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25/11 LA GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE E IL CASO DI ARTEMISIA GENTILESCHI

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Last night in Soho

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di Francesco Prati

Nella nostra storia sono sempre esistiti coloro che predominano con la forza fisica: persone che, imponendo il loro volere carnale, sfigurano moralmente i deboli per inserirsi in un mondo scandito da scontri e lotte. Spesso questa immagine è stata sinonimo di debolezza, di scarsa predisposizione alla sopravvivenza. Un’immagine che è stata sempre posta particolarmente alla figura femminile, un essere solitamente parso fragile, tanto da non poter mai dominare sulla natura. La tirannia carnale e la sottomissione verso la donna si è sempre espressa in campo sessuale, un campo dove un tiranno non sente il bisogno di chiedere il permesso per entrare o non vede il motivo di alcuna cortesia, dove si compiace a discapito di una vittima. Nel caso di un’offesa del genere, il corpo diventa un motivo di vergogna e di oppressione per lo spirito, tanto da doversene liberare, e spesso questa liberazione avviene con l’arte. La storia di Artemisia Gentileschi è la sintesi perfetta dei concetti esposti, un storia di rinascita, di caduta nell’oblio e di catarsi interiore. Artemisia nasce a Roma nel 1593, figlia del pittore Orazio Gentileschi, pittore di discreta fama nella città. L’infanzia di Artemisia è Simon Vouet immersa fin da subito nell’arte, infatti la Ritratto di Artemisia Gentileschi, pittrice, sin da bambina, era solita assistere e 1623, Pisa, Palazzo Blu prendere lezioni dal padre. Nel mondo dell’arte era già sorta una grande rivoluzione nel linguaggio figurativo, rivoluzione apportata da Michelangelo Merisi, meglio noto come Caravaggio, sua città d’origine. Caravaggio, con il suo crudo realismo e la prorompente teatralità, aveva introdotto come mai prima d’ora l’idea di violenza visiva, che influenzò gli artisti a venire e in particolare Artemisia e il padre Orazio, amico del pittore. La giovane Artemisia, quasi 18enne, viene affidata dal padre agli insegnamenti della prospettiva di Agostino Tassi, uomo già noto per il fare litigioso e burbero. Tassi, approfittando dell’assenza temporanea del padre di Artemisia, che era solito assistere alle lezioni, violentò la ragazza. Era il 1611. L’anno seguente al tragico avvenimento, Orazio deciderà di denunciare l’amico per il danno fatto alla famiglia, dato che nel XVII secolo non esisteva ancora una legge che tutelasse la violenza sul singolo per quanto riguardava le donne. Artemisia rimase terribilmente sconvolta dall’accaduto, creando una profonda voragine nella sua psiche e cambiando radicalmente la sua persona e la sua arte. È proprio con l’arte infatti che Artemisia si vendica del torto subito e si libera dal fardello che la schiacciava. Una tra le opere più famose di questo oscuro periodo è “Giuditta che decapita Oloferne”, tema affrontato per la prima volta nel 1612 e poi riproposto quasi ossessivamente dall’artista. L’opera, un olio su tela oggi conservato al Museo Nazionale di Capodimonte, riprende tutti gli elementi della scuola caravaggesca, tra cui l’utilizzo della luce catadiottrica e lo scenario estremamente scuro in cui si svolge la scena. Il dipinto è analogo a “Giuditta e Oloferne” di Caravaggio del 1597. Entrambe le opere rappresentano Giuditta, schiava del tiranno Oloferne, che, entrando nella tenda di lui per dei favori di natura sessuale, lo decapita, tutto in presenza della sua accompagnatrice. Artemisia riprende da Caravaggio anche la grande violenza dell’azione, in un impatto visivo mai visto in una pittrice donna all’epoca. Giuditta compie la sua missione quasi inespressiva, allontanandosi dagli schizzi di sangue che fiottano dalla testa tagliata di Oloferne; tutta l’espressività infatti sembra concentrarsi sulle mani, tese in uno sforzo disumano. Artemisia apporta però un cambiamento rispetto all’opera di Caravaggio, infatti rende l’accompagnatrice membro dell’omicidio e non più osservatrice, simboleggiando forse non solo una catarsi personale, che infatti si autoritrae come Giuditta, ma di tutto il genere femminile. Il suo talento l’avrebbe portata nel 1616 a far parte dell’Accademia del Disegno di Firenze, essendo difatti la prima donna ed entrarvi, e di compiere diversi viaggi, prima a Firenze, poi a Venezia, a Napoli ed ancora a Firenze. Durante la sua opera pittorica non si sarebbe mai discostata dal profondo dolore interiore dovuto allo stupro del Tassi, infatti si sarebbe sempre autoritratta personificando diverse donne sofferenti, come Santa Caterina e la Maddalena, trovando liberazione solo nel personaggio di Giuditta. La sua opera completa la ritiene ancora oggi una delle più grandi donne della storia e la migliore pittrice caravaggesca, perché forse è solo con un linguaggio crudo e violento che poteva dare forma alle proprie inquietudini, anche a costo di farsi disprezzare dai committenti. È sicuramente merito di donne come Artemisia Gentileschi che dal 1996 nella Legge Italiana è stato introdotto l’articolo n.66 contro la violenza carnale, donne che hanno saputo trasformare le loro disgrazie in arte, riuscendo a sovrastare la forza fisica con il solo utilizzo della propria anima.

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Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612-1613, Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

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