pescatore se voleva accompagnarci con la sua barca dal lato opposto e ricevuto il suo consenso, con il giubilo di Metka, salimmo sulla sua barchetta munita di vela e ritornammo sani e salvi al nostro punto di partenza nella spiaggetta vicino a Selce poi dopo avere pagato il buon uomo, concordammo con lui che l’indomani sarebbe venuto nuovamente a prenderci, sempre con la sua barchetta a vela, per portarci in giro dell’isola a vedere i meravigliosi luoghi che quell’isola riservava solo a coloro i quali potevano avere una barca per arrivare. Il giorno dopo, dato che la sera aveva piovuto, Sergio ed io avevamo dovuto dormire su un pianerottolo della casa che ci ospitava, decidemmo, con l’aiuto di Metka, di andare alla ricerca di una camera dove potere passare le restanti giornate di vacanza. Dopo molto cercare, (non fu facile visto il periodo di Agosto), trovammo un appartamentino sito in un giardino di una casa. La proprietaria, una donna vecchia con un fazzoletto nero stretto in testa, ci venne incontro salutandoci poi, saputo che eravamo italiani, si mise parlare nella nostra lingua e ci mostrò la nostra dimora che aveva all’interno due letti, di cui uno matrimoniale che, d’accordo con Sergio, divenne la mia alcova. Era una stanza piccola ma sempre molto pulita con la vecchietta che giornalmente si occupava della pulizia e alle volte che, o io o Sergio portavamo le nostre ragazze, subito dopo che eravamo usciti, si precipitava a riassettare tutto il campo di battaglia. La prima volta che entrai da solo con Metka sentii bussare la porta e vidi la vecchietta con un bicchiere da mezzo litro con il manico (quelli da birra) pieno di acqua e senza dire nulla mi consegno e mi salutò con un sorrisetto. Non capivo il motivo dell’acqua se non più tardi quando, finito di fare all’amore, la sete si fece sentire e allora ne capii il motivo e cosi, ogni volta che io o Sergio entravo in casa, la vecchietta appariva con il bicchiere pieno di acqua e ogni volta, senza dire nulla, si allontanava sorridendo. Passammo i restanti dieci giorni di vacanza assieme a Metka e Sergio con le sue nuove conquiste poi, come tutte le cose belle, la vacanza finì e, mentre noi facemmo ritorno alle nostre case, Metka, con la sua famiglia, ritornò a Lubiana con la promessa che ci saremmo rivisti quanto prima. Ci rivedemmo in occasione della festa della repubblica di Jugoslavia che in quegli anni cadeva il 29 di Novembre e proseguiva sino al 04 Dicembre per cui decisi, dopo averlo concordato con Metka, di andare ospite a casa sua a Cernuce vicino a Lubiana. Partii molto presto al mattino con la mia Vespa munita di parabrezza in una giornata gelida con vento e neve. Così, vestito con gli abiti più pesanti che avessi allora, e con una specie di colbacco e guanti di lana che mi erano stati fatti dalla nonna, mi avviai verso il confine di Sezana dove, dopo avere superato il valico italiano, fui fermato dai “granacieri jugoslavi” che Pagina | 188


mi chiesero se avevo dei dinari con me ma, al mio diniego, non credendomi iniziarono a controllare la mia Vespa smontando sistematicamente ogni parte. Quella volta, a differenza delle altre, non ero passato per casa dello zio di Sergio per cui avevo dovuto procurarmi dei dinari al mercato nero e pertanto avevo pensato di nasconderli, nel fanale anteriore della vespa. Cosi mentre questi, nel gelido vento che sferzava il posto di blocco, mi smontavano sistematicamente ogni parte della vespa aprirono anche il fanale anteriore, dove trovarono tutti i dinari che avevo nascosto e che furono regolarmente sequestrati e fatti sparire nelle loro tasche, ovviamente senza farmi il verbale in quanto, da disonesti quali erano, se li tenevano per loro alla faccia del partito. Poi, arrabbiati per la bugia detta, mi portarono all’interno, dove mi fecero spogliare, lasciandomi solo le mutande e nel freddo della stanza, rovistarono gli indumenti nella ricerca di altri dinari che, in effetti, non trovarono. Mi fecero rivestire e mi lasciarono andare. Prima però dovetti risistemare tutte le parti smontate da quegli incivili graniciari e così, dopo quasi un’ora, rimontato il tutto, mi potei avviare verso Lubiana. Dal confine per raggiungere Lubiana si doveva passare per un valico che si trovava prima di Postumia e che per mia sventura era già completamente ricoperto di neve e ghiaccio per cui dovetti procedere molto lentamente e per lunghi tratti con i piedi che scivolavano sull’asfalto ghiacciato in modo da non cadere. Procedetti così sin quasi a Postumia, dove la strada divenne meno gelata e innevata. Raggiunsi il posto che avevamo stabilito per incontrarsi alle porte di Lubiana, dove c’era il capolinea del tram, all’ora stabilita che erano le dodici dove vidi Metka raggiante che mi stava aspettando e mi corse in contro per abbracciarmi e baciarmi. Salita sulla Vespa, stretta a me e che con il suo calore mi riscaldava dal freddo intenso di quel viaggio, mi guidò verso la sua abitazione che si trovava, in una casa a due piani con un bel giardinetto sul davanti, a Cernuce e trovai sul davanzale di casa la madre di Metka che mi stava aspettando per offrirmi il pranzo che aveva preparato per me. Entrato, portai il mio zaino all’interno, dove la madre m’indicò, facendosi capire, che avrei dormito nella camera matrimoniale assieme a Metka sul bel lettone che era stato preparato, per l’occasione, e che era stato in precedenza il letto che lei aveva diviso con il marito, purtroppo morto prematuramente. Quella sera incontrai il fratello maggiore, che viveva in famiglia con loro due, e venni a sapere che il fratello avrebbe dormito nella nostra stessa stanza, su di un divano letto, il che mi creò parecchi problemi tra i quali, il primo, quello di dormire con Metka senza potere fare all’amore e, secondo, l’imbarazzo di come il fratello avrebbe accettato la condivisione della stanza con noi. Pagina | 189


Devo però dire che il fratello considerò la cosa senza nessun timore ne vergogna anzi, mentre eravamo a letto, continuò a parlare con Metka la quale poverina cercava di farmi capire che ero il benvenuto e di considerarmi uno di famiglia. Dormii comunque molto bene stretto tra’ le braccia di Metka e il mattino, al risveglio scoprii che lei si era già alzata e, assieme alla sua mamma, aveva preparato la colazione che mangiammo tutti assieme nella tavola apparecchiata in cucina. Dopo la colazione, il fratello mi salutò dicendomi, sempre attraverso l’intermediazione di Metka, che sarebbe partito per alcuni giorni per andare a trovare la sua ragazza che abitava dalle parti di Maribor. Quel giorno, che poi era di festa per la Jugoslavia, dopo avere girovagato per Lubiana sino a sera, fui invitato a una cena presso una Gostilna di Cernuce per festeggiare il compleanno di un loro parente e cosi, non senza timore, mi recai con Metka alla festa, dove mi trovai attorniato da una dozzina di parenti e amici che mi salutarono calorosamente. Dopo avermi offerto un posto accanto a Metka e a una simpatica copia di amici, iniziarono a farmi bere birra e vino tanto che a un certo punto dovetti uscire all’aria fresca per non stramazzare a terra ubriaco. Tutti vollero sapere di come c’eravamo conosciuti e se pensavamo di sposarci al che, adducendo al fatto di non capire la lingua, non risposi ma rimasi piuttosto preoccupato dall’andamento della situazione perché non avevamo mai parlato con Metka di questa cosa, ma poi capii che era una domanda naturale visto che ero lì con loro e dormivo a casa di lei. Il mio vicino di tavolo, che era un simpatico personaggio, in un momento che Metka si era recata al bagno, con qualche frase in italiano mi fece delle domande su di lei e in particolare se le volevo bene oppure se era solo per fare all’amore con lei e non sapendo cosa rispondere trovai una scusa per recarmi anch’io al bagno. Finalmente la festa finì e potemmo fare ritorno alla loro casa dove, anche se un po’ brillo, potei fare all’amore con Metka nel grande letto matrimoniale senza la presenza del fratello che ci disturbasse. I giorni passarono in fretta e l’ultimo giorno, dopo avere ringraziato la madre, fatta salire Metka dietro di me sulla Vespa guidai sulla strada del ritorno fino al punto in cui lei mi aveva ricevuto al mio arrivo e fu con difficoltà che ci separammo, non senza prima di averci dato l’ultimo bacio e, quando risalii sulla vespa, notai delle lacrime scendere dal suo viso quindi si girò e lentamente mi lasciò andare via. Quando feci ritorno a casa, trovai che la situazione famigliare era cambiata poiché lo stato della salute di mio padre si era aggravato ed era stato ricoverato, come peraltro già successo altre volte, in ospedale a Trieste.

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A questo fatto si aggiunse il problema che, durante la mia assenza, si erano presentati a casa dei carabinieri chiedendo dove fossi perché dovevano fare una verifica sul mio stato e sul mio pensiero politico perché c’era stata, da parte dei Cantieri Navali, la richiesta di essere trasferito presso gli uffici tecnici della Marina Militare. Avendo saputo da mia madre che ero andato in Jugoslavia per turismo questi se né andarono senza aggiungere altro. Andai pertanto dal padre del mio amico Elvio (el sior arbitro) per vedere a quale titolo si erano presentati i carabinieri e questi mi spiegò che con il fatto di avere la “Propusnica” (una specie di passaporto che era concessa a coloro i quali abitavano nella fascia confinaria con la Jugoslavia per recarsi senza visto in quel paese) probabilmente mi sarei giocato l’opportunità’ di passare negli uffici della Marina Militare che in quei tempi (anni cinquanta – sessanta) erano, segretati perché erano costruite navi e sommergibili militari. Purtroppo la credenza e l’ordine erano questi ma come si sa’ i segreti militari passano al nemico attraverso altre vie e soprattutto con persone a un più alto livello che attraverso un semplice impiegato. Ciò nonostante el sior arbitro, mi consigliò di evitare di andare ancora in Jugoslavia e sopratutto di non rinnovare la mia Propusnica se volevo che lui cercasse di fare in modo di perorare la mia causa per farmi assumere negli uffici della Marina Militare. Mandai quindi una lettera a Metka invitandola a venire a Nova Gorica per passare alcuni giorni con me prima del Natale. Arrivò, infatti, un Venerdì sera alla stazione degli autobus, dove ero ad aspettarla, munita di una piccola valigetta con i suoi indumenti personali, forse perché sperava che l’avrei portata a Monfalcone per conoscere i miei. Quindi, dopo averla salutata, ci recammo all’Hotel Sabotino di Salcano, per passare la notte. Quella non fu’ una notte facile, infatti, dopo avere fatto all’amore, ci recammo a cena al ristorante dell’hotel, dove avevo in precedenza organizzato con il maitre il tipo di menù, mangiammo felici il nostro pasto ben sapendo, da parte mia, quale sarebbe stato il seguito della serata. Mi feci forza e iniziai a raccontarle, cercando di farmi capire con il mio sloveno basico, sul motivo del mio invito a farla venire improvvisamente lì in quell’hotel e cenare e passare la notte con me. Le dissi di mio padre e soprattutto al divieto che avevo ricevuto dal cantiere navale di recarmi ancora in Jugoslavia e che quella era forse la nostra ultima notte che avremmo passato assieme.

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Rivedo ancora lo sgomento nei suoi occhi poi piano, piano mentre le lacrime le scendevano copiose dagli occhi, si alzò prendendomi per mano e mi accompagnò nella nostra stanza. Poi, senza altre parole mi baciò e si offri a me con un amore che non avevo mai visto prima poi rimanemmo tutta la notte svegli e abbracciati l’un l’altro fintanto che le luci del mattino penetrarono attraverso le persiane. Allora dandomi un ultimo bacio si rivesti in fretta e salutandomi se ne andò lasciandomi in uno stato di profondo sgomento e di solitudine. Non l’ho più rivista né sentita. Mi recai in Jugoslavia, assieme a Sergio, ancora per qualche mese sempre girovagando nei dintorni di Nova Gorica che era ormai diventata la nostra seconda casa, ma, durante una di queste ultime visite, successe un grave incidente a Sergio. Come ogni volta al rientro del Lunedì mattino, saranno state le ore 03, guidavamo alternandoci in testa, un po’ con la mia Vespa e un po’ con quella di Sergio, a fare l’andatura mentre, quello che era dietro, seguiva con un occhio il fanalino che precedeva e con l’altro dormiva. Eravamo giunti all’altezza del Sacrario di Redipuglia ed io ero alla testa che guidavo e Sergio seguiva. Faceva molto freddo e, data l’ora, mi ero raggomitolato dietro al parabrezza per sentire meno il freddo e procedevo senza guardare dietro perché sapevo che Sergio mi stava seguendo. Così ero quasi in piazza a Ronchi dei Legionari, quando per un attimo mi sono girato e non ho più visto la Vespa di Sergio, dietro di me. Mi sono fermato ed ho aspettato qualche minuto in attesa che arrivasse ma dopo un po’, non vedendolo ancora arrivare, ho girato la Vespa e sono ritornato sui miei passi fintanto che ho notato alcune persone che stavano accanto ad un corpo disteso per terra accanto alla sua Vespa. Scesi immediatamente e trovai Sergio tutto insanguinato con la faccia coperta da lividi e graffi sdraiato a terra immobile e senza parole, mi precipitai verso di lui per soccorrerlo e cercare di capire cosa fosse accaduto, intanto alcune persone si recarono a svegliare il proprietario del bar lì vicino per telefonare alla croce rossa che giunse, sul posto, di lì a poco. Mentre lo portavano via io, avevo badato a mettere in sicurezza la Vespa, che era tutta ammaccata, all’interno di un cortile e poi ho cercato di capire la dinamica dell’incidente occorsogli. Credo di avere capito cosa fosse successo perché in quel punto, dopo la discesa dal Sacrario di Redipuglia, esiste una curva abbastanza accentuata con un alto muro di recinzione che la costeggia pertanto credo che Sergio, in quel momento che seguiva con la sua Vespa, la mia, si fosse addormentato e fosse finito diritto contro il muro di cinta. Finito di sistemare la sua Vespa corsi all’ospedale dove lo trovai al Pronto Soccorso in stato di semincoscienza e attorniato da alcuni medici i quali mi dissero che aveva subito un grosso trauma facciale e lo dovevano ricoverare per cercare di capire, il mattino dopo, qual era il reale danno subito. Pagina | 192


Mi chiesero i dati anagrafici e l’indirizzo per avvisare la famiglia e mi consigliarono di andarmene anch’io a casa a riposare perché ero in uno stato pietoso dovuto all’incidente del mio amico e dal fatto che erano ormai le cinque del mattino. Ovviamente a casa erano tutti in subbuglio ad aspettarmi, vista l’ora, ma prima di essere sgridato da mia madre, raccontai cosa era successo poi velocemente m’infilai nel letto, dove caddi in un profondo sonno che durò solo poche ore in quanto alle otto, dovevo recarmi al lavoro in cantiere. Rividi Sergio la sera stessa, in ospedale, era conciato veramente male con una parte del viso completamente paralizzata, la bocca storta e le escoriazioni che ricoprivano gran parte della faccia ma, se Dio vuole, era ancora in grado di scherzare, anche se non si ricordava cosa era realmente accaduto. Rimase con la bocca storta per parecchi anni e, dopo avere smesso di andare con lui in Jugoslavia, ci siamo rivisti ormai sposati con figli per celebrare alcune feste di capodanno raccontandoci le strane avventure passate durante la campagna di Jugoslavia che ho in parte narrato nelle pagine precedenti.

“1960 morte del papà” Da molti anni mio padre era ammalato. Anzi, che io ricordi, l’ho visto sempre ammalato prima con i suoi problemi alle gambe con le varici che lo disturbavano e alle volte lo obbligavano a stare in casa dal lavoro oppure per una malattia che lo portò piano, piano per molti mesi in ospedale tanto che, a un certo punto, fu’ ricoverato in un reparto dell’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste. Era un dramma perché il papà non era pazzo ma, ogni tanto, s’isolava stando per ore da solo guardare nel nulla e alle volte perdeva conoscenza oppure si addormentava. Pagina | 193


Lo curavano con dei forti medicinali che lo prostravano e per ore rimaneva a letto senza potere fare nulla. La mamma era ogni giorno a Trieste e gli stava vicino accudendolo e cercando di dargli forza e facendogli compagnia mentre io e mia sorella, che lavoravamo, andavamo a trovarlo il Sabato o la Domenica. Non era bello entrare in quell’ospedale perché in alcuni padiglioni erano ricoverate molte persone gravemente ammalate di pazzia nelle diverse forme e potevi intravedere tra’ le sbarre di quei reparti quei poveretti che gridavano o si lamentavano. Fortunatamente il reparto dove era ricoverato, mio padre era distante da quegli orribili luoghi ed era sistemato in una cameretta con altri due ammalati di cui uno in particolare ricordo era lì perché aveva il vizio del bere. Ricordo una scena particolare che accadde un giorno che io ero lì presente, durante la visita dei medici gli stessi non riuscivano a capire come mai il paziente era continuamente ubriaco. Verificarono se questi usciva dall’ospedale, ma mio padre disse di non averlo mai visto uscire, allora chiamarono i parenti per verificare se fossero loro a portare delle bevande alcoliche ma questi esclusero nel modo più assoluto che tali cose venissero, da loro fatte. Un giorno mentre ero lì che facevo compagnia a mio padre vidi che l’uomo alcolizzato inizio a tremare tutto alzarsi e prendere, da un cassetto, una confezione di cioccolatini e velocemente mangiarne quattro o cinque quindi soddisfatto rilassarsi sul letto e riaddormentarsi. Incuriosito, andai a vedere la scatola dei cioccolatini che l’uomo aveva posato sul davanzale della finestra e vidi che erano sì dei cioccolatini ma tutti al rum. Compresi allora il motivo per il quale era sempre ubriaco. Bastavano quei pochi cioccolatini presi durante il giorno per farlo entrare nello stato di ebbrezza continua. La volta successiva che passai a trovare mio padre scoprii che all’uomo erano state sequestrate tutte le scatole di cioccolatini e per renderlo tranquillo credo che fossero date a lui forti dosi di calmante, dopo qualche mese non l’ho più rivisto e nessuno mi ha saputo dire che fine avesse fatto. Le volte che andavo a trovare mio padre, in particolare durante la bella stagione, lo trovavo che mi aspettava, seduto, su di una panchina sotto gli alberi e lì in silenzio mi sedevo accanto a lui e restavamo per ore a guardare il parco dicendoci solamente poche parole ma, credo che per lui fosse una grande gioia, stare accanto al figlio. Mi domandavo allora, dove era finito quel brillante imbonitore che era mio padre quando stava bene e seduto, davanti a casa nelle baracche di Wagna, attorniato dai vicini che, seduti in circolo accanto a lui, aspettavano che iniziasse a parlare per suscitare l’ilarità’ di tutti. Ora era lì accanto a me su quella panchina con lo sguardo fissato nel vuoto tanto da sembrare una statua ma sono certo che nel suo cervello passavano in quel momento tutti gli episodi della sua vita e così che anch’io incominciai ad analizzare il tempo passato con lui. Pagina | 194


A parte la guerra con le paure e la fame, i ricordi di mio padre si associano sempre a momenti di particolare importanza per la mia vita. Inizia con la scuola per poi seguire con il periodo con i boy scout dove l’aspetto più importante erano i periodi del campeggio e soprattutto, la visita che venivano a farci i genitori e ricordo bene l’emozione di vederlo spuntare, alto e magro con la sua carnagione olivastra e i cappelli ricci da africano, che mi salutava e vedendolo mi emozionavo e li correvo incontro per abbracciarlo. Lo ricordo dai Naibo, i contadini, dove lavorava mia madre, e per i quali era visto come un fratello ma soprattutto un divertente compagno con cui scherzare e ridere delle sue battute. Lo ricordo quando mi dava lezioni di vita, anche se al momento non me ne accorgevo, come quando un giorno ci sfidammo a chi infilasse più cerchi nel collo di una bottiglia. Preparammo uno spazio sopra il tavolo che ci serviva per pranzare all’aperto, sotto il ciliegio, e messoci sopra una bottiglia distanti alcuni metri, iniziammo a cercare di infilare quanti più anelli nel suo collo. Alla fine della prima partita riuscii a batterlo per cui iniziai a pavoneggiarmi con la nonna e la mamma perché ero stato il più bravo, ma dopo un po’ mio padre mi chiese la rivincita e, visto il risultato precedente, accettai subito dicendogli che avrei nuovamente vinto. Lui senza dire nulla, iniziò il gioco e infilò i primi anelli nella bottiglia lasciando poi, me tirare ma, quella volta, non fui capace di ripetere la prestazione precedente e fui cosi sconfitto in modo clamoroso. Mi concesse la rivincita ma anche questa volta, pur con la differenza di un solo cerchio, vinse mio padre e fu’ allora che mi disse: “Attento vinse ben chi vinse ultimo” quella fu la prima lezione di vita che ricordo ancora ora come un’importante scelta da fare ogni qualvolta ci si trova facilmente a vincere. Ancora oggi, in certi frangenti, mi sforzo dì ricordare cosa disse mio padre “Vinse ben chi vinse ultimo” e devo dire che quel detto ha servito molte volte a tirarmi fuori da situazioni difficili dove apparentemente poteva sembrare che avevo perso ma poi, alla lunga, aveva ragione lui “mio padre”. Quegli anni, durante il suo ricovero all’ospedale a Trieste, sono stati molto dolorosi per me e per la mia famiglia compresa la nonna Carmen, che anch’essa ammalata, soffriva tremendamente nel sapere, il suo figliolo, relegato in una stanza dì ospedale mentre avremmo avuto la necessità dì averlo vicino, per essere guidati e aiutati anche finanziariamente. Fortunatamente c’e’ la cavavamo abbastanza bene perché, sia io sia mia sorella, lavoravamo mentre mia madre andava quasi ogni giorno, a trovarlo a Trieste per cercare dì stare con lui più tempo possibile. A casa c’era la necessità dì accudire alla nonna e preparare la cena e fare i lavori dì casa per cui, una volta rientrata da Trieste, doveva appena iniziare a preparare la cena oppure fare le pulizie. Pagina | 195


In quel periodo, avevo diciotto anni e tanta voglia di vivere e di divertirmi, una domenica mentre ero dagli amici, presso la casa del “sior arbitro”, ad ascoltare musica con il mio nuovo giradischi Philips e a ballare ricevetti una chiamata telefonica della mia mamma, che dall’ospedale, mi chiedeva dì andare a Trieste e portare con me il giradischi nuovo perché mio padre aveva espresso il desiderio dì sentire un po’ dì musica. Rifiutai dì andare con la scusa dell’ora tarda e del viaggio da fare in Vespa portando appresso il giradischi che era piuttosto voluminoso. Cosi pensai dì avere trovato la scusa per non andarci e continuai a sentire la musica e ballare. Dopo un’ora mia madre ritelefonò pregandomi dì andare perché mio padre era rimasto deluso dal mio rifiuto e si aspettava dì vedermi arrivare, ma anche quella volta rifiutai senza pensare alle conseguenze di quel rifiuto sulla salute di mio padre. Fu un errore grave nei suoi confronti e lo capii qualche tempo dopo quando lo andai a trovare a Trieste. Lo trovai al solito posto, seduto su dì una panchina, sotto un albero del grande giardino che circondava l’ospedale psichiatrico dì San Giovanni con lo sguardo fisso lontano e appena mi vide mi guardò e un breve sorriso dì scherno apparve sulla sua bocca poi si girò e rimase tutto il tempo senza una parola. Fu peggiore di ricevere uno schiaffo e anche quella fu’ un importante insegnamento dì vita che oggi, a distanza dì quasi sessanta anni, ancora mi strugge per non avere accontentato quella sua semplice richiesta dì andare da lui per farli sentire un po’ dì musica e portagli quella gioia che lui si aspettava fosse soddisfatta da suo figlio. Quell’anno la malattia dì mio padre si aggravò e a un certo punto fummo chiamati dai medici i quali ci dissero che le condizioni dì mio padre erano sempre più gravi e che dovevamo aspettarci che da un momento all’altro potesse morire. Lasciammo l’ospedale e fu un dramma ritornare a casa e doverlo dire alla nonna la quale poverina si mise a piangere invocando Dio che prendesse lei invece del suo figliolo. Quella settimana andai con la Società Canottieri Timavo, di cui facevo parte quale atleta dell’imbarcazione a otto, ai Campionati Italiani di canottaggio che si teneva a Padova e, dopo la gara, mi recai in visita alla basilica del Santo Antonio dove, appena entrato, fui attratto dalla tomba del Santo, posta alla sinistra dell’ingresso principale. Salii, assieme ad altri fedeli, le poche scale che conducevano davanti alla tomba e, come facevano gli altri, poggiai la mia mano sul freddo marmo del loculo del santo iniziando a pregare intensamente affinché potesse intervenire per fare guarire mio padre. Rimasi lì per un bel po’ di tempo immerso nel silenzio di quel luogo santo e a un tratto mi sentii invadere da una strana sensazione come se un calore mi passasse dalla mano, poggiata al freddo marmo della tomba, e si ripercuotesse attraverso il mio braccio fin dentro di me.

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Rimasi esterrefatto da quella sensazione ma poi pensai che il tutto fosse dovuto dalla posizione in cui mi ero sistemato per cui, fatto il segno della croce, mi ritirai per proseguire il mio giro attraverso la chiesa. Ritornai, più tardi, dagli altri canottieri che mi stavano aspettando davanti alla corriera da dove, dopo un po’ dì tempo, facemmo ritorno a Monfalcone senza ricordare più quanto successo prima nella chiesa del Santo Antonio di Padova. Raggiungemmo Monfalcone che era ormai sera quindi, dopo avere salutato gli altri amici, feci ritorno mestamente verso casa dove mi aspettavo dì avere brutte notizie sulla salute di mio padre. Trovai invece mia madre e mia nonna raggianti dì felicità e stupito chiesi loro il perché della loro contentezza così mi raccontarono che il primo pomeriggio, come ogni giorno, mia madre era stata a Trieste a trovare mio padre e a un tratto questi si era alzato dicendo dì sentirsi meglio tanto che i medici accorsi per visitarlo non seppero spiegarsi tale avvenimento. Al momento non legai quest’avvenimento con quanto mi era accaduto il primo pomeriggio alla tomba del Santo Antonio da Padova e fui anch’io molto contento dal fatto che mio padre stesse meglio ma poi, ripensandoci, mi sono ricreduto su quanto successo e mi sono convinto che ciò era dovuto, sicuramente a quanto accadutomi a Padova con la mia intercessione, al Santo Antonio, a fare guarire mio padre. Qualche giorno dopo mio padre fece ritorno a casa molto felice di trovarsi nuovamente in famiglia con i suoi cari anche perché si sarebbe celebrata, di lì a poche settimane, la cresima di mia cugina Annamaria che si celebrò il 06 giugno 1959.

Cresima di Annamaria.

La festa fu particolarmente sentita anche per la presenza dì mio padre che per l’occasione ritornò, almeno per poco, a essere l’imbonitore dì sempre non facendo mancare le sue continue battute e, attorniato dagli amici dì sempre, riuscimmo a dimenticare il suo male e festeggiare fino a notte inoltrata in allegria. Pagina | 197


Quel gruppo, che è ritratto nella foto, e la quiescenza dell’amicizia dì una volta dove, con poco, un gruppo affiatato dì persone riusciva a passare delle ore mangiando, bevendo e soprattutto raccontando le loro giornate e le cose più buffe a loro accadute. La foto, per me, è un ricordo fulgido dì una bella giornata passata assieme a loro ma, soprattutto, avendo avuto accanto mio padre. Ed è per questo, che riporto i nomi di tutti loro, a testimonianza di un periodo felice che, purtroppo sarebbe durato poco. Sono partendo da sinistra: zia Giorgina, Genio e la Zora, la Maria e Miglio dei Naibo, Orietta, mia sorella Silva, Enzo, il sottoscritto, un’altra figlia dì Alferio, la moglie di Alferio, lo zio Rino, la nonna Carmen classe 1888, la mamma, Annamaria, la mamma di mia zia Giorgina, mio papà sorridente, Agna Lisa, Mosetti, zio Toni dì Villesse e il padre di mia zia (el fabbro de Villesse). Nb: Alferio, il fratello di mia zia Giorgina, scatta la foto. Esattamente un anno dopo quella foto mio padre morì era il 20 giugno 1960. Successe, infatti, che, dopo essersi sentito per molti mesi bene, il male ritornò in maniera più aggressiva tanto da doverlo ricoverare nuovamente a Trieste dove, dopo diversi giorni dì sofferenza, entrò in agonia. Fummo convocati a Trieste dì urgenza e mentre mia madre si recava in treno, perché portava con sé delle cose, io presi la mia Vespa e velocemente mi recai anch’io all’ospedale, dove fui accolto dai pianti dì mia madre la quale mi disse che i medici davano ormai poche ore dì vita a mio padre, fu per me una mazzata tanto da non avere idea dì cosa fare se non pregare. Mi recai alla panchina del giardino, dove mio padre usava aspettarmi, e li rimasi piangendo e pregando fintanto che mia madre mi raggiunse dicendomi che avrebbero portato a Monfalcone mio padre con l’ambulanza e che era meglio se mi avviavo anch’io verso casa per avvisare la nonna e mia sorella che non erano venute con noi a Trieste. Salii, pertanto, immediatamente sulla mia Vespa e il più velocemente possibile mi avviai verso casa. Ma, nonostante cercassi dì andare veloce, il dovere attraversare il centro città e poi il lungomare dì Barcola affollato di gente al mare che prendevano il sole mi costrinsero a rallentare tanto che, all’altezza della galleria della Costiera, sentii in lontananza il lacerante suono della sirena dell’ambulanza che, dopo poco, mi sorpasso velocemente dileguandosi alla volta dì Monfalcone. Fu una cosa frustrante per me perché mi sembrava dì vivere in un brutto sogno “come quando vuoi prendere qualche cosa e questa ti scappa sempre più lontano” tanto che a un certo punto accelerai al massimo la mia Vespa abbassandomi per fendere meglio l’aria e piangendo riuscii finalmente raggiungere casa dove ormai mio padre era stato sistemato sul suo letto, nella camera matrimoniale della baracca dì Wagna, ed era attorniato da mia nonna e mia sorella piangenti.

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L’agonia dì mio padre durò parecchie ore ed io, per tutto quel tempo, rimasi sdraiato accanto a lui cercando dì capire se mi stesse sentendo e vedendo ma, non avendo nessun segnale se non il suo respiro che si faceva piano, piano sempre più affaticato, continuai a guardarlo parlandogli sino a che con un profondo sospiro ci lasciò per sempre. Aveva solo quarantasette anni. Lasciai la sua camera piangendo e mi nascosi nel casotto dì lamiera che mio padre aveva costruito nell’orto, dietro la casa dì mio zio Rino, e che serviva per garage della mia Vespa e li rimasi fino a che mia sorella venne a cercarmi per dirmi che erano arrivati i parenti e che dovevamo dare loro attenzione. Quel giorno sono diventato improvvisamente un uomo!

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