Il Gusto Italiano Magazine num 2

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rivista culturale enogastronomica, turismo & golf


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SOMMARIO

maggio-giugno 2010

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Web e dintorni 7. Editoriale 8. Web e dintorni

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Il tè, storie ....

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Fausto Zanaro

10. L’arte futurista tra gusto e mutevole in cucina. 12. Fiorucci, storia di una passione 14. Storie di prosecco e dintorni 16. Andiamo verso una terza Venezia 17. Storie lontane: Il Biancomangiare e la cucina medioevale

32. Banqueting 34. Turismo a Novigrad 36. Grande golf 38. Mantova: le colline e i grandi vini che non sai

55. Tavole libere

39. Quale aceto balsamico tradizionale?

19. Il tè, storie, leggende e convivialità

41. Altolivenza, storie di prima pagina

25. Una grappa è una grappa!

42. Presentazione primo numero

26. La Capraia: vigne e castelli

43. Salzano: festa della Filanda

28. Il grande pittore impressionista veneto Fausto Zonaro

45. Turismo nautico

30. Tempo di ciliegie: irresistibili, deliziose, amate, incontrastate regine delle tavole

54. Segnali e riflessioni dall’olio extravergine d’oliva

46. Benvenuti al Corinthia Palace Hotel & Spa di Malta 48. Nuvole fritte 53. Zenzero e zafferano

Nel prossimo numero Speciale Golf: dove giocare in Italia e all’estero Approfondimento sul caffè, sul cioccolato e non solo Ristoranti, alberghi dove? Itinerario sui vini: viaggio nelle nostre cantine

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Editoriale magazine

rivista culturale enogastronomica, turismo & golf

Editore e Amministratore Delegato Giovanni Meneghini meneghing@yahoo.it Direttore Responsabile Maurizio Drago mauriziodrago@gmail.com Area Informazione Enogastronomica Bruno Sganga brunosganga@libero.it Relazioni Internazionali Dario Penco pencodario@yahoo.it Amministrazione Il Gusto Italiano Gruppo di Rete Bruno Sganga, Maurizio Drago Giovanni Meneghini, Walter Bassanese Vesna Feremac, Zlatko Mavric Mauro Riotto, Dario Penco Stefania Bastoni, Alessia Onorati Bruno Stefanat, Agostino Riva Progetto Grafico Giovanni Favero giovanni.favero@alice.it Stampa Linea Grafica - Castelfranco Veneto Associazione Il Gusto Italiano Servizi Culturali Informativi Sede: Via Lamberto Chisini, 100 31053 Pieve di Soligo (Tv) Tel/Fax +39 0438 987123 Mobile +39 339 8764975 www.ilgustoitaliano.it e-mail: info@ilgustoitaliano.it Numero 02 Maggio-Giugno 2010 Iscrizione al Tribunale di Treviso n. 348/10 del 26.05.2010 Costo copia € 8,00

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l confine tra una stampa di settore asservita e modaiola e quella seria con equilibrati racconti del gusto, spesso sembra non riconoscibile. Ma c’è un dato inequivocabile che contraddistingue: quello della diffamazione sottile, dello schieramento aprioristico nel sostenere tesi apparentemente eque e libere, piuttosto che nella reale capacità di dialogare con i lettori prima ancora che con gli inserzionisti. Qualcuno ci ha chiesto del nostro “progetto editoriale”, della nostra capacità a sostenere con eventi ed altre esternazioni visibili la nostra presenza, e dunque di farci “riconoscere”. Ebbene, il nostro progetto eredita stile e filosofia dall’Associazione omonima per parlare d’enogastronomia e di cultura del gusto, con senso di civiltà e competenza. Ma soprattutto, senza schieramenti preconcetti ed autoreferenziati, od usando calderoni contenitori in cui versare di tutto indiscriminatamente! Come ha scritto magistralmente Carlo Scarpa: il brutto non ci interessa, il bello lo conosciamo, siamo alla ricerca del sublime. Questa frase coincide in fondo con la filosofia della nostra rivista che approda nel mondo della comunicazione e dell’informazione. Noi vogliamo scegliere, semmai anche sbagliando se capita, ma senza farci pilotare solo dalle convenienze o da occasionali rapporti dettati dalla pubblicità invece che da autentici approfondimenti. Per questo desideriamo andare alla ricerca di quello che è in controtendenza alla “globalizzazione” sfrenata ed eccessiva, poiché il nostro “Gusto Italiano” raggruppa tutto il mondo che i nostri sensi recepiscono nel modo più bello. Certo, ci saranno programmi più attenti e puntuali, presto anche un sito insieme ad occasioni esterne e promozionali, come si può leggere nella nostra nuova rubrica “Nuvole fritte”, ma ricordando che prima di apparire noi vogliamo coltivare la sostanza dell’essere. “Il Gusto Italiano” è questo: valorizzare le eccellenze del nostro Paese, farle conoscere, e andare oltre. Il filosofo Baruch Spinoza affermava che “le cose sublimi - cioè quelle più belle - sono le più rare e difficili da conseguire”. Questa è la nostra sfida, la sfida della nostra rivista che dovrà diventare la rivista del “Gusto Italiano” per tutti coloro che amano il sublime. Un gusto che parla di enogastronomia, ma andiamo anche verso il design, moda, architettura, musica, arte, storia, letteratura…. Così come cerchiamo di parlare di tutti i territori italiani, un po’ alla volta, distribuendo in modo equanime approfondimenti o brevi informazioni, perché questo gusto italiano non ha capitali ma è capace di un unico racconto ugualmente pregevole in ogni dove, basta saperlo riconoscere e rappresentarlo. Giovanni Meneghini

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Dal Web e dintorni Le classifiche spesso sono un sistema poco equo (come molte guide per altro) perché bisognerebbe conoscere e soprattutto verificare i metodi che realmente le alimentano e le capacità reali di chi le realizza. Noi ne siamo quasi sempre contrari, come queste (di Massimo Bernardi su w w w.dissapore. com) molto discutibili perché riferite soprattutto ai soliti noti e provenienti prevalentemente da certe aree geografiche e sostanzialmente degli ultimi venti-trent’anni. Mentre c’è una cucina nascosta e piena di chef con magnifiche sorprese e creatività anche nel rispetto della tradizione. Ma ciò non esclude una certa curiosità che non va tralasciata, al pari di alcune dirompenti novità sul gusto (da enotime), e su tutte vi invitiamo a dirci la vostra opinione. I 40 migliori piatti italiani degli ultimi 50 anni 1 Risotto con foglia d’oro di Gualtiero Marchesi (degli anni ‘80); 2 Spaghetti Senatore Cappelli con cipollotto e peperoncino (Aimo e Nadia, circa 1985); 3 Carpaccio (Harry’s Bar, circa 1965); 4 Passatina di ceci e gamberi di F. Pierangelini (Gambero Rosso, circa 1987); 5 Agnolotti di L. Alciati (da Guido anni ?); 6 Tortelli di zucca di N: Santini (Dal pescatore, circa 1997; 7 Raviolo Aperto di G: Marchesi (anni ‘80); 8 Magnum di M: Bottura (Osteria La Francescana, circa 2005); 9 Savarin di riso e lingua (Trattoria Cantarelli, circa 1965); 10 Spaghetti alla lampada di A. Paracucchi (Paracucchi, circa1979); 11 Albanella di molluschi e crostacei di M. Uliassi (Uliassi, circa 2002); 12 Cyber Egg di D. Scabin (Combal.Zero, circa, 2004); 13 Nudi di ricotta alle ortiche in leggero ristretto di cappone

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di mare di A. Iaccarino (Don Alfonso, anni ‘90; 14 Caramella (di pasta) farcita di ricotta di pecora e spinaci con crema di peperoni dolci (Enoteca Pinchiorri, circa19’87); 15 Tagliatella di seppia con pesto di alga nori di M. Uliassi (Uliassi, circa 2003); 16 Vesuvio di rigatoni di A. Iaccarino (Don Alfonso, circa 1989); 17 Risotto bianco con polvere di caff è e capperi di Pantelleria di M. Alajmo (Le Calandre, anni ?); 18 Bollito non bollito di M. Bottura (Osteria Francescana, circa20’07); 19 Capesanta con mortadella mela e finocchio di F. Pierangelini (Gambero Rosso, circa 1999); 20 Risotto giallo con brunoise di zucchine di E. Santin (Antica osteria del ponte, circa 1995); 21 Tagliatella al ragù di M. Bottura (Osteria Francescana, circa 1997), 22 Ostrica virtuale di D. Scabin (Combal.Zero, circa 2005), 23 Ravioli al tartufo ripieni di foie gras di G. Vissani (Vissani, circa 1998); 24 Rigatoni all’amatriciana di A. Dandini (L’Arcangelo, circa 2007); 25 Pizza salsiccia e friarielli di G. Sorbillo (Pizzeria Sorbillo, anni ?); 26 Cipolla fondente cotta nel sale di S. Tassa (Le colline ciociare, circa 2006); 27 Scaloppa di fegato d’oca tartufata di I: Corelli (Trigabolo, circa 1986); 28 Ravioli ripieni di foie gras con gelato ai ricci di mare di G. Vissani (Vissani, circa 2001); 29 Ravioli di baccalà pomodoro e maggiorana di A. Colonna (Antonello Colonna, circa ‘04); 30 Insalata di mare scomposta o Susci mediterraneo di M. Cedroni (La madonnina del pescatore, circa 1997); 31 Minestra di pasta mista di Gragnano con crostacei e piccoli pesci di scoglio di G. Esposito (La torre del saracino, circa ‘06); 32 Patata con il caviale N. Santini (Dal pescatore, anni ?); 33 Zampone di mare (Beccaceci, circa 1978); 34 - Lingua salmistrata (Trattoria Cantarelli, circa 1967); 35

a cura di B. S. Cipolla caramellata con grana padano di D. Oldani (D’O, circa 2005); 36 Pizza margherita di Enzo Coccia (La Notizia, circa 2007); 37 847 chilometri da Alba di E. Crippa (Piazza Duomo, circa 2008); 38 Paniscia alla novarese di P. Bertinotti (Pinocchio, circa 2004); 39 Pasta all’uovo senza uovo di N. Romito (Reale, circa 2008); 40 Spaghetti all’uovo, aglio olio e peperoncino di C. Cracco (Cracco, circa 2006).

} 10 cose che mangiavamo negli anni ‘80 e che probabilmente ci mancano Certe abitudini sono alle spalle, ma da quando abbiamo scoperto, per caso, l’altra sera, che nel menù del risto-pizza sotto casa figurano ancora i Tortellini panna prosciutto e funghi e il Galestro capsula viola, è scattata l’operazione nostalgia per gli anni ’80…gli anni dell’ individualismo….con un filo di nostalgia. 1 Cocktail di scampi - L’antipasto delle occasioni importanti includeva gamberi spesso congelati affogati in dosi elefantiache di salsa rosa, un modo elegante per definire una colesterolica combinazione di maionese e keciap. Ma ci sentivamo al centro del modo. 2 Carpaccio rucola e grana - Imprescindibile antipasto/pasto-unico per gli uomini e le donne in forma degli anni ‘80. In seguito colonizzato da cascate di becchime, alias i semi di mais più o meno Bonduelle. 3 Vini Lancers e Mateus - Il Portogallo in Italia prima di Josè Mourinho. 4 Penne alla vodka - C’erano volte in cui avevamo bisogno di sentirci uomi-


ni che non devono chiedere mai (cit.). Bastava entrare nel primo ristorantepizzeria e resistere alle dosi di peperoncino che aff liggevano l’altresì modesta salsetta al pomodoro. 5 Risotto allo champagne - Puro edonismo reganiano. Altro che crisi dell’euro. 6 Filetto al pepe verde - Solo se in grana, lanciando uno sguardo di sfida al cameriere (io pago IO PAGO), ordinavamo fette di filetto inf laccidite dalla panna, sentendoci Gordon Gekko fuori da Wall Street. 7 Scaloppine ai funghi - Non è sempre domenica. La carne di tutti i giorni, che nel decennio precedente sarebbe stato un ossimoro, erano le scaloppine. Ripassate al burro, bagnate da improbabili liquori (whisky, brandy, marsala), o intrise nella panna, vero ingrediente simbolo degli anni ‘80. 8 Insalata Nizzarda - In contemporanea con il boom delle palestre e della dieta a punti, le tavole italiane si sono riempite di imponenti ciotole colme di lattuga, rucola, radicchio e ingredienti a piacere. Le mega-insalate si impongono come piatto unico, il nome Nizzarda passa di bocca in bocca. Beata ingenuità. 9 Profiterol - Ordinarlo ci faceva sentire parigini, ma ne ho sentite di storpiature: profiTTerol, approfiTTerol,

prof I’tterol… 10 Panna cotta - Al cioccolato o ai frutti di bosco, oltre a scoprire parole nuove (what’s colla di pesce?) il rapido imporsi della panna cotta verso la fina degli anni ‘80, costringeva tutti a scelte difficili.

} Pochi sanno che i gusti sono 5 e non 4, ma ora spunta anche il 6°: il gusto di grasso! Un gruppo di scienziati ha concluso che viene identificato dalla sua composizione chimica e non dalla consistenza. Già pochi sanno che i gusti non sono solo quattro ma cinque, ed ora arriva una ricerca australiana che scompiglia le certezze acquisite evidenziandone un sesto. Fino agli inizi del secolo scorso (1908) la scienza riconosceva ufficialmente solamente quattro gusti fondamentali percepiti dai recettori della lingua: dolce, salato, amaro e acido (o aspro). La classificazione però, non teneva in considerazione quanto invece era esperienza comune nei territori d’oriente, cioè la capacità di quel popolo di percepire un quinto gusto fondamentale: l’umami. Si deve così al giap-

ponese Kikunae Ikeda, già dal 1908, la scoperta e la successiva definizione, universalmente riconosciuta, dell’umami, tipica dei cibi ricchi di proteine e caratterizzata da un gusto sapido, derivante dalla presenza di composti simili al glutammato monopodico riscontrabile nel comune dado da brodo ma anche in molto formaggi stagionati come il Parmigiano reggiano o nelle salse di pesce come la pasta di acciughe. Eppure ad un secolo dalla sua scoperta la presa di coscienza dell’esistenza dell’umami tarda ad essere accettata nel mondo occidentale, al punto che ancora oggi nei testi di fisiologia umana continua ad essere taciuta la definizione di questo gusto. Ma a scompigliare certezze fin qui acquisite ecco che all’Università Deakin di Melbourne (Australia) un gruppo di scienziati guidati dai dr Keast e Stewart, ha individuato un sesto sapore, da aggiungere ai noti dolce, salato, amaro, acido e umami; che è quello del grasso. Usando una serie di esperimenti di assaggio dei sapori, i ricercatori hanno concluso che gli esseri umani identificano il gusto del grasso dalla sua composizione chimica, non dalla sua consistenza. Le persone coinvolte inizialmente nella ricerca, anche se con diversi gradi di sensibilità, hanno riconosciuto una vasta gamma di acidi grassi che si trovano comunemente negli alimenti tra cui l’acido oleico e linoleico tipici dell’olio extravergine di oliva - in bevande al f lavour di latte. La prova successiva ha poi dimostrato come la differente sensibilità al gusto del grasso fosse inversamente proporzionale al peso corporeo delle volontarie, ovvero persone sensibili ai grassi alimentari, cioè in grado di riconoscere il gusto del grasso a concentrazioni molto basse, finiscono per mangiare meno cibi ipercalorici rispetto a quelle insensibili mantenendosi più snelle, spiega Keast. Lo staff dell’Università di Melbourne è ora interessato a capire perché alcune persone sono sensibili ed altre no, in modo che si possa aiutare le persone a ridurre il loro apporto di grassi e sviluppare nuovi alimenti a basso tenore di grassi. La recente scoperta, riferiscono alcuni medici nutrizionisti, potrebbe aiutare a contrastare l’epidemia di obesità ed aprire la strada alla produzione di alimenti anti-obesità, dal sapore più accattivante, che ingannino l’organismo, dando la sensazione di aver soddisfatto la voglia di cibo grasso. (fonte dr Antonio G. Lauro).

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L’arte futurista tra gusto e mutevole in cucina. Bruno Sganga

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l connubio tra arte e cucina è sempre stato profondo ed interpretato secondo i vari momenti storici e le sensibilità relative ad ogni specifico periodo, riuscendo spesso ad interpretare i mutamenti della società, a volte anche ad anticiparle. In questo senso un testo di incredibile intensità del famoso studioso Federico Zeri, intento a sviscerare il tema del mutamento in alcuni esemplari dipinti di Sebastiano del Piombo, ci regala una digressione sul mondo del cibo che merita di essere ricordata ancor più in questi tempi di apparente opposizione tra la cucina tradizionale (o meglio territoriale) che torna all’antico e le innovazioni sempre più forti d’una cucina moderna quasi esasperata (come quella di fusion e molecolare). La domanda è molto semplice,: la nostra sensibilità, il nostro sentire, è lo stesso dei nostri avi ? Per ragioni più culturali che percettive, Zeri appunto ci fa notare come allo stesso modo la visione dei colori non si è potuta sottrarre ai vari mutamenti epocali, così che alcune culture del passato ignoravano alcuni elementi cromatici, non avendo neppure le parole per designarli. Al pari, avverte Zeri, “ Noi sentiamo i sapori in modo completamente diverso, non dico da come li percepivano gli antichi, ma, più vicini a noi, persino i nostri nonni.. ” Una grande verità che si impone quando leggiamo “quì si cucina come i piatti della nonna…” . Infatti gusto degli antichi era completamente diverso: i piatti descritti da Apicio, in De re coquinaria, sono cose per noi repellenti, quasi immangiabili, e spesso gli antichi avevano basato tutti i loro cibi sul dulcamara, l’agrodolce, sino al più recente e veneziano dolzegarbo, ove i sapori erano allo stesso tempo dolci e amari, mielati e salati, stucchevoli e aspri, qualcosa di molto simile alla mostarda di Cremona che è, infatti, una sopravvivenza gastronomica antico-medioevale. Ed in ciò anche l’utilizzo delle spezie ha inf luenzato la sensibilità gustativa degli antichi, che le utilizzavano maggiormente per conservare le carni nei mesi in cui scarseggiavano ghiaccio e nevi. O come nell’epoca romana ove quasi tutto era condito con il garum, una salsa di intestini di pesce fermentati nell’aceto, che oggi risulterebbe inconcepibile. In questo senso la cuci-


na e la prassi culinaria hanno quindi in sostanza modificato nel tempo la nostra sensibilità, così come la nostra idea dello stare a tavola, differente a quelle che oggi appaiono esagerazioni, come ad esempio la cerimoniosità che ha caratterizzato le tavole dell’età post medioevale, fino all’Ottocento. Basterebbe esaminare i menu, interminabili e complicati, del secolo scorso, per comprendere che c’è qualcosa in noi di profondamente mutato, come per altro accade con le opere d’arte. Ma se un intreccio va individuato e riconosciuto tra arte e cucina e con un senso rivoluzionario di grande intensità, questo è riconoscibile nell’esperienza futurista che ha emotivamente e culturalmente mescolato la cucina nell’arte e l’arte in cucina. Del resto la “Cucina Futurista” di Filippo Tommaso Marinetti ed i suoi, tra pensieri e ricette, non è certo adatta per imparare a cucinare, considerando che molte delle ricette proposte sono, il più delle volte, immangiabili se non addirittura riluttanti.

Nel progetto di Marinetti e dei suoi amici l’alimentazione deve essere “rapida, dinamica, aerea”, e il primo nemico da battereè la pastasciutta, grande corruttrice dei costumi e del morale d’Italia.” Ma al di là degli aspetti artistici di tutta l’esperienza futurista, va detto che quanto riservato alla “cucina” nasce da un tragicomico antefatto di due anni prima allorché Prampolini, Marinetti e Fillia salvarono l’amico Giulio Onesti da insani pensieri di suicidio creando, proprio nella sua casa sulle rive del Lago Trasimeno, sensuali, carnali e accattivanti sculture mangiabili atte a “guarire da qualsiasi desiderio di suicidio”! Ma visto che l’esperienza futuristica non rappresentò certo qualcosa di riduttivo e banalmente legato alla sola cultura provinciale italiana, ma fu un movimento che ha inf luenzato artisti famosissimi in tutto il mondo, è evidente che anche certi “rif lessi in cucina” esigono pari e notevole considerazione. Come per il mito dell’italiano virile illustrato nelle bellissime pagine con-

tro la pasta definita come cibo che fa ingrassare e svirilizza, certo contrastante con la scienza alimentare moderna che esalta la dieta mediterranea vedendo invece nella pasta e nell’olio d’oliva le componenti più salutari. O come con il richiamo alle uova, cibo virile per eccellenza (il colesterolo non era ancora di moda) o verso i datteri ed il caffè nel loro collegamento con le aspirazioni imperiali, sino alla esasperata presentazione di molti cibi con una chiara connotazione erotica. Ma anche con la gustosissima parte dedicata al lessico futuristico, per cui “bar” viene sostituito con “quisibeve” e il cocktail con la “ polibibita ” ! . Dunque una provocazione totale e non priva di fascino, fatta da una “intellighenzia” che ama divertirsi e divertire, coniugata a quel “misticismo dell’azione” tipico di quei tempi, come in una bellissima esperienza a Casa D’Avalos a Napoli nel giugno dello scorso anno. Nel progetto di Marinetti e dei suoi amici l’alimentazione deve essere “rapida, dinamica, aerea”, e il primo nemico da battere è la pastasciutta, grande corruttrice dei costumi e del morale d’Italia. Ma le polemiche non mancarono (La Cucina Italiana intervenne, a Napoli si fecero cortei popolari in difesa dei vermicelli,) e si infiammarono anche gli stessi sodali del gruppo futurista perchè non tutti erano d’accordo nel mettere al bando “un piatto per cui l’Italia poteva menar vanto nel mondo”. E l’idea della cucina futurista si poteva degustare in diretta alla Taverna del Santopalato a Torino, gestita da Angelo Gioachino, arredata dall’architetto Nicolay Diulgheroff e decorata dall’aeropittore Luigi Colombo tra illustrazioni di vari artisti, tra i quali Medardo Rosso e Fillia. La taverna fu inaugurata l’8 marzo 1931 con un pranzo di quattordici portate in cui vennero serviti, tra gli altri: l’Antipasto intuitivo, il Brodo solare, il Mare d’Italia, il Pollofiat e il Carneplastico (piatto dell’aereopittore Fillia, composto da un cilindro

di carne di vitello ripieno di undici tipi di verdura, sostenuto da tre sfere di carne di pollo e da un anello di salsiccia, e coronato da uno strato di miele, come una genuina “interpretazione sintetica degli orti, dei giardini e dei pascoli d’Italia”. Ma l’esperienza futurista non segnò, comunque, la svolta gastronomica desiderata dai suoi ideatori, benchè la cucina di Marinetti e dei suoi sia stata riscoperta proprio in questi anni più recenti, in parte con l’esperienza della nouvelle cuisine, come dimostrano il continuo ricorso ad alimenti esotici (carne di cammello, formaggio d’Olanda, noccioline, datteri, ananas, tamarindo, frutta candita, miele e zabaione) o con l’uso di accostare sapori tra loro distanti (datteri e acciughe o carne e banana, ecc.) ed ancora più di recente con la forte attenzione per l’aspetto pittorico e scultoreo delle portate (la famosa, ma falsa, tenzone tra forma e sostanza), cosicché – proprio come diceva Martinetti – tutte le persone “abbiano la sensazione di mangiare, oltre che dei buoni cibi, anche delle opere d’arte”. Nota aggiuntiva sull’esperienza in diretta della cucina futurista con la polibibita (cioè cocktail) Inventina, formula dell’aeropoeta futurista Filippo Tommaso Martinetti e composta da 1/3 d’Asti spumante, 1/3 di liquore d’ananas e 1/3 di succo d’arancio gelato e, come dessert, le patriottiche erotiche e spregiudicate FragoleMammelle italiane al sole…! Bruno Sganga

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Storia di una passione… Fedeli a regole antiche, interpreti di sapori autentici, attenti alle moderne esigenze di sicurezza del consumatore in tutte le fasi di lavorazione del prodotto: un mix ideale che fa della qualità Fiorucci un punto di riferimento unico per il mercato di settore. Salami, prosciutti crudi e cotti, mortadelle, specialità stagionate, wurstel, arrosti… una vasta proposta della tradizione di salumeria più famosa nel mondo. Da qui Fiorucci ha valorizzato le sue capacità anche nei settori dei formaggi tipici, dell’aceto balsamico e di molte altre specialità: la più ampia gamma di prodotti tra ricette classiche e regionali, oltre agli esclusivi prodotti DOP e IGP, fiore all’occhiello dell’arte gastronomica italiana. …Nuovo gusto alla tradizione… Alla genuinità e tradizione dei sapori italiani, Fiorucci unisce anche la capacità di innovazione che anticipa l’evoluzione delle abitudini di consumo. Dalla progettazione di moderni packaging ad alto contenuto di servizio, alla creazione di nuovi prodotti –come il nuovo “Culatello arrosto” gli Arrosti di pollo e di tacchino e il Pasta kit- per rispondere alle esigenze di specifici settori di mercato in Italia e all’estero. A partire dall’eccellenza delle materie prime, lungo un percorso di efficienza e modernità che trova la sua più importante espressione nella sede di Santa Palomba (Roma), centro propulsore del Gruppo a livello industriale, Fiorucci coniuga i massimi valori dell’artigianalità con una struttura tecnologica e produttiva, fattore indispensabile per affrontare un mercato di livello internazionale. …Vicini al mondo, in stile italiano Presente con società controllate in Inghilterra, Francia e Germania, oltre che negli Stati Uniti (Virginia), il Gruppo ha sempre considerato l’ampliamento della presenza sui mercati internazionali un fattore strategico di crescita.Negli altri Paesi (circa 60), una politica selettiva di partnership locali, con distributori qualificati ed importatori, consente al Gruppo la massima f lessibilità operativa, una conoscenza approfondita del territorio e la possibilità di esplorare mercati ad elevato potenziale di sviluppo.Una organizzazione commerciale efficiente e capillare che ha fatto di Fiorucci il leader dei salumi italiani nel mondo.

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Il leader dei salumi italiani nel mondo.” “The world leader in Italian deli meats.”


The story of a passion… Faithful to ancient tradition, reinterpreting authentic f lavour, with careful attention to modern requirements for consumer safety at all stages of production: an ideal blend which makes Fiorucci a touchstone for quality that is unique in its marker sector.Salami, cooked and cured ham, mortadella, seasoned specialities, frankfurters, roasts… a vast offer of the world’s most famous national tradition of deli meats. Fiorucci has also drawn on its experience to put its skills to work in the sector of traditional cheeses, balsamic vinegar, and many other specialty foods: the most wide range of products, both classic and regional recipes, as well as products that bear the seal of the exclusive DOP and IGP protective designations, the pride of Italian culinary art. …Tradition has a new taste… Fiorucci combines a gourmet philosophy, inspired by authentic Italian cuisine, with a capacity for innovation that involves along with consumer habits. From the design of its modern packaging, to the strong component of customer service, to the creation of new products – new Culatello roasted, Chicken and Turkey roasted and the Pasta Kit- to meet the needs of specific segments of the Italian and foreign market.It starts with excellent, raw ingredients, and follows a path of efficiency and modernity of which the site in Santa Palomba (Rome), the driving centre of the Group at the production level, is the consummate example. Here Fiorucci combines the highest standards of handcrafted production with a technological and productive infrastructure that is indispensable for competing in the international market. …All over the world, with Italian stile

CESARE FIORUCCI S.P.A. Viale Cesare Fiorucci, 11 Loc. Santa Palomba 00040 POMEZIA (Roma) Tel +39 06.911.931 info: informazioni@fioruccifood.it

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STORIE DI PROSECCO E DINTORNI… C

on la nascita del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG presentato ufficialmente al Vinitaly, si è dato il via libera alla nuova denominazione che interesserà il Prosecco storico dell’alta marca trevigiana Dopo 40 anni doc, il Prosecco diventa Docg e cambia nome, volendo rappresentare, nelle migliori intenzioni, la più esaltante espressione qualitativa con l’obiettivo d’un traguardo importantissimo, raggiunto grazie all’impegno delle istituzioni e alla volontà di tutti i produttori, come nelle affermazioni del presidente del Consorzio di tutela Franco Adami. Un obiettivo raggiunto grazie al ruolo decisivo svolto dall’allora Ministro delle Politiche Agricole e Forestali Zaia (visto che era lui a detenere tale dicastero).

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Tutto è partito con un importante piano di comunicazione che renderà obbligatorio l’uso del logo sulla fascetta di Stato, che contraddistingue i vini Docg, con una decisione pressoché unanime per i 160 spumantisti e gli oltre 3000 viticoltori dell’area interessata. Un territorio interamente collinare, con pendenze molto elevate, dove ogni operazione viene fatta a mano e dove si coltiva esclusivamente Prosecco da più di tre secoli, e proprio questi luoghi “difficili”, che in questi giorni sono candidati a Patrimonio Unesco per il proprio fascino, sono anche quelli che spesso danno la migliore espressione qualitativa. Tra Conegliano Valdobbiadene 15 comuni con molte sfumature, che con il nuovo Disciplinare saranno indicate con il termine Rive, che nel gergo locale


indicano i vigneti più belli e soleggiati. Un patrimonio che ammonta nel 2008 a 57.434.000 bottiglie e un giro d’affari di 370 milioni di euro, con un successo che, da tempo, ha superato i confini nazionali. Ma come spesso accade, quando c’è successo vi sono anche le imitazioni, per questo la riserva del nome Prosecco ai soli vini doc, e la scelta di passare a Docg per l’area storica, rappresentava una rivoluzione per molti versi necessaria. Se infatti nel 1969, all’ottenimento della doc, il vitigno si coltivava esclusivamente nei quindici comuni situati tra le cittadine di Conegliano e Valdobbiadene, negli ultimi decenni, grazie alle caratteristiche intrinseche del prodotto e alle capacità delle aziende, è divenuto un fenomeno di successo e la sua coltivazione si è via via allargata prima alla provincia di Treviso, poi a quelle limitrofe. E, grazie alla volontà di tutti i produttori delle aree in cui già si produce il prosecco igt e delle istituzioni, è stato possibile dare a questo vitigno un’identità territoriale definita nella nuova doc, che si colloca nel Nord Est d’Italia. Il vitigno, infatti, si chiamerà glera. E evidente che la DOCG diventerà per la Regione Veneto una forma di promozione dell’intero territorio, perché la sinergia tra prodotto e area è divenuto un tema centrale nella comunicazione istituzionale, come dimostrato recentemente alla Borsa Internazionale del Turismo, di Milano, consentendo alla Regione di farsi conoscere nel mondo e presentandosi a livello internazionale nel modo migliore, attraverso le eccellenze in termini di tecnica, ricerca, cultura e

più in uso negli Stati Uniti) è vincente perché adatto ad ogni tipo di consumo e di consumatore, ma deve essere tutelato poiché “noi stiamo lavorando la terra che i nostri figli ci hanno prestato” e i produttori di Conegliano Valdobbiadene hanno il dovere di proteggere il patrimonio attuale e costruire valore per le generazione future, ed evitando il rischio di bana-

lizzare un nome che rappresenta una ricchezza territoriale. E vanno soprattutto evitati ed osteggiati, con le dovute norme legali a disposizione oltre che tramite una massiccia e corretta campagna di comunicazione, che sia ancora acquistabile in qualche supermercato (per esempio tedesco, ma non solo) un Prosecco a 1,40€. Il Millesimato

Oggi sono 9 le province che, di diritto, faranno parte della doc e saranno così sottoposte a regole certe per garantire il consumatore, ed al di fuori di quest’area, non si potrà più produrre un vino con nome Prosecco. qualità. Per altro è noto come a livello mondiale il Prosecco (il cui termine è entrato recentemente nella nuova edizione del prestigioso Merriam - Webster’s Collegiate Dictionary ove sono inserite solo le 100 parole straniere

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Andiamo verso una terza Venezia? Mauro Riotto

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l Veneto è una delle due regioni d`Italia i cui abitanti sono riconosciuti ufficialmente come popolo dal Parlamento Italiano. Ma questo limite geografico e amministrativo è restrittivo rispetto alla realtà d’una identità veneta che affonda le sue radici in epoche antichissime, anteriori alle conquiste romane, dalla civiltà dei Veneti Antichi (o Venetkens), che durò più di 1.000 anni. Un popolo già allora con una propria lingua - il venetico - e famosi come fra i più grandi allevatori di cavalli del tempo e grandi commercianti di ambra. Non a caso il popolo veneto è uno dei pochi della penisola italiana a vantare un continuum dagli albori della storia, se non della preistoria. Si ha notizia dei primi Veneti insediati nel nord est della penisola, ma in un areale molto più vasto dell’attuale, fin da IX secolo a.C. stando ai rinvenimenti archeologici, dalle situle - vasi funerari in bronzo - ai reperti venetici trovati anche in Slovenia, Istria, nell’attuale Austria - Corinzia, fino ad Adria. Le teorie sulle loro origini sono contrastanti, ma si inizia ad accettare l’idea (vedi Pallottino, Devoto e altri studiosi) che essi provenissero dal mar Baltico, o comunque dal centro Europa, e che siano giunti nella penisola commerciando l’ambra di quelle zone. Attorno al II secolo a.C. iniziò la cosiddetta fase della “romanizzazione”: i veneti non furono mai conquistati dai romani ma ne divennero alleati, accettando di diventare parte integrante del mondo romano. Sotto l’imperatore Augusto le terre venete divennero la “Decima Regio - Venetia et Histria”,

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(la prima Venetia) parte integrante dell’Impero Romano, che riconosceva quindi a questa zona un unico connotato culturale. La caduta dell’impero romano mise il seme della nascita di Venezia, che portò avanti l’eredità dei padri antichi, nella legge (vedi il “diritto veneto”, che era peculiare e diverso dal “diritto romano”, essendo diverse le fonti e le origini) e nelle tradizioni, dando vita nel contempo ad una nuova civiltà veneta, ammirata e rispettata in tutto il mondo. Fu così che i Veneti profughi dall’entroterra fondarono la capitale in laguna. Venezia, la “città dei Veneti”, per un breve periodo iniziale subì l’inf luenza bizantina, anche se con tutta l’autonomia che le derivava dai suoi nascenti commerci e dalla sua nascente f lotta, destinata un giorno a dominare l’intero Mediterraneo. Per secoli la Serenissima Repubblica Veneta (la più longeva Repubblica al mondo, per più di 1.100 anni) costituì un modello di Stato parlamentare e federale unico al mondo, a cui si ispirarono fra gli altri anche i padri fondatori degli Stati Uniti d’America. I popoli ad essa annessi lo fecero di loro spontanea volontà, ed il termine di “Dominante” che spettava alla capitale è senz’altro fuorviante, se preso nell’accezione moderna, poiché in realtà tra i popoli (diversissimi tra loro) governati e Venezia, ci fu soprattutto un vincolo di affetto filiale, nel loro sentimento, e paterno, nel sentimento di chi li governava. Qualcosa che si interruppe il 27 agosto 1797 quando il “Capitan de le Guardie” Giuseppe Viscovich seppellì

sotto l’altar maggiore del Duomo la bandiera veneta, pronunciando un discorso di grande amor patrio. La perdita dell’indipendenza segnò per i Veneti l’inizio di una discesa terribile, fatta di stenti, fame e miseria, condizione che si trascinò fino agli anni ‘50, costringendo metà della popolazione ad emigrare in tutto il mondo. Con il 1970, si formò la Regione del Veneto come forma di autogoverno, ridotta però a dimensioni minime, privata del Friuli, della Venezia Giulia, e delle genti venete del trentino che sarebbe stato logico accorpare in una macroregione per motivi storici, di cultura uniforme e di lingua (tranne che per il Friuli). Grazie alla loro proverbiale dedizione al lavoro e al senso di sacrificio che da sempre li caratterizza, i Veneti hanno così potuto rimettere in piedi da quel momento la propria economia, tanto da creare un vero e proprio modello industriale e di sviluppo: nasceva così il “fenomeno Nordest”, da molti chiamato anche “la locomotiva d’Italia”. Ma la prima fonte economica per il Veneto, prima regione italiana per f lussi turistici è senza dubbio il turismo. Fra gli altri primati, i veneti sono primi o ai primissimi posti per solidarietà, per donazione organi e sangue, per riciclo delle immondizie, per accoglienza verso gli stranieri, e con un’agricoltura che in parte ha perduto l’abbondanza del passato, ma può sempre contare sulla fertilità della pianura veneta. Dunque, riguardando a tutto il magnifico percorso storico e di civiltà, a buon titolo si può ben dire che forse si sta andando verso una terza Venezia…


Storie lontane: Il Biancomangiare e la cucina medioevale I

l biancomangiare più che una specifica ricetta era una tipica preparazione medievale basata sulle presunte qualità del colore bianco, simbolo di purezza e ascetismo che in quei tempi aveva grande valore. Del resto i colori avevano grande importanza nella composizione del cibo medievale, e per un piatto serviva del bianco si abbinava riso, mandorle o carne di pollo, se invece si voleva il giallo usavano tuorli d’uovo e zafferano. Come per le salse che non avevano lo scopo di nutrire ma di ravvivare o correggere il gusto delle vivande, e venivano preparate di svariati colori e servite in diverse ciotole, le une accanto alle altre, in modo che il commensale sceglieva la salsa più in base al colore manifesto che al sapore presunto. Anche se la gamma dei colori tratti da ingredienti base di cucina era troppo povera, e per la composizione di vivande d’effetto, i cuochi “artisti” non disdegnavano l’uso di coloranti “artificiali”. Il biancomangiare era tuttavia un cibo comunque destinato alle classi superiori, e che prendeva il nome dal colore degli ingredienti prevalenti nella sua elaborazione, come petto di pollo, latte o latte di mandorle, riso o farina di riso, zucchero, lardo, zenzero bianco, ecc. In certi paesi d’Europa il biancomangiare era un momento indispensabile del banchetto e veniva per lo più servito in scodelle, generalmente all’inizio del pranzo, soprattutto in Italia. E come regola generale in biancomangiare era un cibo poco speziato e dunque è per questo i medici lo prescrivevano spesso alle persone malate, anche se va detto che in alcune ricette altri lo insaporivano con spezie. Si pensa ad una origine in Francia per la frequente presenza negli an-

In certi paesi d’Europa il biancomangiare era un momento indispensabile del banchetto e veniva per lo più servito in scodelle, generalmente all’ inizio del pranzo, soprattutto in Italia.

tichi ricettari di termini come blanche mangieri, balmagier, bramagére, e poi diffusosi in Italia intorno all’XI° secolo, ove viene nominato per la prima volta fra

i piatti del celebre banchetto organizzato da Matilde di Canossa per la riappacificazione fra il Papa e l’Imperatore. Ma famosa è la chiara menzione nel “Liber de coquina” del XIV sec, primo ricettario in volgare, in cui il biancomangiare risulta confezionato con petti di pollo cotti e tagliati a filetti, farina di riso stemperata in latte di capra o di mandorle, il tutto messo a bollire a fuoco lento con zucchero in polvere e lardo bianco sciolto, finche acquisti una certa densità. Nel ‘400 Mastro Martino suggerisce una confezione più elaborata e delicata, con l’eliminazione del lardo

e l’introduzione di brodo di cappone, mollica di pane bianco, acqua rosata, agresto e zenzero., e così via con altre varianti che si incontrano nei ricettari del Messisbugo, dello Scappi, fino a quelli seicenteschi, in particolare dello Stefani, ove si deduce che il biancomangiare era concepito come minestra, secondo piatto o salsa da versare su carni soprattutto lessate. Mentre la ricetta contemporanea più nota fu proposta da Careme che elaborò sostanzialmente una gelatina fatta con

latte di mandorle dolcificato. Ed oggi il biancomangiare è una preparazione dolce e delicata, curiosamente tipica di due regioni italiane benché tanto lontane tra loro: la Valle d’Aosta e la Sicilia. In Valle d’Aosta prende il nome di Blanc Manger e si prepara in due versioni, la prima fatta con latte di mandorle e la seconda più elaborata che utilizza latte di mucca. In Sicilia invece è una crema preparata con mandorle tritate, zucchero, amido, buccia di limone, cannella, e messa a raffreddare in forme di terracotta. lo storico

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Il tè, storie, leggende e convivialità Bruno Sganga e Stefania Bastoni

enza ombra di dubbio si può affermare che il tè, dopo l’acqua, è ormai la bevanda più diffusa nel mondo e nel corso degli ultimi tre millenni è entrato a far parte del patrimonio sacro e profano di tantissimi paesi. La parola “tè” deriva dalla resa tê (pronuncia tei) del carattere cinese nel dialetto min meridionale diffuso nel sud del Fujian e a Taiwan. Secondo i cinesi il merito della sua scoperta va attribuito a un loro remotissimo imperatore, Shen Nung, di cui si dice che avesse testa d’uomo e corpo di serpente e che era venerato dal popolo come Divino Agricoltore. Shen Nung era spesso in viaggio e durante le sue peregrinazioni si ristorava con acqua messa a riscaldare sul fuoco. Un giorno, nel 2737 a.C., mentre l’acqua era sul fuoco, alcune foglie staccatesi dall’albero sovrastante caddero nel recipiente: il liquido si fece all’istante di colore giallo oro, e diffuse intorno una dolce fragranza. L’imperatore bevve l’infuso e dichiarò che esso dava “vigore del corpo, felicità della mente e determinazione degli scopi”. Più realisticamente, sembra che in Cina il consumo del tè come bevanda risalga al 700/800 a.C.; dapprima raccolto dalle piante spontanee e solo verso il 600 d.C. oggetto di coltivazione specializzata, che si diffuse in principio solo sotto gli imperatori cinesi, come durante la dinastia T’ang (618-907 d.C.) quando la cultura del tè conobbe un periodo di grande progresso. Ma la più importante fu la pubblicazione del Chajing (a opera del poeta e filosofo Lu Yu), la sacra scrittura del tè. Un libro divenuto famoso in breve tempo che descrive sia la pianta del tè da un punto di vista naturale, che la scelta delle foglie da effettuare durante la raccolta, oltre la preparazione dell’infuso del tè e quindi tutta la cerimonia che accompagna la preparazione e la degustazione di questa bevanda. Secondo Lu Yu, i tè di qualità superiore “hanno tante pieghe e sono flessibili come il cuoio degli stivali dei cavalieri tartari, il loro profumo è leggero come la nebbia che sale lentamente da un burrone solita-

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rio, rilucenti come un lago accarezzato da un soffio di vento, umidi e molli come la terra friabile, quando raccoglie la pioggia sottile di primavera”. Per altro va detto che in Cina, sotto la dinastia Sung, il tè gioca un ruolo preponderante nella civiltà cinese, come una parte del tesoro imperiale ed usato come moneta di scambio o quale mezzo di pagamento per i cavalli acquistati presso le popolazioni mongole

Per altro va detto che in Cina, sotto la dinastia Sung, il tè gioca un ruolo preponderante nella civiltà cinese, come una parte del tesoro imperiale ed usato come moneta di scambio .... del nord, con un vero e proprio monopolio di Stato. In questo periodo si ha la nascita di un nuovo modo di preparare e bere il tè. Infatti le foglie vengono pestate fino a ridurle in polvere finissima; questa verrà messa in una ciotola e, con l’aggiunta di acqua calda, sbattuta con un frustino di bambù fino a farla schiumare. Il tutto accompagnato da un rituale molto preciso che oggi sopravvive solo in Giappone nella Cerimonia del tè (Cha no yu). Ma l’invasione mongola e l’avvento della dinastia Ming, nel XIII secolo, faranno scomparire completamente anche il ricordo di questa tecnica, e le foglie, adesso, vengono fatte essiccare e poi lasciate pochi minuti in infusione in acqua non bollente. In Cina il tè di prima qualità è coltivato in numerose regioni: se ne producono diverse varietà, ma circa l’80% è tè verde ed è realizzato soprattutto per il mercato interno. L’esportazione è cresciuta molto, i mercati più interessanti sono USA, Polonia, Tunisia, Marocco, Hong Kong, Inghilterra. Mentre in Giappone il tè sembra introdotto nell’800 d.C. a opera di alcuni sacerdoti buddisti, che di ritorno dalla Cina portarono con sé questa bevanda. Una conoscenza che si diffuse inizialmente in modo assai lento e solo a partire dal 1200 conobbe uno sviluppo più rapido, tanto da diventare una bevanda di uso comune e popolare, soprattutto grazie all’introduzione di nuove sementi. Ed è di questo periodo (1211) la pubblicazione ad opera del monaco Eisai Myoan, del libro “Mantenersi in salute bevendo il tè”, dove si sottolineano gli effetti benefici di questa bevanda. “Il tè è una medicina miracolosa per la buona salute. Ha lo straordinario potere di prolungare la vita, tanto che ovunque si coltivi il tè la vita

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è più lunga”. Da questo passo è evidente come fin dall’antichità il tè fosse stimato quale potente e benefico elisir medicinale. Attualmente in Giappone si produce prevalentemente tè verde, tra cui il Gyokuro, considerato il più pregiato, il Tencha, utilizzato per fare il tè Matcha in polvere, il Sencha, il tè più comune bevuto quotidianamente e il Bancha, varietà meno pregiata di Sencha. La prima popolazione europea a conoscere il tè fu quella dei Portoghesi, che nel XVI° secolo esplorarono il Giappone. Solo il secolo successivo fu importato in Europa dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali e fu subito un grande successo. Ma non si sa con certezza se siano stati i portoghesi o gli olandesi i primi a portare il tè in Europa. Certo è che divenne popolare in Francia ed in Olanda, per poi diffondersi anche in Gran Bretagna, di cui oggi è diventato il simbolo per eccellenza. In Russia tuttavia il tè era già noto nel 1567, importato dalle carovane provenienti dalla Cina, tanto che per la sua degustazione fu creata una preparazione del tutto originale con l’utilizzo del samovar. Mentre gli Inglesi, i più noti bevitori di tè del mondo, furono tuttavia gli ultimi ad apprezzarlo. La sua introduzione sembra sia dovuta a Caterina di Braganza, consorte del re Carlo II, la quale, abituata a bere tè in Portogallo, gradiva offrirlo durante le feste di corte. E la popolarità del tè crebbe a tal punto che, nella prima metà del Settecento, sorsero delle coffee-house riservate ai soli uomini, ed i tea-garden, dove signore eleganti con i loro accompagnatori trascorrevano i pomeriggi primaverili sorseggiando una buona tazza di tè. Anche se nei primi tempi della sua diffusione in Europa, si ebbero accese discussioni riguardo ai possibili benefici del tè sulla salute, tanto che per porre fine alla questione il re Gustavo III (1746-1792) ordinò che a due condannati alla pena capitale fossero date da bere ogni giorno rispettivamente 30 tazze di tè e 30 tazze di caffè. Fu così che due eminenti professori avrebbero dovuto sovrintendere all’esperimento, giudicandone lo stato di salute. Ma i risultati non furono molto chiari, infatti ben presto i due professori morirono e il re venne assassinato. Pare comunque che i prigionieri siano felicemente vissuti fino a tarda età…. In America il tè sbarcò nel 1626, quando gli Olandesi fondarono Nuova Amsterdam, l’odierna New York, mentre nel 1800 anche la Russia caucasica intraprese la coltivazione del tè, seguita agli inizi del

1900 anche dalla Turchia, dall’Iran e da altri paesi medio orientali. Per gli Indiani invece a scoprire il tè fu Bodhidarma figlio del re delle Indie Kosjuwo (leggenda diversamente interpretata dai buddhisti giapponesi). Sotto il regno dell’Imperatore Xuanwudi, questo venerabile principe venne in Cina per raggiungere il regno Wei del Nord. Predicò il buddismo e raccomandò la meditazione, la cultura dello spirito e il superamento di tutte le illusioni materiali per la salute dell’anima. Bodhidarma aveva fatto voto di non dormire durante i sette anni della sua meditazione, ma dopo i primi cinque anni fu assalito dal torpore e dalla sonnolenza e quasi istintivamente raccolse delle foglie da un cespuglio vicino e masticandole recuperò le forze e riuscì a concentrarsi di nuovo. Ovviamente si trattava di tè! Va detto che oggi l’India è uno dei più importanti produttori di tè, con circa 13.000 piantagioni e fornisce circa il 30% del tè nero di tutto


il mondo. Le specialità sono il Darjeeling, l’Assam e il Nilgiri che sono esportate soprattutto in Iran, Polonia, Egitto e Inghilterra e la maggior parte della sua produzione interessa il tè nero. L’ingresso del tè in Italia sembra avvenuto ad opera dei bersaglieri reduci dalla guerra in Crimea nel 1855, con un aneddoto che ebbe come protagonista il generale Lamarmora. Un giorno, entrato in una locanda, chiese che gli venisse preparato del tè e consegnò a questo scopo delle foglie alla cameriera. La donna portò però a tavola della carne con del pane e del vino, temendo che quelle poche foglie, da lei condite come un’insalata, non potessero saziare l’affamato generale. Il tè ha la caratteristica d’essere una pianta sempreverde, con piccoli boccioli bianchi che somigliano a roselline, ma sembra che nel Sichuan e nello Yunnan si trovino ancora molti di alberi da tè che s’innalzano oltre i 12 metri. Infatti quando le piante da tè cresco-

no senza cure possono raggiungere anche i 10 metri ed è per mantenerle ad un’altezza utile alla raccolta che i piantatori le potano a 60 o 90 cm. Il tè (scritto anche te, o, con uso improprio del termine francese, thè o the) è una bevanda consistente in un infuso o decotto ricavato dalle foglie (a volte miscelate con spezie, erbe o essenze) di una pianta legnosa, la Camellia sinesi, e dal sapore leggermente amaro ed astringente. I sei tipi base di tè sono: il tè nero, il tè verde, il tè oolong, il tè bianco, il tè giallo ed il tè post-fermentato. Tutte le diverse varietà derivano dalle foglie della medesima pianta, ma sono create attraverso trattamenti differenti e presentano diversi gradi di ossidazione (comunemente chiamata “fermentazione”). I tè neri sono tè “fermentati”, i verdi sono tè “non fermentati” e gli oolong sono “semifermentati”. Una volta essiccato il tè può essere ulteriormente lavorato per dare vita a: tè aromatizzato, il tè pressato e tè decaffei-

nato (deteinato). Il primo a descrivere la pianta del tè fu il botanico svedese Carl von Linne (Linneo) nel 1753 che la chiamò Thea Sinensis, cioè Tè Cinese. Linneo era erroneamente convinto che il tè verde e il tè nero provenissero da due piante differenti mentre si sa che non ci sono tante varietà di piante quante sono le varietà di tè commercializzate. Queste ultime sono il frutto di differenze relative alle zone di crescita, al suolo e alle condizioni climatiche, al metodo di lavorazione e al periodo o al tipo di raccolta. La maggior parte dei coltivatori utilizza solo tre tra le specie di piante che vengono individuate sulla base della loro provenienza geografica: Cinese, Assamica e Cambogiana. Ed oggi il tè oggi in commercio cresce in una cintura che circonda la terra al di sopra dell’Equatore. I giardini migliori sono quelli che si trovano ad altezze inferiori ai 1800 metri, con l’altezza e le nebbie montane che aiutano la pianta proteggendola contro

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l’eccessiva esposizione al sole e creando le condizioni ideali di umidità e temperatura per favorire la crescita lenta delle foglie e dei germogli, conservandone la loro tenerezza. Molti dei più rinomati tè cinesi provengono dalle famose montagne Wuyi nel Fujian, Lushan nello Jiangxi, Emei nello Sichuan e Huangshan nell’Anhui. Attualmente nel mondo si producono ogni anno oltre 30milioni di quintali di tè e la maggior parte di questa cifra enorme (ma di gran lunga inferiore alla produzione di caffé) proviene dall’Asia. I maggiori produttori sono l’India e la Cina, seguono poi Sri Lanka, Kenya e Indonesia. Fra gli altri paesi produttori di tè: Camerun, Malawi, Sud Africa, Tanzania. Anche l’Europa vanta (anche se la coltiva-

zione potrebbe essere ormai sospesa) una piccolissima produzione di tè nelle Isole Azzorre e una ancora più interessante in Italia (in Lucchesia prodotto da Guido Cattolica nella sua piantagione dell’Antica Chiusa Borrini che con molto successo concorre in degustazioni anche a carattere internazionale). Generalmente le piante di tè sono prodotte da semi della grandezza di una nocciola, raccolti in ottobre e tenuti tutto l’inverno in una mistura di sabbia e terra. Le foglie sono raccolte stagionalmente quando i giovani getti o germogli stanno venendo

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fuori, e le parti scelte per la raccolta fine sono le ultime 2 foglie e la gemma apicale, mentre per la preparazione di tè corrente si raccolgono anche le quarta e la quinta foglia. Esse vengono staccate con le unghie e con un movimento verso il basso delle dita. La raccolta manuale rimane una delle operazioni più importanti che non è stata ancora sostituita con successo da quella meccanica. È anche vero che se la raccolta è ancora manuale e viene fatta da dita espertissime questi giardini sono altresì altamente meccanizzati in altri campi, quali ad esempio l’irrigazione automatica. In ogni caso va specificato che la bevanda che noi chiamiamo tè è un infuso: si ottiene cioè lasciando le foglie di tè a bagno in acqua calda (o bollente) per un periodo di tempo variabile, generalmente da 2 a 7 minuti. L’infusione è il metodo ideale per trattare parti delicate di una pianta e ricavarne grandi quantità di principi attivi, con un’alterazione minima della loro struttura chimica e un elevato mantenimento delle proprietà originali. Ma il tè non è sempre stato un infuso e le tecniche di preparazione sono ancora oggi molto diverse: basti pensare alla “Cerimonia del Tè” in Giappone o a come si prepara il tè in India. Cha no yu Cerimonia è dunque la cerimonia giapponese del tè, una delle arti tradizionali zen più note “Il cuore della Cerimonia del tè consiste nel preparare una deliziosa tazza di tè; disporre il carbone in modo che riscaldi l’acqua; sistemare i fiori come fossero nel giardino; in estate proporre il freddo; in inverno il caldo; fare tutto prima del tempo; preparare per la pioggia; e dare a coloro con cui ti trovi ogni considerazione” Mentre per la cerimonia cinese del tè un antico detto cinese recita: l’acqua è la madre del tè, la teiera suo padre ed il fuoco il suo maestro. Di sicuro oggi, il tè non è più soltanto una bevanda dissetante, ruolo principale che ha ricoperto fin dalla sua scoperta ma, cosa più importante, permette di soddisfare alcuni bisogni spirituali, di offrire la propria amicizia e di esprimere sentimenti personali, in un misto tra relax, convivialità e contemplazione, come un umile, ma straordinario potere di una bevanda gentile. Circa gli effetti della bevanda, dipendono dal tipo di tè e dalle modalità di infusione (temperatura e durata). Un’infusione breve (circa 2 minuti) estrae dalle foglie di tè soprattutto caffeina ed ha proprietà stimolanti. Un’infusione più lunga (3-5 minuti) estrae anche acido tannico, che disattiva la caffeina perché si combina

con essa, attenuando l’effetto stimolante, oltre a rendere amaro il sapore del tè. E va pure aggiunto che il tè è anche una pianta completamente e interamente riciclabile, ed è un errore gettarla nel lavello il tè che avanza, o le foglie usate nella spazzatura. Si può riciclare tutto. Infatti, il tè verde è ottimo per assorbire gli odori sgradevoli, è ricco di azoto per alimentare le piante in giardino (le felci impazziscono per il tè !) e scaccia persino insetti e animali nocivi. Poi, le foglie di tè verde usate sono fantastiche per la lettiera del gatto, perchè aiutano a disperdere gli odori e ad allontanare le pulci da cani e gatti, e se collocate in una piccola ciotola senza coperchio e posta in frigo, assorbe l’odore di cipolla e aglio per tre giorni. Buono anche per togliere dalle mani l’odore di pesce o tritando l’aglio, strofinando le foglie di tè verde bagnate come un deodorante immediato. E per chi possiede moquette o tappeti, con il tè potete ravvivarne i colori e pulirli facilmente, spargendo foglie secche di tè verde sull’ intera superficie, strofinando delicatamente e spazzolandole via con cura. Si passa poi l’aspirapolvere come d’uso e i tappeti appariranno più puliti con un odore più fresco. Mentre i tè neri vengono usati da molto tempo in televisione e in teatro per smorzare indumenti bianchi o per creare tessuti dall’aspetto antico, donando un color salvia pastello a qualunque tessuto bianco o écru (consigli, informazioni e ricette sul tè verde, contenuti in “Il libro del tè verde di Diana Rosen - Edizioni Il Punto d’Incontro”). Infine c’è da chiedersi sull’abbinamento tra tè e cibi o pietanze varie, per cui si puà ben definire che per la Colazione continentale (pane, marmellata, formaggio, etc.) ben si adattano Yunnan, Ceylon, Assam, Kenya, Darjeeling; per quella all’inglese (fritti, uova, prosciutto, pancetta, etc.) i Ceylon, Kenya, Assam, Lapsang Souchong. Per ìcibi salati leggeri lo Yunnan, Ceylon, Assam, Lapsang Souchong, Darjeeling, te’ verdi, oolong , per quelli piccanti i Keemun, Ceylon, Jasmine, Lapsang Souchong, te’ verdi, oolong . Per i formaggi saporiti, Lapsang Souchong, te’ verdi, Earl Grey, mentre per il pesce Oolong, te’ affumicati, Earl Grey, Darjeeling, te’ verdi . Per carne e selvaggina, Earl Grey, Kenya, Jasmine, Lapsang Souchong, per il pollame Lapsang Souchong, Darjeeling, oolong, Jasmine; Per quanto attiene il famosissimo te’ del pomeriggio vanno bene tutti I tipi, mentre per il dopo il pasto i te’ bianco e verde, Keemun, Darjeeling ed oolong.



Gusto, armonia e semplicità venete all’Antica Osteria di Solighetto C

’è un modo schietto, semplice e determinato con cui superare questa congiuntura nel mondo della ristorazione? Bene per avere risposte altrettanto chiare ed elementari basta recarsi nelle colline trevigiane a Solighetto per comprendere come la genuinità coniugata con un autentico rispetto delle tradizioni più genuine sono la risposta vincente insieme al buon senso d’una offerta mai sopra le righe. È così che Giovanni, un’esperienza lunga una vita, esprime con la sua famiglia (in cucina sorella e giovane figlio cuoco) l’arte della ristorazione, fatta di prodotti, cucina, ma anche di accoglienza, rigore senza noiosa seriosità ma con una simpatia informale. E dopo avere soddisfatto i palati più fini, nazionali ed internazionali, ora nella sua locanda continua ad esercitare la sua arte ogni giorno, per ogni singolo ospite, nella sua confortevole e piacevole “Antica Osteria di via Brandolini”. Un locale, in una scenografia molto curata, una sosta gustosa ed obbligata, nella bellissima atmosfera delle morbide e sinuose colline trevigiane e con prezzi più che onesti tenendo conto del livello di ogni pietanza. Parliamo d’una cucina veneta nella sua espressione più vera, da lauti antipasti a risotti gustosissimi, dalle paste di casa alla “Poenta e pit de casada in tecia” (polenta e pollo ruspante),

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sino alla faraona o coniglio cucinati con grande maestria, senza fronzoli esasperati od interpretazione innovate, al pari di verdure ed erbette spontanee sempre fortemente stagionali. Ogni piatto in tavola è accompagnato da sorrisi non formali, come per i dolci da credenza, le crostate di zia Lina o le meringhe gustosissime, ed il tutto condito da ottimo Prosecco insieme ad una buona scelta di vini soprattutto locali. Qualcosa di speciale, in uno dei paesini più affascinanti della Marca

Trevigiana dove, Giovanni rispetta quell’antica armonia delle vecchie trattorie.

Antica Osteria Via Brandolini via Brando Brandolini 35 Solighetto Pieve Di Soligo tel. 0438/82590


Una grappa è una grappa! Bruno Stefanat

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l gusto italiano non è tutelato dall’Unesco, né dal W WF, Fai o da una delle benemerite istituzioni che cercano di arginare la scomparsa di specie animali e vegetali, o la distruzione di opere d’arte. Tuttavia ha lo stesso diritto di sopravvivenza di una chiesa rupestre di Matera o della tigre bianca siberiana. Il gusto, patrimonio immateriale e difficilmente difendibile, corre un ulteriore rischio, perché quello della contaminazione è una sorte assai peggiore dell’annientamento. Un monumento contaminato, o come dicono gli ottusi responsabili di alcune tragiche tipologie di restauro oggi in voga, riqualificato, è da una parte, un monumento scomparso, e, dall’altra parte, un’opera d’arte oltraggiata dall’uomo, per interesse personale o -peggio- per ignoranza. Il “Parmesan” ormai prodotto in vari paesi del mondo fa rabbrividire, perché non è soltanto un triste tentativo di arricchirsi replicando un gusto inimitabile, ma rappresenta la distruzione di quel gusto, con annesso oltraggio a chi ha impiegato secoli per raggiungere una simile eccellenza e, quindi, all’Italia ed agli italiani. La contaminazione od adulterazione o, per i più colti, la riqualificazione, ha coinvolto da tempo anche la grappa: grappe torbate, caramellate, mielate o conciate con qualsivoglia additivo, hanno proliferato qua e là, finen-

La contaminazione od adulterazione o, per i più colti, la riqualificazione, ha coinvolto da tempo anche la grappa....

do per assomigliare a rhum, cognac, whiskey, calvados, tequila, ecc. Lo scopo? Internazionalizzare od ammodernare la grappa, cioè renderla vendibile alle Barbados o a Cape Town. Qualcun altro ha pensato che, abbassando molto od eliminando la gradazione alcolica, la pseudo-grappa sarebbe stata gradita nel corso degli happy hours od all’ombra dei minareti. I più bravi nell’escogitare pretesti si appellano alla salvezza dei punti patente e della gioventù, e diffondono bottiglie dal sapore di vodka sui 4-5° con annesso etilometro usa e getta. Sapore, appunto, e non gusto : sarà nota la differenza , anche linguistica? E’ bene ricordare che mentre è corretto dire “sapore cattivo”, non è affatto corretta l’espressione “gusto cattivo”. Cattivo gusto è un’altra cosa: è quello, poniamo un esempio a caso, dei produttori di grappe tarocche. Il gusto non è mai cattivo, tanto meno quello italiano: semplicemente è o non è. A proposito: sarà buon gusto quello

di chi costringe mediocri grappe entro confezioni magnifiche bottiglie di finto vetro di Murano con ippocampi, monete da un euro o alberetti di Natale che galleggiano nel liquido? Mah! Due citazioni di grandi scrittori potranno sciogliere ogni fdubbio. Parafrasando il celebre “una rosa è una rosa una rosa una rosa” di Gertrude Stein, una grappa altro non è che “una grappa una grappa una grappa”. Tutto il resto richiama la definizione di kitsch di Gillo Dorf les, grande artista ed esteta, oggi centenario: “ si può definire kitsch tutto ciò che vuol sembrare quello che non è”.

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Vigne e Castelli “L

a Capraia”, perla dell’arcipelago toscano, isola vulcanica a ridosso della Corsica, raggiungibile da Livorno con traghetto giornaliero e meta degli amanti della vela e dai sub di mezza Europa. Nelle sue acque cristalline scorazzano cetacei e delfini protetti dalla rigide norme di salvaguardia del Parco Marino. La sua storia si perde nelle notti dei tempi e i vari popoli che l’hanno colonizzata hanno lasciato segni tangibili della loro presenza (Fenici, Romani, Genovesi). Oggetto di aspre contese e rivendicazioni con l’unità d’Italia è stata trasformata in colonia penale come la vicina Gorgona. Da circa vent’anni è stata dismessa l’attività carceraria e un lungo contenzioso tra il Comune e lo Stato ha provocato il degrado della struttura ricettiva della colonia oggi preda di vandali e dell’incuria. Da circa tre anni è in corso un’opera titanica per il recupero della fortezza genovese “San Giorgio” già di proprietà della Banca di Santo Spirito ad opera di alcuni imprenditori. Il mo-

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numento, che con la sua mole sovrasta il piccolo borgo marinaro, stava crollando. Una proficua collaborazione tra l’Amministrazione Comunale, la Soprintendenza di Pisa e i privati, hanno permesso la salvezza del monumento e della rupe su cui sorge già oggetto di devastanti crolli. I lavori di restauro e gli scavi archeologici hanno permesso di ricostruire la storia del castello e le traversie di cui è stata vittima, la più devastante delle quali, è l’incendio ad opera di pirati saraceni nel 16° secolo che ha semidistrutto la piazzaforte. L’intervento del Banca di Santo Spirito che lo usava per il controllo e la protezione del traffico marittimo, lo ha salvato dalla completa rovina. Gli scavi archeologici condotti con il controllo della Soprintendenza archeologica di Pisa e con l’aiuto di tecnici dell’Università hanno permesso di riportare alla luce importanti reperti ceramici che vanno dall’età del bronzo fino al 18° secolo. Attualmente le opere di restauro sono

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La rupe durante i lavori di restauro Ritrovamento durante gli scavi archeologici Dettaglio dei bastioni Le nuove vigne di Capraia Tinaie per la pigiatura dell’uva ricavate nella roccia 6 - Antico Porto di approdo delle navi genovesi 7 - Reperti dai sepolcreti 8 - La rupe a strapiombo sul mare


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Nelle sue acque cristalline scorazzano cetacei e delfini protetti dalla rigide norme di salvaguardia del Parco Marino. 6 avviate alla conclusione con soddisfazione delle Autorità comunali e di tutta le popolazione che vede nel recupero della fortezza l’avvio di un progetto per il recupero di tutte le strutture dell’isola. Altro intervento importante è il recupero dei vecchi orti, ormai invasi dalla macchia mediterranea dopo anni di abbandono vicino all’antichissima chiesa di S. Lorenzo. L’impegno instancabile di un giovane agricoltore ha permesso di valorizzare gli orti con l’impianto di vigneti di aleatico il cui prodotto è acquistabile nello spaccio vicino alle banchine del porto. I vigneti meritano da soli la visita alla “Capraia”. I visitatori possono ammirare, oltre ai vigneti, al recupero delle antiche opere idrauliche e della rupe, il fantastico panorama sulla cala del ceppo.

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Alla scoperta dell’arte del Gusto Italiano

Il grande pittore impressionista veneto Fausto Zonaro N

on c’è ombra di dubbio che il cognome Zonaro appartiene al territorio veneto, fra le province di Padova e Rovigo. Un cognome che sino a ieri, alla nostra gente, non evocava un granchè. Manco a immaginarsi che questo cognome fosse riconducibile a qualche personaggio di straordinarie capacità artistiche, conosciuto per lo più all’estero che in italia! Legando il nome e, approfondendo la ricerca, si scopre che Fausto Zonaro è nato a masi (Padova) nel 1854 ed è stato un grandissimo impressionista e vedutista, contemporaneo dei conosciutissimi e supergettonati Cézanne, Manet, Van Gogh. Conosceva Monet e Boldini (aveva il suo atelier parigino nella stessa via del pittore ferrarese, al boulevard del clashhy), era amico dei grandi pittori

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veneti milesi, favretto, dall’oca bianca e dello scultore Duprè. Ma per chi vuole altre sensazioni su fausto Zonaro possiamo dare un corollario di suggestioni: che è nato povero in un paese di contadini, che andava a scuola con le scarpe a tracolla per risparmiare le suole, che da bambino era abbagliato dal dipingere i paesaggi e le sensazioni che questi davano, che ha conosciuto ed è stato a fianco di una donna, elisa pante, che – per amore – gli ha aperto le strade a un successo stratosferico viaggiando a quell’epoca da sola in cerca di committenti, che la stessa elisa diventa la prima donna fotografa d’Europa, che ha letto il libro “Costantinopoli” di Edmondo de Amicis e gli ha cambiato la vita andando a vivere nel Bosforo, che il sultano di Turchia vede le sue opere e lo scrittura a corte diventando il pittore ufficiale, che dopo la riv-

oluzione turca e la defenestrazione del sultano Abdulhamid ritorna in Italia, che muore a Sanremo – dove riceve la cittadinanza onoraria - nel 1929. Il comune di Monselice ha voluto rendere giustizia nel territorio allestendo l’importante mostra nel complesso museale di San Paolo dal titolo “fausto ed elisa Zonaro, due artisti veneti alla corte del sultano”. Il vice sindaco e assessore alla cultura Gianni Mamprin ha fortemente voluto questa mostra ingaggiando la fond’arte e il curatore Manlio Gaddi a realizzarla. “e’ l’inizio di una grande stagione culturale e artistica – sottolinea l’assessore Gianni Mamprin – il comune di Monselice è intenzionato a promuovere grandi mostre all’interno della splendida cornice del complesso museale San Paolo che siano anche di attrattiva turistica”. La mostra è stata inaugurata il 24 aprile scorso

con il “taglio del nastro” effettuato dal sindaco Francesco Lunghi, preceduta dal vernissage a cui hanno partecipato una quarantina di giornalisti della stampa specializzata provenienti da diverse regioni. Precedentemente l’evento era stato presentato al circolo della stampa di milano. Il catalogo della mostra dal titolo: fausto ed elisa Zonaro, due artisti veneti alla corte del sultano è stato curato da Carlo dal Pino, Pierpaolo Luderin e chiara costa. I tre critici dell’arte delle università di Padova e Venezia hanno lavorato sodo alla ricerca di documenti e dati del grande pittore, rivedendo la ricca bibliografia (ci sono molti testi in francese e turco). Sono circa 90 le opere esposte, provenienti da raccolte private dall’Italia e dalla Turchia e da enti pubblici. Maurizio Drago

UFFICIO DEI PROMOTORI FINANZIARI DI BASSANO DEL GRAPPA Via Bortolo Sacchi, 3 - 36061 BASSANO DEL GRAPPA (VI) Tel. 0424.568133 - Fax 0424.568181 - Cell. 339.4526722 email: laura.panizutti@bancamediolanum.it

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Tempo di ciliegie: irresistibili, deliziose, amate, incontrastate regine delle tavole La redazione

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ono come le ciliegie. Una tira l’altra”. Questo detto la dice lunga sulla bontà di questo frutto. Testimonianza della sua diffusione viene da molti autori greci e latini, che ci tramandarono dettagliate descrizioni dei diversi tipi esistenti all’epoca. Del ciliegio nel nostro paese ne parlò per primo Varrone, descrivendone dettagliatamente l’innesto e poi Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Attualmente coltivato in Europa, Asia, Australia, America, l’Italia rappresenta una delle maggiori produttrici di questo frutto, con moltissime varietà, diverse fra loro per dimensioni, gusto, colore. La fioritura del ciliegio avviene in primavera contemporaneamente alla comparsa delle foglie. Uno spettacolo della natura per la densità f loreale di colore bianco, che dona alla chioma degli alberi un fiabesco candore. Dai fiori, avvenuta la fecondazione, si formano le ciliegie, riunite anch’esse in grappoli, dal colore rosso, che a seconda della qualità, va dal rosso vivo al rosso cupo, quasi nero. Le ciliegie, oltre ad essere ricche di vitamine A-B1 e B, contengono anche proteine, zucchero, sali minerali di potassio, calcio, magnesio, ferro, fosforo, oltre ai principi disintossicanti e depurativi. Ricche di zuccheri, ma con un minimo apporto calorico: 38 calorie ogni 100 grammi, sono ideali per una dieta ipocalorica. Presentano un buon assortimento di acidi organici importanti per l’equilibrio acidobase del corpo e una discreta quantità in potassio, fondamentale nel controllo dell’ipertensione arteriosa. Purtroppo i frutti sono disponibili solo in un breve periodo dell’anno: da giugno a fine luglio e devono essere scelti con attenzione, sodi, privi di ammaccature e con un picciolo verde vivo e intenso. La migliore conservazione è in un luogo fresco e poco umido, mai in un sacchetto di plastica, ed oltre al tradizionale consumo, le ciliegie possono essere utilizzate per la produzione di marmellate, sciroppi, succhi, canditi e sorbetti. L’infusione distillata di questi frutti in alcol offre un liquore bianco

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dolce di antica tradizione: il maraschino, nato nei silenziosi conventi medievali. Prodotto quasi esclusivamente in Italia, rimane un ottimo liquore da dessert, anche se usato prevalentemente in pasticceria. Numerosi sono i liquori a base di ciliegie e tra cui il Kirsch e lo Cherry. In Veneto, una delle regioni italiane con la maggiore produzione di ciliegie,

Le ciliegie, oltre ad essere ricche di vitamine A-B1 e B, contengono anche proteine, zucchero, sali minerali di potassio, calcio, magnesio, ferro, fosforo, oltre ai principi disintossicanti e depurativi. ” se ne conoscono diverse qualità: dalle Durone di Cazzano a quelle di Marostica, da quelle dei Colli Euganei ai colli Asolani e Veronesi. La cultivar locale di maggior pregio, è la “Mora di Cazzano” probabilmente originaria dalla Val Tramigna, regina delle ciliegie veronesi, con eccellenti qualità organolettiche e particolarmente apprezzata anche nei mercati esteri più esigenti. Ma anche nel territorio di Asolo e Marostica, la coltivazione del ciliegio risale all’epoca Medioevale e oggi rappresenta una produzione specializzata. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno in queste località si svolgono feste e sagre che ne

promuovono la commercializzazione, nel corso delle quali, oltre all’esposizione del prodotto, si possono gustare, in percorsi gastronomici e con diverse ricette per tutti i tipi di piatti, fino ai numerosi dessert. Ma una bella festa delle ciliegie a giugno, si tiene anche nella vicina Slovenia, a Dobrovo, nella regione di Brda con più di 30.000 le persone che giungono dalla Slovenia, dall’Italia e dall’Austria. Gli eventi che si svolgono per vari giorni sono accompagnati dal corteo dei carri che mostrano i diversi lavori domestici e le vecchie usanze dei paesi di Brda. Un corteo a cui partecipano anche le donne contadine, le majorette, la regina delle ciliegie, ... Il tutto è accompagnato da mostre tematiche e da un nutrito programma d’intrattenimento, ricco di divertimenti, eventi culturali e sportivi: dal concerto e ballo delle ciliegie alla carovana delle macchine d’epoca, pesca di beneficenza, bande cittadine, teatro, gruppi folcloristici e i diversi cori, insieme a mostre d’arte, la maratona ciclistica delle ciliegie, e la marcia da cilliegia a ciliegia. Poichè Brda è inserita nella rete dei Borghi Europei del Gusto, i giornalisti e i comunicatori de l’Altratavola realizzeranno quest’anno delle visite gustose e delle interviste ai protagonisti della filiera della ciliegia prima e durante la Festa della Ciliegia (sia in Italia che in Slovenia), al fine di far conoscere le qualità di questo frutto straordinario.


Azienda agricola Bacco e Arianna La redazione

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’azienda agricola Bacco e Arianna condotta da Ernesto Calaon e la sua bella famiglia, situata sulle pendici occidentali dei Colli Euganei, a pochi chilometri da Padova, si estende su di un’area di oltre 15 ettari, ed è sempre stata produttrice di vini di pregio, grazie ai rigorosi sistemi di selezione delle uve, i moderni processi di vinificazione e di affinamento dei vini uniti alla saggezza ed all’esperienza. I vigneti, sia grazie alla morfologia del terreno di origine vulcanica che per la particolare posizione, producono uve dagli intensi aromi e dalla elevata gradazione. Il tutto nel bellissimo e dolce paesaggio dei Colli Euganei, con prodotti meravigliosi come la propria, come le uve che danno origine a vini da vigneti in agricoltura biologica, nel totale rispetto della natura e dell’uomo. Tra cui i DOC dei Colli Euganei: Colli Euganei Fior d’arancio spumante e tranquillo, Colli Euganei Pinot bianco, Colli Euganei Pinello, Colli Euganei Cabernet e Cabernet riserva, Colli Euganei Merlot e Colli Euganei Novello. Oltre ai vini tipici: Rosato, Raboso, Prosecco e

Incanto (da vendemmia tardiva). Vini speciali e molti singolari come il Fior d’Arancio: Moscato giallo tipico della zona così denominato, uno spumante di colore giallo paglierino con rif lessi dorati, dal profumo persistente, intenso, tipico dell’uva che ricorda i profumi citrini, dal sapore dolce ed equilibrato, piacevolmente aromatico, nella versione spumate o tranquillo. Od il Cabernet dalll’omonimo vitigno francese e presente sui Colli dal 1870 che può essere vinificato in purezza o in uvaggio al massimo del 10%, da aggiungere al Merlot; dall’odore e sapore erbaceo ben persistente, d’un rosso rubino intenso o rosso sangue che con l’invecchiamento assume rif lessi granata e presente anche nella versione riserva. O con il Pinello, un vitigno autoctono, da sempre

utilizzato per il taglio del bianco, mentre ora viene lavorato in purezza ottenendo pregevoli risultati; un vino di colore giallo paglierino con rif lessi verdognoli, dal profumo tipico e intenso, caratteristico, un sapore secco, acidulo, di buona persistenza, che viene servito come frizzante.

Enoturismo Bacco e Arianna Via Cà Sceriman, 784 35030 Vò - Padova - Italy Tel: (+39)049.9940187 Fax: (+39)049.9944273 e-mail:info@baccoearianna.com www.baccoearianna.com

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Nuovi riti sul matrimonio e tavole nuziali Golagaia

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ur nell’attuale momento di forte congiuntura ci sono alcune occasioni a cui nessuno rinuncia, nel senso di dedicarvi la massima attenzione realizzando sforzi economici anche di un certo rilievo. Tra questi il matrimonio è sicuramente quello più eclatante ma mentre resta intatto il suo valore rappresentativo, sta sempre più cambiando il modo di realizzarlo, organizzarlo e viverlo, grazie a nuove figure professionali, quali i wedding planner, che determinano ed anticipano i tempi grazie alla loro sensibilità e competenza. Qualcuno ha scritto che “Ogni felicità è una gioia, ed il matrimonio è una grande ed indimenticabile gioia!” e, come ci raccontano le due brave e giovani titolari di Memorable Eventi&Matrimoni (www.memorableeventi.it, wedding planner ed organizzatrici di eventi e manifestazioni con grande capacità creativa ed organizzativa), bisogna tener conto che sposarsi è un vero e proprio impegno. Ma non bisogna dimenticare che è soprattutto una gioia in quanto si affidano a quel giorno emozioni, sogni e desideri immaginati e pensati da sempre, e dunque nulla può essere sbagliato o lasciato al caso. In questo senso la figura del wedding planner interviene con grande professionalità ma senza mai invadere, affinchè la grande festa rappresentata dal matrimonio diventi un autentico spettacolo in cui la scenografia ed ogni dettaglio dei vari momenti deve essere curato nei minimi particolari. Ecco perché un wedding planner deve saper offrire la regia di tutto questo, con gusto e competenza, esaltando le aspettative degli sposi, ma non solo, in un’armonia in cui nulla è improvvisato. Una consulenza riservata, come quella di Memorable, che accompagna nella scelta dall’abito agli addii al celibato o nubilato, dagli allestimenti scenografici ed in chiesa al f lower design, dalle location semplici o straordinarie al banqueting, e così via. E proprio rispetto alle “tavole nuziali” va sottolineato che è in atto una costante trasformazione, con il passaggio da un generico servizio di catering ad un banqueting dedicato, ove tutte le materie prime utilizzate sono interpretate con grande creatività ed uno stile chiaro e personale. Qualcosa che consente agli sposi ed ai loro invitati di vivere lo stare a tavola non più come una lun-

Ma non bisogna dimenticare che è soprattutto una gioia in quanto si af f idano a quel giorno emozioni, sogni e desideri immaginati e pensati da sempre, e dunque nulla può essere sbagliato o lasciato al caso. ghissima e faticosa esperienza, ma un movimento festoso e variegato tra tante offerte diverse, di primissimo livello (vini inclusi!) e con diversi corner per degustazioni di pregio in uno stile più rapido che coinvolge tutti senza creare divisioni statiche e seduti a tavola per tempi interminabili. Organizzare servizi di banqueting, con equipe altamente professionali, significa mettere in gioco il talento artistico d’uno o più chef con tutta la loro squadra, con vere creazioni d’autore, anche

con l’ausilio di banqueting design capaci di gestire in modo puntuale e preciso ogni particolare affinchè la traccia di quel matrimonio (o di quell’evento) sia comunque una forma di comunicazione efficace e capace di lasciare una traccia con stile, eleganza e personalità . E poi, come ci sottolineano le socie di Memorable, “Niente succede se non è stato prima sognato: ecco perché gli sposi devono raccontarci i loro sogni, perchè saremo noi a tradurli nella più emozionante realtà”.

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Turismo a Novigrad-Cittanova La redazione

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egli anni Settanta, Cittanova, la piccola cittadina di pescatori situata sulla costa nord-occidentale dell’Istria, ha iniziato lentamente ma con sicurezza ad entrare nell’ambiente del business turistico, e con il tempo - ormai sono passati diversi anni - la piccola città ha iniziato a basare il proprio sviluppo economico proprio su questo importante comparto. L’attività turistica a Cittanova è

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ormai divenuta il più importante ramo economico da cui, direttamente o indirettamente, dipende tutta una serie di altre attività del territorio. La piccola perla della costa istriana è stata sicuramente aiutata dalle sue caratteristiche, come la ricchezza culturale e quella storica, per poter diventare una meta attraente per i turisti da tutta l’Europa e il resto del mondo, molti dei quali, entusiasti,

non a caso vi ritornano regolarmente. La bellezza, la tradizione, il patrimonio storico - culturale, il mare e la natura ben conservati, la vicinanza del confine europeo, lo charme d’una piccola e raccolta località, le interessanti manifestazioni estive, tutta la ricchezza dell’offerta enogastronomica...sono solo alcune delle carte vincenti del turismo cittanovese.


A tutto ciò bisogna sicuramente aggiungere anche la tradizionale ospitalità dei luoghi, ospitalità che Cittanova, essendo una piccola cittadina, esprime ancora di più. A Cittanova, il costante sviluppo del turismo è visibile - tra l’altro - anche nell’incessante aumento della qualità dell’offerta turistica - dai contenuti di ristorazione, dal numero degli alloggi fino all’infrastruttura comunale e turistica, nonchè nell’impegno per la sistemazione del paese. Gli ospiti cittanovesi diventano così testimoni di una costante crescita di qualità dei servizi in tutti i segmenti del prodotto turistico. Grande attenzione verso il mantenimento della qualità la prestano l’operatore alberghiero “Laguna”, i proprietari di piccoli alberghi famigliari come “Makin”, “Rotonda” e “Cittar”, ma anche i proprietari degli alloggi privati, di camere e appartamenti, ed i ristoratori cittanovesi, dai caffè bar ai ristoranti. Continui sono gli investimenti nella qualità degli alberghi, dei campeggi, degli alloggi privati e gli ospiti questo lo notano e lo apprezzano. Parallelamente, di anno in anno l’amministrazione cittadina compie sforzi sempre più grandi per rendere Cittanova un posto più vivibile per i cittanovesi e i loro turisti. Tutte queste attività sono incoraggiate e coordinate con successo dall’Ente per il turismo di Cittanova. Nel futuro prossimo una grande carta vincente nello sviluppo del turismo nautico e quello cittanovese

sarà certamente il moderno centro nautico, la marina cittanovese, che al prodotto turistico di Cittanova darà una dimensione nuova e importante consentendo che Cittanova venga segnata a caratteri cubitali sulla carta turistica (ma soprattutto su quella nautica ), di entrambe le coste dell’Adriatico. Nel Master plan per lo sviluppo del turismo istriano, importante documento che determina il futuro di questo ramo economico sulla penisola, Cittanova è stata definita come piccolo e calmo posticino di pescatori, per una vacanza tranquilla e romantica. Di conseguenza, le forze turistiche cittanovesi e tutti quelli che possono avere vantaggi dal turismo, dovranno organizzarsi e agire in questa direzione per creare con attività e sforzi comuni un prodotto riconoscibile e competitivo. Va sottolineato che questa interessante destinazione turistica, con un grande numero di ospiti che hanno visitato Cittanova durante l’estate, estasiati da tutte le sue caratteristic e da tante altre, non si sono soffermati al solo soggiorno estivo in questa cittadina, ma l’hanno scelta come seconda dimora, acquistando appartamenti o case dove alloggiano quando ne hanno tempo ed occasione: un fatto, questo, che parla da se... In questa dimensione europea recentemente l’Ente Turistico di Cittanova è entrato a far parte, assieme agli Enti di Umago,Buie e Verteneglio, della rete dei Borghi Europei del gusto.

A Cittanova, il costante sviluppo del turismo è visibile - tra l’altro - anche nell’ incessante aumento della qualità dell’offerta turistica - dai contenuti di ristorazione, dal numero degli alloggi fino all’ infrastruttura comunale e turistica, nonchè nell’ impegno per la sistemazione del paese.

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Grande golf nell’affascinante Istria al Kempinski Golf Adriatic


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el bel mezzo dell’intatto intatto paesaggio naturale di Salvore ha sede il Kempinski Golf Adriatic, a Savudrija, il primo campo da golf professionale a 18 buche in Istria, inaugurato da poco tempo, adiacente al nuovo Kempinski Hotel Adriatic, della catena Kempinski, a meno di 100 m dal mare, che grazie ad una molteplicità di percorsi è in grado di soddisfare, oltre che gli appassionati e i professionisti, anche i principianti, in quanto è completato da un bel campo pratica, green e bunker di pratica, driving range,putting green, oltre naturalmente ad una splendida Clubhouse, ristorante e bar, Golf Club e Golf Pro Shop. Un percorso affascinante progettato dall’architetto Diethard Fahrenleitner, inserito in un contesto paesaggistico e naturalistico di indubbia bellezza, un vero luogo ideale dove giocare a golf 12 mesi all’anno che ha già ospitato le finali dell’Handelsblatt German Business Masters e l’evento ProAm Kempinski Adriatic a marzo organizzato dal Kempinki Adriatic Resort sotto il patrocinio della PGAI. Ma il Kempinski Hotel Adriatic è oltretutto il primo Resort di lusso a 5 stelle sul mare della Croazia che ha aperto le proprie porte il 1 agosto 2009, ed è situato sulla costa nord– ovest dell’Istria, a sole 5 ore di macchina da Milano, Monaco di Baviera

e Vienna ed a circa 35 km da Trieste. Godersi un soggiorno in questo bellissimo Resort con 22 ville di stile contemporaneo e 20 appartamenti, entrambi in vendita, situato direttamente sul mare con propria spiaggia privata, circondato dal verde lussureggiante e con vista mozzafiato sulla costa della Slovenia, l’Italia e le Alpi austriache è decisamente un’esperienza unica. Ma anche un hotel dinamico e contemporaneo con 186 lussuose Camere e Suites, la Carolea SPA di 3000mq in stile greco-romano, una piscina interna e 2 piscine esterne (di cui una riscaldata) e una piscina interna con jacuzzi, 16 cabine per massaggi e trattamenti, una cappella privata anche per cerimonie, un centro congressi separato situato nella marina privata, con capacità fino a 250 persone e straordinaria vista sul mare Adriatico affacciato sullo splendido golfo di Portorose. L’accoglienza prevede anche sala da ballo e due sale riunioni all’interno dell’hotel stesso, vari bar al coperto e all’aperto e 3 ristoranti, che servono rispettivamente cucina istriana, quella mediterranea ed una ispirata alla cucina californiana, tenendo conto che ci troviamo in una regione famosa per i tartufi e l’olio extra vergine d’oliva. Stefania Bastoni

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Mantova: le colline e i grandi vini che non sai Marco Bonutto

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accontare’ la forte identità culturale delle Colline Moreniche è iniziativa in larga parte innovativa : ecco una zona poco conosciuta, perchè i produttori, prima di fare qualsiasi opera di promozione, hanno voluto raggiungere un buon livello di qualità. Va ricordato anche che la DOC “Garda” , che tutela diverse tipologie di vini bianchi e rossi, è stata riconosciuta solo nel 1996 e comprende anche comuni delle provincie di Brescia e Verona, mentre quella” Colli Mantovani DOC”, senz’altro più specifica, è del 1997, anche se deriva da una precedente Denominazione del 1976 e riguarda una sola tipologia di Rosso. Le cause della difficoltà commerciale sono abbastanza chiare: non riguardano certo la qualità, che è appare buona in tutti i vini che ho potuto degustare, in alcuni casi addirittura ottima, ma è

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dovuta soprattutto alla scarsa riconoscibilità di questi vini. Infatti mentre una DOC, che peraltro riguarda solo vini rossi, accenna esattamente alla zona (Colli Mantovani) ma non conferendole particolare prestigio, l’altra unisce i vini della zona con altri di territori dotati di maggior prestigio; inoltre la produzione riguarda vitigni internazionali, quindi non specificamente caratterizzati territorialmente. Non spetta certo ai giornalisti definire strategie di Marketing, ma, limitandoci all’aspetto comunicativo, è evidente che sarebbe certo più opportuno scegliere un nome più specifico e dotato di maggiore appeal. “Colli di Virgilio” potrebbe essere un esempio di denominazione esatta, che fa riferimento ad un personaggio nativo della zona, non solo universalmente noto ma particolarmente connotato da un amore per la campagna, tanto da

spingerlo a scrivere un’opera immortale come le Georgiche. In particolare è sembrato opportuno ai giornalisti suggerire una decisa azione sinergica con la ristorazione mantovana. Il turista che viene a Mantova infatti non vuole certo mangiare una fiorentina e neppure un piatto di tagliatelle alla Bolognese, ma vuole assaggiare i “capunsei” di cui magari ha sentito parlare, oppure i tipici tortelli di zucca, o ancora gli “agnoli” e questi piatti per essere pienamente valorizzati richiedono di essere abbinati con vini locali, proprio metterne maggiormente in rilievo la tipicità. I produttori vinicoli potrebbero ottenere quindi l’appoggio dei ristoratori della zona, non tanto per una solidarietà di campanile offerta con degnazione, ma proprio per una completa valorizzazione della cucina tradizionale offerta dai ristoranti mantovani.


Quale aceto balsamico tradizionale? P

remesso che L’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena è un prodotto tradizionale della cucina di Modena, la cui produzione è documentata già in un documento del 1046, apprezzato nel rinascimento dagli estensi, Iniziamo dalle cose più elementari per cui bisogna distinguere tre tipologie di Aceto Balsamico: quello Tradizionale di Modena DOP, quello Tradizionale di Reggio Emilia DOP e infine l’Aceto Balsamico di Modena IGP, alle quali si aggiungono i cosiddetti condimenti balsamici, né DOP né IGP, ovvero privi di Disciplinare di Produzione. L’Aceto Balsamico Tradizionale si ottiene da processi di fermentazione alcolica e successiva biossidazione acetica del solo mosto d’uva cotto. Le uve, la zona di produzione e l’imbottigliamento sono quelle delle province di Modena e Reggio Emilia come da disciplinare DOP. L’Aceto Balsamico di Modena si fa secondo varie ricette proprie composte per la maggior parte di aceto di vino e mosti parzialmente fermentati e/o cotti e/o concentrati., e sono ammesse anche altre sostanze tipo caramello ecc.. pur sempre rispettando i canoni del disciplinare di produzione IGP. Mentre i condimenti balsamici si rifanno all’estro dei produttori e sono prodotti generici derivati normalmente dall’acetificazione di mosti di uva. Per nessuno di questi prodotti è possibile definire un’età (il metodo produttivo lo esclude) e tanto meno è ammesso specificarla, o farla fraintendere, in etichetta.

Le uve, la zona di produzione e l’ imbottigliamento sono quelle delle province di Modena e Reggio Emilia come da disciplinare DOP. La Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena con sede a Spilamberto (MO) da oltre 40 anni sostiene la Divulgazione della Tradizione, ed è parte attiva nelle ricerche scientifiche, corsi d’avviamento alla

Conduzione dell’Acetaia ed all’Assaggio e di mantenimento per gli assaggiatori titolati. Analoga funzione riveste da anni, a Reggio Emilia, la Confraternita dell’Aceto Balsamico Tradizionale Reggiano. Il Consorzi e Confraternite nati su iniziativa dei maggiori e più antichi produttori, con per la valorizzazione del prodotto, la sua difesa e la diffusione della conoscenza a livello mondiale con un regolamento che obbliga tutti gli Associati a rispettare procedure e metodi di produzione che tendono a garantire una maggiore qualità al prodotto così che il consumatore, attraverso il contrassegno consortile, ha oggi la certezza di acquistare un Aceto Balsamico Tradizionale che è stato prodotto e confezionato nella zona di origine nel rispetto di questo rigoroso regolamento. Ogni singola partita destinata all’imbottigliamento (riservato ai soli centri autorizzati e certificati) deve soddisfare il rispetto del Disciplinare di Produzione e per l’Aceto Balsamico Tradizionale vi è anche l’accertamento delle caratteristiche riconducibili alle effettive proprietà mediante un esame organolettico eseguito da parte di qualificate commissioni d’assaggio. In questo modo ogni produttore (associato o no ai Consorzi di Tutela, ma comunque obbligatoriamente aderente al piano di controllo gestito dall’ente certificatore) vede il proprio balsamico imbottigliato soltanto dopo il parere favorevole (espresso con un punteggio valutativo) della commissione d’assaggio a conferma delle qualità organolettiche del prodotto. L’assaggio del prodotto da parte di assaggiatori specializzati e formati è un’analisi molto precisa con il fine di individuare e garantire le caratteristiche peculiari e la caratura del campione preso in esame nei sui aspetti: visivo, olfattivo e gustativo. Naturalmente l’aceto balsamico, quello tradizionale, è uno dei prodotti dell’eccellenza italiana ed apprezzato in tutto il mondo, ed a seconda dell’invecchiamento ha diversi utilizzi. Per quanto riguarda quello tradizionale deve avere una buona viscosità e dei buoni colori, ma l’aspetto visivo incide

solo per il 6%. Tutto il resto deve essere buona armonia, buona acidità e soprattutto il sentore dell’invecchiamento e del legno. L’aceto balsamico prelevato dalle botti al termine del periodo di invecchiamento ha un aspetto ed un aroma intenso inconfondibile. Il sapore non è necessariamente acido, ma può variare essere anche piuttosto dolce. Il colore è simile alla liquirizia e la consistenza è sciropposa. L’impiego ottimale è come condimento di insalate, ma anche su carni come cotechino e salsicce, sul pesce, o bolliti, sul formaggio Parmigiano-Reggiano e frutta (in particolare sulle fragole, pesche e frutti tropicali), ed anche ottimo con le preparazioni a base di uova e le ostriche della Bretagna. Mentre va detto che l’aceto balsamico molto invecchiato va assaggiato da solo a fine pasto, su un cucchiaio di porcellana o sulla mano, come un elisir o digestivo. Ma è pur vero che in commercio si trovano molte marche di aceto balsamico, per cui ci sono oltre novecento milioni di litri d’aceto balsamico commerciale e invece solo trentamila bottiglie da 100 ml (quindi tremila litri) all’anno per il tradizionale di Reggio Emilia e centoventimila bottiglie da 100 ml per il tradizionale di Modena. Quindi l’1% della produzione di aceto balsamico è quello vero e tradizionale. E la mancanza del termine tradizionale, che fa di questi prodotti qualcosa di molto diverso, il cui sapore non ha molto a che vedere con la ricetta tradizionale, e dunque attenti alle imitazioni. il millesimato

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Ristorante Relais

Ca’ del Poggio dove il Prosecco incontra il Mare

Dove il Prosecco Incontra il Mare mai, non poteva esserci un a frase più autentica ed emozionante quanto realistica, per sottolineare l’ubicazione e l’attività della famiglia Stocco nel suo magnifico Ristorante Relais Cà del Poggio. Il Prosecco, simbolo, ma non solo, d’un territorio, che si può ammirare dalla bellissima terrazza panoramica, godendo anche di un ampio scorcio sino al mare di Venezia! Suggestioni e successo professionale ormai riscosso dalla clientela e con un’attenzione sempre più particolare dei media (riviste nazionali ed internazionali, televisione, Linea Verde, Sky, ed altro ancora) per questa cucina aristocratica e tradizionale insieme, cresciuta di qualità e di offerta, da oltre15 anni. Dimostrazioni concrete vissute anche nell’ambito

sportivo con le presenze di olimpionici del Canottaggio, arbitri di seria A. squadre e campioni dello Sci di fondo, della Pallavolo, ma soprattutto con il mondo del ciclismo. Ciclisti campioni del mondo, olimpionici o semplici appassionati tutti protagonisti della grande passione e disponibilità del ristorante verso questo sport, a partire dall’Aperitivo del Ciclista ad una serie di avvenimenti dedicati a questa disciplina sportiva. Come con l’inaugurazione del Muro di Cà del Poggio, alla presenza del Governatore Luca Zaia e del Presidente della federazione Ciclistica Italiana, Renato di Rocco e di tanti famosi iridati. Passione rigorosamente in bicicletta per un’accoglienza del tutto speciale.

Ca’ del Poggio Loc. Casotto Strada Conegliano-Tarzo Via dei Pascoli, 8 San Pietro di Feletto (TV) Tel 0438.486795 - 486111 Fax 0438.787728 www.cadelpoggio.it

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ALTOLIVENZA, STORIE DI PRIMA PAGINA

Veronelli e la Civiltà dell’Alto Livenza:

Ricordare e Promuovere C

orreva l’anno del Signore 1992 e la rivista L’Etichetta diretta da Luigi Veronelli dedicava all’Alto Livenza un inserto dal titolo suggestivo “Abitare la Storia,Civiltà della Parola, Civiltà del Convivio”. Molti dei protagonisti di quel tempo sono scomparsi. Altri insistono, cocciutamente, a sviluppare iniziative di orientamento alimentare dei consumatori mediante campagne di informazione mirate nelle comunità locali e creare una alleanza dei produttori e degli operatori commerciali onesti, capaci di difendere il made in Italy a tavola. Da tali parole (scritte nel 1992) e con questo spirito originario nasce il Parco di informazione dell’AltoLivenza, una zona che non è Veneto né Friuli, ma semplicemente Altolivenza. Sono memorie vive, passando tra la Locanda d’Italia e L’Altra Tavola, per ricordare ma anche promuovere. E’ la primavera del 1991 quando Luigi Veronelli, sempre disponibile alle mie pressioni tra conoscenza ed emozioni, decide di trascorrere alcune giornate nell’Alto Livenza, a Polcenigo nel maestoso Palazzo Fullini (ora Zaia) dell’omonimo ristorante e dopo una gustosa anteprima al Purpurry di Milano con l’intramontabile charme di Antonio Primiceri (Apes e Fipe Confcommercio). Tutto grazie al felice incontro con l’Associazione “Civiltà dell’Alto Livenza” un’idea e un’associazione che l’ottimo e dinamico Antonio Lot seppe realizzare tra genti e paesaggi meritevoli, finalmente, di più giusta attenzione e riconoscimento. E il tutto nato da Locanda Veneta, iniziativa valdobbianese del 1988 (giunta anche nella trasmissione televisiva “Piacere Italia” su Canale 5) e dalla cui costola ebbero origine prima Locanda d’Italia e quindi l’Altra Tavola,

che diventa subito lo strumento di diffusione ed organizzazione dei modelli di studio e ricerca di una nuova informazione nel settore agro alimentare che seppe appunto imporre, prima di chiunque altro nel suo significato più originale, Locanda d’Italia. E il grande Gino Veronelli seppe riconoscere e gustare tutto questo, mobilitando la sua più appassionata creatura editoriale, la rivista L’Etichetta, insieme a tanti giornalisti della stampa nazionale e specializzata, per far riconoscere l’identità del territorio dell’Alto Livenza. Ed ogni momento insieme alla maestria dei ristoratori d’allora, Eugenio Rizzo e Gisella Modolo (numi tutelari del Ristorante Zaia) e del bravo sommelier Antonio, tra piatti conditi dalle aziende locali come il Caseificio

Sociale Cooperativo di Fontanefredda, la pasta artigianale del negozio Romanazzi di Sacile, la mousse di trota dell’Azienda Agricola San Biagio dell’Associazione troticultori, ed il Cabernet e Refosco della Casa Vinicola San Cipriano di Sacile insieme ai vini storici della Tenuta Angoris. Una lezione di civiltà per parlare d’una civiltà vetusta quanto affascinante, per valorizzare l’antico ed il nuovo (come poi col Ristorante Il Pedrocchino ed altri ancora negli anni a venire), sino alla grande idea di “Terra Madre” che, come le pagine dell’Etichetta testimoniano, è da sempre un’idea ed un progetto non di chi oggi lo gestisce forse un po’ usurpandolo o forse utilizzandolo in buona fede…! Bruno Sganga

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Presentato a Verona il primo numero de “Il Gusto Italiano” Il numero “uno”, o il numero “zero” nel linguaggio editoriale di quando nasce il primissimo numero di un giornale periodico, è stato presentato lo scorso 8 aprile a Verona. Precisamente al “Ristorante Joy - Corte Pellegrini” a San Martino Buonalbergo con la sensibilità dello chef Giorgio Zanetti. Il giorno coincideva con l’inaugurazione del Vinitaly: un’occasione “ghiotta” per la presentazione di una rivista denominata “Il gusto italiano”, ideata da un editore -imprenditore che nella vita ha promosso il vino, quello migliore! Numerosi gli ospiti della serata: dagli imprenditori Licio Maschio della grappa Borgoscuro con signora), ai giornalisti Bruno Sganga, Guido Stecchi, dai rappresentanti di istituzioni pubbliche e private e con la presenza del pittore Roberto Montanari (allievo di Salvador Dali). Per l’editore Giovanni Meneghini una grande soddisfazione nel presentare il “neonato” che, tuttavia, ha già le idee chiare e vede già molto in avanti. Un augurio a tutto campo per la realizzazione di questa rivista che in-

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tende spaziare sulle eccellenze italiane. Tutte. E’ questo il motivo della nascita del Gusto Italiano. Giovanni Meneghini lo dice a chiare lettere: “Il Gusto italiano costituisce un patrimonio comune e, dunque, è la voce di tutti. Per difendere idee e passioni”. “La volontà è nel mettere in contatto il mondo della produzione con consumatori attenti ed intermediari di qualità, in Italia e all’estero, per dare consapevolezza, non sempre così acclamata, che l’italian style è prepontemente vincente, nell’enogastronomia come in tanti altri settori”. L’auspicio per l’editore Meneghini, che si avvale di una ottima “squadra” di collaboratori fra giornalisti, grafici e tecnici, è quello che nel giro di qualche numero Il gusto italiano diventi un opinion leader delle eccellenze italiane. La presentazione de “Il Gusto Italiano” il giorno 8 aprile coincide anche con il compleanno dell’editore. Una coincidenza che vuole essere un “augurio” doppio!


Festa della Filanda 2010 a Salzano L

a Festa della Filanda 2010 si è svolta il 4, 5 e 6 giugno e ha voluto valorizzare la Filanda Romanin-Jacur, e riportare quest’importante setificio al centro dell’attenzione della cittadinanza e della vita sociale e culturale del paese. La Filanda Romanin-Jacur è stata, infatti, in funzione a Salzano per circa ottant’anni a partire dalla sua costruzione (1872) e ha rappresentato una indiscutibile fonte di benessere economico e sociale per la comunità locale, dando lavoro, contemporaneamente a più di 250 donne. Negli ultimi anni, l’Amministrazione Comunale ha avviato e promosso una serie di iniziative, di interventi e di attività volte a recuperare e valorizzare questo complesso da un punto di vista sia strutturale sia culturale e aggregativo. La Festa della Filanda si colloca, in questo panorama, come occasione significativa per riproporre, in stretta collaborazione con l’Istituto di Zoologia Agraria di Padova – Sezione di Bachicoltura, il ciclo produttivo della seta, dalla coltivazione dei gelsi, all’allevamento dei bachi dalla formazione dei bozzoli sino alla vera e propria trattura del filo di seta ad opera di alcune ex filandine - preziosa memoria storica della Filanda - con cui l’Amministrazione Comunale ha mantenuto i contatti. Nella mattinata del 5 giugno sono stati inaugurati i locali recentemente restaurati: una nuova parte della Filanda viene infatti restituita alla comunità; dalle ore 9.30, alla presenza del Sindaco, dell’Assessore ai Lavori Pubblici e dei progettisti che hanno curato il restauro, sono stati illustrati i lavori di recupero e la destinazione d’uso degli spazi.

La partecipazione diretta delle associazioni e dei gruppi culturali, ciascuno con le proprie peculiarità, sta inoltre caratterizzando questa iniziativa come una vera e propria festa popolare, riproponendo anche la dimensione del mercato artigianale e dei prodotti della terra, nel pieno recupero delle tradizioni e delle peculiarità che costituiscono l’identità delle nostre comunità locali. In questo processo sono state inoltre coinvolte le famiglie straniere che vivono sul territorio “contaminando” in modo proficuo la nostra cultura con la cultura dei loro Paesi di origine, in modo da facilitare un inserimento po-

sitivo di queste persone nel tessuto sociale salzanese e promuovere processi di conoscenza reciproca (nella tradizionale “frasca”, per il pranzo della domenica, oltre ai piatti tradizionali della cucina veneta sono stati disponibili pietanze di “cucina internazionale”). Venerdì 4 giugno i Giornalisti e i Comunicatori dell’Associazione Internazionale Azione Borghi Europei del Gusto e dell’Associazione L’Altratavola hanno incontrato l’Amministrazione Comunale, le Associazioni professionali e i Cittadini di Salzano sul tema: “La Filanda di Salzano: una risorsa per tutto il territorio”. (La redazione)

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Quel pollo che sa proprio di pollo..... al vecchio forno, da Mario e Rosita. Pollo e fagioli. Ci accingiamo ad assaporare le carni consistenti di un pollo di casada, per una ricetta dei tempi “di sempre”. Il nostro interlocutore ci fulmina. “Che dura è la carne” è proprio vero. Non siamo più abituati ai sapori decisi, alle carni vere. L’abitudine a (non) masticare carni che si staccano al volo dall’osso (anzi ne sono già distaccate) non ci lascia mai. “Vorrei uno chardonnay... magari trentino....” Mario, gentile e competente paron del Vecchio Forno di Refrontolo osserva: “Abbiamo fatto una scelta nella carta di privilegiare soprattutto i vini veneti. Non mi sembra comunque che un vino come lo chardonnay c’entri molto....” Magia del consiglio. Ecco come vogliamo i ristoratori.

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Attenti, gentili ma fermi nel consiglio, capaci. Il Vecchio Forno è un luogo straordinario, dove la cucina delle nostre tradizioni viene rivisitata con senso della creatività e della personalizzazione, senza snaturare la “lectio” originale. Insomma il pollo era pollo, i fagioli erano fagioli e il gusto sopraffino. In tempi recenti le stranezze a tavola sembravano le uniche a qualificare un locale come innovativo. Dio ce ne scampi e liberi. Per il nostro gusto e nostra soddisfazione esistono ancora gli osti e ristoratori capaci di dire no alle mode e di seguire una loro strada, di personalizzazione non esagerata. Alla fine chi mangia e paga è il cliente. Qualche volta vogliamo pensare anche a lui e non solo all’estetica del piatto?


Bilanci e dati del turismo nautico: investire sui porti, ecco la chiave per lo sviluppo Stefania Bastoni

U

na recente indagine dell’Osservatorio Nautico nazionale consente una vera ed importante radiografia del settore. Ad iniziare dal Parco Nautico immatricolato che, secondo il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, conta circa 100.000 imbarcazioni, nella maggior parte natanti (barche non oltre i 10 mt.) che rappresentano il 60%. Per la distribuzione territoriale le maggiori unità a motore sono al sud (82%), quelle a vela più diffuse al nord, con al primo posto Liguria e Campania, con più del 35%. Nelle prime quattro regioni (Liguria, Toscana, Lazio e Campania) si evidenzia la concentrazione più alta con il 56%, mentre diventa più difficile, per la mancanza di dati ufficiali, l’analisi del parco nautico non immatricolato. E nel 2009 la stima è di circa 525.000 imbarcazioni, di cui oltre 166.000 quelle minori. Altro fenomeno è poi rappresentato dal leasing e dai charter, con un incremento dei contratti di leasing negli ultimi anni pari a circa sei volte quello evidenziato nel 2002, ma anche rile-

vante appaiono i dati sui charter. Relativamente alla ricettività, le pubbliche rappresentano oltre il 65%, e sono 525, con netta prevalenza di Sicilia e Sardegna. Nel 2009 i posti barca disponibili erano oltre 147.000, con ai primi posti Liguria, Toscana, Sicilia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia, col 60%. Ma la quantità di posti barca non basta a stabilire la qualità di una struttura che dipende anche dalla grandezza delle imbarcazioni in grado di ospitare e dai servizi offerti ai diportisti quali attracco, acqua, carburante, luce, alaggio, vigilanza, rifiuti, servizi igienici, parcheggio, informazioni turistiche. Per i luoghi del navigare l’indagine ha riguardato 25 aree marine protette, rilevando soprattutto la presenza di numerosi e rigidi vincoli all’esercizio delle attività nautiche che certo non rende vita facile ai diportisti. L’analisi sui diportista rileva che per il 66% è tra i 41 e 65 anni con età media di 52 anni (42 per le donne e 53 gli uomini) di cui l’88% ha almeno il diploma e più del 40% è laureato

Nel 2009 i posti barca disponibili erano oltre 147.000, con ai primi posti Liguria, Toscana, Sicilia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia, col 60%.

Dalle risposte fornite, risulta che la maggioranza dei diportisti naviga in compagnia dei propri familiari o con amici e meno del 6%, da solo, con un uso medio della barca di quasi 2 mesi, che sfiora i 3 a partire dai 65 anni. Diportisti che si dividono in stanziali con una spesa media giornaliera di circa 100€, ed in transito con spesa di 90€, dati che però hanno notevoli variazioni a seconda della tipologia di unità considerate. Certo è che da questi rilievi sulla nautica italiana appare come molto sia ancora da fare, soprattutto riguardo alle regole più elementari ed allo sviluppo ed investimento sui porti che resta la chiave di volta dell’intero sistema.

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Benvenuti al Corinthia Palace Hotel & Spa di Malta D

a quasi mezzo secolo lo stile Corinthia si afferma nel mondo con i suoi alberghi e spa di particolare pregio. Un sogno presente anche nell’isola mediterranea di Malta fissando nuovi standard di eccellenza e di ospitalità, rompendo gli schemi per la ricerca della perfezione. Uno stile che dalle sue origini come impresa familiare fa degli Hotel Corinthia oggi una delle collezioni più eccitanti del mondo con alberghi di lusso eccezionale. Una suggestione unica che con grande professionalità si manifesta anche nella SPA, un centro di vitalità, bellezza e benessere, of-

frendo il massimo in termini di strutture termali e trattamenti veramente esclusivi a partire dalla Oxygen Bar, galleggiamento Tank, la Kinesis sala fitness e sale massaggi Chromoenergetic, sino a trattamenti di bellezza che vanno dai classici per viso e cura del corpo, a rimedi anti-invecchiamento e trattamenti di ringiovanimento. Utilizzando solo sostanze naturali della terra, in un ambiente sereno, questo esclusivo con più di 50 terapie olistiche. E tutti gli ospiti, possono usufruire gratuitamente della idroterapia Piscina coperta, Sauna Giardino, Centro


fitness e campo da tennis Il Corinthia Palace Hotel & Spa dispone anche di strutture per gli ospiti che vogliono trascorrere una vacanza più attiva con campi da tennis, sport acquatici come la vela, immersioni subacquee, windsurf e sci nautico disponibili presso il lido privato dell’hotel. Insieme alla possibilità di scroprire Malta e l’arcipelago maltese, concentrato in sette piccole isole nel cuore del Mediterraneo, con una storia varia e vivace. Come le più antiche strutture freestanding megalitici del mondo (3,600-3,000 aC), l’architettura barocca della sua capitale, La Valletta, i panorami mozzafiato dalla medioevale e silenziosa città di Mdina, ed altre meraviglie in ogni città o villaggio. Un’isola interprete, per il suo posizionamento strategico, di civiltà che hanno lasciato continue tracce: siciliani, Fenici, Romani, Cavalieri di San Giovanni e gli inglesi con precise e distinte identità. Ma anche spiagge abbaglianti e calde quali mete perfette per ogni fascia di età. Sia sull’iso-

la principale di Malta che nella bella e tranquilla Gozo, ovunque si vada, l’amore per il buon cibo si sposa con

l’arte e le numerose feste con un’accoglienza unica. Giovanni Meneghini

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NUVOLE FRITTE Nuvole fritte è il notiziario di informazioni veloci ed utili, su eventi, comunicazioni aziendali, presentazioni, fiere e ns. informazioni. Tutto in modo molto leggero come le “nuvole fritte” (citando la pasta cresciuta e poi appena fritta con un pizzico d’alga all’ interno) così chiamate dal grande scrittore e sceneggiatore Giuseppe Marotta, partenopeo e milanese…

Tavullia, Pesaro

PiccolaGrandeItalia, “L’universale è il locale senza muri”

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l 72% degli oltre 8.000 comuni italiani conta meno di 5.000 abitanti. Un’Italia dove vivono 10 milioni e mezzo di cittadini e che rappresenta oltre il 55% del territorio nazionale, fatto di zone di pregio naturalistico, parchi e aree protette. Questi 5.835 piccoli centri non solo svolgono un’opera insostituibile di presidio e cura del territorio, ma sono portatori di cultura, saperi, tradizioni e grande coesione sociale. Per assicurare un futuro a questa parte del Paese, Legambiente ha promosso PiccolaGrandeItalia. Una campagna il cui obiettivo è tutelare l’ambiente e la qualità della vita dei cittadini che vivono in que-

Zocca, Modena

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sti centri, valorizzando le risorse e il patrimonio d’arte e tradizioni che essi custodiscono e combattendo la rarefazione dei servizi e lo spopolamento che colpiscono questi territori. Affinché non esistano aree deboli, ma comunità messe in condizione di competere come una vera rete che eccelle nella tutela dell’ambiente e nell’artigianato artistico, e per la qualità culturale del territorio. Saperi antichi e innovazione tecnologica, sperimentazione e qualità che trovano conferma anche nella fuga delle metropoli a favore dei piccoli comuni, che racchiudono i ¾ delle specialità agroalimentari. Infatti, ol-

tre il 51% degli italiani vorrebbe abitare in uno dei 5.709 comuni italiani con meno di cinquemila abitanti alla ricerca di una migliore qualità della vita. Come emerge dal sondaggio online effettuato da Coldiretti in occasione della domenica di “Voler bene all’Italia”. Una tendenza confermata dalla realtà anche nei recenti rilievi effettuati dall’Istat nelle sei metropoli italiane con oltre 500mila abitanti che fanno registrare nell’ultimo anno una riduzione della popolazione mentre cresce quella nei piccoli comuni con meno di 5000 abitanti. Una “passione” per il “piccolo” testimoniata anche dai molti illustri italiani o stranieri amanti dell’Italia che hanno scelto come “buen retiro” piccoli centri, come George Clooney che trascorre il tempo libero a Laglio sul lago di Como (888 abitanti), Mick Hucknall, il cantante dei Simple Red, che produce vino a Sant’Alfio (Catania) (1.645 abitanti), o Valentino Rossi di Tavullia in provincia di Pesaro (4.800 abitanti) e Vasco Rossi di Zocca (4.640) in provincia di Modena.


Salvore, Borgo Europeo del Gusto L

a località turistica di Salvore, in croato Savudrija, prende il suo nome dalla vicenda avuta luogo nel 1777, quando Otto, figlio dell’imperatore tedesco Barbarossa, si rifugiò in una cisterna nella zona, riuscendo così a salvarsi dalle f lotte di papa Alessandro III. Salvore è un paesino di pescatori che conta 349 abitanti ed è situato nella Regione Istriana (Istarska županija): è il centro abitato croato più a nord nella costa istriana, da qui “where Istria begins”, motto dell’ente turistico della zona. Lo sviluppo dell’economia da agricolo e di pesca a turistico è iniziato con l’elezione di Salvore a meta di villeggiatura dei nobili dell’impero Austro-ungarico: a testimonianza di ciò, sono tuttora visibili lungo la costa ville, residenze estive e luoghi di cura (il Grazer Anna Kinderspital è del 1908) risalenti all’epoca. Già al tempo la zona era conosciuta per le bellezze naturali delle baie, del mare limpido, della macchia mediterranea e delle calette nascoste: queste virtù paesaggistiche sono ideali per chi necessiti un luogo dove poter far riposare la propria anima. Senz’altro il simbolo di Salvore è il suo faro, il più antico dell’Adriatico, alto 29 metri e datato 1818: fu costruito dal conte austriaco Metternich come pegno d’amore per una nobildonna croata. Oltre alle proprie ricchezze naturali e spontanee, questa zona dell’Istria dove inizia la riviera di Umago (Umag in croato) offre al turista anche altre interessanti attrazioni, quali i rinomati prodotti vitivinicoli e oleari nonché le numerose attività sportive sia su acqua che a terra. La gastronomia si fonda su due pilastri: la semplicità della cucina e la genuinità degli ingredienti. Nei piatti tipici si trovano tartufo, frutti di mare (crostacei, pesci, molluschi), prosciutto crudo, pancetta, formaggi, pasta al ragù di selvaggina, gallina nostrana, minestre, lombo di mare, asparagi selvatici e funghi. Negli ultimi anni si sono andate creando anche le Strade del Vino e dell’Olio di Oliva, lungo le quali è possibile trovare aziende agrituristiche e cantine che offrono al viaggiatore la possibilità di degustare piatti e vini direttamente nelle aree di produzione. I prodotti della terra hanno sagre dedicate, come ad esempio le sagre del vino, dell’olio di oliva, dei tartufi, degli asparagi e dei funghi, nelle quali la gastronomia si intreccia con varie forme artistiche come concerti, teatro, fotografia e pittura. Per quanto riguarda gli sport acquatici, la costa istriana offre barche, kayak, windsurf (nell’eccezionalmente ventosa laguna di Ravna Dolina), aquascooter, sandolini, motoscafi, sci nautico, paragliding, parasailing e scuole di immersione. Gli sport terrestri praticabili nell’entroterra sono invece jogging, trekking, camminata a cavallo, nordic

walking, ciclismo (nel dettagliato sito w w w.istriabike.com è possibile trovare i percorsi dell’intera zona Umag-Novigrad). Vicino a Salvore, si trovano poi i promontori di Katoro, Tiola e Sipar, importanti località archeologiche che ospitano la Scuola estiva di Archeologia. Chi invece avesse bisogno di rilassarsi, può trovare centri wellness che assicurano il culto del benessere, sia a livello alimentare che paesaggistico oltre che con i trattamenti di bellezza. Il tutto a soli 52 km da Trieste. Per maggiori informazioni, contattare l’Ente Turistico di Umago.

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Hotel Capodimonte Q

uando si arriva a Capodimonte, zona storica e nobile di una Napoli straordinaria, l’arte, la natura e la sacralità si incontrano in poche centinaia di metri in una discesa che raccoglie la bellezza di un parco cittadino tra i più estesi d’Europa ed un museo che espone stabilmente opere di Caravaggio, Masaccio e dei più grandi interpreti dell’arte, con una vicina chiesa che, per architettura ed emozioni, è definita la “piccola San Pietro”. E’ con questi presupposti che non è stato difficile immaginare di trasformare un antico convento dell’800 in uno dei più originali alberghi della città. E’ nato così il Grand Hotel Capodimonte, spontaneamente, con un serio progetto d’impresa della famiglia Ferrara che ha saputo realizzare un luogo in cui respirare le più forti emozioni della Napoli più autentica. La struttura, fedele al suo progetto iniziale, offre, nel pieno rispetto degli standard di un quattro stelle, 35 camere tra cui 6 suite, 3 sale ristorante adatte ad ogni tipo di evento, 5 sale meeting e terrazzi in cui realizzare attività business e leisure. La filosofia dell’albergo è molto partenopea, con un’accoglienza che si respira dall’ingresso alla reception e fino alle camere, grazie ad una squadra sapientemente guidata dalla direttrice Moira Messinese. Anche la ristorazione si ispira alla tradizione regionale campana, con colazioni e pranzi che arricchiscono menù per i quali chef e selezionatori operano nel rispetto della filiera corta e della qualità.

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Il Parco del lago di Candia festeggia i 15 anni

Appena festeggiati i 15 anni del Parco Naturale di interesse provinciale italiano del Lago di Candia, istituito (primo in Italia nel suo genere) nel 1995 su proposta della Provincia di Torino. Un lago nato circa ventimila anni fa dal Grande Ghiacciaio Balteo, nel suo ritiro all’interno della Valle D’Aosta, Lo specchio d’acqua di Candia è al centro di un paesaggio ancora integro e non compromesso dalle attività umane. La scarsa edificazione sulle rive e la minore pressione turistica hanno permesso al bacino di conservare notevoli condizioni di naturalità, che fanno del lago e della limitrofe palude una delle più importanti zone umide del Nord Italia, inserita fra i Siti di Interesse Comunitario, definiti dalla Direttiva “Habitat” dell’Unione Europea. Ma il lago detiene anche un’altra prerogativa: quella di dare il nome al primo Parco Provinciale italiano, con quasi 350 ettari di territorio, di cui sono parte

Viandante del gusto in Val d’Aveto. Paese che vai, eccellenze che trovi!

Non sfugge a questa regola Santo Stefano d’Aveto, visitato dai viandanti del gusto, per l’avvicinarsi della Festa della Trebbiatura in quel di La Villa. Bisogna ricordarsi che la Liguria non è solo mare, e la Val d’Aveto è una vallata situata nelle province di Genova e Piacenza, attraversata dal torrente omonimo, tributario del Trebbia, con i comuni di Rezzoaglio e Santo Stefano d’Aveto, appartenenti alla provincia di

integrante la palude e la paludetta, altamente significative dal punto di vista naturalistico. Situato fra il paese omonimo e Mazzè, il Lago di Candia ha una superficie di 1,5 Km quadrati ed una profondità media di 4 metri e 70 centimetri, ad una quota di 226 metri slm, alimentato da alcune sorgenti situate lungo la costa meridionale e, a sua volta, alimenta il Canale Traversaro. Oltre al particolare interesse botanico della zona con più di 400 specie floreali presenti, fra cui alcune varietà idrofile non comuni come il Trifoglio fibrino, l’Utricularia, la Potentilla palustre e la rarissima Violetta d’acqua, il lago è anche un importante luogo di sosta per uccelli svernanti e di passo. Oltre 200

le specie censite, come il Tarabuso, Tarabusino, l’Airone rosso e la Moretta, che ha fatto del parco una dei principali siti di nidificazione in Italia. Ma anche pesci, unica fonte di sostentamento fino a pochi decenni or sono per decine di famiglie, come Carpa, Tinca, Luccio, Cavedano, Scardola, Persico Trota, Persico Reale e Pesce Gatto. Un lago che offre svariate possibilità di visita a piedi, in bici e in barca, in qualsiasi stagione per l’’esplorazione di quasi tutto il Parco su percorsi di 6-8 km. costeggiando il lago e la zona della Paludetta, tra frutteti e vigneti del rinomato bianco “Erbaluce”, fino all’incrocio con la strada che scende dalla stazione ferroviaria.

Genova e nella provincia di Piacenza quelli di Ferriere, Cerignale e Corte Brugnatella. Qui potrete assaggiare il tipico formaggio San Stè (Santo Stefano), prodotto dal Caseificio Val d’Aveto in forme cilindriche con una crosta giallo paglierino tendente al bruno ed una pasta giallognola, non pastorizzato né manipolato e che conserva tutto il sapor del latte. Né meravigliarsi se, a seconda della stagione, e di conseguenza dell’alimentazione delle mucche, il gusto ed il colore delle forme possono essere leggermente differenti. Gusto anche per gli

arcifamosi canestrelli: biscotti di pasta frolla dalla forma di una ciambella, dal colore dorato e consistenza friabile e morbida.

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[\ Il Circuito Dannunziano: le iniziative in Veneto

Il 2010 è l’anno consacrato alla realizzazione del Festival Dannunziano a Pescara, una kermesse che si snoderà in diverse giornate di eventi, con musica, teatro, dibattiti, incontri, momenti che coinvolgeranno non solo la città, ma anche le personalità di maggior spicco che hanno tramandato la memoria e il culto di D’Annunzio nel mondo, a partire dai Comuni e dalle Province che fanno parte del Circuito dannunziano nel quale anche l’amministrazione di Pescara è entrata a pieno titolo. Ed oltre al coinvolgimento

del Vittoriale degli Italiani, anche il Veneto è interessato alle iniziative culturali del circuito dannunziano riprendendo il momento fondamentale sia nella vita che nella carriera artistica di Eleonora Duse (una tra le più importanti attrici teatrali italiane della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, simbolo indiscusso del teatro moderno, anche nei suoi aspetti un po’ enfatici), e del suo incontro a Venezia con Gabriele D’Annunzio, allora poco più che trentenne., a cui seguì un tempestoso legame sentimentale ed artistico con le bellissima località di Asolo sempre in prima linea. Un contributo verrà anche dall’Associazione Internazionale Azione Borghi Europei del Gusto che organizzerà

le manifestazioni dannunziane in Veneto attivando un rapporto ufficiale con il circuito dannunziano a livello nazionale.

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Zenzero e zaf ferano In questa rubrica ospitiamo scritti che nostri lettori vorranno dedicare a temi, personaggi od anche prodotti in base alla loro sensibilità ed esperienza diretta. Parole e frasi su cui naturalmente non interverremo come si addice ad uno spazio di totale libertà espressiva. B.S.

Perchè bere grappa? Bere un alcolico o superalcolico per scegliere richiede un silenzio del desiderio, per decidere cosa, che tipo, la personalità di chi degusta, l’intelligenza della modalità, la maturità della coscienza, regola antica che patriarca Noè direbbe: l’assai basta il troppo guasta! Nella genesi veneta o Nord Italaca la grappa sta nell’antico come iniziale segreto, sempre conservato con memoria d’istinto a confermare il profondo profumo, odore, sapore di una “vinaccia”, frutto rimanente di una bacca esilarante quale l’uva nella sua diversità. Ecco il principio attivo che richiede fedeltà massima alla sua massima qualità di scelta,

selezione, conservazione, intelligenza di distillazione che tecnologia e mezzi moderni fanno rispettare i multi sapori e profumi. La conservazione, l’abbinamento sono l’atto finale della professionalità d’un distillatore, di una cultura vocazionale, professionale e personale sino all’apice sempre migliorato. Il desiderio dell’animo umano tende al bisogno di riscaldare, condividere lietezza, a confortare speranza, semplicemente raccogliere una pausa di distensione esistenziale personale o collettiva, una continua affinità alla vita nella quale un sorso di grappa recupera il corpo e aggiusta l’anima. Ora c’è l’inevitabile esigenza di conquistare per riassunto una garanzia di produzione di vera grappa di vinaccia. Dai primordi rinascenti gusti e profumi di cultura artigianale che con dovuta ricerca conduce al marchio di etichetta Borgoscuro, al suo conduttore Licio Maschio titolo di distillatore capace di riassunte e qualificanti esperienze di storico casato pertinente, egli rinnova le più alte qualità di un prodotto etnico Veneto quale la grappa di origine gusto di vinaccia. Agostino Riva

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Segnali e rif lessioni dall’olio extravergine d’oliva

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i fa un gran parlare in Italia del recupero d’immagine ed utilizzo sempre più consapevole dell’olio d’oliva extra vergine italiano, con l’aumento di consumatori che, pur in una congiuntura difficile, cercano la vera qualità e genuinità, anche quando etichette e tracciabilità lasciano a desiderare… Recentemente una esauriente fotografia è data dai dati Istat e Ismea, ove appare chiaro come la produzione è molto localizzata al centro-sud ma l’imbottigliamento principale è al centro-nord. Sono infatti 1,1 milioni di ettari la superficie olivetata nazionale, di cui 900 mila ubicati nelle regioni meridionali, e su un totale di 776.000 aziende olivicole, 600.000 hanno sede al Sud. Ma si tratta in prevalenza di aziende di piccole dimensioni, con superficie media aziendale poco oltre l’ettaro e mezzo, con analoga frammentazione nell’industria di prima trasformazione, ossia i frantoi. Per quanto riguarda i volumi prodotti, le ultime stime evidenziano una flessione del 24% sulla produzione complessiva, mentre sarebbe in lieve crescita il peso delle produzioni certificate Dop/Igp, anche se i volumi sono ancora limitati rispetto alle potenzialità(incidono del 2% sul totale). Dunque una filiera che risulta totalmente sbilanciata al Centro-Nord ove risiede

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la grande industria imbottigliatrice, con attività quasi esclusiva di acquisto di olio sfuso, la costituzione di blend, l’imbottigliamento e la commercializzazione. Pur se le aziende industriali in senso stretto sono pochissime, poiché la prevalenza è di piccole-medie imprese in cui prima trasformazione e imbottigliamento sono integrate verticalmente,. E tra queste, solo 10 aziende superano i 100 milioni di fatturato, con le prime 4 che pesano per il 43% sul fatturato complessivo. Interessante da notare il saldo positivo commerciale dell’olio di oliva italiano nel 2009, pur col calo delle esportazioni. Mentre l’export del settore, che comprende anche l’olio di sansa, avrebbe tenuto meglio dell’import sia in volume. Certo è che nello scenario internazionale, l’Italia si colloca come il maggior importatore di olio sfuso, ma resta però il più importante esportatore di olio confezionato, benché stia perdendo progressive quote di mercato a favore sia della Spagna, suo più temibile competitor, che di altri Paesi soprattutto del bacino del Mediterraneo, che possono contare su un’olivicoltura con minori costi di produzione e un’attenzione crescente alla qualità. Infatti negli ultimi anni mentre la Spagna ha conquistato oltre il 50% dell’export mondiale di olio di oliva, l’Italia ha visto la sua fetta assottigliarsi al 24%. Una tendenza ancora più evidente nel 2009 con le esportazioni di olio spagnolo in aumento del 5% in quantità a fronte di una flessione del 3% di quelle targate Made in Italy. Una concorrenza spagnola che si è fatta sentire anche nel fondamentale mercato USA, (che assor-

Infatti negli ultimi anni mentre la Spagna ha conquistato oltre il 50% dell’export mondiale di olio di oliva, l’Italia ha visto la sua fetta assottigliarsi al 24%.

be il 37% della produzione nazionale) con duri colpi alla leadership Italiana, che nel triennio 2006-2008 ha perso il 4% della sua quota. Con rischi provenienti anche con l’affacciarsi di nuovi Paesi dell’area Maghrebina e dell’Emisfero sud del pianeta, che sostenuti da condizioni climatiche simili a quelle mediterranee, possono costituire nel medio-lungo periodo un’ulteriore minaccia per le produzioni italiane. Buone notizie invece dalla domanda interna rispetto a gusto e benessere, dove si rileva un calo dei consumi di olio d’oliva e sansa nell’anno appena concluso, mentre hanno retto bene gli extravergini, grazie anche a prezzi al consumo concorrenziali e in flessione rispetto all’anno scorso. In questo segmento gli oli Bio e Dop hanno registrato tendenze opposte: in crescita i primi e in flessione i secondi. E tra i canali distributivi perdono lentamente peso la vendita diretta al frantoio (25% su vendite totali) quella porta a porta (5%), mentre si afferma sempre più la distribuzione moderna (oltre il 60%), al cui interno cresce il ruolo delle private label (18% delle vendite nel 2009). Un’analisi complessiva da cui emerge pertanto l’immagine di un settore in sofferenza, con costi di produzione in costante aumento su base annua e prezzi all’origine sempre meno remunerativi, seppur in ripresa rispetto alla prima metà del 2009. Ma con la speranza di segnali anche incoraggianti, soprattutto di maggiore consapevolezza e gusto nel saper scegliere l’olio extra vergine d’oliva e nei suoi vari usi tra cucina e tavola. B. Sganga


TAVOLE LIBERE E AMMUTINATE Cucina di tradizione e spettacolarità d’un certo giornalismo enogastronomico Tavole Libere Recentemente più voci autorevoli, nel senso di competenza vera e non di posizioni di potere mediatico o professionale, hanno sottolineato come il ruolo dei ristoratori rispetto alla cucina tradizionale italiana (problema presente anche in altri paesi) sia molto più importante di quanto non si immagini. Infatti, diminuendo sempre più la possibilità e capacità, in molte famiglie, di sapere custodire, interpretare e tramandare le più autentiche tradizioni gastronomiche, è evidente che la ristorazione, nelle sue forme più diverse, resta il riferimento affinchè questo patrimonio non venga disperso o stravolto. Ma in realtà quello che sembrava poter essere un patrimonio sicuro, è di fatto corroso sempre più dalla lenta scomparsa di veri ristoranti di tradizione che (come in una recente rif lessione ha sottolineato il Presidente dell’Accademia della Cucina Italiana) sembrano essere poco meno di 400 in tutta Italia. A parte la probabile esasperazione d’una tale denuncia, tuttavia realistica nei suoi contenuti più evidenti, le ragioni principali sono tante: ad iniziare dalla grande cucina industriale che sta invadendo ogni settore con il rischio della scomparsa d’una autentica cultura, ad Istituti alberghieri che non sempre trasmettono l’autentica tradizione territoriale, spesso presi come sono da problemi di budget e non solo, sino ad una critica enogastronomica affossata sui soliti noti e che pretende di dettare scale di valori in base a supposti criteri oggettivi ma che non vengono mai esplicitati in quanto tali. A tutto questo si aggiunga il vizio diffuso nel giornalismo italiano odierno di spacciare opinioni per fatti e di basarsi su luoghi comuni e pregiudizi che, in quanto tali, non vengono nemmeno dimostrati. Per non dire di quella parte di critica che diventa militante (spesso faccendiera e di parte)

per cui tutto è magnifico, maestoso, innovativo, interessante, bello, intelligente e soprattutto di tendenza…! In tal senso, il critico enogastronomico nell’immaginario collettivo dovrebbe essere colui che, libero da ogni sua preferenza, dovrebbe avere le capacità di discernere ciò che è oggettivamente buono da ciò che non lo è, per altro opinabile se si pensa alle diverse culture che s’intrecciano nel mondo del cibo e del bere. Infatti, siamo tutti capaci di dire se una cosa ci piace o no, ma nessuno può assurgere a dichiarare senza possibilità di smentita che un piatto o un prodotto siano oggettivamente buoni senza anche tener conto degli usi così diversi tra cucine e tradizioni (od innovazioni) diversissime. Eppure in certe occasioni da questi “critici” e dalle loro recensioni su guide o servizi specializzati, dipendono progetti ed investimenti che hanno segnato la vita d’un ristoratore o d’un produttore, soprattutto di vini. Allora lasciamo che l’incontro con un piatto come con un vino, significhi spegnere il cervello ed avvicinarsi senza nessun preconcetto, aspettativa o pensiero fuorviante, lasciandoci guidare dai propri sensi mentre frugano nel magnifico archivio olfattivo ed emozionale che c’è nell’ “hard disk della nostra mente” e che a un certo punto ci diranno “mi emoziona o non mi emoziona”, per chi sa ascoltare e distinguere. E per chi ha piacere di vivere un territorio e le sue specialità enogastronomiche, dunque la tradizione di quel posto, cercando l’autenticità, il rispetto di alcune regole tradizionali senza spettacolarizzazioni né in cucina né sulle pagine delle guide o riviste o in questa miriade di eventi da grande circo mediatico. Come una filosofia di vita, se la parola non fosse un po’ sproporzionata rispetto all’argomento, seppure di rilievo, che rifugge dal presenzialismo, dal volersi autoreferen-

ziare e dalla mania dell’evento ad ogni costo dove ciò che conta è “guardare” ma non vedere, “partecipare” ma non conoscere e saper riconoscere, col solo scopo di dire io c’ero. Dunque a tavola, abituarsi soprattutto a “sentire” e saper riconoscere, come una sottile emozione che collega gusto e pensiero, perché è anche una questione di educazione, cultura, e di naturale indole che ciascuno può avere e coltivare, oltre che di salvaguardia verso tradizioni da non perdere, a cui tutti devono partecipare: i consumatori, quali veri protagonisti, i professionisti delle cucine ed una certa stampa senza identità. B.S.

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Italo Cescon e il Raboso Piave D

edicare una giornata di studio e di rif lessione alla figura di Italo Cescon e ad una delle sue “creature” predilette: Il Raboso Piave. Questa l'idea che ha animato la Famiglia, l'Associazione Internazionale Azione Borghi Europei del Gusto e l'Associazione l'Altratavola, per il giorno del Suo Anniversario. Ma, soprattutto, si tratta di ricordare Italo Cescon senza enfasi, come era per davvero, nella quotidiana realtà di Uomo e Imprenditore. Per realizzare questo obiettivo si è voluto dare all'incontro ( che si terrà presso l'Azienda Italo Cescon Storie & Vini a Roncadelle il 23 giugno con inizio alle 17,30), una 'impaginazione' che ricorda quella dei giornali veri e propri, con uno stile brioso e l'avvicendarsi di giornalisti e comunicatori che intervisteranno in diretta i Familiari e alcuni personaggi della vita enogastronomica delle Terre del Piave e non. Così fra testimonianze 'vere' e ricordi 'vissuti', si affronterà anche il tema del Raboso Piave, di alcune sue 'degenerazioni' di moda, del possibile ritorno ad una 'lectio' più autentica. Il ricordo di Italo Cescon verrà affidato al giornalista enogastronomo Giampietro Rorato: i giornalisti e i comunicatori de l'Altratavola si alterneranno, invece, nelle domande agli Ospiti. L'incontro è anche però una occasione per dare visibilità alle Terre del Piave: la Famiglia ha voluto infatti che nei servizi informativi che scaturiranno dalla manifestazione, vengano inseriti riferimenti espliciti alla storia, al paesaggio, all'arte e alla cultura del proprio territorio. Insomma una iniziativa socialmente utile e non banalmente pubblicitaria, come si conviene alla memoria di un uomo che aveva fatto della discrezione e della umiltà delle regole di vita.

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La malvasia di Dario

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ravamo a Crassizza (Buie), in occasione di Oleum Olivarum, e Dario Penco, dell'Ufficio Turistico di Umago, ci dice “Assaggia questa Malvasia. E’ la migliore in Istria.” . Detto, fatto ! Se non è la migliore in assoluto, è certamente fra le migliori. Il produttore è Agrolaguna, una società la cui attività si svolge in una unità con più produzioni: vino, olio, bestiame, un panificio e un caseificio. Tutti i suoi prodotti corrispondono a marchi ben noti in Istria e non solo. Agrolaguna ha più di 300 ettari di terreni vitati, che producono uve da cui si traggono vini rossi e bianchi, come la Malvasia, il Terrano, il Moscato, Gamay e altri. Oltre ai vigneti, sul mercato è ben conosciuto l’olio d'oliva, che proviene da uliveti che coprono una superficie di almeno 250 ettari. Agrolaguna produce anche dell'ottimo latte intero di vacca grassa e formaggio di pecora, apprezzato e riconosciuto sul mercato. La proprietà si estende dal mare alle colline, che si trovano a 270 m sopra il livello del mare. Del totale di 2.500 ettari di vigneti di Parenzo, i vigneti Agrolaguna ne coprono 300 . L'area si trova in lieve pendenza, su colline soleggiate con terreni che sono rossi nella parte costiera, e di colore bianco nella parte centrale della penisola. La Malvasia, conosciuta fin dai tempi antichi, è l'orgoglio della regione vinicola di Porec, o Parenzo che dir si voglia. Questo tipo di uve di qualità danno i loro frutti qui, ed è impossibile separare dalla eccellente Malvasia la regione di Parenzo. Bisogna sentirne il profumo, il gusto, la varietà e la ricchezza della sua armonia. La Malvasia è commercializzata col marchio Festigia.

Il Moscato di Momiano dell'Istria e il Moscato Fior d'Arancio dei Colli Euganei

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d AgriCamp 2010, il Campo della Comunicazione Territoriale in Agricoltura che si era tenuto nei Colli Euganei alla fine del mese di febbraio, avevano partecipato gli Uffici Turistici di Buie, Cittanova, Umago e Verteneglio, proponendo, fra le altre eccellenze, il Moscato di Momiano. “II Moscato di Momiano lo beveva l'Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Lo voleva per i suoi pranzi importanti. Lo sceglieva per il suo inconfondibile profumo, per il colore, il sapore, tant'è che lo insignì di diverse medaglie d'oro. Ma che cos'ha di eccezionale Momiano? La posizione giusta, a 250 metri sul livello del mare, la terra buona, l'aria frizzante, resa tale dall'incontro di correnti che salgono dal mare e scendono dalle montagne. Da Oscurus a San Mauro a Merischie si possono già vedere le viti piantate solo qualche anno fa. Sono molto delicate. Una pioggia più forte o una grandinata possono compromettere il lavoro di una stagione. Tutta l'arte del fare il moscato sta proprio nel portare a giusta maturazione il loro frutto. L'acino è molto delicato, basta un niente e si svuota del succo. Prima dell'esodo, Momiano aveva novanta numeri civici sulle rispettive case. Gli edifici, tuttora esistenti, erano a più piani e quindi di gente ce n'era. Dopo gli anni Cinquanta rimasero qui soltanto sette famiglie: Bassa, Giurgevich, Pelin, Biloslavo, Scaramello, Orlando e Salich. I campi incolti, la migrazione verso le industrie e le aziende sociali di chi era rimasto, hanno contribuito a far sparire usi e costumi, o a trasformarli in riti da consumarsi soltanto all'interno della famiglia. Ad un certo punto, i giovani della zona si sono resi conto che c'era una strada sicura da percorrere: quella della tradizione. Tornare al lavoro dei campi, con l'impegno di tutta la tecnologia necessaria e la presentazione, qualificata e qualificante, dei prodotti sul mercato. A spronare la generazione dei trentenni a produrre ed imbottigliare i vini sono stati anche i riconoscimenti ottenuti in occasione della Festa di San Martino, tornata in auge dopo anni di silenzio. Da qualche anno, infatti, l'11 novembre si premiano i vini migliori di tutta la zona. È una sagra che dura diversi giorni e che riassume in questo periodo dell'anno tutti i contenuti e gli appuntamenti che, una volta, avevano luogo nei paesetti del Buiese. Si svolgono incontri di bocce, si balla in piazza e per le strade, si beve vino in una generale, inevitabile, euforia.” AgriCamp 2010 è stata la giusta occasione per degustare il Moscato di Momiano e il Moscato Fior d'Arancio dei Colli Euganei. “Il nome Fior d’Arancio deriva dalla caratteristica nota di agrumi che caratterizza il Moscato giallo allevato nei particolari terreni vulcanici dei Colli Euganei. Colore giallo ambrato. Al naso sensazioni di scorza di arancio candita, datteri e miele di zagara, con un fondo di speziatura dolce. In bocca è dolce e morbido, con una buona freschezza e persistenza gustativa.”

Agrolaguna dd Porec Mate Vlašića 34 52440 Porec, -Parenzo Croazia Tel: +385/52 453-179 - +385/52 432-111 Fax: +385/52 451-610 E-mail: agrolaguna@agrolaguna.hr www.agrolaguna.hr

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La società Teknoline srl si occupa della progettazione, installazione, collaudo e certificazione di linee vita, in conformità alla UNI – EN 795 del 31.05.98 “PROTEZIONI CONTRO LE CADUTE DALL’ALTO - DISPOSITIVI DI ANCORAGGIO”, avvalendoci di personale qualificato addestrato con appositi corsi di formazione per l’installazione di linee di vita, che opera nel rispetto delle leggi in materia di sicurezza. Vi ricordiamo che il Testo Unico sulla Sicurezza 81/2008 - capo II - “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota” stabilisce, alla Sezione I, rispettivamente agli articoli nn. 105, 107, 111 e 115, che qualsiasi attività lavorativa concernente costruzioni, manutenzioni e ri-

parazioni ad un’altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano preveda dei sistemi di protezione contro le cadute dall’alto, dietro vigilanza degli organi preposti (USL e Polizia Locale). Tali sistemi di protezione (Linee Vita) vengono installati in maniera permanente al fine di evitare le temporanee e costose installazioni di parapetti e ponteggi da parte degli addetti ai lavori. I nostri commerciali sono a Vs. completa disposizione per un incontro chiarificatore o per un preventivo gratuito. Potete rivolgerVi direttamente ai nostri responsabili cell. 3939929249 o contattare il nostro ufficio. Vi invitiamo inoltre a visitare il nostro sito www.teknoline.bz.it.

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La Festa continua...


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