Il Caffè speciale tempo - dicembre 2007

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23 dicembre 2007

IL CAFFÈ

IL LIBRO

L’uomo immortale BAZZI A PAGINA VIII

LA STORIA

La nostra seconda vita GUENZI A PAGINA XII

Società, tecnologia, immigrazione... dai gusti all’aritmetica binaria, dalla solidarietà all’arte del mondo futuro

TEMPO LIBERO D’AGOSTINO

I

l segno dei tempi, tra quello che è stato il 2007 e quanto ci riserva il futuro, potrebbe essere tutto in una notizia di qualche mese fa. Anzi, per l’esattezza, perché con le cose che fanno Storia bisogna essere precisi, in un lancio delle agenzie del 31 ottobre: Wikipedia, la famosa enciclopedia on line, e la Nasa, l’agenzia spaziale americana, hanno deciso di cambiare la tradizionale datazione, pressoché usata in tutto il mondo: “bC”,

IL RACCONTO

Quell’uomo chiamato Tristano VITALI ALLE PAGINE II E III a strana storia di Tristano, soprannominato misteriosamente Cadavere, un individuo dal carattere pensoso, che preferiva la solitudine alla compagnia. La pesca solitaria delle alborelle o delle anguille del Lario, alle corse con i pattini a rotelle sul Lungolago. Schivo fino al momento in cui arriva un’inattesa notizia. “La moglie del Cadavere è in attesa…”

L

Direttore responsabile LILLO ALAIMO

before Christ, ossia prima di Cristo, e “aD”, annus Domine, saranno sostituiti con le formule: “Bce”, Before common era e “Ce”, Common era. Sigle molto più laiche per non urtare i popoli di fede non cristiana. Insomma, la nuova era si apre all’insegna del religiously correct anche sul web e nello spazio, le nuove frontiere dell’umanità. Poco importa che a voler spodestare la nascita di Gesù Cristo dal conteggio dei millenni ci abbiano già provato, senza successo, i bol-

IL LUOGO

Le fabbriche “pesanti” dell’Internet GIUSSANI A PAGINA IX normi capannoni con all’interno un numero altrettanto spropositato di supercomputer, collegati col mondo da milioni di chilometri di cavi e capaci di “divorare” energia quanto un’intera città di medie dimensioni. Sono i luoghi dell’“industria pesante dell’Internet”, luoghi del tutto simili alle grandi superfici dell’industria pesante che hanno caratterizzato il Novecento.

E

scevichi della Rivoluzione russa e i loro cugini della Repubblica democratica tedesca, di forte ispirazione sovietica, ma si sa come sono andati a finire. Toccare Cristo, a volte, porta sfiga. Ma per fortuna non sono solo questi i segni dei tempi che, alla fin fine, come gli elastici si tendono in un perenne ritorno tra passato e futuro, nello schiocco di un presente che risuona sempre di nostalgia per come eravamo e di sogni per come vorremo essere. Quali siano questi segni nella

vita vera degli uomini, ce lo racconta, con la maestria intrigante di sempre, lo scrittore Andrea Vitale in questo speciale del Caffé dedicato alle Feste, all’anno che finisce e a quello che va a cominciare, carico sempre di nuove aspettative e, magari, di buoni propositi. Nascita e rinascita come nella storia del personaggio di Vitali che sceglie proprio il Natale per cambiare vita e inventarsi un altro se stesso da cui ripartire. segue a pagina V

I SAPORI

L’INCONTRO

Anche il gusto Gianna e la sua ora pensa continua lotta al suo domani contro la miseria PETRINI A PAGINA XIII l gusto che pensa al proprio futuro. La gastronomia, spesso, si interroga sulle direzioni da prendere. Guardare al passato - ripercorrendo la tradizione e continuando a basare la cucina sui prodotti fondamentali e locali - oppure se concentrarsi sul domani, quello dell’essenzialità dei sapori, attraverso, ad esempio, la cucina molecolare o concettuale. Molte strade, molte scelte, anche controverse.

I

ROCCHI A PAGINA XIV a anni vive tra i più poveri tra i poveri. Non fa mancare a nessuno il suo aiuto tra mille difficoltà. Una lotta contro la miseria che, per la ticinese Gianna Bernasconi, significa anche garantire il futuro a molti dei suoi protetti. Bambini, giovani, adulti, famiglie e anziani trovano sempre in Gianna un essenziale punto di riferimento nei momenti più difficili. Una personalità forte, da conoscere a fondo.

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Le illustrazioni di questo fascicolo sono di MICHELE TRANQUILLINI


IL RACCONTO

Gli avevano dato un nome per niente bello. Era ancora giovane ma sentiva già il bisogno d’inventarsi una nuova vita

ANDREA VITALI *

L’

avevano battezzato Tristano, che è già un bel cominciare. Poi, all’epoca della quarta elementare quando, lui ripetente, me lo trovai compagno di classe, il gioco che il destino aveva architettato sulla sua testa cominciò a rendersi evidente. Non so dire chi lo soprannominò Cadavere. Ma so che il nomignolo attecchì con la tenacia di una mala erba. Tanto bene che nemmeno il destinatario ebbe da ridire. Lo accettò pianamente. “Cadavere”! E lui rispondeva, con un sorriso spontaneamente triste che fioriva come un crisantemo sul suo viso scarno, smunto, dagli zigomi sporgenti. Ora, non so se in famiglia avesse mai riferito del singolare soprannome col quale ormai era noto in classe e all’oratorio. Credo tuttavia che, se anche così fosse stato, nessuno, padre o madre, lo avrebbe trovato oltraggioso. Questione di humus, di atmosfera. Che si spiega tenendo presente il fatto che il padre di questo mio compagno di classe aveva, oltre a un solido impiego quale battellotto presso lo scalo bellanese della Navigazione Lariana, una seconda occupazione cui dava

La

rinascita di Tristano fiato a tempo perso in un buio laboratorio incassato al piano terra della sua casa. Una volta, forse, cantina, il locale era a quei tempi ripieno degli attrezzi e delle materie prime che servivano all’uomo per costruire bare. Una vera vocazione, poiché l’uomo vi si dedicava non appena libero dall’impegno principale. Tra l’altro molto apprezzato il suo lavoro, soprattutto dai bellanesi meno abbienti in causa dei prezzi contenuti e dell’assistenza misurata che il padre del Cadavere offriva ai parenti dei defunti. Sorgeva a volte un problema: potendo lavorare solo nei ritagli di tempo o la sera, prima che il sonno gli togliesse forze e concentrazione, capitava che la richiesta cogliesse impreparato l’uomo. E in quel caso non era raro che i familiari del morituro pregassero il medico e l’alto dei cieli affinché l’agonizzante tirasse là ancora quei due o tre giorni necessari all’artigiano per portare a termine il lavoro in corso. Crudeli, noi bambini ci dicevamo che in quelle bare grezze, non ancora pronte per un ospite definitivo, il nostro compagno Cadavere dormisse e a quelli più sfacciati che ebbero l’ardire di chiedergli conferma, lui non rispose mai né sì né no, come se a un certo punto avesse cominciato a piacergli che attorno gli aleggiasse quell’aura mortifera che, tutto sommato, incuteva una certa forma di timoroso rispetto. Fu quindi senza meraviglia, anzi, con il sollievo di vedere confermate certe ipotesi, che l’anno della quinta elementare il Cadavere partecipò alla sfilata di Carnevale bardato coi paramenti funebri, invero consunti dall’uso, che il padre gli aveva concesso mancando in quei giorni la necessità di impiegarli al canonico scopo. E fu l’occasione in cui, coscientemente o meno, il Cadavere offrì di sé l’immagine più allegra che io ricordi, poiché seguì la banda, che allietava con marcette il corteo, saltellando qua e là, (gli inquietanti fiocchi argentei che ballonzolavano come spiritelli di un fuoco spento), protagonista solitario di una solitaria Danza Macabra.

Solo a un superficiale osservatore, negli anni a venire, sarebbe sfuggito un dato: l’immagine che il Cadavere offriva di sé, (non c’era mezzo che mettesse su un etto che fosse uno; allungandosi, sembrava che le ossa stirassero la pelle anziché seguire una concorde marcia di crescita; il sangue che gli correva nelle vene doveva essere annacquato, l’umidità del lago acciaccava i suoi globuli rossi), l’immagine, insomma, non era pura copertina. Consona piuttosto ad un carattere pensoso, mutacico, solitario e portato alla melanconia. Carattere che lo faceva scivolare nelle umide contrade piuttosto che correre coi pattini sul lungolago. O che gli faceva preferire, tanto per dare un altro esempio, la notturna pesca alle anguille anziché quella alle alborelle nel pieno sole di giugno, a scuole appena chiuse. Una cosa, allora, gli invidiavo sinceramente: l’incapacità di arrossire, reazione che invece mi affliggeva ad ogni spron battuto e segnatamente quando si trattava di prendere i primi contatti con le gioiose e schizzinose rappresentanti dell’altro sesso. Mentre io andavo a fuoco, lui impallidiva ancora di più. Per entrambi l’approccio si concludeva con un tattico ripiegamento: io in casa a farmi impacchi di acque fresche su gote e orecchie, lui essenzialmente su se stesso. Più avanti negli anni il Cadavere cominciò a prendere coscienza di questo suo modo di essere. Anche del fatto che, un po’ a causa del suo aspetto, che continuava ad essere emaciato, evocante oscure malattie, un po’ per colpe ereditate, (l’hobby, se così si può chiamare, del padre, il so-

prannome, la voce, incontrollata, non fondata ma comunque voce, Fama, che fosse in grado di portare sfortuna), era vicino ad essere un isolato. Nessun futuro qui, tra di noi. E quando cominciò a vedere i coetanei imboccare chi una strada e chi l’altra, (lavoro, studio, famiglia nelle più varie combinazioni), maturò la fatale decisione: l’ambiente, ragionò, non lo favoriva. Fosse rimasto qui, sul lago, non avrebbe avuto speranze. Era ancora giovane ma già avvertiva la necessità di rinascere. Per farlo aveva bisogno di un’altra aria, di un altro terreno di coltura. Così prese la decisione e migrò. Se ne andò in silenzio, e c’era da aspettarselo da uno come lui. Una bella mattina il paese non lo annoverò più tra i suoi abitanti, e non fece una piega. Forse perché sapeva. Non a caso ho usato il verbo migrare. Come tutti i migratori che si rispettano, anche il Cadavere tornò. Capitò quando suo padre, già in là con gli anni, se ne volò tra i più e, per ironia della sorte, con il magazzino sfornito. Così che toccò al mio ex compagno trattare con tal Esangui, titolare dell’omonima impresa di onoranze funebri, il prezzo del triste servizio. Fu una cerimonia sobria, improntata alla semplicità. Vi presi parte spinto da una sorta di sentimento di solidarietà e anche, lo ammetto, da una certa curiosità di rivedere, dopo tanti anni, il Cadavere. Lo trovai peggiorato rispetto a come me lo ricordavo. Forse fu l’indispensabile abito nero che indossava o forse un iniziale accenno a quella che, negli anni a venire, sarebbe diventata una vera e propria gobba: sta di fatto che, ad una

prima occhiata, giudicai che nemmeno là dove era andato a rimettere radici aveva trovato una risanante pastura. Mi confermai nel giudizio poco dopo, quando l’ultimo atto della cerimonia fu compiuto. Allora, avvicinandomi per porgergli le mie condoglianze, lui, con voce consona al luogo, mi ringraziò e mi fece notare che, tra i vecchi compagni di scuola, io ero l’unico ad essermi presentato, osservazione che mi costrinse a tenergli compagnia lungo la discesa dal cimitero verso il paese. Perché lui era lì, solo, l’anziana madre, confinata su una sedia a rotelle, non aveva potuto presenziare. Solo, ma non nella vita però: non mi era sfuggito, quando gli aveva stretto la mano, che un anellino d’oro gli brillava all’anulare, segno che aveva trovato moglie. Tanto per dire qualcosa, scendendo la lunga scalinata che portava in piazza della chiesa, gli domandai come fosse il posto, paese o città, dove se n’era andato a vivere e, senza che mi stupissi più di tanto, mi rispose che era un vero e proprio mortorio. Gli chiesi della famiglia allora. Che avesse moglie, confessai, l’avevo notato. E figli, quanti? Anziché rispondere a parole, il Cadavere agitò il capo: quella benedizione non era ancora scesa sulla sua casa e disperava ormai che potesse accadere. Incautamente gli proposi di considerare come la speranza fosse l’ultima a morire e, di gaffe in gaffe, lo invitai a farsi vivo nelle occasioni in cui fosse tornato in visita al paese. Non mancherò, mi disse quando eravamo ormai in piazza della chiesa. Adesso, aggiunse levando gli occhi verso il cimitero da cui eravamo appena scesi, aveva un motivo in più per ritornare. Poi vidi fiorirgli in viso quel sorriso a forma di crisantemo che l’aveva reso famoso ai tempi delle elementari. Sorriso triste, viatico per chiedermi se anch’io avessi notato la stessa cosa che a lui non era sfuggita quel pomeriggio: pura coincidenza, visto che io ero stato l’unico tra i suoi ex compagni a partecipare al lutto, o segno del destino? Io non capivo e le ombre della sera si stava-


III

Aveva un carattere pensoso, mutacico, solitario e portato alla melanconia. Carattere che lo faceva scivolare nelle umide contrade piuttosto che correre coi pattini sul lungolago

* L’autore Andrea Vitali, nato nel 1956 a Bellano, sulla riva orientale del lago di Como, ha pubblicato, tra gli altri titoli, L’ombra di Marinetti, Una finestra vistalago , Un amore di zitella, La signorina Tecla Manzi, La figlia del podestà, Olive comprese e Il segreto di Ortelia (2007).

no mangiando le nostre, che rimpicciolivano a vista d’occhio sul porfido della piazza. Cos’era mai successo? Niente di che, rispose lui. Solo che le nostre due famiglie erano vicine di tomba e quindi noi due, dopo essere stati vicini di banco, eravamo destinati ad esserlo anche per l’eternità. Confesso che da quel momento cominciò a prendere corpo dentro me l’idea della cremazione: la mia, al momento debito. Per seguire poi le orme di un mio mezzo parente, un quasi zio che, una volta trasformato in sterile cenere, venne, secondo la propria volontà, disperso nelle acque del lago sulle cui rive nacque. Non dissi niente a lui, lungi da me l’idea di volerlo offendere facendogli intendere ciò che in effetti pensavo: che la sua compagnia, cioè, poteva essere goduta solo a tempo determinato, e per giunta breve, onde evitare il rischio di essere contaminati, infettati da un praticante pessimismo. Così, in obbedienza a tale convinzione, negli anni che seguirono mi sottrassi a più di un’occasione per incontrarlo, a volte infilandomi in un portone se lo vedevo comparire sul mio orizzonte visivo o cambiando repentinamente strada; altre ricorrendo a bugie belle e buone quando, telefonicamente, mi avvisava che sarebbe passato dalle mie parti. Giunsi anche a disertare la cerimonia di commemorazione dei defunti, nel novero dei quali s’era aggiunta nel frattempo pure sua madre, ben certo che se c’era un appuntamento al quale il Cadavere non avrebbe rinunciato per niente al mondo era proprio quello. Così, pian piano, me lo dimenticai, divenne un ricordo, un’ombra, con piena ragione d’esserlo, tra le tante. Ma al proprio Destino, nemmeno a quello quotidiano, nessuno riesce a sfuggire. Perché, mi chiedo, avrei dovuto io? Infatti, l’estate di cinque o sei anni fa, mentre me ne stavo in panchina nelle prime ore di un pomeriggio di luglio a godermi una mezz’oretta di breva e le risate di certi francesi che pranzavano al

tavolo di un ristorante lì vicino, lo rividi. Fuori ruolo, pensai tra me: non gli competeva la cornice di quella stagione così luminosa, calda e rumorosa. Pure lui doveva percepire di essere una specie di pesce fuor d’acqua. Poiché, sedendosi accanto a me sulla panchina nell’attesa che gli uffici del municipio riaprissero, si sentì in dovere di spiegarmi le ragioni della sua presenza lì. Pratiche burocratiche. E delle più acconce alla sua complessione psicofisica, direi. Era scaduta infatti la concessione cimiteriale che la sua famiglia aveva stipulato con l’amministrazione in anni in cui lui era ancora bambino e si trattava… Di rinnovarla, buttai lì. Certo, confermò lui, oppure rinunciare ed esumare, di lì a qualche mese, i suoi cari per trasferirli in più comode cassettine. Lui aveva deciso per questa seconda scelta, recidendo così l’ultimo filo che lo legava al paese. E tu?, mi scappò detto. Dove sarebbe finito dopo, in quel dopo dove non aveva mai smesso di gettare sguardi? Curiosità legittima, si ammetterà. Prima di darmi una risposta, sul viso del Cadavere fiorì il solito crisantemo. Dopodiché, cercando di raddrizzarsi per quanto poteva, impacciato in ciò dalla gobba che deformava l’appiombo della colonna, mi disse che da qualche mese a quella parte le cose, nella sua vita, erano cambiate. Seppur tardivamente, mi soffiò nell’orecchio, sua moglie era in attesa. Di un figlio!, esclamò, ma a bassa voce com’era sua specialità.

E certo, dissi, di cos’altro sennò? Aggiunse che quel fatto cambiava la prospettiva della sua vita, quella attuale e anche quella eterna. Meglio riunirsi tutti in un posto solo e il posto non poteva essere che quello dove da anni aveva casa e lavoro, dove il maschietto sarebbe cresciuto e avrebbe conosciuto il mondo. È maschio quindi ?, chiesi. Certo, l’ecografia lo confermava. Un frutto dell’autunno, aggiunse, poiché sarebbe nato nel corso di novembre. O mamma!, feci tra me. Il mese delle foglie morte, quel genitore gobbo, triste fin dall’inizio, a cominciare dal soprannome e ancora prima, dal nome. Appunto, il nome! Che nome gli darete?, chiesi. Ci stavano pensando, rispose lui: ma era una cosa poi tanto importante? Fondamentale, risposi, forzando tutta la convinzione che potevo. Pure i latini lo dicevano quando sembrava che un nome potesse plasmare il carattere di chi lo porta. Se fosse figlio mio, buttai lì, sai come lo chiamerei? Mi chiese come e glielo dissi. Senza stare a spiegargli che quel figlio che stava per nascergli doveva essere un riscatto dalla cupezza, dalla malinconia. Farlo risorgere, insomma, per camminare in una vita diversa, lui mano nella mano col nuovo nato. Andò così. Non ci credevo molto. Invece il figlio del Cavadere ha il suo bel nome, quello che ho suggerito io, beneaugurante. Lazzaro. E per gli amici, fortunatamente, semplicemente Rino.

IL CAFFÈ 23 dicembre 2007


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V

IL DIZIONARIO

IL CAFFÈ 23 dicembre 2007

LIBERO D’AGOSTINO segue dalla copertina

M

a il problema non è solo trovare la spinta giusta per ripartire. Spesso la vera difficoltà è capire in che direzione andare. E allora proviamo a scoprire scorrendo queste pagine, cosa ci potrebbe essere dietro l’angolo del 2008. Come saremo da qui a qualche anno, in che misura le nuove tecnologie cambieranno ancora la nostra vita, quali saranno i trend dei divertimenti prossimi venturi, cosa faremo del tempo libero in una società sempre più meticcia che mescola e rimescola usi, costumi e persino i gusti, come ha spiegato più volte Carlo Petrini l’inventore di Slow Food, che tratteggia per il nostro giornale i sapori del futuro. E tra bit, bytes e chips dei laboratori delle “server farms” visitati da Bruno Giussani, tra gli algoritmi dell’aritmetica binaria, dove già pulsano i ritmi insistenti di un domani ipertecnologizzato che, dopo sofisticati telefonini e computer tascabili ancora più potenti, ci integrerà con altre protesi elettroniche. A cui, ci convinceremo, non possiamo assolutamente rinunciare, per poter fare più velocemente più cose. Sono le indispensabili estensioni di un corpo postmoderno, bionico, per i nuovi schiavi della dirompente civiltà multitasking, in cui per essere competitivi bisogna saper essere multifunzionali. Certo, vivremo e lavoreremo in modo differente, per intanto come ci ricorda Roberto Piccinelli, fine analista dei piaceri di massa, cominciamo a divertirci anche in maniera differente. Muovendoci in discoteche, piano bar e ritrovi alla moda coi nuovi fondali di scena di un tempo libero che sembra sempre più uno show televisivo. Ma chissà se dalle nuove “server farms” o di tanti altri avanzati centri di ricerca nascerà davvero, come promesso, la nuova democrazia elettronica di un villaggio globale che userà il mouse più che il voto per correggere i guasti della politica, per rovesciare dittature e denunciare le infamie contemporanee. Cellulari, web, e-mail pare abbiano rimpicciolito il mondo, annullato spazio e fusi orari, avvicinando popoli e Paesi in un frenetico scambio d’informazioni, chiacchiere e notizie in tempo reale. Ma stranamente si alzano nuovi muri, si creano nuove separatezze. L’altro, lo straniero più che un amico da accogliere e un nemico, che insidia il nostro posto di lavoro, la nostra tranquillità e la nostra identità. Il linguaggio di quella che si vorrebbe la società multietnica e multiculturale stenta a schiodarsi dagli aggettivi possessivi e dalla differenza tra “noi” e “loro”. Niente di nuovo sotto il cielo: contro i nuovi barbari, come in passato, si alzano i ponti levatoi, li si lascia affogare a migliaia nel Mediterraneo o a morire lungo i sentieri sempre più impervi di un cammino della speranza che ha messo in moto milioni e milioni di poveri cristi, crocefissi sin dalla nascita da carestie, guerre e governi crudeli o corrotti. Le porte delle ricche cittadelle occidentali si aprono solo per i capitali, le merci e i cervelli. I disperati

TEMPO

Società, tecnologia e immigrazione nel mondo che verrà devono restare fuori. A Bruxelles si sono persino inventati una “carta blu” per la corsia preferenziale degli immigrati con pedigree accademico, i super specializzati, ingegneri elettronici, genetisti, scienziati di varia scienza, super esperti finanziari, necessari più che mai nell’economia di carta delle Borse valori e dei cambi valutari. Non importano né la lingua né il colore della pelle, la knowledge society, la società della conoscenza, non può fare a meno di loro. A rigor di logica demografica non potrebbe, però, fare a meno neanche di badanti e baby sitter, contadini e infermieri, metalmeccanici e manovali. Ma questo non bisogna dirlo, altrimenti il prezzo delle loro braccia potrebbe aumentare. Come sia cambiata l’Europa e la Svizzera, ma soprattutto come inevitabilmente cambieranno ancora sotto la pressione dell’immigrazione, ce lo spiega il sociologo Sandro Cattacin, scandagliando in quel mosaico di etnie che è gia oggi la Confederazione elvetica,

in cui ormai si spera e si prega in cento lingue diverse. Ma l’ondata migratoria potrebbe aumentare ancora. Carlo Petrini ha recentemente rilanciato l’allarme di Jean Ziegler, il sociologo svizzero ed ex consigliere nazio-

nale socialista che a nome dell’Onu ha denunciato i pericoli della produzione di biocarburanti con i cereali, sottraendo i campi alla produzione del cibo: Nei Paesi poveri si rischia una carestia di proporzioni bibliche. Il pa-

SILLABARIO COLPO DI GRAZIA Ellery Queen, (Frederic Dannay 1905-1982)

P

er Claire Sebastian il nuovo anno cominciò nella gioia. Il bambino era un meraviglioso moto perpetuo. - Pensi che sia un maschietto, John? - Nell’intimità della camera d’albergo, permetteva addirittura al marito di sentire l’esserino che faceva capriole e scalciava nel suo grembo. Quella settimana avevano riso tanto, insie-

me. L’idea di andare in città a godersi un po’ di vita mondana nel periodo di Capodanno era stata di John. - So che in questi ultimi mesi, chiusa in casa là a Rye, ne hai sentito la mancanza - aveva detto a Claire - Credo che ti spetti un’ultima occasione di divertirti prima che ti dedichi ai compiti impegnativi della maternità.

dre di Slow Food invoca da tempo un ritorno alla Madre Terra, un rapporto più sostenibile con le risorse agroalimetari del pianeta. C’è da augurarsi anche un ritorno alla sana cucina popolare di una volta, più legata al ritmo naturale delle stagioni e al territorio. Libera dalle astruse sofisticherie di tante sperimentazioni che hanno slegato gusti e sapori dalla loro origine: la terra e la fatica degli uomini nel lavorarla. Per legarla, con tanti nomi illustri del trionfante show food, alle mode fugaci del momento, allo snobbismo di vecchi e nuovi ricchi, per i quali la buona tavola s’identifica solo con i ristoranti che pochi possono permettersi. Che piacere in questi feste ritrovare i sapori di una volta, con il gusto che si fa memoria evocando coi ricordi di altri pranzi natalizi e cenoni anche odori e fragranze lontane. Di quando, scriveva Sebastiano Vassalli, in un suo bel libro “Marco e Mattio”, tutti gli abitanti della valle, anche i più poveri avevano provveduto ad accumulare cibo

per questi giorni, “che doveva dargli un’illusione di benessere ed anzi proprio di abbondanza, di calore, di appagamento e di pace; il Paradiso in terra, una volta all’anno!” Non solo la cucina e la gastronomia sono cambiate, è il mondo stesso che è mutato rapidamente sotto i nostri occhi, ma occupati come siamo a guardare e divorare il presente, senza saper tendere l’occhio al futuro, raramente ce ne accorgiamo. Non ci accorgiamo neanche di come siano diversi oggi i rapporti sociali e interpersonali. A trent’anni dalla rivoluzione femminista, si parla ancora di quote rosa, si lotta per garantire l’accesso delle donne ai posti che contano, in politica come nella società, e a volte persino nelle famiglie o in quello che resta di esse tra separazioni, divorzi e matrimoni non sempre felicemente misti. Oggi ben cinque donne guidano da Presidenti cinque grandi Paesi. Un’altra ex first lady, Hillary Clinton, moglie di un altrettanto famoso presidente Usa, assai discusso proprio per i suoi rapporti con l’altro sesso, si appresta a scalzare dalla Casa bianca la dinastia dei Bush. Ma per milioni di donne, in ogni Paese, la scalata verso la parità dei diritti è ancora dura e faticosa, ostacolata da mille resistenze, da vecchi e nuovi privilegi duri a morire. Resta difficile il rapporto uomo-donna, e, forse, è ancora più complicato nella sfera affettiva. Come dimostra la storia triste di una coppia che in questi ultimi mesi ha riempito le pagine della cronaca. La storia del medico sportivo Stefano Bianchi, della sua ex moglie,la campionessa svizzera di ciclismo Lucille Hunkeler e del loro bambino, Ruben, portato via dalla madre e ritrovato dopo quasi quattro anni di ricerche in Mozambico. Era la vigilia di Natale del 2003 quando Lucille fuggì da Montecatini col piccolo Ruben, per il padre cominciò allora una lunga battaglia tra ambasciate e consolati, aule di Giustizia e studi legali,per poter riavere Ruben. Queste feste Stefano Bianchi finalmente le passerà di nuovo con suo figlio, offrendo ai lettori del Caffè, che per mesi e mesi ha seguito questa incredibile vicenda, la testimonianza diretta della sua felicità. Ruben il bambino conteso resta però un bambino diviso dentro di sé. Ha ritrovato il padre ma ha perso in parte la madre. Un destino infelice, tuttavia meno drammatico di quello di altri milioni di bambini, privi non solo dei genitori ma anche di ciò che serve solo a sopravvivere, in Paesi in cui l’esistenza stessa, per quanto stentata, è un lusso, insidiato da fame e miseria, malattie e guerre. È l’altra faccia di un mondo globalizzato e flagellato dalle tragedie di sempre in cui lotta da quarant’anni, con pochi mezzi e tanto coraggio, Gianna Bernasconi, che da queste pagine ritorna per un attimo al suo Ticino. Gianna tra qualche settimana compirà 71 anni, ma il 2008 lo passerà ancora tra i suoi poveri in India, dove ha creato dal nulla due asili che ospitano centinaia di bambini, una scuola di sartoria e un dispensario sanitario. Una lezione di amore e altruismo che ogni tanto faremmo bene a ricordare in questo nuovo anno. ldagostino@caffe.ch


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LA MOSTRA

VII

Enrico Prampolini L’automa quotidiano

IL CAFFÈ 23 dicembre 2007

1930, olio e collage su tavola 100x 80 cm

Da una nuova

LA DISARTICOLAZIONE Del vecchio uomo rimangono elementi sparsi ma esterni come il gilet, il cappello, l’orma dei piedi, mentre al posto del suo corpo e della sua anima si affermano nuovi elementi di pura oggettività

nascita all’altra

LA NUOVA IDENTITÀ Il nuovo uomo assembla vecchi elementi umani, organici e biomorfi, con altri chiaramente inorganici di natura mineralogica, geometrica, tecnologica, quali arterie e vene come tubi

L’IDEA

CLAUDIO GUARDA

C

he si profila oggi, di nuovo, all’orizzonte? Nel sociale come nell’arte. Cosa si sta muovendo? Quali i campi di indagine o le tendenze che vanno a posizionarsi sui nervi scoperti della nostra contemporaneità? Ne prendo uno che mi è suggerito dallo strano incrocio tra una grande mostra in corso a Bergamo e le festività che stiamo vivendo. Perché 2000 anni fa, giorno più giorno meno, nasceva Gesù Cristo. Era Dio che prendeva corpo, che si faceva uomo. Ma, abbassandosi a livello umano, assumendone i limiti e la storia, offriva a quel corpo e a quella specie una possibilità di riscatto, li innalzava su uno slargo di cielo, schiudeva loro davanti una prospettiva divina. Per millenni quel fatto è stato considerato l’alba del nuovo mondo. E adesso? C’è una mostra al GAMeC di Bergamo (“Il futuro del futurismo”, fino al 24 febbraio) che, sia pure di striscio, qualche risposta dà, e non molto confortante. Si vuol guardare all’oggi dalla prospettiva di ieri (questo l’obiettivo della mostra), vedere cioè quali gli influssi ancora vivi e attuali esercitati dal Futurismo, se e come quello spirito continua ad operare, cosa eventualmente è cambiato nel frattempo. Ora, come noto, il Futurismo (fondato da Marinetti nel 1909) non fu solo l’esaltazione del moderno e delle sue enormi potenzialità di sviluppo connesse alle nuove scoperte e tecnologie, da cui poi la celebrazione della macchina come possibilità di vita assolutamente nuova; fu anche, sulla scia di un’interpretazione vitalistica del pensiero di Nietzsche, l’esaltazione per un “nuovo uomo’, allora ai suoi albori, tanto più nuovo e ‘superumano’ quanto più si fosse assimilato alla mac-

Contaminando istanze futuriste e surrealiste, Prampolini crea immagini del cosmo prossimo futuro, dove si manifestano nuove forme evolutive di vita dentro scenari assolutamente nuovi

L’AUTOMA La nascita di un uomo nuovo, meccanico, protagonista consonante con la società assolutamente nuova e meccanizzata che stava nascendo, è stata fortemente auspicata in ambito futurista

china. Era un’ipotesi provocatoria, liberatoria (secondo loro) e comunque di là da venire, quella dell’uomo meccanico, dell’automa; ma fermamente sostenuta: “Affermiamo che la macchina annulla tutto il vecchio mondo spirituale ed umano per crearne un altro superumano e meccanico, dove l’uomo perde la propria superiorità individuale fondendosi con l’ambiente.” È ancora così? A parte il fatto che noi ben conosciamo le conseguenze ambientali di un eccesso di meccanizzazione e sfruttamento delle risorse, di occupazione intensiva del territorio ecc., in una sezione della mostra (dal titolo Umano, troppo umano, ripreso alla lettera da Nietzsche) si pone l’accento sul fatto che nella odierna civiltà si sta assistendo allo strisciante ma reale passaggio dall’uomo meccanico di ascendenza futurista all’androide bionico, dalla modernità meccanica di ieri alla postmodernità tecno-biologica di oggi.” Non solo perché il corpo umano viene sempre più fatto funzionare grazie a protesi meccaniche, valvole, materiali sintetici, trapianti organici, apparecchi elettrosti-

LA MOSTRA Il futuro del futurismo Galleria d’arte moderna, Bergamo Fino al 24 febbraio 2008

molatori, oppure sottoposto a interventi plastici e ricostruttivi di faccia, naso, seno (per cui il corpo diventa davvero una macchina, un oggetto manipolabile e smontabile pure in funzione del successo, della spettacolirizzazione mediatica e commerciale), ma anche perché sul versante opposto sta salendo l’androide umanizzato. “Q-1”, la prima macchina-donna realizzata dall’equipe del prof. Hiroshi Ishiguro, somiglia realmente ad un essere umano. “È spaventoso - ha detto ma abituatevi: i robot assomiglieranno sempre più a persone in carne ed ossa.” Meccanizzazione, biotecnologie e manipolazione genetica, da una parte, sviluppo e crescita dell’androide dall’altra, sembrano suggerire un futuro di consapevole incrocio fra i due, una commistione di azzeramento identitario in cui sarà sempre più difficile distinguere l'organico dal postorganico, l’originale dal clonato, l’umano dal postumano. È un’altra alba, l’inizio di un altro giorno. E anche di questo l’arte si occupa.

Noi pensiamo alle famiglie e alle imprese. E auguriamo salute e prosperità per il 2008.

Coccolate le vostre famiglie, trascorrete un Natale tranquillo e sereno e salutate l’anno nuovo con uno spumeggiante veglione. Noi di CSS Ticino auguriamo alle famiglie, agli innamorati, ai single, alle aziende, a grandi e piccini un 2008 sano e felice. www.css.ch

Assicurazione


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VIII

PAGINE D’OGGI

i chiede, per questa pubblicazione dedicata al Natale, di presentare un libro legato alla nascita. O alla rinascita. Dunque alla morte. O alla non morte, all’immortalità. La scelta è caduta su L’Aleph, di Jorge Luis Borges, per la precisione sul racconto L’immortale, contenuto nell’opera edita da Adelphi. Aleph è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, è una lettera senza suono, un semplice soffio. In matematica è usato per indicare il numero di insiemi di un insieme finito, il numero più piccolo che si possa concepire: Aleph-zero è uno dei cosiddetti numeri transfiniti. Per Borges, l’Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti, “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti i punti”. È una chiave per capire L’immortale, il pri-

scello impuro. Si abbeverò alle sue acque e sull’altra riva vide la Città. Nella vallata, in caverne scavate nella roccia, viveva un popolo di trogloditi e il tribuno trascorse alcuni giorni in quel villaggio per riprendere le forze. Poi si diresse verso la Città seguito da un abitante delle grotte. Entrò in una caverna dalla quale si diramava un labirinto di gallerie, una delle quali sboccava nella Città. Ma la Città non gli piacque: aveva muri imprevisti, scalini metallici, vicoli ciechi, finestre irraggiungibili… Così il tribuno se ne andò e fuori dalla caverna trovò il troglodita che lo aveva accompagnato: stava disegnando misteriosi simboli nella sabbia. Lo chiamò Argo, ma il troglodita non capiva le sue parole. Finchè una notte piovve e Argo iniziò a parlare. Argo era Omero, i trogloditi erano gli Immortali, il ruscello impuro era il fiume dell’immortalità. La Città era stata distrutta nove secoli prima e sulle sue rovine era stata edificata un’architettura senza senso. Bevendo le acque del ruscello anche il

mo dei diciassette racconti che formano il libro. Borges narra che all’inizio del mese di giugno del 1929 la principessa di Lucinge acquistò sei volumi dell’Iliade di Pope da un antiquario di Smirne e che nell’ultimo libro trovò un manoscritto che raccontava le vicende di un tribuno dell’imperatore Diocleziano. Ma c’era qualcosa di strano, di singolare, in quel testo: era scritto in inglese! Il tribuno, narra Borges, era al comando di una legione stanziata sul Mar Rosso. Un giorno arrivò al suo cospetto un cavaliere che gli narrò la storia della Città degli Immortali, la Città che lui cercava da tempo. Alla fine del mondo, verso Occidente, gli disse il cavaliere, c’era un fiume le cui acque donavano l’immortalità e sulle cui rive si levava la famosa Città. Il tribuno partì dunque alla ricerca del fiume sfidando il deserto. A un certo punto, in preda alle sete e alle allucinazioni, trovò un ru-

tribuno era diventato immortale e quindi avrebbe incontrato e incarnato Omero, perché in un’esistenza immortale ognuno deve comporre l’Odissea: “Dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre almeno una volta l’Odissea”. “Essere immortale - scrive Borges -è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacchè ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali”. E aggiunge: “La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi: ogni atto che compiono può essere l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto di un sogno. Tra gli immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco di altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine”.

MARCO BAZZI

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L’uomo che divenne

immortale IL TICINO? LO LEGGO, LO VEDO E LO ASCOLTO… SU

www.caffe.ch

LAVORI IN CORSO PER IL NUOVO SITO

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IX

IL LUOGO

BRUNO GIUSSANI

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vete appena spedito una e-mail? Letto un blog? Cercato un numero di telefono su local.ch? Studiato un itinerario sul sito della Michelin? Ordinato un libro o un DVD da una libreria online? Scaricato dentro il vostro iPod o telefonino una canzone in formato MP3? Percorso le notizie sul sito di un giornale svizzero-tedesco o americano? Partecipato a un raid nel gioco World of Warcraft o viaggiato negli spazi del mondo virtuale Second Life? Chattato o telefonato via Skype con vostra sorella che abita in Australia? Pubblicato una foto su Flickr o guardato un video su YouTube? Aggiornato il vostro profilo MySpace o dato un’occhiata a cosa fanno i vostri amici su Facebook? Guardato il telegiornale via Zattoo? Contattato un potenziale cliente su LinkedIn? Letto un articolo scientifico su Wikipedia? Pagato le fatture usando un servizio ebanking? Coordinato la prossima fase di un progetto con i vostri colleghi attraverso un sito collaborativo? Riservato volo e albergo per la prossima vacanza, dopo aver verificato i commenti degli altri turisti su TripAdvisor e guardato una foto satellitare della spiaggia su GoogleEarth? O semplicemente cercato un’informazione via Google (o Yahoo o uno dei mille altri motori di ricerca)? Sono tutte attività che molti di noi, certamente una maggioranza, svolgono ormai anche più volte al giorno. In generale, attraverso un computer. Sempre più spesso anche usando altri strumenti come telefonini e palmari. L’impressione che ne ricaviamo è di velocità, immediatezza e leggerezza. Ma se è vero, come dice il tecnofilosofo svizzero René Berger con una forte metafora, che “sta diventando impossibile non rendere visita a Google quotidianamente”, quando lo facciamo cosa visitiamo esattamente? A cosa assomigliano veramente un motore di ricerca o un servizio di e-mail o un sito di diffusione di video o di vendita di musica digitale? Dove si trovano? Che forma hanno? Risposta: la società dell’informazione non è immateriale come sembra. I bytes (i pacchetti di dati digitali) non viaggiano nell’etere e nelle fibre ottiche provenienti dal nulla. Se guardiamo oltre lo schermo, scopriamo che l’Internet si regge su un’infrastruttura globale da industria pesante, simile alle fabbriche del passato. Capannoni grandi come campi di calcio, con alte torri di raffreddamento, linee ad alta tensione, generatori diesel per assicurare la continuità in caso di guasti, e consumi energetici paragonabili a quelli di un’acciaieria, collegati fra loro da reti di fibre ottiche. Si chiamano “data centers” o “server farms”. In parallelo alla crescita esponenziale dell’Internet e all’uso di applicazioni sempre più sofisticate da parte ormai di quasi un miliardo di utilizzatori, il numero di queste fabbriche è andato moltiplicandosi. Statistiche compilate da un ricercatore dell’università di Stanford dicono che nel 2000 c’erano nel mondo 14.1 milioni di server; nel 2005 erano 27.3 milioni. Oggi, aggiungiamo noi, sono probabilmente 33-35 milioni. Semplificando all’estremo: un “server” è il computer che risponde alle vostre richieste sul Web. Quando cliccate su una pagina, una richiesta parte dal vostro computer, attivandone molti altri attraverso la rete, fino ad arrivare a quello che contiene l’informazione che cercate, che ve la “serve” inviandola sul vostro schermo. Simili meccanismi entrano in gioco anche quando inviate una e-mail o usate qualunque altro servizio dell’Internet. Il tutto sembra succedere in frazioni di secondo e senza sforzo: la complessità è nascosta da protocolli di comunicazione molto sofisticati. Ma dietro, nelle server farms appunto, ci sono centinaia di migliaia di macchine che sudano. Per dirla con lo svizzero Urs Hölzle, responsabile delle operazioni presso Google: “Quando entri in certi settori di un data center, ti senti piuttosto in una fabbrica che non in qualcosa di altamente tecnologico”. I data centers sono brutti, pieni di computers che producono un sacco di calore (ecco perchè occorrono le torri di raffreddamento) e di migliaia di chilometri di cavi. Sono rumorosi. Sono protetti da sistemi di sicurezza sofisticati. E sono posizionati dove un tempo si costruivano le acciaierie e altri impianti simili: vicino a fonti di energia elettrica in

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Le fabbriche dell’

Internet

Si moltiplicano le “server farms”, i luoghi dove pulsa il cuore della Rete, del tutto simili a quelli dell’industria pesante che ha caratterizzato il Novecento

grande quantità e a buon mercato. Perchè per far funzionare tutti quei computers, e per raffreddarli, ne serve molta. È stato calcolato che l’insieme dei data centers che fanno funzionare la rete globale consuma circa l’1.5 per cento di tutta l’energia elettrica usata nel mondo, ma soltanto la metà serve a far girare i computers: l’altra metà va a raffreddarli (vari sforzi sono in corso per renderli più efficienti). È in queste fabbriche che pulsa il cuore dell’Internet. Una, diventata piuttosto famosa dopo essere stata l’oggetto di un lungo articolo nel New York Times, è situata a The Dalles, nello stato dell’Oregon, nel nordovest americano, regione attraversata da reti di telecomunicazione importanti, e produttrice di energia idroelettrica in grande quantità e a basso costo. Con 12’000 abitanti, The Dalles è una piccola cittadina. Non ha un aeroporto internazionale e nemmeno una grande stazione ferroviaria. Eppure sta diventando uno snodo globale di primaria importanza. Perchè il gigante dell’Internet Google vi ha costruito uno dei suoi più grandi data centers - uno di molti che costituiscono l’infrastruttura dei servizi di Google. Due capannoni grandi come hangar d’aeroporto, che conterrebbero secondo il Times, “uno dei supercomputers più potenti al mondo”, in grado “di trattare più dati, più velocemente, e più a buon mercato dei suoi rivali”. Google, aggiunge il giornale, “ha capito che per un motore di ricerca ogni millisecondo di troppo impiegato per rispondere alle richieste infastidisce gli utenti”.

In altre parole: Google è conosciuto come un motore di ricerca; l’azienda tuttavia è prima di tutto un costrutture e gestore di infrastruttura elettronica, di una rete di supercomputers che copre il globo e che è capace di rispondere agli utilizzatori più rapidamente dei concorrenti. Il fenomeno, come detto, non è solo americano: è globale. Vi sono diversi data centers anche in Svizzera. Più piccoli di quelli di The Dalles. Ma Yahoo, altro gigante dell’Internet, sta per esempio costruendone uno a Avenches, in Romandia, che servirà da centro europeo. L’azienda non ha comunicato quanti computer conterrà - questo tipo di informazioni sono considerate da Yahoo, Google e da tutti gli altri come segreti concorrenziali. Si sa tuttavia che richiederà tanta energia quanto l’intera città di Montreux. E siamo soltanto agli inizi. Se la crescita delle server farms è stata finora sospinta da quella del numero di utilizzatori dell’Internet e dalla sempre più grande sofisticazione e “pesantezza” (in termini di dati: un video è molto più “pesante” di un testo) dei servizi, un’ulteriore accelerazione sarà data da un cambiamento radicale in corso nell’industria del software e nel suo modello economico. Fino a pochi anni fa, i programmi software erano venduti agli utilizzatori, che li installavano sui loro computers. E’ ancora il caso, ma la nuova tendenza è quella del “software as a service”, del software che si “affitta” direttamente online, che si utilizza non localmente, sul proprio PC, ma a distanza, su un server. Già oggi

si può scrivere su Word della Microsoft (comperato e installato) oppure usare il trattamento di testi online di Google Docs (accessibile attraverso un normale browser), per esempio. Ci sono già versioni online di programmi come Excel e PowerPoint, ma anche di strumenti sofisticati come i sistemi di gestione aziendale o il trattamento d’immagini PhotoShop. Costruire e mantenere l’infrastruttura di rete per far funzionare questi servizi richiederà molti più servers, molti più “data centers”. Insomma, l’immaterialità “pesa”, in termini di risorse. Second Life è un mondo virtuale accessibile sull’Internet. Ci si entra mediante “avatars”, figurine virtuali che ci rappresentano mentre ci muoviamo nello spazio tridimensionale o interagiamo con altri utilizzatori - o piuttosto, con i loro avatars. Lo spazio in tre dimensioni che appare sul nostro schermo, fatto di costruzioni e paesaggi, attraverso i quali il nostro avatar può persino volare (più leggero di così…) è creato da batterie di servers nei centri della società Linden Lab, la società che ha inventato Second Life. Nicholas Carr, un ricercatore e consulente, ha calcolato recentemente che ciascun avatar “consuma”, in quota-parte dell’energia necessaria a far funzionare quei servers, tanta elettricità quanta ne consuma mediamente un cittadino brasiliano. L’economia dell’Internet sembra virtuale, immateriale, leggera. Ma in realtà non è molto diversa da quella industriale. bruno.giussani@gmail.com


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LA MODA

Le nuove

frontiere del divertimento

Tutto è trendy, a patto di saper leggere le tendenze in via d’affermazione

ROBERTO PICCINELLI

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avorare a maglia davanti ad un buon bicchiere di vino e cenare con piatti biblici, per poi ballare lo Zumba in una bella villa in mezzo al verde, arredata con tocchi paleolitici, ma rigorosamente in vendita… Il non plus ultra del loisir per l’Anno Domini 2008 è praticamente tutto qua. Ovvio, quindi che, mai come in questo frangente, il tanto anelato Massimo Comune Emozionale appaia finalmente alla portata di chicchessia. L’unica, doverosa avvertenza consta nel consigliare un’attenta lettura di origini e motivazioni delle fenomenologie ludiche in via di affermazione, pena la soltanto parziale comprensione delle nuove frontiere del divertimento mondiale.

FUN ON SALE A New York, anzi più precisamente a Manhattan, ha preso prepotentemente piede Open House, geniale formula di “Party con Vendita”, in occasione della quale a mettersi in vetrina sono le case stesse. Grazie a ciò, le agenzie immobiliari riescono a rendere più informale, nonché a semplificare e spettacolarizzare un rito fin troppo paludato e vincolante, soprattutto nei preliminari. Che fino ad ora prevedevano appuntamenti, spesso e volentieri inutili e che adesso si trasformano in eventi da non perdere. Grandi cartelli davanti al portone, annunci sui giornali o biglietti d’invito ad hoc informano che la casa è aperta in un dato giorno, preferibilmente all’ora dell’aperitivo o del brunch, per permettere a chicchessia di vederla senza impegno alcuno, approfittando di un allestimento ambientale, che passa attraverso buffet, cocktail a iosa e musica lounge&dance assicurata da dj di grido. Senza dimenticare il posizionamento, subito dopo l’ingresso, di un tavolino con una serie infinita di piantine della casa e biglietti da visita del broker di riferimento. Ebbene, i primi dati a disposizione dicono che nel 30% dei casi, l’evento finisce con la vendita dell’appartamento. E con il divertimento di tutti, aggiungeremmo noi. Fin qui i prodromi di una moda, che deve riconoscere un diritto di primogenitura alla Re/Max, network d'oltreoceano fermamente intenzionato ad importare il sistema sul mercato europeo. I primi tentativi sono

stati sviluppati con successo in quel di Milano e Roma, con il risultato di accelerare gli eventi. Così, come negli Usa si stanno già organizzando Open House fantasmagorici in quel di Miami, dalle nostre parti si parla di un evento imperdibile in quel di Megeve, a cavallo delle vacanze natalizie: la protagonista dovrebbe essere una magnifica villa con giardino, ai piedi del Mont d’Arbois, fra piste da sci e campo da golf, che potrebbe essere aperta dalle 22.00 in poi ad invitati in grado di spaziare dagli sceicchi arabi ai miliardari russi, per rimbalzare molto in alto. Se tutto sarà confermato, i protagonisti del jet set mondiale non potranno assolutamente mancare… A CENA CON MOSÉ Chi l’avrebbe mai detto: anche le tematiche bibliche fanno il loro ingresso nei locali dediti a ristorazione ed intrattenimento, grazie ad una tanto curiosa quanto intrigante proposta greca, che prende il nome di Soul Dinner e che vede in qualità di spirito guida il Mystic di Atene, music-restaurant caratterizzato da candelabri tipici delle chiese ortodosse e pannelli di legno sui quali sono incisi in aramaico i Dieci Comandamenti, nonché da piatti imperniati sui cibi sacrificali dell’antichità. Il successo del club, pur di recentissima apertura, è stato tale che i titolari, per non bruciarsi, hanno pensato bene di sposare la causa dei Guerrilla Club, decidendo di mutare location, mantenendo fermo il nome. Prossima apertura, prevista per inizio gennaio. Fenomeno a parte, bisogna precisare che i menù ispirati alla Bibbia stanno letteralmente impazzando un po’ ovunque, grazie agli ottimi risultati di vendita del libro The Maker’s Diet, la Dieta del Creatore, scritto da Jordan S. Rubin, naturopata e uomo di fede, che invita a tornare a mangiare e vivere come i nostri antenati biblici, cibandosi con gli alimenti che il Signore ci mise a disposizione in origine e nella forma più pura. Dalle nostre parti, ad adeguarsi al nuovo trend è senz’altro il caffé e ristorante Dai Nodari di Vicenza che, dando ospitalità al Festival Biblico, prima proietta il film Jesus Christ Superstar e poi organizza un “A pranzo con l'autore”, costruito sulla presenza di Agnese Cini, presidente dell'associazione Biblia. Ma anche luoghi a

la page quali il Ruth's di Firenze e il nuovo Yesh di Roma, entrambi ristoranti di matrice kosher, termine ebraico che sta per “conforme alla legge, consentito”, ragion per cui votati alle regole religiose, desunte dalla lettura della Bibbia, che governano la nutrizione degli Ebrei osservanti. Fermo restando che in scia ci sono anche Le Pecore di Milano, direttamente gestito dal pastore del Ministero di Sabaoth, chiesa protestante, capace di coinvolgere nell’operazione tutti i 300 membri della comunità e la Locanda del Castello di Sasso Marconi (Bo) che, tanto per non farsi cogliere impreparata, ha piazzato nel menù un piatto quale “La dolce avvolgenza di mele in tortelli di ricotta al rosmarino e noci, lo sfondo biblico degli altri carciofi”…

Rocks di Positano (Sa) e il Firenight di Frascati (Rm). Musica, musica, musica: si parla tanto di musica, ma cosa si ballerà nei prossimi mesi? Nessun dubbio, i balli desunti dal fitness, ossia i balli per preservare o conquistare una perfetta forma fisica. Che pare essere assurta al rango di status symbol, irrinunciabile. Spazio a Zumba e Tribal Seeds, quindi. La prima, danza inventata dal colombiano Beto Perez, fonde movenze tribali con step, funky e hip hop, mentre la seconda miscela sonorità latino-americane con atmosfere afro, invitando a ballare con cavigliere riempite di semi secchi, in grado di produrre musica autonoma: forse non ci crederete, ma é perfetta per i balli sulla neve, specie se lontani dalle casse dell'impianto audio dei rifugi alpini!

FRA AFRO E RETRO Dalla Bibbia alla preistoria il passo non è certo breve, ma per il mondo del loisir tutto è possibile. Prova ne sia che sono le ispirazioni paleolitiche a caratterizzare il filone Neanderthal Wave, termine nato per indicare i locali che si atteggiano a grotte preistoriche e che guardano al passato remoto, per proporre nuove atmosfere. È l’interior designer Andy Martin ad andare alla radice del concetto con il suo Opal di Londra, propugnatore ideale della tendenza, grazie a pareti che sembrano scavate nella roccia scura, ma anche a poltrone di pietra verniciate di bianco con tocchi rossi, che danno vita ad un luogo perfetto per chiacchierare, bere cocktail esotici e annusare un’aria fuori dal tempo, lontana dalla ressa. Certo, se ci fossero i Flintstones e Dino, il loro cucciolo di dinosauro, l’ambientazione sarebbe perfetta, ma anche Oltremanica, per i miracoli, si stanno ancora attrezzando! Quanto all’Italia, in questo caso potremmo dire di essere stati buoni premonitori, ma di non essere riusciti a tenere duro fino all’affermazione definitiva, perché il pub romano Blue River altro non era se non la ricostruzione particolareggiata della grotta di Frasassi e altro non proponeva se non food&drink fra stalattiti, stalagmiti e fiumiciattoli sotterranei… A tenere degnamente botta, ci sono però grotte naturali intorno alle quali sono stati costruiti deliziosi locali di matrice musicale quali il Music On The

KNIT, KNIT, URRAH! Dulcis in fundo, per la serie “guarda un po’ cosa tocca fare per essere trendy” varrà senz’altro la pena di imparare a lavorare a maglia. Con la massima urgenza. Perché, sulla scia del successo del Knit di New York, lounge bar con pareti costellate da gomitoli di lana multicolori e votato al mix “vino e sferruzzamento” con adeguato sottofondo sonoro, i club a la page di mezzo mondo si stanno attrezzando per creare veri e propri knit corner, arredati secondo gli ultimi dettami del design. Dal Villa Prati di Bertinoro (Fc) al Salone Margherita di Napoli, fino al Baja Beach Club di Barcellona la preoccupazione è una sola: trovare le insegnanti di uncinetto più brave sulla piazza, per organizzare corsi e lezioni ad hoc. Del resto, la ricerca a tappeto era praticamente inevitabile, visto che pare ormai assodato che lavorare a maglia debba essere considerato una nuova forma di yoga, un veicolo privilegiato di relax. Cui gli uomini non devono e non possono sentirsi esclusi, grazie alle ormai classiche one-night del lunedì, riservate proprio agli esponenti del sesso forte, ma soprattutto alla constatazione di un importante dato di fatto: le maggiori sostenitrici del nuovo trend sono top model, show girl ed attrici, che paiono non trovare di meglio per rilassarsi dopo le fatiche lavorative. Hai visto mai che saper lavorare a maglia possa servire a fare amicizia con Cameron Diaz, Julia Roberts e Sarah Jessica Parker?


XI

I MODI

IL CAFFÈ 23 dicembre 2007

Una scelta

pluralista salverà la Svizzera

Gli scenari e la scommessa elvetica in una società mobile, complessa e differenziata SANDRO CATTACIN loccato a Parigi – non riesco ad arrivare all’aeroporto. Più niente funziona. Il taxi magari mi salva. Ma non sono l’unico ad avere questa idea e mi trovo, ed è meglio così, con due altre persone sconosciute, compagne d’avventura, nello stesso mezzo e con la stessa speranza: non perdere l’aereo. Il viaggio e lungo, tutto è bloccato, e si comincia a chiacchierare. Dove vai? A Milano, Copenhagen, Tunisi. Per amore, per tornare al lavoro dopo una breve vacanza, per un convegno. Di dove sei? Italiano, ma abito in Svizzera, Francese ma sposata con un ragazzo tunisino, Spagnolo, ma vivo a Milano. Ridiamo di questa vita che ci porta dappertutto, senza perdere le origini; ci capiamo subito, abituati allo sguardo decentrato su noi e gli altri, che non ci mette al centro ma compresi in un gruppo. Non c’è bisogno di tradu-

B

scaldare troppo indebolisce il fisico e inquina, gli atti razzisti portano alla violenza contro i razzisti e inaspriscono il clima di vita, mangiare male causa problemi alla salute e aumenti dei costi per la collettività. Sono due i rischi maggiori che possono infrangere il progetto della società civilizzata. Il primo rischio è la politica delle soluzioni facili che ci procura un’identità che non permette l’autonomia, ma che crea diffidenza e chiusura, una risposta come quella che abbiamo vissuto nel periodo dei fascismi e che ci torna in mente quando siamo confrontati ai discorsi populisti. Il secondo rischio è quello descritto nei film futuristi alla Brazil o Blade Runner nei quali la complessità, divenuta ingestibile da un centro, libera non solo gli spazi dell’autocontrollo, ma anche quelli della criminalità. Nei due casi le armi contro una società aperta sono la paura e la violen-

zione, tutti parliamo diverse lingue. E si scherza, magari ridendo anche senza avere capito del tutto il senso della battuta. Questo taxi - fra l’altro guidato da un Algerino emigrato dopo la fine della colonizzazione francese a Parigi, che è ormai diventata la sua patria, come ci spiega e come evidenzia senza alcun dubbio il suo stile di guida - si trasforma via via in un laboratorio che tanto assomiglia al nostro futuro, caratterizzato da mobilità, coppie miste, globetrotters. Un futuro che non è tanto in rottura con il passato ma che, in un certo senso, riprende in versione individualizzata quelli che erano esodi e movimenti migratori di massa.

za - due elementi che distruggono quella risorsa fondamentale che è la fiducia.

MOBILITÀ E INDIVIDUALIZZAZIONE In effetti, alla direzione “dal sud al nord” che oggi sembra la via migratoria più importante - anche perché ci siamo abituati a leggerla in termini di viaggi della povertà - si stanno sovrapponendo migrazioni in tutte le direzioni: si scopre che il gruppo più importante nel saldo migratorio svizzero sono i Tedeschi, che la Cina sta esportando manodopera maschile verso il Maghreb - dove d’altronde si stabilizza senza problemi anche a causa delle dinamiche demografiche cinesi - troppi uomini e poche donne - che lo rendono attrattivo per gli uomini desiderosi di fondare una famiglia. Si vede anche che i motivi di migrazione legati alla povertà diminuiscono, quelli legati all’amore e al lavoro qualificato aumentano: in futuro, migrazione si trasformerà in mobilità individuale. Già oggi si cambia lavoro ogni cinque anni in media; questo cambiamento, in futuro, combinerà mobilità sociale ascendente o discendente e mobilità territoriale. Le famiglie che si organizzano su siti multipli, le coppie che si fanno e

si rifanno a seconda di dove si abita dei partner al ritmo del lavoro e del territorio - saranno la normalità. L’individuo inserito in un mercato globale del lavoro e dell’amore guadagna in capacità di scelta, ma la scelta è a doppio taglio: si può sì cambiare lavoro, ma si deve anche cambiarlo; si può cambiare partner, ma la fedeltà a vita diventa l’eccezione, difficile da organizzare. I percorsi di mobilità perdono una direzione chiara e una logica comune. Gli istituti di ricerca sulle migrazioni si trasformano in luoghi di lettura delle mobilità: l’individuo e il suo agire sono sempre più al centro delle analisi; gli strutturalisti vanno in pensione e, piuttosto che la classe sociale, si cercano le logiche di reazione di fronte alla sfida quotidiana dell’esistenza. LA FINE DELLE CLASSI SOCIALI Se questa frenesia del cambiamento continuo ci rende insicuri e senza certezze - l’esistenza liminale come dice Zygmunt Bauman -, essa ci conduce anche ad interrogarci su chi siamo. Senza potere contare sulla religione, la lingua o ancora il partito di appartenenza, saremo obbligati a definire, intimamente e autonomamente, la nostra identità: a li-

vello individuale, si ritroveranno le origini - e non le radici, che impediscono una vita rivolta all’apertura; a livello collettivo, le lotte di classe saranno sostituite dalle lotte per il riconoscimento di un’identità o di uno stile di vita. Queste origini saranno di diversa natura, sicuramente però non nazionali: esse ci guideranno nelle nostre scelte culinarie, ci diranno quali sono le nostre pratiche religiose, ci aiuteranno a decidere. Inserite in una società mobile, esse potranno anche essere negoziate quando aprirsi all’altro diventa possibile; in altre parole, quando la fiducia regna. Ed è questo terreno di negoziazione che deciderà del benessere della nostra società: poter contare sul fatto che l’altro, seppur in concorrenza, seppur diverso, rispetti le regole del gioco. La fiducia nell’altro è una risorsa fondamentale e fragile che nasce con l’esperienza che procura il vantaggio della collaborazione comparato al conflitto e alla guerra. LA SOCIETÀ APERTA O L’OPPRESSIONE Ed è qui che la scommessa comincia: se in futuro aumenta la mobilità - e tutto ci indica questo andamento - ci vorrà un individuo disponibile e capace nel confronto, nella negoziazione, ma anche nel

rispetto di ciò che è diverso. Questo individuo in parte esiste già, ma non nasce dal niente, nasce da esperienze positive di incontro e confronto con il diverso, nasce dall’apprendimento della gestione dei conflitti e, soprattutto, nasce dalla capacità di osservare e riflettere su se stesso. Questa riflessività è fondamentale per vivere in un mondo aperto: sapere chi si è, saper decidere, conoscere le regole del rispetto dell’altro e le logiche di coordinamento in società complesse, imparare non solo dai libri, ma dall’esperienza cumulata, da intuizioni che possono rivelarsi giuste o sbagliate. In una società complessa, mobile e differenziata, nessun poliziotto potrà controllare i comportamenti degli individui; dovremo imparare a controllarci da soli, a “civilizzarci” ancora di più come ci ha dimostrato Norbert Elias. Questa società aperta è una sfida ad alto rischio che richiede una scuola e una politica pronte a dirci che non viviamo nel paese dei balocchi, ma che sarà necessaria la responsabilizzazione di ciascuno per sé e per l’altro. Che si tratti di comportamento ecologico, di rispetto per le altre religioni o di conoscenza dei comportamenti salutari, qualsiasi cosa si faccia, questa serve o nuoce a sé e all’altro: ri-

FIDUCIA, PLURALISMO E INNOVAZIONE Dunque, la scelta della società aperta resta e resterà una conquista quotidiana nella quale la fiducia nell’altro dovrebbe prevalere per interesse: l’interesse di salvaguardare una società del rispetto nei confronti di ogni individuo e l’interesse, molto più pragmatico, della capacità di innovazione che caratterizza le società aperte. La Svizzera è un modello di innovazione e di cambiamento, meno al livello della politica confederale - che però ci fornisce un quadro di intervento stabile - che a livello economico e della politica urbana. Paese senza risorse altre che la testa della gente, la Svizzera non avrà scelta tra chiusura e apertura. Dovrà continuare a giocare la carta della mobilità, della ricchezza che viene dalla differenza - e ben guardarsi dalle sirene populiste. Dovrà mantenere la pace sociale che genera fiducia, dovrà investire nell’intelligenza sociale della gente. Un compito, questo, non solo per uno Stato sociale che garantisce la sicurezza materiale, la non-discriminazione e una formazione alla cooperazione, ma anche per un’economia che investe nella gente e nel suo territorio di intervento, che rinnova l’imprenditoria morale rispettosa delle regole della concorrenza e della cooperazione, che agisca in Svizzera o altrove. Immaginiamo dunque questa Svizzera del futuro aperta verso l’Europa e il mondo, che attira la gente in cerca di un’aria innovativa, pluralista tanto politicamente che per le origini delle persone che la compongono. Magari anche con una nazionale di calcio vincente grazie a questo pluralismo che produce qualità.


IL CAFFÈ 23 dicembre 2007

XII

LA STORIA

“La nostra

seconda vita con Ruben”

PATRIZIA GUENZI

L

a rinascita di papà Stefano è tutta lì, in quei regali ancora incartati, accatastati vicino a quelli degli scorsi anni. Pacchi - con stampigliato sulla carta un timbro con la data del… Natale di riferimento - più o meno voluminosi, pesanti e colorati che, in tutto questo tempo, Stefano Bianchi ha custodito gelosamente per il figlio Ruben. Come una reliquia, nella speranza che la sua vita, un giorno o l’altro, riprendesse la corsa interrotta quel maledetto 23 dicembre 2003, quando la moglie, Lucille Hunkeler, ex campionessa svizzera di ciclismo su pista, si trasferì a Uffikon col figlio di cinque anni lasciando definitivamente la casa di Montecatini. Per la donna, invece - rientrata in Svizzera dopo una “pausa” forzata in Italia dapprima in carcere e poi in una casa famiglia - il futuro si prospetta irto di difficoltà. Sola, stanca e smagri-

ta, senza più quel figlio per il quale ha lottato come una leonessa, dovrà rispondere dell’accusa di rapimento di minore. Intanto Lucille continua a ripetere che farà di tutto per riavere Ruben. Il figlio che, sei mesi dopo il suo trasferimento in Svizzera, invece di riconsegnare al padre per ordine del Tribunale d’appello di Lucerna, rapisce e sparisce con lui senza lasciare più traccia. Introvabile sino allo scorso 26 ottobre quando la polizia italiana comunica a Bianchi il ritrovamento, in Mozambico, della madre - immediatamente arrestata, sul suo capo pendeva pure un mandato di cattura internazionale, mentre lo scorso 13 di-

Dopo il ritrovamento in Africa del figlio, “rapito” tre anni fa dall’ex moglie Lucille, un nuovo destino per una madre e un padre cembre il tribunale di Firenze l’ha assolta dall’accusa di aver rapito il figlio - e del figlio. Così, dallo scorso 26 ottobre gli “ingranaggi” dell’esistenza del medico toscano quarantacinquenne iniziano lentamente a muoversi. “Ma la mia seconda vita comincerà domani, quando assieme a Ruben scarteremo i regali - precisa Bianchi -. Tutti, quelli degli scorsi quattro Natali e quelli di quest’anno. Ci aiuteranno a riavvicinarci e a preparare il nostro cammino futuro. Quello di un padre e un figlio, ritrovatisi dopo oltre tre anni di lontananza, che ora intendono proseguire la loro vita appaiati. Per sempre”. Mentre per Lucille, domani, Natale, sarà sicuramente un giorno tristissimo senza il “suo” Ruben. Col cuore gonfio di amarezza penserà agli anni della latitanza, ai momenti belli trascorsi col piccolo. Bianchi, invece, aperti tutti i regali, libererà definitivamente i lacci e i laccioli che ancora lo tengono inchiodato ad un passato dolorosissimo. “Una via crucis che non auguro neppure al mio peggior nemico”, commenta. Oggi, esattamente due mesi dopo il ritrovamento del figlio, riavvolge il nastro della sua odissea, lo sigilla, e lo chiude in un cassetto. Assieme alle sciarpe, alle magliette, agli striscioni che con gli anni ha esibito in questa o quell’altra manifestazione in cui cercava di rivendicare il suo diritto di padre. Non se ne dimenticherà mai - e come potrebbe! -, ma da oggi inizia la sua nuova vita. Intende recuperare il tempo perso, ritrovare quel figlio che ha vissuto oltre tre anni lontano da lui, chissà dove e chissà come. Perennemente in fuga, nascondendosi sempre, senza poter giocare e vivere come un bambino della sua età avrebbe invece diritto di fare. Vorrebbe tanto conoscere i pensieri che attraversavano la mente di Ruben mentre era lontano. Se pensava a lui, se gli mancava, se sapeva che il papà non era responsabile di quella folle vita… Intanto Lucille, tramite i suoi avvocati, continua a ripetere: “Se penso a lui mi piange il cuore, forse crede che l’ho abbandonato”. “Ora dobbiamo guardare al nostro futuro - taglia corto Bianchi -. Io, soprattutto, sono responsabile di quello di Ruben che molto difficilmente potrà dimenticare. Ma per riparlare del passato ci sarà tempo”. Anche per Lucille, che sta trascorrendo uno dei Natali più tristi della sua vita e nel suo cuore rivede quelli scorsi. Quando era lei a preparare i regali per Ruben, ad aprirli assieme a lui, a gioire con il figlio e a scambiarsi gli abbracci. Anche se hanno vissuto momenti di difficol-

tà, in mezzo a gente diversa e costretti a parlare un’altra lingua, sono sempre stati assieme, non si sono mai lasciati. E mai avrebbero pensato di doverlo fare. Intanto, a Montecatini, prima dell’apertura dei regali c’è un altro rito da riprendere, interrotto bruscamente quel maledetto dicembre di quattro anni fa. Stefano ha comperato, da quel solito contadino suo amico che ha un vivaio vicino al bosco, un bell’abete. Non troppo alto, come piace a Ruben. “Ricordo come si arrabbiava se non riusciva ad ornarlo tutto da solo. Non voleva essere preso in braccio per arrivare in cima in cima”. Già, ma Ruben rispetto ad allora è cresciuto… “Lo so, ma almeno il Natale, questo primo Natale insieme, lo voglio rivivere come se fosse ancora il bimbo del dicembre 2003. Oggi torneremo sulla pista di pattinaggio, cornice della nostra ultima giornata assieme e, anche se ora Ruben corre veloce sul ghiaccio, per me sarà ancora quel piccoletto che sgambettava, cadeva, si rialzava, rideva felice, tornava a casa con me e scriveva la letterina a Babbo Natale”. La rinascita di questo padre, indubbiamente segnato dalla sofferenza, sarà domani. Nella sua mente ricordi, paure, tensioni, ansie, angosce e dubbi fanno spazio le luci di un nuovo giorno. “È come se mi fossi tolto di dosso la pelle e me ne stesse ricrescendo un’altra - riprende -. Tutta nuova, seppure sotto le cicatrici restano. E così è per Ruben. Anche se per ora non è in grado di esprimere concretamente questa sensazione. Non a parole, per lo meno. Lo fa con i gesti, con le espressioni del viso, col suo starmi continuamente addosso. Quasi avesse paura di perdermi un’altra volta”. Quasi avesse preso coscienza che sua madre, di fatto, gli ha strappato una fetta di vita. “Ci ha strappato una fetta di vita - corregge Bianchi -. Un periodo perso, ormai, un buco nero nelle nostre due esistenze”. Un buco nero nel quale adesso è piombata Lucille che non aveva meesso in conto di doversi, un giorno, staccare da Ruben. Ma domani è un altro giorno. Un nuovo anno alle porte. Tutto sarà diverso. Per Lucille, che continuerà a cercare di riavere suo figlio. Per Bianchi, che ora deve proteggere Ruben. E la forza non gli manca. Per riaverlo ha smosso mari e monti. Non s’è mai dato per vinto. “E come avrei potuto - esclama -. Sono sopravvissuto con il suo odore nelle narici, la sua risata nelle orecchie, i suoi baci sulle guance, negli occhi il suo sguardo fiducioso”. Quell’odore, quella risata, quei baci e quello sguardo che oggi fan-

no tanto disperare Lucille, così come a suo tempo avevano fatto morire dentro Bianchi che in passato ha pure intrapreso uno sciopero della fame, s’è incatenato davanti all’ambasciata svizzera a Roma, ha organizzato fiaccolate, manifestazioni, appelli, viaggi sotto casa dell’ex moglie, a Uffikon, per cercare di strappare un sorriso a Ruben… Una nuova vita. Prima, però, Stefano deve ancora mettere sotto l’abete del salotto le bozze del libro che sta scrivendo, “Ruben un gioco senza regole”, il titolo. “Dentro c’è tutto me stesso - spiega -. Oltre al racconto della terribile vicenda, riflessioni, sentimenti, ansie e paure… mai espresse. Ma anche la mia figura di padre che, pur nel dolore, s’è arricchita moltissimo. E poi il capitolo del ritrovamento di Ruben, che mai avrei pensato di potere aggiungere”. Una sorta di letterina di Natale che Bianchi in-

via al figlio. Un ponte, grazie al quale lo riavvicinerà, si farà conoscere, gli spiegherà i suoi sentimenti di padre, lo metterà al corrente del perché nell’armadio ci sono ancora i suoi vestitini di quattro anni fa. Ruben leggerà di come suo padre ha vissuto in tutti questi mesi, di come evitava di entrare in quella stanza, seppure i primi tempi non riusciva ad impedirsi di farlo, sedersi sul lettino e riflettere, aprire l’armadio e odorare i suoi abiti, chinarsi a terra e toccare i suoi giocattoli… “Dentro le pagine del libro, in sostanza c’è tutto me stesso e, nell’ultima parte, il racconto della mia rinascita”, conclude Bianchi. Sicuramente anche quella, ora più dolorosa, dell’ex moglie.


XIII

SAPERI E SAPORI

IL CAFFÈ 23 dicembre 2007

Come

mangeremo domani... La situazione alimentare attuale non fa stare tranquilli pensando al futuro, ma l’uomo non sarà tanto stupido da non cercare rimedio all’allarme cibo in maniera molto sensata CARLO PETRINI

M

i si chiede spesso di prefigurare quale sarà il futuro dell’alimentazione nel mondo. Vista la complessità del tema, ogni previsione risente immancabilmente dell’ottimismo o del pessimismo che anima chi si cimenta nell’esercizio. Io quindi dichiaro subito di essere ottimista, però, naturalmente, ad alcune condizioni. Vista la situazione attuale in realtà ci sarebbe poco da stare tranquilli con lo sguardo rivolto al futuro, ma l’allarme giustificato che si sta diffondendo nella società a proposito degli effetti che la produzione, la trasformazione, la distribuzione e il consumo del cibo hanno sugli equilibri ecologici ed economici mondiali fa pensare che l’uomo non sarà così stupido da non cercare di porvi rimedio in maniera sensata. Il grosso problema è rappresentato dal modo di pensare con cui l’uomo affronterà la sfida di rendere sostenibili le sue attività necessarie alla sopravvivenza - tra cui il cibo è la prima e la sola irrinunciabile. Se sarà animato dai dogmi economici che l’hanno condotto sin qui, credo che l’operazione sarà destinata a un misero fallimento. Sarebbe facile individuare nell’agricoltura biologica, nella riorganizzazione dei sistemi di distribuzione, nel sostegno alle comunità rurali, nell’educazione alimentare e al gusto dei cittadini alcune delle soluzioni necessarie. Un po’ perché, a pensarci bene, lo vuole il buon senso; un po’ perché tanti e sempre più ne stanno già parlando da tempo. Però queste soluzioni validissime, indispensabili e profondamente legate le une alle altre, farebbero fatica a non rimanere un puro esercizio di stile e un virtuosismo di una minoranza senza che contemporaneamente cambi la mentalità degli uomini. Il modello economico occidentale, che ci ha reso tanto ricchi e benestanti, ma che obiettivamente ha depredato la Terra e tanti popoli di ricchezza, salubrità e benessere, è qui il vero imputato. Non voglio che si pensi che lo sia per ragioni ideologiche, ma per l’evidenza dei fatti. La limitatezza delle risorse ci insegna che una crescita continua, secondo i parametri economici di sviluppo che ci siamo dati, è impossibile; l’estrema razionalizzazione di certi processi produttivi applicati all’agricoltura, e cioè direttamente alla Natura, riduce in maniera preoccupante la diversità su cui la Natura stessa si fonda per sopravvivere; il fatto di aver imposto più o meno consciamente ad altri il nostro modus vivendi - a Paesi emergenti e immensi come Brasile, India e Cina - crea squilibri vertiginosi e una minaccia reale per la salute della Terra. Del resto non possiamo neanche pretendere che chi si sta finalmente riscattando da una condizione di povertà rinunci senza protestare all’illusione di un benessere tanto agognato; per cui l’inversione di rotta dovrà innanzi tutto partire dalle nostre menti, e dalle nostre abitudini. Il problema economico è centrale e credo che a partire dalla questione alimentare dovranno sempre più svilupparsi e proliferare delle economie locali, basate sui territori e connesse in rete tra di loro. Economia locale vuol dire armonizzare e sfruttare senza sprechi le risorse che offre un territorio: agricoltura, energia, salvaguardia della biodiversità, abilità umane. Ma vuol anche dire non dimenticare il proprio passato, fare tesoro delle tradizioni e dei saperi popolari che in nome della scientificità sono stati troppo spesso accantonati senza fare prima una riflessione sul loro valore in termini di sostenibilità. Questa è memoria locale, memoria di se stessi, capacità di lavorare sulla propria identità (culturale, alimentare, economica e sociale) senza rinnegare il passato e senza neanche farne l’unico faro che illumina la via. Non sto parlando infatti di una chiusura totale alla modernità, all’innovazione, ma di rendere utile questo progresso in chiave locale, al servizio delle comunità e non del semplice profitto. Non sto neanche parlando di una chiusura al prossimo, perché queste realtà locali devono comunicare tra di loro, scambiare esperienze e prodotti (quando è veramente necessario), crescere insieme in termini di felicità e non di prodotto interno lordo. Da questo punto di vista i giovani rivestono un ruolo fondamentale: creare le condizioni perché possano ritornare alla terra e alla coltivazione del cibo risulta fondamentale. Ma non si tratta di forzarli a questo passo; non si tratta nemmeno di concedere loro soltanto sussi-

di e finanziamenti. Il mestiere del contadino deve ritornare ad essere appetibile, perché in fondo, nel contesto post-moderno in cui ci troviamo a vivere, è uno dei lavori più connotati da valore culturale che si possano immaginare. La dignità dei contadini, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo, deve diventare una delle priorità di chi si occupa di cibo e di politiche del cibo: le campagne devono tornare ad essere luoghi accoglienti, in cui una reale multifunzionalità dell’agricoltura le preserva dall’immiserimento in termini umani, naturali e paesaggistici. In un contesto locale anche il biologico si libera di quei pericoli che purtroppo incombono su di lui: un biologico fatto di monoculture di stampo industrialistico per alimentare un mercato globale, in cui le merci viaggiano spesso inutilmente da un continente all’altro, non è sostenibile e non garantisce necessariamente cibi migliori in termini di proprietà nutritive e di piacere che donano. A livello locale, con le colture autoctone, si può rendere eccellente la produzione, la si può controllare meglio senza la necessità di eccessive e costose certificazioni; il cibo poi può essere consumato fresco, in stagione, per il benessere e il piacere delle popolazioni e per un maggior guadagno da parte dei contadini. Questi sono soltanto alcuni degli aspetti nevralgici su cui si dovrà intervenire e come si può notare per prefigurare un futuro dell’alimentazione non ho parlato sol-

La limitatezza delle risorse

insegna che una crescita continua è impossibile. Certi processi produttivi applicati alla natura minacciano la sua stessa sopravvivenza

tanto di cibo e delle abitudini che abbiamo a tavola. Certo, la nostra scelta su cosa mangiare influenza il mercato e le decisioni politiche, e questa forza va esercitata, ma il cibo è così centrale nelle nostre vite (anche se lo diamo troppo spesso per scontato) che coinvolge ogni singola altra attività umana. Per questo parlo di modelli economici e di conoscenza tradizionale, per questo parlo della difesa della biodiversità e degli equilibri ambientali. Il cibo ci fa muovere nel mondo e ci lega indissolubilmente al pianeta su cui viviamo come nessun’altra cosa e in maniera molto complessa. Abituiamoci a pensare in questa maniera complessa. Prendere coscienza che dal cibo possiamo instaurare processi virtuosi per il bene delle generazioni future è il primo passo da compiere. Rifiutarci di consumare cibi che non siano buoni (indice di salubrità produttiva, freschezza e giusta gratificazione per il palato e per la mente), puliti (i cui processi che li hanno portati sulle nostre tavole siano sostenibili per l’ambiente) e giusti (che siano rispettosi di chi li ha coltivati e allevati, che non perpetrino ingiustizie tra i popoli) è forse uno degli atti più rivoluzionari che possiamo compiere al giorno d’oggi. Una rivoluzione non in termini di sollevazione popolare o di conquista di chissà quale potere, ma rispetto a come pensiamo il cibo e lo sviluppo, a come immaginiamo il futuro del nostro pianeta e di tutti i suoi abitanti, indistintamente.


IL CAFFÈ 23 dicembre 2007

XIV

L’INCONTRO

Gianna

È partita quarant’anni fa da Riva San Vitale per dare una mano a costruire un avvenire ai bambini indiani orfani. Ben presto si è accorta che a Erukkenchery, un agglomerato di baracche nel quartiere più povero di Madras, il problema era assicurare il presente. Da allora, quotidianamente, armata della sola fede lotta contro fame, povertà, lebbra e morte.

Bernasconi EZIO ROCCHI BALBI

S

olo quattro ore di fuso orario separano il Ticino da Chennai, meglio conosciuta col suo vecchio nome di Madras, capitale del Tamil Nadu, ma è inutile calcolare in chilometri la distanza tra le due località che, per condizioni di vita, può essere considerata incomparabile. In questa città indiana con più di 5 milioni di abitanti, Gianna Bernasconi ha scelto di vivere a Erukkenchery, un quartiere tra i più poveri alla periferia nord della città. Ha lasciato quarant’anni fa, quand’era una giovane infermiera neodiplomata, il tranquillo borgo di Riva San Vitale e ora si ritrova tra una moltitudine di persone ammassate negli slum, interi quartieri dove le case sono capanne di fango col tetto ricoperto di foglie di palma, e dove la ricerca di un lavoro, cibo, acqua per la sopravvivenza sono un tutt’uno con malattie di ogni genere, dalla disidratazione alla tubercolosi, dalla malaria alla lebbra. “Quando ho preso la decisione di venire in India sapevo che avrei trovato miserie di ogni genere, ma una volta sul posto ho constatato che la realtà era ancora più dura - ammette Bernasconi ancora sorpresa di essere stata la più votata dai ticinesi per la candidatura allo Swiss Awards 2007-. Morti per fame ne ho visti ancora negli anni ‘80”. La scelta di Gianna è scattata nel 1967, quando lascia il suo paese e gli affetti più cari, la famiglia, gli amici per una vita nuova, diversa. Al servizio dei poveri con sincerità e amore, recita la scritta all’ingresso del “suo” dispensario, il St. John’s Dispensary and Social Service , un angolo di Svizzera italiana in India che vede passare ogni giorno circa 250 pazienti, in un centro di assistenza sociale che ha aiutato migliaia e migliaia di persone. Tante storie di miseria, disperazione, sofferenza e morte davanti alle quali non c’è assuefazione che possa “ammortizzare” la sensazione di impotenza. “La reazione c’è stata e ancora rimane di fronte ai casi tragici con i quali ho a che fare ancora oggi - spiega evitando accuratamente di fare leva su qualsiasi forma di pietismo -. Bisogna darsi da fare e cercare di aiutare come meglio si può a seconda dei casi. Anche semplicemente una buona parola può essere di grande aiuto e in questo la padronanza della lingua tamil è fondamentale per parlare con la gente e fargli capire che sei con loro e come loro”. Una lingua che Bernasconi s’è sforzata di imparare subito, già al suo arrivo al centro Beatitudini di Vyasarpadi, e prima di svolgere in modo completamente autonomo la sua missione, o meglio “ul mè lavurà” come lo definisce ancora oggi, una vita dopo. “Sì, sono 40 anni! Devo dire che non è stata una scelta affrettata erano già parecchi anni che sentivo in me il desiderio di essere utile a qualcuno racconta -. Ho ottenuto il diploma di infermiera, ho fatto uno stage all’Ospedale Beata Vergine di Mendrisio e alla maternità cantonale e poi, il 2 di settembre del 67, sono partita e sono ancora qui”. La settantenne ticinese ama il profilo basso, anche se non c’è modo di confonderla con alcuni “professionisti della solidarietà” che sanno benissimo, per quanto a fin di bene, come trattare con i media ottenendo in cambio visibilità e popolarità. Gianna no, non se ne cura. Anzi, se si fa l’errore di chiederle se ha bisogno di qualcosa, se si può essere utili, risponde schernendosi che non le serve nulla, che i soldi che ha in tasca per ora le bastano e quando finiscono si vedrà. “I momenti di sconforto li abbiamo tutti e qualche volta siamo anche soli. In questi momenti io ho la mia fede che mi ha sempre sostenuto. E poi i buoni amici ci sono sempre, anche se sono lontani. Una telefonata e una chiacchierata, anche a distanza, molto spesso servono a superare anche i momenti più difficili. E poi ogni giorno c’è sempre da fare e spesso non si ha nemmeno il tempo per farsi prendere dallo sconforto”. Effettivamente il tempo è la materia prima più preziosa per Gianna, anche se lei lo ha quasi totalmente dedicato alle cure rivolte soprattutto ai diseredati più miserevoli, a quelli meno amati: malati terminali di cancro e Aids, vecchi infermi di mente abbandonati da tutti e moribondi, riservando uno slancio speciale

verso i bambini, gli orfani. “È vero. Ma è stata una delle mie prime attività quella di occuparmi dei piccoli dell’Asilo di Vyasarpadi. In quei primi anni e anche successivamente al dispensario, una gran parte delle malattie, dovute anche alla malnutrizione, colpivano sopratutti i bambini e ne ho dovuti curare tanti. Ma poi bisogna anche dire che i bambini rappresentano il futuro di una nazione e per questo è importantissimo curarsi della loro salute e della loro educazione”. Futuro è una parola difficile da pronunciare per Bernasconi, anche se quando è partita la speranza era proprio quella di costruire un “futuro” ai derelitti. Ben presto, però, s’è resa conto che il problema in India era garantire un “presente”. Un presente costantemente fatto di protesi e stampelle da procurare agli handicappati, di insegnamento scolastico negli asili nido e nelle scuole di cucito, di profilassi preventiva per madri e bambini, cura e conforto agli ammalati in fase terminale, sostegno morale e ricovero di lebbrosi. Migliaia di contatti con infezioni e malattie letali senza chiedersi, personalmente, come affrontarle e superale. “Francamente non mi sono mai preoccupata molto di questo aspetto - replica quasi stupita del nostro stupore -. Ho i miei buoni

Santi che mi proteggono e faccio molto affidamento su di loro”. Santi che accompagnano, evidentemente, anche i volontari che dal Ticino l’hanno raggiunta a Chennai e raccontano di momenti passati a tagliare i teli per avvolgere e comporre le salme di quegli anziani che sarebbero morti in pochi giorni al centro Karunai Illam (luogo d’amore). Persone abbandonate che, per Gianna, hanno comunque diritto a una morte e a un funerale dignitoso. Morte con la quale si è confrontata praticamente ogni giorno, ma che non assume mai una forma diversa dal dolore. “Devo dire che sono una persona di fede, ma per me la morte è sempre un momento particolare. Mi sono sempre posta con umiltà al fianco delle persone che ho accompagnato in questa nuova dimensione. Sempre con sentimenti di tristezza, ma anche di accettazione e anche di serenità, quella serenità che ho sempre sperato di poter dare a questa gente stando loro vicina in questo momento”. Chi l’ha vista aggirarsi tra i moribondi, i reietti, i sofferenti nei quartieri più squallidi e miserabili della popolazione tamil si chiede come possa bastare una carezza o un sorriso, la sua sola presenza, per lenire una sofferenza così gigantesca. “Forse non basta, ma

sono convinta che ogni azione di aiuto al prossimo se è sincera e fatta con amore diventa molto più efficace e aiuta certamente a sentire meno la sofferenza. È importante che la gente venga curata ma è fondamentale che non si senta sola, che si senta amata”. E d’amore Gianna è da quarant’anni che ne ha da vendere. Persino per tutti quelli che, come noi, si trovano a mille miglia da quei problemi e cerchiamo di non pensare troppo ad una realtà che ci imporrebbe indelebili sensi di colpa. “Ma non si può pretendere che chi vive nel benessere valuti le cose con lo stesso metro di chi vive cercando di raggiungere un minimo di dignità - commenta generosamente -. Nessuno poi deve sentirsi in colpa perché vive nel benessere. A tutti comunque è data la possibilità di aiutare il prossimo. Io ho avuto, in tutti questi anni, la prova concreta che c’è molta gente che riserva una parte del suo cuore per chi è nel bisogno. Ho tutti gli Amici di Padre Mantovani e quelli di Riva San Vitale del Gruppo Madras e tanti altri che mi hanno sempre permesso di fare il mio lavoro realizzando tantissime belle cose, aiutando chi veramente ne aveva bisogno. In fondo tutta questa brava gente ha fatto una buona parte di quello che fatto io”. Non c’è da stupirsi se già nel 1988, dopo aver creato dal nulla una struttura sanitaria polivalente, Gianna viene premiata quale miglior assistente sociale della Città di Madras e nel 1992 dal governo dello stato del Tamil Nadu. “Lo stato Indiano ha sempre riconosciuto la validità del nostro lavoro e questo ci ha permesso di operare senza troppi ostacoli. Abbiamo avuto una buona collaborazione anche finanziaria. Faccio un esempio. Le scuole realizzate con gli aiuti ricevuti dalla Svizzera sono poi sempre state prese in carico dal governo che ne ha garantito la continuità e l’efficienza pagando i maestri. Certo che l’aiuto di tutti gli amici e benefattori è stato determinante per portare a termine tutti i progetti che in quarant’anni sono stati realizzati”. Ma c’è sempre lei dietro la realizzazione di un piccolo ospedale a Vanakkambadi, voluto dagli amici di Riva San Vitale, e dietro la costruzione, in fase d’ultimazione, di una quarta sala multiuso per una comunità di pescatori già colpita dallo Tsunami, “Dove, naturalmente svolgo sempre, dove è necessario, il mio compito di infermiera”. Anche in occasione del maremoto che nel dicembre 2005 ha colpito la costa a sud di Chennai, non s’è rassegnata all’impotenza. “Al contrario, nonostante la tragicità del momento, i morti e la grande disperazione abbiamo potuto intervenire subito e in modo efficace - spiega -. Parlo al plurale perché in quei momenti ho avuto la grande collaborazione dell’Icwo, Indian Community Welfare Organisation, una struttura di assistenza sociale con la quale collaboro ancora attualmente. Nei primi giorni abbiamo dato gli aiuti immediati di carattere sanitario di assistenza morale. In un secondo tempo abbiamo sostenuto finanziariamente le famiglie di quei villaggi di pescatori che avevano perso le barche e dunque il sostentamento per continuare a vivere. In una terza fase abbiamo potuto fornire un certo numero di barche complete di reti e motori in modo che le normali attività di pesca sono riprese e piano piano la vita è ritornata alla normalità. Ancora adesso stiamo ultimando la sala multiuso per i villaggi sulla costa di Mahaballipuram, una struttura comunitaria molto utile e apprezzata dalla gente di questi villaggi”. Disarmante nella sua tranquillità, Gianna Bernasconi, nonostante i quarant’anni spesi integralmente a favore del prossimo e l’inevitabile stanchezza fisiologica delle sue settanta primavere non vuole nemmeno sentire la parola “pensione”. “Ma io la pensione l’ho presa subito appena ho cominciato il mio lavoro - ride un po’ imbarazzata -. Tanta gente ha apprezzato quello che ho cercato di fare e la riconoscenza e l’affetto non sono mai mancati. E anche la soddisfazione di vedere, per esempio, qualcuno dei miei piccoli crescere, studiare con profitto, diventare adulto e trovare un buon lavoro”. Grazie di tutto, Gianna.


XV

PER LA MENTE VISTI DA LONTANO

V

iviamo in un mondo di contraddizioni. Televisione, radio e giornali ci propinano, ogni giorno, notizie e immagini orripilanti sulla fame e la denutrizione nel mondo. Altrettanto numerose sono però anche le notizie sulla rapida diffusione dell’obesità. Da questo punto di vista, la Nuova Zürcher Zeitung si è di recente superata pubblicando, nella stessa pagina, una notizia stando alla quale, a New York, un abitante su sei soffre la fame e un’altra che parlava di quanto obesa stia diventando la popolazione della Gran Bretagna. Nei paesi sviluppati l’obesità è uno dei grandi cambiamenti manifestatesi nel corso degli ultimi venti anni. In molti paesi è diventato un vero e proprio nemico da combattere. La Nuova Zelanda sta dando il buon esempio: da qualche anno ha introdotto limiti di circonferenza per i candidati all’immigrazione. Per le donne, il giro di pancia non può superare gli 88 centimetri, mentre per gli uomini deve

di ANGELO ROSSI

Siamo diventati un mondo di obesi

essere inferiore a 102. Sono subito andato a misurarmi: per emigrare in Nuova Zelanda dovrei fare una dieta. Speriamo che il limite non venga esteso ai turisti, perché altrimenti dovrei restare a casa. Di recente, uno specialista di dietetica americano, Barry Popkin, ha affermato che oggigiorno ci sono nel mondo più obesi che malnutriti. La fame e l’abbondanza stanno quindi fianco a fianco. Ma che tende a salire è la quota degli obesi. In Gran Bretagna si teme che, verso il 2050, supererà la metà della popolazione. E in Svizzera non siamo da meno. Già oggi il 38.7% della popolazione adulta del nostro paese è obesa, o adiposa, e la quota continua a salire. L’obesità è una questione di dieta, come ha dimostrato in modo inequivocabile Morgan Spurlock nel suo documentario “Supersize me”. Il problema è la cattiva alimentazione. Chi ha passato la sessantina ricorderà certamente che le prime taglie, apparse sul mercato, una quarantina di anni

fa, erano la S, la M e la L. Poi, per servire i più robusti, fece la sua apparizione la XL. Più tardi arrivò anche la XXL e oggi, nei negozi on line di internet, si trovano facilmente anche taglie XXXL. La produzione si adatta ai bisogni. Ma quello delle taglie giganti è un bisogno di cui vorremmo volentieri fare a meno. Le conseguenze dell’obesità sono infatti diabete, infarti, disturbi alla circolazione sanguigna e forme particolari di cancro. I costi dell’obesità non sono quindi da prendere alla leggera. Nel 2001, sembra abbiano raggiunto, in Svizzera, i 2,7 miliardi di franchi, ossia lo 0.6% del prodotto interno lordo. A proposito di fame nel mondo: sempre nel 2001, l’aiuto della Svizzera ai paesi sottosviluppati ha rappresentato lo 0.3% del Pil. Contraddizione delle contraddizioni: gli svizzeri spendono per le conseguenze nocive dell’obesità il doppio di quanto sono disposti a spendere per alleviare la fame nel mondo!

PARLARCHIARO

FUORI DAL CORO

di DARIO ROBBIANI

di GIÒ REZZONICO gio@rezzonico.ch di LIDO CONTEMORI

Aspettando un anno falso e futile U

n secolo fa (!). il Telegiornale diffondeva la retrospettiva dell’anno. Era il risultato di un lavoro meticoloso di valutazione degli avvenimenti e di scelta delle immagini più spettacolari. Si evidenziavano gli accadimenti e i personaggi che sarebbero potuti entrare nella storia. Con la provincializzazione del tiggì, la retrospettiva è stata abbandonata. Sono proposte le notizie in ordine cronologico come un’agenda sfogliata a ritroso. *** È un segno dei tempi: tutto è immagazzinato, raramente classificato. Si butta nella cartoteca, in archivio, sulla memory del computer, senza criterio nè ordine. Fortunatamente c’è il motore di ricerca del pc. La mancanza di memoria, la ricordanza trascurata e l’evocazione difficile caratterizzano i tempi. Viviamo nel presente. Abbiamo paura d’immaginare il futuro. Cerchiamo di cancellare il passato. Da qui la confusione e il garbuglio mentale. *** Tralasciamo ciò che ha fatto titolo, il pericolo di morire per l’Iran, la mattanza in Iraq, il ritorno della guerra fredda, il terrorismo assassino, il caro-petrolio, il rincaro, le elezioni che hanno scombussolato la politica svizzera e ticinese e di questo ‘07 rimangono: il disorientamento, l’incapacità di distinguere tra reality e fiction. Specialmente i giovani vivono in un mondo drammaticamente virtuale. Piatto e violento, come una playstation giapponese. Spacciano, si drogano, rubano, rapinano, distruggono, uccidono perfino in modo incosciente, senza distinguere il bene dal male e l’invenzione dalla realtà. Lei se ne va, lui non accetta la separazione, accoppa l’ex, i bambini e i parenti. Nutre di silenzio la rabbia e il desiderio di vendetta. L’incomunicabilità caratterizza la società della comunicazione. Non parliamo di valori perduti, neppure il rispetto e la paura delle conseguenze sopravvivono. Chi dovrebbe offrire riferimenti distribuisce dubbi, sconcerta l’intelligenza, predica l’anticultura con il ritorno all’antico, contesta capitalismo, marxismo, liberismo ed egualitarismo. Stona l’invito ad essere positivi e ottimisti, a credere nella speranza a ritornare al rispetto dei comandamenti, a dar prova di tolleranza e di solidarietà. Quasi una presa in giro. Confusi, disorientati, anche nel nostro piccolo mondo ovattato, si procede caoticamente. Ci si rifugia dietro le bugie. Sono il mascheramento della verità. La fuga dalle proprie responsabilità. Si dice e disdice. L’uomo di parola non esiste. La donna, nonostante l’emancipazione, è un gingillo. La gazzarra serve a marcare presenza. Per dire: “Ci sono anch’io.” Si potrebbe vivere felici. Tutto, o quasi è alla nostra portata, invece si preferiscono l’insoddisfazione e la mestizia. Si spera, questo sì, si spera! Su comando, come se bastasse schiacciare un bottone per buttar via lo sconforto e ritrovare la fiducia… Ci aspetta un anno di crucci, sovente per motivi futili. Ma su con la vita che è bella!

ETIC(HETT)A di PADRE CALLISTO

O

ggi voglio raccontarvi un fatto di Natale letto su un vangelo apocrifo scoperto in questi giorni. Maria e Giuseppe arrivano a Betlemme e non trovano posto “per loro” nell’albergo. Perché “per loro”? Erano forse troppo poveri? Sembra di no. Erano forestieri, di Nazaret, quindi Galilei, non giudei. E a Betlemme le autorità giudaiche non erano accoglienti con gli extra comunitari. Allora Maria, visto il rifiuto, disse a Giuseppe: “Da chi andremo per sapere dove

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possiamo rifugiarci questa notte?”. Giuseppe rispose: “Andiamo alla sinagoga, lì riceveremo delle indicazioni. Andarono, ma un membro del consiglio della sinagoga li bistrattò. “Qui non si ricevono stranieri, galilei, nazzareni. Andatevene”. Intervenne una buona donna e indicò loro una grotta poco distante dal paese. Quando l’assemblea di tutta la sinagoga conobbe il fatto, cacciò quel consigliere ed elesse la donna al suo posto nella sinagoga. Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.

LE LETTERE

Scrivete al Caffè

IL CAFFÈ 23 dicembre 2007

Guardare al futuro dopo la malattia F

accio il giornalista da trent’anni. Nessun mio articolo ha mai suscitato tante reazioni quanto quello pubblicato due settimane fa sul mio confronto con la malattia. Vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno scritto lettere toccanti per esprimermi la loro solidarietà e testimoniare le loro esperienze. Nel corso degli ultimi mesi sono infatti stato confrontato con un male difficile. Tema di cui ho parlato in questa rubrica, narrando i miei stati d’animo durante questo scomodo viaggio. Le numerose lettere che ho ricevuto mi hanno fatto profondamente riflettere. Mi sono chiesto perché quella testimonianza ha suscitato tanto interesse. Penso per due ragioni. In primo luogo l’argomento. Il confronto con la malattia per chi l’ha vissuto è un’esperienza che cambia dentro, chi non ha affrontato questo percorso è consapevole che da un momento all’altro potrebbe essere costretto a farlo. In secondo luogo ha colpito il fatto che qualcuno abbia aperto il suo cuore per esprimere in pubblico i suoi sentimenti più intimi di paura, di angoscia e di speranza. Ho cercato di farlo con sincerità e spontaneità. Non sempre siamo capaci di aprirci, di essere spontanei, veri. Ma quando ci riusciamo, anche nei rapporti interpersonali, si stabiliscono contatti autentici con l’interlocutore. Troppo spesso, invece, nei rapporti con gli altri, non ci si mette in gioco e si portano avanti conversazioni vuote, senza partecipazione umana. Si parla del più e del meno senza aprirsi. Oppure ci si approccia all’altro con chiusura per dimostrare che la nostra tesi è quella giusta. Quando mi capita di essere così, la sera, ricapitolando la giornata, sono profondamente deluso. Mi rendo conto di avere perso delle occasioni per arricchirmi. Sì, perché il mio mestiere mi porta spesso ad incontrare persone interessanti. Per evitare di essere e di diventare così lavoro molto su me stesso. Cerco di capire ciò che accade dentro di me per tentare di cambiare. E’ un lavoro che ho fatto e che faccio attraverso la psicoanalisi, ma ci sono anche molte altre strade. E’ un lavoro che porto avanti con determinazione, perché sono convinto che prima di cambiare le cose fuori di noi, dobbiamo essere disposti a cambiare noi stessi. Ed ecco allora che finalmente giungo alla tematica di cui mi si è chiesto di parlare oggi in questa rubrica, inserita in un quarto fascicolo del giornale interamente dedicato al futuro. Il futuro nostro personale, quello del nostro microcosmo, ma anche quello della società in generale, ritengo vada visto nell’ottica del cambiamento. Ognuno di noi cresce nella misura in cui è disposto a mettersi in gioco e ad accettare il mutamento. La stessa cosa avviene per la società, che necessita di continui cambiamenti, adattamenti. E’ però difficile pretendere di cambiare ciò che c’è fuori di noi se non siamo disposti a mutare noi stessi. E’ un’utopia? Forse. Ma le utopie sono il motore del mondo.

INVIATE le vostre denunce, le vostre segnalazioni, le vostre storie di vita… alla redazione del Caffè. Suggerite quali temi, quali problemi vi toccano maggiormente. Alle vostre lettere faremo seguire il nostro lavoro giornalistico, pubblicando servizi e inchieste sugli argomenti da voi suggeriti.

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