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«Il “Male” è soltanto un ricordo. Ma il gusto di seppellire i potenti sotto una montagna di risate non s’è affatto perduto: I “maledetti toscani” hanno inventato un metodo infallibile per far traballare il Palazzo (e non solo quello...): “Livornocronaca”, ribattezzato “il Vernacoliere”, sta battendo tutti i primati». «Il Lavoro» di Genova € 14,00
Quando a Rambo ni ciondolava l’uccello
«Il Vernacoliere è diventato da qualche anno un vero e proprio caso nazionale nel panorama della cosiddetta stampa alternativa...». Riccardo Lenzi, «L’Espresso»
Direttore-editore dal 1961 del settimanale Livornocronaca, divenuto dal 1982 il Vernacoliere mensile satirico, per il quale ha scritto migliaia di articoli in italiano e in vernacolo livornese, Mario Cardinali ha già trattato di molti di quegli articoli e delle relative famose locandine in quattro volumi di editori nazionali: “Ambrogio ha trombato la contessa” Ponte alle Grazie 1995; “Politicanti, politiconi e altrettante rotture di coglioni” Ponte alle Grazie 1996; “L’Italia del Vernacoliere. E’ tutta un’altra storia” Piemme 2005; “I comandamenti del Vernacoliere.Trombare meno, trombare tutti” Piemme 2006. Mancava ancora una raccolta completa delle locandine, nessuna esclusa dal 1982 in poi, e vi provvede oggi la stessa “Mario Cardinali Editore” con questo primo volume che raccoglie intanto gli anni Ottanta, mentre il secondo e il terzo volume tratteranno rispettivamente degli anni Novanta e del primo decennio degli anni Duemila. Il tutto presentato nel contesto storico di riferimento, tracciando così per la prima volta la storia completa di come il Vernacoliere ha rivissuto in sua originalissima satira tantissimi eventi di politica, di società, di costume, di religione e di tant’altro in Italia e non solo.
«Le locandine del Vernacoliere - un genere nuovo che richiede tutti i sali della poesia epigrammatica - sono un monumento linguistico, come i sonetti del Belli, alla plebe livornese; e quando non ci fosse più una plebe che parla così, l’operazione sarebbe ancor più apprezzabile. La pornolalia del Vernacoliere non si oppone ma si accorda alla civiltà di Livorno: è il respiro di sollievo che tien dietro al rifiuto delle parole di plastica che sempre più invadono la lingua di comunicazione; è anche un’esorcizzazione allegra, secondo modi fescennini (tanto più leggera quanto più appare triviale) del demone del sesso; e guai a chi ha perduto la dimensione di questo dialetto: costui è un replicante». Luigi Baldacci «Corriere della Sera»
MARIO CARDINALI
«Conosco il Vernacoliere praticamente da sempre e ne dico tutto il bene possibile. Fa vera satira, una satira esasperata e non annacquata come tanti altri: la parolaccia, il linguaggio maltrattato e irriverente rispettano la tradizione vernacolare e, malgrado tutto, non cadono nella banalità, vera volgarità del nostro parlare quotidiano». Oreste Del Buono, «L’Espresso»
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Mario Cardinali
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Tutti i testi del libro sono opera di Mario Cardinali, titoli delle locandine compresi. Tuttavia si cita quasi sempre per autore il Vernacoliere, semplicemente e sinteticamente.
Le locandine sono state tutte riprodotte dalle edizioni originali, cosĂŹ come allora stampate.
Le vignette nel volume, tutte di Max Greggio e riprodotte per sua gentile concessione, sono tratte dalle copertine e da altre pagine di vari numeri del Vernacoliere. Alcuni testi delle vignette di copertina riprodotte sono di Mario Cardinali.
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Introduzione
Una raccolta completa
Partorite più o meno felicemente dal cervellaccio di Mario Cardinali, le locandine del Vernacoliere sparano ogni mese in edicola, da 27 anni, le notizie ferocemente paradossali che dal 1982 lo stesso Cardinali va inventando a commento satirico ed umoristico di quanto avviene nella realtà. Una realtà d’ogni genere – dalla politica al costume agli spettacoli allo sport ad ogni altro avvenimento di vita quotidiana – rivisitata in pezzi d’un giornalismo vernacolare che ha ormai fatto storia nel suo genere. Ed è accompagnando e presentando ogni mese il Vernacoliere che queste famose e famigerate locandine sono diventate un fenomeno dell’editoria giornalistica italiana, costituendo spesso, col loro particolare modo di fare notizia, veri e propri eventi di satira e d’umorismo. Lo hanno detto e scritto fior di critici e di giornalisti. E come il Vernacoliere, sempre più ampliando negli anni la sua area di diffusione, ha via via percorso vari filoni d’ispirazione, da quelli iniziali degli anni Ottanta, ricchi di localismi e campanilismi toscani, fino a quelli successivi ed attuali nutriti sempre più di satira politica nazionale, così le sue locandine seguono un’evoluzione anche di valenza satirica, come può già rendersi conto il lettore di questo volume, primo di una trilogia che dagli anni Ottanta ai Novanta fino al primo decennio del Duemila viene a creare per la prima volta una raccolta completa di questi manifesti. E in questa straordinaria collezione il titolo principale di ogni locandina viene presentato nel suo contesto storico, spesso accompagnato sia da brani dei vari pezzi vernacolari di riferimento, sia da alcune delle vignette di copertina o interne che via via hanno illustrato quei pezzi. Il tutto – locandine e pezzi e vignette – espresso in quella feroce, imprevedibile, dissacrante, irritualmente icastica e normalmente “scandalosa” lingua livornese che è a sua volta il manifesto d’un modo d’essere 5
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e di pensare d’una gens atoscanamente eccezionale col suo ribellismo anche verbale in una Toscana storicamente d’ordine e di buone maniere. Un ribellismo che il Vernacoliere arricchisce tuttavia di contenuti, dando alle espressioni tipicamente sboccate della livornesità una calcolata valenza di finalità critica. Come appunto le locandine dimostrano, con “parolacce” mai fini a se stesse.
Cos'è il Vernacoliere
Definito già da tempo «il fenomeno di satira politica e di costume più originale e duraturo degli ultimi decenni in Italia», il Vernacoliere è un "mensile di satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e in italiano" nato nel 1982 da una formula che affonda le sue profondissime radici nel settimanale locale di controinformazione libertaria "Livornocronaca" fondato nel 1961. Diffuso in nove regioni – e capillarmente in Toscana – con 42mila copie di tiratura media a numero, il Vernacoliere trae l'unica fonte di reddito dalle vendite, rifiutando la pubblicità per una precisa scelta editoriale. Dito nell'occhio dei potenti d'ogni scuderia e d'ogni cilindrata, libero da appartenenze a qualsivoglia partito o loggia o cosca o parrocchia o centro comunque di potere, il Vernacoliere adopera il linguaggio labronico enfatizzandone la tipica ironia popolaresca anche col frequente ricorso a termini d'ambito sessuo-anatomico cosiddetti triviali ma in realtà connaturati alla sboccata espressività dissacratoria della gente labronica. Nel 1995 al Vernacoliere è stato assegnato il "Premio Internazionale di Satira Politica" di Forte dei Marmi. Del Vernacoliere hanno parlato e parlano un po' tutti i maggiori quotidiani e periodici italiani, molte reti televisive e radiofoniche nazionali e tantissime di quelle locali. Diffuso fra i lettori di tutti i ceti, di tutte le età e d'ogni livello culturale, il Vernacoliere riscuote particolare considerazione anche in campo universitario, che gli ha fra l'altro dedicato una diecina di tesi di laurea discusse sia in Italia che all'estero. 6
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A Valter, a Umberto e a tutti gli altri crani che ogni mese collaborano a dar vita al Vernacoliere.
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Marzo 1982
Marzo 1982, arriva a Livorno il pontefice Giovanni Paolo II, al secolo Karol
Wojtyla di Polonia, ricevuto con grandi onori di popolo e d’autorità nella città tradizionalmente rossa e mangiapreti. E il Vernacoliere (o meglio “Livornocronaca con Vernacoliere, periodico politico satirico culturale di controinformazione” fino ad allora scritto in correttissimo italiano, col linguaggio labronico confinato in scenette dialogate fra popolane) strilla sulla locandina il suo primo titolo in vernacolo livornese (“Boia, ‘r papa a Livorno!”), a corredo d’un pezzo in analoga lingua, che lì per lì fa scandalo fra quanti – non livornesi – interpretano quel “boia!” non come una classica esclamazione locale ma come un offensivo epiteto rivolto al pontefice. Da qui l’immediata percezione, da parte di Mario Cardinali autore dell’esperimento, della valenza anche dissacratoria, oltre che satirica, del linguaggio labronico. Inizia così – da quel marzo 1982 – quel nuovo filone di giornalismo vernacolare che farà dell’irriverente mensile, col progredire degli anni, il più caratteristico, longevo ed irripetibile periodico satirico italiano.
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Si noti, su questa locandina, insieme al primo titolo in vernacolo livornese, la presenza ancora di alcuni titoli in italiano serio, che spariranno dopo qualche mese per lasciare esclusivo spazio al linguaggio labronico.
Marzo 1982
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Se la Livorno rossa e mangiapreti s’era genuflessa davanti al Papa, ecco subito dopo il Vernacoliere a satireggiare che a quel punto poteva arrivare nella festante città dei Quattro Mori anche il re di casa Savoia. E non importava, nella fantapolitica di Cardinali, che si trattasse di Umberto II esule in Portogallo o di suo figlio Vittorio Emanuele finito in Svizzera, anche se lui re non era. L’intento satirico era l’immaginare la rossa Livorno – dominio fra l’altro dei rossissimi portuali – come punto di partenza per la restaurazione monarchica in Italia. Scriveva infatti Cardinali, a conclusione del pezzo del nuovo filone di giornalismo satirico-vernacolare: Mìa per nulla, ma ‘n questa città rossa e rivortosa c’è già passato ‘r papa con tutti l’onori, e se passa anco ‘r re vor di’che siamo cotti a puntino. E scatterebbe ‘r piano stratègio. Truppe a cavallo arriverebbero dar mare ne’ ‘ontenitori, e dop’avé sorpreso i portuali occuperebbero ‘r palazzo municipale, obbrigando l’impiegati a rimèttisi le mezzemànie. Poi, colla scusa di da’ ‘na ‘asa a tutti – che poi sarebbe casa Savoia – vincerebbero anche la resistenza delli sfrattati, piantando su’ Vattromori la bandiere della Rimonarchia. E se casca Livorno, che già traballa pervìa der papa, ‘r giòo è fatto ‘n tutt’Italia. Ed anche se quel gioco non è in realtà avvenuto, Vittorio Emanuele è poi ritornato davvero in Italia, con la moglie e col figlio Emanuele Filiberto, appena abolito nel 2002 il divieto costituzionale al rientro dei Savoia. Un rimpatrio allora omaggiato da tanti come il ritorno del legittimo aspirante alla successione al trono. Un’anticipazione satirica degli eventi, dunque, quella del Vernacoliere. Come altre volte accadrà anche in futuro.
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Maggio 1982
Nel maggio 1982 il Vernacoliere si occupa della guerra anglo-argentina per le
isole Falkland (o Malvine secondo gli argentini, che le rivendicano dagli occupanti inglesi) ricorrendo alla rivalità campanilistica fra livornesi e pisani, dei quali s’immagina così l’invasione della Meloria, a rivendicazione dello storico scoglio al largo di Livorno, già fatale alla Repubblica marinara pisana con la famosa disfatta navale del 1284 ad opera dei genovesi. È l’inizio d’un tormentone – quello appunto dei pisani – che sul livornesissimo Vernacoliere recupera in chiave burlesca una rivalità campanilistica tutta particolare, accesa ma scevra di quell’odio storico che nutre le rivalità fra gli altri toscani, i veri toscani eredi delle reciproche stragi dei tempi medievali. Quando i livornesi non c’erano quasi, essendosi Livorno formata come città nell’ultimo Cinquecento, da un pout-pourri di genti arrivate da mezza Europa a costruire un porto per volontà ed interesse dei Medici fiorentini.
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Giugno 1982
Giugno 1982, tiene ancora banco il gioco campanilistico contro i pisani. E dalla guerra della Meloria si passa alla rivalità calcistica, col Livorno in serie C che deve ingoiare la promozione del Pisa in serie A. Ed ecco il Vernacoliere ad immaginare il vindice blitz delle “Teste di kazzo amaranto” che vanno nottetempo ad addirizzare la Torre pendente, a massimo spregio dell’orgogliosa pisanità. E nell’arroventato clima che ne segue, qualcuno invoca la mediazione del papa a metter pace fra le due tifoserie. Un papa che magari ammonisca i livornesi a non dire più “Pisa merda” come loro usanza, caratteristica certo ma peccaminosa assai. P. S. – Inventate dal Vernacoliere a satira (autosatira) dei tifosi livornesi più incaponiti e suddivise in Ponciaiòli d'assarto, Budiùli 'ncursori e Sciamannati scerti, le Teste di kazzo amaranto traevano ironico spunto dai baschi amaranto dei paracadutisti di stanza a Livorno e dal “k” tanto di moda nella grafia politica contestatrice d'allora. Con altrettanta autoironia i pisani crearono in risposta le "Facce a kulo nerazzurre", prendendo in pieno il gioco del mensile labronico.
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La satira del Vernacoliere dell’estate 1982 colpisce l’annosa grande sete livor-
nese, con un acquedotto che lascia spesso a secco tante cannelle e tanta gente a invocare un bel miracolo, o meglio una grazia come quelle della Madonna di Montenero. La quale infatti appare a un assessore comunale per suggerirgli infine la miracolosa soluzione: bere l’acqua di mare! Stando però ben attenti a levarci prima i topi, poi i bachi, poi il catrame, poi la spazzatura assortita. E portandosi infine il bicchiere alla bocca, non bisogna dimenticare di farsi il segno della croce. E mentre il Consiglio comunale riunito in sessione straordinaria approva subito entusiasta, c’è però qualche turista fiorentino che non segue ammodino le istruzioni e ci resta ovviamente stecchito. Perché ci sono anche i fiorentini nella satira campanilistica del Vernacoliere, specialmente quei fiorentini che d’estate vengono al mare ad abbrustolirsi e a dare la biada ai cavalloni.
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Un delitto di mafia anche a Livorno! Non la mafia siciliana, quella storica, ma la mafia istituzionale, quella delle stanze dei bottoni. Nelle quali – scrive il Vernacoliere – entrava a scuriosare Gigi il matto, uno che rompeva i coglioni a tutti. Senza casa perché sfrattato, senza quattrini perché licenziato, senza più moglie perché tradito, senza conoscenze come un poveraccio qualunque, senza credibilità perché uscito dal manicomio dove l’avevano rinchiuso per le sue invettive pubbliche ad alta voce contro i padroni economici, politici e religiosi, Gigi s’era fissato di voler scoprire la verità, minacciando di scrivere ai giornali una lettera esplosiva. Lettera mai scritta e verità mai conosciuta. Prima che sputtanasse popolo e paese, una sera Gigi è stato trovato schiacciato da una macchina rimasta sconosciuta. Ed ecco così il Vernacoliere inaugurare in satira anche il suo filone sociale, trattando insieme il problema degli emarginati e quello dell’indifferenza della società. Con la democratica Livorno che alla notizia del delitto reagisce fregandosene altamente.
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Ancora satira campanilistica, ed ancora col calcio. Il trionfale andamento dei nerazzurri pisani appena promossi in serie A induce il Vernacoliere dell’ottobre ’82 ad immaginare la conseguente contentezza dei tifosi livornesi, la cui squadra arranca invece in serie C. Un paradosso tale da far immaginare i tradizionali rivali trasformati da “cugini” (come sono sempre stati definiti, e non a caso il proverbio dice che i cugini pinzano) in fratelli (e non a caso un altro proverbio recita “fratelli coltelli”). E sono talmente tanti i livornesi che in quell’affratellamento sportivo si schiacciano le palle dalla contentezza per le vittorie pisane, da far pensare che di quel passo a Livorno regnerà infine la pace. Eterna.
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Prendendo spunto dalla vicenda del fantomatico sottomarino russo avvistato nelle acque svedesi – siamo in tempi di guerra fredda, ma pare che in realtà si trattasse d’un grosso frigorifero – il Vernacoliere del novembre ’82 annuncia che anche nei fondali del porto di Livorno è stato avvistato un “coso” misterioso, non si sa se sottomarino russo anch’esso o barroccio subacqueo pisano o gigantesco cazzo di mare. Ma tanto basta per far dilagare un’incontrollabile paura popolare, tale da far succedere cose mai viste. E per esempio gl’impiegati comunali vanno tutti a lavorare per davvero, l’ospedale smette di ammazzare i ricoverati, il sindaco requisisce le case vuote per darle agli sfrattati, le fabbriche cessano di licenziare, gli autobus divengono molti di più, le botteghe ribassano i prezzi e via e via, in una satirica serie di mirabolanti avvenimenti innescati dalla psicosi del mistero pauroso, tale da far gridare i testimoni di Genova alla fine del mondo, con quel “coso” misterioso trasformato in segno divino.
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Dicembre 1982, Amintore Fanfani è tornato al seggiolone col suo quinto go-
verno e fra il dilagare dei tanti problemi di sopravvivenza pratica per i poveracci, tipo sfratti e disoccupazione, dilagano anche le nuove religioni con i relativi libri di profezie. Ed il Vernacoliere aggiunge allora il libro di Bob che annuncia la venuta sulla terra d’un ennesimo profeta, ma stavolta speciale per davvero: un nuovo salvatore dell’umanità il cui nome “pipi” evoca le sembianze d’un uccello, inteso non come volatile. Pe rifarci anche lui, ovviamente, il culo.
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Dopo aver tentato nel 1981 di uccidere a pistolettate il papa Giovanni Paolo II,
l’anno dopo il turco Ali Agca condannato all’ergastolo cambia versione ed inizia a parlare di una pista bulgara che collegherebbe l’attentato al Papa con i servizi segreti della Bulgaria. È la cosiddetta “Bulgarian Connection” (con relativo traffico di armi e di droga, e con tanto di riferimenti alla loggia massonica P2 e alla banca vaticana Ior), alla quale il Vernacoliere si rifà per inventare un traffico di topi e di spazzatura, e di bottino in particolare, fra Lucca e Bulgaria, scoperto nel porto di Livorno, anche lì con lo zampino di P2 e Ior, e grazie alla spiata di uno spazzino. E allora sì che scoppia il clamore – satireggia il Vernacoliere – come invece non avviene per altri veri traffici, armi e droga comprese, ogni tanto scoperti anch’essi nello scalo labronico.
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Infuria sugli schermi il film “E. T. l’Extra-Terrestre” di Steven Spielberg, e il
Vernacoliere annuncia allora l’arrivo sulla terra di D. P., ovvero la Donna con le Palle, a rovesciare satiricamente il tradizionale gioco dei ruoli, stavolta con gli uomini a dover subire la parte delle donne. Tant’è che, presentandosi sotto mentite spoglie, l’extraterrestre D. P. fa sì che per esempio un marito stanco venga violentato da una moglie grinzosa, una donna sia vista pisciare al muro, una segretaria tocchi il culo al direttore e un’operaia metta incinta il sindacalista. Che detto oggi non fa granché effetto, ma nel 1983 ci voleva proprio una bella fantasia per immaginare certe cose!
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Ennesimo sciopero del personale ospedaliero, ma stavolta i ricoverati abban-
donati a se stessi si ribellano, mettendo loro sotto i ferri gl’infermieri e i dottori rimasti in corsia per i servizi minimi essenziali. Un massacro vero e proprio, rivela drammaticamente il Vernacoliere. E come ad ogni rivoluzione succede una controrivoluzione, così anche stavolta un massacro chiama l’altro. Con i medici scioperanti che rientrati in servizio si mettono a vendicare immediatamente i colleghi fatti a pezzi, scuoiando a loro volta i ricoverati rivoltosi. E chi non ci vede la satira di quanto avviene (avveniva?) in realtà, vuol dire che in ospedale non c’è mai stato.
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Stavolta tocca all’abusivismo edilizio, con tutta la rete di complicità e di mazzette che spesso l’accompagna. E la satira del Vernacoliere scatta in difesa della Madonna di Montenero, accusata d’essere una ladra anche lei, come ultima agghiacciante maldicenza di chi ha già bestemmiato Dio, umiliato la Patria e cacato sulla Famiglia. E nel crollo dei sacri valori tradizionali, in un’epoca di scandalose calunnie gettate sui ministri trattati di mafiosi e piduisti, di oscene voci di fascismo su giudici intemerati, di squallide accuse di furto e spionaggio a gloriosi generali, di vergognose dicerie di corruzione su politici e finanzieri e di tangentismo su specchiatissimi sindaci ed assessori, ecco il Vernacoliere a dire ora però basta, non si può insinuare che rubi perfino la Madonna! A danno della quale Vergine Madre di Gesù allocata a Montenero viene infatti scoperta dal mensile labronico un’oscura storia di miracoli a pagamento e di palazzi abusivi, una laida manovra del Demonio per infangare anche l’ultima purezza rimasta. “Ma le forze del Male non prevarranno!” grida il Vernacoliere. “ Noi s’è scoperto tutto, e la città si ribella! La Madonna no, diobonino!”
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Ispirandosi ai diari di note vittime della mafia siciliana, anche il Vernacoliere
s’inventa un suo diario. O meglio, il diario di Gigi il rompicoglioni, un poveraccio che si era messo a scuriosare nelle stanze dei bottoni e perciò ammazzato dalla FIA (Federazione Intrallazzatori Autorizzati) per non farlo parlare. Ed eccolo invece ora eloquentissimo in quelle pagine che fanno i nomi di “trafficanti di case, licenziatori d’operai, rincaritori della vita, politici fettaioli, assessori colla villa, spipatori di bimbi, quattrinai senza tasse, speculatori di tombe, preti colla ganza e insomma tutti quelli che cianno le mani in pasta”. Una satira feroce di quanto avveniva allora nell’italica realtà quotidiana, e ancor oggi continua ad avvenire. Perché, come se ne sono sempre fregati prima, ancor d più oggi i detentori del potere – politico economico religioso o comunque il potere di fare i propri indisturbati comodi a danno dei poveracci – continuano a infischiarsi del pubblico controllo. E poi magari si meravigliano che la gente smetta di votare…
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A conclusione del campionato di calcio 1982- 83 il Livorno retrocede dalla C1
addirittura in C2, in un incredibile tracollo che dalle antiche glorie della serie A l’ha infine portato a giocare con le squadrette dei paesini più sperduti. Apriti cielo! È il lutto cittadino! Che il Vernacoliere dipinge con i portuali in lacrime, i disoccupati disperati, le fabbriche chiuse, gli sfrattati taciturni, i consumatori senza più nemmeno la forza di protestare davanti al carovita, il sindaco e il vicesindaco che si schiacciano le palle e via e via, in un generale sgomento tanto più insopportabile quanto più è invece tracotante il trionfo del Pisa rimasto in serie A. Un Pisa che, nella satira campanilista del Vernacoliere, progetta addirittura di usarlo allora lui lo stadio del Livorno! Un uso oltretutto spregioso, con lo svolgimento delle olimpiadi di campagna – contadini essendo soprattutto visti i pisani dai livornesi – incentrate sulla corsa dei barrocci, sul lancio del forcone, sul salto della mucca e su altre specialità del contado pisano. Ma ecco insorgere il Comitato Demogràtio Antipisano, a capo d’una città che pur piena di ben altri gravissimi problemi urla sdegnata Lo stadio ar Pisa no! Piuttosto ci si càa!
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A particolare commento delle elezioni politiche del 1983 che portano Craxi al suo primo governo, il Vernacoliere manda in Parlamento addirittura un livornese. Che ovviamente si chiama Beppe, ovviamente è un truculento tifoso amaranto ed altrettanto ovviamente è il rappresentante degli Allezziti della città, ovvero degli ultimi nella scala sociale, quei poveracci la cui unica ricchezza consiste nel lézzo (lo sporco incuoito di chi non ha neppure l’acqua per lavarsi). E giocando autosatiricamente sulle caratteristiche tipiche dei livornesi, il Vernacoliere attribuisce all’onorevole Beppe – presentatosi nella spaventata aula di Montecitorio con i tipici modi della più irriguardosa livornesità – l’immediata richiesta d’una legge per levare il Pisa dal mondo. Subito facendo a botte con un deputato pisano. Come l’uso parlamentare esige, indipendentemente dai campanilismi.
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Settembre 1983
Come significativo atto di giustizia fiscale del primo governo a guida socialista
(un pentapartito DC-PSI-PRI-PSDI-PLI uscito dalle elezioni politiche con Bettino Craxi presidente del Consiglio) viene istituito il bollo sugli uccelli. E ciò ovviamente nella satira del Vernacoliere, che rivela come la difficile ricerca d’una nuova tassa sociale da parte del nuovo esecutivo capitanato dalla sinistra sfocia infine in un balzello per coloro ai quali l’uccello si rizza sempre, dai diciott’anni in su. E lo voglio vedere chi sosterrà invece d’avercelo sempre moscio… In modo che pagheranno anche quelli ai quali non si rizza più, per non fare brutte figure. E in quella storica seduta del primo Gran Consiglio Craxista qualcuno si spinge anche a ventilare l’Iva sulle scurregge, tanto per marcare ancora di più il carattere popolare della nuova politica fiscale dell’Era socialista.
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Ottobre 1983
Nel settembre 1983 i caccia sovietici abbattono nei cieli russi di Sakhalin un
Jumbo sudcoreano, dopo che il volo di linea aveva violato per errore lo spazio aereo russo. Le vittime sono 269, giustificate da Mosca col dire che si trattava di un aereo spia, nel quadro della guerra fredda fra URSS e USA. Il mese dopo il Vernacoliere trasporta la tragedia in chiave campanilistica, facendo affondare da un sottomarino pisano della serie “U-Bótte di merda” un barcone (gózzo) livornese carico di gente che andava a far ribotta alla Meloria, lo storico scoglio al largo di Livorno già teatro della sconfitta navale pisana del 1284 ad opera dei genovesi. Uno scoglio che ora Pisa – come ironizza il Vernacoliere – vorrebbe riprendersi per farci una fabbrica segreta di palloni truccati per non perdere le partite di calcio, così sottraendolo al libero godimento festaiolo dei livornesi. E come i russi avevano accusato di spionaggio l’areo sudcoreano, così i pisani accusano di spionaggio il gózzo labronico. Ovvia la sete di vendetta livornese per la strage d’innocenti, con la mobilitazione delle “teste di kazzo amaranto”, la dichiarazione d’apertura di caccia ai pisani di passo, e con l’interpellanza parlamentare del livornesissimo onorevole Beppe che oltre a chiedere chi è che dà le botti ai pisani per farci i sottomarini, ammonisce la Motofides (reale fabbrica d’armi situata a Livorno) a vendere i suoi siluri agli africani e non ai pisani. Tanto per dare alla satira un riferimento più polemico del campanilismo.
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Alcune delle tremende “teste di kazzo amaranto�, gli speciali tifosi del Livorno mobilitati contro i barbari di Pisa.
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Novembre 1983
Siamo in clima di guerra fredda. L’America schiera i suoi spaventosi missili nu-
cleari Cruise e Pershing, ai quali la Russia risponde con lo schieramento degli altrettanto terrificanti SS20. E il Vernacoliere trova il modo di far satira anche su quel folle armamentario, motivo comunque di colossali investimenti e guadagni per i fabbricanti di morte, collegandolo alla crisi economica di Livorno, dove le industrie stanno chiudendo una dopo l’altra. Ecco infatti, a risollevare le sorti dell’economia labronica secondo l’immaginazione di Mario Cardinali, un tremendo missile fabbricato in loco. Un’arma ovviamente d’offesa, come ben spiega la vignetta di Max Greggio in copertina.
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Dicembre 1983
Ed eccoci alla topa, uno dei classici tormentoni del Vernacoliere cominciato con
quella famosa “Sovrimposta sulla topa” che, da titolo d’un pezzo sparato sulla locandina a rivisitazione satirica della Sovrimposta sui Fabbricati escogitata in quel tempo dal governo, si trasformò immediatamente in un clamoroso caso giudiziario. Col processo per direttissima al Cardinali (accusato d’offesa al pudore da un pisano, paradossalmente uomo di sinistra e di cultura) risoltosi in un’assoluzione piena che non solo negava il supposto reato d’oscenità ma addirittura escludeva che con la topa del Vernacoliere si realizzasse magari un’offesa alla pubblica decenza. E questo perché proprio quella satirica topa vernacolare, così familiarmente priva di significati offensivi e di valori negativi secondo l’appassionata autodifesa dell’imputato, attestava in sentenza l’ormai evidente cambiamento del concetto di comune senso del pudore. E se in aula il Cardinali – oltre ad affermare tra l’altro che il suo pezzo s’inquadrava nel nuovo filone satirico-vernacolare col quale, rovesciando la tradizionale tecnica del montare il commento satirico sul fatto reale, il suo periodico inventava invece un evento grottesco a satira della realtà – avesse letto anche il suo pezzo su quella Sovrimposta, si sarebbe capito anche di più a cosa mirava l’uso della topa in quel contesto: a far satira politica e sociale ben precisa, non solo in linguaggio “sboccato” popolare ma anche in una visione popolarescamente dissacrante in cui le leggi nascono in un certo modo e servono sempre a dover essere subite da chi non vi si può sottrarre.
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Gennaio 1984
Come satirica conseguenza dei tagli finanziari decisi dal governo Craxi, il Ver-
nacoliere del gennaio 1984 si domanda se la grave situazione economica del paese farà chiudere anche il Comune (di Livorno, ovviamente), satiricamente privo ormai anche dell’indispensabile corredo di fogli e timbri per la tradizionale attività burocratica. E con tutte le altre fabbriche livornesi già in crisi, mandare a spasso anche tutte quelle centinaia e centinaia di dipendenti comunali sarebbe per l’economia cittadina una tragedia. Al punto che in Comune – dove intanto la gente si precipita all’Anagrafe a fare i fogli tutti insieme – si progettano grandi azioni sindacali di protesta, fra le quali un corteo per urlare tutti insieme fateci lavorà, siamo stanchi d’un fa’nulla! Dove la satira non è soltanto sulla crisi economica…
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Febbraio 1984
Ci sono certe date nella storia dell’omo che ‘un si possano scordare: l’inven-
zione della cambiale, ir manganello della Celere, la chiusura de’ ’asini, ir centrosinistra e ‘r Bingo sur Tirreno. E ora un’artra data storica è arrivata: venerdì 13 gennaio, topa si por dire! E chi ce la leva più ora l’amata parola, colla quale sono sèoli che a Livorno la nonna ni dice bella topina alla su’ nepote quand’è piccina, e ‘r marito ni dice bella topona alla su’ moglie quand’è grande? E ce la volevano proebire! «Bella vurva, vagina mia!» ni si doveva ‘nvece di’, seondo loro! Comincia così il pezzo col quale nel febbraio 1984 Mario Cardinali dà notizia della sua piena assoluzione nel processo della Sovrimposta sulla Topa, con una memorabile locandina che annuncia al mondo come la beneamata parola non sia più un reato. E da quel momento la topa diviene una vera e propria categoria kantiana nell’universo filosofico del Vernacoliere, un simbolo cosmogonico della fenomenologia terrena, un preciso, continuo e puntuale riferimento ideologico e sostanziale a tutto ciò a cui l’umanità ha sempre teso e sempre tenderà, quel mitico mondo migliore con tanta topa per tutti e se ci levi anche quel sogno ci pare d’averlo sempre preso in culo e basta.
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Marzo 1984
Ai primi del 1984 infuria il gioco del Bingo, una specie di tombola che anche il
quotidiano livornese Il Tirreno rilancia con le sue cartelle fra gli entusiasti lettori, dimentichi per questo dei tanti seri problemi della loro città. Ed il Vernacoliere, a quei tempi diffuso soprattutto nelle province di Livorno e di Pisa, s’inventa allora anch’esso un suo gioco – ovviamente satirico – per attirare nuovi lettori. Ed invece del Bingo, ormai dilagante fino alla noia, ecco il Bongo, un concorso con premi veramente utili: oltre a vagonate d’oro, le cartelle del Vernacoliere regaleranno anche soluzioni vere ai veri problemi cittadini. Per esempio: I giovani ‘un cianno lavoro? E noi si mandano in Comune! I vecchi cianno ‘r pipi moscio? E noi ni si dà le stecche! Li sfrattati sono senza tetto? E noi ni si fornisce i tegoli! La benzina è troppo cara? E noi si va appiedi! I figlioli sono pòo eduati? E noi ni si dà du’ciaffoni! E così via e via, in una esilarante satira sulle manie del gioco, sugli interessi di chi lo manovra e sulla dabbenaggine dei giocatori.
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Aprile 1984
S’arriva così a Raffaella Carrà, le cui esibizioni televisive hanno fatto anch’esse la storia d’Italia. O meglio la storia d’una società di telespettatori già allora rincretiniti da giochi e giochini in collegamento telefonico con osannati personaggi del varietà televisivo, fra i quali nell’84 impazzava appunto la platinatissima Carrà che in “Pronto Raffaella” ti metteva davanti un barattolo di vetro e ti sparava la fatidica domanda: “Quanti coriandoli ci sono?”. E se non erano coriandoli dovevi indovinare i chicchi di riso o sennò i fagioli o quant’altro ci ficcassero dentro, in quell’infamato barattolo. E più Raffaella chiedeva e più i milioni di telespettatori la stavano a sentire adoranti, ma così adoranti che alla fine il Vernacoliere non s’agguantò più e annunciò che la bionda adorata show-girl era una santa e faceva i miracoli addirittura. E stavolta gratis davvero, mica come la storia dei sei miliardi l’anno ricevuti dalla Rai per il suo giochino! Storia falsa, satireggia l’articolo di Cardinali, perché que’’ milliardi Raffaella li piglia sì, ma poi li dà a’ bimbi scemi! Che siccome sono scemi perdavvero, poi nieli ridanno a lei…
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Pasqua 1984, terremoto a Livorno. E il Vernacoliere non perde l’occasione per
satireggiare anche su quell’evento, o meglio sulla paura e sulla psicosi d’allarme creata fra la gente anche dagl’interessi di tiratura della stampa locale, e su come le autorità affrontano l’emergenza. Ordinando fra l’altro – scrive l’irridente mensile – di non scuotere troppo i letti quando si tromba, per non fare troppe scosse. Del resto si sa che ai livornesi piace scherzare anche nei momenti più difficili, come già l’attacco del “servizio vernacolare esclusivo” di Cardinali fa ben capire: Dice vai, è risorto! Che difatti era Pasqua, e alla prima botta di terremoto quarcuno voleva fa’lo spiritoso. Ma alla seonda botta n’è passata la voglia, ‘un dubità! Un popò di scossone, ballava tutto! Dice dé, e qui risorge lui, ma si more noi! Sicché via, tutti per la strada!
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Nelle alterne vicende del campanilismo calcistico succede che il campionato 1983/84 si conclude con la retrocessione del Pisa di Romeo Anconetani in serie B, mentre il Livorno, precedentemente finito addirittura in C2, comincia a risorgere dall’abisso col ritorno intanto in C1. È una ghiottissima occasione per il Vernacoliere di prendere in giro sia i pisani – rivelando che in verità la loro squadra è retrocessa perché gli avversari in campo la indispettivano con spregi e offese alla mamma – sia i livornesi che pur oberati da sfratti e licenziamenti sognano più che altro di scozzarsi nuovamente in infocati derby con gl’infamatissimi “cugini”. Tanto hai voglia di di’, ‘r pallone risorve tutto!
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Ci sono anche i fiorentini, nelle mire del sarcasmo campanilistico labronico. Non col gusto con cui si sbeffeggiano i pisani, ma all’occasione il Vernacoliere non si fa pregare per ricordare come i cittadini del Giglio siano piÚ che altro visti dai livornesi in veste di tradizionali rompicoglioni che ogni estate c’invadono le spiagge per arrostirsi al sole e, poco pratici di nuoto, ci bevono tutto il mare. Aspirando anche dal culo, a volte, come i cavalli. Con impietoso riferimento a certe particolari inclinazioni a buoritto di quella gente, come già rilevava Dante ai suoi antichi tempi.
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Fra le più clamorose prese di culo ha fatto storia anche la beffa livornese delle false teste di Modigliani nell’estate 1984, che per la sua risonanza internazionale fece ridere mezzo mondo. E storia di risate ha fatto anche il pezzo satirico dedicato all’evento dal Vernacoliere, che così cominciava: Pareva un’estate normale. Ir mare sciabordava tranquillo, pieno di stronzoli e fiorentini a mòllo, e a terra tutti a grondà. Quand’ecco un urlo rompe la patàna: “Hanno trovato le teste di Modigliani!” E sembrava davvero che le avessero trovate, quelle due famose teste del grande scultore livornese, nei fossi medicei di Livorno, pervicacemente cercate nell’afa agostana da una draga comunale per volontà del famoso critico d’arte Dario Durbè, rappresentato a Livorno dalla sorella Vera, ambedue arciconvinti che nei fossi quelle sculture ci fossero finite per mano dello stesso Modigliani al tempo della sua gioventù labronica. Ma l’urlo gioioso dei livornesi si strozzò presto nelle gole, e parimenti rimasero di sasso tanti inneggianti critici d’arte locali e nazionali quando poi si scoprì che quelle teste erano solo uno scherzo di alcuni goliardi locali che confessarono al settimanale “Panorama” d’averle scolpite loro, e addirittura col trapano elettrico, prima di buttarle nell’acquaccia dei fossi. Non a caso il Vernacoliere, avendo annusato la colossale beffa già prima che apparisse sulla stampa nazionale, aveva subito sparato a zero un titolo che diceva già tutto: “Trovata una sega!”. Trovando il modo, a proposito di certe propensioni onanistiche, di satireggiare anche sulla livornesità in rapporto alla teoria darviniana dell’evoluzione della specie. 62
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Ottobre 1984
Quando poi la beffa delle due teste di Modigliani si evidenziò in tutta la sua tra-
gicomica realtà , il Vernacoliere aggiunse satira alla satira annunciando che era falsa anche la sua sega, a ferocissima parodia della vera travolgente figura di merda dei sussiegosi palazzi dell’arte e della politica che vi stava dietro.
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Ancora lei, la furoreggiante Raffaella della tivvù scacciapensieri, simbolo
d’un’Italia che s’avviava alla grande spartizione tangentizia degli anni craxiani. E quando a Milano appare nell’autunno 1984 un goliardico manifesto a lutto («Si è spenta la donna più amata d’Italia, Raffaella Carrà. Ne danno il triste annuncio i suoi più stretti collaboratori. I funerali si terranno a Roma domani»), lo scherzo sembra a molti come un’insopportabile offesa al divino personaggio. Ed ecco allora puntuale il sarcasmo del Vernacoliere contro i dissacratori, con una locandina che urla all’attentato destabilizzatore contro la divina bionda, teso a gettare il paese in un caos tale da preoccupare tutte le forze vive della nazione, mafia compresa. Forze vive che però reagiscono, i terroristi vengono arrestati e finalmente il paese può tornare in rassicurata massa davanti alla tivvù.
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Sulla fine del 1984, con l’America e la Russia in piena guerra fredda, un agente del KGB sovietico porta al Vernacoliere un segretissimo dossier secondo il quale il presidente americano Ronald Reagan, appena rieletto alla Casa Bianca ed inviso per la sua politica militare a tanta parte dell’opinione pubblica mondiale, sarebbe in realtà pisano. Ed ovviamente il Vernacoliere risoffia il tremendo sospetto ai quattro venti, perché se coi pisani stanno già poco allegri i livornesi e tanti altri toscani, figuriamoci cosa si deve aspettare il resto del mondo col dito d’un pisano sui bottoni dei missili nucleari. Ovvero, un po’ di politica internazionale satiricamente rivisitata attraverso il classico campanilismo antipisano dei livornesi.
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Un episodio di violenza maschile di gruppo su una ragazzina di Livorno offre
l’estro al Vernacoliere per una feroce satira sociosessuale, con l’immaginare le donne della città che stufe di tanta annosa sopraffazione si scatenano infine nella caccia all’uomo, tutti gli uomini indistintamente, grandi e piccini, giovani e vecchi, lavoratori e pensionati, tagliando palle a tutt’andare. Finché l’orrenda strage a forbiciate allarma dapprima il Consiglio comunale (dove tutti si tastano conmmossi fra le gambe) e poi il Governo addirittura, che decide così di fare un degreto perapposta per mèttenni alle tagliatrici di palle un po’ più d’affari perdidietro, così si ‘etano e seguitano a struscià ‘n terra e a lavà ‘ panni! E a chi la pigliano a fassi violentà – conclude il Vernacoliere – ni sarà tagliata la lingua a lei , così ‘mpara a chiaccherà!
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Inverno 1985: dopo la neve, il gelo, le alluvioni e il terremoto, ecco l’Italia mi-
nacciata da una nuova epidemia: una tremenda ondata di cacarella causata dagli effetti intestinali di tutti quegli eventi. Ed ecco le contromisure del Governo divulgate dal Vernacoliere, a satira di quanto avviene di reale inefficienza e di pressappochismo nei veri disastri naturali. Intervento dell’esercito compreso.
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Marzo 1985
Dilaga il carovita e la colpa come al solito viene addebitata ai continui rialzi in Borsa del dollaro. Ma questa volta Bettino Craxi, capo del governo, non ci sta. E come scrive il Vernacoliere, decide di minacciare il presidente americano Reagan: o lui i dollari li ribassa o l’Italia se li farà da sé! (Il che poi in realtà non avvenne, ma il sistema di farsi i quattrini a modo suo Craxi lo trovò ugualmente…).
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Una ragazza pisana di facili costumi dichiara al Tirreno che le case squillo, nu-
merose in Toscana, ci sono anche a Livorno e sarebbero addirittura una quarantina. Apriti cielo! Si sparge la voce che nella città dei Quattro Mori la danno tutte – come immediatamente riporta il Vernacoliere – e subito una delegazione di vecchietti livornesi bisognosi di topa va tutta eccitata in Comune a chiederne l’intervento per essere beneficiati anche loro da tanta abbondanza. Un’abbondanza che però risulta solo a parole, perché i soliti segaioli seguitano a doversi fare le solite seghe, in mancanza di adeguati mezzi per pagarsi certi costosi servizi. Basti pensare che sei ore al giorno assicurano alle squillo anche dieci milioni al mese, straordinari a parte. Lo farei anch’io, sapessi squillà! commenta a quel punto un sindacalista, intervistato dal Vernacoliere. Ortretutto è un lavoro dimorto ‘nteressante, un novo modo di combatte’ la disoccupazzione ar quale ‘un ci s’era mai penzato! Vorrà dire che a quest’artro congresso sindaàle lo metterò all’ordine der giorno, perchè ‘un è detto che se ‘r sindaàto tutela l’operai che lo pigliano didietro, ‘un debba tutelà anche le puttane che lo pigliano davanti!
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Il carovita, nella vulgata del Palazzo, è sempre qualcosa d’ineluttabile che il
paese non può far altro che subire, ed ai sudditi non resta altro che pagare (magari dopo aver cercato qualche bottega dove la roba possa costar meno, secondo l’illuminato rimedio consigliato alle massaie dal Berlusconi capo del governo). E fra i beni sempre colpiti dai continui rincari c’è per eccellenza la benzina, vuoi perché ci speculano indisturbati i grandi petrolieri, vuoi perché ci guadagna sempre di più anche il fisco con le accise. Ma c’è stato un tempo, nell’85, in cui i tartassatissimi automobilisti italiani avrebbero potuto fare a meno del sempre più costoso carburante grazie alla più rivoluzionaria invenzione in campo automobilistico di tutti i tempi: il motore a piscio. Un piscio così inquinato da tutti i troiai ingurgitati e respirati ogni giorno che poteva addirittura funzionare da carburante. E avrebbe potuto davvero farlo – rivelò il Vernacoliere – se subito il governo non fosse corso ai ripari decidendo di mettere il lucchetto sugli uccelli degli inammissibili pisciatori. Perché la benzina la puoi tassare, ed è una fonte inesauribile d’entrate; ma il piscio come fai?
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Sul finire del campionato di calcio 1984-1985 Livorno è sconvolta dalla pro-
mozione del Pisa in serie A. E una quasi sommossa popolare – racconta il Vernacoliere – chiede al livornesissimo Sandro Pertini il suo alto intervento di capo dello stato per far retrocedere invece i pisani addirittura in serie C, al fine di farli riscozzare con gli amaranto labronici, laggiù confinati da tempo. – Sennò si fa prima a morì, avanti di rivedé ‘r derbi! – spiegano i tifosi al presidente. – A Livorno ‘un ci s’ha mìa artro, è per questo ‘e si respira! – Come , ‘un ciavete artro?! – si stupisce Pertini. – O ‘un ciavete anche pieno di sfratti e di disoccupati? – Perappunto, le solite’ose! – insistono i tifosi. – Come i bottegai ladri, le bue per la strada, le ’artelle der Bingo, le siringhe per la terra, le ‘orse de’avalli… ‘Un cambia mìa mai nulla, a Livorno! E non è solo satira del Vernacoliere. A Livorno davvero è così. Da immemorabili anni. Se per i romani erano panem et circenses, per i livornesi sono ponces et pallonem.
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Una nuova estate, e di nuovo la satira sui bagnanti fiorentini. Che puntuali, nella puntuale satira campanilistica del Vernacoliere, ricalano in massa sulla costa e come ogni estate sguazzano felici nel merdaio (mare inquinato, pardon) e quando non ci affogano ne bevono comunque a grandi sorsi. Col timore livornese di vederselo seccare. Ma a mali estremi, estremi rimedi. Questa volta ci si càa! strilla infatti la locandina del Vernacoliere, annunciando un drammatico consiglio comunale per decidere l‘Operazione Smerdamento generale su tutta la costa, al fine di rendere definitivamente ingiovibile ai fiorentini il nostro bel mare blu! Già largamente ingiovibile per il consueto inquinamento, a dire il vero, ma stavolta bisognerà proprio smerdarlo a puntino. Come quel tizio che si tagliò le palle per fare dispetto alla moglie…
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A metà degli anni Ottanta non si era ancora capita in Italia tutta la contagiante tragicità dell’AIDS, nuova malattia planetaria, ma intanto gli allarmi continuavano a fioccare e si diffondeva la psicosi che per essere contagiati bastava un nulla, faceva male tutto. E lì il Vernacoliere non ci sta. Per cui, prendendo spunto dall’imperversare di Renzo Arbore in tivvù con la sua seguitissima trasmissione umoristico-musicale “L’altra domenica” in cui si cantava “Ma la notte no”, l’incosciente periodico satirico annuncia che no, non è vero che con l’AIDS fa male proprio tutto: la topa no, da che mondo è mondo la topa ha sempre fatto bene all’uomo, e in ogni caso ne ha sempre calmato inquietudini ed ansie. Basterà l’accortezza – come raccomandava il ministero della Sanità – di farla bollire bene bene, e se poi ne avanzava un po’ci si potevano anche fare le polpette, da conservare in frigo… Della serie la topa è come il maiale, ‘un si butta via nulla.
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Il mostro di Firenze, ricordate? Agghiacciarono a lungo l’Italia le sue macabre imprese negli anni Settanta, le sue orrende mutilazioni dei corpi delle coppiette uccise nei luoghi fuorimano dell’amore. E passarono lunghi anni prima che la banda dei “compagni di merende”, a principiare dal Pacciani, fossero individuati, processati e condannati. Anni di ricerche così infruttuose, e tuttavia così ricchi di colpi di scena fasulli e di annunci tanto clamorosi quanto inconsistenti, che il Vernacoliere a un certo punto – era l’ottobre dell’85 – annunciò anch’esso una sensazionale novità: al mostro gli puzzavano i piedi, e nemmen pochino! E così, dopo tanti anni di ricerche a occhio, le indagini avrebbero potuto finalmente andare avanti a naso.
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Il 7 ottobre 1985 un commando palestinese sequestra nelle acque antistanti
l’Egitto la motonave italiana Achille Lauro con 454 persone a bordo, fra crocieristi americani ed equipaggio. E il Vernacoliere esce il mese dopo con la sua rivisitazione satirico-campanilistica del clamoroso fatto, presentando quei tragici eventi mediorientali in salsa toscana. Ovvero con Pisa che sequestra nell’Arno un gommone fiorentino. E in cambio dei 120 ostaggi i pisani vogliono il rilascio del loro terrorista Gósto (tipico nome dei pisani di campagna) arrestato dai livornesi. Dove parodisticamente i pisani sono i palestinesi, i fiorentini sono i turisti americani dell’Achille Lauro e i livornesi sono gl’israeliani, dai quali però li separa a dir poco una mentalità del tutto differente. Davanti infatti al colpo di mano pisano e alle pressanti ed arroganti richieste fiorentine di liberare Gosto, il capo livornese del Comitato Antipisano così proclama fieramente: Ma Livorno dice no! No ar terrorismo di Pisa, no all’arroganza di Firenze! Per noi Gosto se lo pole anc’andà a pigliasselo ner culo, mapperò Firenze ce lo deve chiede’ perpiacere, vero?!... O cosa si credano i fiorentini, d’avecci ‘nfinocchiato con du’ciucciamèli, come Règa con Crassi?! Artra pasta, la nostra!
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Dicembre 1985
L’invasione di prodotti taroccati dalla Cina ha radici antiche, e già negli anni Ot-
tanta non si contavano più le radioline false, gli orologi falsi, le magliette false… Finché nel dicembre 1985 il Vernacoliere denuncia addirittura l’arrivo dall’Oriente di una mandata di tope, false anche quelle! …Che lipperlì a vedelle paiano vere – scriveva il mensile, nel rivelare il preoccupante raggiro – ma ‘nvece puzzano di caucciù! E puzzassero e basta! A vorte sono di gomma così grossa, che pare di gonfià ‘na bicigretta! E poiché incombeva il Natale, ovvio l’invito a tenere gli occhi aperti: Òmini, attenti! Se per le feste di Natale volete regalà ‘na topa nova a vostra moglie, o sennò alla vostra ganza perché oramai perde i pezzi anche quella, occhio alle fregature!
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Con la gravissima tensione fra gli Usa e la Libia di Gheddafi sullo sfondo, il Vernacoliere del gennaio 1986 si mette a smontare il mito di Rambo, dilatato dagli ismi del momento: Rambo e il Superomismo, Rambo e il Militarismo, Rambo e il Machismo… Era l’ora, per il Vernacoliere, di satireggiarlo un po’ a modo suo quel maschilissimo Superguerriero la cui moda faceva travestire da rambini anche i bimbetti e vedevi pistole e pugnaloni come quelli dell’Eroe Guerriero dappertutto, giocattoli è chiaro nella mani dei ragazzi ma tremendamente preoccupanti per tutto il militarismo da squadre d’assalto che ci si respirava. A Rambo ni ciondola l’uccello! sparò a quel punto il Vernacoliere, al quale un amico libertario andò poi a dire che aveva fatto più antimilitarismo quel titolo esposto nelle edicole per un mese che gli anarchici con le loro campagne d’opinione in dieci anni. Capirai, in una società fallocratica come la nostra anche il Rambo più terrificante appare un bischero qualunque, se ha l’uccello moscio.
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la Carrà, ecco Pippo Baudo nel mirino satirico del Vernacoliere, quale grande imbonitore di cervelli fra le masse televisive. Lo spunto viene dal matrimonio di Pippo con la celebre soprano Katia Ricciarelli, e la scena vernacolare è all’aeroporto di Mosca, effettiva meta del viaggio di nozze. E tutto principia con Baudo che, uscito di rincorsa dal gabinetto dove si era attardato mentre Katia lo chiamava ansiosa perché l’aereo stava per partire, per la fretta non si era rimesso nei pantaloni il suo smisurato uccello di pubblicizzatissimo “grande amatore” (per giunta siciliano, e di fattezze più moresche che mitteleuropee) e viene subito preso per un arabo, o marrocchino com’è d’uso ritenere chi abbia un fallo esagerato. Apriti cielo! Con la psicosi della strage araba di Fiumicino sempre per aria (il 28 dicembre 1985 un commando palestinese aveva fatto nell’aeroporto romano 13 morti e 77 feriti), succede un’altra sparatoria generale.
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Perennemente a caccia di nuove entrate, e dopo aver già strizzato le varie cate-
gorie di contribuenti che alle tasse non possono scappare, al Governo non restano infine che i grossi professionisti, i commercianti ricchi, i quattrinai veri e i becchi più o meno contenti, categoria notoriamente vastissima ma poco incline a dichiararsi. Chi scegliere? I becchi ovviamente, annuncia il Vernacoliere. I quali, con un bel condono generale – a similitudine e satira del recente condono edilizio – e con adeguata cifra da sborsare in base a peso e misura delle corna, potranno farsi annullare l’antipatica qualifica ed essere iscritti nell’apposito elenco di coloro che «’un sono più becchi», uscendo così dall’abusivismo. E poiché la domanda di condono si presenta in Comune, ecco che ‘n Comune c’è digià la fila, – attacca il pezzo di Cardinali – par d’esse’alla Mutua a piglià ‘r giro! Òmini di tutte l’età e di tutte le ‘ondizzioni sociali, giovani e vecchi, ricchi e poveri, operai e ‘mpiegati, dipendenti pubbrici e privati, tutti lì a aspettà che s’apra l’uscio! Capirai, con tutti ‘ becchi ‘e c’è, trenta giorni di tempo per ir condono ‘un sono mìa tanti! Sicché tutti a corre’! Oddìo, propio tutti no, piuccheartro i soliti becchi perbene che loro la legge la rispettano e vogliano sempre pagà! Quell’artri ‘nvece, quelli che poi faranno la solita dimostrazzione a Roma per restà abbusivi come nelle ‘ase, loro la fila ‘un la fanno, c’è la mafia anche lì! E neanche pagano i becchi ‘mportanti, i ‘osiddetti becchi ‘stituzzionali che loro le ‘orna ce l’hanno piuccheartro per carriera polìtia e professionale, e ‘un pagano nulla nemmeno quelli che le tengano come mezzi di lavoro, a uso di beni strumentali che così li levi dalle tasse. Che difatti ‘r Sindaàto l’ha detto subito chiaro e tondo: «mettilo mettilo, chi lo piglia ‘nculo sono sempre l’operai!»
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Nel marzo dell’86 esplode il grande scandalo del vino al metanolo, con tre morti a Milano per ingestione di vino adulterato con l’alcol metilico. E man mano che finalmente s’indaga su quell’ennesimo annoso attentato alla salute pubblica si scoprono altri avvelenamenti da metanolo in tutt’Italia con 23 vittime accertate e una sessantina di ditte coinvolte soprattutto in Piemonte e in Puglia. E mentre le esportazioni di vino italiano crollano con un colossale danno per l’industria enologica, il Vernacoliere commenta a suo modo il nuovo italico scandalo parlando d’un gatto trovato stecchito dopo che un ubriaco gli aveva ruttato sul muso, ed altri poveri animali saranno poi ammazzati da quel tremendo ruttatore portato in questura a confessare. Il che – scrive il Vernacoliere estendendo la sua satira ad altri temi sociali – indigna profondamente anche le pie dame di carità, secondo le quali rutà sur muso a’ gatti è segno d’animo cattivo e di vergognosa ‘ncivirtà, speciarmente da parte di briai non timorati di Dio. E visto che ‘un si pole regolamentà sur serio la ‘accia, sarebbe bene regolamentà magari i ruti de’ briai, sennò va a finì che dopo i gatti ni tocca all’uccellini. Come se ner mondo ‘un morisse già tanti bimbini di fame, che a loro ortretutto i ruti ‘n faccia a casa sua ‘un nieli fa nessuno perché a panciavota c’è pòo da rutà, ma ne’paesi civilizzati ‘nvece sì, i ruti velenosi fanno male e magari le bestie si devano sarvà!
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Quello d’ufficiale che si sa sulle conseguenze in Italia del disastro di Cernobyl –
l’esplosione di un reattore nella centrale elettronucleare di quella città ucraina il 27 marzo 1986, con una gigantesca nube radioattiva che contaminò anche tanta Europa – è che quella nube arrivò in Italia il 2 maggio con la sua minaccia d’avvelenamento generale scatenando la corsa alle scorte alimentari. Quello che invece l’ufficialità non registrò ma che il Vernacoliere segnalò immediatamente fu lo sgomentevole effetto di quella nube sulla genetica umana: era nato un pisano furbo! E qui dovete sapere che i pisani, nell’ottica campanilistica livornese – unica ottica che fra i tanti campanilismi toscani non contempla il DNAdegli antichi odii e sbudellamenti medievali (e basti pensare ai guelfi e ghibellini, solo per dire uno dei tanti motivi che in Toscana hanno diviso nei secoli castello da castello e principi da signori), essendo i livornesi una gens derivata più che altro da un pot-pourrì di etnie cominciate ad arrivare su quella costa fatalmente malsana nell’ultimo Cinquecento da mezza Europa per fondare un porto e una città ad uso dei Medici fiorentini – i pisani, dicevamo, sono per l’incruento campanilismo labronico non una razza anticamente avversa ma semplicemente un popolo di ghiòzzi, dove il ghiòzzo è un piccolo pesce di poco pregio, facilmente catturabile nelle buche di scoglio in cui si rintana e perciò divenuto simbolo di stupidità. E questo non perché il pisano sia veramente stupido, ci mancherebbe, ma perché il campanilismo livornese, oltre a riflettere una diversità caratteriale che è poi diversità da un po’tutti gli altri toscani – ed anche per questo si parla di atoscanità livornese – è legato contro i pisani alla classica polemica anticontadina, a beffa d’una Pisa vista come terra di soli Gósti, dove Gósto è il contadino simbolo classico di dabbenaggine e di taccagneria. E pensa, il livornese, che questa sua considerazione del pisano sia condivisa da un po’ tutti gli altri toscani, che in realtà hanno ben altri motivi storici per ricordarsi ancor oggi delle antiche sanguinose rivalità con la città della grande repubblica marinara, a suo tempo dominatrice di mezzo mediterraneo. E immagina, il livornese, che la “pisanità” sia una caratterialità ormai conosciuta addirittura in tutto il mondo, dove non a caso certi livornesi sono andati e tuttora vanno a scrivere “Pisa merda” anche sui monumenti più famosi, pensando di diffondere il Verbo. Ecco perché, annunciando che era nato un pisano furbo, il livornesissimo Vernacoliere registrò anche lo stupore nel mondo e lo sgomento in Toscana.
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Si è già detto, commentando il famoso processo alla topa del gennaio 1984, che nell’uso che ne fa il Vernacoliere la topa è elemento anatomico sessuale e concetto filosofico insieme, apparato copulatorio-genitale femminile e allo stesso tempo simbolo dell’aspirazione dell’uomo a un mitico mondo migliore, con tanta topa per tutti. E comunque, sempre, la topa come satirico pretesto per trattare dei vari eventi d’attualità e della vera italica mentalità. Come nel giugno 1986, con la radioattività della nube di Cernobyl ancora ad angosciare tante popolazioni, fra cui gl’italiani in particolare. Ai quali allora il Vernacoliere, per volgere un po’ in risate il pesante clima di paura, annuncia che dopo la nascita del pisano furbo stanno anche spuntando i denti alla topa. Una topa qui fisicamente intesa, ma riproposta in una chiave grottesca che recupera anche tanta mitologia popolare su quella straordinaria parte femminile.
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Questa volta la tradizionale satira del Vernacoliere sui fiorentini che invadono la costa non li vede più soltanto come insaziabili bevitori di mare ma anche come osceni insidiatori di pesci, ai quali toccano il culo! E sono gli stessi pesci a denunciare il nuovo scandalo ittico-sessuale, in una cronaca vernacolare che registra anche un ordine del giorno dell’Amministrazione comunale, ovviamente livornese: Ir Conziglio comunale, qui reunito in seduta straordinaria tutto sudato per ir caso de’ pesci ‘nsidiati dai fiorentini, invita li sfrattati a ’un rompe’ tanto i coglioni e sollecita la cittadinanza a tené l’occhi aperti per segnalare i tipi strani. E mentre si scatena la caccia al fiorentino bagnante e pescatore, il Vernacoliere resta in attesa di sapere cosa ne pensa il Papa. Che essendo polacco sa assai lui cosa sono i fiorentini al mare. Ma quando si parla di culi, la Chiesa non può tacere il suo interesse.
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Settembre 1986
C’è stata la legge sui diritti degli animali e il Vernacoliere si adegua presen-
tando in Parlamento un’appassionata richiesta per tutelare anche i pisani, bestie (umane) anch’essi, e come tali degni di tutela. In tal modo, invocando autosatiricamente la fine del campanilismo stupido e crudele, il Vernacoliere risponde alla nota giornalista Miriam Mafai che sulla Repubblica aveva scritto che sono i particolarismi campanilistici a provocare la violenza e il razzismo in Italia. Allora è tutta corpa nostra! aveva gridato Cardinali nel suo pezzo, coprendosi il capo di satirica cenere. Siamo noi che s’aizza i padroni di casa a da’ li sfratti, siamo noi che s’ammazza i ragazzi colla droga, siamo noi a lascià ‘r Sudde in mano a mafia ‘ndrangheta e camorra, siamo noi a ‘un volé da’ lavoro a chi lo cerca! Come dire: ma te guarda dove va a finire il Vernacoliere, con la scusa del campanilismo sui pisani…
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Ottobre 1986
Ritorna la satira sulla politica internazionale, stavolta ispirata alle stragi di Ka-
raci, Istambul, Beirut, Parigi e di tanti altri posti colpiti dal terrorismo arabo. E c’è proprio il Vernacoliere questa volta nel mirino degli attentatori, che lasciano davanti alla redazione una gigantesca caàta, spregioso e terribile ammonimento da parte di Gheddafi a quei mille livornesi che nella satira del mensile volevano andare in Libia col coltello in bocca per levallo di ‘ulo loro quer cautèrio in montura, a quel tempo sospettato di voler far ritornare il Pisa in serie A per vie traverse. E non manca nel “servizio vernacolare esclusivo” sul minaccioso evento anche un po’di satira sui servizi segreti, per come conducono le indagini sulle tracce del culo arabo autore della terroristica defecazione.
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Novembre 1986
Già satireggiati singolarmente, stavolta Raffaella Carrà e Pippo Baudo tornano
sul Vernacoliere in coppia. Il maldicente fogliaccio infatti – visto il delirio d’onnipotenza del Superpippo nazionalpopolare che voleva fare tutto lui in Rai, convinto che senza di lui la televisione sarebbe finita – immagina che Baudo voglia anche soffiare la popolarissima “Domenica In“ alla Carrà, reduce dai successi e dagli stratosferici guadagni di “Pronto Raffaella” e “Bonasera Raffaella”, mandandola infine all’ospizio. Ma la bionda e restauratissima show-girl non ci sta a farsi mettere da parte, e inciampando nella topa che le cade urla “sono sempre bona!” Ed ha continuato a gridarlo ancora per parecchi anni, monumento anche lei all’imbalsamato rincretinimento del nazionalpopolare pubblico televisivo.
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A proposito dell’avvelenamento dell’aria nonché delle acque e della terra, e dell’inquinamento dei cibi, delle bevande e di quant’altro l’umana cupidigia manipola per far comunque quattrini sulla pelle di chi comunque deve respirare e mangiare pur essendosi rotto le palle, il Vernacoliere del dicembre ’86 riporta un angosciato grido d’allarme degli scienziati: di questo passo doventeremo tutti strónzoli (detti “stronzi” fuori di Livorno). Catturato infatti un gigantesco stronzolo che fumava per la strada a guisa d’uomo e con fattezze umane, l’analisi delle sue cellule aveva riscontrato non solo la presenza di tutto ciò che quotidianamente noi umani tocchiamo, respiriamo e ingurgitiamo - idrocarburi, diossina, nicotina, piombo, zorfo, mercurio, zingo, rame, ferro, latta, bussoli di coaòla, tappini di crodino, pezzi di pràstia sempre ‘nteri, polistirolo ‘spanzo, diddittì, deterzivi, preservativi voti e anche mezzi pieni, catarri concentrati, cesio, fosforo, prutonio, ciuìngammi appalloccolati, nitriti, nitrati, urli moccoli e bestemmie, sciampi, dentifrici, creme di bellezza, merendine, amburghe, chèciappe e granturco per i polli – ma anche tanta merda. Ma no la merda che si conosce noi, – precisa il Vernacoliere – quella crassica merda che si va ar camerino, ci si sforza e si fa! No, una merda differente, una merda genetiamente provoàta, valaddì colla catena genètia che a forza di mangià troiai, bé’ troiai e respirà troiai, alla fine è doventata un troiaio anche lei e s’è messa a fa’le cellule merdose! Ed ecco il perché di tanti uomini di merda a giro, per le strade e nelle istituzioni.
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A parlare oggi di un uomo incinto pare di ripetere qualcosa di già trattato in qualche film, ma annunciare la prima gravidanza maschile nel 1987 era una notizia non solo ancora mai sentita, ma che soltanto il Vernacoliere poteva dare. E lo fece naturalmente a danno d’un fiorentino, visto che nell’immaginario collettivo del campanilismo toscano ci sono i pisani campagnoli, i lucchesi tirchi, i livornesi ignoranti, i grossetani cignalai (in Maremma il cinghiale è detto cignale), i pistoiesi montanari, i carrarini duri di marmo, i senesi fissati sul Palio e i fiorentini bevitori di mare ma anche effeminati (volgarmente detti finocchi, ma mica tutti), come già testimoniava Dante ai suoi antichi tempi. Tant’è che, trattandosi di fecondazione artificiale, indovinate dov’è che la provetta con l’ovulo gliel’hanno ficcata, a quel disgraziato…
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Stavolta tocca al male del secolo, l’Aids, di cui si andava dicendo che si poteva prendere da tutti. Ecco allora il Vernacoliere a raccomandare di non farsi fregare, di non fidarsi di non meglio identificati individui che si presentano all’uscio offrendo l’Aids anche in confezione famiglia, a prezzi addirittura più bassi del supermercato. Ve lo regaliamo noi sicuramente autentico, strilla il Vernacoliere. Con evidente satira, anche se di genere alquanto nero, sul gran mare di chiacchiere circa una malattia contro la quale fino ad allora si erano fatti più che altro tanti discorsi, anche ad opera dei giornali interessati più a vendere copie che ad informare veramente la gente.
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Il mito del “nucleare pulito”, altro mitico imbroglio. Pulito una sega! contesta il Vernacoliere. Che satireggiando sulla relazione del Premio Nobel Carlo Rubbia alla “Conferenza Nazionale sull’Energia” a Roma, gli fa così spiegare cosa vuol dire nucleare pulito: Ir nucreare pulito, signore e signori, è tutto ‘r contrario der nucreare sporco! Noi difatti l’atomo ‘un si piglia così come vieneviene, tutto pieno di terra e di scaracchi, ma prima di fallo scoppià ni si sciacqua benebene ‘r nucreo, ni si pulisce ammodo l’orbite, ni si lustra l’elettroni, ni s’inzapona anche i fotoni e si stiocca tutto nella centrale a candeggià co’neutroni! – Ma poi scoppia tutto lostesso? – n’ha fatto uno di fondo. – Dé, scoppia sì! Ecco quindi l’antinuclearista Vernacoliere ad annunciare che l’unica vera energia pulita e alternativa è quella sprigionata dal giramento di coglioni. Di cui c’è pieno dappertutto, non inquina, non esplode e non costa addirittura nulla. Ed incontra ovviamente la contrarietà dell’Enel, interessato invece a ben cospicui guadagni.
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Nell’infinita presa di culo baudiana, segno dell’asfissiante presenza catodica del
Pippo nazionalpopolare, il Vernacoliere trova stavolta lo spunto per unire alla satira dei simboli televisivi di regime anche quella sul terrorismo rosso, a suo modo di regime anch’esso. Il tutto incentrato su un rapimento di Pippo Baudo che fa il verso alle vere sanguinose gesta delle BR. E valga a miglior comprensione di tale satira il volantino fatto arrivare al solito quotidiano dal G.A.O. (Gruppo Antipippisti ‘Ombattenti): Cara Repubbria, oggi ti si scrive per fatti sapé la nostra risoluzione stratègia numero settantotto o settantanove, ‘un me lo riordo bene. L’attacco ar core dello Stato è finarmente arrivato a corpire i peggio parrucchini di regime, a principià da quer mallegato di Pippobaudo già servo della Rai e ora passato all’imperialista Berlusconi co’milliardi rubati ar popolo rintronato dalla pubbricità televisiva. Le murtinazzionali della perzuasione occurta ‘un passeranno! Viva Gianna Pisciò, martirizzata dalle forze della reazzione ner mentre pisciava sur televisore acceso!
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Maggio 1987
Ci sono le elezioni, questa volta addirittura anticipate. Ma c’è ormai anche tanta
disaffezione elettorale, è ormai dilagante la profonda rottura di coglioni per le frequenti chiamate alle urne che poi non risolvono granché, all’infuori della solita sistemazione dei soliti noti sulle solite poltrone. Ma niente paura, ecco una bella topa gratis da sorteggiare fra quanti andranno a votare, parola del Vernacoliere. Anzi parola del Governo. Il cui Ministro delle Seghe al Fosforo, autore della grande pensata, così la spiega: ‘R probrema era di vince’ la disaffezzione elettorale, valaddì quer perioloso astenzionismo che già tante vorte ha messo ‘n grisi la demograzzia facendoni mancà a quarcuno ‘r seggiolone sotto ‘r culo, senza ‘ontà le schede bianche e quelle nulle, ortre a quelle ‘ndove c’è scritto ‘r budello di tu’ma’e ‘r beccaccio di tu’pa’, tutti segnali ‘nequivoabili der distacco della gente dalla vita polìtia der paese. Invece, dandoni ar popolo un po’di topa omaggio, ni si riaccende dentro ‘r core l’interesse per le ‘stituzzioni! E l’articolo concludeva: URTIMORA – Ar fine d’un iscontentà nessuno, ‘r Governo ha assiurato che chi ‘un vincerà nulla lo piglierà lostesso ‘nculo come sempre, e a chi cià le palle piene ni saranno votate a spese der Comune.
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Più budiùlo che personaggio, entra in scena sul Vernacoliere anche Cicciolina, alias Ilona Staller, mito della pornografia di massa e della sedicente trasgressione del partito radicale, che accogliendola nelle sue file diviene partito del cazzo e della potta insieme. Una potta però così peccaminosa, come quella appunto di Cicciolina pornostar, che immancabile arriva la condanna della Chiesa con l’esortazione agli elettori a salvarsi l’anima votando come sempre la DC, pena il cadere, come sempre, nelle diaboliche braccia del Maligno. Il quale non a caso alberga anche lui fra le gambe di Cicciolina, insieme a serpenti e uccelli vari. E con la fava della sua satira il Vernacoliere piglia per l’occasione tre piccioni: Cicciolina, radicali e preti. Con un quarto piccione – la gente – a volare dintorno a sciame.
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Del Mostro di Firenze e dei fiorentini al mare s’è già detto precedentemente, ma separatamente. Nell’estate ’87 invece il Vernacoliere li abbina. I fiorentini nel puntuale biblico esodo sulla spiagge toscane, il Mostro al loro seguito. A gettare un tremendo allarme sulla costa, come strilla il Vernacoliere in uno dei suoi tipici pezzi estivi di satira campanilistica e di costume. Da bagno, in questo caso.
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Settembre 1987
E Pitti Uomo di qui, e Pitti Donna di là, e Pitti Prete di sopra, e Pitti Bimbo di sotto… Non se ne poteva più, delle dilaganti sfilate di alta moda nello storico palazzo fiorentino. E mettiamoci allora anche un bel Pittifava – pensò il Vernacoliere – a lanciare la moda dell’uccello made in Italy contro l’invasione delle fave gialle giapponesi. Il tutto a satirico commento di quelle sfilate, delle palle che esse facevano ingrossare e del particolare mondo degli stilisti e del loro pubblico scicchettoso.
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Ottobre 1987
Anche l’Italia, nel 1987, partecipa alla guerra fra Iran e Iraq. Non direttamente
ma comunque mandando ufficialmente, come le principali nazioni occidentali, le sue navi nel Golfo Persico a protezione dei traffici minacciati dal conflitto fra le due potenze mediorientali. E mandando anche, ma stavolta sottobanco, enormi quantità di mine fabbricate dall’italiana società Valsella del gruppo Fiat, sulle quali però possono saltare anche le navi occidentali e allora le nostre autorità non possono più far finta di nulla. Cosicché la faccenda viene pubblicamente sputtanata da un’inchiesta sollecitata dai francesi, con la “scoperta” su una nave bloccata nel porto di Bari d’un traffico d’armi e di mine verso il Medioriente, il che porta anche all’arresto dei dirigenti della Valsella. Il tutto viene puntualmente ricordato e satireggiato dal Vernacoliere che, rivelando come gl’iraniani si oppongano alla nostra missione navale tirandoci le seghe di Komeìni (nuove tremende armi dette anche rasponi d’Allà), riporta le voci secondo le quali le seghe di Komeìni ‘un se le farebbe tutte lui per conto suo ma dice niele fanno anche in Italia, vedrai anche quelle alla Varzella come le mine.
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In tempo d’interventi chirurgici eccezionali, ecco il Vernacoliere ad annunciare che col primo trapianto di un buco sano si apre una nuova era di speranza anche per tutti quei buirótti (buchi rotti in italiano) per i quali ormai si pensava che non ci fosse più niente da sperare, o perché rotti propio fisiamente o perché seguitanti a esse’ buirotti anche morarmente, valaddì a fa’ le ‘ose a budiùlo. Come per esempio i tanti buirotti presenti nel governo e in parlamento, i quali non a caso mostrano subito un vivo interesse per la straordinaria possibilità di rifarsi il buco nuovo. Purché naturalmente il donatore non appartenga a qualche partito, sennò si fa a pigliassi per ir culo…
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Novembre 1987
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Prima di Pippo Baudo e di Berlusconi c’è stato un altro grande personaggio della sociocomunicazione televisiva a credersi un unto del Signore. O se non proprio unto, magari un po’schizzato. Tanto che nelle sue spettacolari apparizioni alla tivvù il già molleggiatoAdriano Celentano s’era messo – ed ha poi continuato a lungo, ahimè – perfino a predicare. Con tanta gente tutta lì a berselo come un novello messia. Ci pensa però la Madonna, appositamente intervistata dal Vernacoliere, a ridimensionare la faccenda. E quando le chiedono se conosce Celentano, sedicente novello Gesù, eccola affermare indignatissima di non averlo mai caàto, un coso del genere.
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Dicembre 1987
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Gennaio 1988
Anno nuovo, manovra fiscale nuova e nuovi tagli alle spese sociali e ai con-
sumi più popolari. Fra i quali ovviamente il consumo della topa, tagliata dal governo con un decreto legge che oltre a cancellarla dal prontuario farmaceutico (per chi l’adopera come cura) la raziona a due etti soli a testa (per chi ne usufruisce come bene essenziale). Con esiti talmente disastrosi da far concludere così l’allarmatissimo articolo del Vernacoliere: Con du’ etti di topa l’anno a chiorba, d’oranavanti ci sarà pòo da scialà! Dé, nemmeno venti grammi ar mese, ci fai le scurreggine! Oddìo, alli scapoli ni pol’andà anche bene, quand’hanno mangiato loro hanno mangiato tutti, ma chi cià famiglia come fa?! (…) Mìa per nulla, ma uno si rompe l’anima tutto ‘r giorno a lavorà, eppoi la sera ‘un trova nemmeno un po’di topa pronta! Tuttarpiù du’ pelini a brodo, quando ti va bene! E quando ti va male, la tu’ moglie ti dice vai dar governo a brontolà! Propio loro, sì! Che noi ni si dà fisso ‘r culo, e loro per rionoscenza ci levano la topa!
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Anche il “Cacao meravigliao” ha fatto un po’ di storia d’Italia, televisivamente propagandato da Renzo Arbore con le splendide brasiliane e le ragazze coccodè di “Indietro tutta”. E la gente ne è così presa che quel cacao se lo beve non solo in musica, con la furoreggiante canzoncina di quel programma di varietà, ma lo ordina persino al bar e lo cerca addirittura nei negozi, credendo che esista davvero. Ci pensa allora il Vernacoliere a mettere i creduloni in guardia: occhio, perché quel cacao è bevanda assai calorosa e a prenderne troppa fa frizzare il culo. Un modo tutto vernacolieristico di dire che anche Arbore e le sue trovate più o meno comiche, alla fine, sono strumenti televisivi atti a buttarcelo in quel posto, ovvero a distrarci dai problemi veri com’è costume d’ogni giullare profumatamente pagato dal principe perché intrattenga i sudditi… a far la parte di sudditi contenti.
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Marzo 1988
Ma come nascono i governi? Come si stabilisce la priorità a governare fra le
forze politiche più rappresentative del paese? Il Vernacoliere non ha dubbi. E alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1988 afferma che la tenzone fra socialisti e democristiani per succedere al democristiano Goria alla guida del pentapartito DC-PSI-PRI-PSDI-PLI viene fatta a colpi di lunghezza d’uccello. Con l’uccello di Bettino Craxi da una parte, già capo del governo per due legislature, e quello di De Mita dall’altra, al suo primo tentativo d’entrare a Palazzo Chigi. La cronaca successiva dirà poi che nonostante i suoi trentacinque centimetri buon peso, Craxi dovrà cedere ai dodici centimetri senz’osso di De Mita. Avendo il culo degli elettori preferito la misura meno dolorosa.
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Aprile 1988
Il bilancio della Santa Sede è in rosso profondo, i giornali ne danno proccupata notizia e il Vernacoliere teme il peggio, tanto da fargli annunciare la chiusura del Vaticano. Anche perché, quando una simile potenza anche economica non ha più nemmeno sedicimila lire per un abbonamento del Papa propio al Vernacoliere – abbonamento già annunciato dal mensile ma poi negato da una secca nota diplomatica della Segreteria di Stato vaticana – vuol dire che rischiano davvero la cassa integrazione anche le guardie svizzere.
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Aprile 1988
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Maggio 1988
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Era successo che l’avvelenamento dei pompelmi israeliani da parte di qualcuno che con Israele non se la diceva troppo e ne voleva minare l’economia aveva scatenato la psicosi del pompelmo avvelenato. Alla quale il Vernacoliere reagisce con l’avvelenamento dei finocchi a Firenze, terreno di doppio senso linguistico e di classica ironia campanilistica che il periodico livornese ripercorre da par suo, trovando il modo di far satira anche così sulle vicende arabo-israeliane. E basta per esempio leggere questo brano: …Lipperlì s’era subito penzato a quarche gesto terrorìstio di quarcuno che ce l’aveva coll’ebrei e n’aveva stioccato ‘r veleno anche ne’ finocchi, ortre che ne’ pompermi. Tesi arquanto suggestiva mapperò subito cascata sortanto a penzà che in Isdraele, più che a fa’nasce’i finocchi, tirano a fa’morì i palestinesi…
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Giugno 1988
Una scrittrice australiana aveva dichiarato che i migliori amanti del mondo sono
gl’italiani. Sul che non ci piove ma sarà bene precisare, pensò subito il Vernacoliere: italiani sì, ma toscani di sicuro! E così bravi, quegli amanti toscani, da meritare un bel marchio di garanzia sul simbolo e strumento della loro virilità. Del resto i bollini di garanzia li mettono ormai su tutto, perché non darne uno anche al Pipi toscano? N.B. – Si badi che la voce “pipi”, tipicamente ed affettuosamente familiare, non vuol essere una svalutazione delle dimensioni dell’oggetto, ma sta ad indicare il rapporto confidenziale fra chi parla e chi ascolta, laddove un cazzo è freddamente e contegnosamente solo un cazzo.
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Luglio-Agosto 1988
Puntualissima, la satira estiva del Vernacoliere colpisce i soliti fiorentini (o al-
lora?! ‘Un ci sono mìa sortanto i pisani, a facci ride’!), col disvelare questa volta un antico mistero di stagione balneare: come facciano cioè costoro ad affogare anche stando a galla. E la scoperta, raggiunta con apposito esperimento subacqueo, sta in quel fenomeno già noto agli antichi col nome di “bevuta del cavallo”, ed ai moderni con la definizione di “risucchio di sfintere”. Come dire insomma che i fiorentini bevono dal culo, ma te guarda che viziaccio cianno…
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Settembre 1988
Esplode nell’88 anche il grosso bubbone dei rifiuti tossici che girano il mondo
su navi cosiddette pirata da tutti rifiutate e rinnegate ma che tutti seguitano a far girare in colossali traffici di veleni e di miliardi, non escluse armi e droga. Il tutto spesso trafficato – veleni e armi e droga – anche in altre forme, magari con la copertura di ufficiali “missioni militari di pace”, ossimoro chiarissimo ma bevuto da tanta opinione pubblica lavorata dai coscienziosi persuasori di governo. E poiché una di quelle navi, la “Karin B”, era infine riuscita a scaricare il suo carico di scorie radioattive a Livorno – proprio a Livorno, città e popolazione di fama rossa e barricadera che si pensava dovesse allarmarsi assai e invece resta tutto o quasi pacifico e tranquillo – a quel punto il Vernacoliere che è livornese pensa di poter meglio attirare l’attenzione dei concittadini su quei rifiuti tossici inventandosi satiricamente un’altra nave rifiutata da tutti i porti, carica però non di veleni ma di pisani. Che ai livornesi gli stanno parecchio sui coglioni, e la città che ha accettato tranquillamente i pericolosissimi rifiuti veri esclamerà stavolta fanno bene a ’un volélli da nessuna parte, quell’infamatissimi pisani! Col solito campanilismo sfruttato così dal Vernacoliere in chiave di denuncia sociale.
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Ottobre 1988
Ancora le navi dei veleni, ancora la tedesca “Karin B” con le sue scorie radio-
attive rifiutate da tutti ma accettate infine a Livorno, la rossa Livorno così propostasi a lucroso terminal portuale di rifiuti tossici di varia provenienza, in aggiunta a quelli già straripanti della sua zona industriale. In cambio però di precise garanzie del governo, assicurarono i rossi palazzi comunali e portuali all’inquieta opinione pubblica. Garanzie politiche per i partiti, garanzie sanitarie per i cittadini, garanzie economiche per gli operatori del settore. Ovvero, come sintetizzò il Vernacoliere nella sua immediata satira, la garanzia di mandare ai livornesi un bel po’di vaselina per mitigare la colossale immissione di tutti quei bidoni di scorie in culo alla città. Un’inculata dimostratasi poi ancor più effettiva, in quanto i rifiuti della “Karin B” Livorno se li è tenuti ma gli sperati promessi traffici successivi, seppure velenosi, non ci sono quasi più stati. Avendo l’ecomafia scoperto il più sbrigativo sistema di affondarle direttamente, le navi di rifiuti tossici e radioattivi.
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Novembre 1988
A suo tempo anche l’allora “compagno” Enrico (non Berlinguer, per carità) ci
ha rotto abbondantemente i coglioni dal teleschermo, con gli annessi e connessi di “Fantastico”. E il Vernacoliere non poteva non registrare anche quella rottura, incentrata sull’episodio di quando Montesano improvvisamente e “sfacciatamente” apparve in video (in compagnia della “mascolina” cantante Oxa) avvolto in una gran pelliccia, e ne sortì un vero e proprio scandalo, con gli amici degli animali da una parte a smoccolare e gli amici del pelo dall’altra a plaudire. Mentre della pelle umana, soprattutto colorata e specialmente dei bambini, non gliene fregava niente (e niente gliene frega) a nessuno.
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Dicembre 1988
Succede che a Fiumicino, quando i Re Magi di passaggio sulla via di Betlemme
scendono dall’aereo e alla dogana dichiarano il solito oro, il solito incenso e la solita mirra, un cane antidroga innesta però una scoperta clamorosa: nei bagagli dei Re Magi c’è hascisc, ero e cocaina! E sapete per chi? Per Gesù Bambino! – Di questi tempi cosa ni vòi portà a’ figlioli? – dichiarano infatti i tre augusti personaggi appena arrestati. – Va di moda la droga, ni si porta quella! Per dire di come il fenomeno della droga si sia ormai esteso a tutto e a tutti, e di come il Vernacoliere riesca a farci satira sociale e religiosa insieme.
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Gennaio 1989
Sempre più grave la crisi nel Mediterraneo: la Libia sta allestendo una fabbrica
d’armi chimiche (ma è solo uno stabilimento farmaceutico secondo Gheddafi) e l’America di Reagan abbatte intanto due aerei dell’infido paese nordafricano, preparandosi a bombardare Tripoli, già colpita nel 1986. Ecco allora Livorno che scopre anch’essa qualcosa di tremendo: una fabbrica di gas asfissianti a Pisa, invano gabellata dai pisani come stabilimento per la produzione di mangime per i polli. E mentre la città dei Quattro Mori affonda intanto due barrocci a vela della città della Torre pendente in attesa di raderla al suolo, lo stesso Reagan si offre per la distruttiva bisogna, bellicosamente gridando: Se c’è quarcosa da bombardà, la bombardo io! Il tutto nell’ottica campanilistica del Vernacoliere, al quale il campanilismo serve stavolta per satireggiare su un po’di politica militare internazionale e di spaventi annessi.
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Gennaio 1989
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Febbraio 1989
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La mafia trama, la mafia ammazza, la mafia terrorizza, la mafia condiziona e controlla giudici e governi, la mafia è in cielo in terra e in ogni luogo… Ma chi è che manovra il tutto? Chi c’è a capo di questa potentissima istituzione criminale e parallela? Qualcuno ci dovrà pur essere a tenere insieme tutte le trame d’un potere così allacciato agli altri poteri, pensava la gente di quei mafiosissimi anni Ottanta. Si mormorava infatti d’un Grande Vecchio alla regia del tutto, e c’era chi sussurrava del sempiterno politico Andreotti con la sua celebre gobba satireggiata come tana della piovra (l’Andreotti poi per mafia processato ma infine assolto, non se ne dubitava…) e chi mormorava del gran capo piduista Gelli (condannato invece per altre colpe). Ma di certo non veniva fuori niente e tutto restava come prima, coperto e protetto dai soliti silenzi. Finché è il Vernacoliere a rompere il tabù: Addiaccianti rivelazioni su mafia e terrorismo nero! annuncia nel febbraio ’89, e scrive che il gran capo di mafia e terrorismo nero sarebbe addirittura Paperino! Perché invero, se qualcuno ha da esserci dietro a tutta la cosiddetta strategia della tensione dagli anni ’60 in poi, con le trame golpiste e piduiste, le stragi fasciste e gli assassinii brigatisti, il tutto avvolto negl’intrallazzi dei servizi segreti italiani e anche stranieri, niente di meglio della responsabilità di Paperino può infine soddisfare la sete di verità di governanti e parlamentari…
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Marzo 1989
Suscita scalpore e scandalo anche in Italia la vicenda dello scrittore iraniano Sal-
man Rushdie che con i suoi “Versetti satanici” s’è beccato agghiaccianti promesse d’ineluttabile morte per blasfemia anticoranica dal regime di Komeini in particolare e dall’integralismo islamico in generale. Ma mentre l’inorridita civiltà occidentale insiste sul rifiuto d’una così mediorientale e medievale minaccia di morte che attenta anche all’universale diritto alla libertà di stampa e di pensiero, il Vernacoliere racconta un’altra verità, o almeno un suo satirico sospetto. E cioè che tutto quel po’ po’ di cancan intorno a quel libro d’eretici versetti altro non fosse che un colossale battage pubblicitario sul mercato occidentale, tanto l’acquisto in massa del volume – sollecitato anche da eccellenti firme giornalistiche – veniva fatto apparire come un aiuto al libero diritto di scrivere e parlare. Con Komeini – ironizza il mensile livornese – forse interessato anche lui a farci un bel po’ di quattrini, con quel gigantesco affare. E allora tò, ecco un bell’inserto blasfemo anche sul Vernacoliere per dire male degl’italici santoni politici, e chi lo compra sostiene anche lui la libertà, come a comprare il libro di Rushdie. Perché quando si tratta di quattrini – conclude l’eretico mensile – si va ‘n culo anche a Komeini! Col che la satira del Vernacoliere colpisce tre bersagli: l’integralismo islamico, l’integralismo cattolico (ricordando le contestuali ire papali sul “Pendolo di Foucault” di Umberto Eco e sul film “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese) e l’integralismo editoriale, che più che integralismo religioso è rigorosissima fede nel prodotto che si vende. Con qualunque mezzo.
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Aprile 1989
L’aggancio alla realtà questa volta sono i nuovi verissimi tagli alla sanità, con i
quali il governo impone tra l’altro ai ricoverati all’ospedale un contributo di diecimila lire al giorno. E chi non ha soldi per pagare – satireggia subito il Vernacoliere – deve essere implacabilmente scoiato vivo, per far capire alla gente di non fare i soliti furbetti. Dal che l’immediata fuga generale dei ricoverati, tutti a schizzare via dai letti senza nemmeno le mutande. Insomma un’ottima occasione per Cardinali di trattare a suo modo dell’assistenza ospedaliera, già così presentata nell’attacco del pezzo: Portato all’ospidale colli strizzoni di pancia, un omo se lo sono scordato ar prontosoccorso per du’ giorni. Poi, quando già la su’ moglie lo cercava nella spazzatura, tantevorte l’avessero buttato via assieme all’avanzi dell’operazzioni, un infermiere s’è riordato d’avé fatto ‘r nodo ar fazzoletto e l’è andato a piglià, No ‘r fazzoletto, quer disgrazziato. Che difatti l’avevano ficcato nell’armadio de’ panni sudici per mancanza di posto, e menomale all’ospidale la biancheria ‘un la lavano guasi mai, sennò finiva anche ‘n ammollo (…).
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Maggio 1989
Auspice il ministro dei Lavori pubblici Enrico Ferri, nell’89 una legge stabili-
sce l’obbligo delle cinture di sicurezza per gli automobilisti. E figuriamoci se gl’italici automedonti, abituati a stare in macchina facendo i propri comodi come a casa, potevano vedere di buon occhio un vincolo addirittura corporale, costretti in quelle cinture che bloccano i movimenti e t’arrivano a volte fino a gola, se la tu’ mamma non t’ha fatto bello alto. Tutto uno sbuffare, insomma, tutta una sensazione di disagio e di scatole profondamente rotte dal ministro Ferri (e da tutta la sua ascendenza familiare) sotto sotto accusato d’aver voluto più che altro arricchire i fabbricanti di cinture e i loro padrini politici, secondo il solito costume delle improvvisazioni governative che come principale effetto obbligano a nuove spese i cittadini. Tanto che a un certo punto il Vernacoliere annuncia che non di solo disagio psicologico si tratta, per gli automobilisti imbrigliati in quei legami, ma addirittura di palle che si gonfiano sul serio. E gonfiando a dismisura diventano così grosse che vedrai ci vorrà un seggiolino apposta anche per quelle, come già ci vuole per i bambini a bordo.
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Anche se in prima notizia la locandina del giugno 1989 riporta la vicenda dello scudetto di pallacanestro soffiato dalla Philips Milano alla Enichem Livorno (con i tifosi labronici accusati di comportamenti incivili dalla stampa meneghina e con Livorno che risponde per le sue rime), il titolo più inquietante è quello dedicato alla strage di piazza Tien an men a Pechino. E più inquietante per due motivi: primo, perché la satira su un fatto così sanguinoso era un grosso azzardo; e secondo, perché quella satira spiegava come il governo cinese, dopo aver giustificato tutto quello schiacciamento di studenti contestatori (gialli) sotto i carri armati con l’esigenza di produrre nuova indispensabile limonata (gialla), aveva poi avviato la produzione in serie della tipica bevanda con lo schiacciare anche gli operai, i contadini, gl’impiegati e via e via, tanto da poterla infine esportare in tutto il mondo quella limonata, e bisognava allora stare attenti…
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Luglio-Agosto 1989
Nel marzo ’89 il Vernacoliere aveva annunciato lo Squalo 2: «Dopo quello del
golfo di Baratti, ora un artro squalo è stato visto aggirassi ‘n mare! È lo Squalo 2, che come ‘n tutte le storie di squali ‘un poteva certo mancà!» Per l’esattezza si trattava della moglie del primo squalo (il bianco mostro dei mari che aveva ucciso un sub), venuta a cercarlo disperata con i suoi pescecanini affamati dietro. Come dire che, al di là delle tragedie umane, anche i mostri hanno una famiglia, ed anche i figli delle bestie hanno bisogno di mangiare. Poi, a luglio, ecco lo Squalo 3, o meglio lo Squalo Fava, a continuare la psicosi dei mostri al mare, per la serie “paura sulla costa”, ben alimentata dalla stampa interessata. Una paura che però il Vernacoliere mitiga con le risate a modo suo, in questo caso a colpi d’uccello.
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Settembre 1989
Dopo anni in cui si parlava della famosa “Carta dei diritti dei malati” ricoverati
in ospedale e non la si applicava mai, ci pensa infine il Vernacoliere ad annunciare che quei diritti sono finalmente entrati in vigore. E se prima i malati venivano trattati come caàte, d’ora in avanti verranno considerati come veri e propri pezzi di merda. A stabilire non solo una graduatoria di qualità fra le differenti consistenze defecatorie, ma anche a far capire come da tale differenza discenda il profondo cambiamento nel trattamento dei ricoverati, a partì dar diritto d’onniuno di poté entrà all’ospidale colle su’gambe. E se poi ci sorte con quelle di quarcunartro, ni dev’esse’ spiegato cos’è successo… Ner caso poi ni levassino le moroidi ‘nvece della pendicite, ‘r malato avrà diritto a rifassi fare ‘r buoderculo novo, o armeno un culo colla garanzia d’un anno.
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Che fosse stato un missile straniero ad abbattere nel 1980 il DC9 dell’Itavia sul
cielo di Ustica con 81 persone a bordo non si poteva ancora dire, nell’89: c’era ancora l’arroganza dello Stato a coprire con l’impudenza dei suoi generali le reali circostanze dell’abbattimento, nonostante che le perizie avvalorassero sempre di più l’ipotesi che non d’un’accidentale esplosione dall’interno si fosse trattato – come si voleva far credere in alto insabbiante loco – ma d’un missile probabilmente partito da uno degli aerei americani o francesi che quel 27 giugno davano la caccia sul Tirreno a un altro aereo nemico, forse libico. Con una strage che il governo italiano copriva e che diveniva così anch’essa una strage di Stato. Ma poiché dall’88 la sudicissima faccenda era tornata d’attualità per nuove rivelazioni e ricostruzioni anche televisive, nell’89 il Vernacoliere inscena un pezzo in cui, ricorrendo al solito escamotage del campanilismo, rivela che è stato proprio un missile straniero a buttare giù un barroccio pisano (tipico mezzo di trasporto di quella gente, il barroccio, stavolta addirittura usato in cielo) e non i cacciatori come cerca di sostenere il governo. Ricostruendo così in chiave satirico-campanilistica una tragica pagina di storia italiana la cui verità neppure oggi si vuol far venire completamente a galla.
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Il dittatore della Sirte Muammar Gheddafi torna alla ribalta per l'assassinio in
Libia del tecnico italiano Ceccato. L'Italia – nella ricostruzione del Vernacoliere – gli risponde con la tremenda imprecazione 'r budello di tu' ma'! e perfino col beccaccio di tu' pa'!, mentre qualcuno insinua che il duce libico sia addirittura un po' finocchio. Sicché – conclude il suo pezzo Cardinali, a far capire cosa ci sia sotto il tappeto – Gheddafi ha parlato chiaro: o l’Italia la smette ‘na bonavorta di portallo per bocca, o sennò lui, ortre a tiracci i missili e a stempiacci i nostri operai ‘n Libia, ci dichiara guerra perdavvero e questa vorta le stragi ‘olonialiste le fa lui, e ortre ar gasse ci leva anche Maradona! (…) E per rincarà la dose, l’Associazzione ‘Ndustriali Libici colle Mani ‘n Pasta Dappertutto ha diarato che da qui ‘n avanti loro coll’Italia ‘un ci faranno più affari, a principià dalle pistole Berretta e tutte l’artre armi che se ora l’Italia niele vole seguità a vende’, le deve mollà a prezzi di lividazione.
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Col crollo del muro di Berlino e con la crisi del comunismo nei paesi dell’Est europeo il segretario del Partito comunista italianoAchille Occhetto, proseguendo nello strappo già berlingueriano dalla politica dell’Urss – che nel suo disfacimento sarà sostituita nel ’91 dalla CSI, Confederazione degli Stati Indipendenti – lancia la proposta di cambiare il nome al PCI per trasformarlo in una nuova forza politica senza più l’appellativo “comunista”. Nuovo nome e nuovo simbolo saranno PDS (Partito Democratico della Sinistra) e una quercia. Tutto ciò col mugugno di tanti vecchi militanti del PCI che vogliono continuare l’antica esperienza e fondano così il Partito della Rifondazione comunista, per alcuni versi legato ancora al mito di Stalin, come se la storia fra l’altro dei gulag non fosse servita a niente. Di tutto ciò il Vernacoliere dà un’interpretazione nel più classico dei suoi stili, annunciando che dopo il PCI cambia nome anche la Topa, trattata ovviamente nella simbologia cosmica da essa assunta sul mensile labronico dopo il famoso processo dell’84, come ne abbiamo già scritto.
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VOCABOLARIETTO D’USO
Traduzione e interpretazione essenziale di acuni vocaboli e modi di dire del vernacolo livornese, così come usati in questo libro di Mario Cardinali
Alcune avvertenze generali • Nel vernacolo livornese i verbi perdono quasi sempre la sillaba finale re e la troncatura viene qui indicata sia con l’apostrofo finale - che segna l’apocope sia con l’accento tonico (mangià’, vedé’, finì’), come richiede una corretta grafia. Nell’uso pratico però, per non appesantire la scrittura con troppi segni, si preferisce la forma col solo accento (mangià, vedé, finì), necessario per indicare l’esatta pronuncia tonica. • Quando segue una parola terminante in vocale, l’articolo i non si pronuncia e si segna graficamente con un apostrofo (ho visto ‘ bimbi: ho visto i bimbi). • La consonante l diviene quasi sempre r, sia nel corpo che alla fine di parola (caldo: cardo; mal di pancia: mar di pancia). Parimenti l’articolo il diviene ir oppure ‘r, e le preposizioni articolate del, al, dal, nel, col, sul divengono der, ar, dar, ner, cor, sur. La l di fine parola e di fine
preposizione articolata resta però tale davanti a parole che iniziano per l. • Le parole che iniziano con i gruppi ca, co, cu, chi, che perdono la c iniziale - che non lascia alcuna traccia fonetica - quando sono precedute da un‘altra parola terminante con una vocale non accentata, (la vera ‘asa, la vera ‘osa, la vera ‘ura, la vera ‘iesa, la vera ‘ecca: la vera casa, la vera cosa, la vera cura, la vera chiesa, la vera checca). • L’incontro fra una parola che termina con una vocale e un’altra parola che inizia con una vocale è secondo i casi caratterizzato dalla caduta della vocale finale della prima parola (la mi’ anima: la mia anima). • La caduta della c fra due vocali all’interno d’una parola può essere indicata col segno della sincope (es.: mica: mi’a, dico: di’o) o anche con la dieresi o con l’accento (mïa, mìa; dïo, dìo) oppure non indicata del tutto (rionosce’: riconoscere).
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Addiacciante - agghiacciante. Agguantà’ - afferrare, tenere, raggiungere, ma anche favorire, dare una mano, raccomandare. L’ha fatta sì, carriera, la tu’ bimba! Con tutti velli ‘he l’hanno agguantata... Agguantassi: afferrarsi, trattenersi, controllarsi. Dé, ‘un mi son più agguantato, me l’ha levate dalle mani! (le botte). A gguanta la maglia!: aspetta, ferma tutto! Aiò - esclamazione d’allarme: attenzione!, occhio! Aisà’, aisàssi - alzare, alzarsi. Alla dighedòghe (alla dighedò) alla buona, alla carlona, senza particolari regole o cure (si dice anche all a sanfasò). Alla volé - alla svelta, di rincorsa. Pipà’ alla v olé : fare una sveltina. Allezzìto - (da lézzo, lo sporco che contraddistingue chi non ha neppure l’acqua per lavarsi): estremamente povero, miserabile. In senso figurato l’allezzito è il proletario, il diseredato sociale, ricco solo di lézzo. Allungà’ - porgere, dare. Allungami la furchetta, Maria! Sennò come la ‘ncìccio, vésta ciccia?! Àmagghe - è la livornese AMAG, Azienda Municipalizzata Acqua Gas. Ambaradà - un insieme di cose (tutto l’ambaradà). Ammoscassi (di qualcosa) - accorgersi, intuire, sospettare. A peorìna - a pecorina, posizione copulatoria in cui l’uomo penetra da dietro la donna piegata sulle ginocchia e sulle mani. Appeorato - messo a pecora, prono, in atto di sottomissione. Appeorà’
quarcuno: metterlo sotto. Appestàto - caro appestato: carissimo, di prezzo esagerato. Appètto a - in confronto, in paragone. Appioppà’ - affibbiare, rifilare. T’appiòppo un picchio, ti sdraio! Appioppà’ (quarcuno) ar muro: mettere qualcuno al muro con la forza, dargli un colpo tale da appiccicarlo al muro. Appioppassi: buttarsi a dormire, addormentarsi, abbandonarsi immobili. Apporpàssi - appolparsi, avvincersi come un polpo. Detto principalmente di due amanti appassionati (apporpati). Apprenzivo - preoccupato, impensierito. A pipi di ‘ane - malamente, senza senso, a cazzo. A rifinì’, a rondemà - in abbondanza, a tutto andare (a tuttandà). Arrazzàssi - eccitarsi sessualmente. Arrazzàto: 1) eccitato sessualmente, arrapato; 2) paonazzo in viso; 3) che va forte (a razzo). Arrotà’ - investire con le ruote (d’auto o d’altro mezzo con le ruote). Arrotamento: investimento da parte di un mezzo con ruote. Ascende’ - scendere, calare (tutto l’opposto dell’italiano “salire”, che in livornese è soprattutto espresso con montà’). A spasso - esse’ a spasso: essere a giro, senza nulla da fare, disoccupato. Atobùsse - autobus. Plur.: atobùssi. Bài - bachi. Avé ‘ bai: avere i vermi intestinali. I bai a Livorno sono una categoria diffusissima: ci sono i bai ner
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cerv ello (te ciai ‘ bai ner cervello, te ciai ‘r cervello baàto, luilì è un cervello baàto, detto di chi ha idee strampalate o malsane), i bai nello stòmao (o bai tout court, vermi intestinali, il più famoso dei quali è ‘r bao solitario), i bai nella topa (di colei che si lava poco fra le gambe), i bai ar culo (detti anche campanelli cinesi o, più modernamente, tarzanelli), i bai da pesca, i bai addosso (della decadenza corporea, anticamera dei vermi della putrefazione cadaverica) e così via. Baìni: piccoli vermi. Barre - bar (plur. barri). Barrino: piccolo bar. Barta - da’ barta, da’ di barta: dare di balta, rovesciare, ribaltare, buttare all’aria. O cosa fai, pisci ‘n chiesa?! Ah, ma a te t’ha dato barta ‘r cervello! Bastàrdo - epiteto, talvolta anche familiarmente affettuoso, rivolto perlopiù ai ragazzi quando ne combinano di grosse. Batte’ - corteggiare, da’ ‘r giro (dare il giro) Beccà’ - prendere, ricevere, compartecipare a un qualche guadagno. Beccà’ la fetta: prendere un utile, una tangente, una parte d’un guadagno (anche illecito). Bellìno - carino; ma è soprattutto appellativo ironico e/o irato per chi, grande o piccino, stia fra i piedi o faccia qualcosa di non gradito. Una donna sull’autobus: Quell’omo, o cosa pigia?! Si levi di ‘ulo, bellino, vadi! Bellomìo (bello mio) - è antifrasi. Di’ bellomìo a quarcuno: trattarlo male, non dirgli certo bello mio. Biciretta, bicigretta - bicicletta. Bìschero - sostantivo: uccello, pene; aggettivo: sciocco, grullo. Bòia! (bòia dé!, bòia cane!) - tipica esclamazione con varie sfumature di
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significato, spesso con intonazione di sorpresa e/o meraviglia ma soprattutto col valore di: accidenti, accipicchia. Boia, che culo! esclama il ganzo che vede rincasare il marito proprio mentre lui scende le scale. Bottìno - liquame organico contenuto nel pozzo nero (bottinèllo), un tempo usato come concime per i campi, previo assaggio col dito intinto e messo in bocca da parte dei contadini della Lucchesia per saggiarne il grado di acidità, così motivando l’appellativo di mangiatori (o puppatori) di bottino per i lucchesi tutti. Bottino è anche chi mangia senza misura, chi si riempie di cibo come una fogna, oppure una persona di pessima fama, maldicente e, se donna, anche di facili costumi. Bócca di bottino, bocca ‘nfamata: bocca o persona maldicente, maligna, propalatrice di male dicerie. Budèllo - donna di malaffare, di facili costumi, chiavatrice notoria (detta anche tegame o bùssolo). Riferito a un uomo, budello indica persona immorale. Tipica l’imprecazione ir budello di tu’ ma’!, alternata con tu’ ma’ budello! È sostituibile a piacere con tegame. Budiùlo - buo di ‘ulo, buco di culo: v. Buo. Bùo - buco, quasi sempre del culo (buoderculo) e talvolta anche come sineddoche di omosessuale, alla fiorentina, mentre a Livorno è di più comune accezione il finocchio. Unito ad altre parole, il buo si fonde con esse (anche graficamente) in una grande varietà di usi e di significati. Buodiùlo (buo di ‘ulo, budiùlo): epiteto usato sia per indicare donna che si concede facilmente, sia per definire un uomo che si comporti in
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modo poco commendevole. Può anche avere una valenza solo apparentemente offensiva e invece affettuosamente familiare: Vieni, budiùlo! A casa tutti bene? Buolèv ere: di etimo incerto (forse da uno strumento d’uso portuale), l’epiteto può indicare sia una variante scherzosamente più leggera di budiulo, sia più grevemente riferita a donna di trivio, come nell’uso pisano (col sinonimo buo d’orso). Buolùngo/buosécco: persona alta e magra. Buorótto: trattasi ovviamente di buco concernente l’uso sessuale, talché un buorotto non potrebbe mai essere una verginella (e neppure un verginello). Usatissimo a Livorno è ‘r buorotto di tu’ ma’! epico grido che nella variante ‘r budello di tu’ ma’! trova chiasmatica conferma in tu’ ma’ budello! Con buorotto si indica anche persona di fortuna esagerata, detta pure buosfàtto, mentre buosdegnóso è la persona altezzosa che assume aria sdegnata, espressione di sufficienza o lo schifato atteggiamento di chi non si giova di qualcosa. Buosfondàto: chi mangia smodatamente. Buo sfruonàto (sfronato): come buorotto. Buostrìnto: persona tirchia; esse’ di buo strinto (esse’ stretto di buo): non distinguersi per generosità. Largo di buo: persona generosa. Cosa?! ‘R ventipercento d’interesse?! Saòsa, se’ largo di buo! La donna larga di buo può essere generosa anche sessualmente. Buostrappàto: persona col buco ridotto male. Buostecchìto: persona magra, segaligna, di aspetto cadaverico. Buonéro: epiteto di cordiale familiarità, anche in formule di saluto: Vieni, buonero! A te buonero! Popò di buonero, dé! Buosùdicio: persona di scarsa pulizia, anche morale. Buolènte: persona facile
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al pianto; esse’ di buo lènte: commuoversi facilmente (v. lènte). Buov àdro: persona col culo quadrato, in senso di ironica irregolarità. A bùo a bùo: a buco a buco, appena in tempo, di stretta misura. Amelia, corri, ce l’ho ritto!... Dé, a buo a buo! A buoaggallìna (a buo a gallina), a buorìtto, a buopunzóni: a buco ritto, col sedere per aria, col culo esposto, come la gallina che s’offre al gallo o come le mogli stanche quando propongono una veloce trombatina di schiena per non ammattire a girarsi nel letto. È anche la posizione atta a prenderlo nel culo metaforicamente: tutti a buoritto, via, c’è ‘na tassa nova! A buostòrto: a buco storto, di cattivo umore, controvoglia. Arzassi a buostòrto è la più comune delle situazioni umane fra quanti al mattino devono lasciare il letto per andare a lavorare. Av é’ buo: essere fortunato. Av é’ più bui ‘he cav icchi (lett.: avere più buchi in terra che cavicchi da ficcarci): avere più del necessario, avere molte amicizie, conoscenze. Che buo!, che popò di buo!: che fortuna! Esse’ tutto un buo: essere in stretta confidenza con qualcuno, amarsi, avere gli stessi interessi: Berlusconi e Previti? Tutto un buo! Fa’ tutto un buo: mettere tutto in comune. Fòri der mi’ buo è fallo: tutto ciò che non mi riguarda non m’interessa. Forza, buo!: dai, coraggio! (in senso ironico), con le varianti forza buo, passa la banda! e forza buo, passa le cèe! Caà’ - cacare, ma anche considerare. Ma chi ti càa?!: ma chi ti considera?! T’ha caàto l’orso: variante di t’ha caato la Befana, ironica antifrasi per dire che uno non ha certo ricevuto regali, anzi è messo molto male.
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Caàta - cacata, persona che si comporta da merda, specialmente nell’esclamazione diretta a te caàta! Av énne per du’ caàte: averne per poco, essere vicino a morire. Caóna - cacarella, ma anche paura (che fa cacare addosso). Caóso - merdoso, di poco conto. Capace (è capace) - probabilmente, forse, stai a vedere che, ci sta che... Uh, l’hai sentito Gino che popò di scurreggia ha fatto? Capace s’è caàto addosso! Cautèrio - rompiscatole, persona che tormenta, che assilla. Cèa - singolare di cèe (it. cèche o cieche), gli avannotti delle anguille, prelibato piatto (cucinate in bianco con la salvia) per livornesi e pisani. Il lemma cèa è usatissimo in locuzioni antifrastiche del tipo hai mangiato ‘na cèa!, è ‘na cèa che ce l’ho! e simili, dove la minuscola corposità dell’anguillina sta ironicamente a significare una grande quantità. Ci ’orre ’na cèa: ci corre molto, c’è una grande differenza. Chè! - esclamazione rafforzativa di affermazione, posta in genere dopo la parola o la frase affermativa (a te ti vo ner culo, chè!). Chiòrba - testa. A chiòrba: a testa, per ciascuno. Av é ‘na gran chiorba: avere la testa grossa, un gran cervello. Chiorbóne: testone, duro di comprendonio. Ci ‘ónci! (E’ ci ‘ónci!) - tipica antifrasi: non ci tratti davvero bene, ci conci, ci maltratti. Cuffia - eufemismo di culo. Ma vai ‘n cuffia, vai! Culo - culo rotto: fortuna esagerata. Che popò di ‘ulo!: che fortuna sfacciata! A culo ritto: con aria impermalita. A culo (culino) strinto: con
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timore. Andà’, mandà’ ‘n culo: andare, mandare a quel paese. Av é’ culo: avere fortuna. Av éllo ‘n culo: avere il nervoso, essere di cattivo umore (av é’ ‘r giramento). Av é’ quarcuno ‘n culo (sur culo): avere qualcuno di traverso, averlo sullo stomaco, disprezzarlo. Proverbio: t’av essi ‘n culo, t’andrei a caà alla Meloria (t’avessi in culo, ti cacherei il più lontano possibile; la Meloria è un fondale scoglioso a sette chilometri dalla costa livornese). Av é’ quarcuno ar culo: essere seguiti o pressati da qualcuno. Da’ ‘r culo (per quarcosa): dare il massimo, dare tutto per uno scopo. Da’, mette’ ‘r culo dentro ‘r foglio / incartato ner foglio: dare il massimo della propria disponibilità, come sarebbe l’offrire il proprio sedere addirittura incartato a mo’ di regalo. Fassi ‘r culo: impegnarsi al massimo, sgobbare come ciuchi. Girà’ ‘r culo: fare dietrofront, andare via (piglià’ ‘r culo e andassene). Lev à’ di ‘ulo: levare di torno, eliminare. Lev assi di ‘ulo: togliersi dai piedi. Mèttello / buttallo ‘n culo (a qualcuno): fregare, imbrogliare. Mette’ ‘r culo alla finestra: esporsi senza pudore, mettere in piazza i propri affari privati. Mèttessi le mane ar culo, restà’ colle mane ar culo: vedi mane. Pigliallo ‘n culo: rimanere fregati, restare sconfitti. Sta’ ar culo (di quarcuno): stare appiccicati, tallonare, non dare requie. Sta’ sur culo: essere antipatici, insopportabili. ‘Un sapé’ fa’ un o cor culo: non essere buoni a nulla, come il non saper neanche stampare una “o” col culo, che pure è tondo. Volé un po’ di ‘ulo co’ pinoli: volere il massimo, volere il colmo (in senso ironico).
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Dé! - è la tipica esclamazione livornese, usata in ogni occasione: come introduzione a un discorso (Dé, ero lì che caminavo, mi son sentito strattonà...), come rafforzamento nel discorso (sicché n’ho detto stronzolo e lui dé, s’intendeva di brontolà...), a conclusione (e io n’ho ridetto stronzolo e l’ho picchiato benebene, dé!), in rafforzamento d’altra esclamazione (boia dé!) o d’un aggettivo (bello, dé!) o d’un sostantivo (che topa, dé!) e in qualunque altra occasione in cui un livornese abbia da far capire d’esser livornese. Fa’ - fare, funzionare, fare effetto (nelle locuzioni mi fa, ti fa e così via). Pe’ffa’, ‘r Viagra mi fa, mapperò mi ci vorrebbe anche ’npò di potta! Fa’ ‘ fìi: lamentarsi infantilmente, essere fióso. Fa’ ‘r bussolo: fare una colletta, o comunque una raccolta di denaro. Fa’ ‘r fiasco: giocarsi a carte un fiasco di vino (come usava nelle fiaschetterie). Fa’ tutta ‘na stanza: buttare violentemente all’aria tutto, fare un gran macello. Fa’ ‘ v aìni: lett.: fai i quattrini: non importa, non conta niente, è lo stesso, chi se ne frega, riferito a persone o cose poco importanti, da non considerare. Ha detto Bossi è di razza speciale? Fa’ vaìni ‘on luilì! Fa’ v ento: non fare alcun pratico effetto, non avere sostanza. Colla fame ‘he ciò, questo panino mi fa vento! Fava - pene, uccello. Fav a stiappóna: pene corto e largo. La mi’ fav a! è la risposta a chi chiede qualcosa d’impossibile, o comunque non concedibile. Ganzo - sost.: persona abile e simpaticamente furba (che ganzo, luilì!); in altro significato è l’amante. Agg.: bello, straordinario, ammirevole. Gaò! - è l’espressione pisana più tipica (nelle campagne è gaó con la o chiu-
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sa) con valenze varie, secondo le situazioni: meraviglia, dissenso, ironia, ma in genere è esclamazione asseverativa (certo, certamente) od anche negativa (no davvero). Ma a te la tu’moglie te l’hanno mai trombata i livornesi? chiede il pisano all’amico di famiglia. Gaò!, risponde lui, e lo vai a sapé cosa vole di’! Gasse - gas. Ghigna - faccia dura, persona sfrontata, sfrontatezza. Ah, vorreste anche ‘npo’ di ‘ulo ner foglio?! Ce l’hai piccina la ghigna! Esclamazioni ed espressioni tipiche: popò di ghigna!, chiamala ghigna!, ci v ole propio la tu’ ghigna!, ghigna di ‘ulo (faccia tosta e/o improponibile come viso), ghigna a culo (faccia incupita, tipo quella della suocera, o espressiva proprio come un culo, tipo i pisani), ghigna a culo rov esciato, a ghigna rov esciata (con aria di stufatissima irritazione o rottura di coglioni), av é’ la ghigna come ‘r culo (essere sfacciati oltre ogni misura e pudore, tipo Berlusconi). Ghiòzzo - stupido, minchione. Il ghiozzo è un piccolo pesce di poco pregio, che si lascia prendere facilmente nelle buche di scoglio dove si rintana (ghiozzo di bua) ed è perciò divenuto sinonimo di stupidità. A Livorno il ghiozzo per antonomasia è il pisano. Giovane - normale appellativo per rivolgersi a un uomo, purché non troppo vecchio. In autobus: Giovane, s’un mi leva la mano dar culo, ni ci cào! Giovassi (di quarcosa o quarcuno) - non provare repulsione, toccare o mangiare senza schifo. La moglie al marito: Arturo, sarà vent’anni che ‘un mi lecchi la gnàcchera! ‘Sa c’è, ‘un te ne giovi più? Gnàcchera - topa, fica.
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Gòbbo - voce antifrastica: è gobba leilì! (quella lì non è certo gobba, è molto bella). Esse’ gobbo a. . . : non avere difficoltà a... (a comportarsi in una qualche maniera). Saòsa, è gobbo Berlusconi a buttallo ‘nculo a’ ‘omunisti! Stacci gobbo: stare molto bene (in un posto, in una situazione). Ci stareste gobbo ar circo, con quella ghigna!. Intrufolà’ - frugare, mettere dentro. Intrufolassi: ficcarsi, infilarsi. Lézzo - sost.: fetore, sudiciume, (riferito anche a persona: quel lezzo, lì!); agg.: sporco, pieno di lézzo, loióso . Lòia - sudiciume untuoso, tipico di chi si lava poco. Lòia ‘ncarognita: sudiciume divenuto tutt’uno col corpo. Loióso: agg.: pieno di loia; agg. sostantivato: uomo molto sporco, talvolta anche nel senso spregiativo di morto di fame, allezzito. Mallegato - insaccato di sangue di maiale, buristo, biroldo. E’ anche sinonimo di pene, uccello. Marzagrà’ - massacrare, riempire di botte. Marzagro: massacro. Mètte’ - mettere, trombare. Bimba, si mette?, n’ho fatto io. Mèttiti un dito ‘nculo, m’ha risposto lei! Mette’ bav a: darsi arie, credersi importante. Mètte’ di mezzo: imbrogliare, coinvolgere. Mètte’ l’occhi a’ piedi: portare la pelle degli occhi fino ai piedi, sgraffiare in modo totale, picchiare. È atto offensivo tipicamente femminile, riferito appunto allo sgraffiare ferocemente. Mètte’ ‘ mattoni ar sole: costruire case, farsi dei beni in vista. Mètte’ ‘r bricco: considerare ironicamente qualcosa come già fatta, reputare con amara ironia una promessa come già mantenuta. Il riferimento è a quando, in tempi di grande miseria, mette’ ‘r bricco significava
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l’arrivo in casa di un po’ di latte da riscaldare. Si dice anche apparecchia, v ai! (prepara la tavola). Mètte’ ‘r fòo ar culo: mettere fretta. Mètte’ ‘r timbro: mettere la firma, essere certo di qualcosa. Mïa, mìa, mi’a - mica. È uno dei più frequenti casi di sincope (caduta d’una lettera o d’una sillaba all’interno d’una parola) nel vernacolo livornese, in cui si evita quasi sempre di indicare la sincope col relativo apostrofino (mi’a) preferendo invece una dieresi o un accento (mïa, mìa). Mollà’ - lasciar andare (mòllala vella tròia, ti riempie di ‘orna!), cessare di far qualcosa, finirla di rompere le scatole (mòlla!, mòllaci!: finiscila!, smettila!), fare, esplicare una funzione fisiologica, con accentuazione dell’atto (mollà’ una pisciata, una caàta), dare, affibbiare (mollà’ un ciaffone, una pedata). Née, niéne - gliene. Nélo, niélo - glielo. Ni - gli (a lui, a lei, a loro). Ni fo, n’ho fatto... Pallétïo - parletico, tremore alle mani. Pervìa di, pervìa che - a causa di, per colpa di, poiché, per il fatto che. Peso - volgare, di linguaggio greve, di modi pesanti. Péste - guai, pensieri, difficoltà: esse’ nelle peste, mette’ nelle peste (essere, mettere nei guai). Povero Sirvio! Quella ragazzina l’ha messo nelle péste Pipà’ - trombare. Pipata: trombata. Pipi - l’uccello del bimbo, o anche dell’adulto ma in senso familiare o riduttivo. Pòi - puoi (io posso, te pòi, lui pòle, noi si pòle, voi potete, loro possano), ma anche: pochi (po’i).
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Pónce - è il livornesissimo caffè al rum (rùmme) ma può essere corretto anche con altri alcolici. Originariamente ci si metteva anche un po’ di zenzero. Il pónce a v éla è quello con la fetta di limone infilata (come una vela) sull’orlo del bicchiere. Il pónce mèzzo e mèzzo è quello corretto con metà rum e metà ànaci (anice). Pónce bello càrïo: carico di alcool. Da rimarcare che si pronuncia pónce con la ó chiusa, come in “mólto”, e non pònce sguaiatamente aperto come lo dicono i fiorentini. Ponciaiòlo: bevitore di ponci. Popò, popoìno - poco, pochino (voce pisana). Pòr, pòle - può. Pol’esse’: può essere, può darsi. Pòtta - è l’organo genitale femminile, ma in ridondante accezione concettuale e fonetica del più comune tòpa; una topa tanto più piena, insomma, che già il nome ti riempie la bocca. In sineddoche (con la parte per il tutto) indica anche una bella donna tout court (Che popò di potta, la Carfagna!). Pòtta ‘ncalorita: donna in calore, vogliosa d’amplessi, talvolta però senza successo; talché può essere potta ‘ncalorita anche la zittella o la donna comunque bruttina. Potta diaccia (ghiaccia): donna di scarsi fremiti sessuali. Potta móscia, potta léssa: persona lenta, che se la prende comoda. Potta scema: donna un po’ cretina. A pottapari (sta’ a. . . ): in comoda posizione supina (con la potta pari, cioè orizzontale), tipica delle signore benestanti che non hanno da fare granché. Grattassi la potta: stare con le mani fra le gambe, non concludere niente. Potta, budiùlo e pónci: proverbiale trilogia con la quale a Livorno si sintetizza una filosofia empirica basata
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tutta su una visione gastro-ano-genitale della vita. Pottàta - grandezzata, esibizionismo (spesso al di là dei propri mezzi). Pottaióne - amante delle pottàte, esibizionista di simboli del benessere. Puntate - pugni, cazzotti. Fa’ le puntate: picchiarsi, anche in senso figurato: questi ragazzi fanno le puntate, per andà ar Grandefratello! Puppà’ - puppare, ciucciare. A me me lo puppi! Pùppamelo! Puppa!: classica risposta a chi pretenda troppo o a chi, sentendosi rivolgere una domanda volutamente incomprensibile, chiede: «Eh?!». Es.: «Obluraski?» «Eh?!» «Puppa!» Vanto (quanto) pupperéste!: quanto pupperesti, quanto vorresti puppare, cioè succhiare nel senso di prendere, approfittare. In altro significato: prendere, tenere, darsi cura di qualcuno o di qualcosa. Ma av é ’r cerv ello puppato significa aver perso la testa per qualcosa, o essersi fatto succhiare il cervello dai pompini. Viso puppato: viso smunto, risucchiato da abusi sessuali. Purma - pullman, autobus. Raspone - fellatio, masturbazione, sega. Restà’ coll’uccello ‘n mano - non concludere, rimanere con un’opera incompiuta, restare delusi e/o sorpresi (come restà colle mane ar culo). Ricaà’- restituire, ridare indietro, ricacare. Rifà’ - restituire con le feci, ricaà’. Rifà’ la ciccia colle patate: cuocere la carne in umido con le patate. A Livorno le patate rifatte (in umido) sono dette Inno di Garibardi. Rifassi: rifarsi, rivalersi, recuperare un credito (sinonimo: riattàssi). R ifassi la bocca (su qualcuno o su qualcosa): par-
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lare molto/spettegolare di qualcuno o di qualcosa. Rifiatà’ - parlare, dire qualcosa, farsi sentire, respirare. Zitto, sai! Se t’azzardi a rifiatà, ti rompo ‘r muso! Rifinissi - distruggersi, esaurirsi. Rifinissi dalle seghe: ridursi al lumicino con troppe masturbazioni. Rifrésco - cattivo odore; il classico puzzo di rifresco è quello dei piatti e dei bicchieri lavati male, specialmente quando sono stati a contatto con le uova. Se a sapé’ di rifresco è un uomo, vuol dire che si lava poco; se è una donna, ni puzza la fia di baccalà. Rigozzà’ - vomitare, ributtare fuori dal gozzo. Ritonfà’ - picchiare di nuovo. Rivogà’ - dare, rifilare, affibbiare. S’un ti levi di ‘ulo, ti rivogo ‘na pedata!: Se non ti levi di qui, ti do una pedata. Ròccia - c’è roccia! - c’è tanta roba. Ci dev’esse’roccia!: ci devono essere proprio tante cose! Saòsa, ciò roccia ‘n mano! (sai cosa, ho un affare di nulla in mano!, detto agguantando il proprio uccello). Sa’ ‘osa! (saòsa!) - Lett.: sai cosa! Tipica introduzione d’un discorso antifrastico, per negare ironicamente quanto si afferma. In banca: Sa’ ‘osa, ‘un ce l’ha nissuni (nessuno) le ‘ambiali!: le cambiali ce l’hanno certamente tutti. Sapé’ assai - è antifrasi: non sapere niente. L’esclamazione so assai! equivale anche a: non mi riguarda, non è cosa per me. ‘R Viagra?! So assai! A me mi sta ritto dappersé! Sciagattà’ - riempire di botte, ridurre in pessime condizioni. Sciamannato - male in arnese, di aspetto disordinato. Scianguinà’ - ridurre in condizioni
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disastrose, picchiare a sangue (come sciagattà’). L’ho scianguinato bene bene, quer troiaio! In altro significato: scianguinà’ dalla miseria, dalla fame: avere una miseria, una fame da sanguinare, da non poterne più. Come sgainà’ (stiantà’ ) dalla fame, dalla sete. Scianguinato - coperto di sangue, percosso a sangue. Sciòcco - scipito, mancante di sale, insipido. Scòzzo - scontro, litigio, confronto duro (fra persone); urto violento (fra cose). Il verbo è scozzassi: scontrarsi, prendersi a botte o a male parole. Scucì’ - scucire, aprirsi o far aprire le tasche per pagare, tirar fuori i quattrini, spendere. Si dice anche frugàssi. Séga - masturbazione; in altro significato: niente, nulla, in frasi come ‘un fa’ ‘na sega, ‘un v edé ‘na sega , ’un contà’ ‘na sega , ’un capì’ ‘na sega e simili. ‘Un sentì’ seghe: non intendere ragioni, tirare a diritto, incaponirsi. Io dé, quando si tratta di trombà ‘un sento seghe! Fa’ le seghe a’ morti: non concludere nulla, non compiere azioni valide, come appunto masturbare i morti. Fassi le seghe: rinunciare a qualcosa, restare a mani vuote, stare con le mani in mano, gingillarsi, concludere poco o niente (‘un concrude’ un segóne nulla). Sainaséga (sai ‘na sega) te!: sai un cavolo, tu! Non sai nulla, tu! Sfavà’ - sfav à’ l’occhi - spalancare gli occhi con meraviglia, sorpresa o incredulità. Sfav à’ (quarcuno): seccare, stufare qualcuno (si dice anche sbudiulà’). Sfav assi: stufarsi, seccarsi, non poterne più, èssessi rotto ‘ ‘oglioni. Sfav ato: stufato, seccato. Spiccïàto (spiaccïàto) - spiaccica-
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to: uguale preciso, tale e quale. Quer bimbo? La stessa ghigna a culo di su’pa’ spiccïàto, poverino! Spipatore - trombatore. Stempià’ - uccidere (con un colpo alla tempia), fare secco qualcuno, ammazzare sul colpo (dé, ‘un s’è fermato ar posto di bròcco, l’hanno stempiato!), colpire in pieno (anche senza uccidere). Stempiàto è anche l’uomo con pochi capelli sulle tempie. Stioccà’ - mettere, ficcare, appioppare. Cesira, ecco tu’ ma’! Ora stiòccamela sulle palle a me, sai! Tipico il caso del governo che di riffe o di raffe ce lo stiocca sempre ‘n culo. Stioccà’ un picchio, una manata, una pedata: rifilare, appioppare un cazzotto ecc. Ristioccà’: rimettere, rificcare. Lei ci se l’è levato, e io ni ce l’ho ristioccato! Storcióne - in particolare, un colpo al collo con la mano aperta. In generale, una gran botta, anche in senso figurato. Hai perso tre a zero? Chiamalo storcione! Strizzóni - forti e improvvisi dolori di pancia, Stronfià’ - sbuffare, dire qualcosa sbuffando, con senso di fastidio, di colmo di sopportazione. E dìo vanto strónfi! Ma l’hai ‘n culo, stamattina?! Strónzolo - stronzo, persona che si comporta male, che vale poco. Tegame, tegamone - come budello, ma con riferimento all’omofono recipiente da cucina, la cui ampia dimensione si vuole assimilare per sottintesa analogia alla dimensione dell’apparato genitale dell’interessata, reso altrettanto ampio dall’uso e dall’abuso di amplessi. Da tener presente che sia tegame che budello sono i normali epiteti con cui a Livorno s’indica la mamma di chi rompe i coglioni, al quale si grida ‘r
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budello di tu’ ma’!, oppure ‘r tegame di tu’ ma’! Tòpa - vulva, donna, femmina. Bella tòpa! esclama l’uomo alla bella donna. Bella topina! esclama la nonna alla nipotina. Si pronuncia tòpa con la ò aperta, come mòda. Troiàio - detto di cosa o di luogo: porcheria, luogo sudicio (che troiàio, vesto vatercrose!); detto di persona: uomo o donna che fa cose immorali o che comunque si comporta molto male. Trombà’ - vedi zifonà’. ‘Un (nun) - non. Vaìni (vattrini, vadrini, varini, quadrini, guadrini, quaìni, guaìni, guarini) - quattrini. Véllo (vér), vélla, vélli, vélle, ve’ - quello, quella, quelli, quelle, quando dietro a parola terminante in vocale non accentata il gruppo qu si tramuta in v. L’hai visto véllo scemo?! Parimenti gli avverbi v ì, v à (qui, qua), v ando (quando), v anto (quanto), gli aggettivi e i pronomi v éllo, v ésto, v estov ì (questo qui), v alunque, v arcuno, v arsiasi, i sostantivi v istura (questura), v aìni (quattrini) e così via. Vìrusse - virus, germe, batterio. Al plurale resta vìrusse (o vìrussi). Vòi - vuoi. Zifonà’ - zifonare, onomatopea da zifóne (sifone): trombare, copulare, con riferimento appunto all’atto del sifone che introduce impetuosamente un liquido in un recipiente. Lo stesso che trombà’, considerandone il significato originario di travaso di un liquido da un recipiente a un altro mediante un tubo rigido (trombare il vino), e ricordando che un tempo “tromba” significava pompa (trombai nel fiorentino sono gli idraulici).
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Supplemento al mensile “il Vernacoliere” n. 927 del Novembre 2009 Direttore Mario Cardinali - Mario Cardinali Editore S.r.l. Iscrizione Tribunale Livorno n. 164 del 21/07/1961 Redazione Scali del Corso 5, Livorno Tel. 0586/880226 - Fax 0586/883364 E-Mail: info@vernacoliere.com • www.vernacoliere.com Stampa: Genesi, Città di Castello (PG) Vietata ogni riproduzione e/o utilizzazione, anche parziale, di testi e disegni. Tutti i diritti riservati
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«Il “Male” è soltanto un ricordo. Ma il gusto di seppellire i potenti sotto una montagna di risate non s’è affatto perduto: I “maledetti toscani” hanno inventato un metodo infallibile per far traballare il Palazzo (e non solo quello...): “Livornocronaca”, ribattezzato “il Vernacoliere”, sta battendo tutti i primati». «Il Lavoro» di Genova € 14,00
Quando a Rambo ni ciondolava l’uccello
«Il Vernacoliere è diventato da qualche anno un vero e proprio caso nazionale nel panorama della cosiddetta stampa alternativa...». Riccardo Lenzi, «L’Espresso»
Direttore-editore dal 1961 del settimanale Livornocronaca, divenuto dal 1982 il Vernacoliere mensile satirico, per il quale ha scritto migliaia di articoli in italiano e in vernacolo livornese, Mario Cardinali ha già trattato di molti di quegli articoli e delle relative famose locandine in quattro volumi di editori nazionali: “Ambrogio ha trombato la contessa” Ponte alle Grazie 1995; “Politicanti, politiconi e altrettante rotture di coglioni” Ponte alle Grazie 1996; “L’Italia del Vernacoliere. E’ tutta un’altra storia” Piemme 2005; “I comandamenti del Vernacoliere.Trombare meno, trombare tutti” Piemme 2006. Mancava ancora una raccolta completa delle locandine, nessuna esclusa dal 1982 in poi, e vi provvede oggi la stessa “Mario Cardinali Editore” con questo primo volume che raccoglie intanto gli anni Ottanta, mentre il secondo e il terzo volume tratteranno rispettivamente degli anni Novanta e del primo decennio degli anni Duemila. Il tutto presentato nel contesto storico di riferimento, tracciando così per la prima volta la storia completa di come il Vernacoliere ha rivissuto in sua originalissima satira tantissimi eventi di politica, di società, di costume, di religione e di tant’altro in Italia e non solo.
«Le locandine del Vernacoliere - un genere nuovo che richiede tutti i sali della poesia epigrammatica - sono un monumento linguistico, come i sonetti del Belli, alla plebe livornese; e quando non ci fosse più una plebe che parla così, l’operazione sarebbe ancor più apprezzabile. La pornolalia del Vernacoliere non si oppone ma si accorda alla civiltà di Livorno: è il respiro di sollievo che tien dietro al rifiuto delle parole di plastica che sempre più invadono la lingua di comunicazione; è anche un’esorcizzazione allegra, secondo modi fescennini (tanto più leggera quanto più appare triviale) del demone del sesso; e guai a chi ha perduto la dimensione di questo dialetto: costui è un replicante». Luigi Baldacci «Corriere della Sera»
MARIO CARDINALI
«Conosco il Vernacoliere praticamente da sempre e ne dico tutto il bene possibile. Fa vera satira, una satira esasperata e non annacquata come tanti altri: la parolaccia, il linguaggio maltrattato e irriverente rispettano la tradizione vernacolare e, malgrado tutto, non cadono nella banalità, vera volgarità del nostro parlare quotidiano». Oreste Del Buono, «L’Espresso»
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ilVernacoliere I grandi autori de