Il Deserto Rosso 9.08

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il Deserto Rosso

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Prologo

A cura di Bibiane Ngirabacu Mukomeze

Non siamo innovatori. Non siamo rivoluzionari. È impossibile assumere una tale posizione, ora. Persa la nostra identità come individui, dislocati, disumanizzati, persi nella molteplicità, nel relativismo – paradossalmente, mutato in assolutismo, nella cacofonia delle immagini e dei verbi, nella produzione macchinosa, fertile ma generatrice di soli cloni – assurdità imminente quanto reale, riproduzione che getta radici in ogni campo dal figurativo al cibo, è – quasi, assurdo tentare – ora, un rovesciamento. L’unica manifestazione di volontà che possiamo trasmutare in fatto è la comprensione. Ci prendiamo il nostro spazio, il nostro tempo. Riflettere, osservare, esplicare la nostra generazione: questi sono i pilastri su cui vogliamo erigere la nostra attività. E così nasce Il Deserto Rosso: una parentesi, una postilla, una finestra; un omaggio a Michelangelo Antonioni. Non c’è un programma, e questo non è un manifesto: la contraddizione è imperativo categorico per la dialettica. Non è una provocazione: è solo esplicazione; osservazione atta a suscitare un movimento mentale e fisico. Nostro obiettivo in questo senso, è avere un rapporto attivo con il nostro lettore e fruitore. Da Duchamp fino all’ultimo dei folli, l’arte ha tentato e tenta tuttora di sradicare lo spettatore dalla spuria condizione di passiva contemplazione

di modelli e gusti già prestabiliti. Vogliamo anche noi, ulteriormente, stimolare il pensiero. Vogliamo e dobbiamo essere moderni. Non per una qualche forma di patologia con intenti evoluzionistici o voga, bensì perché siamo il risultato delle condizioni storiche, economiche, culturali e civili della nostra epoca. Quest’ultima è a sua volta il riflesso di ciò che noi siamo. È una sintesi viziosa, malata eppure – pare, anche virtuosa.

gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”. Se il relativo può diventare assoluto – forse, l’unica salvezza è il dubbio come sistematico metodo di ricerca e comprensione.

“Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti. Analogamente ogni periodo culturale esprime una sua arte, che non si ripeterà mai più. Lo sforzo di ridar vita a principi estetici del passato può creare al massimo delle opere d’arte che sembrano bambini nati morti. Noi non possiamo, ad esempio, avere la sensibilità e la vita interiore degli antichi Greci. [...] La nostra anima si sta risvegliando da un lungo periodo di materialismo, e racchiude in sé i germi di quella disperazione che nasce dalla mancanza di una fede, di uno scopo, di una meta”. (*) Non possiamo essere rivoluzionari. La rivoluzione è insita nella presa di coscienza. Questo è l’inizio. Il nostro è – soltanto, un piccolo emporio fatto di singole personalità che si uniscono in un osmotica, multilaterale e spontanea rappresentazione del sottoreale. “Il problema dell’umanità” – diceva Bertrand Russell – “è che

(*) Wassily Kandinsky “Dello Spirituale nell’Arte” (1911)




Sommario

Human Hive / 1

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Human Hive / 2

» 10

Reportage Cuba

» 12

Existence

» 40

Questo è il modo in cui il mondo finisce

» 66

Sono già arrivato alle ultime spiagge, dunque?

» 68

Senza Filtri

» 72

5ème Ciel

» 108

Boys

» 132

Sono piccoli problemi di cuore (e parole)

» 154

WWW: World Wide Words

» 155

Black & Wood

» 158

Poesie

» 170

Lulù & Co.

» 176

Ecco cosa farò

» 188

A Cura di Jennifer Malvezzi

A Cura di Alessandro Lapetina

A Cura di Max Vuerich

A Cura di Vivien Ayroles

A Cura di Giacomo Croci

A Cura di Giacomo Croci

A Cura di Federico Erra

A Cura di Rémi Pollio

A Cura di Maurizio Fiorino

A Cura di Alessio Cervo

A Cura di Alessio Cervo

Photography & Styling: Marcello Dino Make Up: Elena Vetrugno Model: Bubble

A Cura di Giacomo Tenchenco

A Cura di Ester Grossi

A Cura di Simone Ghelli


Human Hive / 1

A cura di Jennifer Malvezzi

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...Ma si può immaginare una società in cui tutto sia standardizzato? Desiderabile o no è la società che l’industrialismo sta realizzando e non è detto che debba essere come un alveare [...] progettare lo spazio significa progettare l’esistenza [...] in un mondo siffatto, puramente tecnologico, non soltanto l’ideologia politica e l’interesse sociale ma anche la ricerca artistica non avrebbero più ragione di essere... Diceva così Giulio Carlo Argan. Era il 1970. Quasi quarant’anni dopo la profezia del grande storico dell’arte si è concretizzata. Il nostro quotidiano si consuma in strutture abitative simili a celle d’alveare, in quartieri dormitorio o schiere di villette gemelle, in strade multicorsie che si differenziano solo per il nome delle uscite, in centri commerciali uguali tra loro. Conduciamo una vita da insetti operai intrappolati in una realtà fatta di beni seriali, prodotti per un prototipo di “uomo X” e non progettati per l’esigenza del singolo. Esponiamo noi stessi in blog-vetrine e interagiamo più agevolmente attraverso uno schermo-scudo con persone, o meglio personaggi, cautelativamente distanti numerosi km fisici ma non conosciamo i nostri vicini di casa e a volte addirittura li temiamo. Una realtà che ci fa sentire al contempo costretti e protetti. Per quanto riguarda l’arte occidentale una concezione passiva della realtà sociale e poli-

tica si poteva già scorgere all’inizio degli anni 60 dalle prime istanze del fenomeno Pop-art , espressione della non-creatività della cultura di massa abbandonata senza reazione al consumo autofago di se stessa. L’opera d’arte è spesso prodotta in serie come un qualsiasi bene di consumo (si veda le celeberrime serigrafie di Wharol) con sporadiche tracce di pittura, di “gesto umano” , che nel caso-limite di Lichtenstein arriva addirittura a rinunciare alla pennellata umana per divenire meccanico pointillisme a copia della stampa industriale dei fumetti. L’immagine delle “cose” diviene la protagonista annullando l’individualità della persona. Restano solo gli oggetti macroscopici e ipercolorati che fagocitano lo spazio umano, gli ipertrofici soft obdgets di Oldenburg divengono sfatti totem, nauseabondi idoli stanchi che, finiscono per rivoltarsi contro il loro creatore nelle foto tributo del fotografo-star David La Chapelle. Questi pochi esempi sono espliciti e conosciuti a tutti. La loro conoscenza è così diffusa perché lo stesso oggetto d’arte non è più un unico oggetto il cui valore unico dura in eterno : l’arte da singolo prodotto d’elite è divenuta moltiplicabile su larga scala fino a colonizzare anche la superficie degli oggetti, non limitandosi più alla “riproduzione” di se, ma divenendo se stessa oggetto per la massa sotto forma di gadget, souvenir a basso costo.

Questo inizialmente ha contribuito al diffondersi di una cultura figurativa anche tra le masse, ma in seguito ha contribuito a creare un globale uniformarsi superficiale del gusto e della cultura. Non a caso tutti i grandi artisti occidentali della seconda metà del 900, sono per lo più statunitensi o lavorano negli USA. Dopo la seconda guerra mondiale l’america forte dell’egemonia economica diviene il principale mecenate e garante della produzione artistica. Gli artisti degli anni 70 provano a ritrovare se stessi annullando la società che ha creato l’illusione del boom economico e del benessere per tutti e che ora sta mostrando l‘altra faccia della medaglia. Accumulano segni nevrotici di cancellazione, rimozione e rifiuto dell’immagine (Hartung, Rothko…) cercando di ritrovare nel gesto, nell’azione casuale l’ultima traccia della loro umanità , un gesto non producibile dalle macchine come i tagli di Fontana o il dripping di Pollock. Questi artisti sono tuttavia mossi dagli invisibili fili della società industrializzata dove nulla esiste se non “fa”, se non “agisce”, se non lascia il proprio segno nel mondo. Un’arte che come la società privilegia il fare all’intenzione. Gli artisti, sempre più smarriti iniziano disperatamente a recuperare ciò che la società dei consumi elimina vivendo di raccolta come i primitivi, accumulando, distruggendo e ma-


nipolando avidamente tutto : Daniel Spoerri con le sue tavole eternamente apparecchiate, Dieter Roth con i suoi archivi di cartacce e piccoli rifiuti e gli empaquetages di Christo sono solo gli esempi celebri di un arte che sviluppa l’ossessione del conservare contro quella del consumare. Il recupero vitale della propria originale primitività diventa sempre più difficile a causa del troppo precoce multicuralismo espressivo che sradica e reincolla assieme culture millenarie rimaste separate per secoli. Nella bagarre collettiva l’individuo, globalizzandosi, si perde nuovamente. Gli anni 80 producono un arte ingorda, centrifuga, ossessionata dal orror vaqui e coloratissima che mischia stratificazioni culturali complesse, slang , cultura di massa, industria della moda, jet-set e slogan (si pensi alle vendutissime e altrettanto imitate magliette eticofilosofiche di Khatharine Hamnett). Gli artisti comete simbolo di questi anni , Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, nonostante le millantate origini proletarie, hanno alle spalle i più potenti galleristi newyorkesi, producono quadri “a cottimo” e presenziano ad ogni sorta di evento mondano, ma sono destinati entrambi a morire giovanissimi consumati da nuove “malattie sociali”: l’eroina e l’aids. Se l’arte è lo specchio fedele nel tempo della società e della cultura che la produce, ora all’arte

occidentale non resta che prendere atto della propria crisi profonda ed irreversibile come mezzo di produzione di un oggetto realmente unico e durevole nel tempo. Le opere iniziano ad essere sempre più realizzate con materiali tecnologici correnti e inevitabilmente duplicabili (fotografia, videoclip…) si assiste a quella che molti critici hanno salutato come la definitiva “morte della pittura”. L’arte diviene modulare, assemblabile in installazioni che possono essere spostate e rimontate a piacere in altro luogo, replicate, destrutturate e decontestualizzate elettronicamente nella rete. Essere ovunque e in nessun luogo. Questo produce anche la fine di un “destinatario d’elite” del prodotto artistico. Il pubblico dell’arte diventa provvisorio e indeterminato, spesso fatalmente impreparato e non abituato alla frequentazione di musei ma abbruttito dalla iper-visione quotidiana di immagini di ogni tipo, spesso il nuovo fruitore d’arte utilizza il web: questo produce un’idea precaria e frammentaria di cultura e seppur permette a più persone la “visione” dell’arte ne assottiglia la comprensione. L’unica via possibile per l’arte ora è quella della constatazione della propria crisi e di conseguenza la crisi della società che l’ha generata. L’arte diventa quindi testimone e medium tra la società e l’uomo, spingendo quest’ultimo verso l’autocoscienza di se e del suo rapporto

di incomunicabilità profonda non solo con gli altri, ma anche con se stesso. Sicuramente uno dei i filoni principali che va sempre più ad imporsi alla fine del millennio è quello della Body Art: il corpo dell’artista, come secoli fa il coro delle tragedie greche, attraverso l’evento artistico diviene mediatore : mezzo e simbolo politico-sociale di un intera umanità. Il concetti di performer e di happening non sono certo nuovi al mondo delle arti visive e la Body Art è cosa nota già dagli anni della contestazione, la novità sta nel nuovo rapporto che i performer hanno con la tecnologia e il loro uso. La rivoluzione tecnologica degli anni 90 ha cambiato radicalmente e irriversibilmente il modo di vivere il quotidiano di tutti noi. Il virtuale è divenuto reale : la comunicazione globale, i reality show televisivi, le guerre con obbiettivi “mirati”che non dovrebbero avere perdite umane, il sesso via cavo, gli esperimenti di eugenetica… Artisti come Stelarc già attivi da anni sperimentano in questi anni strumenti medici, e protesi collegate a sistemi di realtà virtuale, lavorando sull’artificialità del corpo intesa come territorio di sperimentazione e mezzo con cui mettere alla prova e testare i limiti della componente organica del nostro corpo biologico, superando le limitazioni della “vecchia carne” sottoponendola a condizioni estreme e dimo-

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strandone l’attuale obsolescenza in senso antidarwinista. Ma se Stelarc ha una visione positivista della tecnologia, più critico è l’atteggiamento di altri artisti come Orlan, che con il suo lavoro sfida la concezione tradizionale di bellezza e il concetto occidentale di identità: sottoponendosi continuamente ad una serie di interventi chirurgici per modificare il proprio volto, Orlan vuole dimostrare che non è la chirurgia estetica ad essere immorale, ma bensì l’uso che ne fa la società tecnologica per renderci tutti uguali. Il volto di sintesi che l’artista va costruire è formato di varie parti di celebri dipinti (e qui si apre anche un interessante discorso culturale sul rapporto tra la “vecchia pittura” e nuove forme di arte improntate sulla tecnologia) polemizzando fortemente contro gli attuali canoni estetici. Post-femminista, l’arte carnale di Orlan rivendica la libertà di scegliere il proprio volto al di la degli stereotipi visivi e dal nostro bagaglio genetico famigliare (l’artista stessa definisce la sua arte una sorta di “psicanalisi visiva”). Il suo volto subisce una forma di autoritratto, realizzato tuttavia con i mezzi tecnologici propri del suo tempo. Si incide nella carne poiché la nostra epoca comincia a darcene la possibilità. II corpo diventa, un “ready-made modificato”, dato che il ready-made ideale da firmare non esiste più.

Il corpo biologico non è più il nostro destino: siamo ciò che decidiamo di essere. Il corpo è colonizzato e oggettivato dalla mente. L’identità è usa e getta. Anche il duo Aziz+Chucer lavora sulle distinzioni fra corpo e ambiente, interno ed esterno, organico e artificiale: presentano immagini di corpi modificati, corpi che perdono gli organi della comunicazione e dell’espressione delle emozioni, corpi sigillati ermeticamente, che contengono emozioni e sensazioni, che non possono più uscire. Corpi perfetti, corredati e super accessoriati con tutti gli optional di serie, ma privati di occhi, bocche, sesso, privati della sfera emozionale, sensoriale e riproduttiva, una perfezione sterile e sterilizzata .Nelle più recenti opere, pianerottoli, scale, corridoi, hanno le superfici rivestite con una texture di pelle umana. In questa sconcertante visione viene sottolineato il rapporto tra fra lo spazio che siamo-abitiamo (il corpo) e lo spazio circostante creato e modificato dall’uomo (architettura). Questi grandi artisti sono certamente tra i più radicali e incisivi di questi anni, ovviamente sono solo una piccola parte dell’enorme universo multiforme e variegato dell’arte contemporanea, ma la loro scelta è funzionale al discorso che ha portato al progetto Human Hive. Il progetto Human Hive è un progetto di “arte di massa” e parte proprio da questa impotente

presa di coscienza sulla situazione della vita nella società tecnologizzata e dell’arte contemporanea. Il progetto si rivolge a tutti perché la situazione sociale e artistica ormai coinvolge l’intera collettività e utilizza tecnologie ampiamente diffuse (l’apparecchio scanner ) a tutti i livelli sociali per permettere il maggior numero possibile di adesioni. La scelta di costruire un alveare umano è presto spiegata: la volontà è quella di trasmettere il senso di costrizione dell’uomo (l’elemento umano è rappresentato dalla nudità del corpo che senza orpelli pone tutti su uno stesso piano sociale ) all’interno della struttura chiusa della cella che imprigionandolo diviene metafora esistenziale della vita nella metropoli e della falsa socialità che nasconde la totale solitudine degli individui impossibilitati alla comunicazione fisica, reale, tangibile tra loro, come separati da un sottile muro, nello stesso luogo ma senza interazione possibile. L’ alveare è però anche una forma di protezione per l’uomo sia fisica che psicologica, gli permette trincerarsi, difendersi dalle minacce esterne e mostrare all’esterno solo ciò che vuole ma al contempo di sentirsi parte di una comunità universale fatta da tanti uomini-unità uguali a lui.



Human Hive / 2

A cura di Alessandro Lapetina

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Il problema dello spazio fa la sua comparsa con la nascita delle metropoli. L’afflusso di migliaia di persone dalla campagna alle città fa nascere l’esigenza di una riorganizzazione delle città e degli spazi abitativi. Siamo nel XIX secolo, molte città vengono stravolte (è di questo periodo la riqualificazione di Parigi ad opera del barone Haussman) e vengono proposte diverse soluzioni, la maggior parte di stampo utopistico: è il caso ad esempio dei falansteri ideati (e mai realizzati) da Charles Fourier, enormi edifici con servizi autosufficienti, capaci di ospitare un grandissimo numero di lavoratori con ritmi di vita, abitudini e modi di fare rigidamente codificati. In realtà l’impatto fra la massa migratoria e le città creò una situazione molto più disordinata e si vennero a creare quartieri operai fatiscenti, affollati e abbandonati a loro stessi intorno alla maggior parte delle nuove metropoli industriali. Questa condizione era però ancora limitata a una singola classe sociale e il problema ancora non toccava la massa borghese abitante nei quartieri più centrali. La situazione cambia però ulteriormente col passaggio dalla dimensione di metropoli a quello di megalopoli. Se la data di nascita delle metropoli può essere convenzionalmente collocata nei molti anni a cavallo tra la prima e la seconda rivoluzione industriale, il secondo passaggio avviene invece durante quella che

alcuni chiamano terza rivoluzione industriale, che comprende tutte le grandi innovazioni tecnologiche, industriali e sociali avvenute a partire da metà del Novecento. L’avvento della “società del terziario”, una società non più incentrata sull’industria ma sullo scambio di servizi ed informazioni, oltre ad accentrare ulteriormente le popolazioni nelle grandi città cambia profondamente il modo di costruire i centri abitati: dopo la seconda guerra mondiale si assiste ad una periferizzazione dei ceti medi, che lasciano il centro delle città ai servizi commerciali per andare a vivere nei palazzi sempre più grandi e anonimi che via via vengono costruiti. Possiamo giudicare emblematico il caso di Le Corbusier. Prima della guerra i suoi principali progetti si concentrano intorno al modellovilletta, come la maison Citrohan o la molto celebre Ville Savoye, entrambe spaziose, luminose e circondate da un grande giardino. Verso il 1950, il suo progetto più importante è invece l’Unité d’Habitation di Marsiglia, un enorme palazzo costituito da appartamenti-cellula standardizzati prodotti in serie e infilati nel telaio strutturale della costruzione, capace di ospitare 1800 persone, dotato di spazi sociali e vie interne, moderna riedizione questa volta realizzata degli Ottocenteschi falansteri. In questa seconda fase il cambiamento coinvolge anche le classi sociali più agiate, cam-

biando profondamente il modo di concepire lo spazio e la ricchezza nella società capitalista e tecnologia. Sempre di più ci accorgiamo di come sta perdendo forza l’idea di ostentazione della propria classe sociale legata al possesso degli oggetti, mentre prende forza la sensazione che la vera ricchezza sta nel possesso dello spazio. È questo il bene di lusso del XXI secolo. Non è più la quantità di oggetti posseduti a mostrare il nostro status, semmai sarà la qualità. Al contrario, nello spazio cerchiamo la quantità. Questo cambiamento si può notare subito confrontando il modello della casa borghese fino a metà Novecento con il modello attuale o degli ultimi anni. Da una parte avevamo un’accumulo di suppellettili, manufatti, decorazioni, tappezzerie e cineserie che occupavano ogni spazio, oggi basta sfogliare una rivista di arredamento per notare che a dominare sono gli spazi ampi, l’arredamento ridotto, la luminosità: non per nulla una delle parole più utilizzate in questo campo è ultimamente stata, ed è ancora, “minimalismo”. Altro grande segno di questa tendenza è l’autentica mania per i loft, sempre più ricercati al di là della loro reale funzionalità. Si tratta di edifici ricavati da ex fabbriche, proprio quelli che per ironia avevano dato inizio al processo della perdita di spazio, sono ambienti completamente privi di separazioni, nessun muro,


nessuna divisione, e dotati di solito di grandi finestrature capaci di garantire una abbondante illuminazione. Pur essendo ambienti spesso inadatti al riutilizzo come abitazioni, il fascino dello spazio ha fatto in modo che questo modello di abitazione sia oggi uno dei più richiesti e che la stessa parola sia sempre più circondata da un aura di “coolness”. In contrasto con questo fatto, c’è un altro settore in cui il modello open-space si sta affermando, portando però a conseguenza estremamente diverse: è il settore degli ambienti di lavoro. L’ambiente aperto, da strumento di libertà e di possibilità di movimento, diventa qui metodo di coercizione, di controllo totale e di immobilismo forzato. Lo scenario della fabbrica, aperto e perennemente supervisionato, non sta scomparendo come da più parti è sostenuto, ma sta semplicemente migrando verso gli uffici, verso i luoghi occupati da quelli che un tempo venivano chiamati colletti bianchi, ormai tramutati nei nuovi operai della nostra epoca. L’ennesimo segno, insieme al furto dello spazio, della proletarizzazione ormai definitiva dell’ex ceto borghese. L’idea di spazio ci si presenta con una forte contraddittorietà, lo desideriamo, in quanto simbolo e segno di libertà e prosperità, ma contemporaneamente lo temiamo, sia perché fuori dalla nostra possibilità di controllo, sia perché ci espone allo sguardo degli altri.

E la contraddittorietà continua in un altro aspetto. Potremmo pensare che la mancanza di spazio possa contribuire ad una rinnovata socialità; assistiamo invece, di fronte all’impossibilità di una solitudine fisica (qualunque grande spazio è in qualsiasi momento colmo d’altri), ad una marcata solitudine nei rapporti interpersonali: le nostre vite sono sempre più affollate di estranei. Ma ci può essere un modo di rapportarsi allo spazio nella sua nuova concezione “megalopolitana” senza per questo giungere ad un rapporto contraddittorio con questo concetto? C’è modo di superare il contrasto che nasce dal desiderio di possesso e il timore causato dallo stesso possederlo, che nasce dalla paura di perdere il controllo su di esso? Una risposta potrebbe essere cambiare il modo in cui esperiamo lo spazio medesimo, arrivando ad un modello che ben può essere rappresentato dalla figura del viandante o della sua versione urbanizzata-chic, il flaneur di Benjaminiana memoria (figure non per nulla tornate di grande attualità nel panorama filosofico-estetico odierno). Entrambi occupano uno spazio continuamente mutevole e in divenire, camminano senza una meta e senza mai fermarsi, godendo non del possesso ma dell’esperienza continuamente rinnovata dello spazio che si trovano via via ad attraversare. Se un modello simile riuscisse ad affermarsi, potremmo allo-

ra assistere ad ulteriore mutamento dei centri abitati, dalle megalopoli attuali a delle nuove città a misura di flaneur, in cui potremmo finalmente ritrovare un rapporto di scambio ed esperienza con lo spazio circostante al di fuori delle contraddizioni (e delle conseguenti frustrazioni) che oggi lo caratterizzano. E finalmente il lavoro dei progettisti, siano essi architetti, urbanisti o designer, potrà tornare ad essere caratterizzato dall’etica che sempre dovrebbe contraddistinguere l’idea di progetto: il miglioramento del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda.

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A cura di Max Vuerich


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A cura di Vivien Ayroles



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Questo è il modo in cui il mondo finisce

A cura di Giacomo Croci

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Questo è il modo in cui il mondo finisce / Non già con uno schianto ma con un piagnisteo. Il poeta è in fondo l’unico vero profeta del proprio tempo. Thomas Stearns Eliot, The hollow men, 1925. Sembra illuminante poter leggere dei versi e maturare lentamente, gradatamente, la consapevolezza che in quelle strofe è contenuta la diagnosi della malattia, la descrizione impeccabile e minuziosa, irreprensibile, di quello che noi siamo. Questo potrebbe, forse, darci una qualche soddisfazione: c’è stato qualcuno che ha capito, qualcuno che è stato in grado di violare il bianco della carta e stampare, scrivere, stendere su esso la nostra condizione, farlo con l’occhio del vaticinio, con quel sapere sfocato e agitato che si proietta nelle ombre del futuro, prossimo o remoto che sia. Certamente, potremmo ottenerne qualche sollievo, il magro conforto che la conoscenza offre. Potremmo. Oppure, osservando con più onestà, con maggiore attenzione, riflettendo, assimilando, lasciando che il verso parli e fiati, finiremmo nell’incappare nella vera ed effettiva, unica conseguenza che l’autentico conoscere, se sviscerato, concede: ed è raro che la consapevolezza acquisita si riveli palliativo, anzi, sarà un ben articolato pericolo, una cognizione drammatica, abissale. Scrive il poeta: Siamo gli uomini vuoti / Siamo gli uomini impagliati / Che appoggiano l’un l’altro / La testa piena di paglia. Ahimé! / Le nostre voci

secche, quando noi / Insieme mormoriamo / Sono quiete e senza senso / Come vento nell’erba rinsecchita / O come zampe di topo sopra vetri infranti / Nella nostra arida cantina / Figura senza forma, ombra senza colore / Forza paralizzata, gesto privo di moto / Coloro che han traghettato / Con occhi dritti, all’altro regno della morte / Ci ricordano – se pure lo fanno – non come anime / Perdute e violente, ma solo / Come gli uomini vuoti / Gli uomini impagliati. Noi siamo gli uomini vuoti, noi siamo gli uomini impagliati; in effetti, non è che ci sia molto da aggiungere, da ricamare su di una così esatta, accurata descrizione dell’uomo contemporaneo. Abbiamo voci secche, siamo vacui, striduli, emettiamo rumori che non possiedono più nulla della vita, più niente di quello che dovremmo essere. In effetti: dov’è il dover essere? La proiezione di noi, la responsabilità della scelta, il sacrificare? Volendo vagamente parafrasare, si potrebbe giungere alla conclusione che in effetti sono questi gli uomini di Eliot: non hanno più capacità di scelta, si sono abbandonati, presi nei flutti, vagolano, non camminano ma si trascinano, si lasciano trascinare da qualsiasi cosa che doni loro l’impressione di un moto che, effettivamente, da tempo hanno perso. Il movimento che noi abbiamo perso. L’incapacità di caricarsi della forza di una scelta – di affermare: di questo sono colpevole, io sono in questa azione, in mani e corpo – è così

diffusa che la limpidezza con cui si manifesta non urta più, non colpisce, non giunge come un colpo all’occhio, ma come un soffio: è probabilmente obiettivo affermare che tutto quello che ci è stato insegnato è la perdita della responsabilità, depositare su altri il carico che, in fondo, non vogliamo portare. Lo ripetiamo in continuazione. La società è colpevole; se non è la società, allora è una divinità qualsiasi, o forse sono tutti gli dèi insieme ad essere responsabili per noi, oppure sono i nostri padri e le nostre madri, il nostro inconscio, i nostri istinti che non sappiamo dominare, perché è facile, incredibilmente facile ragionare inferendo che no, non era colpa nostra, in fondo, non avremmo potuto fare altrimenti, non c’era possibilità alcuna di scelta. Così è facile. Rimettere noi stessi nelle mani di altri, nel mare, perderci finalmente, risolvere questo garbuglio incomprensibile di vita postmoderna. È il nostro basta: non uno schianto, ma un piagnisteo, uno spegnersi lentamente, tendere al nulla aspettando di chiudere. È il nostro lieto fine. Noi siamo la generazione di quelli che danno la colpa; del resto: siamo i figli della generazione che in primis ha colpevolizzato un non determinato altrui, facendosi carico di poco o di nulla. Siamo i figli della grande illusione del secondo Novecento. Questa deve essere la nostra scommessa: sopravvivere al secolo breve, assimilarlo ed assumerlo in tutta la sua contraddizione,


farlo nostro e guarire. Altrimenti non c’è via da percorrere. E certo è che questa presa di coscienza non potrà avvenire per perdita, per abbandono, ma per ammissione, per accettazione del fatto che siamo ancora responsabili di noi stessi, che se facciamo qualcosa, questo qualcosa non proviene primariamente da decisioni altrui, dal fatto che era inevitabile comportarsi in questa maniera – il fatto che non possiamo nulla, esattamente nulla, contro il mondo, o le masse, è la più grande scusa che possiamo inventarci –, ma deriva in prima istanza dal nostro volere. E se un’azione deriva dal nostro volere, e non da un’imposizione altrui, da una necessità, da qualsiasi determinismo o destino o fato, allora nostra è integralmente la colpa: dobbiamo imparare, credo, a caricarci di questa consapevolezza, ad affermare la nostra radicale privazione di innocenza, il nostro essere immersi in questo mondo, e non abbandonarsi, perché sarebbe comodo, veramente troppo comodo, lamentarsi e basta, urlare, gridare, le manifestazioni, i cortei, sbraitare e poi non fare nulla, crogiolarsi, la colpa è degli altri, è degli altri, è degli altri, io mi lamento, io mi lamento e basta, il piagnisteo appunto, ma non è questo che dobbiamo fare, non è questo che ci riscatterà dalle teste di paglia; anzi, io penso che finirà per trasformarci in esse. Penso a Raskol’nikov, per quanto possa essere

una delle figure più citate e strumentalizzate. Penso a tutta la sua malattia. Prendersi la colpa, appunto. Accettare una punizione, se punizione ci deve essere, le conseguenze della storia, d’accordo, le conseguenze delle nostre azioni, eppure, una buona volta, fare qualche cosa. Senza scusanti, senza pretese d’innocenza, senza lamentele, senza piagnistei o fariseismi. Smettere di essere sepolcri imbiancati. Cercare di risolvere quello che è in nostro potere di risolvere. Oppure cominciare a sentire paglia sulla testa. (Avere il coraggio di rischiare come Kurtz – Cuore di tenebra, Joseph Conrad –, la cui dichiarazione di morte apre The hollow men di Eliot: è lui l’ultimo uomo prima di noi impagliati, è lui che esprime tutta la consapevolezza tragica nelle ultime parole, prima di spirare: «L’orrore, l’orrore!»; a volte penso che il nostro tentativo debba essere quello di andare oltre Kurtz e dunque, in seguito, oltre gli uomini vuoti: ma questa è già una retorica del futuro, e non è che ci interessi troppo).

This is the way the world ends Not with a bang but a whimper. (T.S. Eliot)


Sono già arrivato alle ultime spiagge, dunque? A cura di Giacomo Croci

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Sono già arrivato alle ultime spiagge, dunque? Percepisco il rifluire periodico, calmo, incontestato dell’acqua sulle forme determinate della mia epidermide, ne avverto il ritmico andamento, sinusoidale, ineccepibile, costellato di piccole variazioni fra una cresta e l’altra; ma sempre identico: fondamentalmente, invariabile. L’acqua è blu e scivola senza sforzo, riempie i solchi nella carne, lava la bocca, pulisce gli occhi dalle ultime immagini. La mia lingua è carne fredda, sono livido, vestito di alghe giallastre e verdognole, dipinto con colori che mai mi sarei potuto immaginare. Il rumore è la mia culla, la sabbia che lentamente si allontana il mio cuscino. Non ho più sogni, perché non dormo più; sono un ramo, un relitto – non ho più colpe, perché adesso è la marea a dirigermi, è il moto sotterraneo ed interminabile dei flutti a suscitare qualsiasi piccolissimo spostamento delle mie membra; io non possiedo più alcuno spazio di scelta. Non sono più in grado di decidere. L’andare delle acque mi solleva da qualunque prerogativa, da qualunque diritto o dovere, da tutte le relazioni, da ogni stretta di mano, non devo più giustificare nulla, non devo ricercare, non ho più nulla da ricercare, ho soltanto questo gigantesco solido vivo sotto di me, brulicante di condotti, di molluschi, di pesci, di cetacei enormi e titanici, impressionanti alla vista, ho questo immenso e scuro corpo ondeggiante e cadenzato che si rigira,

che si sposta, si fa da parte, alza un mio braccio, inclina un poco il mio collo, abbandona il mio dito che pende più in basso, un sodalizio senza eccezioni o paragrafi. Non c’è più niente da consultare, qui, niente da sapere o da scoprire. Le cose si svolgono come è necessario che si svolgano, che si arrotolino, senza speranza e senza fine. Sento qualche gorgo, talvolta, in lontananza, ma non ci penso a lungo. Intuisco il rallentarsi del mio riflettere, del mio giudicare, il lento spegnersi ed affievolirsi di quella che una volta avrei ritenuto una delle mie capacità peculiari. Quanto inutile è ogni ragionare, in questo momento, in un qualsiasi punto di quest’acqua, quanto superfluo è ogni cavillo, ogni nodo, quanto appaiono finalmente rozze e prive di causa tutte le argomentazioni a cui mi sono creduto familiare, un tempo. Il cuore rallenta sopra questo mare, le catene deduttive ed induttive perdono densità, si sparpagliano, si sciolgono, si diluiscono in questo liquido grandissimo. Le mie parole non sono più parole, organicità discorsiva, ma fluiscono e scorrono senza una meta, si perdono nelle bolle, svaniscono qualche cresta d’onda più in là. Sento gelo al petto, fatico a respirare, sporadiche fitte mi colpiscono ogni tanto lo sterno. Le mie gambe sono diventate ormai le gambe di un fantoccio. Osservo la mia ultima volta di cielo turchese; chiudo gli occhi. Adesso nulla si vede più; tutto, davanti al mio cervello, è un nero

perfetto, purissimo, la piana determinatezza più completa e compiuta. Non ci sono confini sfumati, contrasti imprecisi o sbuffi incerti; se ci fosse del bianco, in tutta questa ombra nei miei occhi, ne verrei a conoscenza. Se avvenisse qualsiasi cosa, ne verrei a conoscenza. Non devo più cercare di cogliere gli oggetti, mi assolvo lentamente da questo compito ingiusto, da questa utopia. Adesso non vedo più niente. Lo scrosciare imperterrito dell’acqua mi ricorda che sono vivo; il gelo del fluido mi ricorda che sono vivo, l’odore dell’aria, il sapore delle ondate che mi capitano sulla bocca, o nelle narici. Vedo un intoccabile nero, ma sono ancora vivo. Però se ne andranno, prima o dopo, queste sensazioni: ne sono quasi certo. Passeranno anche loro, trascinate in questo grande stupore – che si annulla nell’ammirare la colossale portata della massa che mi sorregge. Sono meno dell’argine di un flutto, meno di un animale, meno della sua pinna. Io non sono un valore, io non ho più valore. Potrei essere un secchio di plastica, o il suo manico arrugginito, potrei essere una goccia proveniente dallo scarico di una nave, un gabbiano invecchiato, o anche il corpo sdraiato di un pesce. Potrei essere una lisca, di quel pesce, una sua squama. Io non ho più valore; sono un ramo, o un relitto.


Quanto tempo è passato? Devo essermi addormentato; forse sarebbe stato opportuno rimanere senza coscienza nel sonno, ma del resto ora il confine labile fra veglia e perdita di sé si sfuma, smarrisce consistenza, quasi si cancella. Vado e vengo, mi percepisco e non mi percepisco più, un momento prima sono e il momento dopo, senza che la mia mente annebbiata se ne renda conto, non sono più. Il tempo è diventato eterno, è una lista di istanti uno dopo l’altro, indifferentemente uguali od indifferentemente diversi, non importa; non sento il cambiamento, non intuisco più la disuguaglianza. Non c’è più discrepanza, non c’è nessuna scissione, qui dove mi trovo. Il tempo non ha più limiti. Prima o poi finirà, forse; per adesso, è eterno – gli altri casi rimanenti, che non contemplo, non esistono più. Non si dà il mutamento, niente cambia, le cose rimangono indefesse ed identiche a se stesse. Io sono solo una cosa, un’estensione galleggiante, una massa che casualmente ha avuto una forma, ma senza ragione, senza ordine; io non mi riconosco più, non sono un centro, non sono un’unità, sono una proposizione sintetizzabile in un agglomerato inconsistente di lettere e suoni e segni senza meta, senza programmazione, sono la perdita e l’incontestabile e purissima e semplice indeterminatezza di un volume fortuito, molle, un coagulo di frattaglie. I tendini che mi tengono

insieme se ne andranno a breve. Anche i suoni stanno fuggendo: il battere continuo dei flutti va attenuandosi, si smorza, perde lentamente il pacato vigore che pareva possedere. Fra poco non esisterà più; come sono scomparsi i colori e le luci, scompariranno anche i suoni, le musiche, i dettagli armonici e gli stridenti contrasti, i giochi della voce, l’infiltrarsi dell’aria nella mia gola, o nelle mie orecchie, il gorgogliare sommesso e profondo, gutturale, di questi abissi che si aprono sotto la mia schiena. Tutto, ormai lo so, scomparirà. Non farò più nemmeno caso al canto di qualche gabbiano sperduto, al ribollire subacqueo di qualche sparuta megattera. Sommessamente sfumeranno anche loro, diventeranno macchie vaghe di note lontane, e poi niente. Ogni vibrazione si attutisce, ogni scossa si mitiga, si allenta. Sarà l’acqua a sostenere i miei gomiti, le mie spalle. Probabilmente ogni tanto il cuore batte ancora. Non ne sento i palpiti, sono leggerissimi, ma ne intuisco la presenza; continuerà a battere ancora per molto? Insisterà per tanto tempo, questa strana entità, a bussare alla porta notturna della mia coscienza ormai quasi completamente sopita? Ho qualche particella di vita, c’è rimasto un poco di fiato in me, ma il suo ritmo ormai bradicardico è una delle ultime parole della sentenza che si è sollevata sul mio corpo galleggiante. Le fanciulle si annegano nei fiori; io emergo ed affondo sistematicamente, in mezzo a questo

oceano, senza più lembi di terra, senza nazioni, senza esseri umani oltre a me, questo mare di sale e di acqua che potrebbe ricoprire un intero pianeta, il minuscolo volume di un intero e roccioso, tellurico pianeta. Raffrèddati, mondo, è tanto il tuo tempo, molta la tua vita, e cosa ne avrai, cosa ne otterrai in cambio? Sarai il mio pozzo di petrolio, la mia foresta d’ambra. Ed io per te, infine, non sarò più nulla. Un’accidentale carnalità, forse una mente, da qualche parte, una ghiandola pineale che non c’è, l’ennesimo respiro, l’estremo sforzo dell’alveolo spugnoso. Mi ami, mondo, o mi rigetti? Mi mantieni sorretto in questo punto mobile – dove hai il tuo punto stabile, cosmo? – appeso nell’invisibile interstizio di forze bilanciate che si apre dove cielo ed acqua divaricano, distinguono le loro diverse materie. Forse stanno cedendo tutte le molecole – non riesco a percepire la differenza fra l’aria volatile ed il liquido, non sento neanche il freddo, il dolore svanisce. Potrei avere il viso – ho un viso?, ho mai avuto un viso? – immerso a guardare nelle più ime profondità, attraverso queste palpebre serrate. Sono un punto materiale, senza dimensioni, senza peso, fluttuo e non fluttuo in questo ammasso di materia senza forma – dove sei forma? – e finirò per farne parte, quando questo arrogante volersi affermare del mio intreccio di sinapsi terminerà la sua presunzione, la sua alterigia, e capirà che non c’è comunque niente da fare,

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Geometrie di morte (Particolare) Illustrazione di Alessandro Maria Nacar

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sono nel mare, e il mare è eterno, e questo tempo che ci circonda non lascia spazio – sono io ed è il mondo, e prima o poi riuscirò a togliere il maledetto muro che ci incaglia e non lascia sgorgare mai, la barriera, lo scisma che esiste soltanto perché io esisto – soltanto perché l’io esiste. Tra qualche attimo, o tra qualche era, è indifferente, diventerò come un’alga, un pezzo di corallo, come una qualsiasi superficie liquida riflettente il baluginare del sole, che imperterrito sorge e puntuale si inabissa. Dentro questa gigantesca, immensa, immane acqua. ... E fu in questo modo che pensò i suoi ultimi pensieri, che parlò nel silenzio con le sue estreme parole; forse galleggia, forse ancora no, forse è morto o forse respira – non ci è dato sapere. Un giorno si sentì troppo pesante, e l’acqua con i suoi moti lo accolse nel proprio abbraccio; un’infinità di altre persone, con lui, lentamente, si dirige lieta ed inconsapevole nell’ondeggiare ripetuto dei flutti.



Senza Fil A cura di Federico Erra


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ème A cura di Rémi Pollio

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Boys A cura di Maurizio Fiorino







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Sono piccoli problemi di cuore (e parole) A cura di Alessio Cervo

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Fino ai trent’anni pare ci si possa permettere la sventatezza, persino il piacere, di sentirsi e dirsi single; dopo questa data – crudele il tempo che trascorre senza fare sconti; efferato il linguaggio che prevede parole precise e puntuali; feroce la consapevolezza, messa a tacere, di detti meccanismi che corrode progetti e prospettive – si sarebbe, evidentemente, soli: evidentemente perché, forse persa – forse per sempre – l’occasione e la speranza di (tornare ad) essere sentimentalmente occupati, si rifiuta con caparbia, quanto inspiegabile, tenacia la possibilità, pur prevista, di perseverare nella condizione antecedente, e si diventa, con panache inopinato ma glorioso, spiriti liberi, categoria etica/esistenziale/emozionale trasversale, molto moderna e di gran moda. In che cosa consista la quintessenza di questo seducente status, quanti e quali siano i privilegi – e di privilegi deve trattarsi a giudicare dalla quantità di affiliati – che provengono dall’associarsi al clan, quanti e quali siano – oltre al mero dato angrafico – i talenti, le qualità, i crismi richiesti per potervi aderire, non è dato sapere. La sola certezza, e si capisce suvvia, sembra sia il sacrosanto diritto di non passare la propria esistenza a detestarsi. Parafrasando il popolare limerick 60, la verità mi fa male lo sai. Così la contemporaneità – oh, la contemporaneità – sempre refrattaria alle immagini che potrebbero intimorire, angosciare, e per converso

strenua promotrice di idee, meglio: di idoli, di riuscita, di successo, di realizzazione, ha partorito per questi soggetti smarritisi nelle conseguenze dell’amore un’elegante perifrasi che all’ineffabilità, all’impalpabilità suggerita dalla parola spirito associa la soavità senza prezzo del sentirsi libero. Permettetemi di ripeterlo: oh, la contemporaneità. Quanti individui liberati nello spirito, e dallo spirito, attorno a noi. Io me li figuro così: scalzi, i pantaloni sorretti con un pezzo di corda e la camicia bianca da “domenica dell’operaio” con le maniche arrotolate, capelli spettinati (se ancora se ne possiedano) ed occhi luminosi pieni di serenità, mentre scorrazzano in una sterminata prateria assolata color del miele con un caldo vento estivo a sospingere la loro gioiosa, giocosa corsa, e si sentono a volte spirito, a volte liberi, e a volte, miracolosamente, entrambe le cose assieme. Poudre aux yeux, effetti flash, alibi a buon mercato della video-vita. Oh, la contemporaneità. PS: Alcuni amici ben più branchés di me mi avvertono che si ha notizia di spiriti liberi anche tra gli under 30 e, addirittura, gli under 25. C’era da aspettarselo. Nella rabbiosa ricerca della novità del giorno, la nostra jeaunesse dorée sostituisce senza sosta gusti, ideali, look, opinioni, punti di riferimento, tutto organizzato con un obiettivo preciso: sembrare du dernier cri. E se

il cliché del momento è proposto, promosso, da chi ormai si presumerebbe ben aldilà di quegli anni di tenera goffaggine, possiede cioè una sorta di certificazione DOC sentimental-sociale, non rimane che farlo proprio con svagata deliberazione. Ma è attraverso la benedizione battesimale degli under che gli over possono ora dirsi davvero kewl. Giochi di specchi.


WWW: World Wide Words

A cura di Alessio Cervo

Tutto ha origine, sebbene sia superfluo o sciocco sottolinearlo, dal divenire: delle cose, della società, dei concetti. Ossia, in sostanza, dell’uomo. Nasce cioè da un impulso emozionale intimo, da una tensione, da un’intenzione che spinge a confrontare e a confrontarsi, a cercare, a cambiare e a cambiarsi in nome di un ipotetico domani che si spererebbe, se non addirittura migliore, almeno diverso: attraverso il challenge, la dialettica, la dinamica composizione dei contrari, si tracciano nuove traiettorie, si spalancano soglie serrate e si spazzano via sterili, stantii stereotipi apparentemente invalicabili e inviolabili. La lingua, in questo inaresstabile moto perpetuo, segue e suggella il presente. Com’è ovvio che accada. Mi pare però banalmente sorprendente, seducente, osservare come certi termini del quotidiano siano non solo specchio dell’accettato ma soprattutto segnali di meccaniche sociali, di mode e modus vivendi che attraversano il momento, a volte per sedimentare nella memoria, altre per siglare un attimo e scomparire dallo scenario della vita parlata e vissuta. Coniati per caso o comodità, frutto di fantasia giornalistica e letteraria o di studi serissimi, partoriti straziandone il significato primario o seguendo alla lettera le indicazioni del dizionario, ecco vocaboli, locuzioni, frasi, crasi, acronimi che utilizziamo – spesso in modo smodato – in uno svagato, piacevole gioco verbale generalizzato che pri-

ma confonde, poi identifica. Ricordo ancora, e con timido sorriso, le settimane della scomparsa di Giovanni Paolo II e ciò che produsse: una santificazione mediatica di proporzioni inverosimili prese forma accanto all’espressione di una fede postmoderna che ricorda percorsi spirituali perduti da secoli. Pixel vs eternità. E subito nacque un neologismo per compendiare quella condivisione – isterica e lievemente imbarazzante – di un’ansia corale, collettiva: woytilatria. Ciononostante è straordinaria e vivissima questa odierna fenomenologia delle parole, questa fervida farandola di metatesi e trasmutazioni che si rincorrono velocissime attraverso le rotte del magmatico, mescidato immaginario giovanile e nell’immenso cyberspazio “trasversale e virtuale”. Lo slang e le denominazioni riflessi dallo schermo del computer sono entrati di prepotenza nel lessico corrente, dando vita ad una sorta di esperanto che accomuna e costringe a guardare oltre, ad un linguaggio insieme composito, friabile e vibrante, ad un idioma meticcio che sovrappone lingua colta e invenzioni gergali, proiettandosi su un binario d’incessante metamorfosi. Gettando uno sguardo Oltralpe, ecco che, superato l’argot e lo jargon, il verlan avanza vittorioso dalle difficili banlieues multirazziali che stringono d’assedio la Ville Lumière. Se inizialmente costituiva la prova medesima della volontà di costruzione di una lingua segreta,

pronunciando all’inverso, à l’envers (verlan), le sillabe di una parola, la sua forza eversiva e contagiosa lo ha fatto quasi subito uscire dai confini delle periferie per conquistare bobos, intellettuali blasés e signore comme il faut, divenendo un fenomeno linguistico di moda e innescando uno spericolato gioco di rovesciamento sillabico che arriva a sfidare l’incomprensibilità. Affiorano così dai trottoirs della Goutte d’Or e di Barbès parole come “keum” per mec, “beur” per arabe, “ zarbi” per bizzarre. Suoni duri, spesso generati con connotazioni negative o razziste, frammenti di un parlato perentorio, sferzante e speziato, che sopprime senza pietà congiunzioni, interiezioni e preposizioni in favore di un ritmo icastico, incalzante. «Crediamo che l’Occidente e le sue mode invasive e prepotenti», ha scritto il sociologo e antropologo Franco La Cecla, «l’abbiano vinta su ogni stile, gusto o comportamento locale. Ma non riusciamo a spiegarci come mai i giovani pakistani londinesi di cui parla Hanif Kureishi riescano ad appropiarsi e a rielaborare mode e linguaggi a uso loro e come qui, nella Goutte d’Or, la strada diventi il luogo di sperimentazione di nuovi mélanges». E invece la dobbiamo saper accettare questa logica di contaminazioni e sovrapposizione centro/periferia o colonizzatori/colonizzati che non è mai ovvia e lineare nel suo porsi. Lo rivelano certe brucianti abbreviazioni dei rappers americani, quanto

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lo slang degli adolescenti che da Torino a Roma e Palermo con la loro furia sincretica producono oscure perifrasi praticamente ogni giorno: ad un recente pranzo informale, sono stato insieme shockato e divertito dall’ardito, battagliero eloquio del secondogenito diciassettenne di una sofisticata dama rive gauche naturalizzata indigena, che ai vari “abbaiare” (parlare a vanvera), “sventagliare” (provocare uno stato confusionale) e “asciugare” (provare noia), ha replicato con un disincantato, e intelligentissimo, «Tout comprendre c’est tout pardonner». Ad ogni modo non poco responsabili delle trasformazioni della nostra lingua, con un codice di sigle, neologismi rielaborati e metafore, sono gli sms, promotori del proliferante uso della “k” al posto del tradizionale “ch” da parte di migliaia di giovani, e non solo. Vi sono però alcune distinzioni da fare. Esistono neologismi che nascono per necessità di dare un nome a qualcosa – per fare un esempio, “televisione”, quando ebbe inizio l’affermazione del tubo catodico; quelli di comodo, partoriti da chat e forum e dalal vita reale per mera questione di rapidità; e quelli sovrabbondanti, spesso semplici prestiti o adattamenti da altre lingue, di cui è vero simbolo “scannare” o “scannerizzare”, che ha sbaragliato il più corretto “scansionare”. In Word spy, the word lover’s guide to modern culture, la “neologophilia” presa in considerazione dall’autore Paul McFedries riflette una tavoloz-

za linguistica balzante e ricca di sfumature, che sembra leggere appieno il nostro mondo attraverso neologismi quali “cocooning”, “globophobes”, “shopaholic” o “nope” – not on planet Earth – usato da chi si oppone al non rispetto dell’ambiente. Ce n’è davvero per tutti i gusti. Dal “cellyell” – chi sbraita incurante degli altri al suo telefonino – all’ “add creep” – graduale espansione dell’advertising a luoghi e superfici non consuete – fino a “stress puppy” – chi si compiange, e basta, per la dose eccessiva di stress della sua esistenza. A vederla così, sembra difficile per i puristi delle varie lingue stare dietro a questo vertiginoso tsunami di mutazione e innovazione lessicale. Se l’Accademia della Crusca per prassi deve attendere almeno un quinquennio per registrare nuove parole, e si attesta oggi su termini come “bipartisan”, “girotondino” e “bioterrorismo”, è comunque molto attivo anche l’Osservatorio neologico della lingua italiana, coordinato da Giovanni Adamo, linguista e ricercatore del Cnr, e da Valeria Della Valle, docente di li9nguistica italiana all’Università La Sapienza di Roma, in collaborazione con l’Istituto per il lessico intellettuale e europeo e storia delle idee del Cnr, diretto da Tullio Gregory. «Il nostro lessico», spiega Giovanni Adamo, «è effettivamente molto vivo e reattivo perché assorbe moltissimi termini nuovi dalla politica, dalla scienza e dal giornalismo. Il materiale raccolto, finora 5000 parole

nuove, viene registrato in una banca dati che ha raggiunto attualmente 10000 contesti giornalistici, ove i neologismi sono classificati per temi in base a caratteristiche morfologiche, sintattiche e semantiche. Un lungo elenco di forestierismi, tecnicismi e neologismi d’autore». L’Italiano cambia producendo parole nuove di zecca capaci di esprimere realtà sociali emergenti: «Al contempo, la duttilità tipica della nostra lingua», osserva Valeria Della Valle, «permette di coniare anche nuove parole che attraverso l’uso di un diminutivo dai toni scherzosi e familiari, contribuisce a sdrammatizzare anche forti tensioni sociali». Arduo dunque tracciare una mappa complessiva. Persino l’ “imaginifico” Gabriele d’Annunzio, autentico artifex di felicissime, fertilissime trouvailles verbali, rimarrebbe affascinato dalla rapidità di sviluppo e dall’accentuata dinamica di trasformazione che la nostra lingua sta subendo. Ferme restando regole e funzioni imprescindibili in ogni diverso, peculiare solco linguistico, perché non abbandonarsi un poco a questo (pre)potente processo di assimilazione, a questo contraddittorio, cangiante ponte di aprole gettato aldilà di anguste prospettive politiche e soffaconati perimetri spaziali e sociali? Personalmente ritengo ridicoli e risibili quanti querimoniano sull’urgenza, sull’emergenza di difendere l’Italiano dalla pressione, presunta nociva, di vocaboli provenienti dall’esterno, da


humus culturali altri. Fanfaluche da misoneisti di provincia, da sconclusionati secesionisti con la veduta corta d’una spanna, gente che al grido di “Amore mio, uccidi Garibaldi” vorrebbe ridurre la penisola – e, perché no?, l’orbe terracqueo tutto – ad un ammasso di aree inconiugabili, incomunicanti, precipitandola in uno sclerotico particolarismo, prima economico poi culturale, che puzza d’ancien régime. World Wide Words wanted, dunque. Perché potrebbe essere un modo come un altro per provare a prendere parte al progetto di un mondo comune: usando la stessa parola che adoperano un giapponese o un iraniano che naviga in Internet, chissà che non si riesca finalmente a comunicare, a sentirsi più vicini, a spiegarsi. E, auguriamocelo, anche a convivere.


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Poesie A cura di Giacomo Tenchenco



Una settimana A Sara Bruschi


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Giochi di parole

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Passione di Settembre


Oggi



Lul첫 &Co. A cura di Ester Grossi

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Ecco cosa farò

A cura di Simone Ghelli

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Ho 32 anni, un certificato di laurea incorniciato a casa dei miei, un dottorato di ricerca concluso ormai due anni fa, e l’ennesimo contratto a progetto in scadenza. Ne ho cambiati tanti, non credete, ho fatto di tutto per riuscire a camminare sulle mie gambe. Quando sento che mi cedono, penso a tutto quello che ho fatto per arrivare fin qui. Ad alcuni sembrerà ben poca strada, ma è la mia strada. E’ vero, è un lavoro che non mi appartiene, che mi risucchia le energie e mi brucia la fantasia come fa la siccità con le piante, ma è un lavoro che mi fa sopravvivere. Ero stanco di stringere la cinghia e coltivare sogni. Ormai sei un uomo, mi son detto, quindi smettila di fantasticare. E poi hai la fortuna di avere al tuo fianco una donna che ti ama, e che alla sera sa come rammendarti i buchi dell’anima. Solo lei sa quanto io stia a pezzi. Quando mi vede sulla soglia di casa, con gli occhi bassi come un cane bastonato, mi prende fra le braccia e mi culla finché non restiamo che noi due. Fuori attendono i fantasmi dai volti tirati che s’aggrappano ai sedili del tram, le urla stridule dei clacson, le facce posticce dei politici incollate sui cartelloni lungo le strade. Domani saranno di nuovo lì a deridermi, ma mentre muio in quell’abbraccio essi tornano ad essere incubi senza corpo. Poi, tra pochi giorni, arriveranno quelle stupide lettere su cui mi chiameranno “caro elettore”, mentre il televisore già vomita gli appelli al buon senso.

Votare è un diritto di tutti, conquistato grazie al sacrificio dei nostri predecessori. Strano che lo dicano proprio quelli che stanno lì da anni, alcuni addirittura da quando ero un bambino, se non ricordo male. Il popolo è venerato solo quando serve, e il momento migliore è sempre mentre si riempie lo stomaco. Mio padre d’altronde me l’ha sempre detto di studiare per non farmi fregare com’è successo a lui, che ha dovuto cambiare non so quanti lavori prima di trovare quello giusto per potersi sposare. Come glielo dico adesso ai miei, dopo tutti i sacrifici che hanno fatto, che quel pezzo di carta appeso al muro vale meno di niente? La mia generazione s’è accomodata a tavola quando ormai già stavano sparecchiando, ma secondo alcuni dovrebbe stare seduta come si conviene ed usare le posate, anche se nel piatto son rimaste solo poche briciole per le quali ci azzuffiamo. A me invece piace di mangiare con le mani, e di condividere il desco solo con chi mi va. Ecco allora quello che farò. Mi troverò un posto isolato, di quelli dove ci si arriva soltanto a piedi, dopo aver camminato per delle ore; oppure resterò qua in città, proprio così, ma mi terrò le cuffie alle orecchie, da cui raccogliere una continua cascata di note. C’avete mai fatto caso a quanto siano assurde le facce delle persone che litigano mentre voi ascoltate la musica? Io si, lo faccio sempre, perché non voglio essere complice di questa guerra fra poveri. E’

la prima cosa che c’insegnano: se proprio devi sfogarti, fallo con chi è più debole di te. E io invece faccio diversamente. Alla mattina esco di casa con la musica nelle orecchie, mi accomodo sul tram e abbasso gli occhi sul libro che sto leggendo, proprio così, abbasso gli occhi come c’hanno insegnato, ma io leggo e ascolto, faccio due cose insieme, non sono specializzato in niente io. Passano le fermate, le persone scendono e salgono, ma io resto fermo nel mio mezzo metro quadrato, attaccato al posto che mi sono conquistato. Per anni non ho pagato il biglietto, ma ultimamente mi sono deciso a farmi l’abbonamento, quindi basta viaggi in piedi. Contribuisco nel mio piccolo alla società, per cui lasciatemi in pace. Voglio solo arrivare alla mia meta e rinchiudermi in quel buco che mi ruberà altre otto ore. Chiedo forse troppo? Io penso invece di essere in credito con qualcuno, se solo sapessi chi, perciò scendo alla mia fermata e non chiedo niente a nessuno. Cammino e mi guardo intorno con avidità, ingoio qualche immagine da portarmi in cella. La mia testa è piena di cartoline colorate, ne ho un’intera collezione. A casa le tiro fuori, le guardo e ci scrivo sopra una bella storia. Mi piace scrivere. E’ quello che faccio da anni. Ecco allora quello che invece farò. Mi lascerò la metropoli alle spalle ed andrò in uno di quei posti sperduti dove si può ancora coltivare la propria terra e cacciare nei boschi. Là potrò battere sui tasti


finché non mi si consumeranno le impronte dalle dita. Scriverò di cose nuove, e riempirò la soffitta di fogli su cui liberare la mia fantasia. Finalmente potrò definirmi scrittore. Nessuno viene a cercare uno scrittore di questi tempi, uno che passa le giornate a lottare con le parole, intendo, non di quelli che fanno i ricami sulla pagina. Oppure mi metterò a rubare anch’io, come fanno in molti, come quella pensionata di cui hanno parlato oggi in tv, che è stata denunciata perché l’hanno sorpresa a rubare al supermercato. Le mancavano dieci euro per fare la spesa. Pazzesco, se penso che quando c’arriverà la mia generazione neanche lo saprà più che cos’è la pensione! Per ottenere dei voti ci parlano di cose che non stanno né in cielo né in terra. La verità è che siamo arrivati troppo tardi, per cui bisogna alzarsi prima che giunga l’oste a chiederci il conto, non credete? Voglio dire, io mi mangio il fegato ogni giorno della settimana, quindi a questo tavolo non ci sto. Mi avete invitato senza chiedermelo. Lo avete fatto soltanto per chiamarmi “caro elettore”, così che domani, quando arriveranno quelle belle letterine, io possa sentirmi obbligato nei vostri confronti. Ma ecco quello che farò. Le strapperò ad una ad una quelle cartacce, e ci farò dei coriandoli con cui farci giocare la mia gatta. La differenza tra me e voi, è che voi sapete dove io abito. Ma se trovo un posto dove nessuno potrà raggiungermi, allora si che cam-

bierà la musica! Non avrò neanche più bisogno di queste stupide cuffie. Mi stenderò sull’erba ad ascoltare ciò che ha da dirmi la terra. Potrò farmi abbracciare quando voglio dalla donna che amo. Il tempo sarà tutto nostro. Scriverò solo per noi. Perciò vi dico alzatevi e andatevene, finché siete ancora in tempo. Lo sapete come va a finire, altrimenti. Ci si abitua a tutto, a forza di rimandare a domani. Neanche te ne rendi conto di quello che sei capace di fare una volta che c’hai fatto il callo. Prendere o lasciare, ché tanto se lasci hai già dietro la fila pronta a farti lo scalpo. Io lascio. Ecco quello che farò.

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Collaboratori

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