COLLANA SAGGI PER L’ANIMA
Fabio Ferrucci
L’ARTE DELLA MEMORIA Il trattato “De umbris idearum” rivisto dal noto esperto di scienza della memoria
a cura del dott. Gianni Golfera
Anima Edizioni
© Anima Edizioni. Milano, 2005. © Fabio Ferrucci, 2005.
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novembre luglio luglio gennaio marzo
Tipografia ITALGRAFICA Via Verbano, 146 28100 Novara (NO)
2005 2006 2008 2010 2011
INDICE
Presentazione di Guido del Giudice* Prefazione Introduzione Obiettivi e limiti della ricerca 1. Le immagini di memoria prima di Bruno 1.1. Simonide di Ceo 1.2. L’Ars memoriae classica 1.2.1. L’oratore e la memoria 1.2.2. I loci 1.2.3. Le imagines: memoria rerum e memoria verborum 1.2.4. Punti di vista 1.3. Metamorfosi medioevali 1.3.1. La Ad Herennium, Cicerone e Aristotele 1.3.2. Le regulae per le immagini: varianti e corruzioni 1.3.3. Due applicazioni della memoria verborum 1.4. Pietro Tomai 1.4.1. Vita di un mnemonista del XIV secolo 1.4.2. La Phoenix sive artificiosa memoria 1.4.3. Regole e consigli tra plagio e originalità 1.4.4. La memoria verborum della Phoenix 1.4.5. Tecniche alternative 1.4.6. Numeri 1.4.7. Codifica e de-codifica 1.5. Altri contributi 1.5.1. I trattati sulla memoria 1.5.2. Ars Combinatoria 1.5.3. in attesa di una sintesi Note 2. I Presupposti dei sistemi bruniani 2.1. Premessa
2.2. Un alfabeto per (quasi) tutte le lingue 2.3. Conseguenze del principio fonetico 2.4. Fonetica e diplomazia 2.5. Strutturazione dei loci 2.6. Verifica dell’efficienza dei loci Note 3. Memoria Vocum – Le immagini della prima pratica 3.1. Introduzione 3.2. Allestimento del sistema 3.3. Il principio della associazione arbitraria 3.4. Le immagini degli agentes 3.5. Il ruolo delle appropriatae operationes 3.6. L’aggiunta degli instrumenta 3.7. Le ruote 3.8. Funzionamento del sistema combinatorio 3.8.1. Sillabe bielementali 3.8.2. Sillabe trielementali e oltre: trucchi grammaticali 3.8.3. E le altre lingue? 3.9. Sviluppi 3.9.1. Quando i loci non bastano 3.9.2. … Aesopum et Cimbrum subornari 3.9.3. La forza dell’abitudine Note 4. Memoria Terminorum Le immagini della seconda pratica 4.1. Introduzione 4.2. Le ipotesi relative al funzionamento della seconda pratica 4.2.1. Felice Tocco 4.2.2. Frances Amelia Yates 4.2.3. Rita Sturlese 4.2.4. Ubaldo Nicola 4.2.5. Manuela Maddamma 4.3. Secunda praxis: una alternativa possibile 4.4. Ri-allestimento del sistema 4.4.1. La prima praxis come punto di partenza 4.4.2. I vexilla e la dislocazione degli attori 4.4.3. Le ruote della secunda praxis 4.5. Strutturazione della memoria verborum 4.5.1. Premessa
4.5.2. Le immagini degli agentes-inventores e le loro actiones 4.5.3. Gli insigna 4.5.4. Gli adstantes 4.5.5. Le circumstantia 4.5.6. Possibilità alternative 4.6. Funzionamento del sistema combinatorio 4.6.1. Memorizzazione “verticale” 4.6.2. Garanzie per la codifica e la de-codifica 4.6.3. Sillabe bielementali aperte 4.6.4. Sillabe bielementali chiuse 4.6.5. Determinazioni accessorie 4.6.6. Un problema pratico 4.7. La secunda praxis e la memoria rerum Note 5. Conclusioni 5.1. Vantaggi e limiti delle pratiche bruniane 5.2. Bruno e le mnemotecniche moderne 5.2.1. Dall’arte alla tecnica 5.2.2. Trasformazioni e scambi di ruolo 5.2.3. La parte per il tutto 5.2.4. Il bagaglio culturale dell’apprendista 5.2.5. Loci “atomi” 5.2.6. Esigenza sistematica e libertà Note LA TRADUZIONE DELLA ARS MEMORIAE DEL DE UMBRIS IDEARUM Arte della memoria di Giordano Bruno Parte Prima Parte Seconda I subiecta Gli adiecta Lo strumento Parte Terza Prima pratica che riguarda la memoria dei suoni Stabilità delle ruote il movimento delle ruote Seconda pratica che riguarda i termini semplici per mostare un qualsiasi raggruppamento di diverse sillabe di parole Adiecta relazionabili al collo
Oggetti adattabili ai piedi Descrizione delle Figure dei Segni Zodiacali, tratte da Teucro Babilonese, che possono essere facilmente utilizzabili per la presente arte Ariete Toro Gemelli Cancro Leone Vergine Bilancia Scorpione Sagittario Capricorno Acquario Pesci immagini dei pianeti, tratte dai filosofi egiziani e persiani, utilizzabili sia per i luoghi che per i subiecta Sette immagini di Saturno Sette immagini di Giove Sette immagini di Marte Sette immagini del Sole Sette immagini di Venere Sette immagini di Mercurio Sette immagini della Luna Immagine del Drago della Luna Ventotto immagini delle posizioni della Luna tratte ad uso di questa arte Grande utilità delle immagini precedenti per la memoria delle cose Riguardo alle sillabe in cui la vocale precede la consonante Riguardo alle lettere liquide e alle terminali poste tra le sillabe o al termine delle stesse Le due grandi invenzioni di questa arte, ed elogio della stessa La pratica delle cose rappresentabili con termini incomplessi La pratica delle cose rappresentabili con termini complessi Note Bibliografia ragionata Artes memoriae o testi con riferimento all’ars memoriae Testi di Giordano Bruno
Altri testi Saggistica sulle artes memoriae Saggistica su Giordano Bruno Altra saggistica Mnemotecniche moderne Figure
RINGRAZIAMENTI
Un vivo ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile questo lavoro: in primis a Paolo Bagni che, oltre ad esserne il relatore, ne è stato anche il primo convinto sostenitore; al correlatore Walter Tega; a Carlo de Pirro, per gli illuminanti squarci di pensiero; ad Andrea Vivarelli, per le sue prospettive controcorrente; allo staff della Policonsult di Bologna, in particolare ad Alberto Fasullo, per la loro passione nei confronti delle mnemotecniche moderne. Grazie soprattutto a Giorgio Bassi e a tutto il personale della Biblioteca Comunale di Faenza, per il preziosissimo aiuto nelle ricerche bibliografiche e nella inesauribile e costante disponibilità dimostratami; grazie anche a Giuseppe Fagnocchi per tutti i libri che mi ha prestato e per tutti quelli che non gli ho ancora restituito. Grazie infine ai miei genitori Agnese e Giovanni per il supporto continuo, a mia moglie Giulietta per l’infinita pazienza e a mio figlio Federico che, durante la lunga gestazione di questa tesi di laurea, ha avuto tutto il tempo di nascere, imparare a camminare e di cominciare a dare il proprio personale, prezioso contributo alla redazione del testo, nei momenti in cui capitava nel mio studio e trovava il computer lasciato imprudentemente acceso. Fabio Ferrucci
PRESENTAZIONE di Guido del Giudice*
È l’alba. Una carrozza con le insegne papali attende sul sagrato della Chiesa di S. Domenico Maggiore a Napoli. Un frate, piccolo ma solenne nella candida tonaca dell’ordine domenicano, esce dal cancello laterale del convento e vi sale, abbandonandosi ancora assonnato sul sedile di velluto. Quel frate è Giordano Bruno da Nola. Papa Pio V, cui è giunta voce della straordinaria abilità del giovane rappresentante della grande tradizione domenicana nella memoria artificiale, vuole vederlo all’opera. A Roma Bruno reciterà a memoria, in ebraico, il salmo Fundamenta, dalla prima parola all’ultima e viceversa. Sarà la prima di numerose esibizioni che nel corso della sua vita concederà a papi, imperatori, autorità accademiche ed ecclesiastiche, con l’orgoglio irridente del genio incompreso. Ma la Chiesa non tarderà a scoprire che la prodigiosa memoria di quell’uomo è solo la manifestazione esteriore di una straordinaria capacità di intuizione, di una inarrestabile brama di sapere e comunicare, e dovrà fare i conti con il suo pensiero corrosivo e ribelle fino alla spavalderia. Bruno è un grande sensitivo: immerso nell’Universo, è convinto di poter abbattere la divisione tra umano e divino. L’Ars memoriae rappresenta per lui un mezzo per andare oltre l’umanità, alla ricerca del vero e dell’inesprimibile, per stabilire vincoli, per arrivare alle intuizioni universali partendo dalla natura delle cose. Quelle immagini che ognuno di noi può formarsi autonomamente, una volta vivificate dalle emozioni, ci connettono automaticamente con la sfera delle idee di cui siamo ombra, umbra profunda, ma a cui fatalmente, come una fiamma, tendiamo e da cui dipendiamo in un ciclico alternarsi di ascenso e descenso, dove gli spiriti pervengono alla contemplazione del divino principio e le anime si incarnano, mutando e assumendo il controllo della materia e delle forme. Astri, numeri, figure, rinviano tutti alle forze elementari della natura, operanti in una materia che ha la stessa dignità dello spirito. Bruno avverte tutto ciò e cerca di esprimerlo utilizzando con disinvoltura tutte le arti, gli strumenti che il suo tempo riesce ad offrirgli: la magia naturale, l’astrologia, la matematica e, appunto, l’arte della memoria. Egli non si
accontenta però degli artifici lulliani o degli altri mnemonisti precedenti, ma elabora, sperimenta, trasforma. L’uso delle immagini assume per lui un significato che va al di là della semplice correlazione mnemonica e, a partire dalle cosiddette “opere mnemotecniche”, esso si evolverà e accompagnerà tutto il suo pensiero successivo. Dalle allegorie dello Spaccio agli emblemi dei Furori, fino ai concetti-statue della impressionante Lampas triginta statuarum, l’associazione parola-immagine si trasforma da semplice tecnica di memoria a meccanismo di pensiero, che consente di elaborare e confrontare i concetti per giungere a nuove verità. Lo capirà, purtroppo, anche Giovanni Mocenigo, il patrizio veneziano che lo attirerà nella trappola mortale, consegnandolo all’Inquisizione. Con il pretesto di voler imparare l’ars memoriae, egli mirava in realtà ad impadronirsi, pervertendone scopi e significati, dei segreti del vincolo e della magia naturale.
Gianni Golfera è salito in carrozza, idealmente, quella mattina e ha preso posto di fronte a Giordano. In quel viaggio da Napoli a Roma ha appreso dal Maestro i segreti della memoria. Oggi, a più di quattro secoli di distanza, grazie a questa opera realizzata da Fabio Ferrucci, concede, come Bruno, saggi delle sue doti non comuni, destando, come allora, ammirazione e sconcerto e diffonde, attualizzandola, la tecnica della memoria per immagini. Una volta associata alla lettera, al numero, alla parola, l’immagine acquista una forza sua propria, talismanica: da semplice artificio mnemonico si carica di contenuti emozionali. È questa la grande intuizione che Gianni Golfera deve a Bruno e in questo libro ci spiega come la lettura del De umbris idearum gli abbia fornito gli elementi fondamentali per l’elaborazione di un personale metodo di memoria (battezzato Gigotec dalle sue iniziali), che egli diffonde quotidianamente, attraverso corsi di insegnamento e dalle pagine del sito www.gigotec.com. Forte della padronanza tecnica della materia, egli ci propone una rivisitazione dinamica del De umbris, in cui coniuga la divorante curiosità dello sperimentatore all’ammirazione devota per il Maestro. Si tratta di un esempio eclatante di rivitalizzazione di un testo attraverso la sua applicazione pratica. L’effetto che ne sortisce è quello di una illuminazione dei passi più esoterici e apparentemente incomprensibili del testo bruniano e la suggestione dei vasti orizzonti applicativi dei suoi insegnamenti. Il libro, partendo dall’analisi delle fonti, ripercorre il cammino compiuto dal Nolano e chiarisce le tecniche da lui
utilizzate e sviluppate, dimostrando come l’arte della memoria non sia uno strumento obsoleto, ma un sistema ancora attuale e fecondo di applicazioni, cui le sorprendenti capacità di Golfera, restituiscono quell’utilità pratica che il tempo gli aveva sottratto. Il suo commento presenta un fascino particolare proprio perchè si avverte l’entusiasmo di chi quello strumento lo utilizza quotidianamente e vuole saggiarne e svilupparne le potenzialità. Al giorno d’oggi, mezzi come il computer sembrerebbero rendere superflua questa tecnica, se essa non celasse qualcosa di ben più importante e sostanziale. Si scopre il velo di un’arte che va molto al di là della semplice abilità mnemonica, arrivando a stabilire contatti e vincoli con la natura e con l’assoluto. In appendice al libro viene proposta la traduzione dell’Ars memoriae (che costituisce la seconda parte, quella “pratica”, del De umbris), realizzata da Fabio Ferrucci, in sintonia con le intuizioni di Golfera e colpevolmente rimasta nel cassetto fino ad oggi. Quando Gianni me la sottopose, cinque anni fa, mi si rivelò subito superiore alle altre allora disponibili, che risultavano, in molti punti, del tutto incomprensibili e oscure, perchè non ne era stata capita l’applicazione pratica. Siamo certamente disposti a sorvolare benevolmente su qualche audacia interpretativa, in cambio della soddisfazione di poter eseguire operativamente le istruzioni che Bruno impartì ad Enrico III di Valois, cui il testo era dedicato. Soltanto recentemente Nicoletta Tirinnanzi ha realizzato per l’edizione delle Opere mnemotecniche, diretta da Michele Ciliberto, una nuova traduzione, in cui al rigore filologico si accompagna quella comprensione dell’utilizzo pratico dell’arte, che le era mancata in ampi tratti di un suo precedente tentativo. Il libro a cura di Golfera costituisce pertanto un prezioso strumento introduttivo, indispensabile a chi voglia davvero imparare ad utilizzare il suo metodo con la piena conoscenza delle basi teoriche e storiche e, soprattutto, la consapevolezza di quanto, anche in questo campo, si debba al genio straordinario di Giordano Bruno. Al di là delle eccezionali capacità mnemoniche di cui fa sfoggio e che deve a doti innate, coltivate e perfezionate fin dall’infanzia con continuità e tenacia, Gianni Golfera si rivela, dunque, un interprete bruniano valoroso e appassionato, che ci restituisce, illuminandone la praxis, il senso vero della straordinaria eredità del Nolano. * Curatore del sito internet www.giordanobruno.info, ha dedicato a Giordano Bruno due suggestivi saggi: WWW.Giordano Bruno (2001) e il recente La coincidenza degli opposti (2005).
PREFAZIONE
Dopo aver passato sedici anni della mia vita a ricercare, studiare, sperimentare ed insegnare i misteri della memoria sono riuscito a portare il mio nome nelle televisioni e nei giornali di tutto il mondo. Tutto questo nulla ha a che vedere con la vanità dell’affermazione ne tanto meno con il desiderio di conquista. Tutto ciò che ho fatto è stato animato dal desiderio di migliorare la qualità di vita delle persone che frequentano i miei corsi e di aiutare il progresso scientifico attraverso i miei esperimenti e le mie dimostrazioni. Molte volte mi è stato chiesto quale fosse l’origine delle mie capacità e come sono cominciate le mie ricerche… Voi, in questo momento, e per la prima volta, avete tra le mani questa risposta, la risposta è in queste pagine. In effetti le mie ricerche affondano le radici nell’antica “Scienza della Memoria” espressa da Giordano Bruno e riportata in queste pagine. Se credessi di potervela insegnare unicamente con questo libro sarei presuntuoso ma sarei ingenuo a credere che nessun beneficio possa derivare dalla sua lettura. Avere una buona memoria serve a garantire una qualità di vita superiore. Avanzamenti di carriera, successo negli studi e stima professionale sono solo la minima parte di quello che si può ottenere migliorando la propria memoria. In tutti questi anni ho insegnato come potenziare la memoria a Deputati della Camera, dirigenti di Poste Italiane, manager, imprenditori, studenti, vip, bambini, traumatizzati cranici, persone disabili e persone con disturbi nell’apprendimento. Queste esperienze mi hanno insegnato moltissimo, ho capito che tutto ciò che desideriamo dalle nostre facoltà mentali, noi possiamo raggiungerlo! L’intelligenza è poca cosa se paragonata alla volontà e dopo aver visto che tutti ma proprio tutti, se solo lo vogliono possono raggiungere con il mio sistema dei risultati superiori ad ogni aspettativa, sono giunto alla conclusione che anche tu, tu che leggi, meriti una qualità di vita superiore ed io ti accompagnerò alla sua ricerca attraverso la migliore risorsa che l’universo abbia mai generato: la tua memoria e la tua intelligenza. Queste due realtà inscindibili possono portarti a dei risultati così eccellenti da superare ogni mio tentativo di descrizione.
Tutto quello che ti serve è un po’ di fiducia in te, un minimo di volontà ed il desiderio di migliorare, a tutto il resto provvederanno i miei insegnamenti per migliorare la memoria attraverso una miglior attività cerebrale e neurologica; in altre parole imparerai ad usare in modo ottimale le tue capacità e ti sorprenderai quando ti renderai conto che gli unici confini che abbiamo sono le nostre insicurezze. Non mi resta che augurarti una buona lettura ed una vita piena di successo e di ricordi meravigliosi. Ringrazio moltissimo Fabio Ferrucci per aver contribuito alla realizzazione della presente opera. Fraternamente Gianni Golfera
INTRODUZIONE
Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dall’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò il remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebraco. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: «Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo». J.L. Borges, Funes o della memoria in Tutte le opere, cit.
OBIETTIVI E LIMITI DELLA RICERCA Il De umbris idearum di Giordano Bruno, pubblicato a Parigi nel 1582 presso la stamperia di Gilles Gourbin, si inserisce nella vasta schiera di trattati, scritti, sistemi, metodi o semplici stratagemmi che vanno sotto il nome comune di «arti della memoria» o, come diciamo noi più modernamente, «mnemotecniche», anche se quest’ultimo termine da un lato porta in sé qualcosa di riduttivo rispetto all’idea di ars che tali pratiche hanno avuto nel passato, dall’altro sta più ad indicare dei “trucchi” usati sporadicamente rispetto a quello che è un vero e proprio modus cogitandi completamente diverso dal nostro, a tutti i livelli, per mezzo del quale può operare una mente educata alla ars memoriae. Se l’arte della memoria è qualcosa di estremamente lontano dal nostro modo di pensare, nel passato, senza la stampa, con poche possibilità di disporre di carta per prendere appunti, battere a macchina una conferenza o curare la stesura di un’orazione, una memoria educata era di vitale importanza per certe “figure professionali” quali oratori, uomini politici, giuristi, predicatori, letterati, studiosi e docenti. Oggi, al contrario, ci troviamo quotidianamente bombardati da un’enorme quantità di dati e informazioni, e però dobbiamo preoccuparci ben poco ai fini di una loro memorizzazione, poiché si tratta di informazioni che saranno sempre e comunque recuperabili su un libro, in un archivio, in una biblioteca, all’interno di un cd rom o di una banca dati magari consultabile via internet senza neppure uscire di casa. Parallelamente a questo fenomeno di aumento della quantità di informazioni e del suo “stoccaggio” stabile su supporti più o meno permanenti, abbiamo avuto, nel nostro secolo, un mutamento radicale dell’approccio didattico scolastico che, all’apprendimento di dati in maniera mnemonica, ha contrapposto la comprensione “personale” dei concetti: ad uno scolaro oggi viene richiesto di capire, piuttosto che di ricordare letteralmente; è più importante, ad esempio, comprendere le cause che hanno portato alla fine dell’Impero Romano piuttosto che memorizzare nomi e date di tutti gli ultimi imperatori. “Ricordare a memoria non mi serve a nulla, giacché posso trovare tutte le informazioni di cui ho bisogno su una enciclopedia”: così diceva Albert Einstein. In questo modo l’apprendimento mnemonico ha assunto a poco a poco una connotazione negativa, di
ripetizione pedissequa a “pappagallo”, in contrapposizione alla rielaborazione personale e ad una comprensione concettuale più profonda. L’ars memoriae, dal canto suo, si è trasformata in una tecnica, in mnemotecnica appunto, senza più la pretesa di essere un modo di dare senso alla realtà ed interpretare il mondo, bensì ridotta a dei pratici metodi e presentata ai corsi di formazione dei manager d’azienda in abbinamento alle tecniche di lettura veloce, oppure vistosamente pubblicizzata agli studenti universitari come mezzo per sveltire e rendere più efficiente la preparazione degli esami. Allo stesso tempo gli “artisti della memoria” sono divenuti fenomeni da baraccone o dei campioni di quiz televisivi, nel caso in cui – ed è la migliore delle ipotesi – le loro facoltà derivino da arte ed esercizio, oppure sono stati considerati dei veri e propri “casi clinici”, studiati da neuropsicologi e psichiatri quando invece mostrano di essere in grado di ricordare molto, moltissimo, o addirittura tutto, come il Funes borgesiano, senza dover ricorrere esplicitamente ad un qualche tipo di tecnica. La situazione, alla fine del ’500, è completamente diversa e tanto il dedicatario Enrico III di Valois, quanto qualsiasi altro lettore del De umbris sono perfettamente in grado di apprezzare il testo bruniano per quello che è, ovvero un trattato di memoria, e come tale possono collocarlo nell’ambito delle arte memoriae che, dalla pseudociceroniana Ad Herennium, al De oratore, all’Institutio oratoria di Quintiliano, passando per tutta la serie dei trattati medioevali, giungevano fino all’Oratoria artis epitoma di Pubblicio, alla Phoenix sive artificiosa memoria di Pietro da Ravenna, ai trattati di Romberch e Rosselli, al Teatro di Giulio Camillo e a quanti ad essi si rifacevano. Così, fin dalla sua pubblicazione, il De umbris è accolto in maniera entusiasta, conosce una vasta circolazione ed una notevole risonanza: ne sono testimoni le più di cento copie giunte fino a noi, molte delle quali recano la firma di letterati e studiosi di primo piano tra la fine del ’500 e l’inizio del ’600; tra questi, Alexander Dicson ne appronta in breve tempo un compendio dal titolo De umbra rationis (l’edizione è del 1584) e Daniel Sennert lo utilizza assieme ad un altro testo bruniano, il De imaginum composizione, per realizzare, nel 1599, il suo Templum Mnemosynes. Tale fortuna durerà per circa un secolo, fino a quando, verso la fine del ’600, l’ars memoriae non sarà più la chiave di lettura privilegiata dell’opera bruniana, giacchè la maggioranza degli studiosi preferirà mettere l’accento o sulla critica alle religioni rivelate, come si ritrova nello Spaccio, o sulla visione dell’universo infinito, dei mondi innumerevoli, o ancora sulle teorie eliocentriche. Si dovrà
attendere l’inizio del IXX secolo per avere una riscoperta del De umbris, grazie soprattutto agli scritti del kantiano Buhle e alle Lezioni di storia della filosofia di Hegel; nel 1835 uscirà a Stoccarda la prima edizione “moderna”, ad opera di August Friedrich Gfrörer, nel 1868 quella del Tugini, fino a giungere alla pubblicazione tra il 1879 ed il 1891, dell’edizione nazionale degli scritti latini di Bruno, curati in un primo tempo da Imbriani e Tallarigo, successivamente da Tocco e Vitelli. Per la lectio storico-critica del De umbris si dovrà invece attendere il 1991 ed il corposo lavoro di collazione degli esemplari della editio princeps svolto da Rita Sturlese. Il presente lavoro intende cercare di dimostrare come le immagini di memoria impiegate nel De umbris per la memoria verborum vengano utilizzate in maniera altamente innovativa rispetto a quelle dei trattati di memoria precedenti e come tale novità non sia assolutamente fine a sé stessa, bensì tragga origine dai diversi presupposti di ordine grammaticale, combinatorio e strutturale da cui muove Bruno per architettare le proprie pratiche di memoria. Allo scopo, seguiremo gli sviluppi della memoria verborum dalle origini fino ai trattati precedenti il De umbris, mostrando punti di contatto e differenze tra i precetti del nolano e le altre artes, con particolare attenzione all’ars proposta da Pietro da Ravenna nella sua Phoenix; si tratta di un parallelo significativo per almeno due ragioni: innanzitutto perché, al momento della pubblicazione del De umbris, la Phoenix del ravennate è ancora sicuramente il trattato di memoria più diffuso; in secondo luogo perché Bruno stesso considerava l’artificiosa memoria di Pietro come la più utile ed interessante che mai gli fosse capitato di leggere. Vedremo inoltre come la prassi di memoria verborum del De umbris, dal punto di vista delle tecniche utilizzate, consista in gran parte di rimaneggiamenti e adattamenti di principi, regole e precetti preesistenti che vengono ora integrati in base ad un uso che in molti casi è completamente diverso da quelle che erano le intenzioni originali dei loro inventori. Prenderemo in esame infine quali siano i rapporti tra i princìpi del De umbris e le mnemotecniche moderne, le quali, nonostante affermino di basarsi completamente sull’ars classica e sui principi esposti da Leibniz un secolo dopo Bruno, sono anche debitrici in larga misura di idee trattate in maniera più o meno esplicita nel testo bruniano. In Appendice viene riportata la traduzione da noi realizzata della Ars Memoriae, quando ancora non era disponibile il testo di Manuela Maddamma.
Chiude il lavoro una bibliografia ragionata su Bruno, le artes memoriae e sulla saggistica relativa a questi argomenti. Fabio Ferrucci
1. LE IMMAGINI DI MEMORIA PRIMA DI
BRUNO
1.1. SIMONIDE DI CEO Nonostante Mnemosine sia la madre delle Muse, l’arte della memoria possiede, a differenza delle altre arti, una data di nascita relativamente precisa. È Cicerone, nel De oratore, a descrivercene l’origine in questi termini: «Si racconta che una volta Simonide stava cenando a Crannone, in Tessaglia, a casa di Scopa, uomo ricco e nobile. Egli aveva cantato un’ode che aveva composto in suo onore, in cui aveva inserito molti riferimenti a Castore e Polluce, allo scopo di abbellirla come fanno i poeti. Scopa, allora, con eccessivo e gretto risentimento, gli disse che per quel componimento l’avrebbe ricompensato con metà della somma pattuita: il resto poteva chiederlo, se lo credeva opportuno, ai suoi Tindaridi, che aveva lodato quanto lui. Poco dopo, Simonide fu chiamato fuori: due giovani erano alla porta e lo chiamavano con grande insistenza. Egli si alzò, uscì, ma non vide nessuno. Nel frattempo, la sala in cui Scopa banchettava crollò, ed egli stesso morì con i suoi parenti sotto le macerie. Quando i congiunti vollero seppellirli, non li poterono riconoscere in alcun modo, così maciullati; Simonide allora li identificò uno per uno per la sepoltura perché ricordava la posizione che ognuno di loro occupava durante il banchetto. Stimolato da questo episodio, egli capì che l’ordine era l’elemento fondamentale per illuminare la memoria. Pertanto coloro che esercitano questa capacità della mente devono fissare dei luoghi immaginari, raffigurarsi con il pensiero ciò che vogliono ricordare e collocarlo in questi luoghi: così l’ordine dei luoghi conserverà l’ordine delle cose e l’immagine delle cose indicherà le cose stesse; i luoghi saranno per noi come le tavolette di cera, e le immagini come le lettere».* Il Simonide di cui parla Cicerone nel racconto, non è affatto un personaggio fantastico, ma è Simonide di Ceo, poeta lirico ed elegiaco greco
fra i più ammirati, tanto da essere chiamato “lingua di miele” (da cui l’appellativo Melicus) e vissuto tra il 556 ed il 464 circa a.C.; prima del 514, anno del suo trasferimento in Tessaglia, era stato ospite di Pisistratide Ipparco ad Atene, e dopo essere miracolosamente scampato al crollo della casa di Scopa si recò nuovamente ad Atene nel 490 dove acquistò grande fama, componendo un epitaffio per i caduti di Maratona che fu preferito a quello di Eschilo, oltre al celebre epitaffio per i caduti delle Termopili; ospite dal 476 di Gerone di Siracusa, andò infine ad Agrigento, dove morì. Non discuteremo qui se la scoperta dell’ars memoriae debba essere attribuita o meno a Simonide di Ceo, anche se numerose fonti antiche, tra cui l’iscrizione marmorea nota come Cronaca di Paro e datata 264 a.C., citano il poeta come inventore del sistema dei sussidi mnemonici: ciò che realmente conta è il fatto che almeno a partire dal V secolo a.C. in Grecia si pratica un’arte di memoria fondata su tre principi fondamentali, principi che saranno la base di tutti i sistemi di memoria – De umbris compreso – successivamente escogitati per più di venti secoli e che possono essere evinti dal racconto ciceroniano: – PRIMATO DELLA VISTA SUGLI ALTRI SENSI: ben difficilmente potremo ricordare nomi, numeri, parole, dati se non ci creiamo, più o meno esplicitamente, una qualche rappresentazione di tipo visivo di essi; non basta cioè aver compreso ed essersi formati un concetto: è necessario vedere le cose da memorizzare o , nel caso in cui si debba ricordare qualcosa di astratto, formarsi un’immagine che sia in grado di richiamarci alla mente la cosa stessa. Simonide ricostruisce l’ordine perché vede nella propria immaginazione la disposizione delle persone; egli inoltre, pur essendo un poeta, eccelleva nell’uso di belle immagini e sosteneva, come ci riporta Plutarco che i metodi della poesia fossero gli stessi della pittura, essendo “la pittura una poesia silenziosa e la poesia una pittura parlante, giacché le azioni che i pittori dipingono nell’atto del loro compiersi, le parole le descrivono dopo che esse sono compiute”1. Un secolo e mezzo dopo Simonide, Aristotele affermerà nel De anima che la nostra psiche non è in grado di pensare neppure speculativamente, senza l’utilizzo di una qualche immagine, essendo la facoltà immaginativa il tramite fra la percezione, operata dai cinque sensi, ed il pensiero. Tutte le artes memoriae che verranno in seguito saranno in primis dei sistemi di regole per poter formare delle immagini efficaci delle cose o delle parole da ricordare. – ORDINE DEI LUOGHI: a nulla servirebbe avere delle seppur splendide immagini,
se queste venissero abbandonate a sé stesse nei remoti meandri della nostra mente, senza poter disporre di un metodo che ci consentisse un loro recupero ordinato. Poniamo, ad esempio, di aver memorizzato un’immagine per ciascuna delle cose che dobbiamo comprare al supermercato: chi mi assicura che, al momento di fare la spesa, sarò in grado di ricordarle tutte? Oppure prendiamo un esempio più “classico” e immaginiamo di essere un oratore che, di fronte al proprio pubblico, non ha problemi a ricordare tutto quello che deve dire, ma disgraziatamente “monta” le varie parti del discorso secondo una successione diversa da quella stabilita in precedenza, commuovendo il pubblico quando non è necessario, invertendo l’ordine delle argomentazioni, o ricordandosi di piazzare l’esordio solamente quando ormai si trova a metà dell’orazione stessa: non basta dunque essere in grado di memorizzare sic simpliciter, giacché è necessario anche sapere come recuperare le immagini e in quale ordine montarle. A tale scopo serve dunque una struttura ordinata, da noi perfettamente conosciuta, che possa funzionare da sistema di loci nel quale andremo a collocare, appunto, le nostre immagini di memoria. Come Simonide ricordava le persone in base al loro posto a tavola, così le artes successive mostreranno come crearsi sequenze ordinate di loci in edifici, in casa propria, in chiese e palazzi, nei gironi dell’Inferno, in monasteri o per la strada, dando regole precise riguardo alla loro dislocazione, dimensione, luminosità e varie altre caratteristiche. E non importa, si badi bene, che tali luoghi siano realmente esistenti o creazioni fittizie della nostra immaginazione, l’importante è vederli come se fossero reali, giacché, a lungo andare “ci farai l’abitudine che non ti sembreranno affatto diversi da quelli più veri”2. – COINVOLGIMENTO EMOTIVO: ripensiamo per un istante al banchetto di Scopa e allo stato d’animo in cui si deve essere trovato il nostro Simonide al momento della drammatica ricostruzione della posizione dei commensali: il ricordo del boato del soffitto che crolla, la consapevolezza di avere salvato la pelle per un soffio, le immagini dei volti e dei corpi dei banchettanti orrendamente sfigurati. Siamo sicuri che, in circostanze “normali”, con un pranzo tranquillo, in cui tutto si fosse svolto in maniera assolutamente regolare e monotona, senza alcun avvenimento particolarmente degno di nota, Simonide avrebbe potuto ricostruire la collocazione di tutti i presenti con altrettanta sicurezza? Probabilmente no, ed ecco perché le immagini di memoria non dovranno essere normali, scialbe, anonime, dozzinali e stereotipate, bensì particolari, stimolanti, sconvolgenti, attraenti, orride,
rivoltanti o stupefacenti, giacché si ricorda meglio ciò che colpisce – sia positivamente che negativamente – la nostra affettività. Per questo ci sono cose, nomi, persone, avvenimenti che rimangono indelebilmente impressi nella nostra mente non tanto per la loro importanza, quanto perché noi siamo rimasti colpiti dallo loro “curiosità”, dalla loro particolarità. Primato della vista, ordine dei loci e coinvolgimento emotivo verranno successivamente adattati ed interpretati alle più svariate esigenze per le quali l’ars memoriae verrà via via utilizzata nei secoli successivi, ma nessun trattatista li ignorerà, né verrà mai dimenticato il tragico banchetto dalle cui macerie sorse una pratica destinata a condizionare in larga misura la storia del pensiero occidentale, sia di quello dell’età classica, sia successivamente, di quello medioevale e rinascimentale.
1.2. L’ARS MEMORIAE CLASSICA 1.2.1. L’ORATORE E LA MEMORIA I principi mnemonici “scoperti” da Simonide furono sicuramente sviluppati e organizzati sistematicamente in trattati greci di cui, però, oggi non è rimasta traccia. Per nostra fortuna l’ars memoriae, al pari di tante altre conoscenze e discipline, venne “importata” dai Romani nel corso del loro processo di assimilazione della cultura greca, ed infatti le prime tre fonti per l’arte della memoria giunte fino a noi sono tutte latine: – la Retorica Ad Herennium, composta verso l’85 a.C da un ignoto, anche se per lungo tempo la paternità dell’opera fu erroneamente attribuita a Cicerone; – il De oratore di Cicerone, del 55 a.C.; – l’Institutio oratoria di Quintiliano del 95 a.C.. Ciò che balza immediatamente all’occhio è l’appartenenza di tutte le tre opere alla letteratura retorica, e questo perché la memoria veniva considerata come una delle cinque parti di cui constava la retorica stessa, secondo il seguente schema:
– inventio: trovare cosa dire; – dispositio:mettere in ordine ciò che si è trovato; – elocutio: adattare le parole più adeguate ed aggiungere l’ornamento delle figure; – memoria:ricordare saldamente cosa dire e quando dirlo; – pronunciatio:recitare il discorso; controllare la dizione e la gestualità. Un buon oratore, infatti, doveva essere in grado di scoprire le cose migliori di cui trattare, in relazione all’argomento assegnatogli, disponendole in una successione coerente e funzionale al discorso stesso, utilizzando le parole, le figure ornamentali, il registro e la gestualità più adatti alla circostanza, e riuscire infine a ricordare tutto questo, montandolo nella sequenza corretta, nel preciso istante in cui si veniva a trovare a faccia a faccia con il proprio uditorio, dal momento che non era certo possibile, a quel tempo, tenersi dei foglietti di appunti in mano, né, del resto, sarebbe stato tollerabile per il pubblico, contrariamente a quanto avviene in continuazione oggigiorno, assistere alla lettura di un discorso scritto. Come per noi il valore di un pianista solista verrebbe immediatamente sminuito nell’eventualità in cui egli si proponesse in pubblico suonando con lo spartito di fronte a sé – e ciò accade da quando, verso la metà del secolo scorso, la pianista Clara Wieck, moglie di Robert Schumann, ha introdotto l’usanza del recital solistico eseguito interamente a memoria – allo stesso modo la professione dell’oratore implicava solo performance “a memoria”; oltre a ciò, una buona capacità di ritenzione forniva, all’oratore che la possedesse, tutta una serie di abilità accessorie, come ci racconta Cicerone stesso: “Ma è forse il caso che io vi spieghi quale sia il vantaggio, quanta l’utilità e l’importanza della memoria per l’oratore? Quanto valga il ricordare ciò che si è appreso al momento di assumere la causa, le riflessioni che si sono fatte successivamente al riguardo? L’avere ben impressi nella mente tutti i pensieri? Tutto ben disposto il materiale del discorso? L’ascoltare il proprio cliente e l’avversario con l’atteggiamento non di chi ascolta un discorso con le orecchie, ma se lo imprime nella mente? Perciò solo quelli che hanno buona memoria sanno che cosa dire, entro quali limiti e in che modo; sanno che cosa hanno già confutato e ciò che resta da confutare. E inoltre ricordano molto di ciò che hanno fatto in cause precedenti e molto di ciò che hanno sentito da altri”3. Dunque, come ai giorni nostri la carriera di molti valenti pianisti è stata irrimediabilmente compromessa dalla loro pessima memoria, così, nel I
secolo a.C. doveva esserci più di un “collega” di Cicerone che si vedeva privato dei favori del pubblico – e quindi di una potenziale clientela – per aver trascurato di approfondire e curare, a tempo debito, l’ars memoriae al pari delle altre quattro sezioni della retorica. Prosegue Cicerone: “Ammetto certo che la natura è la fonte principale di questa dote […] tuttavia quasi nessuno ha una memoria tanto salda da ricordare l’ordine di tutte le parole o di tutti i nomi o di tutti i pensieri se non ha disposto e registrato ogni cosa; né, d’altra parte, vi è alcuno di memoria così labile da non ricevere alcun giovamento da questo esercizio”4. E, similmente, la Ad Herennium : “Due sono le memorie: una naturale, l’altra artificiale. Naturale è quella che è insita nella nostra mente ed è nata assieme al nostro pensiero; artificiale è quella che trae la propria forza dal metodo e dallo studio. Ma come in altri campi l’arte contribuisce a fortificare ed aumentare i doni della natura, anche se la bontà dell’ingegno può sovente supplire alla dottrina, così accade qui: che talvolta la memoria naturale, se qualcuno se la ritrova eccellente, è pari a quella artificiale, ma quest’ultima conserva ed accresce con l’educazione le qualità innate”5. L’ars memoriae si presenta dunque all’oratore come una tecnica volta al miglioramento della memoria naturale: più una persona è dotata di una buona memoria, più trarrà giovamento dall’ars, ma anche chi non è un mnemonista nato potrà compiere vistosi ed insperati progressi grazie all’applicazione e all’esercizio costanti. Vediamo ora in dettaglio in cosa consista questa exercitatio e come, nei tre trattati presi in esame, i principi di Simonide vengano adeguati alle nuove esigenze retoriche.
1.2.2. I LOCI “Constat igitur artificiosa memoria ex locis et imaginibus”.6 Questo è l’esordio della sezione sulla memoria della Ad Herennium, a testimonianza immediata del fatto che la scoperta episodica di Simonide si trova ad essere qui applicata in maniera generalizzata e sistematica. Come Simonide ricordava in base all’ordine dei posti a tavola, ora il discepolo è invitato ad allestire un sistema altamente organizzato di loci in cui poter collocare in seguito tutte le cose da ricordare: naturalmente, più cose vorrà affidare alla memoria, più alto sarà il numero di loci di cui dovrà disporre. Come devono essere realizzati questi loci ? La Ad Herennium ci dà le seguenti prescrizioni, dalle quali gli altri due trattati si discostano poco:
– un locus è un posto facilmente afferrato dalla memoria e dalla vista: una porta, un intercolumnio, una finestra, un angolo, un arco, ecc. Mentre la Ad Herennium e Cicerone non si dilungano in esempi, Quintiliano è fin da subito preoccupato dell’aspetto organizzativo della struttura dei luoghi e ci dice che un buon sistema di loci può essere un grande palazzo diviso in molte stanze, oppure un edificio pubblico, una lunga strada, il perimetro della città, una serie di quadri, e così via; – la successione dei loci deve essere ordinata: “Se vedessimo davanti a noi molte persone che conosciamo sarebbe per noi uguale dire i loro nomi cominciando dalla prima, dall’ultima o da quella del mezzo”;7 così se i loci sono stati ben ordinati, magari in base ad un percorso univoco all’interno di un edificio, o lungo una strada, non avremo problemi ad andare dal primo all’ultimo, o dall’ultimo al primo, o a cominciare da uno qualsiasi, procedendo in avanti o all’indietro; Quintiliano, nell’esempio del palazzo, suggerisce di partire dal vestibolo, passare all’atrio, facendo il giro dell’impluvium per proseguire poi ordinatamente con le altre stanze, camere da letto e sale, magari utilizzando anche statue ed altri oggetti simili; – è bene non usare troppi luoghi tra loro molto somiglianti, come una lunga serie di intercolumni, giacché ciò può ingenerare confusione; i loci devono essere di media grandezza (in quelli grandi le immagini si perdono, mentre quelli piccoli a volte non riescono a contenerle), non troppo chiari o troppo scuri (in modo che le immagini non si perdano nelle tenebre né feriscano lo sguardo), ad una distanza media l’uno dall’altro, di circa tre piedi, poiché una distanza maggiore rischia di far perdere il collegamento visivo e mentale tra essi, mentre una distanza inferiore rischia di far sovrapporre le immagini dei loci adiacenti; – vanno collocati in una zona poco frequentata, giacché la folla ed il passaggio di troppa gente può confondere ed indebolire le immagini in essi collocate; – nel caso i luoghi reali non soddisfino, se ne possono creare di fittizi, i quali si comporteranno esattamente come quelli reali; – per praticità si può contrassegnare un locus ogni cinque, ponendo una mano d’oro nel quinto luogo e un nostro amico di nome Decimo nel decimo luogo e così via, allo stesso modo, ogni cinque loci.
1.2.3. LE IMAGINES: MEMORIA RERUM E MEMORIA VERBORUM
In maniera del tutto analoga alla dispositio, la quale si trova a metà strada tra la inventio che tratta delle res e la elocutio che si occupa delle verba, allo stesso modo l’oratore può ricorrere all’ars memoriae per la memorizzazione di cose (memoria rerum), intese sia come cose fisiche, sia come sezioni del discorso (l’ordine dei concetti stabilito dalla inventio) oppure – ma tutti i tre autori ci avvertono che si tratta di una pratica ben più ardua – per ricordare parole, frasi, o interi discorsi (memoria verborum) elaborati durante la fase della elocutio. Le imagines di memoria sono appunto delle raffigurazioni delle cose o delle parole da ricordare. Con quali criteri vanno realizzate? –
La raffigurazione delle cose si ottiene formando sommariamente le immagini di esse; quella delle parole affidando ad una immagine il ricordo di un nome o di una espressione. – Le immagini devono essere “forti” da un punto di vista affettivo, così da creare in noi degli “urti emozionali”: si useranno quindi immagini impressionanti o insolite, belle o disgustose, comiche od oscene (imagines agentes) ; ciò si ottiene nel migliore dei modi grazie all’utilizzo di figure umane, drammaticamente impegnate in una qualche attività, adornate, imbrattate, sfigurate o messe in ridicolo, eccezionalmente belle o brutte; gli oggetti si prestano peggio a questo tipo di trasformazioni e per questo vengono meglio utilizzati come accessori dell’immagine principale, anche se nulla vieta di usare oggetti al posto di figure umane. – Per la memoria verborum si utilizzano immagini dotate di somiglianza fonetica con le parole da ricordare, come Domizio per domus itionem, oppure in base ad una associazione di similitudine, contiguità, opposizione. – Ognuno appronterà da sé le proprie immagini, e ciò perché ciascuno è più colpito da certe somiglianze che da altre. Per quest’ultima ragione e a causa dell’enorme vastità e varietà delle espressioni, è assolutamente ridicolo, come hanno fatto diversi trattatisti greci, cercare di allestirsi un’immagine per ciascuna parola esistente in modo da avere un elenco già approntato ai fini di una memoria verborum: “Quale valore potranno avere le immagini di un migliaio di parole quando nell’infinito numero di espressioni ci occorrerà ricordare ora questa, ora quella? E perché distogliere gli altri da un lavoro intellettuale ed evitare loro ogni ricerca, fornendo i risultati già ottenuti e pronti?”8. Ed è questo il
principale motivo per cui i trattati di memoria classici sono così avari di esempi, giacché, come ci avverte la Ad Herennium, “compito del maestro è quello di insegnare i principi e citare un paio di esempi, non tutti, per rendere più chiaro l’insegnamento”9. Fatto sta che l’Ad Herennium non riesce neppure a giungere al fatidico paio di esempi per la memoria verborum e ne riporta solamente uno: Iam domuitionem reges Atridae parant. Per memorizzare le parole di questo verso inizieremo a collocare in un luogo Domizio, con le mani levate al cielo, fustigato dai Marcii Reges, e ciò rappresenta Iam domuitionem reges; per la seconda parte del verso collocheremo invece, in un secondo luogo, gli attori Esopo e Cimbro che si preparano (parant) per la parte di Agamennone e Menelao (figli di Atreo) nell’Iphigenia. Pur trattandosi di un unico, isolato esempio e nonostante il testo non si dilunghi certo in spiegazioni, possiamo notare come ci vengano presentati, in un solo verso, cinque diversi procedimenti di realizzazione di immagini per le parole, e precisamente: –
SOMIGLIANZA FONETICA:
si possono collocare immagini che, pur non avendo nulla a che spartire con la parola da ricordare, tuttavia hanno il nome foneticamente molto simile; così Domizio per domuitionem; così per ricordare il tedesco Treppe (scala) potremmo utilizzare una trippa di maiale; – USO DI UNA IMMAGINE CHE HA IL NOME COINCIDENTE CON LA PAROLA DA RICORDARE: nel nostro caso si tratta di una persona col nome coincidente, ovvero i Reges della gens Marcia ad indicare la parola reges, come se oggi usassimo un nostro amico che si chiama Ferri di cognome per ricordare la parola ferri in una locuzione, magari come “i ferri del mestiere”; l’uso di questo procedimento non è certo limitato alle persone: posso collocare ad esempio un’àncora per indicare l’avverbio ancóra, il numero 7 per indicare delle sette religiose, e così via; – USO DELLO STESSO TERMINE CON SIGNIFICATI DIFFERENTI: ben diverso è il significato del parant per gli Atridi che tornano a casa o per una coppia di attori che si travestono; così noi oggi potremmo usare una persona che mena un’altra (nel senso di picchiare) per ricordare il verso 18 del Canto I dell’Inferno “che mena dritto altrui per ogni calle”, pur avendo il verbo menare, in questo caso, un senso completamente diverso, o ancora, nel
precedente esempio “i ferri del mestiere” potremmo rendere l’intera locuzione collocando il nostro amico Ferri nell’atto di prostituirsi, essendo la prostituzione il mestiere per antonomasia. Ci scusiamo se qualche lettore dovesse rimanere urtato dall’eccessiva trivialità delle immagini che stiamo collocando, anche se ciò sarebbe un’ulteriore conferma, per noi, della efficacia di questi procedimenti sulla nostra affectivitas… – COLLOCAZIONE DI UNA PERSONA PER RAPPRESENTARE SÉ STESSA: Agamennone e Menelao non fanno altro che indicare sé stessi, ovvero gli Atridi, o figli di Atreo; posso quindi collocare il Papa per ricordare il termine papa, o il mio lattaio se devo rammentare lattaio; l’unico pericolo è rappresentato dal rischio di una raffigurazione anonima o comunque debole per certi personaggi “istituzionali” o del passato di cui manchi la conoscenza personale e diretta;10 in questa eventualità ci viene però in aiuto il principio successivo: – PERSONIFICAZIONE DELLE PERSONE COLLOCATE PER MEZZO DI VOLTI CONOSCIUTI: l’autore dell’Ad Herennium sa bene che nessuno può avere una raffigurazione vivida degli Atridi; così sfrutta abilmente il parant per far vestire i panni di Agamennone e Menelao da due noti attori del tempo, Esopo e Cimbro, come se noi utilizzassimo Elizabeth Taylor per Cleopatra, o dessimo il volto di Kevin Costner a Robin Hood. Oltre a queste cinque regole per le immagini, possiamo evincere dall’esempio almeno altri quattro principi: –
LE IMMAGINI DEVONO INTERAGIRE FRA LORO:
è infatti per mezzo dell’interazione che si creano dei nessi, dei legami, ed è per questo che le immagini vengono collocate a coppie in ciascun luogo, perché piazzando una sola immagine per luogo, oltre allo spreco di loci, aumenta il rischio di perdere dei “pezzi” della frase da ricordare; se mi ricordo di Domizio, mi ricorderò sicuramente anche del fatto che c’era qualcuno che lo stava picchiando; della coppia di attori che si prepara, è altamente improbabile che la mia mente ne cancelli uno e si ricordi solo dell’altro. In questo modo abbiamo in ciascun luogo un piccolo quadretto, un’azione compiuta, svolta da un paio di personaggi in relazione reciproca, senza fronzoli superflui, ma, allo stesso tempo, sfruttando a fondo la “capacità di contenimento” del luogo stesso; – IL NUMERO DEI LUOGHI DA UTILIZZARE DIPENDE DALLE RELAZIONI TRA LE IMMAGINI: se
ho una immagine isolata, senza interazioni con altre, essa occuperà da sola un intero locus; se, come nell’esempio, due o più immagini si accoppiano, allora le sistemerò tutte nello stesso luogo; i Reges Marcii possono fustigare Domitium molto meglio se tutti si trovano nel medesimo posto, decisamente peggio se il nostro Domitium si trovasse prudentemente in un altro locus; – CASI GRAMMATICALI, TEMPI E PERSONE VERBALI VANNO IL PIÙ POSSIBILE MANTENUTI: nella prima immagine abbiamo i Reges (nominativo) che fustigano Domitium (accusativo), così come i reges (nominativo) preparano la domuitionem (accusativo); lo stesso discorso vale per Atridae parant; naturalmente l’esempio della Ad Herennium è scelto con molta cura e non è sempre detto che tale simmetria si possa mantenere in tutti i casi; quando però ciò avviene, abbiamo un appiglio in più che ci viene in aiuto al momento del ricordo; – CIÒ CHE NON È ESSENZIALE NON VA RAFFIGURATO: lo Iam iniziale del verso viene tranquillamente ignorato, vuoi perché un avverbio è di più difficile rappresentazione, oppure perché le immagini già collocate ci restituiscono perfettamente quattro delle cinque parole di cui è formata la frase.
1.2.4. PUNTI DI VISTA Oltre ad una serie di indicazioni comuni, ciascuno dei tre retori inserisce qua e là nel testo delle valutazioni personali che riguardano l’ars memoriae in generale e la memoria verborum in particolare. Vediamo: l’autore dell’Ad Herennium incoraggia l’applicazione alla memoria verborum, perché essendo una pratica più difficile, ci è di gran giovamento e rafforza la memoria delle cose11; si preoccupa anche di sottolineare come la memoria verborum non sia autosufficiente, ma sia solamente un “puntello” alla memoria naturale: non potremo cioè utilizzarla per memorizzare interi discorsi, poiché “posto un verso, noi lo ripasseremo dentro di noi due o tre volte e poi ne rappresenteremo le parole con immagini. In tal modo l’arte viene in aiuto alla natura, poiché l’una separata dall’altra avrebbe meno efficacia”12; – Cicerone è convinto che la memoria rerum sia quella specifica –
dell’oratore, essendo quella verborum meno necessaria e presentando più problemi, come, ad esempio, quando ci troviamo di fronte alla creazione di immagini per le parti del discorso prive di un riferimento concreto, come le congiunzioni; in ogni caso le imagines aiutano la memoria e sbagliano coloro che temono di ritrovarsi le proprie facoltà naturali schiacciate e ottuse dall’enorme carico di immagini; – è proprio di questo timore che Quintiliano non riesce a liberarsi, poiché è convinto che il movimento del discorso sia reso impacciato in modo irrimediabile dal doppio compito imposto alla memoria di ricondurre ogni parola ad un simbolo; tutta l’ars, allora, serve solo ai banditori d’asta o – al limite – per ricordare degli elenchi, e i mnemonismi Carmada e Metrodoro di Scepsi, tanto elogiati da Cicerone, diventano quasi dei ciarlatani agli occhi di Quintiliano. Meglio allora memorizzare in maniera visiva ciò che si è scritto sulla tavoletta, ovvero le lettere e le parole, senza ricorrere ad ingombranti artifici.13 Se c’è una cosa che accomuna i tre retori è la preoccupazione per i metodi farraginosi della memoria verborum: Quintiliano la critica senza pietà, Cicerone si limita a sorvolarla beatamente e l’insistenza dell’autore dell’Ad Herennium indica chiaramente quanti pochi potessero essere gli studenti disposti ad applicarsi ad essa; di più, nella Ad Herennium, le deboli ragioni addotte per incoraggiarne l’utilizzo e le giustificazioni riportare quasi a mo’ di scusa per spiegare l’esiguo numero di esempi citati ci fanno pensare che forse, sotto sotto, neppure l’ignoto maestro di retorica del I secolo a .C. ne facesse un uso entusiastico. E tutti questi problemi relativi all’organizzazione sistematica, alla velocizzazione, allo snellimento ed al miglioramento dell’efficacia della memoria verborum rimarranno sempre, come vedremo, una costante nella storia successiva delle artes memoriae occidentali.
1.3. METAMORFOSI MEDIOEVALI 1.3.1. LA AD HERENNIUM, CICERONE E ARISTOTELE Durante tutto il Medioevo l’ars memoriae riesce a sopravvivere, anche se con funzioni ed implicazioni sociali completamente diverse rispetto a quelle
dell’età classica, giacché, in un mondo sommerso dai barbari, la figura dell’oratore diviene quanto meno superflua, e parimenti superflua diventa la memoria come sostegno all’eloquenza. L’ars memoriae, al pari di tutto il patrimonio culturale della latinità, trova rifugio nei monasteri, ed è qui che subisce una mirabile mutazione, tanto più incredibile se si pensa che essa fu dovuta principalmente ad un “errore” filologico. Per tutto il Medioevo ed anche oltre, infatti, la Ad Herennium fu l’unica fonte disponibile sulla memoria artificiale e la paternità dell’opera fu erroneamente attribuita a Cicerone: il trattato veniva chiamato Retorica seconda perché associato al De Invenzione, a sua volta chiamato Retorica prima14; tale errata associazione risulta essere di primaria importanza, poiché Cicerone, nel De Invenzione, ad un certo punto tratta delle “quattro parti della virtù: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, mostrando come la prudenza sia a sua volta divisa in memoria, intelligentia, providentia, giacché “memoria” è la facoltà per cui la mente ricorda ciò che è accaduto. Intelligenza è la facoltà con cui accerta ciò che è. Preveggenza è la facoltà per cui si vede che qualcosa sta per accadere avanti che accada”15. Le definizioni ciceroniane delle virtù e delle loro parti furono un riferimento importantissimo all’interno di quel processo di formulazione delle “quattro virtù cardinali” operato da Alberto Magno e da Tommaso D’Aquino nelle loro Summae, e poiché Cicerone, nella Retorica secunda (cioè nella Ad Herennium) trattava della memoria artificiale come di un metodo per rafforzare la memoria naturale, diventava ovvio – ragionando in base alla proprietà transitiva, come diremmo oggi – considerare l’ars memoriae come parte della virtù e della prudenza. Manca ancora un personaggio al quadro che si sta delineando, ed è Aristotele. Come ben sappiamo, uno dei maggiori meriti di Tommaso d’Aquino consistette nella assimilazione del pensiero aristotelico all’interno di quello della Chiesa, allo scopo di preservare e difendere la Chiesa stessa, confutando le argomentazioni degli eretici: il risultato più tangibile di questo enorme lavorio teoretico è appunto la Summa Theologiae. Nell’ambito di questo processo imbattersi nel De memoria et reminescentia aristotelico, significò per i frati domenicani, la possibilità di dare una solida base teorica alla giustificazione dell’ars memoriae “ciceroniana” attraverso il riesame dei principi psicologici dei luoghi e delle immagini condotto appunto con l’ausilio delle osservazioni fatte da Aristotele sulla memoria e la reminescenza. Ciò che dovette colpire l’Aquinate fu sicuramente il fatto che tutti i conti tornavano: Aristotele sostiene che la memoria appartiene alla stessa parte sensitiva dell’anima a cui appartiene anche l’immaginazione e che consta di
una collezione di immagini mentali derivate da impressioni sensoriali; la reminescenza, invece, pur conservando traccia delle forme corporee, appartiene alla parte intellettiva. Le Sacre Scritture e tutta la didattica cristiana parlano di cose spirituali raffigurate sotto similitudine di cose corporee. L’ars memoriae insegna a ricordare tutto, compresi i concetti, per mezzo di immagini. Tommaso tirava quindi le somme e ne deduceva che “è naturale per l’uomo raggiungere gli intellegibilia mediante i sensibilia, perché tutta la nostra conoscenza fonda i propri principi nel senso”16. Così l’arte della memoria, sebbene proiettata fuori dal ricettacolo della retorica, trovava ora accoglienza nel cuore della escatologia cristiana, divenendo uno dei mezzi più importanti per inseguire la virtù ed ottenere la salvezza.
1.3.2. LE REGULAE PER LE IMMAGINI: VARIANTI E CORRUZIONI I precetti per i loci e le imagines risultano sostanzialmente invariati rispetto a quelli classici nella esposizione che ne dà Alberto Magno nel suo commento al De memoria et reminescentia aristotelico, nonostante egli lavorasse su una versione della Ad Herennium corrotta in più punti. La variante più curiosa e significativa si ha quando Alberto Magno afferma che Cicerone consiglia di compiere l’esercizio mnemonico “nell’oscura intimità, poiché nella pubblica luce le immagini delle cose sensibili sono sparpagliate ed il loro movimento è confuso. Ecco perché Tullio prescrive che noi ricerchiamo ed immaginiamo luoghi oscuri, con poca luce”17. La regola dei luoghi non troppo scuri, né troppo chiari, viene qui singolarmente unita a quella che raccomanda di utilizzare come loci dei posti poco frequentati e viene a riguardare non solo i loci dell’ars, ma anche – e soprattutto – il locus nel quale si dovrà svolgere l’esercizio mnemonico, che viene così ad essere trasportato in una mistica oscurità. Inoltre l’esempio citato da Alberto Magno per la memoria verborum è lo stesso della Ad Herennium, ma assai più contorto a causa delle corruzioni del testo, con immagini confuse di qualcuno bastonato dai figli di Marte e l’introduzione sulla scena di una errante Ifigenia18. Degne di nota sono invece tutte le obiezioni che, nel De bono, Alberto Magno avanza alla memoria verborum e l’insinuarsi del dubbio che le regole “ciceroniane”siano più un impaccio e un ostacolo che un reale aiuto alla memoria, poiché:
– c’è bisogno di tante immagini quanti sono i concetti e le parole da ricordare: una tale moltitudine rischia di confonderci; – le metafore di memoria (le immagini) rappresentano con meno accuratezza una cosa rispetto a ciò che avviene con la descrizione della cosa effettiva; – sarebbe meglio e più economico ricordare i propria (le cose e le parole stesse) piuttosto che i metaforica (le immagini). Tali obiezioni vengono però immediatamente respinte come infondate, visto che, di fatto, le immagini aiutano la memoria, molte cose e parole possono essere ricordate grazie a poche immagini che, sebbene meno precise ed accurate delle cose e delle parole stesse, muovono di più l’anima e quindi aiutano meglio la memoria19. L’avanzare obiezioni e confutarle è sicuramente tipico dello stile dialettico utilizzato nel De bono, e tuttavia è significativo il fatto stesso che osservazioni e dubbi del genere siano riportati nel testo, perché ciò è indice di certe perplessità che dovevano sicuramente essere diffuse e che possiamo ritrovare, con pochissime varianti, già nella Institutio di Quintiliano. Invece Tommaso d’Aquino, che, dal canto suo, fu con tutta probabilità un mnemonista, riporta in totale quattro sole regole di memoria20 che sono delle varianti al testo della Ad Herennium: –
usare immagini non troppo familiari, così che possono destare meraviglia: per questo le cose viste nell’infanzia sono più radicate nella memoria. Inoltre, legare le intenzioni spirituali a un qualche simbolo corporeo aiuta a non farle scivolare via; – disporre ordinatamente nei loci ciò che si vuole ricordare, così che da un punto ricordato venga reso agevole il passaggio al punto successivo; – indugiare con cura ed aderire con interesse vivo alle cose da ricordare, perché, come dice Cicerone, la sollecitudine conserva nitide le immagini delle cose; – meditare con frequenza ciò che si desidera ricordare, così che le immagini siano rafforzate dall’abitudine. Al pari di Alberto Magno, anche Tommaso d’Aquino svisa il senso della solitudo dei loci,21 solo che qui la solitudo diventa sollicitudo e la terza regola dell’Aquinate diventa una curiosa esortazione ad aderire con vivo interesse
alle cose da ricordare. Della memoria verborum non vi è traccia in tutta la Summa; forse che essa fosse totalmente sparita nella teoria e la sua pratica definitivamente sepolta?
1.3.3. DUE APPLICAZIONI DELLA MEMORIA VERBORUM In realtà esiste uno spiraglio, una possibilità che la tecnica della memoria verborum non fosse andata completamente perduta, anzi, forse tali possibilità sono addirittura due ed entrambe si devono ai frati domenicani; è infatti grazie ad essi che, oltre allo sforzo filosofico, teologico, e dottrinale che porta alla realizzazione delle Summae di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, abbiamo il rifiorire dell’arte oratoria, non più secondo l’elegante strutturazione dell’età classica, bensì nella forma della predicazione, giacché l’ordine domenicano era appunto sorto principalmente come ordine di predicatori. Una buona predica ha lo scopo di imprimere nella mente di chi ascolta degli insegnamenti morali e spirituali e ciò può avvenire in maniera sicuramente più efficace e “memorabile” facendo ricorso a delle similitudini corporee, meglio ancora se si tratta di esempi insoliti, singolari ed “eccentrici”: tale è l’indicazione che troviamo nella Summa de exemplis ac similitudinibus rerum di Giovanni di San Giminiano, scritta all’inizio del secolo XIV. Le Summae che si vanno appunto diffondendo tra i predicatori in questo periodo sono delle collezioni, dei repertori di immagini e di similitudini da utilizzare nelle prediche; oltre a ciò le Summae presentano, al loro interno o in appendice, delle regole per la memoria artificiale, tratte o da Tommaso d’Aquino o dalla Ad Herennium; va inoltre notato come qualcuno di questi trattati venga scritto non più in latino, bensì in volgare, come gli Ammaestramenti degli antichi di Bartolomeo di San Concordio, opera dell’inizio del secolo XIV che presenta, in appendice, un Trattato della memoria artificiale che non è altro che la traduzione italiana della sezione sulla memoria della Ad Herennium. Da un lato abbiamo così dei predicatori che fanno uso della memoria artificiale per ricordare le prediche e, forse, qualcuno di essi utilizza non solo la memoria rerum, ma anche la memoria verborum a fini memorativi, anche se si tratta solo di una congettura; dall’altro il propagarsi di testi in volgare dimostra come all’argomento vengano ad interessarsi dei gruppi di laici, anche se la diffusione doveva essere limitata ad un ambito di tipo devozionale. L’unico altro utilizzo – questa volta pienamente documentato – della memoria verborum all’inizio del XIV secolo è quello che troviamo in Robert
Holcot, un frate domenicano inglese che, nelle sue Moralitates, dava istruzioni su come potersi formare delle rappresentazioni, dei veri e propri “quadri” dei vizi e delle virtù destinati non ad una realizzazione visiva, bensì intesi come vere e proprie immagini di memoria ad uso dei predicatori. Vediamone uno: “Il simbolo della Penitenza, come la dipingevano i sacerdoti della dea Vesta, secondo Remigio; la Penitenza soleva essere dipinta in forma di uomo interamente nudo, con una frusta a cinque corregge in mano”. Al di là della autenticità o meno dei riferimenti antichi citati da Holcot, sembra che ci troviamo davanti alla solita memoria rerum: un uomo, immaginato nudo per renderlo più memorabile, con una frusta in mano, per indicare la Penitenza. Ma il testo presegue così: “Cinque versetti o sentenze erano scritte su ciascuna delle corregge”. Immagini di memoria rerum utilizzati come “contenitori” di memoria verborum, ma non attraverso altre immagini, bensì per mezzo delle verba stesse inscritte nell’immagine: questa è la novità e questa, secondo la Yates, poteva essere l’interpretazione medioevale di quella che era stata nel passato la memoria per le parole22. Il sistema non è semplicistico come sembra e si basa su quella “memoria visiva della pagina” che molti di noi usano ancora oggi quando riescono a ripetere una frase letta su un libro “rivedendo” mentalmente la collocazione della frase sulla pagina; in fin dei conti si tratta dello stesso tipo di memoria che consigliava già Quintiliano, quando sosteneva che, al cumulo delle immagini, è preferibile “apprendere a memoria un passo delle tavolette stesse su cui si è scritto. È, infatti, come se la memoria seguisse una traccia, come se avesse sott’occhio non solo le pagine, ma le righe stesse, ed uno parla come se leggesse”23. Si tratta, comunque, di fenomeni collaterali. In realtà l’ora della riscossa della memoria verborum scoccherà solo alla fine del secolo 15°, ma a quel punto l’enorme “buco” sia teorico sia pratico dei secoli precedenti farà sentire tutto il suo peso, tanto che si ricomincerà a memorizzare parole su basi completamente diverse rispetto alle precedenti.
1.4. PIETRO TOMAI 1.4.1. VITA DI UN MNEMONISTA DEL XIV SECOLO Nato a Ravenna verso il 1450 (da cui appunto l’appellativo Ravennatis) Pietro Tomai compì gli studi di diritto a Padova con Alessandro Tartana da Imola.
Qui, prima di avere compiuto vent’anni mostrava già le proprie capacità mnemoniche, giacché era in grado di recitare a memoria tutte le lezioni del Tartagna, oltre all’intero codice di diritto civile indicando, in riferimento ad ogni legge, i sommari di Bartolo, le prime parole del testo, il numero delle glosse e i termini a cui ciascuna glossa faceva riferimento. Poteva giocare una partita a scacchi e contemporaneamente dettare due lettere su un tema scelto al momento dagli astanti, mentre un’altra persona lanciava i dadi ed una terza prendeva nota di tutti i lanci. Alla fine, Pietro sapeva ricordare tutte le mosse della partita a scacchi, tutte le gettate dei dadi e tutte le parole delle lettere, iniziando addirittura dalle ultime e ripetendole a rovescio fino alle prime. Lesse diritto civile e canonico, professando come libero docente a Bologna, Pavia, Ferrara, Pisa, Pistoia e Padova, e poi, sempre preceduto dalla propria fama, in Germania, a Greifswald, Wittemberg e Colonia, per fare ritorno forse in Italia, dove morì tra il 1508 ed il 1512. Personaggio eccentrico, dalla vita sregolata (pare fosse stato cacciato dalla cattedra di Colonia con l’accusa di aver frequentato troppe prostitute) Pietro Tomai non fu certo il primo mnemonista della storia, ma fu sicuramente il primo ad utilizzare le proprie capacità quasi esclusivamente per fini autopropagandistici. Conoscere tutto il Codice a memoria senza bisogno di sfogliar carte fu una caratteristica che aumentò a dismisura il prestigio di questo giurista: tutti volevano vederlo, sentire le sue lezioni, invitarlo per metterlo alla prova: la vera e propria realizzazione del sogno ciceroniano dell’oratore che ricorda tutte le leggi, le cause, le testimonianze, ciò che è stato confutato e ciò che è ancora da confutare. E Pietro Tomai seppe ben amministrare le sue doti, non solo come giurista, ma anche come scrittore.
1.4.2. LA PHOENIX SIVE ARTIFICIOSA MEMORIA Dal momento della prima edizione, che è quella di Venezia del 1491, la Phoenix sive artificiosa memoria riscosse un immediato successo, tanto da essere più volte risparmiato, divenendo il manuale di memoria più utilizzato per più di un secolo. E tutto ciò perché fu il primo trattato di mnemotecnica a rivolgersi direttamente al mondo laico con un “taglio” espositivo agile e funzionale: un compendio di precetti realizzati dall’autore per scopi pratici, per ricordare nomi, articoli di legge, elenchi, commentari, e così via; non più una memoria connessa a intelligentia e provvidentia allo scopo di
procacciarsi la vita eterna, non più lunghe dissertazioni filosofiche su intelletto e immaginazione, ma una tecnica finalmente utilizzabile quotidianamente per scopi professionali. Questo successo letterario di cinquecento anni fa si presenta ai nostri occhi nella deludente veste di un trattatello di una ventina di fogli in sedicesimo, dei quali, espunti ringraziamenti, dediche, premesse e post-fazioni, ne restano solamente sette specificamente dedicati all’esposizione dei consigli mnemonici. L’origine del titolo Phoenix è chiarita dallo stesso Pietro Tomai all’inizio del testo in questi termini spiccatamente autopropagandistici: “Et cum una sit Foenix et unus iste libellus, libello si placet Foenicis nomen imponatur”; con lo stesso tono viene ribadito, in più di un punto, come il libro sia stato scritto per svelare tutti i segreti del suo autore, allo scopo di lasciare dei degni eredi di questa arte.
1.4.3. REGOLE E CONSIGLI TRA PLAGIO E ORIGINALITÀ Il taglio espositivo scelto da Pietro Tomai implica la presentazione dei principi mnemonici – Conclusiones, come li chiama lui – sotto forma di consigli, senza preamboli teorici, quasi da “ricettario di cucina”: fai così… io per ricordare faccio così… non sono d’accordo con chi dice che… e così via, parlando sempre in prima persona o rivolgendosi in maniera diretta al lettore, inframezzando il tutto con racconti delle proprie strabilianti gesta mnemoniche. In nessun caso Pietro Tomai cita le proprie fonti, vendendo come originali dei precetti magari vecchi quindici secoli: questo “plagio” reiterato raggiunge l’apice della comicità – per noi moderni, ovviamente – quando, alla fine dell’esposizione delle Conclusiones, l’autore si rammenta all’ultimo momento di un importantissimo principio fino ad allora taciuto e ci passa, quasi sottobanco, spacciandolo per suo, nientemeno che la regola della Ad Herennium sulla numerazione dei loci con una mano ogni cinque, una croce (anziché Decimo: calo delle nascite o Cristianesimo dilagante?) ogni dieci e così via. Ma la stragrande maggioranza dei lettori contemporanei della Phoenix non poteva saperlo e così tale regola fu tranquillamente accolta assieme a tutte le altre. Vediamo. Senza troppi preamboli Pietro Tomai consiglia di usare come contenitore di loci una chiesa, e ad essa applica sostanzialmente le regole della Ad Herennium, ma con tre distinguo:
– si raddoppia stranamente la distanza tra i loci che passa dai tre piedi della Ad Herennium ai cinque o sei della Phoenix. Entrambi i testi parlano di “giusta distanza”, ma dall’85 a.C. al 1491, la misura dei mediocria intervalla si dilata sensibilmente, vuoi per il mutamento di percezione dello spazio architettonico che deve essersi verificato sicuramente in quindici secoli, vuoi perché una chiesa presenta già di fatto i propri loci ad una distanza superiore ai tre piedi; – il principio della corretta illuminazione dei loci non è neppure citato, e non perché esso fosse andato perduto con il passare del tempo, visto che si ritrova in trattati successivi: può essere che Pietro Tomai lo abbia omesso, confidando nel buon senso del lettore; oppure che l’abbia deliberatamente taciuto, dal momento che una chiesa, in genere, non è mai fortemente illuminata, né totalmente buia; – non importa collocare i loci in posti poco frequentati, giacché “basta aver visto la chiesa vuota almeno una volta, non importa quando”. È poi la volta delle regole per le immagini: – qualunque immagine si collochi, essa dovrà eccitare la nostra memoria, e ciò è possibile solo attraverso un qualche movimento: è il principio classico delle imagines agentes; – per i nomi di persona, si usano immagini di nostri conoscenti che abbiano lo stesso nome che dobbiamo memorizzare; la raffigurazione va fatta in maniera non statica: dobbiamo al contrario rappresentarci le persone nell’atto di fare qualcosa che per loro sia tipico; – per gli animali e gli oggetti inanimati si collocano le immagini degli animali e delle cose stesse; – se un oggetto non è in grado di muoversi, dovrà essere mosso da qualcuno; – se un’immagine è piccola, la si potrà moltiplicare; se di difficile collocazione, si potrà fare uso di immagini ausiliarie; – un’immagine buffa viene ricordata con maggiore facilità; – un’immagine “erotica” ecciterà la nostra memoria come nessun altra potrebbe fare; più volte infatti Pietro Tomai colloca la sua “amica di gioventù” Ginevra da Pistoia o, più in generale, delle bellissime fanciulle, possibilmente nude.
1.4.4. LA MEMORIA VERBORUM DELLA PHOENIX Fino a questo punto non ci troviamo di fronte a novità sconvolgenti; ciò che invece risulta essere veramente singolare nella Phoenix è la trattazione che potremmo quasi definire “scientifica” della memoria verborum; di essa vengono esaminate con cura le varie modalità, le possibilità d’applicazione e i limiti. Seguendo le istruzioni del testo, veniamo guidati in maniera graduale alla raffigurazione prima di singole lettere, poi di sillabe e parole, fino alla possibilità di rappresentare i casi latini; Pietro Tomai descrive più di una tecnica e riporta addirittura una memoria numerorum per la raffigurazione di cifre, numeri e riferimenti bibliografici. La grande novità consiste nell’utilizzo per la memoria verborum di quelli che verranno chiamati “alfabeti visivi”, sistemi che consistono nella collocazione di immagini la cui iniziale del nome coincida con la lettera da memorizzare, oppure di oggetti la cui forma ricordi la lettera stessa, come un compasso per la lettera A. Dal canto suo, Pietro Tomai prescrive la tecnica della collocazione di persone – possibilmente delle donne, tranne se si è misogini – per le lettere dell’alfabeto (nella Phoenix, sulla scia della migliore tradizione delle imagines agentes, “immagine” è sempre inteso nel senso di immagine di una persona, non di un oggetto): Antonio, per la A, Benedetto, per la B, e così via. Per una sillaba bielementale si collocheranno così due persone, ma non in due loci diversi, bensì nello stesso locus, introducendo un preciso modo di ordinare le immagini, così da non incorrere in confusione al momento del recupero: “Se devo collocare in un luogo la copula et, colloco in quel luogo Eusebio e Tommaso d’Aquino, ma in modo che Eusebio tocchi il luogo e Tommaso stia di fronte a lui. Se invece Tommaso d’Aquino fosse al posto di Eusebio e Eusebio al posto di Tommaso, allora vedremmo collocato in quel luogo non la copula et, bensì il pronome te. Una delle regole di quest’arte stabilisce che ciò che viene prima in ordine va collocato più vicino al luogo; come sulla carta scriviamo prima la lettera e in questa copula così facciamo anche nel luogo; si tratta di una regola generale che va osservata in qualunque espressione o quant’altro vada collocato”24. Si ottiene in tal modo un notevole risparmio di loci ed una maggior compattezza delle immagini stesse. Verrebbe da pensare che, nel caso di una sillaba trielementale, le persone da collocare diventino tre, invece Pietro Tomai, in considerazione sia della presenza costante di almeno una vocale in ciascuna sillaba e della pericolosa confusione potenziale dovuta alla collocazione di tre persone nello stesso luogo, prescrive l’utilizzo di due sole “figure”, ovvero
una persona e un oggetto o un animale, allo scopo di rappresentare una sillaba di tre lettere: naturalmente una delle due immagini dovrà rappresentarci due delle lettere che formano la sillaba. La regola è questa: se la vocale si trova in posizione centrale o terminale, la consonante che precede la vocale e la vocale stessa andranno raffigurate con un oggetto che sia mosso da una persona che mi rappresenti la lettera rimanente: “Nella sillaba bar, prendo l’immagine dell’ultima lettera e vi aggiungo qualcosa il cui nome cominci allo stesso modo delle due lettere che precedono. Perciò se avrò collocato nel luogo Raimondo che percuote il luogo con un bastone, in quel luogo leggerò la sillaba bar; se invece Simone avesse percosso il luogo, si sarebbe avuta la sillaba bas […] se invece la vocale è alla fine, come nella sillaba bra, allora colloco nel luogo un’immagine per la prima lettera con qualcosa che venga mosso o si muova da sé, il cui nome cominci con le sue lettere che seguono nella sillaba. Perciò se avrò collocato nel luogo Benedetto con delle rape o delle rane, otterrò la sillaba bra; Tommaso la sillaba tra”25. Se invece la vocale si trova all’inizio della sillaba “bisogna collocare sempre nel luogo l’immagine della prima lettera assieme ad una cosa il cui nome cominci come le lettere seguenti: così se Antonio fa girare una mola, vediamo apposto il verbo amo; se al suo posto c’è Eusebio il verbo emo”26. Semplice ed efficace, anche se si tratta di una pratica limitata a monosillabi di tre lettere, come è Pietro stesso ad ammettere: “Va detto che non si possono collocare con altrettanta facilità parole di tre o quattro sillabe, ma non occorre usare molte sillabe inutilmente quando di può ottenere lo stesso risultato usandone poche: basta infatti che siano state collocate le prime due sillabe”27. In pratica, questo tipo di memoria verborum non ha la pretesa di codificare in maniera perfetta intere parole, ma semplicemente intende far memorizzare l’inizio, le prime lettere, in modo da funzionare da aggancio, da appunto mnemonico e venire incontro a quelle situazioni in cui cerchiamo disperatamente una certa parola, sentendo di averla “sulla punta della lingua” e basterebbe che qualcuno o qualcosa ce ne suggerisse le prime lettere che noi saremmo immediatamente in grado di ricordarla: la memoria verborum proposta da Pietro Tomai svolge appunto questo ruolo. La tecnica dell’alfabeto visivo della Phoenix si ferma dunque alle parole bisillabiche e diventa estremamente complessa nel caso in cui una sillaba sia formata da più di tre lettere: come potremmo infatti memorizzare la sillaba pentaelementale prans? Ma Pietro Tomai ha in serbo per noi altre sorprese.
1.4.5. TECNICHE ALTERNATIVE Per ovviare ai problemi degli alfabeti visivi ci vengono mostrate delle altre possibilità per la memorizzazione delle verba. Vediamole: UGUAGLIANZA TRA LINGUA STRANIERA E PARLATA COMUNE: se dobbiamo collocare una parola straniera che suoni identica nella nostra lingua, non facciamo a) altro che collocare l’immagine della cosa stessa: è da folli rappresentare tutte le lettere di vinum quando posso ottenere lo stesso risultato piazzando nel locus l’immagine di una bottiglia di vino. SUONO DELLA VOCE: si tratta di un metodo che, per quanto mi risulta, non viene citato da altri, né prima né dopo Pietro Tomai: una frase, una citazione può essere memorizzata in blocco se conosco qualcuno che la ripete sempre; l’idea di collocare una persona per il motto suo tipico è sicuramente originale, tuttavia, pensandoci bene, non è altro che l’estensione del solito principio delle imagines agentes: così come colloco le persone nell’atto di fare il loro gesto tipico, e ciò allo scopo di rendere b) più viva l’immagine di memoria, allo stesso modo posso collocarle nell’atto di dire la loro frase tipica, ma questa volta con una finalità ben diversa, che è quella di memorizzare la frase stessa. C’è però in questa tecnica una componente diversa da tutte le altre, poiché è l’unico caso in cui il fattore uditivo prevarica forse quello visivo: non è tanto l’immagine di chi pronuncia la frase a farci venire in mente le parole, quanto la frase stessa che continua a risuonarci nella testa… GESTO CORPOREO: se il termine da collocare fa riferimento ad un gesto corporeo, il che generalmente accade con dei verbi, posso raffigurarmi c) qualcuno che compie il suddetto gesto, come uno che scrive per il verbo scrivere, o un altro che afferra un oggetto per il verbo afferrare e così via. SIMILITUDINE: è la riesumazione della tecnica classica della somiglianza di d) tipo fonetico, quella grazie alla quale la Ad Herennium consiglia di collocare Domizio per indicare il ritorno a casa, cioè la domuitionem. Grazie a questa abbondanza di tecniche alternative, la memoria verborum ottenuta utilizzando gli alfabeti visivi diventa la estrema ratio per ricordare una parola e va quindi utilizzata solo in tre casi: – quando le altre tecniche falliscono, il che può accadere soprattutto se la
parola è di difficile o impossibile raffigurazione (come un avverbio), non conosciamo nessuno che ce l’abbia sempre “in bocca” e non assomiglia foneticamente ad un’altra parola rappresentabile; – quando si vuole avere un riferimento preciso delle prime lettere di una parola di difficile memorizzazione; – se la parola da fissare è molto breve (al massimo due sillabe di due o tre lettere ciascuna, come pater o coram). Della parola memorizzata con una qualsiasi di queste tecniche è poi possibile indicare anche il caso latino, giacché Pietro Tomai fa corrispondere ciascuno dei casi latini ad una parte del corpo umano (testa per il nominativo, mano destra per il genitivo, sinistra per il dativo, piede destro per l’accusativo e sinistro per il vocativo, mentre il ventre o il petto indicano l’ablativo). Dal momento che ciascuna immagine di memoria implica l’utilizzo costante di figure umane, queste andranno relazionate al locus o all’oggetto con cui interagiscono per mezzo della parte del corpo che rappresenta il caso latino da ricordare. Se invece la tecnica utilizzata dovesse comportare la collocazione del solo oggetto (come del pane nel caso di panem) si piazzerà comunque nel locus una figura umana: “Se una cosa, per esempio un pane,28 collocherò nel luogo una ragazza nuda che tocca un pane col piede destro; se invece voglio collocare il termine uomo29 posto ad indicare un qualche grado o una certa carica, come un abate, metto nel luogo un unico abate nudo che calci il luogo stesso col piede destro”30. Dopo aver fornito alcuni precetti riservati ai giuristi, per la memorizzazione di leggi e Codici, Pietro Tomai ci dice che è pure possibile, anzi consigliabile, collocare più immagini nello stesso luogo dando ad esse una strutturazione: ad esempio, per gli argomenta di legge egli usa una immagine per il “titolo”, ovvero l’intestazione dell’articolo di legge e poi colloca pure, nello stesso spazio del locus, due o tre delle parole principali dell’argumentum grazie ad una delle tecniche suesposte. Si ottiene in questo modo un’immagine completa riguardo all’informazione che stiamo cercando, rendendo parimenti efficiente l’uso dei loci; se invece non c’è tempo a sufficienza, come quando si devono imparare lunghi elenchi per una dimostrazione “dal vivo” delle proprie capacità, allora Pietro Tomai consiglia la collocazione di una sola immagine per ciascun locus. Di tutte queste idee della Phoenix dovremo tenerne d’occhio soprattutto tre, ovvero:
– la collocazione di più immagini nello stesso locus; – l’assegnazione delle varie parti di un argomento alle diverse immagini collocate nel medesimo locus; – la regola di avere sempre una persona come immagine principale alla quale connettere gesti e oggetti come immagini secondarie. Si tratta infatti di tre tecniche per la realizzazione di immagini che verranno sistematizzate da Bruno tanto nella prima quanto nella seconda praxis del De umbris.
1.4.6. NUMERI L’ultima Conclusio della Phoenix ci mostra infine un originale sistema per la memorizzare non più di lettere, bensì numeri. La grande forza di questo sistema consiste nelle sue possibilità combinatorie, grazie alle quali, con sole sedici immagini, sono rappresentabili tutti i numeri immaginabili. Dapprima si preparano dieci immagini per le decine 10, 20, 30 eccetera fino a 100: una croce per il 10, qualcosa di spigoloso unito a qualcosa di tondo per il 20 e così via. Poi abbiamo altre cinque immagini per le unità da 1 a 9, rappresentate grazie alle dita della mano unite per associazione a persone o a oggetti: “Il pollice della destra è dei guelfi, l’indice dei ghibellini, il medio dei giudei, il quarto dito è quello degli anelli, il mignolo è il dito delle orecchie; lo stesso vale per le dita della mano sinistra. Dico che il pollice è dei guelfi perché i guelfi dicono di tenerlo in grande considerazione: l’indice perciò è dei ghibellini. Dico che il medio è dei giudei perché se glielo mostriamo ci guardano molto male: se vuoi sapere il perché prova a chiederglielo e lo scoprirai; anulare e mignolo non hanno bisogno di spiegazioni”31. Per i numeri dal 6 al 9 si usa la medesima simbologia con la differenza che per i primi cinque numeri (da 1 a 5) immagineremo azioni svolte con la mano destra, mentre per i rimanenti quattro (da 6 al 9) con la sinistra. Infine, il mio interlocutore mi indicherà il numero 1000. Così “se voglio ripetere la Quaestio XI, capo III mi immagino nel luogo un guelfo che tiene una croce nella mano destra ed un giudeo che cerca disperatamente di afferrarla con la forza con la mano destra. Se voglio collocare la Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 4, raffiguro nel luogo un ghibellino che tiene nella mano destra un tripode,32 mostrandolo ad una graziosa fanciulla; la quale a sua volta lo prende nella propria mano destra”33.
Nonostante questo sistema nasca e muoia praticamente col proprio autore, giacché le mnemotecniche moderne basano la memorizzazione dei numeri su principi completamente diversi, tuttavia dovremo tenerne conto quando andremo ad analizzare il De umbris, sia per le regole combinatorie che implica, sia per l’idea di introdurre delle differenziazioni basate sull’uso di diverse parti del corpo.
1.4.7. CODIFICA E DE-CODIFICA Un dubbio potrebbe a questo punto insinuarsi nella mente del lettore: non sarà che tutta questa abbondanza di tecniche per la realizzazione di immagini mi impedisca poi di ricostruire in maniera univoca ciò che devo ricordare? Quando cioè mi ritrovo di fronte ad un’immagine di memoria, come faccio a sapere sé essa sta ad indicare un numero, se ne devo considerare solo la prima lettera per ricostruire una parola, se è l’azione che sta svolgendo ad essere peculiare o essa indica semplicemente se stessa? Se questo problema è evidente nella Phoenix nondimeno è presente in tutte le altre artes poiché, seguendo le indicazioni della Ad Herennium, durante il processo di codifica dell’immagine posso decidere se operare in base ad una associazione di similitudine, contiguità o opposizione, ma non c’è nulla che mi suggerisca quale metodo usare al momento della decodifica. È significativo, a questo riguardo, come nessuna arte di memoria affronti questo problema: né la Phoenix – ma ciò potrebbe essere messo in relazione all’assenza, nel testo, di considerazioni teoriche – né tanti altri trattati, anche se generalmente più prodighi di considerazioni e valutazioni sul funzionamento della memoria. Possibile che tutti abbiano tralasciato questo aspetto? In realtà non si tratta di trascuratezza: più semplicemente questo dubbio sussiste unicamente a livello teorico e non si pone mai nella pratica: se siamo in grado di ricordare un’immagine non possiamo fare a meno di connetterla al proprio referente originale (res, litterae, o verba) in base alla corretta associazione, e ciò avviene perché un’immagine di memoria è sempre il risultato di un nostro processo mentale di costruzione ed essa rimane sempre in qualche modo “impregnata” del procedimento per mezzo del quale l’abbiamo ottenuta. Così se l’abbondanza dei modi effigiandi a nostra disposizione ci torna estremamente utile per costruire immagini, così che possiamo scegliere di utilizzarne uno nel caso in cui gli altri falliscano, essi non ci creano alcun tipo di impaccio al momento del recupero dei dati.
1.5. ALTRI CONTRIBUTI 1.5.1. I TRATTATI SULLA MEMORIA La vasta schiera di trattati che vengono scritti e pubblicati nei secoli XV e XVI, da quello di Publicio34 del 1482 a quelli di Romberch35 (1533) e Rosselli36 (1579) per citare i più famosi, non aggiungono molto a quanto già preso in esame a proposito della Phoenix: le uniche novità degne di nota, ai fini della nostra trattazione, riguardano la costituzione di liste di immagini “preconfezionate”, già pronte per essere collocate come riferimenti di memoria verborum. Invece di dare, cioè, delle istruzioni per la realizzazione degli alfabeti visivi, come aveva fatto Pietro da Ravenna, ci vengono ora proposte delle vere e proprie tabelle di alfabeti completi, dalla A alla Z. Tali alfabeti si basano o sulla coincidenza tra lettera da memorizzare e iniziale dell’immagine collocata, oppure sulla somiglianza visiva tra forma della lettera e forma dell’oggetto collocato. Il trattato di Romberch fornisce, ad esempio, una tabella dove sono riportati ventuno immagini di animali, ciascuno associato ad una lettera: Anser, Bubo, e così via. In un’altra tabella abbiamo invece ventisei oggetti che assomigliano a lettere, come un forcale per la lettera M e una cazzuola per la lettera Z. Tratteremo dettagliatamente nel prossimo capitolo dei vantaggi e degli inconvenienti conseguenti all’applicazione di questi sistemi. Ciò che invece ci preme di far notare qui è la palese contraddizione tra l’inserimento di liste di immagini ed i principi della Ad Herennium, giacché se grazie a questi elenchi si guadagna in sistematicità, si perde sicuramente in termini di legame affettivo e personale con le immagini collocate: nel tentativo di rappresentare tutto, le mnemotecniche rischiano quindi di incrinare il delicatissimo rapporto di adfectivitas che lega l’artista della memoria con le proprie, personalissime rappresentazioni. Anche Bruno percepirà, al pari di Romberch e Rosselli, l’esigenza di sistematicità delle tecniche presentate, ma, a differenza dei trattatisti che abbiamo citato, riuscirà a meglio preservare tanto la globalità del proprio sistema quanto il vincolo personale con l’immagine e quindi la sua originalità, personalità e – soprattutto – memorabilità. Un’idea interessante che prende poi piede in questi trattati è poi quella che prevede, oltre alle solite abbazie, chiese o strade, l’utilizzo di sistemi a ruote o sfere concentriche per la collocazione dei loci; tutti questi sistemi si basano su
luoghi fittizi o che comunque non ricadono nella sfera della nostra percezione quotidiana: Publicio suggerisce l’uso delle sfere dell’universo, Romberch anche dei gironi dell’Inferno e Rosselli organizza alla stessa maniera il Paradiso. Essendo la strutturazione classica dell’universo e dei luoghi “danteschi” (Paradiso, Purgatorio e Inferno) ben segmentata, altamente caratterizzante e nota a tutti, abbiamo in questo modo a nostra disposizione un valido riferimento per mezzo del quale possiamo ordinare i nostri loci. Esiste infine un altro trattato, riportato in un manoscritto di Vienna della metà del secolo XV,37 di solito trascurato nelle trattazioni sulla memoria, ma che menziona una maniera peculiare di organizzare i luoghi di memoria e che risulta illuminante, come vedremo, per spiegare un passo in cui Bruno tratta dei vari tipi di subiecta, ovvero di loci. A pagina 108 del De umbris troviamo infatti una apparentemente inspiegabile tipologia di loci, un tipo dei quali viene definito tetrathomum vel pentethomum: il fatto che Bruno non si dilunghi in alcun tipo di spiegazione rende manifesto come la natura di questo tipo di loci fosse chiara e ovvia a tutti gli “artisti”. La risposta – per noi – va cercata nel trattato che abbiamo appena citato, ove sono descritti e materialmente raffigurati dei veri e propri “modelli” di stanze per la memoria, ciascuna delle quali funge da “contenitore” per cinque loci, quattro negli angoli e uno al centro, nei quali è possibile collocare immagini. Non più dunque successioni irregolari di loci, contrassegnati ogni cinque da mani e croci d’oro, ma una struttura regolare e matematicamente organizzata: un edificio diviso in stanze e ciascuna stanza contenente cinque luoghi, così che, se voglio recuperare, ad esempio, l’immagine affidata al locus numero 32, so già che dovrò cercare nella stanza numero 7. E se questa tecnica di richiamare un luogo ben specifico non rappresentava probabilmente un’esigenza vitale per il retore del I secolo a.C., si trattava di un modus operandi che diveniva invece fondamentale per il giurista e per il mnemonista rinascimentali, giacché il primo era finalmente in grado, ad esempio, di citare rapidamente uno specifico articolo o punto di legge, mentre il secondo poteva, con altrettanta rapidità, ripetere in ordine sparso dei dati di un elenco ordinato, memorizzato magari durante una esibizione pubblica, allo scopo di dare prova delle proprie strabilianti abilità.
1.5.2. ARS COMBINATORIA Esiste in ultimo un’altra Ars, nata sul finire del Medioevo, che, pur non
essendo in origine un’arte della memoria in senso stretto, condizionò tuttavia in maniera decisiva alcuni sviluppi successivi della memoria verborum: stiamo parlando di Raimondo Lullo e dei sistemi originati e sviluppati dalle sue Artes. Vissuto tra il 1235 ed il 1316, Lullo ebbe l’esperienza-chiave della propria vita verso il 1272, quando sul monte Randa, nell’isola di Maiorca, vide misticamente gli attributi divini di bontà, grandezza, eternità, ecc. pervadere l’intera creazione ed intuì la possibilità di creare un’arte “universale” basata su tali attributi. Nelle Artes che egli svilupperà in seguito, gli attributi divini sono nove (bonitas, magnitudo, aeternitas, potestas, sapientia, voluntas, virtus, veritas, gloria) e vengono indicati con altrettante lettere, dalla B alla K. Non intendiamo certo addentrarci in questa sede in una analisi dell’Ars lulliana e delle sue derivazioni, né dell’importanza di Lullo e del lullismo per la cultura europea medioevale e rinascimentale, giacché si tratterebbe di un lavoro ben oltre gli scopi della nostra ricerca. C’è però un aspetto che ci interessa da vicino e che è correlato alla fig.1.
FIG. 1 Si tratta della celeberrima figura combinatoria annessa all’ars brevis; in essa, il cerchio esterno, segnato con le nove lettere da B a K, indicanti appunto gli attributi divini, rimane immobile; al suo interno girano gli altri cerchi concentrici segnati alla stessa maniera. Mentre i cerchi girano si possono leggere le varie combinazioni risultanti delle lettere da B a K. Se tutto ciò rappresenta un procedimento estremamente astratto e concettuale, ben lontano dalle vivide e concrete immagini della genuina
tradizione mnemonica, resta comunque il fatto che per la prima volta viene introdotta la possibilità di unire fra loro gli stessi elementi, dando così luogo alle più svariate combinazioni. Nessuno per il momento si accorse che si trattava dello stesso procedimento che noi utilizziamo tutti i giorni per formare migliaia di parole a partire da soli ventuno simboli dell’alfabeto, ma bastava leggere le combinazioni che risultavano dalle ruote, senza riferirle agli attributi divini, ed il gioco era fatto: le ruote ferme, lette dall’esterno verso l’interno, mi danno gli inutilizzabili BBB, CCC, DDD, eccetera, ma quando le stesse ruote sono in movimento, posso ottenere, ad esempio, BEI, DIE, DEI, EDI, CHE, CHI, e così via. Tra l’altro, l’uso della figura del cerchio in Lullo è connesso alla raffigurazione geometrica dei cieli, così come il quadrato rappresenta gli elementi ed il triangolo la divinità, e tanto Romberch quanto Rosselli useranno i cerchi dell’universo allo scopo di collocarvi immagini di memoria. Se solo a qualcuno fosse venuto in mente di utilizzare un numero maggiore di ruote, ciascuna delle quali divisa in tanti settori quante sono le lettere dell’alfabeto…
1.5.3. IN ATTESA DI UNA SINTESI Questo che abbiamo preso in esame è dunque il cammino della memoria verborum prima della pubblicazione del De umbris, di cui, nei prossimi capitoli esamineremo premesse, principi e metodologie. Nel corso di questo lavoro analitico vedremo come, in realtà, tutto fosse già pronto per attuare il sistema bruniano: c’era solo bisogno di qualcuno che capisse come unire queste tecniche eterogenee, dando un nuovo, inedito impulso alla memoria verborum, da sempre “sorella” trascurata della memoria rerum a causa della sua macchinosità e limitatezza d’applicazione. Il merito del nolano, infatti, non consiste tanto nella scoperta di nuovi e rivoluzionari metodi mnemonici, quanto alla capacità di connettere e sintetizzare ciò che i suoi predecessori avevano applicato: Pietro e le sue tecniche di collocazione multipla, i suoi principi combinatori, le sue immagini di persone a cui connettere azioni ed oggetti, il parallelismo tra divisione di un argomento e di un locus; gli altri trattatisti e la loro idea degli elenchi di immagini per le lettere dell’alfabeto; la Ad Herennium con la sua bizzarra idea di far vestire i panni di Reges Atridae a dei personaggi che fossero più noti ai propri lettori; Publicio e Romberch che collocano immagini delle sfere
concentriche in cui è strutturato l’universo; Raimondo Lullo, infine, con la sua Ars combinatoria che prevede la collocazione delle lettere indicanti concetti su ruote concentriche girevoli allo scopo di ottenere tutte le possibili combinazioni degli elementi originali. Sullo sfondo l’intramontabile mito, vecchio quanto l’ars memoriae di realizzare immagini per tutte le parole. Esiste comunque un denominatore comune in questo processo di montaggio di metodi diversi operato da Bruno, e che consiste nel loro utilizzo “spregiudicato”: il nolano, cioè, si mostra ben poco preoccupato degli scopi originari per cui certe tecniche erano state inventate: per lui è sufficiente la buona funzionalità della tecnica e la certezza che si tratti di qualcosa di familiare per i propri lettori. Per questo, come vedremo, utilizzerà le celeberrime ruote di Lullo, e non allo scopo di combinare gli attributi divini, ma con l’intenzione – meno nobile ma assai più pratica e funzionale – di formare immagini complesse per la memoria verborum; similmente l’utilizzo, nella seconda praxis, delle immagini dei decani dello zodiaco, più che a intenzioni di tipo occultistico, cabalistico o quant’altro, andrà connesso alla loro indiscutibile notorietà per coloro che si occupavano di ars memoriae. In questo modo ciascuna delle risorse “riciclate” viene a perdere la propria funzione originale ed acquista una nuova, inedita luce.
NOTE 1. Plutarco, De Gloria Atheniensium 3. 2. De umbris, 114. 3. De oratore II, LXXXVII, 355. 4. De oratore II, LXXXVII, 356-357. 5. Ad Herennium III, XVI. 6. Ibid. 7. Ad Herennium III, XVIII. 8. Ad Herennium III, XXIII. 9. Ibid. 10. Sarebbe un terreno tutto da approfondire quello dei rapporti tra l’iconografia dei grandi personaggi storici e le regole della ars memoriae , ove si cercasse di mostrare quanto l’esigenza di memorabilità di un personaggio e delle sue gesta possa averne condizionato la raffigurazione. 11. Ad Herennium III, XXIV. 12. Ibid. XXI. 13. Institutio oratoria, XI, 23-33. 14. Lorenzo Valla (1407-1457) fu il primo a porre in dubbio l’attribuzione della Ad Herennium a Cicerone, rimanendo tuttavia inascoltato a lungo, visto che la prima edizione a stampa della Ad Herennium, pubblicata nel 1470 a Venezia, assieme al De Inventione, porta ancora il titolo di Rhetorica nova et vetus. Solo nel 1491 il filologo Raffaele Regio incrinerà definitivamente la teoria delle due Rhetoricae. 15. De inventione II, LIII, 160. 16. Summa Theologiae I, I, Quaestio I, articulus 9. 17. Alberto Magno, De memoria et reminescentia, IX. 18. Il testo di Alberto Magno presentava ultionem al posto di itionem e vagantem Iphigeniam invece di ut ad Iphigeniam. 19. De bono, Punto 16 e Punto 18. 20. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Quaestio XLIX. 21. Ad Herennium III, XIX. 22. Cfr. F. Yates, L’arte della memoria, 88-91. 23. Institutio oratoria XI, 32-33. 24. Phoenix, Conclusio IV. 25. Phoenix, Conclusio V. 26. Ibid. 27. Ibid. 28. In accusativo nel testo. 29. In accusativo nel testo. 30. Phoenix, Conclusio VI. 31. Phoenix, Conclusio XII. 32. Cortina in latino. 33. Phoenix, Conclusio XII. 34. I. Publicio, Oratoriae artis epitome. 35. J. Romberch, Congestorium artificiose memoriae. 36. C. Rosselli, Thesaurus artificiose memoriae. 37. Vienna, Österr. Nationalbibliothek, Cod. 5395; cfr. anche L. Volkmann, Ars memorativa e F.A. Yates, L’arte della memoria, pp. 100-101.
2. I PRESUPPOSTI DEI SISTEMI BRUNIANI
2.1. PREMESSA
L’utilità e l’efficacia della memoria delle cose è da sempre sotto gli occhi di tutti: ce lo ricorda Bruno all’inizio della terza parte del De umbris1 e ce lo ricordiamo anche noi, in prima persona, quando ci capita di smarrire la lista della spesa e di far ritorno a casa con poco più della metà delle cose che ci occorrevano, oppure quando rammentiamo l’appuntamento dato ad un amico solo un paio di ore dopo l’orario convenuto, nel momento in cui squilla il telefono ed il nostro amico, dall’altro capo della linea, ci pone di fronte all’alternativa tra una volgare ammissione di dimenticanza e l’invenzione dei pretesti più inverosimili a mo’ di scusa. Diverso il discorso per la memoria delle parole (vocum e terminorum). Sin dai tempi della pseudo-ciceroniana Ad Herennium i maestri di ars memoriae si sono sempre trovati, come abbiamo visto, nella condizione di insistere sull’importanza della memoria verborum, il che rende chiaramente manifesto l’esiguo numero di allievi di questi maestri disposti a spendere energie in tale tipo di pratica: Cicerone stesso nel De oratore afferma che la memoria delle parole è per lui meno utile rispetto a quella delle cose2 e la liquida con pochi cenni, molti trattatisti la ignorano in tutta tranquillità e i pochi che ne mostrano delle applicazioni possibili ne danno in genere un’esposizione frettolosa o basata su principi di dubbia efficacia. Bruno, dal canto suo, si trova in una situazione completamente diversa rispetto a tanti suoi predecessori, giacché il De umbris si occupa quasi esclusivamente di tecniche relative alla memoria delle parole e tocca in maniera assai marginale la memoria delle cose; alla memoria verborum sono infatti dedicate settanta delle ottanta pagine che compongono la terza parte dell’Ars memoriae, mentre la memoria rerum viene sbrigata nelle ultime quattro pagine della stessa parte.
Per giustificare una tale vastità di trattazione nell’economia del De umbris, Bruno spiega dettagliatamente quale sia il “campo d’azione” della memoria delle parole e di quali benefici essa sia apportatrice: la pratica della memoria verborum consente di migliorare la memoria a) (memorativa facultas) in generale, per quanto riguarda la prontezza del suo funzionamento; è, insomma, un buon allenamento per la mente; giova per il semplice fatto di essere ars difficilis: infatti se siamo in grado b) di sopportare cose più ardue, cessiamo di percepire le difficoltà delle fatiche minori. È chiaramente avvertibile, in questi primi due casi, l’eco delle raccomandazioni dell’autore dell’Ad Herennium3 ai propri allievi; ma andiamo avanti: ci aiuta a cercare la giusta espressione al presentarsi delle parole iniziali di un argomento o di una frase; serve per memorizzare quei nomi propri che non risultino essere d) immediatamente chiari ed evidenti, come i nomi latini delle erbe, degli alberi, dei minerali, dei semi; ci viene in aiuto qualora si presenti l’occasione di fare una citazione, o di e) pronunciare parole di cui non conosciamo affatto il significato, come le parole straniere.4 c)
Queste – e solamente queste – sono le applicazioni della memoria verborum; una pratica dunque non finalizzata alla memorizzazione di interi discorsi, poemi o trattati, bensì architettata allo scopo di conservare citazioni, classificazioni botaniche, parole straniere e cose simili, e basata su processi mentali che, a lungo andare, giovano anche alla memoria naturale e a quella delle cose. Non cumuli di immagini che soffocano anche ciò che potrebbe essere conservato grazie alla sola memoria naturale, come temevano i contemporanei di Cicerone; non una prassi priva di utilità pratica, come sospettava l’autore dell’Ad Herennium e neppure un sistema per creare le immagini preconfezionate di tutte le parole, come volevano alcuni maestri greci, sforzo questo considerato ridicolo tanto da Cicerone quanto dallo stesso Bruno5. Nulla di tutto ciò: il sistema, anzi, i sistemi proposti nel De umbris consentono di memorizzare agevolmente termini scientifici, parole straniere,
locuzioni e va perciò utilizzato solo nei casi in cui sia necessario ricordare una parola di uso non comune, ogniqualvolta si presenti la necessità di citarla in modo preciso e letterale. Sistemi di questo genere esistevano sicuramente già: abbiamo visto tutta la schiera dei cosiddetti “alfabeti visivi” che troviamo, ad esempio, nel Congestorium artificiosae memoriae di Johannes Romberch, datato 1520 e che sfruttano il principio della somiglianza tra forma fisica degli oggetti collocati a mo’ di immagine e forma delle lettere che si vogliono ricordare, oppure quelli basati sulla collocazione di oggetti la cui lettera iniziale sia la medesima che dobbiamo tenere a memoria. Facciamo ora alcuni esempi allo scopo di chiarire meglio i metodi – e gli inconvenienti – di questi sistemi: poniamo di voler ricordare la sigla dell’Unione Europea (UE); in base al primo principio avremo come immagine una cetra e un’àncora, immagini che hanno appunto una somiglianza fisica con le lettere U ed E; se adottiamo invece il secondo principio, allora potremmo collocare un’upupa ed un ermellino, oppure un uovo ed un elastico, oggetti le cui iniziali sono appunto U ed E. Il sistema, a tutta prima, sembra ben congegnato, poiché si basa su principi semplici e richiede la sola memorizzazione di poco più di una ventina di immagini, una per ciascuna lettera dell’alfabeto; tuttavia esso non è privo di inconvenienti che sorgono non appena le parole da memorizzare divengono molte, o sono molto lunghe o presentano più volte la medesima lettera, condizioni queste che portano a collocare e ricollocare sempre le stesse immagini, con il conseguente innalzamento del tasso antropico del sistema ed il rischio sempre maggiore di generare confusione al momento del recupero dell’informazione memorizzata. Ipotizzando, ad esempio, di voler memorizzare le seguenti tre parole: SALAMANDRA, PARANOMASIA, CANAPA siamo costretti ad utilizzare un totale di ventisette immagini (una per lettera) e a collocare per ben undici volte la medesima immagine per la lettera A. L’inconveniente può essere parzialmente aggirato con l’uso contemporaneo di più di un alfabeto visivo, ma da un lato il pericolo non viene completamente eliminato e dall’altro sussiste comunque un secondo problema, rappresentato dalla necessità di dover disporre di un locus per ciascuna immagine e quindi per ciascuna lettera: nel nostro ipotetico esempio dovremmo disporre di ventisette loci per la memorizzazione di tre sole parole. E a questo punto, potete starne certi, i detrattori di Cicerone, quelli col terrore dell’enorme cumulo di immagini che incombe sulla memoria naturale, farebbero sicuramente sentire la propria voce.
Una soluzione parziale al problema dell’economia dei luoghi l’aveva già offerta, come abbiamo visto, colui che Bruno considerava il proprio “maestro” di memoria, ovvero Pietro da Ravenna, quando nella Phoenix ci spiega come collocare nello stesso luogo ad esempio Eusebio e Tommaso, in modo che Eusebio tocchi il luogo e Tommaso stia di fronte a lui, per indicare la copula et, o Benedetto con delle rane per indicare la sillaba bra :6 dunque non più un luogo per ciascuna immagine, ma più immagini all’interno dello stesso luogo con una regola per definire l’ordine con cui collocare le immagini e successivamente recuperarle. Per il resto, l’alternativa appare insanabile: o un’immagine per ciascuna delle parole esistenti, il che, a detta di tutti è pura follia, oppure il rischio di precipitare nel caos di simboli di singole lettere che si aggregano, si disgregano, si mescolano, danzano e si confondono a vicenda nella mente del malcapitato artista della memoria che disperatamente cerca di ricordare. Bruno, dal canto suo, promette una via di uscita da questo vicolo cieco grazie ad un semplice – a suo dire, naturalmente! – sistema che consente da un lato di “poter avere delle immagini preparate”7 e dall’altro, sulla scia dello stratagemma di Pietro da Ravenna, di “apporre intere parole, di qualunque genere esse siano, in un singolo locus”8 e tutto questo non limitato alla sola lingua italiana, ma esteso anche al greco, all’ebraico e a tutte le lingue che da queste tre derivano. Magia? No, e vedremo quali siano i principi mnemonici e grammaticali su cui egli basa le proprie affermazioni.
2.2. UN ALFABETO PER (QUASI) TUTTE LE LINGUE Il primo problema che si pone di fronte ad un sistema che promette di poter memorizzare qualsiasi parola è quello della diversità di lingue e di alfabeti che l’erudito del Cinquecento, non meno di quello contemporaneo, si trova ad affrontare. Non basta infatti che il sistema funzioni con il latino, lingua ufficiale degli uomini di scienza, dei dottori e degli ecclesiastici, poiché ci si può imbattere in una parola in lingua greca o ebraica, o in una delle lingue volgari, sia essa l’italiano, il francese, lo spagnolo, oppure ancora in termini caldei, persiani… Qualcuno, a questo punto, potrebbe sollevare un’obiezione: perché cercare di ricordare, ad esempio, la parola “scala” in tedesco, o in greco, quando
posso tradurla in latino (o in italiano) e memorizzarla così in una lingua assai più familiare? La risposta ce l’ ha già fornita lo stesso Bruno: a volte, infatti, è necessario ricordare una parola di cui non si conosce affatto il significato, oppure una precisa locuzione, o ancora un “termine tecnico”, come diremmo oggi, che va memorizzato così come è, per poterlo poi citare nuovamente quando il discorso lo richieda. Inoltre non è sempre detto che in una lingua esista un termine corrispondente. Il termine internet, per fare un esempio più vicino ai giorni nostri, va citato così come è; e comunque, se pure volessimo tradurlo, la lingua italiana non sarebbe in grado di fornirci un sinonimo soffisfacente. Se, apparentemente, non ci sono problemi per le lingue romanze, resta il fatto che il greco e l’ebraico utilizzano dei simboli affatto diversi dal nostro alfabeto. Bruno, dal canto suo, risolve assai brevemente ed ingegnosamente tutta la questione: giacché quasi tutti i simboli di ciascuno dei tre alfabeti, latino, greco ed ebraico, per quanto diversi, hanno un corrispondente “fonetico” nelle altre due lingue (la lettera «a» latina “suona” come la «α» greca e la « » ebraica) è del tutto inutile crearsi dei “doppioni” di lettere, essendo sufficiente integrare l’alfabeto latino con quelle poche lettere greche ed ebraiche che nel latino non trovano corrispondenza. Il risultato è che per mezzo delle ventitré lettere latine A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z, le quattro greche Ψ Φ Ω Θ e le tre ebraiche per un totale di sole trenta lettere, si coprono tutte le parole pronunciabili (ed immaginabili) da un uomo di cultura del Cinquecento. Si badi bene: abbiamo detto “pronunciabili” e non “scrivibili”. Questa arte, infatti, essendo essenzialmente di tipo performativo, è finalizzata alla actio e, al pari delle artes memoriae classiche, fonda i propri principi più sulla somiglianza fonetica delle parole da memorizzare che sull’esatta precisione di scrittura alfabetica. Come l’ignoto autore della Ad Herennium suggeriva di usare Domizio per ricordare l’inizio dell’ormai noto verso: Iam domum itionem reges Atridae parant9 a causa della somiglianza fonetica con domum itionem, così Bruno estende questo principio e, da stratagemma episodico, lo pone alla base dei propri sistemi mnemonici: non ciò che si scrive e come lo si scrive, bensì ciò che si dice e come viene pronunciato è oggetto di memoria. Cadono così all’improvviso – ed è sicuramente il fatto più importante – tutte le barriere linguistiche: non importa più che la citazione, la classificazione botanica, il termine iperspecialistico siano in latino, in francese, in spagnolo o in
qualunque lingua conosciuta, giacché se posso pronunciarlo, posso memorizzarlo, e dovrò perciò imprimermi nella memoria solo quanto è necessario alla pronuncia; contemporaneamente a questa conquista si ottengono come corollari alcuni fatti che sono, se non proprio inattesi, perlomeno non immediatamente evidenti. Alcuni di essi, e lo vedremo subito, piuttosto piacevoli; altri, invece, quanto meno imbarazzanti.
2.3. CONSEGUENZE DEL PRINCIPIO FONETICO Un primo gradevole vantaggio consiste nel risparmio di una lettera ogni volta che la parola oggetto del nostro lavorio mnemonico presenta in successione le lettere «QU»: poiché, infatti, la lettera «Q» implica sempre la «U» nella propria pronuncia, diventa del tutto inutile porsi il problema della memorizzazione della «U». Come ci suggerisce ironicamente Bruno, ad un ipotetico venditore di lettere tornerebbe assai utile – e remunerativo – poter scrivere «Quinte, Quinte quare quadrum quintum quatis?», ma per chi le lettere le compra o, al di là dei paragoni commerciali, per colui che deve fare uno sforzo per ognuna delle lettere da ricordare, sarebbe sicuramente meglio scrivere «Qare Qinte qatis qadrum qintum?»10. Il secondo vantaggio, anche se assai meno frequente del primo, è dato dalla possibilità di usare lettere diverse da quelle presenti nella parola originale nel caso in cui essa sia, per un qualunque motivo, di ardua memorizzazione, e questo in base ad una identità o ad una qualche somiglianza fonetica. Facciamo un esempio pratico: la prima pratica di Bruno, come vedremo, è limitata a parole che siano formate da sillabe di non più di cinque lettere ciascuna; così, per momorizzare SCROBS, monosillabo di sei lettere, Bruno propone di utilizzare al suo posto SCROΨ, di cinque lettere, grazie alla sua somiglianza di pronuncia.11 Tale stratagemma ha, in questo caso, dei riflessi positivi anche sull’intera economia del sistema, giacché è, in genere, assai più frequente la collocazione di una B o di una S rispetto alla greca Ψ: in questo caso non solo posso usare una lettera al posto di due, ma, utilizzando una lettera sottoutilizzata – la Ψ appunto – allevio il carico complessivo di B e di S, così che non solo SCROΨ ne guadagna in memorabilità, ma anche tutte le parole in cui c’è una lettera B o una S o il gruppo BS.
2.4. FONETICA E DIPLOMAZIA Il principio dell’eliminazione nella scrittura interna delle lettere omesse nella pronuncia, idea geniale in sé, può tuttavia diventare un serio problema. Perché ciò accada dobbiamo trovarci nella condizione di avere a che fare con un idioma straniero che preveda molte lettere che vadano sì scritte ma non pronunciate. Ed è proprio quello che avviene – ironia della sorte! – con la lingua francese. E, in questo caso, il problema non è solo fonetico, ma diviene anche, per così dire, “diplomatico”. Con tutta la disponibilità di sovrani che c’era a quel tempo, il Bruno fa omaggio della propria opera, basata come abbiamo visto sulla pronuncia e non sulla scrittura dei termini, al re del paese in cui si parla una delle lingue che maggiormente mostrano questa discrepanza tra lettera scritta e lettera parlata, a causa della notevole esuberanza grafica del francese, esuberanza che rende assai arduo, per chi non sia un madrelingua, il riconoscimento delle lettere da pronunciare da quelle mute. Scherzi a parte, motivi per dedicare il De umbris ad Enrico III di Valois, il Bruno ne aveva più di uno, innanzitutto per gli interessi filosofici e letterari spiccatamente neoplatonici del sovrano e soprattutto perché, agli occhi del nolano, egli impersonava l’ideale del vero principe cristiano. In un’epoca in cui l’Europa era pervasa da lotte e travagli religiosi, al sommo pedante Lutero, identificato da Bruno nell’«angelo pernicioso» previsto dal Lamento di Ermete Trismegisto, ai puritani inglesi, a tutti quelli che, insomma, “remano contro”, il nolano oppone il modello politico di Enrico III. Nel 1584, due anni dopo averlo definito “generoso, potente e saggio” nella dedica del De umbris, scriverà nello Spaccio: “Questo Re cristianissimo, santo religioso, e puro può securamente dire: Termia cœlo manet, perché sa molto bene che è scritto Beati li pacifici, beati li quieti, beati li mondi di cuore, perché de loro è il regno de’ cieli. Ama la pace, conserva quanto si può in tranqullitade e devozione il suo popolo diletto; non gli piaceno gli rumori, strepiti e fragori di in strumenti marziali che administrano al cieco acquisto di instabili tirannie e principati de la terra; ma tutte le giustizie e santitadi che mostrano il diritto cammino al regno eterno. Non sperino gli arditi tempestosi e turbolenti spiriti di quei che sono a lui suggetti, che, mentre egli vivrà (a cui la tranquillità de l’animo non administra bellico furore), voglia porgerli aggiuto per cui non vanamente vadano a perturbar la pace d’altri paesi, con pretesto d’aggionger gli altri scettri ed altri corone; perché Termia cœlo manet […]. Tentino, dunque, altri
sopra il vacante regno lusitano; sieno solleciti altri verso il bellico dominio»12. Il sovrano di Francia riveste dunque il ruolo di uno strumento di pace religiosa e di pace con gli altri popoli, in aperta polemica con le pedanti polemiche luterane, che nulla arrecano se non divisioni e fratture, per non parlare delle politiche religiose spagnole e dei puritani inglesi.13 Motivi di tale importanza fanno sicuramente passare in secondo piano il problema della grafia della lingua francese. In ogni caso Bruno si affretta a fornire chiarimenti, quasi a mo’ di scusa, laddove afferma che “…i francesi […] non perché la loro lingua non sia rozza (!), ma a causa di non so quale uso o consuetudine ammettono l’uso di alcune lettere che vengono omesse nella pronuncia per distinguere le parole. A tal riguardo non vi è alcunché che ti possa creare problemi: la scrittura interna infatti non ne viene toccata e viene eseguita in relazione a ciò che va pronunciato, senza aggiungere quelle lettere di cui si è detto. Per quanto non mancano tra i francesi uomini d’ingegno affatto superficiale che cercano di liberare la scrittura della loro lingua da questa specie di condizione ingiusta arrecatale da una evidente mancanza di cultura”.14 I grammatici francesi apprezzati da Bruno (gli uomini “dall’ingegno affatto superficiale”) sono stati identificati da Rita Sturlese nelle figure di Jacques Peletier, autore del Dialogue de l’Ortografe e Prononciacion Françoese (Lione 1555), Johannes Garnerius, che nel 1558 aveva pubblicato la Institutio Gallicae linguae, Antonius Caucius, autore della Grammatica Gallica (Basilea 1570) e nel Brunot, a conferma del fatto che il problema del divario tra scrittura e pronuncia della lingua francese era avvertito non solo da un frate eccentrico, ma anche da diversi cenacoli intellettuali dell’epoca.
2.5. STRUTTURAZIONE DEI LOCI Esaminate le promesse e le premesse di Bruno, è ormai giunto il momento di verificare il funzionamento dei sistemi mnemonici del De umbris. Prima di proseguire, però, all’inizio della terza parte del De umbris, viene richiesto al discente, come imprescindibile premessa di un qualsiasi sistema mnemotecnico degno di tale nome, ancora uno sforzo, consistente nella formazione di un sistema ordinato di subiecta, ovvero di loci che dovranno accogliere le immagini, siano esse immagini rerum o verborum. A tal riguardo Bruno fornisce delle precise indicazioni: “Prendiamo ad esempio un
subiectum comune e cominciamo col suddividerlo nelle sue parti principali, che, almeno nel disegno di chi opera, si devono concatenare logicamente; queste parti principali più sopra sono state definite come subiecta più specifici. Poi si procede nella suddivisione, in modo che queste parti vengano a loro volta determinate e percepite in una successione ordinata che sostituisca la contiguità fisica, oltre a determinare convenzionalmente altre parti che sono i subiecta più specifici in assoluto e sono individuali, i quali vanno ingranditi in base alla dimensione dei subiecta più specifici e alla possibilità di potervi collocare agevolmente qualsiasi cosa capiti”15. Affinché questo passo possa essere comprensibile, esso va integrato con la classificazione dei subiecta operata da Bruno stesso nella Seconda Parte della ars memoriae del De umbris. “Un tipo di questi subiecta è assai comune, nel senso che può estendersi per tutto lo spazio che può essere abbracciato dalla fantasia, la quale è in grado di aumentare a piacere le dimensioni di un determinato cerchio, anche se non, ovviamente, di diminuirle all’infinito. Un altro è pure comune, in quanto formato dal cumulo delle regioni conosciute del mondo. Un altro ancora è meno comune, in quanto, diciamo così, politico, ovvero urbano. Un altro è specifico, se vuoi economico, nel senso che è racchiuso nello spazio domestico. Un altro è ancora più specifico, poiché formato da quattro o cinque elementi. Un altro poi è estremamente specifico, poiché costituito di un unico elemento, atomo ovviamente non in senso fisico, bensì ai fini della presente arte”16. Vediamo come vanno intese queste indicazioni: Come mostrato all’inizio della trattazione dei subiecta, questi sono ordinabili in un scala che parte dai subiecta più comuni, che, al limite, potrebbero consistere in tutte le parti conosciute del cosmo, ma in genere sono città o edifizi utilizzati come sistemi di loci ; all’altro estremo della scala troviamo i subiecta più specifici, quelli composti da quattro o cinque elementi (come stanze, contrassegnate da cinque luoghi, di cui quattro negli angoli e uno al centro, ma si potrebbe utilizzare anche la figura a) umana, sintetizzata nelle sue cinque estremità degli arti e del capo) o i subiecta “atomi”, così definiti non in senso fisico, ovviamente, ma perché formati di un solo elemento. L’idea di utilizzare stanze ciascuna organizzata in cinque loci come subiectum è derivata da trattati precedenti, in particolare in quello anonimo riportato in un manoscritto viennese della metà del secolo XV che abbiamo preso in esame nel corso della nostra analisi sui trattati rinascimentali.17
Si prende dunque un subiectum comune e lo si ripartisce nelle sue parti principali, che, a loro volta, vanno ulteriormente segmentate in modo da ottenere dei loci “atomi”, ovvero delle unità indivisibili; tutte queste parti, sia quelle principali, sia quelle “atome” dovranno essere percepite senza alcuna esitazione come succedentisi l’una all’altra, secondo un ordine reale o fittizio; non dovremo cioè avere dubbi sull’ordine delle stanze in cui abbiamo ripartito un edificio, né su quello dei loci all’interno di ciascuna stanza; poco importa se abbiamo aggiunto dei subiecta artificiali o abbiamo stravolto l’ordine di quelli reali: l’importante è che l’occhio dell’immaginazione possa vederli tutti e ordinati come loci reali: “Di qui si proceda nella suddivisione, così che queste parti [siano] percepite come confinanti l’una con l’altra e ordinatamente succedentisi l’una all’altra, in luogo della contiguità vera o positiva”18. Supponiamo, ad esempio, che vogliate utilizzare la vostra abitazione come sistema di loci; fisserete dunque un ordine delle stanze, magari iniziando dalla cucina, per poi passare al soggiorno, allo studio, al bagno ed infine alla camera da letto; è ovvio che tale ordine potrà essere del tutto arbitrario, giacché poco importa che tali stanze siano realmente disposte secondo questa successione o fra loro comunicanti: l’importante è che non abbiate alcun dubbio su questa successione da voi organizzata. Supponiamo poi che dividiate ognuna delle stanze in dieci subiecta “atomi”, come direbbe Bruno, segmentandole cioè in dieci luoghi: in cucina, ad esempio, il luogo n. 1 potrebbe essere la b) porta, il n. 2 il tavolo, il n. 3 il bidone dei rifiuti, il n. 4 il frigorifero, il n. 5 la finestra, e così via fino al luogo n. 10. A questo punto, per comodità e rapidità di ordinamento, potreste decidere di assegnare lo stesso numero di unità, cambiando ovviamente le decine, ai luoghi simili che si trovano in altre stanze. Per capirci: la cucina, abbiamo visto, contiene i luoghi dal n. 1 al n. 10, il soggiorno conterrà quelli dal n. 11 al n. 20, lo studio dal n. 21 al n. 30 e così via. Potrei decidere che la porta del soggiorno sia il luogo n. 1 del soggiorno stesso e che quella dello studio sia il luogo n.1 appunto dello studio, così che tutti i “numeri 1” 1, 11, 21, 31 siano porte; allo stesso modo tutti i numeri 5 (5, 15, 25, 35, etc.) saranno finestre. Supponiamo che la mia stanza da bagno sia priva di finestra: è a questo punto che può entrare in gioco la creazione artificiale dei luoghi, giacché, invece di assegnare il n. 35 ad un subiectum diverso dalla solita finestra, non faccio altro che collocare una finestra immaginaria. Allo stesso modo, se ho la necessità di aumentare il numero di loci, posso aumentare con l’immaginazione le stanze della mia casa; l’unica precauzione da tenere
sempre ben presente consiste nel ripercorrere mentalmente assai spesso i subiecta fittizi, come ci suggerisce Bruno: “Cosa impedisce infatti all’immaginazione di far svanire da qui i subiecta vecchi e sostituirli con altri costruiti da sé? Tuttavia questi non vengono posseduti con la medesima facilità con cui vengono formati; ad essi infatti bisogna applicarsi con il pensiero, tanto da farli diventare così consueti da non differire in nulla da quelli veri”.19 Questi loci “atomi” vanno ingranditi, allargati, aumentati di dimensioni fino a farli divenire dell’ordine di grandezza dei subiecta “più specifici”, ovvero di quelli formati da quattro–cinque elementi.20 Questa ulteriore trasformazione, a prima vista priva di senso, necessita di un chiarimento, dal momento che tanti studiosi ha tratto in inganno. Nella nostra ipotetica c) abitazione, il luogo n. 3 era rappresentato dal bidone dei rifiuti (spero mi si vorrà perdonare l’utilizzo di un così poco nobile subiectum); se le immagini di memoria fossero sempre poche piccole formae, non si porrebbe mai alcun problema di spazio; disgraziatamente, nella seconda pratica ci imbatteremo anche in adiecta della seguente complessità: Apis tesse un tappeto, vestito di stracci, con ceppi ai piedi. Sullo sfondo una donna che protende le mani, a cavallo di un’ idra dalle molte teste. Il che, come potete ben immaginare, ben difficilmente può accadere dentro un bidone lungo 30 largo 40 ed alto 50 centimetri. Perciò i loci andranno fatti “a misura di scena”, in modo che ognuno di essi possa contenere un piccolo quadretto di memoria, una mini-storia. Nulla vieta l’utilizzo di un interruttore, di un vaso, di un tagliacarte o di un posacenere come loci: l’importante è che essi possano fungere da scena, da contenitori per l’immagine e che quindi siano ingranditi fino alle dimensioni di una stanza, o, perlomeno, in misura tale che azioni come quella appena presa in esame possano svolgersi agevolmente al loro interno.
2.6. VERIFICA DELL’EFFICIENZA DEI LOCI Allo scopo di fugare eventuali dubbi e scetticismi sull’effettivo funzionamento dei loci, Bruno propone di “esperimentare” il sistema appena approntato:
“Dopo che avrai disposto il tutto in questa maniera e ti sarai assicurato di conoscerlo a memoria senza indugio, procurati un elenco di diversi oggetti sensibili, prima di venticinque elementi, poi di cinquanta, poi ancora di cento, in modo da procurarti la conoscenza desiderata a poco a poco grazie all’esercizio, poiché ci si accorgerà benissimo di come le cose il cui ordine supplisce alla memoria naturale, grazie ai subiecta per mezzo dei quali sono ordinate e collocate, si presenteranno in maniera non meno ordinata che se fossero scritte su una pagina, così da poter andare con la stessa facilità dalla prima all’ultima e dall’ultima alla prima, e parimenti invertire a piacere l’ordine di ciò che va ripetuto, grazie all’evidenza sensibile dei loci”21. Troviamo qui condensata, in sole due pagine, tutta l’ars memoriae classica, perlomeno quella di Simonide, della Ad Herennium, di Cicerone e di Quintiliano. Questa grande tradizione, questa mirabile pratica tramandata per secoli diviene nel De umbris null’altro che una premessa, un modo per verificare la validità delle basi del sistema, un esercizio preparatorio alle pratiche ben più ardite che stanno per esserci svelate. Se ciò è vero, ha ben ragione Ermete, nel dialogo che apre il De umbris, a domandarsi se questo libro debba davvero essere pubblicato o piuttosto rimanere per sempre celato nelle tenebre.22 Ed ha ragione anche Bruno, quando chiede al dedicatario Enrico III di Valois di accettare il libro con animo benigno, proteggerlo con grande favore e – soprattutto – di valutarlo con maturo giudizio.23
NOTE 1. De umbris, 152: “Adest ergo duplicis generis memoria, terminorum videlicet atque rerum; quorum haec simpliciter admittit necessitatem”. 2. De oratore II, LXXXVIII, 359: “Verborum memoria, quae minus est nobis necessaria…” e oltre: “Rerum memoria propria est oratoris”. 3. Cfr. qui al cap. 1.2.4. 4. De umbris, 152. 5. Cfr. De umbris, 155: “Qui per primus apparet hanc artem transtulisse a Graecis ad Latinos, deridet Graecorum quorundam studium verborum imagines conscribere volentium, atque ita eas sibi parare, ut cum opportunae fuerint, in inquisendo tempus non consumetur”. 6. Cfr. qui al cap. 1.4.4. 7. De umbris, 155. 8. Ibid. “Atqui nobis non solum possibile sed et facile compertum est posse apparatas haberi imagines, quibus singulis quibusque locis cuiuscumque generis terminos integros apponamus”. 9. Ad Herennium III, XXI, 34. 10. De umbris, 172. La frase, quasi uno scioglilingua, significa letteralmente: “Quinto, Quinto, perché scuoti il quinto quadro?”. Tale frase non si ritrova altrove, né in raccolte di proverbi, né intesti di grammatica o altro ed è probabilmente inventata sul momento da Bruno per mostrare un caso-limite nel quale l’applicazione del principio di riduzione del gruppo QU permette in un solo colpo l’eliminazione di ben sei lettere. 11. Ibid. 171. 12. Spaccio, 826-827. 13. Per una trattazione più ampia del rapporto tra Bruno e le politica religiosa del suo tempo si confrontino anche La ruota del tempo di Michele Ciliberto e La cabala dell’asino di Nuccio Ordine. 14. De umbris, 169. 15. De umbris, 150. 16. Ibid. 108. 17. Cfr. qui al cap. 1.5.1. 18. De umbris, 150. 19. De umbris, 114. 20. Ibid. 150. 21. De umbris, 151. 22. Ibid. 9. 23. Ibid. 2.
3. MEMORIA VOCUM LE IMMAGINI DELLA PRIMA PRATICA
3.1. INTRODUZIONE Dopo tutte queste premesse, Bruno procede in maniera estremamente sistematica ed inizia a costruire, un mattone dopo l’altro, il suo possente edificio mnemonico. Tanto la prima quanto la seconda pratica di cui consta l’Ars memoriae si occupano di memoria delle parole; in particolare la prima pratica, che ora andiamo ad esaminare, tratta della memorizzazione delle voces, dei suoni, ovvero delle singole sillabe. Prima praxis quae vocum est scrive il Bruno a mo’ di titolo; si tratta di una pratica che può essere utilizzata in più di un modo, sia come sistema propedeutico alla memorizzazione di intere parole, tecnica questa che verrà trattata nella seconda pratica, sia come sistema autonomo, per poter ricordare brevi parole monosillabiche; oppure, ancora, lo si può utilizzare in maniera multipla per formare immagini di parole composte da più di una sillaba, anche se un tale uso, come vedremo, non verrà incoraggiato da Bruno, trattandosi di una pratica assai poco economica.
3.2. ALLESTIMENTO DEL SISTEMA “Ad ordinatam parandam exercitationem, primo elementorum prompta habeatur concepito, elementorum, inquam, illis adiectibilibus explicabilium, quae ad omnes producendas actiones necton ad passiones omnes recipienda sunt aptissima”.1 Il fraintendimento di questa frase introduttiva, posta all’inizio della prima pratica, ha portato al fallimento di più di una interpretazione, dalla fumosa versione di Gabriele La Porta: “Per preparare un’ordinata esercitazione dapprima si ha un’istantanea concenzione degli elementi (?): parlo di quegli elementi spiegabili con quegli aggiunti che sono assai adatti a produrre tutte le azioni e a non accogliere (sic!) tutte le passioni”2, a quella assai più corretta
grammaticalmente, ma altrettanto incomprensibile di Manuela Maddamma: “Per preparare un esercizio ben ordinato, in primo luogo si disponga con prontezza d’un insieme di elementi, di elementi, dico, esplicabili con quegli [elementi] aggiungibili, che sono adatti a produrre tutte le azioni, ed anche ad accogliere tutte le passioni”3. Il termine-chiave di questa frase è concepito, che in prima istanza significa sicuramente “insieme”, ma che, in un contesto di tipo grammaticale come è questo indica semplicemente una “sillaba”; il termine era di uso corrente nei manuali di grammatica ed era stato introdotto per la prima volta da Charisius, grammatico del IV secolo. Andiamo ora a rileggerci la frase: “Per poterci esercitare in modo graduale, si comincia col prendere una sillaba composta da lettere; da lettere, intendo, tali da poter essere espresse da adiecta che siano adatti tanto a fare quanto a subire qualsiasi azione”. Quali siano gli “adiecta adatti tanto a fare quanto a subire qualsiasi azione” ce l’ha già detto Bruno nella sezione dedicata alle caratteristiche degli adiecta : “Alcuni di essi sono animati e possono quindi aggiungersi come strumenti, agenti, adiecta adiacenti o effetti; altri sono inanimati e sono di tal fatta che si aggiungono solamente come strumenti, adiacenti o effetti. Alcuni di quelli animati sono dotati di ragione e sono perciò adatti ad agire e a subire qualsiasi cosa, oltre a poter rimanere neutri (cioè né agire né subire). Altri sono privi di ragione e a questi – come è ovvio – in generale le parole si addicono poco”4. Il senso della frase a questo punto è chiaro: iniziamo ad esercitarci con delle sillabe, imparando ad averle promptae, cioè a memorizzarle perfettamente, così da poterle citare in maniera esatta come se le stessimo leggendo su di una pagina, il che sarà reso possibile dall’associare ciascuna lettera ad un adiectum animato dotato di ragione, cioè ad una persona.
3.3. IL PRINCIPIO DELLA ASSOCIAZIONE ARBITRARIA Procediamo: “Fra questi adiecta si scelgano i trenta più correlati alle tue conoscenze allo scopo di rappresentare le trenta lettere che coprono l’intero numero di quelle che servono a produrre tutti i suoni di tre diverse lingue”5. Abbiamo già spiegato6 come Bruno utilizzi le ventitré lettere latine integrate da quattro greche e tre ebraiche per rappresentare tutti i suoni pronunciabili nelle tre lingue ed in quelle da esse derivate; si tratta di realizzare una correlazione
tra ognuna di queste trenta lettere ed i trenta personaggi a noi più noti e familiari. Per rendere più viva l’immagine, ciascun personaggio andrà immaginato mentre svolge la sua azione peculiare: se cioè usiamo come immagine un nostro amico flautista, lo immagineremo nell’atto di suonare il proprio strumento; se un vigile urbano, mentre dirige il traffico; se un cuoco, mentre è intento a preparare un succulento pranzo, e così via. In base a quale criterio va operata la correlazione? “Non si richiede necessariamente che la prima lettera del nome dell’agente o dell’azione sia la stessa che si vuole esprimere: basta infatti stabilire che entrambi indichino quella determinata lettera”7. È questa una caratteristica rivoluzionaria che svincola Bruno dagli alfabeti visivi usati da Romberch, da Rosselli o dal suo maestro Pietro da Ravenna: la presa di coscienza, cioè, e l’introduzione sistematica del principio di arbitrarietà e della soggettività delle associazioni di memoria. La lettera A, per esempio, ci fa venire in mente il verso “aaaah” che facciamo quando il dottore esamina la nostra gola. Benissimo: associo la A a Renato, il mio medico di famiglia, nell’atto di esaminare un paziente. Tanto l’agente “Renato” quanto l’azione “esaminare un paziente” saranno sempre collegati alla lettera A. Nulla vieta di continuare ad usare i vecchi alfabeti visivi o la corrispondenza della prima lettera del nome proprio con la lettera da memorizzare: semplicemente Bruno mostra qui un’altra strada, una ulteriore possibilità per nulla vincolante, ma con caratteristiche notevoli che non sono state ancora esaminate a fondo.
3.4. LE IMMAGINI DEGLI AGENTES Fermo restando che ognuno correlerà i personaggi e le loro azioni assimilate alle lettere dell’alfabeto come meglio riterrà opportuno, Bruno allega una serie completa di trenta personaggi, ciascuno mentre svolge la propria azione specifica, così da avere un agens ed una appropriata operatio, cioè qualcuno ben definito che compie una sua azione specifica per ciascuna lettera. L’elenco è presentato con queste parole: “Tu disporrai e stabilirai nel modo che ti sembrerà più opportuno; noi intanto rappresentiamo gli agenti e le azioni con immagini di questo genere”8. Le opinioni degli studiosi riguardo agli elenchi di immagini del De umbris sono in genere raggruppabili in due poli, tra loro opposti: da un lato quelli che, sulla scia della Yates, hanno attribuito alle immagini un valore assoluto, mistico, astrale, di immagini-archetipe della
memoria, senza però fornire alcuna spiegazione in merito a siffatta interpretazione o – peggio ancora – perdendosi in considerazioni estremamente fumose9. Altri, all’opposto, hanno invece fatto notare come Bruno stesso non desse in fondo grande importanza agli elenchi di immagini da lui riportati, soprattutto a quelli della seconda pratica ed hanno perciò sbrigato in fretta il problema, affermando che, in fin dei conti, dal momento che la correlazione significante-significato tra immagini e lettere deve funzionare in modo personale ed affettivo per ciascuno di noi, evidentemente tali immagini funzionavano per Bruno e solo per lui; gli elenchi forniti sarebbero così null’altro che una frettolosa compilazione realizzata più che altro per completezza o addirittura per esigenze di carattere tipografico. Andiamo a vedere in dettaglio l’elenco di Bruno: a sinistra è riportato l’agens, al centro l’azione specifica, a destra la coppia di lettere gemelle alle quali agens e azione si riferiscono. Licaone Deucalione Apollo Argo Arcade Cadmo Semele Eco Il nocchiero tirreno Piramo Mineide Perseo Atlante Plutone Ciane Aracne Nettuno Pallade Giasone Medea
nel banchetto nelle pietre in Pitone nella giovenca in Callisto nella semina dei denti nel parto in Narciso in Bacco fanciullo nel pugnale nel lavoro della lana nella testa di Medusa nel cielo in Proserpina nello stagno nella tela nel cavallo nell’ulivo nei tori nella pentola di Esone
AA BB CC DD EE FF GG HH II KK LL MM NN OO PP QQ RR SS TT VV
Teseo La figlia di Niso Dedalo Ercole Orfeo Ciconi Esaco Memnone Arione Glauco
in Scirone nei capelli del padre nella costruzione delle ali in Anteo nella lira in Orfeo nella caduta nel luogo di sepoltura nei delfini nell’erba
XX YY ZZ ΨΨ ΦΦ ΩΩ ΘΘ
Da dove ricava Bruno tali immagini? “Era ben naturale, in piena rinascenza, che la mitologia li fornisse, e da essa li toglie Bruno come Apollo, Orfeo, Dedalo, Teseo, e così di seguito”. Così alla fine del secolo scorso, Felice Tocco10 liquidava brevemente la questione: un arbitrario pot-pourri di personaggi mitologici, un calderone di eroi dell’antico mondo greco, che altro poteva offrire il Rinascimento a Giordano Bruno? In realtà, a ben guardare, si tratta di una lista per nulla casuale, giacché esiste un testo nel quale tutti i personaggi elencati e le loro gesta specifiche sono ordinatamente elencati: le Metamorfosi di Ovidio. Cerchiamo ora di rispondere a due domande: perché proprio la mitologia? E perché, fra tutte le opere a soggetto mitologico proprio le Metamorfosi? Se Bruno avesse optato per un insieme di persone comuni conosciute da lui – e solo da lui – allora l’apposizione di un elenco completo, come quello da lui riportato, non sarebbe stato di alcuna utilità né per i suoi lettori contemporanei né, a maggior ragione, per noi che leggiamo il testo a distanza di quattro secoli. In un caso del genere non gli sarebbe rimasto altro da fare se non fornire un paio di esempi al massimo, come fa Pietro da Ravenna quando ci dice che “al posto di una pulce ho collocato [più di una volta] il Maestro Gherardo Veronese, il più valido medico fra tutti quelli del nostro tempo, poiché una volta lo vidi mentre afferrava una pulce”11. Esempio in sé ineccepibile, tranne per il fatto che Maestro Gherardo Veronese è conosciuto solamente da Pietro da Ravenna e probabilmente lui solo o pochi altri suoi pazienti l’hanno potuto scorgere nell’atto di afferrare una pulce. Allora, si potrebbe obiettare, Bruno avrebbe potuto utilizzare persone in
carne ed ossa famose, conosciute da tutti, come il papa, un re, un principe, e così via, allo scopo di rendere utilizzabile per tutti i lettori l’elenco fornito. Una scelta del genere avrebbe però comportato almeno tre inconvenienti: innanzitutto si potrà anche aver visto una volta il papa, ma è ben difficile che si abbia una conoscenza diretta di una trentina di regnanti, il che comporta immediatamente la seconda difficoltà, rappresentata dal fatto che di tali personaggi si sarebbe avuta una rappresentazione generica, stereotipata, con un investimento “affettivo” scarso o addirittura nullo; ciò, come ben si intuisce, avrebbe condotto all’immediata compromissione del rapporto di corrispondenza univoca tra un singolo agens ed una singola lettera dell’alfabeto. La terza ed ancora più grave difficoltà sarebbe sorta al momento dell’introduzione della azione peculiare dei soggetti; giacché assai probabilmente ci aspettiamo che tutti i regnanti, fatta eccezione per un qualche atto eroico o alcune gesta memorabili, facciano più o meno le stesse cose, compiano cioè le medesime azioni che, nelle raffigurazioni dell’epoca, si riducono alla buona amministrazione del regno, a qualche atto pio o alla vittoria di qualche guerra; a questo punto, quindi, addio correlazione. Semmai una scelta del genere potrebbe funzionare oggi, nella nostra cultura globale dei mass-media, magari con l’utilizzo dei vip dello spettacolo, del cinema o della televisione come agentes, giacché, grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione, i loro volti, il loro carattere, la loro vita privata e le loro “gesta” sono noti a tutti: so benissimo che la sola idea di utilizzare Mike Buongiorno nell’atto di compiere una delle sue gaffe al posto, per esempio, di Apollo che lotta con il pitone fa venire i brividi, però è innegabile che un personaggio di tal sorta sarebbe conosciuto da qualsiasi lettore contemporaneo di un trattato di mnemotecnica, di qualsiasi estrazione culturale egli fosse; inoltre l’azione della gaffe risulterebbe sempre riferibile con estrema sicurezza a Mike Buongiorno, senza la benché minima esitazione. Ma Bruno, bontà sua, la televisione non l’aveva e doveva scegliere una strada diversa per poter coniugare due esigenze tra loro complementari anche se opposte, ovvero quella dell’utilizzo di agentes noti a tutti i lettori e quella della possibilità che i lettori potessero instaurare con tali agentes un rapporto di “affettività”, così da sentire le immagini come proprie. Il fatto è che ciascuna delle due condizioni sembra escludere automaticamente l’altra: se io uso immagini di persone a me note, queste saranno inutilizzabili per la maggior parte delle altre persone, a meno che il mio trattato di ars memorativa non circoli solo tra una ristretta cerchia di amici; se invece i personaggi sono noti, famosi, conosciuti, essi saranno sicuramente ritratti in
maniera generica e quindi anonima. La mitologia, a questo punto, offre a Bruno una possibilità per uscire da questo vicolo cieco. I personaggi mitologici presentano, a differenza degli altri, alcuni vantaggi e rispondono a diverse esigenze. Innanzitutto gli eroi del mito, con le loro gesta, sono conosciuti da tutti, fanno cioè parte di una memoria collettiva della nostra cultura occidentale: non esiste lettore colto a cui Orfeo sia sconosciuto o per il quale l’associazione Orphaeus in lyram possa risultare incomprensibile. Si tratta quindi di personaggi noti, ma non solo: per la loro stessa natura sono sicuramente i più “adatti tanto a fare quanto a subire qualsiasi azione” come raccomanda Bruno all’inizio della prima pratica12. Solo a loro possono capitare cose straordinarie, incredibili, fuori dal comune: Glauco che mangiando l’erba si trasforma in pesce; Aracne mostruosamente mutata in ragno; Ciane che viene liquefatta in uno stagno; Eco, di cui rimane solo il suono della voce. Non azioni normali, quotidiane, dozzinali, ma trasmutazioni straordinarie, gesta eclatanti ed estremamente varie e differenziate, in virtù delle quali questi personaggi sono divenuti famosi e memorabili nei secoli come coloro che hanno compiuto quella certa azione. Aracne è colei che è stata trasmutata in ragno da Minerva: tutto il resto scompare, tutte le altre azioni da lei compiute si perdono: rimane solo la memorabilità della sua prodigiosa abilità nel tessere. Se l’azione “esaminare un paziente” potrà essere da me connessa, come abbiamo visto, al mio medico Renato, tuttavia non è automatico che ciò possa funzionare anche per gli altri lettori; i denti del drago seminati, invece, verranno correlati da tutti a Cadmo, la tela farà sempre venire in mente Aracne, le pietre scagliate che divengono uomini ci faranno sempre associare automaticamente Deucalione. Non solo: “esaminare un paziente” è un’azione che possiamo immaginare senza caricarla di una particolare valenza emotiva, ma non possiamo non essere smossi dal tragico rapimento di Proserpina, da Perseo che se ne va in giro con la testa di Medusa sullo scudo a pietrificare la gente o dalla epica lotta tra Apollo ed il pitone. Non sono vuote astrazioni o intricati ed aridi ragionamenti: la nostra immaginazione non può non farci vedere Aracne alla quale cadono capelli, naso, orecchie, si rimpiccioliscono la testa e tutte le membra, e le esili ed agili dita s’attaccano ai fianchi: un’immagine del genere non può non restare impressa in maniera forte e permanente nella nostra memoria. Di tutte le “storie mitologiche” circolanti in Europa alla fine del XVI secolo, Bruno sceglie di utilizzare le Metamorfosi, poiché rappresentavano il testo
sicuramente più diffuso nel loro genere, e lo erano fin dal Medioevo, motivo per il quale avevano avuto ben modo di radicarsi nell’immaginario collettivo. Inoltre, fra tutti i paesi europei, la Francia era forse quello che meglio le aveva accolte e diffuse: quale scelta migliore, quindi, per un’opera da pubblicare nella Parigi nel 1582? Ma non basta: per il lettore “colto” del tempo (e quale lettore del De umbris non lo era?) l’elenco di agentes mitologici presentava un ulteriore vantaggio mnemonico, giacché i personaggi ovidiani vengono ordinati da Bruno in base alla medesima successione con la quale si trovano nelle Metamorfosi, e non vi è alcun dubbio che il lettore del tempo potesse e dovesse cogliere tale ordine, senza che Bruno senta il bisogno né di citare la sua fonte, né tanto meno di far notare la corrispondenza dell’ordinamento. Per fare un esempio a noi più familiare, se Bruno avesse iniziato la propria carrellata di personaggi con Virgilio e avesse proseguito con Caronte, Minosse, Francesca da Rimini, Cerbero e Ciacco, nessun lettore colto contemporaneo faticherebbe a riferire tale elenco all’Inferno dantesco e la logica successione di tali personaggi gli fornirebbe un puntello mnemonico in più. Ma si tratta di un puntello e nulla più: sbaglierebbe chi ritenesse che tale successione possa funzionare da sola come riferimento di memoria, che si possa cioè ricavare la corrispondenza tra Atlante e la lettera N, per il fatto che nel testo ovidiano Atlante viene dopo Tirreno, Piramo, Mineide e Perseo: un siffatto ragionamento è troppo lungo e macchinoso per un sistema mnemonico performativo che abbia la pretesa di poter funzionare “in tempo reale”. L’ordine può invece dare una mano, può coadiuvare in alcuni casi particolari; supponiamo ad esempio di non ricordare a quale lettera sia correlata Semele: ci ricordiamo però che Cadmo è connesso alla lettera F; sappiamo pure che Ovidio narra di Cadmo che semina i denti del drago nel Terzo Libro delle Metamorfosi ai versi 99 e seguenti, mentre l’inusuale parto di Semele è descritto sempre nel Terzo Libro, ma più avanti, attorno al verso 300, perciò ne traggo che Semele significa la lettera G. Vediamo ora in successione tale corrispondenza tra agentes, actiones, lettere associate e passi ovidiani: Licaone Deucalione Apollo
nel banchetto nelle pietre in Pitone
AA BB CC
I, I, I,
196 313 438
Argo Arcade Cadmo Semele Eco Il nocchiero Tirreno Piramo Mineide Perseo Atlante Plutone Ciane Aracne Nettuno Pallade Giasone Medea Teseo La figlia di Niso Dedalo Ercole Orfeo i Ciconi Esaco Memnone Arione Glauco
nella giovenca in Callisto nella semina dei denti nel parto in Narciso in Bacco fanciullo nel pugnale nel lavoro della lana nella testa di Medusa nel cielo in Proserpina nello stagno nella tela nel cavallo nell’ulivo nei tori nella pentola di Esone in Scirone nei capelli del padre nella costruz. delle ali in Anteo nella lira in Orfeo nel precipizio nel luogo di sepoltura nei delfini nell’erba
DD EE FF GG HH II KK LL MM NN OO PP QQ RR SS TT VV XX YY ZZ ΨΨ ΦΦ ΩΩ ΘΘ
I, II, III, III, III, III, IV, IV, IV, IV, V, V, VI, VI, VI, VII, VII, VII, VIII, VIII, IX, X, XI, XI, XIII, 13 XIII,
601 496 99 273 344 629 55 389 612 644 385 425 1 75 78 100 220 443 81 183 1 1 1 762 576 917
Oltre all’ordinata successione, l’elenco bruniano mostra, qua e là, anche delle correlazioni accessorie, dei puntelli mnemonici aggiuntivi di vario tipo, in una gamma cha va dai chiari riferimenti visivi, alle corrispondenze tra lettere, fino alle successioni logiche. Vediamole una ad una, cominciando dai riferimenti visivi:
– C: questa lettera è raffigurata da Apollo che combatte con il pitone e la lettera C è quella che più assomiglia ad un serpente. – D: la lettera D ricorda nella forma un aratro e, per associazione, il bovem di Argo. – O: la O, lo zero, il nulla; quale lettera si poteva riferire meglio di questa a Plutone, il re degli inferi? – Q: guardiamola bene: non è molto difforme da un ragno che tesse la tela; e allora perché non correlarla ad Aracne? – R: mettiamogli un’ala sulla testa e diventa il cavallo di Nettuno visto di fianco. – V: oppure U a seconda dei casi: quale lettera migliore da effigiare con una pentola? – Y: immaginate di osservare da dietro una ragazza con i capelli raccolti in una treccia e diventa chiaro perché Bruno ha scelto di correlare questa lettera alla figlia di Niso nei capelli del padre. – Z: associata per la sua forma all’ala di Dedalo. – Φ: la somiglianza tra questa lettera e la lira di Orfeo non ha bisogno di alcun commento. – : quasi un’icona dell’erba che costrinse Glauco a divenire abitante del mare14. Corrispondenze di lettere: – L: Mineide nel lanificio. – M: Perseo nella testa di Medusa. – T: Giasone nei tori. Successioni logiche: – V: la lettera T si riferisce a Giasone; è allora logico correlare la successiva V a Medea. – Ω: la precedente lettera Φ si riferisce ad Orfeo; questa denota i Ciconi, le cui donne riservarono ad Orfeo una accoglienza per nulla gradevole15. Se a distanza di più di quattrocento anni riusciamo ancora a ravvisare tali corrispondenze, è facile pensare che il lettore contemporaneo riuscisse a coglierne ancora di più; e anche dopo tutte queste correlazioni, successioni,
somiglianze e rimandi, Bruno non obbliga a seguire il “suo” elenco che, in fin dei conti, potrebbe essere funzionale per lui solo e per nessun altro, giacché il lettore è lasciato libero, anzi è addirittura incoraggiato a formarsi propri elenchi di personaggi ed azioni e ad istituire le migliori connessioni possibili tra di essi. Come dire: “Pruovi, se sa” altra strada, poiché noi meglio di così non potemmo mostrare.
3.5. IL RUOLO DELLE APPROPRIATAE OPERATIONES Ciascuno degli agentes ovidiani, abbiamo visto, non è raffigurato staticamente, ma all’opera, e non in un’impresa casuale, bensì coinvolto nell’azione straordinaria che l’ha reso mitico, nella sua appropriata operatio. L’accostamento tra agens e appropriata operatio è, a quanto ne sappiamo, un’invenzione mnemonica di Bruno; molti prima di lui avevano suggerito di utilizzare persone ben conosciute come immagini di memoria, e di raffigurarle intente a fare qualcosa di strano, di particolare, di buffo, o di orrendo: l’importante è che l’azione fosse memorabile. Non discutiamo, naturalmente, riguardo all’efficacia di messinscena di questo genere, giacché si tratta di stratagemmi che hanno sempre funzionato, dalla Ad Herennium ai nostri giorni; vogliamo invece far semplicemente notare come tali associazioni possano sempre presentare un piccolo rischio latente, giacché consistono, a conti fatti, di accostamenti incidentali, artificiali ed in quanto tali esiste l’eventualità che personaggi ed azioni possano scambiarsi, mescolarsi, invertirsi nella nostra mente nel momento in cui andiamo alla ricerca di una precisa informazione che avevamo in precedenza affidato a loro. Accostando invece ad un personaggio la propria, peculiare azione specifica, agens e actio si rafforzano l’un l’altro; vediamo come, facendo qualche esempio. Plutone è connesso alla lettera O; ovviamente anche Proserpina, la fanciulla da lui rapita per farne regina dell’Ade, è connessa alla stessa lettera. Dal momento che la prima pratica, come vedremo nel paragrafo dedicato al suo funzionamento, prevede la rappresentazione di ciascuna delle lettere della sillaba da memorizzare per mezzo di una di queste liste di immagini – gli agentes per la prima lettera della sillaba, le operationes per la seconda – il sistema funziona egregiamente come un doppio rimando: non importa che io mi ricordi quale lettera sia rappresentata da Proserpina, dal momento che è
sufficiente che io mi ricordi la connessione tra la lettera O e Plutone e che vada a ripescare nel mio patrimonio culturale di uomo occidentale la storia del rapimento di Proserpina, così da associare immediatamente Proserpina a Plutone e quindi alla lettera O. Riprendendo il parallelo precedentemente utilizzato tra Metamorfosi e Inferno dantesco, mentre là si utilizza l’associazione tra agens ed appropriata operatio, qui si potrebbe usare quella tra dannato e pena relativa, per cui, se ho associato la lettera G, ad esempio, a Farinata degli Uberti, la medesima lettera G sarà connessa alla tomba infuocata, e non mi dovrò preoccupare di memorizzare saldamente questa ultima connessione, poiché “tomba infuocata” mi farà sempre venire in mente Farinata e quindi lettera G: Con questo triplice sistema di rimandi tra agens e lettera, operatio e lettera, agens ed operatio, si ottiene una compattezza del sistema incomparabilmente superiore rispetto a qualsiasi tipo di associazione liberamente lasciata alla discrezione del lettore, quelle, per capirci, alla Ad Herennium o alla Pietro da Ravenna. Ma non solo: l’appropriata operatio svolge anche, come abbiamo visto, il compito di determinare meglio la raffigurazione del personaggio, che in questo modo non viene ritratto in maniera statica e quindi mnemonicamente debole. Noi vediamo Deucalione mentre lancia i sassi e ne sorgono uomini; vediamo Eco che corteggia disperatamente Narciso, o Esaco che si lancia a precipizio, inorridiamo alla vista dell’empio banchetto di Licaone. Ed il principio dell’affettività delle immagini di memoria è in tal modo pienamente rispettato. Di più, in virtù di tale azione specifica, noi sappiamo quale preciso passo delle Metamorfosi utilizzare e, di conseguenza, come si debbano raffigurare concretamente gli agentes, oltre a poter essere sempre in grado di ricostruire il loro ordine, la loro successione. Apollo da solo non mi dice nulla, rimane troppo vago, giacché si tratta di un dio coinvolto in due metamorfosi, in una decina di flirts ed in altrettanti miti diversi. Quale è quello buono? È l’appropriata operatio a suggerirmelo: in pitonem mi dice chiaramente che si tratta della scena di Met. I, 438 nella quale Apollo uccide il serpente con mille frecce scoccate dal suo arco, e non, invece, la storia del suo amore con Coronide che portò alla morte della fanciulla, alla nascita prematura di Esculapio e a far sì che il corvo, uccello spione, fosse mutato, da bianco che era, a completamente nero per punizione del dio; e neppure si può trattare di uno degli altri passi delle Metamorfosi – e sono più di venti – in cui il dio svolge un ruolo importante. In questo modo io so anche la storia dell’uccisione del serpente, animale generato dal fango del diluvio, deve
trovarsi subito dopo quella di Deucalione, e perciò, essendo “Deucalione nei sassi” connesso alla lettera B, “Apollo nel pitone” mi indicherà senza ombra di dubbio la seguente lettera C. Oltre a tutto questo, esiste, secondo noi, un’ulteriore vantaggio che nessuno ha finora messo in luce. Tutte le azioni tratte dalle Metamorfosi ed utilizzate da Bruno per rappresentare le lettere dell’alfabeto sono la causa di una trasmutazione, di una metamorfosi appunto. Prendiamole in esame una alla volta: – A: Licaone imbandisce un banchetto di membra umane e Giove, dopo avergli fatto crollare la casa, lo muta in lupo. – B: Deucalione, rimasto solo con Pirra dopo il diluvio, scaglia dietro di sé delle pietre che divengono uomini. – C: il Pitone si scioglie nel veleno uscito dalle sue stesse ferite procurategli dall’arco di Apollo. – D: Argo, messo a guardia di Io mutata in giovenca, è ucciso da Mercurio e Giunone ne fissa i cento occhi sulle penne del pavone, uccello a lei sacro. – E: Callisto, mutata da Giunone in orsa, sta per essere uccisa dal figlio Arcade quando Giove interviene, li solleva in aria e li colloca in cielo, facendone due costellazioni vicine. – F: Cadmo, ucciso il serpente, ne semina i denti da cui nascono guerrieri armati di tutto punto. – G: Semele, incenerita dal bagliore di Giove, partorisce Bacco prima del tempo, il quale viene trasferito nella coscia di Giove per giungere a completa maturazione. – H: Eco, deperita per il dolore del rifiuto di Narciso, raggrinzisce sempre più finché di lei restano solo le ossa, mutate in sassi, e la voce. – I: i marinai, tra cui il nocchiero Tirreno, che cercano di dirottare la nave di Bacco fanciullo sono mutati in pesci. – K: il sangue di Piramo e Tisbe, entrambi suicidi per un tragico equivoco, macchia perennemente i frutti del gelso. – L: i telai delle figlie di Minia che disprezzavano Bacco sono mutati in tralci di viti carichi di grappoli d’uva. – M: le gocce di sangue cadute dalla testa di Medusa, posta da Perseo sul proprio scudo, divengono serpenti. – N: Atlante, pietrificato da Perseo per mezzo della testa di Medusa, diviene prima un monte, poi cresce smisuratamente per volere divino
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fino a divenire il basamento del cielo. O: Cerere rende completamente sterile la terra dove è avvenuto il rapimento di Plutone ai danni di Proserpina. P: Ciane, struggendosi di lacrime per l’affronto di Plutone, si liquefà tutta e diviene uno stagno. Q: Aracne, a causa della sua abilità nella tessitura, è mutata in ragno da Giunone. R: Nettuno fa balzare fuori un cavallo da una roccia, dopo averla colpita con il proprio tridente. S: la terra, percossa dalla lancia di Pallade, produce una pallida pianta di ulivo, con tanto di olive. T: Giasone rivolta il suolo col vomere trainato da tori domati, vi semina denti di serpente da cui nascono uomini. V: Medea fa ringiovanire Esone con il filtro magico preparato nella pentola. Z: dopo la sventurata esperienza delle ali, il giovanetto ucciso per invidia da Dedalo è mutato in pernice. Ψ: il corno, scelto da Ercole dalla testa di Anteo mutato in toro, diviene la Cornucopia. Φ: al canto di Orfeo si aduna un intero bosco ed anche il cipresso, un tempo cervo, ora mutato in albero perennemente al lutto. Ω: Bacco trasforma in alberi le donne dei Ciconi, ree della morte di Orfeo. Θ: Esaco che cerca la morte lanciandosi ripetutamente dal precipizio è mutato in smergo, uccello marino. : la pira funebre di Memnone crolla: si alzano nere volute di fumo che divengono uccelli. : Bruno parla di Arione, di cui non vi è traccia nelle Metamorfosi; Rita Sturlese suggerisce che possa trattarsi delle figlie di Orione; se così fosse si tratterebbe di vergini suicide, dalle cui ceneri si originano due giovani chiamati «Corone»; Arione, che col canto attirava i delfini, è invece citato da Ovidio nei Fasti. : Glauco, dopo aver assaggianto un’erba magica, viene mutato in pesce.
Sarà un caso? Rimane il fatto che in virtù della connessione tra ciascun agens e la sua appropriata operatio, il sistema risulta essere rinforzato e più compatto, ed è inoltre possibile operare l’esatta localizzazione del passo ovidiano, richiamando così alla memoria una specifica metamorfosi, non
necessaria in sé al ricordo, ma che, per il fatto di fare leva sulla nostra affettività, non fa altro che potenziare ulteriormente le immagini degli agentes e delle operationes.
3.6. L’AGGIUNTA DEGLI INSTRUMENTA A questo punto si tratta di operare un’ulteriore correlazione, connettendo a ciascun personaggio agente ed alla sua azione uno strumento o insegna tale da essere “adattabile a tutti, o almeno compatibile”16. Si tratta di capire se tale oggetto aggiunto debba essere peculiare all’agente ed alla azione, o se, al contrario, possa essere scelto a caso in maniera arbitraria. Per capirci, torniamo all’esempio di Renato, il mio medico di famiglia, nell’atto di esaminare un paziente: se lo strumento aggiunto deve essere correlato ad agente e azione, dovrò mettergli in mano uno stetoscopio, un termometro, oppure un bisturi, qualcosa, insomma, di peculiare all’esercizio della professione medica; se invece la correlazione è lasciata a mia totale discrezione, allora potrò, per esempio, mettergli in testa un cappello di paglia, non perché sia un attrezzo necessario ad una visita medica, ma semplicemente perché l’immagine di Renato che esamina un paziente con in testa questo copricapo mi colpisce e sono sicuro che, anche quando avrò eventualmente messo il cappello di paglia in testa a qualche altro personaggio, a causa, come vedremo, delle esigenze combinatorie del sistema, potrò sempre ricordarmi immediatamente come tale oggetto fosse originariamente stato attribuito appunto a Renato. Giacché so che Renato mi rappresenta la lettera A, anche il cappello di paglia mi restituirà sempre alla memoria la lettera A. Quali indicazioni fornisce Bruno al proposito? “Aggiungi all’agente ed alla sua azione uno strumento o un contrassegno distintivo che non si dovrà riferire solamente alla sua azione, ma che sia tale da poter essere adattato a tutte le azioni o per lo meno a quelle che possono capitare”17. Non quindi uno strumento o un oggetto specifico, peculiare, come diceva Felice Tocco, quando, commentando questo passo, affermava che “a questi trenta subiecta e relativi adiecta si aggiungono altrettanti strumenti, che qui […] si intendono nel senso di arma o qualsiasi altro mezzo, con cui gli eroi compirono le loro opere, o anche di circostanze che le accompagnarono. Così Licaone, che invitò Giove allo scellerato convito ha la catena; Deucalione, le cui pietre scagliate in terra divennero uomini, ha la benda sacerdotale”18. A parte il fatto
che si tratta di associazioni “logiche” solo nella mente del Tocco, viene da chiedersi come un commento del genere possa essere compatibile con le istruzioni bruniane appena riportate, che spiegano senza possibilità di equivoco come si debba utilizzare qualcosa di arbitrariamente scelto, curando di selezionare un oggetto che possa essere utilizzato in tutte le operationes che sono state attribuite ai vari agens. Si badi bene però: non si tratta di un contrassegno da apporre semplicemente alla persona, ma di uno strumento che dovrà essere “aggiunto, attaccato o inserito in una qualche maniera in modo che venga a turbare o ad aiutare l’azione e sia gettato, rovesciato, rimosso, districato, distrutto, possa precipitare, cadere o ancora comportarsi in qualunque altro modo si voglia, in relazione all’azione che si svolge”19. Quindi, se vogliamo utilizzare un cappello di paglia come strumento, non lo dovremo semplicemente immaginare collocato sulla testa dell’agens; al contrario, ci dovremo raffigurare una situazione nella quale questo copricapo aiuti l’operaio – magari per il fatto di riparare gli occhi dal sole accecante – o una, invece, in cui la impedisca, il che potrebbe avvenire se, essendo tale cappello troppo grande, esso scivolasse in continuazione sugli occhi dell’agens, costringendolo così a rallentare il proprio operato, a interromperlo o, perlomeno, a svolgerlo con maggiore difficoltà. D’altronde, se Bruno avesse voluto un insieme di oggetti spedifici, perché non avrebbe dovuto allegare un elenco completo di essi, così come ha fatto per le operationes? Al contrario, egli cita solo sei esempi, che sono i seguenti:20 A Licaone B Deucalione C Apollo D Argo E Arcade F Semele
A nel banchetto B nelle pietre C nel Pitone D nella custodia E in Callisto E nel parto
A incatenato B bendato C col balteo D incappucciato E con la bisaccia F ha una sedia sotto di sé
e spiega chiaramente i motivi della propria scelta: “Non a caso abbiamo voluto lasciare a te il compito di trovare delle azioni adatte e degli strumenti, ovvero dei segni distintivi: come infatti a ciascuno sono più note e conosciute le immagini peculiari di determinati uomini, allo stesso modo – come piace a ciascuno – ognuno ha certe azioni, strumenti e segni distintivi dai quali è più stimolato ed agitato nei sensi. Precedentemente infatti abbiamo detto che gli
affetti sono le porte della memoria; di questi i più evidenti e manifesti sono anche i più efficaci. Essi tuttavia non sono gli stessi e non hanno la medesima origine in ciascuno di noi”21. “Del resto” commenta ancora Bruno “è estremamente appropriato distinguere con segni a questo modo, dal momento che tali contrassegni distintivi possono riferirsi ed applicarsi a tutti”22.
3.7. LE RUOTE Mentre fornisce tutte queste istruzioni, Bruno allega al testo tre figure di ruote, che qui riportiamo. La prima figura, collocata nel testo a pagina 157 (fig. 2), in calce alla descrizione dell’alfabeto ibrido latino-greco-ebraico, presenta una ruota divisa in trenta settori, ordinatamente contrassegnati con le lettere di questo alfabeto. Nulla è premesso o aggiunto a commento di questa prima ruota.
FIG. 2 Dopo aver descritto la correlazione tra lettere, homines e actiones, viene apposta una seconda figura che occupa tutta la pagina 160 (fig. 3 di pagina 261); la figura è formata da due ruote concentriche, ciascuna simile a quella utilizzata nella prima figura. Questa volta Bruno commenta così: “Per prima cosa dunque collocherai una ruota immobile all’interno di un’altra pure immobile, così che quella esterna indichi le persone e quella interna le azioni ad esse peculiari” (fig. 3). Due pagine dopo troviamo la terza immagine (fig. 4); questa volta con tre
ruote concentriche e la seguente intestazione: “In secondo luogo, quindi, collocherai una ruota immobile all’interno di altre due ruote pure immobili così che incontri costantemente le due cose peculiari riferite alle persone, in modo da essere in grado di indicare sempre la propria lettera, ovunque esse siano poste e in qualsiasi modo siano disposte. Le ruote fisse da osservare con lo sguardo della mente sono fatte come la seguente”.
FIG. 3 – 4 A che servono queste ruote? Andiamo a leggere due commenti al riguardo: “Nessuno ha capito che gli elenchi di immagini dati nel libro […] sono destinati ad essere disposti su ruote concentriche.” (F.A. Yates)23. “… a chi avesse interesse o curiosità di costruirsi delle personali «ruote della memoria» sconsiglio di seguire la via espressa dal diagramma yatesiano (realizzazione di ruote concentriche), tecnicamente piuttosto complessa. È assai più semplice riportare i contenuti di ciascuna ruota lungo strisce di carta…” (R. Sturlese)24.
Bruno, però, non parla mai di ruote fisiche, né mai suggerisce che le caselle in cui sono suddivise le ruote siano i luoghi deputati ad accogliere le immagini di memoria. Andiamo a rileggere la parte finale della premessa alla terza ruota: “Le ruote fisse da osservare con lo sguardo della mente sono fatte come la seguente”. Con lo sguardo della mente, dice Bruno, mentis oculo; non si tratta perciò di realizzare concretamente delle ruote e mettersele davanti agli occhi: quella che ci viene suggerita è un’astrazione, un modo simbolico grazie al quale l’apprendista può rappresentarsi da un lato l’associazione tra l’agens, la sua operatio peculiare e l’instrumentum aggiunto (Licaone nel banchetto incatenato), dall’altro la triplice ripetizione di una stessa lettera (AAA). La disposizione a ruote concentriche favorirà poi la comprensione del principio combinatorio quando personaggi, azioni e oggetti verranno mescolati, come vedremo, allo scopo di formare tutte le sillabe possibili. Le ruote sono quindi degli schemi, delle rappresentazioni grafiche di processi mentali di due tipi ben distinti: –
RUOTE FISSE: quando, nella fase iniziale della pratica, lo scopo è quello di imprimere in maniera indelebile nella memoria la correlazione tra una lettera e l’agens, l’operatio, e l’instrumentum che la rappresentano, poiché in seguito tali immagini dovranno “essere in grado di indicare sempre la propria lettera, ovunque esse siano poste e in qualsiasi modo siano disposte”. – RUOTE MOBILI: quando invece combineremo un agens con una operatio diversa dalla sua originale ed un instrumentum ancora diverso, e ciò allo scopo di rappresentare una determinata sillaba. La nostra ipotesi diviene ancora più plausibile se si considera come il riferimento più immediato delle ruote bruniane siano sicuramente quelle dell’Ars combinatoria lulliana25 e delle pratiche pseudolulliane che su di essa si basano: anche in quei casi non si tratta di ruote da costruire fisicamente, bensì di schemi di combinazioni possibili dei concetti degli attributi divini. Infine il loro uso da parte del nolano non è, secondo noi, indice tanto degli influssi lulliani o cabalistici nel De umbris, quanto della strategia bruniana di utilizzare tecniche e conoscenze in possesso dei propri lettori, riciclandole ai fini della propria arte. La Parigi del Cinquecento è il più importante centro del lullismo in Europa, perciò nessun lettore del De umbris poteva essere privo del riferimento lulliano delle ruote utilizzate da Bruno. È una strategia che abbiamo già visto a proposito delle idee di Pietro da Ravenna e dei trattatisti
rinascimentali e la vedremo ancora all’opera seguitando nella nostra analisi. Così di Lullo viene presa l’idea della combinazione raffigurabile per mezzo di elementi posti su cerchi concentrici. Niente altro. Non importa che le ruote lulliane fossero divise in nove settori: a noi ne servono trenta, per rappresentare i trenta elementa (questa volta intesi non più come elementi, ma come lettere dell’alfabeto). Non importa che le lettere di Lullo rimandassero ad attributi divini: ciascuna lettera ora indica solo sé stessa – per mostrare tutte le possibili combinazioni di una sillaba – e l’agens, l’appropriata operatio o l’instrumentum a cui tale lettera è correlata, così che ci possiamo rappresentare tutte le immagini di memoria possibili per le varie voces. Non interessano i nobili scopi per cui la combinatori lulliana fu concepita e sviluppata: per noi hanno la stessa funzione che svolge un pallottoliere per un bambino che impara le addizioni.
3.8. FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA COMBINATORIO 3.8.1. SILLABE BIELEMENTALI Dopo aver preso in esame l’intera articolazione del sistema ed aver seguito le istruzioni di Bruno, andiamo ora a vedere come funzioni concretamente il sistema. Prima di iniziare a far muovere le ruote, Bruno vuole sincerarsi che l’apprendista abbia fissato in maniera pronta e sicura la correlazione tra agens, operationes ed instrumenta : “Ora dunque, dopo aver fissato con la mente in maniera immobile le precedenti ruote, così da aver pronto ciò che ognuno ritiene opportuno, è giunto il momento di prepararsi ad una pratica più complessa in modo da arrivare, per cominciare, al primo raggruppamento formato da due lettere qualsiasi”26. Si comincia quindi con la memorizzazione di immagini per rappresentare una sillaba di due sole lettere. Per dare un’idea di come ciò possa avvenire, siamo invitati a riconsiderare l’immagine formata dalle due ruote fisse: “Osserva come tale figura sia formata da due ruote immobili. Adesso, mantenendo fissa quella esterna, lascia che quella interna sia libera di muoversi. Se prima l’immobilità di questa ruota era in relazione alla condizione di ciò che deve essere fissato nella memoria, ora, conformemente al movimento delle numerosissime azioni possibili, che devono svolgersi
senza alcun limite per quanto riguarda la varietà, tale ruota deve poter essere girata in qualsiasi direzione”27. Detto per inciso, quest’ultima frase conferma, a nostro avviso, l’idea che le ruote siano semplicemente un modo per potersi formare una rappresentazione mentale dei processi in atto. Quando la ruota interna gira, gli agentes iniziano a scambiarsi fra loro le appropriatae operationes: “Quell’azione che era specifica di un solo personaggio, ora viene condivisa da tutti gli altri posti sul cerchio, e perciò viene adattata a ciascuno di essi in base alla particolare sillaba di due lettere che si vuole formare. Licaone nel banchetto ti restituiva alla memoria due A identiche, cioè AA, trovandosi la A della ruota interna in corrispondenza della A della ruota esterna; lo stesso dicasi per Deucalione nelle pietre, il quale indicava BB. Ora che la ruota gira avrai coppie di lettere non più gemelle, bensì diverse: infatti quando la B della ruota interna si trova in corrispondenza della A della ruota esterna, non hai più Licaone nel banchetto, bensì Licaone che trasforma i sassi. Deucalione che uccide il Pitone, Apollo che custodisce la giovenca e così via tutti gli altri svolgono l’azione di quelli a loro successivi man mano che si susseguono le altre lettere”28. Seguendo queste istruzioni, se vogliamo memorizzare la sillaba CE, non dovremo far altro che rappresentarci Apollo (la lettera C della prima ruota) che insegue Callisto (la lettera E della seconda ruota); per la sillaba MA avremo Perseo che imbandisce il banchetto, e così via. Come abbiamo già visto, se il lavoro di correlazione è stato svolto diligentemente, non abbiamo timore che possa originarsi alcun tipo di confusione, giacché all’atto della decodifica delle immagini, ciascuna operatio potrà sempre essere rimandata al proprio agens originale, quando cioè vedrò Apollo che insegue Callisto, non avrò problemi a ricordare come Callisto, nel racconto ovidiano, fosse inseguito dal proprio figlio Arcade, e che mi rappresenti quindi la lettera E.
3.8.2. SILLABE TRIELEMENTALI E OLTRE: TRUCCHI GRAMMATICALI Per le sillabe di tre lettere il meccanismo non cambia affatto, giacché basta fare riferimento alla figura composta dalle tre ruote concentriche: “Allo stesso modo, lasciando libere di girare le due ruote interne della [successiva] figura, sarai in grado di rappresentare qualsiasi sillaba di tre lettere. Così, se con le tre ruote fisse Licaone in catene nel banchetto ti rappresentava AAA, ora invece Licaone che fa qualcosa a Medusa con il segno distintivo di Plutone ti rappresenterà AMO. Arca che fa qualcosa a Semele ed l’instrumentum di
Plutone ti darà EGO. Medea che fa qualcosa a Tirreno il segno distintivo di Perseo ti darà VIM. E in questo modo, cambiando in molte combinazioni le lettere della ruota di mezzo e di quella interna, in relazione a ciascuna lettera della ruota esterna, potrai formare secondo il tuo volere qualsiasi sillaba immaginabile di tre lettere”29. Questo sistema di memoria verborum presenta evidenti punti di contatto con quello proposto da Pietro da Ravenna30, poiché anche nella Phoenix vengono combinate immagini di agentes e di instrumenta nel medesimo locus allo scopo di ottenere la raffigurazione di una sillaba fino a tre lettere. Ma un bravo allievo deve sempre superare il proprio maestro e così la memorizzazione delle sillabe nel De umbris non è limitata a sole tre lettere, giacché possiamo avere sillabe di quattro, cinque o addirittura sei lettere. Ci si potrebbe attendere, a questo punto, l’introduzione di altre ruote allo scopo di denotare le lettere oltre la terza, ma non è così, dal momento che Bruno aveva imparato dai manuali di grammatica del tempo che non a tutte le lettere può capitare di essere aggiunte ad una sillaba trielementale, ma solo alle lettere S e T in posizione finale (come MENS e DANT) e alle lettere L, R, N in posizione intermedia (come nella prima sillaba di TR UNCUS e nella terza di PERMAGNUS). Alla luce di ciò, il principio di economia del sistema suggerisce a Bruno di escludere l’aggiunta di ulteriori ruote per sole cinque lettere e di agire invece nel seguente modo: – per la S e la T finali “è sufficiente raffigurarsi una determinata cosa particolare che sia relazionata al subiectum o all’adiectum secondo una qualche relazione, così da indicare la S nel primo caso e la T nel secondo”31. Il medesimo oggetto, quindi, indicherà una delle due lettere a seconda della propria diversa collocazione nell’immagine;32 – per indicare la presenza di L, R o N in posizione intermedia tra lettera adsistens e lettera subsistens della sillaba “potrai stabilire altre disposizioni, ponendo accidenti sensibili nel subiectum, congiungendoli ad esso o ponendoglieli accanto. A tal scopo di solito mi tornava assai utile un adiectum razionale che mi significava la terza, la seconda o la prima lettera a seconda che stesse seduto, appoggiato o ritto”33. L’adiectum razionale è l’uomo, come si ricava dal passo nel quale Bruno spiega come “alcuni degli adiecta animati sono dotati di ragione e sono perciò adatti ad agire e a subire qualsiasi cosa”34.
Al di là delle indicazioni teoriche, Bruno in pratica utilizza un oggetto, un segno distintivo connesso al subiectum o all’adiectum per indicare la S e la T finali, colloca invece una persona, scelta ovviamente tra quelle non già utilizzate per gli agentes, in tre differenti posture, per indicare le liquescentia L, R o N. Quando andremo a recuperare l’immagine di memoria della sillaba cercata, non potremo fare a meno di notare queste aggiunte e saremo così in grado di ricostruire felicemente la nostra sillaba di quattro lettere. Se pure la sillaba fosse di cinque lettere, non c’è da avere alcun timore, poiché ciò può avvenire solo nell’eventualità di una concomitanza dei due casi che abbiamo appena mostrato, come nella prima sillaba di TRANSACTUM. Sillabe di sei lettere Bruno non né conosce al di fuori di SCROBS che, come abbiamo già visto35, viene sostituito con SCROΨ, di cinque lettere, grazie alla somiglianza fonetica.
3.8.3. E LE ALTRE LINGUE? Giunti a questo punto qualcuno potrebbe aver notato come, nonostante le affermazioni di validità omniglotta del sistema, in realtà tutti gli esempi forniti dal testo siano in lingua latina. Si potrebbe perciò obiettare che il fatto di aver posto la grammatica latina alla base della teoria sulle sillabe abbia irrimediabilmente condizionato in modo negativo la possibilità di applicare questa memoria vocum alle altre lingue. Ma Bruno anticipa questa obiezione osservando che “se si presentassero altre lettere oltre a queste, il che può accadere assai di rado nei termini latini, greci, ebrei, caldei, persiani, italiani, arabi e spagnoli, vi provvederai grazie alla medesima luce che hai visto venirci in aiuto per le tre lettere precedenti”36. Ci viene insomma suggerita una sorta di “fai da te” delle immagini accessorie, dal momento che l’eventualità della presenza di altre lettere diverse da quelle studiate è tanto rara quanto è imprevedibile sapere quali lettere potrebbero capitare, ad esempio, nella lingua caldea o in quella persiana: poiché il sistema funziona nella totalità dei casi della lingua latina e nella quasi totalità delle altre lingue, se mai dovesse presentarsi una lettera non prevista non faremo altro che applicare gli stessi principi fin qui adottati: per una lettera finale diversa dalla S e dalla T potremmo così collocare un diverso segno distintivo, oppure lo stesso della S e della T, ma questa volta unito non al subiectum o all’adiectum, bensì all’instrumentum; invece per una liquescens diversa da L, R o N potremmo utilizzare – perché no? – un adiectum non razionale, ovvero un animale…
C’è infine il problema della lingua francese con tutte le sue lettere scritte sulla carta ma omesse nella pronuncia. Delle considerazioni “diplomatiche” di Bruno su questo idioma abbiamo già parlato:37 aggiungeremo solamente che, se del francese consideriamo solamente la pronuncia, esso diviene in tutto e per tutto omologabile alle altre lingue previste dal De umbris.
3.9. SVILUPPI 3.9.1. QUANDO I LOCI NON BASTANO “Dopo aver fatto pratica e aver preso la mano nell’utilizzo spedito di pochi adiecta e di un ristretto numero di subiecta, aggiungerò solamente ciò che concerne il modo di moltiplicarli”38. Se abbiamo capito il meccanismo e siamo riusciti ad applicarlo con successo per la memorizzazione di alcune sillabe è giunto il momento di applicare il metodo bruniano in maniera più intensa e sistematica, sia per poter ricordare più voces, sia per “farci le ossa” prima di affrontare la secunda praxis. Perciò non basta più poter disporre di pochi loci senza peraltro essere certi della loro affidabilità: dobbiamo invece trovare il modo di realizzare molti loci sicuri e in grande quantità. In questo caso Bruno fa affidamento più sul buon senso e sulla diretta esperienza che sulla teoria, limitandosi semplicemente a consigliare di esaminare “quali di questi subiecta di solito conservi gli adiecta in modo più saldo o più precario così che, scoperte le cause della loro forza o della loro debolezza – il che ti riuscirà facile applicando la dottrina da noi esposta – potrai trovarne altri simili”39. L’allievo che si cimenta con l’ars, infatti, non può sapere a priori quali loci siano più adatti a conservare e restituire in maniera integra le immagini ad essi affidate, né Bruno può consigliarlo in tal senso, poiché come ciascuno di noi è stimolato in maniera diversa da cose diverse, così ognuno “aggancia” luoghi ed immagini ponendoli in relazione reciproca secondo modalità personalissime. Solo l’esperienza ottenuta con un po’ di pratica potrà quindi indicarmi quali caratteristiche debbano possedere i miei loci per meglio trattenere le immagini ivi collocate. Da qui fino alla fine della trattazione della memoria verborum non si parlerà più di loci: queste che abbiamo preso in esame sono infatti le ultime prescrizioni riguardo ai subiecta. Se tiriamo le somme e confrontiamo le indicazioni – e le preoccupazioni – di Bruno con quelle degli altri trattatisti
non possiamo fare a meno di notare come nel De umbris si ponga di più l’accento sulle caratteristiche e sulle proprietà dei loci e assai di meno sul loro aspetto esteriore. In nessun passo ci viene suggerito l’utilizzo di un edificio, un monastero, una strada, dell’Inferno o dell’universo, e ciò perché a Bruno non interessa dove noi collochiamo le nostre immagini, ma unicamente la certezza che il sistema funzioni. Ci vengono forniti solo una classificazione della specificità dei loci 40 ed il solito elenco delle loro caratteristiche funzionali (grandezza, luminosità, etc.),41 ma neppure una parola sul loro aspetto concreto o la loro organizzazione. Se da un lato ciò significa che al lettore è lasciata molta più discrezionalità nella scelta e nella costruzione dei loci, dall’altro dobbiamo concludere che il lettore a cui si rivolge Bruno doveva essere già piuttosto avvezzo all’ars memoriae per poter fare a meno di tutte le indicazioni e gli esempi concreti di cui abbondano invece tanti altri trattati che si rivolgono invece ad un pubblico più profano. Doveva inoltre trattarsi di un lettore sensibile ai nuovi indirizzi pedagogici del ramismo, perché in almeno due punti Bruno ci mette in guardia dalla pericolosa iconoclastia delle immagini di memoria operata da “l’arcipedante di Francia”, come verrà chiamato Pietro Ramo. Innanzitutto nel dialogo che apre il De umbris, dove Ermete e Filotimo devono mettere a tacere le obiezioni del pedante Logifer42 circa l’inutilità delle artes di memoria; successivamente quando ci viene raccomandato di “guardarsi dall’affidarsi, credendo di ricordare un subiectum, più alla memoria naturale che alla visione dell’immagine; dalla mancata osservazione di ciò accade infatti che si creda di immaginare un subiectum e di considerarlo come se fosse figurato, quando invece ciò non avviene affatto. Un conto è formare subiecta, tutt’altra cosa è scrivere come quando si è al buio o sotto una coltre”43. La mancanza di immagini, tipica del pensiero logico e astratto auspicato da Ramo, è come se ci privasse del senso della vista e proprio questa necessità che spinge Bruno a spiegare la differenza tra il pensare per immagini ed il pensare astratto – necessità di cui non si trova traccia nei trattati precedenti – è indice del mutamento delle forme mentali che stava avvenendo nel XVI secolo in maniera lenta ma inesorabile. E col passare del tempo le preoccupazioni del nolano si sono rivelate più che fondate: ancora oggi la nostra scuola è più debitrice alla pedagogia ramista e ai dubbi di Quintiliano che non alle immagini di Bruno ed ai precetti dell’Ad Herennium : quali insegnanti infatti, oltre a far capire, si preoccupano anche di far memorizzare? Pochissimi. E quanti di questi utilizzano coscientemente una tecnica di memoria e ne mostrano le possibilità ai propri alunni? Nessuno. Gli unici consigli che
vengono dati sporadicamente consistono nella frequente ripetizione (quella dei trattati medioevali), nella memorizzazione visiva della pagina (come suggeriva Quintiliano) o, al massimo, nella suddivisione dell’argomento in concetti principali e sotto-concetti ad essi correlati, tipica del metodo ramista.
3.9.2. … AESOPUM ET CIMBRUM SUBORNARI… Nessun termine potrebbe rendere l’idea della trasformazione che Bruno sta per operare sugli adiecta meglio di multiplicatio poiché non basta infatti aumentare il numero dei loci: bisogna pure “moltiplicare” gli adiecta. Abbiamo visto44 come l’inconveniente maggiore degli alfabeti visivi consista nel collocare e ricollocare sempre le stesse immagini, con il conseguente rischio di confusione; anche la prima praxis del nolano, nonostante la sua maggiore organicità e raffinatezza rispetto ai sistemi di Romberch e colleghi, offre il fianco a questo rischio. Bruno ne è consapevole e corre immediatamente ai ripari: “Aumentare senza limiti l’aggiunta di parole può avvenire in maniera poco agevole se si ricollocano sempre più spesso gli stessi adiecta alla stessa maniera, dal momento che per la scrittura interna è richiesta una varietà che non serve affatto per quella esterna, come sanno bene coloro che si esercitano in questa pratica. E allora? Come prima avevi un Licaone, un Deucalione, etc. adesso immaginati due Licaoni, due Deucalioni e così via in modo che dove prima ne avevi trenta, ora se ne presentino sessanta. Se li triplichi ne avrai novanta, se li quadruplichi centoventi. Tutti quelli di cui hai potuto sperimentare con certezza l’efficacia sulla tua immaginazione vanno ridotti al numero dei trenta nomi principali. Nulla infatti impedisce che abbiano un nome proprio diverso dal loro. Infatti a Filoteo rimarrà sempre addosso il carattere del nome di Deucalione se anche solo una volta è stato annoverato nel numero di quelli che lanciano sassi”45. Ciascun agens può quindi essere “impersonato” da un nostro amico o conoscente; possiamo inoltre avere più di un “interprete” per ognuno degli agentes. Cosa ci fa venire in mente questa regola di dare un volto familiare ad un personaggio mitologico? A ben guardare non è altro che la riedizione dello stratagemma utilizzato dall’autore dell’Ad Herennium quando fa vestire i panni di Agamennone e Menelao agli attori Esopo e Cimbro, con la notevole differenza che qui non si tratta più di un trucco, bensì di una tecnica applicata in maniera sistematica. E i vantaggi che ne derivano sono diversi e consistenti:
– DRASTICA DIMINUZIONE DELL’ENTROPIA DEL SISTEMA: se la collocazione reiterata dello stesso agens per la stessa lettera iniziale rischia di far precipitare nel caos il sistema, ora invece possiamo far vestire i panni dell’agens della nostra immagine di memoria a quante persone vogliamo. Prendiamo, ad esempio, una lettera di uso frequente, come la «C», lettera che, seguendo le istruzioni di Bruno dovremmo effigiare con Apollo; essendo la appropriata operatio di Apollo lo strangolamento del pitone, è sufficiente immaginarsi qualunque altra persona che si voglia utilizzare per la lettera «C» nell’atto di strangolare il pitone: potrò così usare questi nuovi volti, scelti tra amici, parenti, conoscenti o vicini di casa in innumerevoli combinazioni, senza temere di perdere la relazione tra la loro immagine e la lettera «C», giacché il semplice fatto di aver deciso tale correlazione e l’aver visto, con l’occhio dell’immaginazione, ciascuno di essi mentre strangola il pitone mi garantisce che ognuno di loro rimarrà sempre “impregnato”, come dice Bruno, del carattere di questa azione. Con un maggior numero di volti a disposizione, quindi, abbiamo una riduzione notevole delle situazioni in cui sono obbligato ad utilizzare i medesimi adiecta, ad evidente beneficio del sistema. – LA RAPPRESENTAZIONE DEGLI agentes DIVIENE ANCORA PIÙ VIVIDA: se già l’uso di personaggi mitologici garantiva un forte impatto sulla nostra emotività, l’impiego di persone con cui abbiamo un rapporto di conoscenza diretta non può fare altro che migliorare la qualità affettiva dell’immagine. Anche l’ultimo pericolo connesso all’utilizzo dei miti delle Metamorfosi viene eliminato: Medea, Glauco, Orfeo, per quanto fortemente caratterizzati relativamente alla loro personalità e all’azione specifica, rischiavano tuttavia una rappresentazione stereotipata soprattutto per quanto riguarda le fattezze del volto, o, peggio ancora, potevano diventare dei “busti senza testa” essendo privi di tratti somatici precisi e definiti quali possono essere quelli di una persona in carne ed ossa di nostra conoscenza; ora invece, grazie a questo “innesto”, da un lato aumenta in maniera drastica il realismo della scena, perché ad un volto noto possiamo applicare anche tutta una serie di espressioni mimicofacciali, dall’altro migliora notevolmente il nostro rapporto affettivo con l’immagine nel suo complesso, poiché assistere ad una scena compiuta da nostra moglie o dal nostro datore di lavoro è sicuramente più coinvolgente per noi rispetto al vedere agire gli eroi del mito, personaggi sicuramente importantissimi, ma con i quali, in genere, non siamo in rapporti molto intimi…
Purtroppo questa moltiplicazione operata per mezzo della sostituzione può essere applicata solo agli agentes e vale quindi unicamente per la prima lettera della sillaba, poiché non è possibile immaginare dei surrogati delle appropriatae operationes o degli instrumenta, a causa del loro stesso ruolo giocato nel sistema di rimandi mnemonici instaurati appunto tra agentes, operationes e instrumenta. Tuttavia, essendo l’agens l’immagine principale, alla quale le varie azioni ed i diversi oggetti si connettono come “accessori”, il valore dello stratagemma bruniano rimane sicuramente indiscutibile. Infine, per usare le parole con le quali Bruno chiude la prima praxis, “si può comprendere meglio il valore di questa scoperta applicandola ad altre cose, piuttosto che osservandola da fuori”:46 se la sostituzione delle immagini, per quanto importante e di fruttuosa applicazione, rimane un principio “accessorio” della memoria vocum, la successiva memoria terminorum, al contrario, non sarebbe neppure immaginabile senza di essa.
3.9.3. LA FORZA DELL’ABITUDINE Si noti poi come Bruno insista costantemente sulla necessità di giungere all’utilizzo di loci ed imagines nel modo più spedito e veloce possibile, giacché, in caso contrario, non potremmo utilizzare nemmeno uno dei precetti del De umbris in maniera spedita nell’ambito di un contesto performativo: non esistono trucchi né stratagemmi per acquisire questo tipo di abilità, ma solo la pratica e l’esercizio assidui e costanti. È grazie alla pratica e all’esercizio, infatti, che noi siamo in grado di parlare, leggere e scrivere ed un pianista può suonare passaggi complicatissimi senza neppure pensare a ciò che sta facendo. E se qualcuno si mostrasse scettico sulla possibilità di maneggiare istantaneamente una così grande mole di immagini e correlazioni, può riflettere sul seguente passo, tratto sempre dal De umbris, dove si parla del grande potere dell’abitudine: “Non v’è alcun dubbio che una scorsa frequente dei subiecta sia di tanto giovamento quanto può portarne la presente arte. Sappiamo tutti come chi si è abituato a leggere per più tempo, ha imparato ad osservare le singole lettere e a ricavare da esse scritti ben strutturati più velocemente di quanto possa riflettere. In questo caso è sicuramente l’abitudine che lo porta a comportarsi, senza neppure il bisogno di pensare, in modo sempre più preciso rispetto a quanto potrebbe mai fare il puro pensiero
di una persona non abituata anche se fosse diligentissima nel dominare e controllare le singole parti ed ogni elemento. Un citaredo virtuoso è in grado di suonare alla perfezione senza pensare grazie alla sola abitudine; un altro, magari dotato dello stesso tocco del primo, ma privo della sua abitudine, sarà tanto più goffo nell’esecuzione, quanto più rifletterà su ciò che deve fare. Ormai abbiamo parlato a sufficienza della forza dell’abitudine ed è abbastanza chiaro come l’acqua lieve sia capace di scavare anche il duro marmo ed il ferro”47.
NOTE 1. De umbris, 156. 2. G. La Porta, Le ombre delle idee, 138. 3. M. Maddamma, L’arte della memoria, 137. 4. De umbris, 123. 5. Ibid. 157. 6. Cfr. qui al paragrafo 2.2.1. 7. De umbris, 159. 8. De umbris, 159. 9. Si confronti a tal riguardo la traduzione realizzata da Gabriele La Porta per le edizioni Atanor in Le Ombre delle idee, cit. 10. F. Tocco: Le opere latine di Giordano Bruno, 55. 11. Foenix, B1 r. 12. De umbris, 156. 13. Per l’assenza di riferimento vedi più avanti al cap. 3.5. 14. Cfr. Ovidio, Metamorfosi, XIII 906-segg. 15. Metamorfosi, XI 1-segg. 16. De umbris, 161. 17. Ibid. 18. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno, 55. 19. De umbris, 163. 20. Ibid. 162. 21. Ibid. 164. 22. Ibid. 162. 23. F.A. Yates, L’arte della memoria, 195. 24. Rita Sturlese, De umbris idearum, Introduzione LXIV. 25. Cfr. al cap. 1.5.2. 26. De umbris, 165. 27. Ibid. 28. Ibid. 166. 29 Ibid. 167. 30 Cfr. qui al cap. 1.4.4. 31. De umbris, 168. 32. Non riusciamo a capire come possa Manuela Maddamma interpretare questo passo nel senso dell’utilizzo di due diversi accidenti per le lettere S e T. Citiamo testualmente: “Gli elementi in questione potranno essere accidenti o collaterali: ad esempio, volendo comporre la parola DANT, le tre lettere DAN saranno rese con l’immagine di Argo nel convivio bendato, mentre per significare la lettera T potremmo assegnare ad Argo un determinato accidente (lo potremmo immaginare inginocchiato) o un certo elemento collaterale (come un uccello posato sul suo capo). Un elemento differente sarà evidentemente (!) scelto per significare la lettera S e tutte le altre di questo tipo”. M. Maddamma, L’arte della memoria, cit. p. 149 n°16. 33. De umbris, 169. 34. Ibid. 123. 35. Cfr. qui al cap. 2.3. 36. De umbris, 169. 37. Cfr. qui al cap. 2.4. 38. De umbris, 173. 39. Ibid. 40. Ibid. 108. 41. Ibid. 111.
42. Ibid. 9-15. 43. Ibid. 113. 44. Cfr. qui il cap. 2.1. 45. De umbris, 173. 46. De umbris, 173. 47. Ibid. 115.
4. MEMORIA TERMINORUM LE IMMAGINI DELLA SECONDA PRATICA
4.1. INTRODUZIONE “Mentre la prima pratica in fase iniziale permetteva solo la combinazione di lettere, la pratica maggiore, in cui sfocia la prima in fase avanzata, consente la composizione di sillabe allo scopo di illustrare delle parole complete, in modo da poter collocare su ciascun subiectum un singolo adiectum completo, che è definito come parola semplice ed isolata, e percepirlo senza indugio”1. Così Bruno apre la trattazione della sua secunda praxis, con la promessa di riuscire a compiere quella che era sembrata un’impresa impossibile ai suoi predecessori, ovvero la realizzazione delle immagini di tutte le parole esistenti o comunque pensabili e la collocazione di ciascuna di questa parole con l’ausilio di un’unica immagine – complessa quanto si vuole, ma comunque unitaria – in un solo locus. Bruno è perfettamente consapevole dell’inutilità, più volte sottolineata dai trattatisti a partire da Cicerone e fino al XVI secolo, di un “vocabolario” in cui a ciascuna parola si facesse corrispondere un’immagine di memoria: troppe le parole e quindi troppe le immagini che porterebbero ad un mega-sistema globale ma inutilizzabile; inoltre sappiamo ormai bene come un’associazione tra parola e immagine debba essere realizzata “personalmente” per essere in grado di smuovere in maniera efficace la nostra memoria; per finire, va anche considerato come un vocabolario del genere, oltre a tutti questi problemi, sarebbe continuamente da aggiornare, giacché la lingua è in costante ed incessante evoluzione. La strada seguita dalla secunda praxis non sarà ovviamente quella del vocabolario, ma, ricalcando le orme di Pietro da Ravenna e della prima praxis permetterà l’allestimento di un sistema combinatorio basato su immagini di agentes e immagini di azioni, oggetti, coagenti e determinazioni circostanti connessi a questi agentes. La prima praxis, infatti, utilizzando un’immagine per ciascuna lettera, si ferma alla raffigurazione delle sillabe di tre lettere e, con qualche trucco grammaticale, può giungere fino a cinque-sei lettere; la Phoenix, pur fermandosi alle tre lettere, aveva introdotto un principio
interessante, ovvero la possibilità di rappresentare più di una lettera con la stessa immagine: Raimondo che percuote il locus con un bastone indica infatti la sillaba bar.2 Prendendo spunto da ciò, Bruno ora associa ciascuna immagine non più ad una singola lettera bensì ad una sillaba bielementale, formata cioè da due lettere, e fornisce delle regole per combinare le immagini allo scopo, appunto, di effigiare tutte le sillabe di cui possono essere composte le varie parole. Se la prima praxis prevedeva la combinazione di tre lettere, più alcune eventuali determinazioni accessorie per giungere fino a cinque lettere, ora la secunda praxis, utilizzando agentes, azioni, oggetti, coagenti e determinazioni circostanti, ciascuno dei quali indica una sillaba bielementale, è in grado di rappresentare compiutamente parole fino a cinque sillabe; sono pure previste, come vedremo, delle determinazioni accessorie per invertire l’ordine delle lettere nella sillaba (AT invece di TA) o per indicare la presenza e la collocazione di lettere eccedenti la ripartizione bielementale delle sillabe, giacché non tutte le parole sono formate da sillabe di due lettere (come BARILE) ma possono presentare sillabe di tre lettere, quattro o oltre (come GROTTESCO). Per tutti questi casi Bruno fornisce delle regole basandosi, esattamente come nella prima praxis, sulla grammatica latina così come era trattata nei manuali dell’epoca. Cercheremo quindi di capire quali siano le regole e i principi bruniani e come vadano utilizzati affinché il sistema possa funzionare in maniera veloce ed efficiente. Prima di procedere però con l’esposizione della nostra interpretazione della secunda praxis prenderemo in esame qualcuna delle ipotesi formulate al riguardo ad opera di alcuni dei più noti studiosi di Bruno, ovvero Felice Tocco, Frances Amelia Yates, Rita Sturlese, Ubaldo Nicola e Manuela Maddamma.
4.2. LE IPOTESI RELATIVE AL FUNZIONAMENTO DELLA SECONDA PRATICA 4.2.1. FELICE TOCCO La seconda parte del volume Le opere latine di Giordano Bruno, scritto da Felice Tocco e pubblicato alla fine del secolo scorso, dopo alcuni cenni sulla memoria artificiale dall’antichità al Medioevo, si occupa delle opere mnemoniche del nolano: De umbris, Cantus Circaeus, Triginta Sigillorum Explicatio, Sigillus sigillorum, De imaginum compisitione.3
Già all’inizio della trattazione troviamo una singolare inversione della prospettiva, laddove Tocco mostra l’origine lulliana di alcuni metodi, avvertendoci che Bruno “in luogo dei nove soggetti e dei nove predicati del Lullo ne trova trenta, e come l’alfabeto latino non basta a rappresentarne se non ventiquattro, per gli altri sei ricorre all’alfabeto greco ed all’ebraico, onde toglie quelle lettere che non hanno rispondenza nel latino”4. Invece delle ruote lulliane ampliate a trenta caselle per poter accogliere le lettere dell’alfabeto poliglotto con il quale rappresentare tutte le parole pronunciabili, Tocco, invertendo cause ed effetti del sistema, interpreta il ricorso a lettere esotiche come mezzo per poter fissare su una ruota trenta predicati pseudolulliani! Salvo poi rettificare, poche righe più sotto, che “il nostro Autore torce l’arte del Lullo ad uno scopo affatto nuovo […] un artifizio mnemonico simile a quello che da Cornifico in poi tutti i trattatisti solevano adoperare”5. Questa confusione tra scopi e mezzi delle pratiche bruniane rimane costante per tutta la trattazione; più avanti, ad esempio, commentando la prima praxis laddove si parla delle sillabe formate da più di tre lettere, il Tocco parte molto bene: “Se non che v’ha delle sillabe risultanti da più di quattro elementi, ma non per questo occorre una quarta ruota, ovvero una quarta serie d’immagini, perché in cosiffatte sillabe le lettere finali non sono molto differenti”. Ma poi prosegue: “Se poi occorrano sillabe di cinque lettere, è facile ottenerle aggiungendo le medie l, n, r alle finali s, t”6. Purtroppo non siamo noi ad aver bisogno di sillabe da cinque lettere, giacché ci imbattiamo in esse durante il processo di memorizzazione delle voces e la nostra preoccupazione è semmai quella di riuscire a trovare delle immagini adatte per rappresentarle in maniera completa e organica. Comunque, nonostante tutti i fraintendimenti, Tocco comprende il funzionamento della prima praxis poiché prosegue spiegando che “per ottenere una rappresentazione reale di questi elementi aggiunti” ovvero le lettere l, n, r intermedie oppure s, t finali “basterà dunque ricorrere a qualche accidente o circostanza che accompagni l’azione dei subjecta”7. Da qui, però, prosegue saltando immediatamente quanto inspiegabilmente alla secunda praxis, esaurendone la trattazione in meno di dieci righe: “Ai subjecta, adjecta, e instrumenta, aggiungiamo ora questi altri elementi (adstantia et circumstantia), ed avremo tutto l’occorrente perché ogni parola possa essere ricordata in funzione dell’analoga combinazione reale. Gli ad stantia e circumstantia non sono più di cinque, perché tre sono le lettere intermedie e due le finali, e quindi possono essere rappresentati benissimo dalle cinque vocali minuscole a, e, i, o, u. Combinando i trenta elementi già conosciuti con
questi cinque nuovi, si hanno centocinquanta punti di ricordo. Non occorre diffonderci più oltre in quest’arte mnemonica, della quale è più che bastevole di aver data la chiave”8. Delle sillabe nessuna traccia: sembra che l’unico ampliamento concesso alla prima praxis quando essa sfocia nella secunda consista nel poter articolare ognuno dei trenta elementi per mezzo delle cinque lettere (l, r, n, s, t) a loro volta rappresentate dalle cinque vocali (!) in modo da ricavare centocinquanta punti di ricordo. Le cinque vocali sarebbero dunque introdotte da Bruno per indicare cinque consonanti? Quindi le combinazioni AA, AE, AI, AO, AU andrebbero intese nel senso di AL, AR, AN, AS, ATI O forse che il Tocco intenda tutto il sistema come una memoria rerum, visto che parla di punti di ricordo rappresentabili da combinazioni di lettere? Viene piuttosto il sospetto che la frettolosa conclusione non sia altro che la maniera più elegante a disposizione del Tocco per non dover tirare fino in fondo le fila del proprio ragionamento, prima che le contraddizioni che ne sono alla base finiscano coll’incrinarne definitivamente la credibilità.
4.2.2. FRANCES AMELIA YATES Due sono gli argomenti principali della corposa trattazione sulle artes memoriae compiuta da Frances Amelia Yates nel suo L’arte della memoria ed entrambi sono dei tentativi di ricostruzione: uno di essi riguarda la struttura originaria del Globe Theatre, l’altro la secunda praxis del De umbris. A tal riguardo, la prima operazione svolta dalla Yates consiste nel prendere i cinque elenchi bruniani delle immagini della secunda praxis e di riportarli su cinque ruote concentriche: tale azione, per quanto apparentemente in linea con le idee di Bruno, risulta invece essere piuttosto maldestra all’atto pratico per tutta una serie di motivi: le ruote hanno nel De umbris la funzione esclusiva di mostrare le possibilità combinatorie del sistema e la forma mentis con la quale deve operare l’artista di memoria; mai si parla di ruote da realizzare in senso fisico;9 – la dislocazione delle immagini sulle ruote, pur accordandosi con i precetti riportati per la secunda praxis, viene singolarmente compiuta “a rovescio” rispetto alle indicazioni bruniane, giacché la Yates parte piazzando le immagini delle circumstantia nella ruota centrale e procede –
verso quella esterna fino agli agentes, mentre il De umbris tanto nella prima, quanto nella seconda pratica, prevede di iniziare la collocazione a partire dalla ruota esterna, aggiungendo poi altre ruote all’interno di essa;10 – contrariamente a quanto crede la Yates,11 le ruote non sono i loci o i ricettacoli nei quali collocare le immagini: possibile che, dopo tutte le indicazioni fornite allo scopo di evitare che i siano anonimi o rischino di confondersi l’un l’altro per la troppa somiglianza reciproca, Bruno utilizzi un sistema di loci posto sulle settecentocinquanta caselle identiche in cui sono ripartite cinque ruote concentriche? – la Yates, infine, non riporta sulle ruote delle immagini di memoria, ma trascrive semplicemente gli elenchi bruniani all’interno delle caselle delle ruote. Della prima pratica non c’è traccia, a parte l’immagine della seconda ruota, quella con gli agentes e le appropriatae operationes, riportata solo come esempio per mostrarne la somiglianza con quelle lulliane.12 La trattazione della Yates nasce quindi “monca” già in partenza, poiché non può basarsi sui principi e sulle acquisizioni della prima praxis. Ed è questa assenza ad essere risultata fatale alla studiosa inglese, giacché se la Yates è stata forse la prima a comprendere la natura combinatoria della secunda praxis, ella non è mai neppure sfiorata dal sospetto che da un lato le indicazioni bruniane riguardino una memoria verborum e che dall’altro il De umbris condensi al proprio interno non un unico principio mnemonico, bensì più di una tecnica di memoria. Al contrario tutta l’opera viene valutata unicamente in chiave magica, lullista, astrale, occultista e cabalista, accontentandosi di accennare là dove sarebbe invece necessario spiegare. Vediamo qualcuna delle indicazioni della studiosa al riguardo: “Gli elenchi, ciascuno di centocinquanta immagini, sono destinati ad essere disposti sulle ruote concentriche mobili. […] Il risultato è un oggetto dall’apparenza antico –egiziana, con ogni evidenza sommamente magico, perché le immagini sulla ruota centrale sono le immagini dei decani dello zodiaco, immagini dei pianeti, immagini delle mansiones della luna, e immagini delle «case» dell’oroscopo. Le descrizioni di queste immagini sono trascritte dal testo di Bruno sulla ruota centrale della tavola. Questa ruota centrale sovraccarica di iscrizioni è, per così dire, la centrale dell’energia astrale che muove l’intero sistema. […] Su questa ruota stava l’intero cielo con tutti i suoi complessi influssi astrologici. Le immagini delle stelle, al girare delle ruote, componevano combinazioni e convoluzioni.
E la mente magistrale che teneva magicamente impresso nella memoria il cielo con tutti i suoi movimenti e i suoi influssi, per mezzo di immagini magiche, era davvero in possesso di un «segreto» che valeva la pena di conoscere! […] Adattando o manipolando o utilizzando le immagini astrali si manipolano forme che sono a un livello più prossimo alla realtà che non gli oggetti del mondo inferiore. […] Come funzionava il sistema? Per magia, naturalmente; perché basato sulla sede centrale di potenza dei «sigilli», […] ma non basta dire vagamente che le ruote della memoria funzionavano per magia. Era una magia portata ad un grado altissimo di sistematicità”13. Nessun tentativo di ricostruzione può essere svolto con sussesso attenendosi a premesse di questo genere che, derivando dalla scuola di pensiero dell’Istituto Warburg, pongono più l’accento sui riferimenti iconici delle immagini utilizzate rispetto alla effettiva funzionalità del sistema e della sua struttura combinatoria. Ciò di cui la Yates non si accorge è che le immagini, al pari delle tecniche, vengono ri-utilizzate, riciclate da Bruno per fini affatto nuovi e che, quindi, ciò che importa per lui non è tanto il valore simbolico o “occultistico” quanto la certezza che tali immagini appartenessero ad un repertorio conosciuto dai propri lettori, con il quale essi potessero avere un rapporto di dimestichezza e familiarità. Così se per certi aspetti, connessi soprattutto alle tematiche del lullismo ed al risveglio dell’interesse attorno al Bruno “mnemonista” ed il suo rapporto con la tradizione precedente, l’importanza del lavoro della Yates rimane indiscutibile, tuttavia nessun aiuto ci può venire dalle sue indicazioni se abbiamo intenzione di capire come utilizzare il sistema per concreti fini memorativi. E ciò per un motivo assai semplice, poiché la Yates, per sua stessa ammissione, non ha mai provato in tutta la sua vita a sperimentare in prima persona l’utilizzo di una delle tecniche di memoria di cui con tanto calore tratta nei propri scritti.14
4.2.3. RITA STURLESE La gratitudine dello studioso di Bruno verso Rita Sturlese dovrebbe essere già immensa per il solo fatto di aver reso possibile per la prima volta la pubblicazione, nel 1991, del De umbris in una edizione critica degna di tale nome; di più, le siamo ulteriormente in debito per almeno altre due ragioni, ovvero per l’enorme lavoro di collazione degli esemplari della editio princeps del De umbris, lavoro che non ha precedenti, e soprattutto per la corposa ed esauriente Introduzione premessa al testo bruniano, poiché in essa, per la
prima volta, ci viene mostrato abbastanza in dettaglio – e soprattutto in maniera concreta e plausibile, senza fumosità e con tanto di esempi – il funzionamento della secunda praxis. Muovendo dall’assunto che il congegno bruniano sia preposto alla memorizzazione di parole, in particolare di parole in lingue straniere, la Sturlese prende dunque i cinque elenchi di centocinquanta immagini ciascuno (agentes, azioni, oggetti, co-agenti e determinazioni circostanti) ma, contrariamente alla Yates, non segue la strada della collocazione sulle ruote, poiché “È assai più semplice riportare i contenuti delle centocinquanta caselle di ciascuna ruota lungo cinque strisce di carta divise ciascuna per la lunghezza in centocinquanta quadrati, non dimenticando di riportare in ciascun quadrato, oltre all’immagine, la sillaba corrispondente. Facendo scorrere le cinque strisce verso destra o sinistra sarà facile trovare le immagini corrispondenti alla parola che si desidera codificare”15. Viene poi riportata, a mo’ di esempio, una “sezione” di queste cinque strisce mobili di carta; quello che balza subito agli occhi è che le ruote dell’esempio non sono ordinate verticalmente, come avviene costantemente nell’esposizione di Bruno, il quale inizia sempre la propria trattazione mostrandoci il sistema prima “a ruote fisse” e successivamente mettendolo in moto. La Sturlese parte invece con tutte le ruote già messe in movimento, poiché si tratta di un esempio che, come vedremo, ha lo scopo di mostrare in modo concreto il processo di memorizzazione di una particolare parola:
La Sturlese ci mostra quindi, in relazione a questa posizione delle ruote, come dobbiamo procedere nel caso si voglia codificare la parola pentasillabica NUMERATORE: andremo a prendere l’agens connesso alla sillaba NU nella prima ruota, l’actio che indica ME nella seconda ruota e così
via; tutti questi “pezzi” andranno connessi fra loro in modo da ottenere la seguente immagine di memoria:16 Apis tesse un tappeto, vestito di stracci, con ceppi ai piedi, Sullo sfondo una donna che protende le mani, a cavallo di un’idra dalle molte teste. Nel caso invece si volesse memorizzare NUMIRATORE, l’immagine sarà simile alla prima, mutando solo quanto è connesso alla seconda sillaba, ovvero la actio: Apis sta navigando, vestito di stracci, con ceppi ai piedi. Sullo sfondo una donna che protende le mani, a cavallo di un’idra dalle molte teste. La Sturlese ci dice anche che per una parola con meno di cinque sillabe andremo ad utilizzare solo le prime ruote, tralasciando le ultime, e mostra altresì il modo con cui Bruno indica le lettere che eccedono la ripartizione bielementale, tecnica di cui non parliamo ora, giacché ne tratteremo più avanti, nel corso dell’esposizione della nostra interpretazione del sistema. C’è però un aspetto in cui l’esposizione della studiosa si trova in una impasse, ovvero riguardo alla spiegazione della strutturazione e della codifica delle associazioni tra le varie immagini, di cui non si fa cenno nell’Introduzione: “Processi di codifica non erano rari nei trattati di mnemotecnica del tempo (Romberch, Rosselli), anzi costituivano la base degli ordinari espedienti di memorizzazione delle parole. Tali espedienti tuttavia si differenziavano in modo radicale dal sistema bruniano: mentre infatti i primi si basavano su una relazione di similarità, visiva o fonetica, tra espressione e contenuto […] Bruno, al contrario, abbandona questo tipo di relazione iconica tra gli elementi dei due piani. Le 750 unità di espressione […] non hanno alcuna relazione di similarità con il proprio denotato, sono originati dalla creatività infinita della «ratio/phantasia» ed acquistano una funzione significante sia in virtù della libertà della fantasia stessa, sia in virtù di trovarsi in un sistema che organizza simboli”17. Siamo d’accordo sia con le considerazioni sull’affrancamento dei simboli dai vincoli della somiglianza fonetica e iconica, sia con le osservazioni sulla funzione organizzatrice del sistema, ma nulla ci viene suggerito riguardo alla effettiva correlazione tra immagini e valore sillabico, in nome di una generica “arbitrarietà”. Forse che in nome di questa arbitrarietà Bruno, dopo la prima pratica che consiste di trenta associazioni tra lettere e agentes alle quali sono
incorporati operationes e instrumenta, lasci davvero ora al lettore l’arduo compito di memorizzare settecentocinquanta correlazioni distinte, apparentemente prive del benché minimo nesso tra loro? Mi si dirà, ad esempio, che se l’elenco degli agentes della prima pratica era ordinato ricalcando le Metamorfosi di Ovidio, ora i centocinquanta agentes della seconda pratica e le actiones ad essi assimilate si rifanno al De rerum inventoribus di Polidoro Virgilio e l’elenco delle circumstantia segue l’ordine dei segni zodiacali, dei pianeti e delle posizioni lunari, ma da un lato non è pensabile, come abbiamo già dimostrato,18 che la semplice successione possa funzionare da sola in maniera veloce ed efficiente come correlazione, giacché, se voglio utilizzare il sistema in tempo reale, non posso aver bisogno di scorrere l’intero elenco o buona parte di esso per ritrovare il nesso tra un’immagine ed una sillaba; dall’altro insigna e adstantes non seguono alcun tipo di successione e perciò ci ritroviamo esattamente al punto di partenza. La Sturlese dunque ci fa vedere il sistema già all’opera, dando per consolidata la memorizzazione delle settecentocinquanta correlazioni, ma chi ha provato anche solo un poco a fissare delle liste sa bene che elenchi di questo genere possono sicuramente essere memorizzati, ma ben difficilmente utilizzati in maniera “istantanea” come richiede invece la prassi bruniana. Per poter comprendere invece come strutturare tutta questa mole di simboli avremo bisogno di riconsiderare tutto il sistema “a ruote ferme”, poiché quando viene introdotto il movimento è troppo tardi per potersi occupare di correlazioni.
4.2.4. UBALDO NICOLA Né tutta l’opera bruniana può essere spiegata come un semplice caso di ipermnesia, come suggerisce Ubaldo Nicola nella sua post-fazione ai Diagrammi Ermetici.19 Di fronte all’organizzazione dei sistemi delle due pratiche del De umbris su base trenta, il Nicola non trova di meglio che associare Bruno al mnemonista Serasevskij,20 giungendo grossolanamente alla conclusione che, mentre “l’estensione normale della nostra memoria oscilla attorno ai sette elementi, si può ragionevolmente dire che Bruno aveva uno span quattro volte superiore alla normalità, ragionava, per così dire, «su base trenta», costruendo schemi e processi mentali con un numero di variabili assolutamente sproporzionato per i limiti oggettivi di una psiche normale”21. L’assurdità di una tale interpretazione è paragonabile solamente al
dilettantismo del Nicola per quanto riguarda le tematiche di psicologia cognitiva, poiché la cifra di “sette elementi più o meno due” riguarda la misurazione delle capacità di memoria a breve termine e non “l’estensione personale della memoria”, come la definisce lui. Da questo punto di vista il sistema di Bruno funziona semmai su base cinque, essendo cinque gli elementi – uno per ruota – da combinare contemporaneamente in una immagine per una parola di cinque sillabe, e per questo non si pone come un metodo esoterico ed ultracomplesso utilizzabile solo dal proprio autore, bensì come una tecnica adottabile anche da quelle persone, meno dotate dalla natura, che riescono a manipolare solo cinque elementi alla volta. Inoltre perché Bruno avrebbe dovuto spendere tante energie per divulgare un metodo che funzionasse solamente per lui? E come sarebbe stato possibile che il re di Francia potesse comprendere le tecniche di Bruno ed utilizzarle se queste fossero davvero state così difficili e complicate? In realtà, come al solito, quando un sistema non viene compreso ci si rifugia dietro all’occultismo oppure ci si appella alla assoluta straordinarietà del proprio autore, come se la teoria della relatività, per il fatto stesso di essere stata concepita da una persona geniale fosse impossibile da comprendere per i comuni mortali…
4.2.5. MANUELA MADDAMMA Di tutte le esposizioni del testo bruniano quella della Maddamma è sicuramente la più completa e puntuale, anche se in più di un punto risulta essere assai intricata e poco vicina agli aspetti pratici delle tecniche bruniane. Così, ad esempio, nel commento della seconda pratica, ad un certo punto si trova a doversi barcamenare con sei ruote anziché cinque, giacché introduce una sesta ruota dei nomi personali che in seguito verrà fusa con quella degli agentes. In realtà i nomi personali, come vedremo saranno collocati “all’ombra” dei vessilli-lettera che stanno sulla ruota più esterna, senza bisogno di ipotizzare una ruota ulteriore da fondersi poi con quella degli agentes per tornare alle fatidiche cinque ruote,22 tanto più che il numero degli agentes e quello dei nomi personali non sono affatto coincidenti, potendoci essere più di un nome personale per ciascun agens, come vedremo. Essendo impegnata in questi ragionamenti piuttosto bizantini, la Maddamma perde parzialmente di vista gli scopi del sistema bruniano, giungendo ad affermare che esso dovesse servire per la elaborazione di interi discorsi23 e non spiega
invece aspetti ben più importanti, quali, ad esempio, quelli relativi alle possibilità del sistema di poter funzionare in maniera performativa, senza alcun tipo di tabella sotto gli occhi. Non comprende la struttura delle ruote per la seconda pratica riportate da Bruno nella figura di pagina 180, poiché ritiene che i vessilli principali, quelli della ruota più esterna, debbano essere centocinquanta, quando invece essi sono trenta; nella stessa immagine ella associa la ruota più esterna alla seconda, la quale riporta i medesimi simboli della prima, domandandosi poi il perché di questa inutile ripetizione:24 in realtà la ruota più esterna indica i vessilli e le altre sei interne, come vedremo,25 vanno considerate assieme. Purtroppo anche la Maddamma, al pari dei suoi predecessori, non commenta le caratteristiche più importanti dei metodi bruniani per il semplice fatto di non averle mai seriamente sperimentate su sé stessa.
4.3. SECUNDA PRAXIS: UNA ALTERNATIVA POSSIBILE Ognuna delle interpretazioni fin qui esaminate presenta almeno due punti in comune con le altre, nel senso che nessuna di esse parte dalla semplice constatazione che il sistema, complesso e macchinoso quanto si vuole, deve comunque essere in grado di funzionare all’atto pratico, né alcuna di esse spiega come possa riuscire l’allievo a fissare nella memoria le settecentocinquanta immagini previste da Bruno e a destreggiarsi con esse.
Non una semplice estensione delle determinazioni della prima pratica, come vuole Tocco, né magia che muove le immagini, come pretende la Yates, né tantomeno gli almeno quindici (!) metri di carta necessari per realizzare le cinque strisce di centocinquanta immagini e sillabe ciascuna, come suggerisce la Sturlese o le ruote della Maddamma che prima sono sei, poi divengono cinque perché due si sovrappongono. No: il sistema deve funzionare senza doversi appellare all’intervento miracoloso di Ermete Trismegisto ogniqualvolta ci si debba ricordare di un termine ad essa affidato, senza il ricorso a complicate associazioni e meccanismi di scambio delle immagini e soprattutto senza srotolare metri e metri di carta, armeggiando impacciati e cercando di far combaciare le immagini delle diverse strisce, anche perché, a questo punto, sarebbe decisamente più economico scriversi un appunto con la notizia da ricordare, metterselo in tasca, ed estrarlo nel momento in cui se ne presentasse il bisogno. Il nostro tentativo di interpretazione terrà invece come punto fermo l’idea che la secunda praxis esposta dal nolano dovesse risultare di agevole
comprensione per i lettori contemporanei e che il sistema di memoria verborum ivi descritto apparisse pienamente utilizzabile con una ragionevole facilità dopo il necessario periodo di allenamento. Inoltre, come ogni artificio mnemonico che si rispetti, non dovrà avere bisogno di appoggiarsi a tabelle o liste scritte né durante la codifica di una parola, né tantomeno durante la sua decodifica, poiché l’associazione tra verba e imagines deve risultare un fatto pienamente acquisito quando si comincia a mettere in pratica il sistema.
4.4. RI-ALLESTIMENTO DEL SISTEMA 4.4.1. LA PRIMA PRAXIS COME PUNTO DI PARTENZA Abbiamo già detto che la secunda praxis ha lo scopo di permettere la memorizzazione di intere parole con l’ausilio di immagini complesse ma unitarie. Per comprendere come ciò possa avvenire non ci affideremo alle opinioni degli studiosi che ci hanno preceduto, ma seguiremo passo passo quanto ci viene spiegato da Bruno stesso al riguardo. Andiamo a rileggere l’inizio della esposizione della seconda pratica, alla pagina 174 del testo: “Mentre la prima pratica in fase iniziale permetteva solo la combinazione di lettere, la pratica maggiore, in cui sfocia la prima in fase avanzata, consente la composizione di sillabe allo scopo di illustrare delle parole complete…”. In questa fase c’è quel breve inciso, evidenziato in corsivo, che fino ad ora è sfuggito o comunque non è stato compreso fino in fondo: la seconda pratica è una evoluzione della prima quando questa è in fase avanzata. Perché la prima pratica possa considerarsi in fase avanzata sono necessarie, come abbiamo visto,26 alcune condizioni, e precisamente: – disponibilità di un grande numero di loci e assoluta sicurezza della loro affidabilità; – buona dimestichezza, ottenuta attraverso l’esercizio, con tutte le tecniche esposte riguardo all’associazione tra agentes, operationes e instrumenta e la loro successiva combinazione; – applicazione pratica del principio della moltiplicazione degli adiecta con l’utilizzo di volti noti e familiari (che da ora in avanti chiameremo per comodità attori) per impersonare gli agentes mitologici; in tal modo, come abbiamo visto, abbiamo più di un volto a disposizione per
rappresentare la stessa lettera iniziale di una sillaba; naturalmente la distribuzione degli attori dovrà essere effettuata in maniera “proporzionale”, cercando di assegnare più attori agli agentes di quelle lettere che ricorrano con maggiore frequenza. Se tutto questo è stato fatto con diligenza, ci troviamo nella seguente situazione: siamo in grado di memorizzare monosillabi fino a cinque lettere, facendo impersonare il ruolo degli agentes a vari attori e connettendo ad essi azioni, strumenti e altre eventuali determinazioni accessorie così da avere una raffigurazione compiuta della sillaba. Facciamo un esempio, ponendo di dover memorizzare diverse sillabe che presentino la M come prima lettera: MA, ME, MI, MO, MU, MUS, etc. Seguendo la regola della multiplicatio degli adiecta farò impersonare il ruolo di Perseo (che è appunto l’agens mitologico per la lettera M) a due o tre miei amici, e per ottenere ciò dovrò innanzitutto fissare visivamente ciascuno di essi nell’atto di andare a spasso per la città pietrificando le persone con la testa di Medusa (essendo in caput Medusae l’appropriata operatio di Perseo); e volendo, in questa fase, potremmo anche aggiungere loro l’instrumentum di Perseo: Bruno non lo prevede, ritenendo sufficiente la connessione tra attore e operatio, ma di sicuro un nesso in più non farà altro che rafforzare ulteriormente i rimandi reciproci. Solo quando queste correlazioni saranno ben impresse nella mia mente potrò “far girare le ruote” utilizzando i miei amici in relazione a diverse operationes e a differenti instrumenta senza il timore di perdere le associazioni originali. Questa è quella che Bruno intende per “prima pratica in fase avanzata”: ciò che di essa ci interessa, ai fini della seconda pratica, è solamente la connessione tra gli attori aggiunti da noi e le lettere dell’alfabeto, poiché, come vedremo, agentes, operationes, e instrumenta della prima pratica verranno lasciati cadere e saranno sostituiti con altre determinazioni più adatte alle nuove esigenze. L’appropriata operatio, infatti, mi è utile solo nel momento in cui voglio associare un attore a Perseo: dopo aver ottenuto l’associazione, essa non mi serve più ed il riferimento tra attore e lettera dell’alfabeto diviene automatico, come suggerisce anche Bruno: “A Filoteo rimarrà sempre addosso il carattere del nome di Deucalione se anche solo una volta è stato annoverato nel numero di quelli che lanciano sassi”27.
4.4.2. I VEXILLA E LA DISLOCAZIONE DEGLI ATTORI
Gli attori da noi dislocati sono dunque il punto di partenza per la seconda pratica. Proseguiamo, attenendoci sempre alle istruzioni del testo: “Grazie a quanto abbiamo detto riguardo all’estensione grafica abbiamo ottenuto dei nomi conosciutissimi, giacché ciò giova appunto a quella varietà che è assolutamente necessaria in questa arte, e ricondurrai alcuni nomi principali ed utilizzati con maggiore frequenza, tra quelli che è tua cura aggiungere, come centurie al riparo e sotto l’ala dei trenta vessilli”28. Il fatto di utilizzare un gergo militare per designare le trenta lettere come “trenta vessilli” può rendere l’idea del carattere di dispiegamento di forze e mezzi che il Bruno sta per compiere. Tra l’altro, non c’è alcun tipo di forzatura nell’introduzione di questa metafora, poiché quelli che abbiamo tradotto come “nomi principali” nel testo latino sono indicati come principalia: i principes nell’esercito romano erano i soldati di seconda linea, immediatamente dietro gli astati e davanti ai triari; Bruno immagina di collocare i trenta vessillilettere appunto sulle aste, in prima fila, e di schierare dietro a ciascuno di essi ordinatamente tutti quegli elementi che concorreranno alla realizzazione della sua memoria verborum. Questa volta, però, gli attori non andranno ad essere inseriti, come nella prima praxis, in un sistema basato su trenta semplici divisioni di lettere, bensì su trenta lettere moltiplicate per cinque vocali, in modo da ottenere le centocinquanta divisioni possibili di sillabe bielementali aperte, ovvero terminanti con una vocale: “Come ti eri fissato trenta agenti, azioni, segni distintivi, oltre a circumstantia (personaggi circostanti, sullo sfondo) e adstantes (co-agenti, che stanno vicini) correlati alle trenta lettere, ora, in maniera altrettanto ordinata, collocane centocinquanta, cifra che si ottiene combinando ogni prima lettera di una sillaba bielementale aperta (che Bruno chiama “lettera assistente”) con ognuna delle cinque vocali (definite come “lettere sussistenti”). Vediamo dunque che in base allo stesso principio con cui abbiamo insegnato a realizzare un abbecedario abbiamo insegnato anche a formare un sillabario”29. Riassumiamo: abbiamo trenta vessilli, ciascuno dei quali rappresenta una singola lettera dell’alfabeto, esattamente come nella prima pratica. “All’ombra di questi vessilli, ovvero stabilmente correlati ad essi, noi andremo dunque a piazzare i nostri attori, ma in che modo? Abbiamo visto che occorre ricondurre “alcuni nomi principali ed utilizzati con maggiore frequenza, tra quelli che è tua cura aggiungere, come centurie al riparo e sotto l’ala dei trenta vessilli”; Bruno suggerisce inoltre che “quei nomi a te meglio noti siano correlati a questo insieme di vessilli in modo tale che
ciascuno di essi occupi quel posto che sembrerà essere più adatto secondo la propria natura”30. Se per “nomi principali utilizzati con maggiore frequenza, tra quelli che è nostra cura aggiungere” si intendono i “migliori” e più affidabili attori della prima praxis, essi andranno ora correlati ai vessilli tenendo conto della lettera che impersonavano nel corso della prima praxis: in tal modo si riciclano le correlazioni già effettuate con notevole risparmio di tempo e fatica. L’unico pericolo di cui si deve tener conto è che tre degli agentes della seconda pratica coincidono con altrettanti agentes della prima pratica, ma con valore sillabico e letterale assolutamente diverso.31 Se invece facciamo uso di attori diversi da quelli della prima praxis, dovremo cercare anticipatamente quale sia il vessillo “più adatto secondo la loro natura”, prima di operare la correlazione. Se utilizziamo gli elenchi di agentes e azioni dato da Bruno, per esempio, costituiti come vedremo da inventori correlati alle loro invenzioni, dovremo vedere se tra i nostri conoscenti candidati al ruolo di attori ce ne sia qualcuno che possa essere adattato ad un inventore o ad una scoperta, magari perché svolge una professione simile: se, ad esempio, ho un amico che fa l’artigiano potrò piazzarlo all’ombra del vessillo rappresentante la lettera L, poiché ad esso sono connessi tutti agentes che hanno operato nel settore che oggi definiremmo “artigianale”, come risulta dal seguente estratto degli elenchi: SILLABA
AGENS
ACTIO
LA LE LI LO LU
Abas Stram Crates Arphalus Dubitrides
barbiere nel rasoio tornisce l’oro fa la doratura nelle bottiglie32
Posso inoltre combinare i due principi: se ho mantenuto la correlazione di uno degli attori della prima praxis con la propria lettera e conosco altre persone che si trovano ad essere in relazione per un qualsiasi motivo a quell’attore, potrò ricondurre anche queste “all’ombra” dello stesso vessillo. Poniamo, ad esempio, di avere correlato, nel corso della prima praxis, Paolo, mio caro amico del Liceo, a Deucalione nei sassi e quindi alla lettera B. Trattandosi di una lettera piuttosto frequente, avrò ora bisogno di diversi attori ad essa correlati. Supponendo di continuare a mantenere anche nella
secunda praxis l’associazione tra Paolo e la lettera B, potrò piazzare all’ombra del vessillo B anche altre persone in relazione con Paolo; poiché a casa di Paolo si ritrovano quasi tutte le sere alcuni altri nostri ex compagni di scuola, come Massimiliano, Gian Paolo, Fabiano, Matteo, potrebbe essere una buona idea quella di utilizzare anche costoro come attori per la lettera B, poiché quando mi imbatterò in uno di loro all’interno di una mia immagine di memoria, sarò sempre in grado di ricondurli come ospiti al padrone di casa, Paolo, e quindi alla lettera B. Di tutte queste possibilità non importa quale è quella scelta da noi: l’importante, come suggerisce sempre Bruno, è che il sistema funzioni all’atto pratico, cosa che ognuno di noi potrà verificare solamente con l’esperienza diretta. Dal momento che anche nella secunda praxis ci troveremo, prima o poi, ad affrontare il fatidico problema della pericolosa collocazione reiterata delle stesse immagini, questa volta Bruno gioca d’anticipo: “I vessilli che vanno più spesso in battaglia si prenderanno le truppe maggiori; tra tutti infatti ce ne sono anche di quelli che si accontentano di uno o due soldati. Bisogna fare in modo tale da operare con tutti secondo un’uguaglianza di proporzione, non di numero”33. Così, mentre per la lettera Ψ mi basteranno pochi attori, per la lettera M, la B, la C e per tutte quelle di più frequente utilizzo, avrò bisogno di allestire attori in numero decisamente maggiore. Sotto a ciascun vessillo-lettera e al suo gruppo di attori – oppure più indietro nello schieramento, se vogliamo continuare la metafora militare – è poi posta la lettera dell’alfabeto omonima, non più isolata come nella prima praxis, bensì articolata nel quinario delle lettere sussistenti, ovvero delle cinque vocali A, E, I, O, U, così da ottenere centocinquanta sillabe “aperte”, cioè terminanti in vocale. Tutto questo spiegamento di forze, perciò, mi permette di rappresentare una sola sillaba, e poiché le parole che dobbiamo memorizzare sono spesso e volentieri formate da più sillabe, dovremo “riprodurlo” per tante volte quante sono le sillabe massime delle parole da memorizzare; a questo riguardo Bruno propone di lavorare con parole di un massimo di cinque sillabe: “Poi, per poter lavorare senza limitazioni, ad ognuno dei vessilli posti innanzi, ciascuno dei quali va articolato nel quinario delle cinque lettere sussistenti, sottomettiamo altri cinque vessilli”34.
4.4.3. LE RUOTE DELLA SECUNDA PRAXIS
Poiché è difficile far stare cinque ruote in poco spazio, ne collochiamo solo una, a cui le altre sono simili, e non estesa, bensì ristretta, poiché i trenta vessilli principali sono disposti sulla circonferenza, e i cinque sottomessi a ciascuno di essi sono disposti in scala da questi verso il centro35(fig. 5).
FIG. 5 A questo punto si spiega la struttura, apparentemente incongruente, delle ruote illustrate nella figura collocata allo scopo di esplicare la seconda pratica e di quanto ad esse è permesso a titolo di spiegazione. Se le caselle di queste ruote dovessero infatti essere interpretate come dei ricettacoli per le immagini, ci si troverebbe sicuramente in forte imbarazzo: “Dove sono le sillabe? Perché ci sono sette ruote concentriche? Cosa ci fanno le vocali presentate isolatamente? E perché la ruota più esterna e la seconda sono identiche? Un inutile raddoppio o magari un maldestro errore tipografico della stamperia del Gourbin?”. Se invece teniamo conto di quanto abbiamo fin qui esposto e ci manteniamo nella convinzione che le ruote non siano dei loci, né vadano realizzate fisicamente, ma consistano semplicemente in raffigurazioni di processi combinatori mentali,36 allora tutto si spiega: la ruota esterna rappresenta i vessilli principali “i trenta vessilli principali sono disposti sulla circonferenza”; se la ruota fosse rappresentata in maniera estesa, allora noi potremmo “vedere” gli attori connessi con i vessilli, ma la ruota è rappresentata in forma “non estesa, bensì ristretta” e così dobbiamo accontentarci dei soli vessilli, immaginando gli attori “all’ombra” di essi. Procedendo verso l’interno abbiamo la seconda ruota che è quella dei vessilli sottomessi, che corrispondono alle lettere assistenti, ovvero ciascuna prima
lettera di una sillaba bielementale: ognuna di queste lettere assistenti va articolata nel quinario delle sussistenti, ovvero nelle cinque vocali, che qui si presentano in minuscolo, per evitare confusione con le assistenti, e sono scritte “sfalsate” in modo tale che, leggendo i vari settori della ruota “in verticale” si possano vedere immediatamente tutte le combinazioni sillabiche realizzabili. Ora possiamo capire chiaramente come, tolta la ruota esterna dei vessilli principali, tutto il rimanente sistema di sei ruote sia in realtà un’unica, grande ruota che serve per la rappresentazione di una sola sillaba: dovrò perciò moltiplicarlo – procedendo verso l’interno – tante volte quante sono le sillabe della parola che vogliamo memorizzare: questo è il senso del “poiché è difficile far stare cinque ruote in poco spazio, ne collochiamo solo una, a cui le altre sono simili […] i cinque vessilli sottomessi a quelli principali sono disposti in scala da questi verso il centro”. Ciascuno dei vessilli sottomessi indica infatti la prima lettera di ogni sillaba: di essi nella figura è presente appunto solamente il primo, corrispondente alla seconda ruota partendo dall’esterno.
4.5. STRUTTURAZIONE DELLA MEMORIA VERBORUM 4.5.1. PREMESSA Dopo aver ri-allestito il sistema come abbiamo descritto, siamo ora pronti a strutturare le immagini per la memoria verborum. E per fare ciò utilizzeremo dei procedimenti assai simili a quelli già presi in esame per la prima praxis, poiché le uniche differenze riguarderanno: – maggior numero di ruote e quindi maggior complessità risultante delle immagini, costituite ora da cinque elementi invece che da tre; – presenza stabile di diversi “attori” per impersonare i vari agentes; – ulteriore “complicazione” del codice, intesa non come aumento delle difficoltà di codifica e de-codifica, bensì nel senso semiotico di istituzione di sotto-codifiche all’interno di esso, le quali permetteranno in molti casi la ricostruzione della parola originale anche se dovessimo perdere per la strada dei “pezzi” di correlazione.
4.5.2. LE IMMAGINI DEGLI AGENTES-INVENTORES E LE LORO ACTIONES “Tu stesso ti preparerai un elenco di centocinquanta nomi che in base alla loro denominazione, o alla loro azione abituale, o per la loro disposizione siano strutturati secondo l’ordine della prima lettera della sillaba, e organizzati ordinatamente dalle cinque lettere sussistenti. Fatto ciò, ricondurrai questi nomi alla disposizione di queste o di altre – se ne hai di migliori – specie e mestieri delle vocali – in modo che si uniscano alle medesime per mezzo di azioni e in mestieri definiti – o collocando nomi a te conosciuti secondo una disposizione ordinata che procede in linea retta, o ordinando in modo diverso da come li abbiamo collocati noi, come ti sia più comodo, usandone altri che si susseguano al posto di certi altri, riconducendoli in una successione precisa, in modo tale che possano entrare in relazione alle stesse o ad altre circumstantia, agli stessi o ad altri tratti distintivi e co-agenti”37. Esattamente come aveva fatto nella prima pratica, ove si diceva: “Tu disporrai e stabilirai nel modo che ti sembrerà più opportuno”38 Bruno continua ad insistere sulla possibilità lasciata a ciascuno di utilizzare elenchi diversi da quelli da lui proposti.39 Prima però di prendere in considerazione altre possibilità, proveremo a seguire alla lettera le proposte bruniane. Dovendo rappresentare centocinquanta sillabe, Bruno ha bisogno innanzitutto di centocinquanta agentes che fungano da immagini principali a cui connettere poi tutte le altre immagini accessorie. Non può ovviamente continuare ad utilizzare la mitologia ovidiana, per evitare confusione con la prima praxis, ma ha bisogno di un elenco che presenti caratteristiche simili in quanto a strutturazione e memorabilità. A questo punto, frugando nelle proprie conoscenze, si imbatte nel De rerum inventoribus di Polidoro Virgilio. Pubblicato a Lione nel 1561 e subito tradotto in varie lingue, questo testo si presenta come una carrellata delle scoperte e delle invenzioni umane: di ciascun inventore vengono descritte brevemente la vita ed il carattere, oltre alle circostanze che lo portarono per primo a scoprire o escogitare la cosa grazie alla quale è poi passato alla storia. Perché gli inventori? Perché come ogni personaggio mitologico è indissolubilmente connesso ad un gesto eroico o comunque grandioso grazie al quale egli è divenuto memorabile, così ciascun inventore verrà sempre e comunque associato alla propria actio, corrispondente all’invenzione che lo ha reso famoso, ed è questa la caratteristica di cui ha bisogno Bruno perché le relazioni istituite all’interno del sistema possano sempre funzionare in maniera efficiente.
Contrariamente a quanto era stato fatto con i personaggi delle Metamorfosi, però, ora l’elenco di inventori estrapolato da Polidoro Virgilio non segue, se non in minima parte, la successione originale del testo. Come mai? Perché se la successione costituiva solo un criterio accessorio per i trenta agentes della prima pratica, ora, con centocinquanta inventores, essa diviene un criterio ancora meno importante e cede il posto alla strutturazione “a gruppi” operata dalle cinque vocali: “Strutturati secondo l’ordine della prima lettera della sillaba, e organizzati ordinatamente dalle cinque lettere sussistenti” dice infatti Bruno, aggiungendo che questi nomi andranno ricondotti “alla disposizione di queste specie e mestieri delle vocali, in modo che si uniscano ad esse per mezzo di azioni e in mestieri definiti”. Vediamo l’inizio dell’elenco: AA AE AI AO AU
(AA) (AE) (AI) (AO) (AU)
Rhegima Osiride Cerere Trittolemo Pitumno
nel pane di castagne nell’agricoltura nel giogo per i buoi semina concima
1 2 3 4 5
BA BE BI BO BU
(BA) (BE) (BI) (BO) (BU)
Erittonio Glauco Trace Misa Prode
nel carro sguaina la spada nella falce condisce col sale trae il fuoco dalla selce
6 7 8 9 10
CA CE CI CO CU
(CA) (CE) (CI) (CO) (CU)
Hasamon Phega Belhaiot Pilumno Oresteus
trapianta innesta nell’asino da soma trebbia il grano cura le viti
11 12 13 14 1540
Come si può vedere, gli inventori sono organizzati per “gruppi tematici”: così alla lettera adsistens A corrispondono scoperte che stanno al principio della storia dell’uomo, alla B i primi manufatti, mentre la C raggruppa l’introduzione di nuove tecniche relative all’agricoltura. Va detto che i raggruppamenti operati da Bruno non appaiono sempre così lineari:
l’importante è comunque che tra gli inventori di ciascun gruppo si instaurino delle relazioni reciproche tali da poter aiutare la correlazione, soprattutto durante il processo di de-codifica. Inoltre il De rerum inventoribus non è la fonte esclusiva da cui attinge Bruno per il proprio elenco, giacché esso riguarda principalmente gli inventori in senso propriamente “tecnico”; per gli altri agentes, soprattutto filosofi o comunque “inventori di idee” Bruno ricorre alla Naturalis istoria di Plinio e soprattutto alle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio, testi anche questi ampiamente diffusi alla fine del XVI secolo. Tutti questi inventori, la cui raffigurazione risulta essere assai più “anonima” rispetto a quella degli eroi ovidiani – chi di noi conosce ad esempio le fattezze di Ermaele o Licarnasso? – dovranno “prestare”, per così dire, i loro corpi sui quali verrà innestato il volto degli attori, i quali, al momento, si trovano ancora in paziente attesa “all’ombra” dei trenta vessilli. Spieghiamoci meglio: in relazione a ciascuno dei vessilli, ovvero a ciascuna lettera dell’alfabeto, abbiamo collocato un certo numero di attori, ovvero persone di nostra conoscenza, in numero variabile in relazione alla stima della probabilità statistica di utilizzo di ciascuna lettera all’interno del sistema, e comunque non meno di cinque attori per ogni vessillo, poiché la lettera adsistens corrispondente al vessillo va articolata con le cinque vocali, il ruolo di ognuna delle sillabe risultanti va assegnato ad un agens diverso, e agentes diversi non possono essere rappresentati dallo stesso attore, per evitare confusione. Per il vessillo B, ad esempio, avevo già previsto41 cinque attori in relazione fra loro, ovvero Paolo, Massimiliano, Gian Paolo, Fabiano, Matteo allo scopo di impersonare altrettanti agentes così da poter raffigurare le sillabe BA, BE, BI, BO, BU, in modo da ottenere, ad esempio, le seguenti correlazioni: BA BE BI BO BU
Paolo – Erittonio Massimiliano – Glauco Gian Paolo – Trace Fabiano – Misa Matteo –Pyrode
nel carro sguaina la spada nella falce condisce col sale trae il fuoco dalla selce
Poi, in considerazione dell’elevata probabilità che hanno alcune di queste sillabe, come BA e BE, di essere utilizzate più volte nel corso della memorizzazione di diverse parole, dovrò assegnare degli altri attori agli agentes corrispondenti per evitare la collocazione reiterata dei medesimi attori
e quindi il rischio di creare confusione: in questo caso particolare potrei considerare l’utilizzo di altri frequentatori della casa di Paolo, come Giorgio, Marco e Ferruccio, oppure qualche parente convivente nella stessa casa, come suo padre, Pietro, o suo fratello, Alberto, così da ottenere il seguente schema: SILLABA ATTORE POSSIBILE
AGENS-INVENTOR
ACTIO
Erittonio
nel carro
Glauco
sguaina la spada
Pietro BA
Paolo Alberto Giorgio
BE
Massimiliano Marco
Per ogni occorrenza di BA come prima sillaba di una parola da ricordare andrò quindi a scegliere uno degli attori associati a Erittonio: o Pietro o Paolo o Alberto. Se invece BA fosse la seconda sillaba della parola utilizzerò la actio di Erittonio, ovvero “nel carro”.
4.5.3. GLI INSIGNA Similmente alla prima praxis viene fornito un elenco di determinazioni dell’agens: come là avevamo agentes che potevano essere incatenati, bendati, con il balteo, e così via, ora abbiamo centocinquanta aggettivi, ciascuno dotato del proprio valore sillabico, che specificano la condizione dell’agens e vanno utilizzati per rappresentare la terza sillaba della parola da memorizzare. Vediamo i primi: AA AE AI AO
(AA) (AE) (AI) (AO)
nodoso simulato intricato informe
1 2 3 4
AU
(AU)
celebre
5
BA BE BI BO BU
(BA) (BE) (BI) (BO) (BU)
fiacco turpe avvolto inetto giacente
6 7 8 9 10
Come si vede, si tratta di un elenco privo di una qualsiasi strutturazione logica e questo perché, come vedremo, l’associazione tra insigne e valore sillabico corrispondente verrà ottenuta grazie al concorso di attore-agens e actio: non c’era quindi bisogno per Bruno di ordinare questi aggettivi, tanto che la loro compilazione viene effettuata in maniera piuttosto frettolosa: alla sillaba AO, per esempio, è connesso l’aggettivo informe, lo stesso identico aggettivo informe che dovrebbe rappresentare la sillaba ΩA, il che è ovviamente impossibile, per la natura stessa del sistema che non permette sovrapposizioni di questo genere.42
4.5.4. GLI ADSTANTES Il ruolo della quarta sillaba viene svolto da uno dei centocinquanta adstantes, ovvero cose e oggetti che prendono parte all’azione, in quanto vengono utilizzati dall’agens, oppure si oppongono ad esso, o ancora perché si pongono in una qualunque altra relazione pensabile: l’importante è che essi non vengano raffigurati isolati, bensì rapportati all’agens per evitare che vadano perduti durante il recupero dell’immagine di memoria. Esattamente come per gli insigna, Bruno fornisce un autentico zibaldone, questa volta formato da oggetti di diversa estrazione: piante, animali, manufatti e così via senza un ordine apparente:43 anche in questo caso, infatti, non importa che esista una successione logica nell’elenco, poiché l’associazione tra adstans e valore sillabico corrispondente verrà ottenuta grazie al concorso dell’attoreagens e dell’actio. La novità consiste invece nell’introduzione, ad un certo punto, di una classificazione di tipo “funzionale” degli adstantes proposti, suddivisi in base al modo con il quale possono essere relazionati all’agens. Abbiamo così:
– cinquantacinque adstantes dotati di caratteristiche e dimensioni tra le più disparate, senza alcuna indicazione su una eventuale modalità preferenziale di connessione all’agens, tra essi si trovano immagini di piante, oggetti comuni come zampogna, spada, amo, briglia, animali domestici e comuni, oltre a riferimenti più inusuali a fenomeni fisici e celesti quali cometa, inondazione, fulmine, iride; – trenta oggetti relazionabili al collo, la maggior parte dei quali in maniera piuttosto ovvia, come collana, giogo, serpente, fazzoletto, altri invece di utilizzo non altrettanto evidente, come bottiglia o tromba; – sessantacinque oggetti adattabili ai piedi, e qui troviamo veramente di tutto: animali come scorpione, oca, oppure oggetti comuni, come conchiglia o sedia, ma anche oggetti inusuali come ruota della fortuna, viscere degli aruspici, antro, o addirittura inferno. Comuni, quotidiani, o più strani ed inusuali, in ogni caso tutte queste immagini erano sicuramente selezionate tra quelle appartenenti al normale bagaglio di esperienze di ciascuno dei potenziali lettori del De umbris.
4.5.5. LE CIRCUMSTANTIA Veniamo ora alle circumstantia, quelle immagini che la Yates riteneva essere le componenti di quella “centrale dell’energia astrale” collocata nella ruota più interna: in realtà esse, lo abbiamo già capito, non sono altro che le immagini per rappresentare la quinta sillaba di una parola. Avendo già collocato un attore-agens come immagine principale, tutto intento a compiere un’azione, con tanto di insigna ed adstantes, l’unico modo per completare il quadro è quello di aggiungere delle determinazioni circostanti che fungano da sfondo, da ambientazione dell’immagine: non quindi altri elementi direttamente connessi con il soggetto, perché ciò potrebbe portare confusione, ma un secondo piano all’interno dell’immagine, quasi che gli studi ottici rinascimentali riguardanti la prospettiva applicata alla pittura venissero ad influenzare anche l’organizzazione delle immagini di memoria: per la prima volta, infatti, esse escono dalla bidimensionalità e acquistano una profondità spaziale articolata in diversi livelli di cui fino a Bruno non si trova traccia, anche perché collocando al massimo un paio di immagini in un medesimo locus, come “Raimondo che percuote il locus con un bastone”, non c’è alcun
bisogno di tridimensionalità. Passando ad una raffigurazione su più livelli esiste però l’eventualità che, mancando qualsiasi connessione tra immagine principale in primo piano ed immagini sullo sfondo, queste ultime possano essere perse o confuse al momento del recupero dei dati. Per evitare ciò Bruno utilizza come circumstantia non dei singoli oggetti, bensì delle raffigurazioni già complesse ed elaborate, attingendole principalmente dal De occulta philosophia di Agrippa. Queste immagini, nell’ordine, sono così strutturate: – trentasei immagini dei decani dello zodiaco (tre per ciascuno dei dodici segni) alle quali viene fatto seguire un elenco delle loro caratteristiche peculiari; – cinquanta immagini dei diversi pianeti: Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna (sette immagini per ciascuno di essi più l’immagine del Drago della Luna); – ventotto immagini delle posizioni lunari; – trentasei immagini per le dodici “case” astrologiche (tre per ogni casa); per un totale di centocinquanta immagini. Le ragioni per cui Bruno utilizza questo materiale “astrologico” per le circumstantia non sono secondo noi dissimili da quelle che motivano la scelta di tutto il materiale del De umbris, ovvero grande diffusione e conoscenza da parte di tutti i lettori: Bruno non è interessato tanto alla manipolazione di potenti sigilli astrali più prossimi alla realtà delle immagini, come ipotizzava la Yates, quanto al fatto che i “quadretti” di Agrippa fossero assai diffusi al suo tempo, così come le tematiche astrologiche ad essi connesse. Se io oggi realizzassi un sistema simile a quello bruniano, ma basato sulle sole ventuno lettere dell’alfabeto italiano e decidessi di utilizzare come determinazioni accessorie le dodici immagini dei segni zodiacali e quelle dei nove pianeti del sistema solare, dovrei per questo essere automaticamente etichettato come astrologo? Chissà allora cosa si direbbe di me fra cinque secoli se mai dovessi utilizzare, come avevamo grottescamente ipotizzato nel corso della trattazione degli agentes della prima pratica,44 i vip dello spettacolo e della televisione come immagini principali! Ma torniamo alle nostre circumstantia, i cui elenchi, a causa della loro complessità, occupano un notevole spazio, estendendosi dalla pagina 196 alla pagina 221 del testo. Per esaminare le possibili modalità di relazione con il resto dell’immagine
prendiamo ad esempio in considerazione la prima di queste circumstantia, relativa alla sillaba AA: Nella prima immagine dell’Ariete ascende un uomo nero, di smisurata statura, con occhi ardenti, col volto severo, che sta ritto in piedi cinto di un mantello bianco.45 L’immagine è già assai potente di per sé (“potente” ovviamente in senso mnemonico e non “astrale”) e corre meno rischi di essere dimenticata rispetto ad un semplice oggetto; per evitare comunque il rischio di confonderla con altre, potremmo agganciarla al resto dell’immagine, ponendola in “tenue” relazione con l’agens, immaginando magari l’uomo nero fissi l’agens con i suoi occhi ardenti o che lo sovrasti con la sua smisurata statura, o ancora che fissi impassibile, con il suo volto austero la scena che si svolge davanti ai propri occhi o, infine, che il suo mantello bianco sia l’unico elemento di colore chiaro in tutta l’immagine.
4.5.6. POSSIBILITÀ ALTERNATIVE Gli elenchi qui presentati da Bruno sono, lo ribadiamo, una sola delle possibilità ricavabili partendo dalle regole esposte: ciascuno di noi potrà, ad esempio, collocare “nomi conosciuti secondo una disposizione ordinata che procede in linea retta, o ordinando in modo diverso da come li abbiamo collocati noi, come ti sia più comodo, usandone altri che si susseguano al posto di certi altri”46. Non importa cioè quale criterio andiamo ad utilizzare per ordinare e strutturare i nostri elenchi, poiché ciò che veramente conta è che in qualsiasi momento essi possano essere riferiti ad un principio di organizzazione ben preciso.
4.6. FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA COMBINATORIO 4.6.1. MEMORIZZAZIONE “VERTICALE” A questo punto è necessario memorizzare tutti i cinque elenchi, composti da
centocinquanta immagini ciascuno, per un totale di settecentocinquanta immagini. Ponendo la questione in tali termini, e considerando che Bruno nulla dice riguardo a come fissare nella nostra memoria questa enorme mole di dati, potremmo essere portati a credere di trovarci di fronte ad una difficoltà sovrumana ed insuperabile per la maggioranza dei lettori, noi stessi compresi. In realtà le cose non stanno esattamente così, e se Bruno non ci dà alcun suggerimento, ciò è dovuto al semplice fatto che il lavoro di memorizzazione che ci attende non è quasi per nulla dissimile da quello operato a suo tempo per gli agentes, le operationes e gli instrumenta della prima praxis. Vi ricordate? L’associazione tra immagini e lettere avveniva “a ruote ferme”, prima cioè di combinare operationes e instrumenta appartenenti ad agentes diversi; in questo modo prima si doveva memorizzare “Licaone nel banchetto incatenato” in relazione alla lettera A, poi “Deucalione nelle pietre bendato” in relazione alla B, e così via. Solo quando queste associazioni fossero state saldamente in possesso dell’apprendista, si poteva procedere con la loro combinazione allo scopo di formare sillabe. Per le immagini della seconda pratica il metodo è esattamente lo stesso: ci immagineremo le cinque ruote concentriche rappresentanti le cinque sillabe e le immagini ad esse correlate, più la ruota esterna dei vessilli principali. Poiché ciascuna ruota è divisa in trenta settori, esattamente come quelle della prima praxis, dovremo memorizzare “a ruote ferme” una “fetta” alla volta, ovvero un singolo settore, in testa al quale troviamo il vessillo principale. Poniamo, ad esempio, di voler memorizzare tutte le immagini relative al settore rappresentato dal vessillo B, il che equivale a dire tutte le possibili immagini delle sillabe che hanno la B come lettera adsistens. Quello che segue nella prossima pagina è appunto lo schema della “fetta”, ovvero del settore di ruota corrispondente al vessillo B. Seguendo le istruzioni di Bruno ho condotto diversi attori all’ombra della B e li ho assegnati alle varie sillabe BA, BE, BI, BO, BU. Possedendo già questa correlazione tra attore (o attori), agens, actio e sillaba corrispondente, proseguo ora nella lettura verticale dello schema, aggiungendo adstans e circumstantia, così da ottenere, ad esempio, la seguente immagine per la sillaba BI: Gian Paolo-Trace, ben vestito, falcia un papavero, osservato in modo inquieto e sdegnato da un uomo pallido dai capelli fulvi, vestito di rosso,
con un bracciale d’oro nella mano sinistra e un bastone di rovere nella destra. Nel caso avessi a disposizione più di un attore per il medesimo agens, l’operazione andrebbe ovviamente ripetuta tante volte quanti sono gli attori. Ora dovrò concentrarmi e fissare nella mente in maniera stabile questa immagine e tutte le sue componenti, in modo tale che, quando ne andrò ad utilizzare i singoli pezzi in combinazione con componenti di altri vessilli, allo scopo di rappresentare delle parole, saprò sempre ricondurli all’attore-agensactio originali. Il papavero, per esempio, potrà entrare in relazione con qualunque altra immagine, ma se ho ben fissato l’immagine originale nella quale esso è falciato da Gian Paolo-Trace, e se naturalmente mi ricordo quale sillaba era associata a Gian Paolo-Trace o all’azione del falciare, potrò ricostruirne il valore sillabico BI. Bruno, come abbiamo visto, non si preoccupa di spiegare tutto questo, sia perché la tecnica è identica a quella prima pratica, anche se complicata dalla possibile presenza di più di un attore e dal maggior numero di elementi (cinque invece di tre), sia perché allineare in orizzontale cinque elenchi avrebbe comportato probabilmente più problemi da un punto di vista tipografico per il povero e già abbastanza bistrattato Gilles Gourbin.47
Organizzata in questi termini, la mole di lavoro da affrontare per la memorizzazione di tutto il sistema appare ora assai più snella: trenta settori, ognuno formato da cinque raffigurazioni “complesse”, per un totale di centocinquanta “quadri”. E se il sottoscritto è riuscito in un paio di settimane a crearsi e ad utilizzare felicemente cento luoghi di memoria, consistenti ciascuno in raffigurazioni elaborate, risulta credibile che nello stesso lasso di tempo una persona già avvezza all’utilizzo delle artes memoriae, o comunque interessata ad esse, potesse padroneggiare con sicurezza tutto l’impianto di immagini della secunda praxis in breve tempo.
4.6.2. GARANZIE PER LA CODIFICA E LA DE-CODIFICA Bruno sa benissimo, contrariamente a tanti suoi esegeti, che i riferimenti tra
immagine e valore sillabico devono apparire in maniera istantanea nella mente di chi opera: nessuno studioso bruniano però ci ha mai spiegato come sia possibile sapere a memoria non soltanto a quale sillaba corrisponda un singolo elemento di una mia immagine, ma anche e converso quale immagine utilizzare per raffigurare una determinata sillaba, e tutto questo senza usare alcuna tabella, absque chartarum revolutione, come direbbe Pietro da Ravenna.48 Vediamo ora come sia possibile tutto ciò sia nel caso della codifica, sia in quello della decodifica. Poniamo di dover trovare l’immagine giusta per codificare la quarta sillaba della voce verbale ADMOVEBO. Per prima cosa farò mente locale in relazione al vessillo B, poi andrò a ripescare nella mia memoria uno qualsiasi degli attori o degli agentes o delle actiones connessi a questo vessillo. Supponiamo il caso che mi venga in mente solamente Trace, del quale ricordo l’appartenenza al vessillo B, ma non il completo valore sillabico: la struttura di rimandi costruita da Bruno è tale che questo solo, misero ricordo è sufficiente allo scopo. Infatti Trace mi farà venire in mente sicuramente tanto l’attore che l’impersona (Gian Paolo), quanto l’azione (il falciare). Di Gian Paolo non posso dimenticare che fa parte dei frequentatori della casa di Paolo, così come Trace e l’azione del falciare mi faranno ricordare gli altri quattro agentes del gruppo B, poiché i vessilli sono ordinati e strutturati al loro interno in base all’argomento della loro scoperta. È sufficiente a questo punto ricordarsi la strutturazione degli attori e degli agentes o delle azioni operata a suo tempo per ricostruire che Gian Paolo-Trace che falcia viene dopo Pietro-Erittonio nel carro (BA) e di Giorgio-Glauco che sguaina una spada (BE), ed è seguito da Misa che è incapace di produrre sale, appoggiato a una quercia (BO). Essendo BO, la sillaba che ci interessa, collocata al quarto posto in ADMOVEBO, dovrò utilizzare l’immagine della quercia, ovvero l’adstans. Nel caso invece della decodifica tutto è più semplice, poiché quando mi imbatto nell’immagine di un’ortica, mi verrà in mente Matteo-Pirode che trae il fuoco dalla selce sdraiato su un’ortica e ricaverò il valore sillabico BU sempre in base alle relazioni esistenti tra i sistemi degli attori, degli agentes e delle azioni. Aver “complicato” il codice con molte relazioni all’interno di esso non aumenta dunque le difficoltà: al contrario è l’unica maniera per avere delle garanzie di corretto funzionamento anche qualora “saltino” alcuni dei nessi correlativi.
4.6.3. SILLABE BIELEMENTALI APERTE Questo sistema è completo e funziona in maniera ottimale, senza bisogno di ulteriori aggiunte o specificazioni, nel caso di parole formate esclusivamente da sillabe bielementali aperte, ovvero sillabe di due lettere ciascuna, terminanti in vocale. Abbiamo visto come il numero massimo di sillabe previste sia cinque, perciò parole come PARALITICO, CARENATURA, NUMERATORE sono codificabili senza problemi. Nel caso di parole di sole quattro sillabe, come MAREMOTO, VOGATORE, CATALISI tralasceremo di specificare le circumstantia della nostra immagine: per VOGATORE avremo infatti la seguente immagine: l’infido Tubalchaim sta facendo la calce nella fornace con un fazzoletto al collo. Le parole di tre sillabe come BADILE, CALURA, TORERO saranno prive sia dell’adstants, sia delle circumstantia, per BADILE avremo infatti: Erittonio è trattenuto mentre annacqua il vino. Le parole di due sillabe come TONO e PIRA avranno solo agens e actio. Così per TONO avremo: Etolo conta delle monete. Naturalmente, in tutti questi casi, l’agens sarà raffigurato come sempre dall’attore – o da uno degli attori – corrispondente.
4.6.4. SILLABE BIELEMENTALI CHIUSE Nel caso di sillabe bielementali “chiuse”, ovvero terminanti con una consonante, come ET, ER, AM, non c’è bisogno di crearsi altre immagini, giacché possiamo raffigurare queste sillabe invertendo o alterando le immagini per le corrispondenti sillabe “aperte”, ovvero TE, RE, MA. “Infatti, come hai centocinquanta sillabe semplici nelle quali la consonante precede la vocale, così in modo estremamente semplice puoi ottenerne altre centocinquanta in cui la vocale precede la consonante. Potrai infatti procurarti ciò differenziando le immagini: dritte o curve, vestite o nude, voltate da una
parte o dall’altra, sedute o in piedi o in mille altri modi in cui sia presente una chiara distinzione oppositiva. Il vasaio Corebo seduto indica AM, in piedi MA”49. Il problema delle differenziazioni riguarda solo gli agentes, poiché le sillabe bielementali chiuse si trovano praticamente solo in posizione iniziale di una parola, fatta eccezione per i termini composti.
4.6.5. DETERMINAZIONI ACCESSORIE Come nella prima praxis erano state introdotte delle immagini accessorie per indicare la presenza di lettere eccedenti – terminali o liquescentia – così ora vengono previste quattordici determinazioni aggiuntive che si riferiscono alle undici possibili lettere terminali di una sillaba (C, G, L, M, L, P, NS, NT, R, S, T) e alle altre liquide che sono le stesse della prima praxis, ovvero L, N, R. Bruno lascia decidere a noi quali immagini utilizzare per specificare la presenza di queste lettere: “Per quanto concerne le lettere interposte e quelle aggiunte, o terminali e subentranti in ciascuna delle cinque sillabe potrai provvedere da solo con il tuo zelo, amico mio”50. Per la prima sillaba andremo dunque ad aggiungere queste immagini accessorie all’agens. l’unico suggerimento che ci viene dato consiste nel poter collocare le immagini per le lettere finali sulla testa a chi svolge l’azione e quelle per le liquide nella schiena, o viceversa. Per la seconda sillaba dovremo alterare l’azione, collocando le immagini per le finali nella materia che subisce l’azione e quelle per le terminali nelle mani o nelle braccia di chi compie l’azione, e così via similmente con le altre sillabe.
4.6.6. UN PROBLEMA PRATICO C’è una cosa di cui Bruno non tratta mai, ma che tocca assai da vicino tutti coloro che si occupano di memoria verborum non da un punto di vista teorico, bensì ne fanno un uso pratico: l’immagine di una parola, una volta formata, dove va collocata per poterla ritrovare al momento del bisogno? Il problema non si pone nel caso io abbia memorizzato una serie di parole da citare in successione, poiché andrò ad utilizzare alcuni loci fra loro adiacenti scelti tra quelli del sistema locale a suo tempo allestito. Poniamo
invece il caso di un lettore francese del De umbris che abbia imparato la parola italiana CARENA e se ne sia formato la seguente immagine, conformemente alle istruzioni bruniane: Hasamon è appoggiato e scopre il capo di un uomo davanti agli altari. Orbene, come potrà il nostro amico d’oltralpe recuperare questo termine quando vorrà citarlo letteralmente? Perché è chiaro come l’aver realizzato delle splendide immagini, ma non essere in grado di estrarle all’occorrenza, sia perfettamente inutile. Nel De umbris nulla ci viene detto al riguardo, ma le mnemotecniche moderne prevedono un sistema ben preciso per risolvere questo problema, consistente nell’utilizzare l’immagine della cosa di cui si è codificato il nome come luogo per l’immagine di memoria verborum, sfruttando il fatto che, pur non ricordando il nome preciso di un oggetto, ne potrò sempre e comunque avere in ogni momento un’immagine “visiva” precisa. In questo caso la scena appena vista potrebbe svolgersi sulla carena di una barca o di una nave: Hasamon è appoggiato alla carena di una barca e scopre il capo di un uomo davanti agli altari. così che quando avrò bisogno di citare il termine CARENA, non farò altro che andare a vedere cosa vi sia stato collocato all’interno. Naturalmente se il termine codificato è di tipo astratto, ce ne dovremo creare una rappresentazione figurata ed in ogni caso le immagini utilizzate come loci dovranno essere opportunamente ridimensionate e “ritoccate” in base ai precetti esposti da Bruno per i .51 Sarebbe meglio, per non creare confusione, evitare di utilizzare come loci quegli oggetti che vengano già correntemente usati come imagines, magari perché fanno parte dell’elenco degli adstantes bruniani, poiché si potrebbe correre il rischio di confondere loci e immagini, anche se ciò rappresenta una eventualità assai remota poiché, come abbiamo visto,52 ciò che si ricorda non è solo la raffigurazione, ma anche il processo mentale da cui essa è scaturita.
4.7. LA SECUNDA PRAXIS E LA MEMORIA RERUM Fermo restando che le pratiche bruniane riguardano la memoria verborum,
nulla toglie che le immagini per le parole possano a loro volta essere riciclate e svolgere la funzione di loci per immagini di memoria rerum in virtù della loro strutturazione interna. Quasi che Bruno cominciasse, ancor prima di finire il De umbris, ad applicare su sé stesso l’idea di poter riciclare una tecnica per finalità diverse da quelle originali, idea che, come abbiamo visto, è alla base di molti precetti del De umbris: come un meccanico geniale ma “impazzito” che, dopo essere riuscito a riparare la nostra autovettura utilizzando dei “pezzi” di fortuna, presi per esempio da un trattore, smontasse nuovamente dei componenti dalla nostra auto, ancora prima di consegnarcela, per farne magari un frigorifero. Scherzi a parte: semplicemente il fatto stesso di operare secondo certi metodi può portare ad una forma mentis tale da riuscire ad applicare gli stessi metodi su sé stessi. Ed è esattamente questo che fa Bruno, poiché si accorge che le immagini della seconda pratica non sono delle accozzaglie di elementi disparati, bensì presentano una strutturazione gerarchica altamente organizzata, con un agensattore che svolge il ruolo principale a cui sono ordinatamente connesse le altre determinazioni (azioni, tratti distintivi, adstantes e circumstantia). E, forse, si accorge anche che la secunda praxis ha comportato un dispendio di energie tale che sarebbe un peccato utilizzarne i risultati “solamente” per gli scopi della memoria verborum, anche perché la maggioranza dei lettori del De umbris, esattamente come gli studenti dell’autore della Ad Herennium, era sicuramente più propensa all’applicazione della memoria rerum che, nell’Ars memoriae bruniana, trova posto solamente nelle pagine dalla 226 alla 229 del testo. Tornando alle nostre immagini, un “quadretto” come questo: Apis tesse un tappeto, vestito di stracci, con ceppi ai piedi. Sullo sfondo una donna che protende le mani, a cavallo di un’idra dalle molte teste. può quindi essere utilizzato come contenitore per dei dati di memoria rerum che necessitino di una qualche organizzazione, come le parti di una classificazione mineraria, botanica o zoologica, oppure le suddivisioni di una argomentazione, le parti di una quaestio, le sezioni di un discorso, le componenti di un meccanismo o quant’altro debba essere ricordato in maniera organica. Perché tale operazione possa riuscire con successo dovremo tenere ben presenti alcuni fatti; vediamo cosa ci suggerisce Bruno a tal riguardo:
– I. “Le immagini da collocare in maniera permanente andranno unite ai subiecta più stabili”. Esattamente come alla fine della prima praxis, quando dovevamo controllare quali loci avessero meglio trattenuto le immagini ad essi affidate,53 è necessario essere sicuri di utilizzare come loci per la memoria rerum solo quelle immagini della secunda praxis che abbiano dimostrato una buona memorabilità e stabilità. – II. “I subiecta diano ordine alle immagini oppure siano ordinati da esse, ciò infatti porta ad aver memoria delle immagini stesse”. Ho quindi la possibilità di scegliere se ordinare le immagini della memoria rerum a partire dall’organizzazione delle immagini preesistenti ottenute nella seconda pratica, oppure se agire al contrario, modificando la strutturazione delle immagini preesistenti in base a quella della materia da ricordare. Ciò, tradotto in termini operativi, significa che se le res che devono essere collocate presentano una strutturazione gerarchica sovrapponibile a quella delle immagini preesistenti, bene. In caso contrario, dovrò apportare delle modifiche alla organizzazione delle immagini della seconda pratica in modo tale che esse possano riflettere la struttura della materia da ricordare. Potrò in questo caso utilizzare anche solo le immagini delle circumstantia, poiché presentano in molti casi una strutturazione più che adatta agli scopi della memoria rerum: è Bruno stesso a suggerircelo, quando introduce le immagini dei pianeti.54 – III. “Non c’è nulla che possa impedirti di trasformare gli adiecta alla maniera dei e viceversa”. Collocata come terzo precetto, in realtà questa è la premessa di tutto il sistema di memoria rerum, premessa che è resa possibile da questa facoltà di poter mutare ciascuna delle immagini ottenute in un locus atto ad accogliere una nuova immagine. Si tratta di un principio che, come vedremo verrà ripreso assai proficuamente anche dalle moderne mnemotecniche.55 – IV. “Unirai dunque di seguito le parti di ciò che va ricordato a immagini vive e a tratti distintivi, azioni e circumstantia delle immagini stesse, in modo tale che ciascuna di esse sia capace di descrivere figurativamente le parti in cui abbiamo diviso ciò che va ricordato secondo un criterio conforme all’agire, al subire, alla situazione adatta, o in base a tante altre maniere di essere, sia attive che passive, e riguardo alle azioni che vengono svolte”. Questo precetto è il cuore di questa memoria rerum e non ha bisogno di particolari commenti: le singole parti di ciò che va ricordato vengono connesse ordinatamente alle immagini vive (gli
agentes) e a quelle ad esse subordinate, mettendole in relazione, come al solito, in modo da rendere il più possibile “memorabile” l’immagine risultante. Quando andrò a recuperare una qualsiasi delle res ad essa affidate, potrò ricordare non solo la semplice res, ma anche quale posizione essa occupa all’interno della divisione gerarchica in cui essa è contenuta. Se, per esempio, la res fosse un fiore, riuscirò in questo modo a recuperare anche delle informazioni riguardo alla sua classificazione botanica, ad esempio quali altri fiori appartengano alla stessa specie. Questa idea della collocazione multipla trova come referente più immediato l’ormai immancabile Pietro da Ravenna: è lui, infatti, che nella Phoenix consiglia ai giuristi di assemblare tutto ciò che riguarda, ad esempio, un articolo di legge o un argumentum in un unico locus, utilizzando una prima immagine come “intestazione” e connettendo ad essa altre immagini per illustrare aspetti più particolari della legge o dell’argumentum.56 L’unico inconveniente di un sistema di questo genere è rappresentato dal tempo necessario per la elaborazione di tutte le strutturazioni: già Pietro avvertiva infatti che “se voglio collocare nei loci ciò che mi viene proposto da un altro e mi trovi nella necessità di ripetere immediatamente, allora metto l’immagine di una singola cosa in ciascun luogo; ma se decido di affidare ai loci le cose che leggo nei libri per poterle poi ripetere a memoria, allora invece assai spesso non ho esitato a collocare immagini di più cose nel medesimo luogo”57. L’organizzazione delle proprie conoscenze secondo un ordine gerarchico parallelo a quello delle immagini utilizzate come loci necessita dunque di tempo, ed è per questo un’operazione da compiersi non in modo rapido allo scopo di sfoggiare le proprie abilità, ma solamente quando si disponga della necessaria tranquillità. Un’ultima raccomandazione: “In tutto questo lavoro non dimenticare che le immagini vanno scelte in modo tale da essere non astratte, bensì ben presenti allo sguardo della fantasia”58. Ancora una volta Bruno deve fare i conti con il ramismo dilagante59 poiché anche i concetti, per poter essere resi memorabili, dovranno essere raffigurati, cioè rappresentati mediante qualcosa di corporeo: non quindi le sentenze scritte sic simpliciter all’interno dell’immagine di memoria, come quelle del domenicano Robert Holcot,60 bensì gli intelligibilia rappresentati per mezzo dei sensibilia di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, domenicani pure loro, al pari di Giordano Bruno.61
NOTE 1. De umbris, 174. 2. Cfr. qui al cap. 1.4.4. 3. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, cit. 4. F. Tocco, Le opere latine, p. 43. In tutte le citazioni di questo paragrafo i corsivi sono nostri. 5. Ibid. p. 44. 6. Ibid. p. 55. 7. Ibid. 56. 8. Ibid. 9. Cfr. qui al cap. 3.7. 10. Cfr. qui dal cap. 3.4. al cap. 3.7. ed al cap. 4.9. 11. “Le ruote mobili dell’arte di Lullo sono diventate i luoghi per la recezione delle immagini”. F.A. Yates, L’arte della memoria, 206. 12. Ibid. 195. 13. Ibid. 195-206. 14. “Non c’è dubbio che questo metodo funzioni con chiunque sia disposto a lavorare seriamente a questa ginnastica mnemonica. Non ho mai provato a farlo personalmente, ma mi è stato raccontato di un professore che aveva l’abitudine di divertire i propri studenti, ai ricevimenti”. F.A. Yates, L’arte della memoria, 5. 15. De umbris, a cura di R. Sturlese, Introduzione LXIV. 16. Abbiamo già utilizzato questa immagine per esemplificare la possibile complessità delle immagini bruniane al cap. 2.5. 17. De umbris, a cura di R. Sturlese, Introduzione LXX – LXXI. 18. Cfr. qui al cap. 3.4. 19. Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli – I diagrammi ermetici, a cura di Ubaldo Nicola, cit. 20. Per la storia del mnemonista Serasevskij vedi: Lurija, Un piccolo libro una grande memoria, cit. 21. Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli, a cura di Ubaldo Nicola, 83. 22. M. Maddamma, L’arte della memoria, 193 n° 9. 23. Ibid. 194 n° 11. 24. Ibid. 197 n° 22. 25. Cfr. qui al cap. 4.4.3. 26. Cfr. qui al cap. 3.9. 27. De umbris, 173. 28. Ibid. 176. 29. Ibid. 175. 30. Ibid. 177. 31. I tre agentes in questione sono Pallade Minerva (S nella prima pratica, DU nella seconda), Aracne (Q nella prima pratica, IO nella seconda) e Atlante (N nella prima pratica, ΨO nella seconda). 32. De umbris, 182. 33. Ibid. 177. 34. Ibid. 176. 35. Ibid. 180. 36. Cfr. qui al cap. 3.7. 37. De umbris, 178. 38. Ibid. 159. 39. Cfr. qui alla fine del cap. 3.4. 40. De umbris, 181. 41. Cfr. qui al cap. 4.4.2. 42. Cfr. De umbris, 186 e 190. 43. Cfr. De umbris, 191-195. 44. Cfr. qui al cap. 3.4.
45. De umbris, 196. 46. De umbris, 178. 47. Per le vicende tipografiche del De umbris vedi: R. Sturlese, De umbris Idearum, Prefazione XXVI-LIV. 48. De umbris, Conclusio I. 49. De umbris, 223. 50. Ibid. 224. 51. Per i concetti sui cfr. qui al cap. 2.5. 52. Cfr. qui al cap. 1.4.7. 53. De umbris, 173; cfr. anche qui al cap. 3.9.1. 54. “Sequuntur semptem Saturni imagines ex Aegyptiis et Persis philosophis, quae etiam pro locis, et subiectis usuvenire possunt�. De umbris, 210. 55. Cfr. qui al cap. 5.2.2. 56. Cfr. qui al cap. 1.4.5. 57. Phoenix, Conclusio XI. 58. Tutte queste citazioni sono tratte da De umbris, 222. 59. Cfr.qui al cap.3.9.1. 60. Cfr.qui al cap.1.3.3. 61. Cfr.qui al cap.1.3.1.
5. CONCLUSIONI
5.1. VANTAGGI E LIMITI DELLE PRATICHE BRUNIANE Al giorno d’oggi nessuno si sognerebbe neppure per un istante di utilizzare dei meccanismi come quelli proposti nel De umbris allo scopo di memorizzare delle parole. I motivi sono molteplici e possono essere così ripartiti: – declino complessivo delle artes memoriae, per le ragioni di cui si è già detto nell’Introduzione; – utilizzo preferenziale della memoria rerum, più semplice oltre che più economica in termini di dispendio di energie e risultati ottenibili; – applicazione dei principi mnemonici di più facile apprendimento ed applicazione, anche se dotati di un grado di precisione inferiore, per la memoria verborum; ad esempio l’assonanza, che permette la raffigurazione di una parola foneticamente simile con quella da ricordare (come il già citato “trippa” per il tedesco Treppe); – enorme diffusione di supporti “tascabili” sui quali è possibile “fissare” parole, sigle e numeri da ricordare in maniera precisa (agende cartacee, dittafoni, agende elettroniche, telefoni cellulari con memoria dei numeri più chiamati). La scarsa disponibilità di “discepoli” disposti ad impegnarsi a fondo in un lavoro di allestimento di un sistema di correlazioni combinabili – non certo impossibile, ma neppure di immediata semplicità – unita alla grande disponibilità di tecniche meno complesse e di pratici mezzi alternativi che consentono di ottenere in molti casi lo stesso risultato dei metodi smemorativi, hanno fatto sì che la tecnica del Bruno e quelle simili ad essa cadessero
completamente in disuso ai giorni nostri. Tuttavia le prassi bruniane presentano una caratteristica che è impossibile ritrovare negli altri metodi, siano essi antichi o moderni, ovvero la possibilità di realizzare rapidamente delle immagini unitarie per raffigurare in maniera estremamente precisa tutte le parole pronunciabili; utilizzando gli alfabeti visivi le pratiche “alla Romberch” giungevano ben presto a tassi di entropia insopportabili, mentre accontentandosi della sola assonanza fonetica le mnemotecniche moderne introducono un margine di pressappochismo che normalmente viene compensato dalla nostra memoria naturale, ma che in certi casi può divenire estremamente pericoloso. In nome della semplificazione si è dunque, per così dire, “regrediti” al buon senso dei principi di Pietro da Ravenna, il quale dichiarava di accontentarsi di rappresentare solamente una parte della parola da memorizzare, in genere l’inizio, e non tutta la parola nella sua interezza, poiché un paio di sillabe bastano a far scattare la memoria naturale.1 D’altronde, se è raro che senza nulla non si ha nulla, anche la precisione ha un suo prezzo da pagare… Vediamo in dettaglio pro e contro della secunda praxis bruniana: –
PRO:
rappresentazione esatta di una qualsiasi parola; adattabilità a diverse lingue; possibilità di personalizzare notevolmente le immagini grazie alla tecnica degli “attori” elementi multipli condensati in un’unica immagine organica collocata in un unico locus; buona diversificazione delle immagini collocate e quindi buona gestione dell’entropia del sistema; discreta adattabilità dei principi esposti per le lettere eccedenti la ripartizione in sillabe bielementali a situazioni non previste dal sistema; – CONTRO: difficoltà iniziale nell’allestimento del sistema; periodo di “tirocinio” piuttosto prolungato; tecnica limitata a parole di cinque sillabe; macchinosità della ripartizione in sillabe bielementali a cui aggiungere ulteriori accidenti nel caso, peraltro frequentissimo, di lettere sovrabbondanti o liquide; eventualità non trascurabile di dimenticare qualcuna delle centocinquanta correlazioni multiple. Comunque, anche se spazzate via da altre tecniche a mai più utilizzate praticamente (fatta eccezione per il sottoscritto che ha avuto modo di farne felicemente uso in più di un’occasione, e forse qualche altro studioso un po’ pazzo dell’opera bruniana) le prassi del De umbris “sopravvivono” ancora
oggi all’interno delle moderne mnemotecniche. Non ne troveremo sicuramente le tecniche principali esposte in maniera integrale, ma diverse idee, suggerimenti, precetti, per quanto sganciati dal contesto originario del De umbris, possono essere ritrovati ed identificati nelle tecniche odierne. E ciò, se ci riflettiamo un momento, è un “contrappasso” più che dignitoso per un opera nata “riciclando” tecniche a loro volta sviluppate per scopi completamente diversi da quelli bruniani. Vediamo ora in quali ambiti è possibile tracciare dei paralleli tra le attuali tecniche di memoria ed il De umbris.
5.2. BRUNO E LE MNEMOTECNICHE MODERNE 5.2.1. DALL’ARTE ALLA TECNICA Come dicevamo nell’Introduzione, l’ars memoriae oggi non esiste più. Spazzata via dalla stampa, da nuovi metodi didattici, dall’avvento dell’informatica e – soprattutto – dal mutamento delle forme di pensiero, essa è stata gradualmente sostituita dalle mnemotecniche o tecniche di memoria. Queste, dal canto loro, hanno mantenuto i principi dell’ars classica per quanto concerne il primato della vista, l’ordine dei loci, il principio dell’associazione e l’affettività delle immagini; contemporaneamente hanno introdotto due importanti novità, la prima consistente nell’utilizzo del codice fonetico per la correlazione tra lettere e numeri; la seconda riguardante invece i locks come loci di memoria. Vediamo assieme di cosa si tratta. Il codice fonetico è un sistema escogitato per associare lettere e numeri; alla sua realizzazione hanno contribuito nel tempo diversi matematici e linguisti, da Pierre Hérigone a Leibniz, da Aimé Paris all’italiano Silvin che, verso la metà del secolo scorso, ne curò l’adattamento alla nostra lingua.2 Del codice fonetico esistono diverse varianti, comunque la più adottata è quella riportata nel seguente specchietto che permette di associare le dieci cifre arabe ai suoni consonantici dell’alfabeto (singole consonanti o gruppi di consonanti):
Un primo utilizzo di questa correlazione permette la creazione di un sistema di memoria per i numeri: vi ricordate Pietro da Ravenna e le sue sedici immagini che, usate in combinazione, permettevano la raffigurazione di un qualsiasi numero pensabile?3 Ora, poiché ad ogni suono è possibile associare una consonante, per ricordare un numero non farò altro che vedere quali consonanti corrispondano alle cifre da ricordare, unirle a delle vocali, in modo da ottenere delle parole da raffigurarsi con delle immagini. Per esempio, se voglio memorizzare il numero 701428461, per prima cosa cercherò quali consonanti corrispondano alle cifre:
A queste consonanti unirò poi delle vocali per ricavare delle parole, come le seguenti: cassa di rane fuori città castoro inferocito chi sa di ronfare cede Di queste, la seconda è sicuramente quella che può essere raffigurata con minor sforzo, anche se un artista allenato potrebbe usare anche le altre due senza problemi, utilizzando la raffigurazione o le altre tecniche alternative. Metteremo la nostra immagine in relazione con il dato da ricordare: così se il 701428461 indicasse, ad esempio, un numero di deposito bancario, ci potremmo immaginare il nostro castoro inferocito mentre divora dei fogli di un estratto conto inviatogli dalla banca. Grazie al codice fonetico possediamo poi un potentissimo mezzo per realizzare delle serie numerate per le nostre immagini di memoria; vedremo ora come sia possibile realizzare, ad esempio, un sistema di cento luoghi. Essendo ogni cifra connessa ad una consonante posso, utilizzando una tecnica del tutto analoga a quella appena vista per realizzare l’immagine di un numero da memorizzare, crearmi cento immagini che corrispondano foneticamente ai numeri da 1 a 100, nel seguente modo: 1 2 3
tè Noè amo
11 12
dado donna
5 6 7 8 9 10
Alì ciao oche bue via tassì
30 43 64 81 90 97
rosa ramo giara foto vaso bocca
Tutti gli altri numeri mancanti si costruiscono come sopra. Come al solito queste immagini andranno realizzate nella maniera più coinvolgente, particolare e accattivante possibile, introducendo particolari nella scena, dettagli o azioni. Queste cento immagini possono ora essere utilizzate tanto come loci quanto come immagini di memoria da collocare in altri loci, ed anche in questo consiste la versatilità del sistema; vediamo perché: –
invece di spendere energie alla ricerca di luoghi in successione ordinata nelle stanze di casa mia, per la strada, nei gironi dell’Inferno o altrove, posso utilizzare queste immagini come luoghi, come contenitori cioè di altre immagini: è la tecnica delle immagini-perno o, più comunemente, dei locks, termine che letteralmente significa serrature, lucchetti. Se dunque devo memorizzare una lunga lista non farò altro che associarne ordinatamente ogni singolo elemento ai locks: se avessi un elenco come cane, giornale, automobile, coltello e così via, connetterò il cane al primo locks, ottenendo l’immagine di un cane che sorseggia una tazza di tè; potrò poi avere, ad esempio, Noè che legge il giornale su una panchina mentre l’arca con tutti gli animali salpa senza di lui; un pescatore che con il proprio amo tira su dal fiume un’automobile; un re sulla cui corona sono conficcati tanti coltelli al posto delle gemme. Il vantaggio dei locks rispetto ai loci tradizionali consiste nella possibilità di recitare un elenco in qualsiasi ordine: dall’inizio alla fine, al contrario, solo i numeri dispari, uno su cinque o su dieci, l’oggetto numero 46, non fa alcuna differenza poiché il codice fonetico mi permette di recuperare sempre con la massima velocità uno qualsiasi dei locks. Un eventuale problema potrebbe sorgere con quei locks che sono costituiti da immagini di piccole dimensioni, ma abbiamo già visto come in realtà ogni lock sia integrato in un “quadretto” più ampio; LOCI:
–
in certi casi i locks possono essere utilizzati anche come immagini di memoria per i numeri; nel caso in cui, ad esempio, mi ritrovi senza carta per prendere appunti e debba memorizzare in fretta il numero di telefono 3043816 prima che svanisca dalla mia memoria a breve termine, posso utilizzare alcuni locks in combinazione: prenderò ad esempio le immagini dei locks 30, 43, 81 e 6, ottenendo la seguente immagine: IMMAGINI:
una rosa rampicante si avvolge attorno ad un ramo in cima al quale è conficcata una foto dove si vedono tante persone nell’atto di fare «ciao» con le mani.
5.2.2. TRASFORMAZIONI E SCAMBI DI RUOLO Se paragoniamo queste tecniche con quelle bruniane, possiamo vedere come esista un primo aspetto in comune dato dalla possibilità di utilizzare lo stesso materiale mnemonico sia in funzione di locus, sia in funzione di immagine. Riguardo alle tecniche attuali, infatti, abbiamo appena visto come i locks possano svolgere benissimo entrambi i ruoli di immagini mnemoniche e di contenitori ordinati per altre immagini che vengano agganciate ad essi. Un’ambivalenza simile viene postulata anche da Bruno riguardo alle immagini per la memoria verborum della seconda pratica (ma, volendo, si potrebbero utilizzare allo stesso scopo anche le immagini della prima pratica). Ognuna di queste immagini, con l’agens in primo piano, in posizione centrale, e tutta la serie delle immagini accessorie correlate (actio, insigne, adstans, circumstantia) presenta infatti una complessità ed una articolazione gerarchica in diverse parti tali che permettono di fungere da locus strutturato, nel quale potremo collocare, ad esempio, i vari argomenti di una questione, o le diverse parti di una classificazione o qualunque altro materiale che vada memorizzato rispettando una precisa organizzazione.4
5.2.3. LA PARTE PER IL TUTTO Un altro parallelo può essere individuato nei processi di codifica e de-codifica
delle parole in relazione a rappresentazioni “parziali” di esse. Nelle mnemotecniche moderne, il codice fonetico permette di associare consonanti e cifre, tralasciando completamente le vocali: in realtà questa “assenza” delle vocali non crea alcun problema al sistema, essendo avvertita solo durante la fase di codifica e non in quella di de-codifica. Spieghiamoci meglio con un esempio: quando voglio memorizzare un numero, poniamo 456, a cui sappiamo essere associate le consonanti r, l (gl), c dolce (g dolce), devo riuscire a trovare una o più parole che contengano le suddette consonanti in unione a una qualche vocale; perciò durante questo lavoro di codifica procederò per tentativi finché non avrò trovato, una parola che soddisfi questi requisiti, come ad esempio orologio. Quando invece andrò a ripescare dalla mia memoria l’immagine dell’orologio per recuperare il numero ad essa associato, non mi si porrà alcun problema, poiché da orologio estrarrò immediatamente le consonanti r, l, g dolce che mi restituiranno alla mente il numero 456. In Bruno tale aspetto riguarda invece una “garanzia” di buon funzionamento della secunda praxis anche nel malaugurato caso in cui dovessimo dimenticare parzialmente alcune delle correlazioni tra immagini e valore sillabico corrispondente. Vediamo anche qui un esempio per spiegarci meglio, ponendo di voler codificare la parola SALAMANDRA: in base alle tabelle bruniane ricaveremo l’immagine di Alphares (ovviamente “interpretato” dall’attore che per lui avremo scelto) a pezzi, con una corona regale, intento a tagliare i capelli, e due determinazioni accessorie per indicare la presenza della N alla fine della terza e della R liquescens nella quarta. Sappimo bene come sia sempre possibile, anche quando il sistema combinatorio sia già stato messo in moto, recuperare il valore sillabico di ogni elemento ricordando l’associazione originaria attore-agens-insigne-adstanscircumstantia. Se tuttavia, per un qualsiasi motivo, ricordassi solo il vessillo principale a cui apparteneva l’attore che patrocinava originariamente un elemento dell’immagine, e non il completo valore sillabico, avrei comunque elementi e sufficienza per riuscire a ricostruire la parola completa. Così, in teoria dovrei ricordare che l’adstans “corona regale” è corrispondente alla sillaba DA, ma nel caso perdessi questa associazione, dovrei comunque poter ricordare che tale attore fa parte del gruppo che è stato messo “all’ombra” del vessillo della lettera D. Supponendo anche il caso peggiore, in cui dimenticassi il valore sillabico di tutti gli elementi dell’immagine, riuscendo a ricordare il solo vessillo principale degli attori originali, potrei comunque ottenere S-L-M-D: provando a ripetere queste quattro consonanti (che Bruno
chiamerebbe lettere assistenti), unendole per tentativi a diverse vocali e con un po’ di aiuto fornito dal contesto in cui la parola va collocata, dovrei essere in grado di ricostruire in maniera completa la parola originaria. Pur essendo rivolti a fini diversi, i due procedimenti sono assai simili tra loro, poiché entrambi implicano una “espansione” della parola a partire dalle sole consonanti o lettere assistenti, a seconda delle definizioni. La differenza consiste nel diverso utilizzo del procedimento: una tecnica di codifica applicata sistematicamente per le mnemotecniche moderne, una garanzia del buon funzionamento in extremis della de-codifica nel caso di Bruno.
5.2.4. IL BAGAGLIO CULTURALE DELL’APPRENDISTA Tanto il De umbris quanto le mnemotecniche moderne condividono poi una medesima preoccupazione di cui non si trova traccia nei trattati classici ed in quelli medioevali, preoccupazione che è in stretta relazione con la necessità di presentare al lettore degli elenchi di immagini già pronti per l’uso: un’ars che proponga delle immagini preconfezionate deve sempre fare i conti, implicitamente o esplicitamente, con quello che possiamo definire il “patrimonio di immagini” o, più in generale, il bagaglio culturale dei discenti. Né Bruno né i trattatisti moderni accennano in sede teorica a questo problema, anche se, ad un certo punto, non è possibile evitare di compiere delle scelte ben precise: ogni lettore che si cimenta con un’opera mnemonica, tanto ai nostri giorni quanto nel XVI secolo, possiede una propria formazione culturale, uno specifico modus cogitandi, un repertorio di immagini assolutamente singolare ed una sua peculiare sensibilità “affettiva”, facoltà che ci permette di ritenere certe cose meglio di altre: tutte caratteristiche, queste, che non potranno mai essere esattamente sovrapponibili con quelle di un altro lettore. Nel caso che un’ars presenti solamente dei principi mnemonici, evitando di corredare il testo con troppi esempi, non si pongono grossi problemi di applicazione, ed è per questo che la Ad Herennium risulta essere valida ancora oggi; quando invece ci sia la necessità o la volontà di fornire elenchi esaurienti di loci o di imagines la cosa cambia radicalmente, poiché tutto ciò che viene proposto deve essere già compreso in quel patrimonio comune a tutti i miei lettori di cui si diceva innanzi e deve essere presentato in maniera tale che ciascuno possa entrare in relazione “affettiva” con ogni singola immagine elencata, pena l’impossibilità per il sistema di funzionare
con efficienza al momento del recupero delle informazioni. A tal riguardo Bruno individua un primo filone di conoscenze comuni ai propri lettori, consistente nelle Metamorfosi e nelle storie mitologiche in esse contenute: come abbiamo visto, infatti, il testo ovidiano era il più diffuso nel suo genere in Europa e soprattutto in Francia sin dal Medioevo; inoltre ciascuno dei suoi personaggi era stabilmente connesso con una operatio peculiare e presentava in sommo grado tutti i caratteri di individualità e affettività immaginativa richiesti per una buona memorabilità, ma di ciò si è già detto.5 Per la secunda praxis Bruno deve ugualmente utilizzare degli agentes connessi a delle azioni specifiche, in ragione delle esigenze combinatorie del sistema, e a questo scopo evidenzia un secondo filone di conoscenze comuni nella storia delle scoperte e delle invenzioni umane; trattandosi però di un elenco cinque volte maggiore rispetto a quello degli eroi ovidiani e non potendo contare su una conoscenza totale di tutti gli inventori da parte dei propri lettori, né su una diffusione del De rerum inventoribus pari a quella delle Metamorfosi, Bruno supera abilmente il problema, come abbiamo visto, applicando sistematicamente il trucco di fare vestire panni degli agentes ad attori di nostra conoscenza. Le mnemotecniche moderne, dal canto loro, si trovano a dover affrontare lo stesso problema nel momento in cui presentano all’apprendista l’elenco dei cento locks. Questi vengono formati “pescando” tanto da riferimenti culturali occidentali, poco esportabili in altre culture, quanto da comuni esperienze quotidiane. Così, per fare qualche esempio, il lock numero 1, ovvero l’immagine della fumante tazza di tè, è patrimonio comune tanto di noi occidentali, quanto dei popoli orientali, anche se sicuramente con valenze assai diverse; lo stesso non si può dire del lock numero 2, rappresentato da Noè intento a caricare gli animali sull’arca, poiché la storia del diluvio universale così come è raccontata dalla Bibbia è patrimonio comune solo per ebrei, cristiani e musulmani; peggio ancora quando giungiamo al lock numero 5, ovvero Cassius Clay-Muhammed Alì raffigurato sul ring nel corso di un incontro di boxe, poiché il pugile ex-campione del mondo costituisce un riferimento culturale in possesso ad una fetta assai minore di esseri umani. In realtà una piccola differenza tra gli agentes ed i locks a nostro parere esiste, poiché se l’enumerazione degli agentes in Bruno è in relazione alla necessità del sistema di avere gli agentes stessi correlati a delle appropriatae operationes ben precise e univoche, per quanto riguarda invece le tecniche attuali, la ragione principale per la quale vengono presentati i locks “prefabbricati” è da individuare nella scarsa iniziativa personale degli allievi,
la maggioranza dei quali è, almeno all’inizio, ben poco disponibile ad investire fatica ed energie in una pratica di cui non sono ancora ben visibili le potenzialità questa inerzia iniziale non deve stupire, giacché ben pochi di noi sono disposti in genere ad abbandonare il proprio modo collau-datissimo ed abituale di fare in nome di qualcosa di sconosciuto: la stessa Frances Yates, come abbiamo visto, pur essendosi occupata di tematiche connesse con le artes memoriae per quasi tutta la vita, mai ha provato a mettere in pratica quanto aveva scoperto.6 Va infine detto come tanto Bruno quanto le tecniche moderne obbediscano ad una importante raccomandazione di Pietro da Ravenna relativa alla rappresentazione dei personaggi e degli oggetti: “Stai attento a non stupirti se, collocando così, semplicemente un libro nel primo luogo ed un cappuccio nel secondo ti capita poi di sbagliare nel ripetere; compito di quest’arte è appunto quello di stimolare la memoria naturale, ma questi oggetti non sono in grado di impressionarci, giacché è il movimento ad eccitarci, movimento che non si riscontra normalmente in questi oggetti. Nel luogo deve perciò essere collocata un’immagine tale che si possa muovere e, nel caso non si possa muovere, essa andrà mossa da qualcos’altro”.7 Questo era il guaio di molti trattati rinascimentali che presentavano delle tavole di immagini raffigurate in maniera anonima e a questo problema Bruno risponde con gli agentes impegnati in incredibili o importanti operationes, mentre le mnemotecniche moderne insistono, al momento della fissazione dei locks, sull’inserimento di queste immagini in “quadri animati”: così per il primo lock non immagineremo una tazza di tè sic simpliciter, ma la dovremo vedere sul nostro tavolo della cucina, calda e fumante, dovremo sentire l’aroma della bevanda che si espande per tutta la casa ed il sapore sul nostro palato mentre la sorseggiamo a poco a poco, o ancora udire il tintinnio del cucchiaino contro l’interno della tazza mentre mescoliamo lo zucchero. In questo modo la rappresentazione della tazza di tè prende vita e guadagna memorabilità, associandosi anche a quelle sensazioni extra-visive tanto utilizzate dai mnemonisti.8
5.2.5. LOCI “ATOMI” C’è un’altra esigenza connessa all’inserimento dei locks all’interno di una scena più ampia, ovvero la necessità di avere dei luoghi sufficientemente
grandi, in relazione alla possibilità di collocare al loro interno delle raffigurazioni anche piuttosto complesse. Per questo attorno ai locks, soprattutto a quelli di piccole dimensioni fisiche, viene creata un’ambientazione, uno sfondo, oppure vengono accostati degli elementi ausiliari, poiché se immaginassimo una semplice tazza di tè per il lock numero 1 ed un amo da pesca per il lock numero 3 senza corredarli di un paesaggio circostante, ben difficilmente potremmo utilizzarli per agganciarvi imagines di grandi dimensioni o formate da diversi elementi. Bruno, invece, risolve il medesimo problema in maniera completamente diversa, poiché, come abbiamo visto,9 piuttosto che aggiungere degli elementi a corredo dei singoli loci “atomi”, egli preferisce ingrandirli, dilatarli, allargarli fino a farli divenire dell’ordine di grandezza dei subiecta “più specifici”, ovvero di quelli formati da quattro-cinque elementi, come le stanze di un edificio, così che essi possano contenere raffigurazioni anche estremamente complesse senza presentare problemi di spazio.
5.2.6. ESIGENZA SISTEMATICA E LIBERTÀ Bruno, a differenza delle tecniche moderne, non presenta mai le proprie immagini di memoria come le uniche possibili e nemmeno come le migliori, insistendo costantemente sulla possibilità di utilizzarne di affatto diverse; così nella prima pratica, in corrispondenza degli agentes ovidiani ci dice che “Noi intanto rappresentiamo gli agenti e le azioni con immagini di questo genere. Tu disporrai e stabilirai nel modo che ti sembrerà più opportuno”10. E non si comporta diversamente quando, nella seconda pratica, chiede a noi di allestire “un elenco di centocinquanta nomi che in base alla loro denominazione, o alla loro azione abituale, o per la loro disposizione siano strutturati secondo l’ordine della prima lettera della sillaba, e organizzati ordinatamente dalle cinque lettere sussistenti. Fatto ciò, ricondurrai questi nomi alla disposizione di queste o di altre – se ne hai di migliori – specie e mestieri delle vocali – in modo che si uniscano alle medesime per mezzo di azioni e in mestieri definiti – o collocando nomi a te conosciuti secondo una disposizione ordinata che procede in linea retta, o ordinando in modo diverso da come li abbiamo collocati noi, come ti sia più comodo”11. Nelle mnemotecniche moderne, invece, il margine d’azione è molto più ristretto, giacché le immagini scelte per raffigurare i locks devono sempre fare
i conti con la correlazione istituita dal codice fonetico: il lock numero 10 potrà così essere qualcosa di diverso da un tassì, ma, le scelte alternative non sono moltissime non potendo mai uscire dal seguente schema:
per esempio un tasso, qualcosa connesso alle tasse, come un ufficio, o un modulo per versamenti, una dose di qualcosa, una tazza (ma dovrò probabilmente cambiare il lock numero 1, per non confondermi con la tazza di tè), un colpo di tosse, un fustino di detersivo Dash, un tozzo di pane, la tesa di un cappello e poche altre. Tanto Bruno quanto le mnemotecniche presentano dunque elenchi di immagini, ma se la possibilità di variare tali elenchi è oggi piuttosto limitata in relazione alla struttura stessa del codice fonetico, il principio dell’arbitrarietà della correlazione viene invece esteso ed applicato su scala talmente ampia dal nolano che al discepolo viene in realtà mostrata solamente una delle possibili realizzazioni delle regole esposte, tanto che ancora oggigiorno possiamo utilizzarlo con successo lasciandone praticamente inalterati i precetti e adattando semplicemente gli elenchi al nostro background culturale; a ben ragione Bruno può dunque affermare soddisfatto, verso la conclusione del De umbris, che “questa arte annienta tutte le altre che l’anno preceduta in questo campo e non teme di essere superata da quelle che seguiranno”12.
NOTE 1. Phoenix, Conclusio V. 2. P. HĂŠrigone, Cursus Mathematicus, 1634; A. Paris, Principes et applications diverses de la mnemonique, 1833; M. Silvin, Trattato di mnemotecnica, 1843. 3. Cfr. qui al cap. 1.4.6. 4. Per una trattazione completa sul riutilizzo delle immagini di memoria verborum ai fini della memoria rerum cfr. qui al cap. 4.7. 5. Cfr. qui al cap. 3.4. 6. Cfr. qui al cap. 4.2.2. 7. Phoenix, Conclusio II. 8. Cfr. L. Borges, Funes o della memoria; A.R. Lurija, Un piccolo libro una grande memoria, cit. 9. Cfr. qui al cap. 2.5. 10. De umbris, 159. 11. Ibid. 178. 12. Ibid. 225.
LA TRADUZIONE DELLA ARS MEMORIAE DEL DE UMBRIS IDEARUM
Viene di seguito riportata la traduzione da noi realizzata della Ars memoriae, ovvero dalla pagina 86 alla pagina 229 del De umbris idearum. Questo lavoro è stato compiuto quando ancora non era disponibile alcuna traduzione pubblicata, poiché quella di Gabriele La Porta non può essere considerata un lavoro né serio né tantomeno comprensibile, quella del Caiazza termina alla pagina 84 del testo e quella della Maddamma è stata resa disponibile solo all’inizio del 1997, quando ormai il nostro lavoro di traduzione era terminato. Le cifre in grassetto si riferiscono alla numerazione delle pagine nell’edizione originale, così come è stata finora citata nel nostro lavoro e che è corrispondente ai numeri riportati da Rita Sturlese.
ARTE DELLA MEMORIA DI GIORDANO BRUNO
PARTE PRIMA I Riteniamo dunque che l’arte si sviluppi all’ombra delle idee, dal momento che smuove la natura indolente sollecitandola, conduce e mantiene sul giusto sentiero quella che tende ad andare fuori strada, rinforza e sostiene quella stanca e persa d’animo, segue quella perfetta e ne imita lo zelo. (86)
II Tale arte è, in generale, un’architettura discorsiva delle cose che vanno trattate e, diciamo così, un certo abito dell’anima raziocinante che si estende da ciò che è il principio della vita del mondo al principio della vita di ciascuna singola cosa. Non si appoggia come su di un ramo ad alcuna delle sue forze, neppure emerge da una qualche facoltà particolare, bensì pervade la radice stessa del tutto, così come dell’anima considerata nella sua interezza. E ritengo che quanto ho appena detto non sia privo di fondamento, poiché, se consistesse nella sola facoltà memorativa, in qualche modo potrebbe provenire dall’intelletto? E se nella sola facoltà intellettiva come farebbe a trasmettersi dalla memoria, dai sensi e dalle inclinazioni? Inoltre grazie ad essa formiamo in base a regole e possiamo capire, parlare, ricordare, immaginare, desiderare, riuscendo a volte addirittura a percepire in base alla nostra volontà. (87)
III
In realtà non è sufficientemente chiaro che cosa sia e come sia ciò che volge l’anima a ciascuna delle sue singole funzioni. Ci chiediamo infatti grazie a cosa l’anima possa vestirsi dell’arte: grazie a quale arte l’anima possa vestirsi dell’arte. Non è forse corretto chiamare arte la tecnica grazie alla quale madre natura cerca di affrancarsi dalle azioni ripetitive? (88)
IV Non è forse lecito sostenere che l’arte che abbiamo chiamato organica sia antecedente a moltissime arti, visto che tutti gli artisti fanno uso di uno strumento, e tuttavia la loro arte non è uno strumento, ma è ottenuta grazie ad esso? Non è forse lecito chiamare arte quella che allestisce lo strumento alle altre arti? Cosa sarà, dunque, se non un’arte? Inoltre, giacché uno strumento non può aver preceduto un altro grazie al quale fu necessario che fosse fabbricato, indicami tu la natura di quest’arte che ha dovuto precedere l’arte stessa. A questo proposito, infatti, come può l’arte organica preesistere nel soggetto dell’agente? Senza alcun dubbio in base a ciò che di fisico era preesistente. Esso si è formato in base ad una certa condizione per la quale riceve la fondamentale definizione di primo strumento. Se poi, a chi filosofa in maniera dozzinale, piace chiamarla innanzitutto essenza, in base alla forma esteriore, non importa, dal momento che è normale porre la proprietà delle cose artificiali nella forma esteriore, giacché l’arte non penetrerebbe all’interno della materia. Ma costui è talmente lontano dai nostri propositi che non è in grado di comprenderci. (89)
V Se le cose stanno come sostengono i migliori filosofanti, non vi è nulla da aggiungere alla definizione di arte se non che essa è una facoltà naturale innata nella ragione, assieme ai semi dei primi principi nei quali è racchiusa la potenza per mezzo della quale essi sono attratti dagli oggetti esterni come da innumerevoli lusinghe, sono illuminati dall’intelletto agente come da un sole raggiante, ricevono l’influsso delle idee eterne per il tramite, diciamo così, degli astri fino a che tutto è ordinato dall’ottimo massimo fecondante in modo da conseguire, ciascuno secondo le proprie forze, l’atto ed il fine loro appropriato.
Da ciò si può comprendere come non a caso noi desideriamo che la natura dedalea venga proclamata la fonte e la sostanza di tutte le arti. (90)
VI Considera perciò in quale senso possiamo aver affermato che l’arte superi la natura in certe cose e sia invece superata da essa in altre. Ciò infatti non può accadere se non nel caso in cui si sia potuto osservare la natura mostrare le sue proprietà superiori negli atti più remoti piuttosto che in quelli più immediati. Si ritiene che essa perpetui la forma sostanziale nella stessa specie, quella medesima forma che non riesce a mantenere nella moltitudine dei singoli; la capacità dell’arte non riesce ad ottenere ciò. È invece grazie all’arte che la forma estrinseca e la figura del creatore della Clavis magna sono affidate alla dura pietra o al diamante. Parimenti le qualità, le azioni e il nome sono affidati alla memoria, e ciò che va ricordato è affidato al pensiero per mezzo di oggetti, e pure la natura non avrebbe potuto trattenerli, giacché il ventre della materia fluttuante divora ben presto qualsiasi cosa. (91)
VII Dunque da dove ricava l’arte questa facoltà? Sicuramente da dove si trova l’ingegno. A chi è peculiare l’ingegno? All’uomo. Ma l’uomo, con tutte le sue facoltà, da dove ha tratto origine? Sicuramente dalla natura che l’ha partorito. Se dunque considererai tutto dall’inizio e intendi svellere questo albero dalla radice stessa allo scopo di trapiantarlo, dovrai dedicarti al culto e allo studio della natura. E ci riuscirai sicuramente quando volgerai l’animo a quel principio che chiama a gran voce e che è in grado di illuminarci nel profondo. È la natura che costruisce i corpi alle anime; la natura fornisce gli strumenti adatti alle anime – per questo si dice che i Pitagorici e l’ingegni dei Magi fossero in grado di riconoscere la vita e la qualità dell’anima dalla forma del corpo. La natura stessa ti assisterà in tutto, se non sarai distolto da essa: la natura universale, infatti, non si restringe per servirci di meno, poiché Giove piove su tutti i germogli ed il benigno Apollo sorge su tutte le piante. Tuttavia non tutte le cose attingono una medesima vita dal mondo celeste, giacché non tutte si rivolgono ad esso nel medesimo modo, come possiamo osservare
chiaramente in noi stessi, che ci impediamo con le nostre stesse mani di entrare in rapporto con tale mondo. (92)
VIII Poiché dunque la natura offre tutto ciò che è possibile, sia prima di ciò che è naturale, sia nelle cose naturali, sia per mezzo di esse, così osserva come da tutte le cose naturali abbia origine un’azione, così che potrai cessare di ignorare come la natura agisca per mezzo di esse. La filosofia comune potrà distinguere quanto vuole l’agente positivo da quello naturale, poiché non sarà mia cura negare ciò. Chiedo solo che mi sia accordato il diritto di operare distinzioni, allo stesso modo in cui lo strumento di chi opera è distinto da colui che opera, il mezzo da chi ordina e il braccio da colui che lo agita. (93)
IX Vedi dunque come non siamo per nulla legati alla filosofia comune, la quale ha vincolato il nome di natura alla forma e alla materia ed ha previsto un principio efficiente intrinseco, sia in quanto comune a tutte le cose, sia sottoposto a questa, sia contratto in quella. Perciò stiamo a sentire più volentieri gli idioti mentre parlano e paragonano la natura di un uomo con quella di un altro uomo: la natura infatti non va considerata come un universale logico né rapportata ad esso, bensì come un universale fisico contratto sia in tutte le cose, sia in ciascuna di esse. (94)
X Tale è l’arte che rende mediatamente presenti e visibili le cose sensibili trascorse ed assenti; da un lato le cose sensibili alla vista per mezzo della scultura e della pittura, dall’altro le parole che fluiscono e che sembrano quasi dissolversi nel nulla, le rende stabili e ferme grazie alla scrittura. Inoltre è in grado di trasmettere a distanza, in ogni luogo e tempo, anche i concetti e le intenzioni tacite comunicabili solo da vicino. (95)
XI
Ciò che è stato variamente chiamato fato, necessità, bene, demiurgo, anima del mondo, natura, procede nel movimento e nel tempo dalle cose imperfette a quelle perfette, le quali si devono trasmettere a queste inferiori, poiché in tutte le cose ed in ciascuna di esse vi è lo stesso principio. Perciò si dice che l’arte, condotta per mano dalla natura, compia il suo cammino in base al medesimo ordine. Dunque, per quanto riguarda il proposito della nostra intenzione, si dice che la prima antichità abbia scritto sulle cortecce degli alberi usando i coltelli. Successivamente venne l’età in cui si scriveva sulle pietre scavandole col bulino, seguita dal papiro scritto con succo di seppia. Poi le membrane di pergamena intinte con un colorante più elaborato. Finalmente la carta e l’inchiostro e le lettere impresse col torchio, utilizzabili in maniera assai più conveniente di tutti gli altri sistemi. Così si è passati dai coltelli agli stili, dagli stili alle spugne, dalle spugne ai calamai, dai calamai alle penne, fino ad arrivare dalle penne alle lettere di metallo fuso. Non diversamente riteniamo che sia andata per ciò che concerne la scrittura interna, poiché tale ricerca umana iniziò sin dall’antichità o con Simonide melico o con altri; essi, utilizzando luoghi e immagini al posto della carta e della scrittura, e ponendo la facoltà immaginativa e quella cogitativa al posto dello scriba e della penna, studiarono un modo per scrivere le immagini delle cose da ricordare nel libro interiore. Che cosa e quanto importante sia ciò che aggiungeremo al loro zelo lo giudicheranno quanti potranno confrontare le nostre opere con le loro. Ma ora iniziamo ad occuparci di ciò che è alla base della nostra pratica. (96)
XII Nel libro Clavis Magna hai dodici subiecta di indumenti: specie, forme, simulacri, immagini, spettri, esemplari, vestigia, indizi, segni, note, marchi, sigilli. Alcuni di questi si riferiscono alla parte sensibile per mezzo della vista – sia che si tratti di subiecta naturali sia che siano rappresentati da una delle arti cosiddette figurative – e di tal fatta sono la forma estrinseca, l’immagine e l’esemplare, i quali rappresentano e vengono rappresentati grazie alla pittura e alle altre arti figurative imitatrici della grande madre natura. Alcuni si rivolgono al senso interno, ove sono amplificati, prolungati nel tempo e moltiplicati in dimensioni, durata e numero, come avviene a quelli che si offrono all’esame della fantasia. Alcuni sono quelli che si trovano nello stesso grado si somiglianza, come quelli che estraggono l’esemplare dalla
forma dello stesso genere e dalla sostanza della medesima specie. Alcuni di questi non hanno una propria sostanza, come è evidente in tutto ciò in cui il sofista mendica dal reale ed in genere l’arte imitatrice della natura. Alcuni poi appaiono a tal punto appropriati all’arte da sostenere senza dubbio anche quelli naturali: si tratta dei segni, delle note, dei caratteri e dei sigilli. In essi l’arte ha tanto potere da sembrare agire al di fuori della natura, sopra di essa e, se la situazione lo richiede, contro di essa. (97)
XIII A questi si ricorre quando non si possono rappresentare figure e immagini di cose che non appartengono al genere delle immaginabili e raffigurabili. Mancano infatti in esse quegli accidenti con i quali sono solite bussare alla porta dei sensi; manca la differenza e la disposizione delle parti, premesse senza le quali non consegue l’atto dell’effigiare. Questo genere di cose può entrare in un solo modo, grazie ad elementi che fungano da intermediari, quelli cioè che richiamano e vengono richiamati in qualche modo; di tal genere sono gli indizi. Infatti noi indichiamo non solo le cose effigiabili, immaginabili ed esemplificabili, cioè esempi, immagini ed effigi, ma anche quelle che grazie a sigilli, note e caratteri si esprimono e sono espresse. Perciò non a caso gli indizi sono stato posti a metà dell’elenco. (98)
XIV La specie, la forma, il simulacro, l’esemplare e lo spettro possono ben mostrarci Mercurio. Ma la sostanza, l’essenza, la bontà, la giustizia e la sapienza di Mercurio possono mostrarcela solo le note, i caratteri ed i sigilli. Quelli invece che ci presentano promiscuamente sia Mercurio, sia tutto ciò che si dice di Mercurio, sono chiamati più propriamente indizi. Per mezzo di questi, come per mezzo di un comune ceppo di immagine e nota, indichiamo e mostriamo entrambi, come è evidente nei pronomi dimostrativi, quando, riferendoci a Mercurio e alla virtù, diciamo questo simulacro, questo segno, questa nota, questa similitudine. (99)
XV
Dopo aver considerato queste cose, ricordati che per questa arte non possono essere utilizzati, per raggiungere il fine che le è proprio, altri intermediari che non siano sensibili, formati, figurati, definiti nel tempo e nello spazio; e come ciò avvenga anche riguardo alle altre facoltà tecniche dell’anima è stato spiegato nel primo libro della Clavis Magna. È chiaro tuttavia come nulla possa essere meno utile delle immagini nel caso in cui molte delle cose da memorizzare non siano né immaginabili né rappresentabili e neppure rapportabili a qualcosa di simile, come è il caso dei termini essenza, ipostasi, mente e così via, ma come userai i segni per le cose significabili, allo stesso modo utilizzerai le immagini per quelle immaginabili. E con questo non va dimenticato che le immagini non sono meno legate ai segni di quanto questi siano connessi alle immagini. (100)
XVI Dalla mancanza di collegamento deriva quella incapacità per la quale spesso l’immagine collocata non torna alla mente di chi pratica l’arte e tuttavia non ci sembra che i nostri predecessori abbiano esaminato la questione da questo punto di vista. Questa mancanza di collegamento è quella cosa che a volte ferisce lo sguardo più di una luce accecante, di una oscurità troppo densa, di un grande affollamento, di una disperdente distanza e altre cose simili che capitano nei loci da essi utilizzati solitamente. Per questo, come cani bastonati che mordono la pietra o il bastone, non riescono affatto ad individuare il responsabile reale di quel pericolo e danno la colpa a qualcos’altro. Noi invece, essendo stati in grado di trovare e realizzare tale collegamento, non abbiamo avuto bisogno di loci materiali, la cui esistenza dovesse cioè essere verificata grazie ai sensi esterni, né abbiamo dovuto vincolare l’ordine di ciò che va ricordato all’ordine dei loci, ma basandoci solamente sull’architetto dell’immaginazione, abbiamo collegato l’ordine dei loci all’ordine di ciò che si deve ricordare. E riteniamo di essere riusciti a fare ciò in modo tale che tutto quanto fosse stato esaminato, insegnato e sistematizzato al riguardo dagli antichi – in relazione a ciò che si trova esposto nelle loro trattazioni che sono giunte a noi – non rappresenti qualcosa di rispondente alla nostra scoperta, la quale, dal canto suo, rappresenta una invenzione oltremodo pregnante, alla quale è dedicato il libro della Clavis magna. Ma ritorniamo ora ad occuparci dell’importanza della nostra concezione. (101)
XVII Sappiamo come la concezione del naturale sia rapportabile alla concezione del camuso, la quale non riguarda la sola forma o la sola materia, designate con il nome di natura, bensì la materia formata e la forma materiale congiunta alla materia stessa, in base alle quali si ottiene ciò che propriamente viene definito naturale, ovvero quel nesso tolto il quale non vi è più nulla che la natura possa riprodurre; ancor meno può fare l’arte, che della natura è solo imitatrice, a meno che non vogliamo immaginare che esista qualcosa di inferiore al nulla. L’arte, non solo presuppone la natura stessa come primo subiectum, ma anche il naturale stesso come subiectum prossimo. Dunque, come ciascuna arte cerca la proprietà di una materia adatta alle proprie operazioni, in base agli elementi della sua concezione, e quelle della forma più armoniosa – essendo il fine comune di tutte le arti quello di ricreare una qualche forma in un qualche subiectum - allo stesso modo anche la presente arte, la quale condivide la proprietà della facoltà grafica in genere e l’ottima regola della proporzione, è in rapporto a questi due aspetti. È infatti una pittura interna, giacché realizza le immagini delle cose e dei fatti che vanno ricordati. È anche una scrittura interna, poiché organizza e distribuisce i segni, le note e i caratteri i quali, essendo soggettivati anche in ciò che è immaginabile, non nego che, parlando comunemente, vengano chiamati immagini, sia per la memoria delle cose, sia per le figure utilizzate per la memoria delle parole. (102)
XVIII Per poter utilizzare una terminologia decente in questa arte, diremo che la pittura ha un primo subiectum “nel quale”, come la parete, la pietra e così via. Ha come subiectum prossimo “dal quale” il colore stesso e ha come forma il tratto stesso del colore. Anche la scrittura ha come subiectum primo la carta come luogo, come subiectum prossimo l’inchiostro e come forma i tratti stessi dei caratteri. Allo stesso modo anche questa arte ammette oggettivamente un duplice subiectum : innanzitutto il locus; successivamente ciò che ad esso viene apposto, ovvero l’adiectum. Anche potenzialmente ammette un duplice
subiectum, in primo luogo la memoria e l’immaginazione in genere, in secondo luogo la rappresentazione immaginabile e pensabile in genere; come forma prevede l’intenzione ed il confronto delle immagini che appaiono in un subiectum con quelle presenti in un altro subiectum. Come anche la pittura e la scultura allestiscono gli strumenti per formare la loro materia, così anche a questa arte non mancano gli strumenti per le sue rappresentazioni. (103)
PARTE SECONDA Converrà far precedere la pratica di quest’arte da tre osservazioni. La prima esamina quali e di che natura debbano essere i subiecta. La seconda insegna quali forme utilizzare e in che modo vadano realizzate. La terza insegna a preparare lo strumento ed il mezzo con il quale l’anima opera con maggiore efficienza. Di tutto questo abbiamo trattato esaurientemente nella prima parte della Clavis Magna. Tuttavia, per evitare che questo libro sia mutilo ed incompleto in sé – non sempre infatti è comodo per chi studia i principi di un’arte riferirli ad una disciplina superiore, poiché infatti i principi vengono trasferiti alla prima parte della disciplina inferiore organizzati in base a certe classificazioni e secondo un determinato aspetto – forniamo dunque tre serie di regole per le tre osservazioni di cui sopra. La prima serie tratta della materia, ovvero del subiectum. La seconda della forma, cioè dell’adiectum. La terza dello strumento che dimostra il proprio valore operando. Perciò cause, genere efficiente e strumento concorrono allo stesso fine. (104)
I SUBIECTA I Il primo subiectum, dunque, è uno spazio artificiale, ovvero un grembo posto nella facoltà fantastica, disseminato di specie di ricettacoli sfocianti dalle
finestre dell’anima, il quale, distinto in diverse parti, è capace di recepire ordinatamente e serbare, secondo il volere dell’anima, tutto ciò che viene visto e udito. Tale definizione riguarda un subiectum generale, di forme generali, secondo i principi di quell’arte generale che dall’antichità è stata tramandata fino a noi. Da un altro punto di vista il primo subiectum, secondo i principi della Clavis Magna, è un caos fantastico così malleabile che mentre l’immaginazione raccoglie con precisione le cose viste e udite, può procedere in tale ordine di immagini da poter mostrare continuamente senza il minimo problema, nei suoi elementi principali e fino alle ultime parti, le cose stesse percepite per mezzo dell’udito o della vista, come se gli capitasse sotto gli occhi la vista di un albero, o di un animale, o di un mondo affatto nuovi. Ugualmente tale caos sembra essere come una nube mossa dai venti che, a seconda dei tipi diversi di spinta, può assumere tutte le infinite configurazioni di aspetto. E non c’è nulla che possa giudicare meglio della stessa esperienza riguardo a come questo subiectum si elevi felice e nobile. In ogni caso chi riuscirà a cavar fuori qualcosa dalla Clavis Magna, faccia pure: non a tutti è dato di giungere fino a Corinto. Ma torniamo ora al subiectum come lo abbiamo definito inizialmente. (105)
II Il subiectum primo consta dunque di parti materiali e materiali in questo senso: che non sfuggono alla facoltà visiva, per cui la facoltà fantastica può contemplarle nel loro ordine, oppure, servendosene come di parti ed elementi, può trasformarle in mostri, in nuove ed innumerevoli metamorfosi e, una volta trasformate, può contemplarle come fissate in un cerchio. Perciò assieme a questi subiecta non sono ammessi quelli immateriali, riguardo ai quali [si tratterà] nella vera arte delle arti e nella facoltà delle facoltà. (106)
III Nella loro costruzione va osservato il rapporto di grandezza e piccolezza in relazione alle dimensioni e al punto di vista dell’uomo. Tra rapporto di tensione e rilassamento, in base al limite sensoriale. Tra passato e futuro, in
relazione all’azione attuale. Tra eccesso o difetto di parti, secondo l’integrità di ciò che va mostrato. Tra lontananza e vicinanza, per quanto riguarda il movimento. Tra il termine a quo e quello ad quem, secondo l’impulso naturale di ciò che si muove. (107)
IV Un tipo di questi subiecta è assai comune, nel senso che può estendersi per tutto lo spazio che può essere abbracciato dalla fantasia, la quale è in grado di aumentare a piacere le dimensioni di un determinato cerchio, anche se non, ovviamente, di diminuirle all’infinito. un altro è pure comune, in quanto formato dal cumulo delle regioni conosciute del mondo. Un altro ancora è meno comune, in quanto, diciamo così, politico, ovvero urbano. Un altro è specifico, se vuoi economico, nel senso che è racchiuso nello spazio domestico. Un altro è ancora più specifico, poiché formato da quattro o cinque elementi. Un altro poi è estremamente specifico, poiché costituito di un unico elemento, atomo ovviamente non in senso fisico, bensì ai fini della presente arte. Di tutti questi tipi il primo è automaticamente escluso dall’uso della presente arte. Sappiamo infatti come infinite cose si possano ridurre in un’unica stanza e moltiplicarsi nella stessa. (108)
V Inoltre ne possono essere utilizzati di due tipi diversi, cioè animati e non. Da una parte i subiecta animati che fungono da luogo agli adiecta appariranno evidenti e ben distinti e saranno eccitati sicuramente dal rapido movimento delle formae; quelli inanimati, dall’altra, si presentano vuoti e inutili. Guardati dunque dal voler sperimentare quel detto comune «Vacua vacuis». Invano infatti confiderai nella pratica di questa arte, per quanto dicano: «Parleranno le pareti, i sassi faranno sentire la loro voce». (109)
VI Colloca le cose comuni in quelli comuni, le meno comuni nei meno comuni,
quelle particolari in quelli particolari e le più specifiche nei più specifici. Qui hai l’opportunità di riflettere in modo tale che non solo sei sottratto a qualsiasi paura di dimenticare, ma sei anche più pronto e sicuro per più elevate pratiche di rappresentazione e di scrittura, così come nell’ordinare e nello scoprire il metodo dei metodi. E trovi ciò, esposto a suo modo, nei principi del primo libro della Clavis Magna. (110)
VII Siano tutti naturali e ammettano una forma, naturale o artificiale. Siano di grandezza proporzionata alle forme da rappresentare; questo ti farà venire in mente come la natura affermi di avere un termine massimo e uno minimo stabilito nella specie; afferma inoltre che a essa natura, come a una sottomessa a una forte legge, non è lecito unire una qualsiasi forma a qualsivoglia materia. Ciò che abbiamo appena considerato va ricondotto all’ad mensuram degli antichi, precetto che riguarda quelle forme o adiecta che assai spesso sogliono essere uniti ai subiecta. Non siano talmente più visibili degli altri da ferire lo sguardo con la loro intensità, né talmente deboli, quasi sotto la soglia della visibilità, da non riuscire a smuovere l’occhio interno, così da non risultare affatto efficaci. Nella scrittura interna, così come quella reale, guardati dalla sovrapposizione che ti impedirebbe di distinguere i termini precisi e gli intervalli e, mescolandosi altri elementi all’immagine originale, renderebbe impossibile l’interpretazione di una ed ostacolerebbe quella dell’altra. Infatti, come le lettere o i sigilli che, scritti sopra ad altre lettere o ad altri sigilli, o si cancellano a vicenda o quanto meno si confondono, allo stesso modo, anzi, direi ancor di più, in quelli annessi e connessi come in quelli adiacenti e contigui non separati da una intercapedine convenientemente ampia, ti troveresti ad incorrere in una inopportuna confusione. (111)
VIII I subiecta vanno anche scelti in modo da avere una qualche strutturazione specifica [a loro volta] con spazi delimitati, lunghezze, altezze e larghezze e con contorni ben distinti. Infatti la forza di ciò che naturalmente si mostra e colpisce prima l’occhio esterno, poi quello interno consiste unicamente non
tanto nei colori o nella sua sorgente luminosa, quanto nella distinzione dei contorni; da questo principio perspettivo, gli optici, e ancor più gli optici accorti, sono riusciti ad ottenere quei risultati che ad altri sembrano impossibili da conseguire. Perciò se la natura del subiectum fa sì che esso non si renda manifesto da sé, l’immaginazione può venire in soccorso – come abbiamo accennato – aggiungendo qualcosa di estraneo o di peculiare, in modo da poter influire sulla materia di entrambi secondo uguali figure. Togliendo materia da un sasso si crea Mercurio. Aggiungendo, dal legno si mette insieme una nave. Comprimendo e separando, dalla care si ricava effigie. Con il tratto dalle linee si ricava la figura. Alterando dal vino si fa l’aceto. È così che si prova ad applicare a qualcuno di essi la mescolanza, ad altri la separazione, ad alcuni la connessione, ad altri la disgregazione, ad altri ancora la successione e la continuità, in modo da mutare la forma e più in generale l’aspetto di ciò che è mutabile. (112)
IX Va pure ricordato che i subiecta vanno osservati con lo sguardo della rappresentazione interna allo stesso modo che con gli occhi. Come quando infatti ci si accorge che qualcosa di sensibile non è percepito dai sensi, e quando è posto abbastanza lontano dai sensi viene a mancare l’atto del percepire – lo dimostra il fatto che non si riesce a leggere un libro né se è troppo vicino agli occhi, né se è molto lontano da essi - così, per quanto concerne lo sguardo della rappresentazione interna, è opportuno regolarla in modo che, in relazione alle sue possibilità, sia posta ad una adeguata distanza dall’attenzione, e possa raffigurare e rappresentare l’oggetto. Bisogna altresì guardarsi dall’affidarsi, credendo di ricordare un subiectum, più alla memoria naturale che alla visione dell’immagine; dalla mancata osservazione di ciò che accade infatti che si creda di immaginare un subiectum e di considerarlo figurato, quando invece ciò non avviene affatto. Un conto è formare subiecta, tutt’altro è scrivere come quando si è al buio o sotto una coltre. (113)
X
Ma per rimuovere ciò che causa l’eccessiva contiguità dei subiecta ed impedisce la loro distribuzione e distinzione sarà bene che ciò che si trova tra un subiectum e l’altro sia da ritenersi cancellato e distrutto. Dove, invece, capita che ci sia un intervallo troppo continuo ed uniforme, in modo che, se non si intervenisse a modificare la loro disposizione naturale, i subiecta sarebbero disgiunti più del necessario, potrai sia sottoordinarli, grazie alla tua collocazione, l’uno dopo l’altro, sia immaginarli distinti per mezzo di subiecta aggiunti. Cosa impedisce infatti all’immaginazione di far svanire da qui quelli vecchi e sostituirli con altri costruiti da sé con i quali rappresentarsi le stesse cose? Inoltre questi subiecta immaginari che abbiamo voluto aggiungere a quelli veri non andranno tenuti in scarsa considerazione per il semplice fatto di essere creati con facilità; fino a quel punto infatti quando si pensa a loro occorre applicarsi, finché ci farai talmente l’abitudine che non ti sembreranno affatto doversi da quelli più veri. E si tratta di un risultato ottenibile con un minimo sforzo, se solo vuoi. (114)
XI Non c’è alcun dubbio che una scorsa frequente dei subiecta sia di tanto giovamento quanto può portarne la presente arte. Sappiamo tutti come chi si è abituato a leggere per più tempo, ha imparato ad osservare le singole lettere e a ricavarne da esse scritti ben strutturati più velocemente di quanto possa riflettere. In questo caso è sicuramente l’abitudine che lo porta a comportarsi, senza neppure il bisogno di pensare, in modo sempre più preciso rispetto a quanto potrebbe mai fare il puro pensiero di una persona non abituata, anche se fosse diligentissima nel dominare e controllare le singole parti ed ogni elemento. Un citaredo virtuoso è in grado di suonare alla perfezione senza pensare grazie alla sola abitudine; un altro, magari dotato dello stesso tocco del primo, ma privo della sua abitudine, sarà tanto più goffo nell’esecuzione, quanto più rifletterà su ciò che deve fare. Ormai abbiamo parlato a sufficienza della forza dell’abitudine. È ormai piuttosto chiaro come l’acqua lieve sia capace di scavare il duro marmo ed il ferro. Ma perché ci siamo soffermati su cose tanto risapute? Abbiamo voluto riportare degli esempi non certo perché non fossero conosciuti, ma perché è sicuramente utile citarli qui per il nostro fine. (115) Chi si applica con metodo alle regole dell’arte antica è in grado di prendere
in esame tutti assieme, con un solo atto dell’immaginazione, diversi subiecta messi da parte da lungo tempo da una parte e dall’altra, anche se sono moltissimi, esprimendosi non meno velocemente e raffinatamente di come farebbe se stesse leggendo su una pagina. Il che di solito sembra una cosa incredibile a chi è incompetente in questa arte, così come ai principianti; tuttavia i fatti dimostrano il contrario. Se ciò riesce meglio grazie alle antiche arti, e come ciò avvenga lo vediamo tutti i giorni, cosa avverrà in questa, per la quale l’abitudine richiede un periodo di esercizio oltremodo breve? Qui, tre o quattro mesi ti arrecheranno più, migliori e più corrette capacità rispetto a quelle che là potresti ottenere di sicuro in sei anni. Stiamo infatti scoprendo il modo di collocare in qualsivoglia dei singoli subiecta ciascuno dei termini che vogliamo ritenere a memoria, nella loro interezza, e molte altre cose più importanti, come appare evidente nei segreti della Clavis Magna. Riguardo a quanto ed in che modo quel libro ne abbia parlato, lo vedranno coloro che potranno giudicare correttamente entrambe le opere. (116)
XII Osserva dunque come la varietà sia profferta dalla grande natura. Varie sono le membra del mondo. Varie sono le specie nelle membra del mondo. Varie sono nelle specie le figure degli individui: non esiste un olivo completamente uguale ad un altro, né un uomo identico ad un altro. In tal modo ogni cosa è distinta secondo le proprie attitudini dalle differenze, ogni singola cosa dalle altre, e tutto è separato da tutto in base alle diversità come se fossero i propri confini. Saggia dunque, per conformarti alla natura, la diversità in tutte le cose, nel modo di essere, nella grandezza, nella forma, nella figura, nella disposizione, nella strutturazione, nel limite, nella collocazione e rivestile di tutte le differenze che puoi, agendo e subendo, dando e ricevendo, togliendo e aggiungendo, e modificando in tutti i modi che abbiamo riportato. Uno e ente sono termini scambievoli; ciò che non è uno non è neppure ente; in tal modo vediamo come ciascuno sia uno, poiché, a modo suo, è definito dalla propria differenza. L’uniformità procura la nausea a tutti i sensi; nessuno di essi infatti è allettato dalla medesima specie di qualità piuttosto assidua e continua; ma neppure tollerano, neanche per poco tempo, la stessa identica qualità, se
disposta alla stessa identica maniera. Ciò non è affatto sfuggito a quelli che, riflettendo sullo scorrere veloce di tutte le cose naturali, ritengono impossibile bagnarsi i piedi due volte – o perfino una sola – nello stesso fiume. (117)
XIII Da qui dipende l’efficacia emozionale dei subiecta; definiamo efficacia emozionale la capacità attiva di poter influire, il che avviene quando i subiecta o sono dotati di una certa varietà che attira o colpisce, o per la loro stessa natura intrinseca, oppure quando si fanno notare per la loro posizione. Per questo decidiamo di apporre certi altri subiecta a questi principali, in modo che possano ricevere, grazie all’aggiunta di altri subiecta come innestati in loro, quell’affettività che non possiedono presi in sé stessi. E che dunque? Quanto più aumenta o diminuisce la loro efficacia emozionale, tanto più efficientemente o lentamente sono in grado di smuovere la fantasia stessa che è assai sensibile all’aspetto affettivo, e perciò entrare e tornare nella stanza della memoria. Nasce da qui la necessità di stimoli, detti pungenti, arguzie, condimenti; ecco perché chi si è dimenticato, mentre tenta di ricordare ripete, ricapitola, riprende, come se sperasse di richiamare a sé l’ispirazione del ricordo per mezzo della stessa varietà, della successione dei luoghi medesimi, o, per meglio dire, della stessa varietà di luoghi. Il che facilmente capita che riesca bene a coloro che compiono tali operazioni senza alcun turbamento d’animo; altrimenti si giunge ad una confusione tanto maggiore quanto quel turbamento si infiamma sempre di più. Va comunque detto che quanta sia l’importanza degli affetti in genere e come essi vadano eccitati, mantenuti e differenziati è spiegato assai chiaramente nella Clavis Magna. (118)
GLI ADECTA I
L’adiectum, che secondo le definizioni prima riportate possiamo anche chiamare forma, a sua volta, consiste in qualcosa che si aggiunge ad un subiectum, sia esso naturale, artificiale o fantastico, per esprimere o significare qualcosa mostrando, rappresentando, segnando o indicando, riferendosi ad essa a somiglianza della pittura e della scrittura, per mezzo di un ingegnoso allestimento dell’immagine. Questa regola concerne le forme comuni disseminate dall’antichità fino ai giorni nostri. La forma, in verità, come si deduce dai principi della Clavis Magna, è un ordine scelto e ben formulato delle specie immaginabili, ordinato in statue, microcosmi, o più generalmente, in una qualche strutturazione, per notare internamente o raffigurare qualsiasi cosa dicibile, estraendolo dal caos della fantasia, la quale permette qualunque trasformazione. Per esemplificare ciò aggiungiamo una figura, non a mo’ di spiegazione, ma solo da osservare attentamente. (119)
FIG. 1
II C’è nella tua primordiale natura un caos che non esclude peraltro l’ordine e la serie degli elementi e dei numeri, non solo quando occorre concepirlo come suscettibile di forma, ma anche quando vi è la necessità di immaginare ordinatamente ciò che può essere formato. Come potrai meglio capire analizzando la figura, essa è distinta al suo interno in diversi intervalli: le parti che risultano sono suscettibili di assumere qualsiasi forma, mentre quella che dà forma, indicata dalla lettera A, scorre
lungo la circonferenza ed i raggi di numeri e lettere privi di figure. In questo modo segna una figura con l’Ariete, un’altra con il Toro e così via le rimanenti altre. E ancora una con l’Ariete che ritorna con Saturno, un’altra che torna in congiunzione con Marte, un’altra con questo e quello, un’altra senza entrambi. Così all’infinito possono essere formati e riformati sia i numeri stessi, le lettere stesse, nonché essere organizzati in modi diversi quegli (elementi) che muovono e operano (motori efficienti). Questo significa organizzare il caos informe, e non importa a tal proposito che tu metta in relazione i medesimi formatori con diversi formati o, viceversa, diversi formatori con i medesimi formati. Tuttavia quello che rimane immobile e rimane sotto, proprio per il fatto di stare sotto e di venire formato, va trattato come una donna vicino ad un uomo, e cioè completamente informe, così da poter essere formata in qualsiasi modo. In base ad una opinione comune il caos ci sarebbe in maniera più compiuta se fosse costituito da elementi eterogenei e privi di ordine, ma un caos di questo tipo non potrebbe essere di alcuna utilità. (120) Per aiutare la memoria è necessario che i numeri e le lettere siano distribuiti in un preciso ordine grazie al quale possano assumere tutte le altre figure da ricordare al sopraggiungere dei motori e dei formatori. Come puoi vedere, sono comunque disposti in maniera così ordinata che lo stesso elemento, sia esso una lettera o un numero, non può mai capitare né sullo stesso raggio, né nello stesso punto della circonferenza. E molte altre cose straordinarie possono essere padroneggiate grazie a questa figura, anche se non è questa la sede adatta per trattare di ciò. In ogni caso non sto a giudicare se vadano collocate in questo modo o in un altro, semplicemente lo stabilisco. Dirò solo che se osserverai attentamente secondo i principi qui esposti potrai acquisire un’arte rappresentativa tale che ti sarà utilissima non solo per la memoria, ma anche per le altre facoltà dell’anima, in modo incredibile. (121)
III Riguardo agli adiecta, come prima cosa bisogna dunque notare come la loro gamma di possibilità vari tra eccesso e mancanza, attività e passività, tra passato e futuro, lontananza e vicinanza, in relazione alla grandezza dell’uomo, o alla sua metà, alla vista e al tempo presente, non in senso assoluto, bensì relativo a ciò che deve essere ricordato. (122)
IV Alcuni di essi sono animati e possono quindi aggiungersi come strumenti, agenti, adiecta adiacenti o effetti; altri sono inanimati e sono di tal fatta che si aggiungono solamente come strumenti, adiacenti o effetti. Alcuni di quelli animati sono dotati di ragione e sono perciò adatti ad agire e a subire qualsiasi cosa, oltre a poter rimanere neutri (cioè né agire né subire). Altri sono privi di ragione e a questi – come è ovvio – in generale le parole si addicono poco. (123)
V Inoltre alcuni di essi sono naturali, altri artificiali. Alcuni giungono al senso interno per mezzo dei sensi esterni, altri sono immaginati direttamente nei sensi interni; le specie in cui possono essere tutti raggruppati sono forma, somiglianza, immagine, figura, esemplare, carattere e segno, distinte secondo i significati formali così come è prescritto nelle osservazioni della Clavis Magna. (124)
VI Per quanto riguarda la loro grandezza, è opportuno che gli adiecta siano commisurati ai subiecta allo stesso modo di come ciò avviene veramente nelle cose reali, altrimenti andranno facilmente persi del tutto e disturberanno e smembreranno la vista della fantasia. Una lettera minuscola scritta in una pagina grande comporta una ricerca assai lunga e a stento si trova ciò che si stava cercando. Ma anche un albero che ingombri con la propria mole tutto lo spazio disponibile e addirittura fuoriesca da esso non può rendere la propria immagine chiara e manifesta. In questi casi abbiamo apprezzato moltissimo lo zelo di alcuni esperti maestri: quando ai subiecta si presentano degli adiecta di poco conto che sfuggono alla vista della fantasia, essi aggiungono a quella figura un ulteriore aggiunto con il quale quella figura di solito è connessa e accompagnata. Il sagittario (l’arciere) gli reca la freccia, lo scrittore la penna, il calzolaio l’ago. Così grande è il potere del concatenamento, della congiunzione, degli antecedenti (ciò che precede), dei concomitanti (ciò che accompagna) e dei
conseguenti che le cose invisibili divengono visibili, quelle intelligibili completamente sensibili, e sono facilmente colte anche le cose di difficile percezione. (125)
VII Per quanto riguarda le loro qualità, siano chiari e capaci di colpire sia la fantasia, sia l’immaginazione, come quelli che portano con sé qualcosa di meraviglioso, di pauroso, di allegro, di triste, di amico, di ostile, di abominevole, di piacevole, di meraviglioso, di mostruoso, riguardo al quale si provi speranza o diffidenza, e che penetri in maniera fortemente energica negli affetti intimi. Stai attento ora a non ingannarti sui principi del nostro insegnamento fraintendendoli, relativamente a quando abbiamo annoverato tra le specie degli adiecta i segni, le insegne, i marchi e i sigilli: c’è infatti il modo di modificarli grazie a quegli elementi che abbiamo appena definito come riguardanti la quantità, e bisogna fare attenzione a quanto è spiegato nelle osservazioni della Clavis Magna, a proposito di come a niente, giunga esso dai sensi o dalla fantasia, può essere aperta la via della memoria, se non per mezzo della immaginazione. (126)
VIII Per quanto riguarda la relazione, occorre che gli adiecta si applichino ai subiecta non come se venissero buttati su di essi a caso o in modo fortuito, vi si debbono invece riferire come il contenuto al contenitore, l’involucro a ciò che è avvolto, ciò che protegge a ciò che è protetto, e siano così connessi gli uni agli altri, al punto tale da non poter essere separati l’uno dall’altro da alcuna perturbazione. Siano correlati secondo ogni parte ad ogni parte in quanto pertinenti o meno, ordinati o no, opponenti resistenza o arrendevoli; e ciò avvenga sempre in modo tale che il concetto di uno sia unito al concetto dell’altro. Infatti chi si potrebbe immaginare l’adiectum “dignità regale” separato da ogni subiectum? Dunque gli adiecta siano pensati assieme ai subiecta, e appariranno come lettere scolpite nella pietra, senza volar via come se fossero agitati dal vento, e neppure diverranno indistinguibili, come accade alle figure tracciate sulla
sabbia. (127)
IX Gli adiecta, inoltre, dovranno apparire mentre fanno qualcosa ai subiecta o all’interno di essi, o mentre subiscono qualcosa da essi o al loro interno. Intendo dire che, agendo o subendo, è come se diventassero vivi, così da risvegliare la vista interiore come se l’agitassero violentemente per mezzo di qualcosa che si muova vagando in qua e in là, oltrepassando, penetrando, avvicinandosi, allontanandosi, congiungendosi, salendo, scendendo, incontrandosi, deviando, schivando, abbandonando, in modo da avvicinarsi, spingersi, trascinarsi, escludere, allontanarsi, così che girino attorno, si oppongano, fermino, perseguitino, abbattano, si ritorcano contro, facciano cadere, demoliscano, distruggano, erigano, innalzino, sradichino, distendano, radano, cancellino, rimuovano, svuotino, divorino qualche altra cosa. In tutte queste maniere non accade che gli adiecta siano congiunti e fissati di meno ai subiecta; al contrario, essi sono più attaccati; nel movimento stesso infatti è presente la capacità di fissare qualcosa e di mantenerlo così fissato. Per questo, dunque, non temere di non riuscire a fissarli: infatti neppure il movimento continuo è privo di una propria stabilità, anche per il solo fatto di essere continuo, allo stesso modo di come il poeta definisce la sorte costante nella propria incostanza. D’altronde sarà necessario un limite alla varietà, all’abbondanza numerica, alla rapidità e alla lentezza, perché non vengano meno le qualità che si riferiscono alla natura degli adiecta. (128)
X Sia nei subiecta, sia negli adiecta è necessario evitare l’uniformità. Quanto sia grande infatti il potere della varietà nonché come essa sia confacente alla natura lo si può desumere da ciò che abbiamo già detto. Da qui deriva anche quel detto: Per tanto variar natura è bella. Si possono quindi apporre gli stessi adiecta a diversi subiecta, purché ciò
avvenga in subiecta separati, che risultino distanti anche dopo aver apposto molti adiecta, che differiscano nel trattare gli elementi che implicano e si trovino in differenti modi di organizzazione. (129)
XI Gli adiecta inoltre tengono come regola una norma che è comune ai subiecta – poiché conviene ed è necessario che gli adiecta portino ad una differenziazione dei subiecta – cioè che quelli che si riferiscono a un subiectum non includano adiecta pertinenti ad un altro, così da evitare qualsiasi forma di continuità, concatenamento, affollamento e mescolanza. Finché infatti gli adiecta di diversi subiecta accoglieranno atti e movimenti da più parti, come se venissero alle mani tra loro, invano li richiamerai all’obbedienza, poiché saranno impegnati in altre faccende. (130)
LO STRUMENTO I Ci rimane da dire qualcosa riguardo allo strumento di cui si serve l’anima per raggiungere il suo scopo. Per chi esercita quest’arte, infatti, se vuole ottenerne una conoscenza profonda, non basta tener conto di come rappresentare l’immagine e disporre il subiectum; ma vale anche la pena, come si avvicina l’opportunità di mettersi all’opera, di non tralasciare ciò che funge da tramite dell’immagine da chi agisce al subiectum [specificando] cosa abbia di peculiare nella propria natura, come debba essere e in che modo vada maneggiato. (131)
II Nove sono le cose che concorrono all’atto del ricordare e alla memoria. Lo sforzo iniziale per mezzo del quale in primo luogo si produce una sensazione
esterna o interna da ciò che proviene dall’oggetto che ci si presenta davanti. Il richiamo all’immaginazione con il quale il senso eccitato eccita a sua volta l’immaginazione, con o senza mediazione. Il movimento passivo dell’immaginazione grazie al quale essa è spinta alla ricerca. Il movimento attivo dell’immaginazione con il quale essa appunto ricerca. Lo scrutinium con il quale l’immaginazione ricerca attentamente. L’immagine in quanto immagine di memoria. L’intentio dell’immagine che è appunto il motivo per cui essa diviene memorabile, essendo stata esclusa la presenza di altre. La presentazione di tale intentio, che è per l’appunto la ragione per cui tale intentio si rende manifesta. Infine il giudizio, con il quale conosciamo che quella è la intentio di quella specifica immagine. (132)
III Fra tutte queste, quella che definiamo scrutinium (perquisizione) o discrimine – giacché è lo strumento con il quale il pensiero esamina e distingue – risulta evidente che sia designata senza la minima esitazione come metodo dello strumento. Gli diamo un nome così comune poiché non essendovi stata posta attenzione alcuna fino ad oggi, manca di uno specifico nome di uso comune. La mancanza di conoscenza di questo nome, nonché di attenzione ad esso rivolta hanno impedito lo sviluppo di codesta invenzione, dal momento che il fondamento della strutturazione del ricordo e della memoria è rimasto nascosto nella cieca profondità della più densa oscurità. Dunque tale strumento funziona riguardo al pensiero come un bastone nelle nostre mani – così che tu possa capire perché abbiamo imposto, o meglio vada imposto questo nome – con il quale da fermi smuoviamo, disfiamo e spargiamo un mucchio che giace a terra, così che ci salti fuori una castagna dal mucchio delle ghiande, e quella particolare castagna dall’ammasso di tutte le altre castagne. (133)
IV Si impara a conoscere questo strumento per la sua attività. Trattandosi di una duplice capacità, cioè di ritenzione e di ricordo, benché dica-no che in realtà siano la stessa cosa, tuttavia vanno distinte metodicamente, così come ciascuna di esse deve essere distinta dall’immaginazione, anche se si tratta
solamente di una mia opinione – infatti la facoltà di ritenzione è al confine con le facoltà memorativa e rappresentativa, e, per così dire, le delimita – la capacità di richiamare alla memoria va dunque distinta da quella rappresentativa, giacché da un lato si può cogliere l’intentio dell’immagine senza forma immaginabile, mentre non è possibile togliere all’immagine la propria intentio. Ed è per questo che possiamo ricordare molte cose nello stesso tempo, ma non siamo in grado di raffigurarcele simultaneamente. A tal proposito ecco che ruolo svolge lo strumento: distingue, separa e ordina, o – se vogliamo parlare più appropriatamente – è ciò per mezzo di cui avvengono la distinzione, la separazione e l’ordinamento. Così estrae dal pensiero un’unica cosa dalle molte presenti per poterla esaminare attualmente; seleziona e prende in esame un solo ricordo o la sua immagine fra le molte che si trovano nella nostra memoria. E come si dice che la nostra immaginazione comprende qualche cosa di ciò che il pittore traccia sulla parete e la capacità di ricordare ne trattiene l’intentio, così questo strumento svolge il ruolo di portare (sottoporre) e unire, o piuttosto è ciò per mezzo di cui si prende in esame e si unisce questo a quello, come se fossero legati insieme a vicenda, come avviene nella stretta tra gli anelli delle catene e in cose simili. E per questo, quasi seguendo ciò che avviene in natura, fino ai nostri giorni l’arte imitava questa connessione per mezzo dell’ordine dei loci, in modo tale che quando non riusciva a congiungere una cosa all’altra, vi piazzava ciò che era di una dopo ciò che era dell’altra, e intendo di una e dell’altra non in senso proprio e a ragione, bensì secondo la posizione attuale; in tal modo si andava in cerca del modo di apporre le immagini di memoria, utilizzandone di affatto estranee. (134) Ecco dunque a cosa serve lo scrutinium : a fare in modo che le unità – così oserei definire molte singole cose per concedere qualcosa ai censori di parole – ottenute con le immagini vengano disposte secondo un criterio di ordine dettato dallo scrutinium stesso. Accadrebbe così se marchiassimo cento singole pecore con i singoli diversi segni dei numeri 1 2 3 4 5 6 7 8 9 e così via; quando in seguito quelle accorressero a frotte e disordinatamente, intralciandosi a vicenda, come il pastore con il bastone ne devia alcune e ne fa volgere altre, ne tocca alcune e ne attira a sé altre, in modo da condurle una per una ordinatamente, così il pensiero è in grado di scegliere senza il minimo indugio, in virtù dello scrutinium, delle singole cose, una dopo l’altra, allontanando quelle che non c’entrano. È il momento di riflettere bene secondo questa analogia, poiché come il pastore, basandosi sul ricordo della successione numerica, recupera l’ordine
delle pecore, cosa che non avrebbe potuto fare per mezzo delle sole pecore, così noi abbiamo scoperto un facile tipo di arte grazie al quale, rappresentandoci le cose udite e viste per mezzo di un ordine numerico adatto al suo genere, grazie alla medesima successione numerica, siamo poi in grado di ricostruire l’ordine di ciò che viene percepito a tal punto che, sapendo contare, insegniamo a ricordare in un modo estremamente semplice. Riguardo alla rappresentazione dei numeri sotto ogni aspetto esiste un nostro lavoro conosciuto da pochi, la cui esposizione teorica si trova nel libro Clavis Magna dove si tratta dei numeri semimatematici. Per gli uomini d’ingegno ritengo basti aver mostrato il riferimento in questa parte dove, anche se non ne parliamo diffusamente, in realtà abbiamo esposto più di quanto era necessario in relazione all’argomento che stiamo trattando. (135)
V Dunque lo scrutinium è una specie di numero con il quale il pensiero tocca a suo modo le immagini osservate e, secondo le proprie capacità, le delimita, le separa, le congiunge, le accosta, le muta, le forma, le ordina, così da ottenere la singola cosa cercata. Lo chiamiamo appunto numero poiché non può essere definito in maniera più adatta. Inoltre il numero è tale che non esiste nulla che possa assumere o possedere la capacità di essere ricordato nel modo migliore grazie a qualcosa di diverso da un numero. Per quanto non mi risulti che sia noto a qualcuno, né che sia stato definito in alcun modo, si tratta di un principio che concorre indiscutibilmente al ricordo – infatti la forza dei loci non consiste nel fatto stesso di essere loci o nell’essere raffigurati, bensì nel fatto di possedere tale numero in forma latente nel loro ordine. Spieghiamo ora, come meglio possiamo, le sue due diverse specie – la prima delle quali comprende in modo più immediato questa categoria, ed è compresa dalla seconda – nei seguenti termini, ovvero: il numero determinato dall’ordine, definito in base alla differenza di quello determinato per mezzo della quantità, con il quale risponderemmo a chi ci chiedesse: «Quante sono le pecore?¬ e del numero, appunto, determinato per mezzo dell’ordine, con il quale risponderemmo alla domanda: «Quante volte sono venute le pecore?»; con lo stesso tipo di numero accontenteremmo chi ci chiedesse «Che numero è questa pecora? Che numero è quella?¬ e per questo motivo lo differenziamo
definendolo come un numero determinato per mezzo dell’ordine. Quest’ultima maniera è stata fin qui assunta in due modi, sia quando risponde dicendo la prima volta, la seconda, la terza, sia quando indica e fa venire in ordine il primo, il secondo, il terzo, e viene resa specifica, riguardo ai nostri fini, in base al secondo, e non al primo dei due modi presi in esame. Si tratta infatti di un ordine pratico e non teorico ed è proprio più dell’uso che della dottrina. (136) Tale pratica avviene in due modi: il primo capita a coloro che, riferendosi a una precisa strutturazione, ricordano per doti naturali, riflessione e intelligenza, sapendo di dover parlare di questo, citare quest’altro, e dopo parlare di quello e dopo ragionevolmente di un altro ancora; a ragione si dice che in essi avvenga la reminiscenza, la quale notoriamente si distingue dalla memoria. Il secondo modo, apparentemente senza alcuna considerazione, ma invece con una considerazione più assoluta – anche se non totalmente assoluta – come avviene a noi che possiamo ricordare parole senza averne la minima comprensione, come quelle di Caronte e Merlino: Est percor partes agrios labefacta ruinam e altre di tal fatta, in cui non può esserci alcuna attività rappresentativa o possibilità di distinzione, e perciò possiamo avere memoria di esse, ma non reminiscenza, come si vede in questi casi in cui la differenza tra l’uno e l’altro modo è evidente. (137) Poiché questa applicazione non si riferisce alla memoria, la cui funzione è quella di ricevere e mantenere – come abbiamo detto e provato nelle dimostrazioni della Clavis Magna – né all’immaginazione in senso generale – poiché essa comprende anche il senso comune comunemente detto: ed è infatti peculiare di ciò che è preesistente, a suo modo, integralmente o in parte nei singoli sensi esterni - né di sicuro alla facoltà rappresentativa, poiché essa riguarda le capacità di comprensione e conoscenza – anche se gli esempi che abbiamo riportato non rientrano nel genere delle cose comprensibili e conoscibili - di che natura è dunque quella facoltà interiore che ha la capacità di introdurre nella memoria i suoni percepiti con le orecchie recati al senso comune come semplici suoni? Di sicuro, se si tratta della facoltà rappresentativa – non volendo immaginare un’altra facoltà interiore adeguata agli scopi della memoria tanto quanto la rappresentativa al fine di introdurre quegli elementi – non è la facoltà rappresentativa pura e semplice, bensì armata dello scrutinium, grazie al quale non solo è in grado come di toccare con mano ciò che viene percepito, ma di immettere nel magazzino della
memoria anche ciò a cui, per così dire, non riesce a tendere le mani. Da tutto ciò si evince la necessità di applicare questo mezzo, la cui assenza ha sbarrato la strada a molte scoperte. (138)
VI Il genere di azioni svolte grazie allo scrutinium si divide in cinque specie: applicazione, formazione, mutamento, unione e disposizione, che sicuramente sono note a pochissimi. Infatti come non tutti quelli che vedono e odono sanno in che modo e per mezzo di cosa vedono e odono, allo stesso modo non tutti quelli che applicano, formano, mutano, uniscono e dispongono sanno in che modo ciò riesca loro e grazie a cosa ciò avvenga. È abbastanza noto, seppure in maniera generica e piuttosto confusa, che si tratta di cose prodotte dall’anima raziocinante, ma non precisamente in dettaglio in quali potenze, o facoltà, e strumenti; e non ci è apparso nessuno, come avremmo voluto, che abbia scavato più a fondo di un Arabo, popolo assai esperto di scuola Peripatetica, che per primo ha indovinato qualcosa. Ma se noi volessimo portare a conoscenza tutte queste cose una per una, dovremmo intraprendere una fatica colossale e per di più di difficile comprensione, tanto più che mi sembra che di questi tempi ci siano veramente pochissimi filosofi, come abbiamo dichiarato nelle massime introduttive. Per non parlare di come la novità di certi nomi, dovuta alla novità delle scoperte e delle osservazioni, darebbe fastidio a molti; per questo ho taciuto a ragion veduta, anche perché a questa operazione, che è diretta soprattutto alla prassi, tutto questo non è necessario. Va prestata la massima attenzione a ciò che ora aggiungiamo ordinatamente a quanto abbiamo precedentemente elencato riguardo allo scrutinium. (139)
VII Per quanto riguarda l’applicazione, va notato come si dica che queste facoltà conservino una successione regolare fra loro, così che il senso esterno concerne i corpi, la phantasia le immagini dei corpi, l’imaginatio le singole intentiones delle immagini, l’intellectus le essenze comuni e le rationes completamente incorporee delle singole intentiones. Da ciò ne consegue che – come abbiamo dimostrato altrove – come esiste un’arte che alletta, attrae e
avvince il senso esterno, allo stesso modo ce n’è un’altra che attira e avvince tenacemente il senso interno. Perché gli uccelli accorrevano all’uva dipinta da Zeus? Perché la Venere scolpita da Prassitele era a fatica mantenuta casta dagli amanti? Perché gli artisti, per mezzo di una particolare forma, applicavano alle cose il proprio specifico subiectum, così da riuscire a renderle distinguibili in maniera più precisa e puntuale e a trovare i fondamenti per mezzo dei quali le species penetrano, per così dire, nei sensi con maggior forza. Benché si tratti – come abbiamo appena detto – di un principio comune a tutti, ovviamente non si presenta alla stessa maniera in ognuno; infatti sono più limpide le anime di coloro nei quali il mezzo – il corpo, ad esempio – è meglio disposto e organizzato. (140)
VIII L’anima, che diviene più limpida man mano che si pone ad osservare le idee divine, diventa così capace di cogliere più intensamente le forme degli oggetti, esattamente come chi è dotato di una vista più acuta è in grado di distinguere con maggiore facilità e più efficacemente. Infatti si ritiene che le forme siano nient’altro che le immagini delle idee divine nei corpi; quando le medesime si trovano nei sensi interiori degli uomini con quale definizione migliore di «ombre delle idee» potremmo chiamarle, dal momento che distano dalla realtà di quelle naturali quanto le naturali distano dalla verità di quelle metafisiche? A mio avviso l’ingresso di queste species nell’intelletto avviene con più immediatezza se ci si rivolge a quel lume che muove l’intelletto in noi; piuttosto che per mezzo delle forme delle cose fisiche introdotte per il tramite dei sensi esterni. E sappiamo per esperienza che si tratta di due modalità tra loro ben diverse. Per questo conviene abbracciare entrambi questi modi di pensare senza che si contraddicano. Altrove abbiamo dimostrato come ciò possa avvenire, e puoi comunque ricavartelo da solo da quanto abbiamo detto qui, per poco che ti intenda di filosofia generale. Perché se in te non ha luogo lo sguardo con l’applicazione di questo occhio [interno] come puoi sperare di ottenere l’immissione dei conoscibili nelle altre facoltà interne dell’anima? Che differenza c’è infatti tra il non applicare e l’avere gli occhi chiusi? E cos’è avere gli occhi chiusi se non essere – come si dice – «nell’ombra della morte»? Non è sempre stato detto, dalla verità delle cose fino ai detti popolari, che chiudere gli occhi ed essere morto siano la
stessa cosa? (141)
IX Invece, per quanto riguarda la formazione che segue l’applicazione, è da notare innanzitutto come il suo potere risieda totalmente nel modo e nella specie dell’applicazione. Infatti la facoltà conoscitiva in generale ha in comune con la materia il fatto che in sé stessa e da sé stessa non è altro che un seno o un ricettacolo. Nessuno degli elementi ha in se un qualche odore, sapore o colore, tuttavia essi, uniti a questi in diversi modi e gradi, sono in grado di produrre qualunque colore, sapore e odore. Il fuoco brilla vicino ad un altro corpo, e inoltre risplende in modi diversi, migliori o peggiori, a seconda delle diversità dei corpi. Si tratta di qualcosa che non ha il fuoco in sé, né alcuno dei corpi in sé considerato, ma l’hanno entrambi in virtù dell’applicazione. Ormai sei in grado, per analogia, di ottenere sia la formazione dell’intelletto, sia l’applicazione della memoria e di ottenerle tanto migliori quanto migliore è stata l’applicazione precedente, la cui efficacia dipende in larga parte da come viene maneggiato lo scrutinium. (142)
X Alcuni ritengono che siano facili a ricordarsi quelle immagini che si trovano nella facoltà immaginativa e nel senso comune che sono dotate di molta fisicità e da poca – come dicono essi stessi – spiritualità; al contrario, quelle difficili a ricordarsi sarebbero quelle dotate di molta spiritualità e di poca fisicità. Si convincono di ciò perché le immagini dotate di molta fisicità persistono, mentre il senso comune separa la spiritualità dalla loro fisicità, in modo da poter collocare un’immagine in essa, e ciò soprattutto quando accoglie quelle dotate di poco spessore. Parimenti concludono che sia dotato di una migliore capacità di ricordo un uomo di poca intelligenza nella cui anima siano fissate tutte le cose sensibili passate. Si tratta di affermazioni prive di persuasione, perché con le loro spiegazioni sono simili ai giudizi e ai discorsi di chi vaneggia. Stabiliscono infatti alcune immagini di memoria più rapide, altre più lente, alcune con prontezza, altre con laboriosità; alcune sono rappresentate dal cavallo di Martino, altre dal cavallo di Giorgio; dire e udire queste cose non si addice alla loro serietà.
Infatti qualsiasi cosa sentano, giammai la fisicità in quanto tale, o potresti dire più propriamente il corpo in quanto corpo, deve essere considerata come ciò che agisce; al contrario bisogna affermare che l’azione non deriva in ogni caso dalla fisicità, che quella minore deriva da una maggiore fisicità e quella minima da quella massima, poiché il corpo in quanto corpo non agisce; infatti ogni azione dipende dalla qualità, e più da ciò che è spirituale della stessa qualità, e soprattutto da ciò che è incorporeo. (143) Dunque, se andiamo a osservare da vicino le parole di quegli uomini famosi, non sempre essi sono in grado di evitare le contraddizioni, se pure vuoi perdonare loro il fatto che le cose fisiche non agiscono di più in quanto fisiche, ma perché persistono più a lungo e fungono da substrato degli accidenti da cui vengono prodotte le rappresentazioni che persistono poiché persistono i corpi, e persistendo si fissano meglio. Una tale giustificazione non può essere accolta senza vomitare per le loro parole, frase da stomaco delicato. Tralascio poi il fatto che più sono ignoranti, più sono pedanti e quanto più sono pedanti, tanto più sono ignoranti. E non è una contraddizione con la nostra esperienza che, infatti, quando indugiamo ad esaminare una singola cosa ci ricordiamo meglio di quando lasciamo scorrere le cose prestandoci poca attenzione; l’esperienza ci dice anche come avvenga altrettanto spesso che ci ricordiamo per sempre di qualche cosa vista, udita o presa in considerazione senza soffermarci affatto su di essa, mentre magari non abbiamo il minimo ricordo di altre viste e prese in considerazione a lungo e con una certa attenzione. La forza dunque non consiste nella persistenza e nella fisicità, anzi nel contrario stesso, soprattutto per quanto concerne i corpi. (144) Ma, al contrario, non è l’indugio che fissa il ricordo, bensì la capacità attiva della forma, anche se a volte sembra che la causa sia l’indugio, perché alcune forme non sono adatte o di natura tale da muoversi rapidamente o accogliere prontamente un subiectum e perciò lo scopo viene raggiunto grazie all’indugio. Invece quanto più la forma è incorporea, tanto più è attiva. Così il fuoco è il più attivo di tutti gli elementi perché è il più incorporeo di essi e quello che meglio riesce ad attirare su di sé l’attenzione e, se gli si fornisce materia, si alimenta da solo all’infinito. Anche se agisce molto, non lo fa in quanto è molto grande o in virtù della propria fisicità, bensì grazie a quella qualità più intensa che suole essere conservata in tale grandezza; di sicuro se tale qualità – come sottolinea un Platonico – potesse essere ridotta alla metà di quella grandezza, aumenterebbe in modo tale da avere doppia efficacia; così avrebbe efficacia massima se ridotta al minimo, infinita se ridotta ad una
quantità indivisibile. Da quanto abbiamo detto, possiamo vedere quanto questi cosiddetti filosofi abbiano parlato sconsideratamente. (145)
XI In questo modo si può anche vedere chiaramente – giacché sottolinearlo non è privo di giovamento a chi studia la presente dottrina – con quanta sconsideratezza certi dottori asini affermino quel detto comune: «Non la qualità, bensì la quantità», poiché si deve dire tutto ciò che si oppone alla loro affermazione. Ammettiamo pure che la qualità di così grande forza non sia inferiore ad una quantità tanto grande (cioè che siano proporzionali) e che in una grande quantità si trovi molta qualità, tuttavia giammai l’attività va ascritta alla grandezza e a tutto quanto riguarda la materia; l’estensione stessa infatti – secondo loro stessi – serve per contenere la qualità e la forma. Tutto ciò può comunque essere tollerato, se è stato detto dai loro magazzinieri, poiché stabiliscono il valore in base alla quantità che si trova nei pesi, nei numeri e nelle misure e tutto ciò che riguarda la qualità di cose semplici, medicine e altri preparati. Per questo, penso, uno di loro nella nostra patria aveva annotato nel suo insigne libro: «Non la qualità, bensì la quantità». Infatti per quanto sia evidente che abbia riferito queste cose alla descrizione di un maiale, per il quale non si chiede, come si farebbe per un cavallo, se ha gli occhi simmetrici, le orecchie piccole, il collo stretto, il petto ampio, la fronte sporgente, muso dritto, zampe sciolte, e altri particolari simili, ma importa solo se è grande, lungo e grasso, tutto questo tuttavia poteva essere rimandato subito dopo dal maiale a colui che si trovava nel magazzino in modo non meno conveniente: «Non la qualità, bensì la quantità», come una madre pia che ha dato alle figlie la dote e ha fatto dottore il figlio. (146)
XII Per quanto l’unione e il mutamento siano due azioni, tuttavia essi avvengono simultaneamente. Mutando infatti si unisce e unendo si muta. Mostriamo ora il loro funzionamento. Eraclito disse: «Se tutte le cose fossero fumo, le narici distinguerebbero tutto». Noi diciamo più spesso che se tutti fossero trasformati in galline tranne la volpe, questa non soffrirebbe più la fame e tutti
verrebbero divorati dalla volpe. Di tutti i poteri l’unico in grado di trasformare tutto è la fantasia dell’uomo; di tutti i poteri l’unico in grado di mangiare e gustare tutto è il pensiero dell’uomo. La fantasia potrà applicarsi a tale tipo di trasformazione – non senza un atto del pensiero – così che la facoltà cogitativa possa riprodurre potentemente tutte le cose memorabili, non senza il concorso della fantasia. Ma chiederai: la fantasia dovrà trasformare tutte le cose secondo la medesima specie e secondo più specie? Trasformandole e riportandole ad una sola, non si avrà memoria di molte, ma di una sola, poiché se tutto si convertisse in pecora, a quel punto il lupo non moltiplicherà le specie commestibili così che si possa dire che tutte tranne una sola sono commestibili per lui. Trasformandole e riportandole invece a più specie, dipende se le specie sono finite o infinite. Se sono finite o sono determinate e in questo caso bisogna conoscerle e stabilirle, o sono indeterminate e ci troveremmo così al punto di partenza. Se invece sono infinite, cercare di cavarci qualcosa è da stolti. (147) Bisogna perciò sapere che la trasformazione non va realizzata in modo tale da distruggere la diversità sostanziale o da eliminare gli accidenti specifici di ciascuna cosa; bisogna invece fare in modo che tutte le cose, quando viene accostata loro una particolare forma, siano mutate in una particolare maniera, così da assumere una comune caratteristica di memoria da una sola [forma] e per mezzo di essa. Così il nostro lupo potrà divorare tutte le cose come se fossero una sola, se tutte le essenze2 e tutto quanto consegue da esse si rivestiranno del medesimo genere di accidente. Così come è possibile immaginare anche infinite lettere, volendo, correlate alla stessa vocale posta al centro del cerchio – facendo attenzione che ognuna di esse mantenga la propria specificità – le quali assumono tutte il suono della medesima vocale, o meglio sono così lungi dal perdere la propria specificità distintiva a causa dell’aggiunta della vocale, tanto che grazie ad essa sono in grado di comunicare meglio di prima, allo stesso modo applicando diversi registri [dell’organo] alla stessa nota, si ottengono dei suoni diversi in base al loro specifico tipo. Perché pensi di non poter riuscire a ordinare e non provi invece ad unirti qualche specie, fra tutte le innumerevoli possibili, ponendola al confine tra fantasia e pensiero, così che tutte le cose divengano memorabili nell’anima, così come possono essere osservate in un libro? Questo è quanto lasciamo al tuo zelo, chiunque tu sia, o lettore intelligente. Osserva in che cosa sia consistita la superiorità dell’invenzione di Pan, dio dell’Arcadia, quando per
primo unì le canne selvatiche; queste, già realizzate in precedenza da diverse persone d’ingegno, di solito non erano facilmente intonate fra loro, con l’emissione del medesimo soffio di Pan nello stesso accordo di canne diverse, eliminando la dispersione e realizzando l’unione, uno da solo supera gli altri senza difficoltà. (148)
XIII Per quanto riguarda la disposizione sono conosciuti abbastanza diffusamente – anche se interessano relativamente al nostro scopo – alcuni principi che derivano da essa; tali principi possono tornarci più utili tenendo presente quanto abbiamo finora esaminato. Si dice innanzitutto che la reminiscenza avvenga quando una sensazione segue necessariamente un’altra, o una sensazione giunge contemporaneamente a un’altra, sia essa di luogo, di tempo, razionale, naturale, artificiale o di qualunque altro genere di cose convenzionali che siano concomitanti o in successione una dopo l’altra. In tal modo passiamo dal ricordo della neve a quello dell’inverno; all’inverno è associato il freddo e a questo il suo contrario; così si associano di seguito il ricordo del calore che si diffonde nello stomaco, quello di una buona digestione, l’appetito, il nutrimento vitale, la forza, l’allenamento e così via, similmente per tutte le altre cose. Tuttavia se qualcosa è per natura privo di ordine, va riferito e sostenuto a qualcosa di ordinato, il quale, a sua volta, deve comunque essere qualcosa di sensibile. Per questo non a caso un filosofo deduttivo (sillogistico) ha detto che l’ordine delle cose sensibili consiste nella loro natura, e non conosce ordine al di fuori di essa. Per cui se gli chiedessimo: «In cosa consiste l’ordine?¬ egli risponderebbe che consiste nel procedere di qualcosa secondo la via naturale. Allo stesso modo direbbe che la mancanza di ordine consiste nell’allontanarsi dalla via naturale. Questo è ciò che volevamo fosse detto riguardo al mezzo e che riguarda il mezzo dello scrutinium. Se solo studierai queste cose con un minimo di attenzione, non vi è nulla che ti possa impedire di progredire ulteriormente: grazie ad esse ti sei allontanato da ciò che impediva l’accesso a quanto segue. E sicuramente abbiamo evitato di non porre un corpus sufficiente di quelle speculazioni filosofiche che bastano da sole per attuare la prassi. (149)
PARTE TERZA I Orbene, passiamo ora a introdurre il modo di agire concretamente. Al pari di coloro che si esercitano, passiamo dalla conoscenza degli elementi di base all’osservazione di quelli interi e completi. Per prima cosa, imitando quelli che insegnano a muovere la mano sulla pagina prima di rivolgere gli occhi ai caratteri scritti, ci prefiggiamo, prima di allestire quei subiecta il cui ricordo sia risualtato più agevole, di saggiarne nel seguente modo il valore e l’efficacia. Prendiamo ad esempio un subiectum comune e cominciamo col suddividerlo nelle sue parti principali, che, almeno nel disegno di chi opera, si devono concatenare logicamente; queste parti principali più sopra sono state definite come subiecta più specifici. Poi si procede nella suddivisione, in modo che queste parti vengano a loro volta determinate e percepite in un successione ordinata che costituisca la contiguità fisica, oltre a determinare convenzionalmente altre parti che sono i subiecta più specifici in assoluto e sono individuali, i quali vanno ingranditi in base alla dimensione dei subiecta più specifici e alla possibilità di potervi collocare agevolmente qualsiasi cosa capiti. (150)
II Dopo che avrai disposto il tutto in questa maniera e ti sarai assicurato di conoscerlo a memoria senza indugio, procurati un elenco di diversi oggetti sensibili, prima di venticinque elementi, poi di cinquanta, poi ancora di cento, in modo da procurarti la conoscenza desiderata a poco a poco grazie all’esercizio, poiché ci si accorgerà benissimo di come le cose il cui ordine supplisce alla memoria naturale, grazie ai subiecta per mezzo dei quali sono ordinate e collocate, si presenteranno in maniera non meno ordinata che se fossero scritte su una pagina, così da poter andare con la stessa facilità dalla prima all’ultima e dall’ultima alla prima, e parimenti invertire a piacere l’ordine del discorso, grazie all’evidenza sensibile dei loci. (151)
III Perciò, constatata l’efficacia dei subiecta, passiamo alle regole per gli adiecta, di cui la memoria naturale si serve come solido fondamento. Ci sono dunque due generi di memoria, delle parole, cioè, e delle cose; mentre l’utilità della memoria delle cose si spiega da sola, quella delle parole risulta utile in alcuni casi, e precisamente quando grazie ad essa si ritiene di migliorare la capacità memorativa per quanto riguarda la prontezza del suo funzionamento – se infatti siamo in grado di sopportare cose più ardue, cessiamo di percepire le difficoltà e le fatiche minori – oppure quando l’abitudine di qualche nostra facoltà ci porta a cercare la giusta espressione al presentarsi delle parole iniziali di un argomento o di una frase, oppure perché capita di imbattersi in uno specifico nome proprio che non risulta essere chiaro, come è il caso delle erbe, degli alberi, dei minerali, dei semi e di cose di tal genere, di cui non basta affatto avere il concetto, o infine perché si presenta spesso l’occasione di pronunciare parole di cui non conosciamo affatto il significato. (152)
IV Parleremo altrove in merito ai vari modi con cui le cose stesse si collocano, si recuperano e si mettono in relazione tra loro. Per quanto riguarda questa facoltà la strada da percorrere è spiegata a sufficienza in quanto abbiamo detto precedentemente; hai comunque un’ottima maestra e guida nella natura, intrinseca ed estrinseca, che ti illumina costantemente sia dentro di te, grazie all’intelletto, sia fuori di te, per mezzo degli oggetti fisicamente presenti. (153)
V Potrai avere a disposizione moltissimi dei modi grazie ai quali si collocano i termini, a patto di aver dimestichezza nell’uso della Clavis Magna, la quale è veramente la sorgente di tutte le invenzioni; qui spieghiamo in più di un passo i modi che ci sono sembrati i più adatti al nostro scopo. Noi non abbiamo affatto una gran stima dell’unico modo di cui si sono serviti gli antichi fino ai nostri giorni, in quanto è faticoso, comporta molto esercizio e non è detto che tutti siano in grado di applicarlo. (154)
VI Abbiamo quindi riassunto la trattazione della lettura interna, oltre ad averne accorciato i tempi; infatti, poiché queste cose frammentavano e distraevano lo sguardo della fantasia, procuravano una fatica esagerata che allontanava gli ingegni impegnati in degne imprese, a causa della difficoltà dell’arte e della durata dell’esercizio. Come mai? Ad un subiectum si poteva unire – almeno nella maggioranza dei casi – un’unica lettera per il tramite di un unico adiectum, così che si otteneva un numero enorme di distinzioni di combinazioni e disposizioni possibili. A tal riguardo colui che conosciamo come il primo che abbia trasferito questa arte dai Greci ai Latini, si prende gioco dello sforzo di alcuni Greci che intendevano redigere le immagini delle parole e prepararsele così da non perdere tempo a cercarle quando ce ne fosse stata la necessità. Egli infatti notava come il numero delle parole fosse sterminato e come fosse perciò ridicolo tenervi dietro dalla prima all’ultima. Noi invece abbiamo accertato che non solo è possibile, ma è pure semplice poter avere delle immagini preparate, con ciascuna delle quali si possono apporre intere parole, di qualunque genere esse siano, in ciascun locus e tutto ciò può avvenire in più di un modo, come ora mostriamo in diverse pratiche realizzate per fini diversi tra loro. Ma ora, con quella che segue, ne mostriamo l’applicazione. (155)
PRIMA PRATICA CHE RIGUARDA LA MEMORIA DEI SUONI STABILITÀ DELLE RUOTE I Per potersi esercitare in modo graduale, si comincia col prendere una sillaba composta da lettere; da lettere, intendo, tali da poter essere espresse da adiecta che siano adatti tanto a fare quanto a subire qualsiasi azioni. (156)
II Fra questi adiecta si scelgano i trenta più correlati alle tue conoscenze allo scopo di rappresentare le trenta lettere che coprono l’intero numero di quelle che servono a produrre tutti i suoni di tre diverse lingue. Infatti non è necessario allestire un triplice alfabeto, poiché la lettera A equivale alla α greca e alla aleph ebraica, la B alla β greca e alla B ebraica, e lo stesso vale per molte altre. Quando invece, al di fuori alle nostre lettere, si trovano le greche ψ ω θ e oltre a queste e a quelle ci sono pure le ebree, tutte queste ultime sono scritte con i caratteri appropriati. Così un solo semplice alfabeto serve a tre lingue e a quelle che da esse derivano (157) (fig. 6).
FIG. 6
III Dunque trenta adiecta si dovranno presentare alla tua fantasia con la massima rapidità possibile e senza alcun indugio quando uno ti chiede oppure tu stesso cerchi di individuare rapidamente quello che è correlato ad una particolare lettera; ciò deve poter avvenire sia in maniera ordinata, dalla prima all’ultima e dall’ultima alla prima, sia in ordine sparso. (158)
IV
Fatto questo, si può procedere con l’attribuire ad ogni adiectum la propria attività peculiare: ogni attività attribuita deve essere percepibile visivamente ed essere svolta non senza un qualche movimen-to del corpo. Tu disporrai e stabilirai nel modo che ti sembrerà più opportuno; noi intanto rappresentiamo gli agenti e le azioni con immagini di questo genere: Licaone Deucalione Apollo Argo Arcade Cadmo Semele Eco Il nocchiero Tirreno Piramo Mineide Perseo Atlante Plutone Ciane Aracne Nettuno Pallade Giasone Medea Teseo La figlia di Niso Dedalo Ercole Orfeo i Ciconi Esaco Memnone
nel banchetto nelle pietre in Pitone nella giovenca in Callisto nella semina dei denti nel parto in Narciso in Bacco fanciullo nel pugnale nel lavoro della lana nella testa di Medusa nel cielo in Proserpina nello stagno nella tela nel cavallo nell’ulivo nei tori nella pentola di Esone in Scirone nei capelli del padre nella costruzione delle ali in Anteo nella lira in Orfeo nel precipizio nel luogo di sepoltura
AA BB CC DD EE FF GG HH II KK LL MM NN OO PP QQ RR SS TT VV XX YY ZZ ψψ ΦΦ ΩΩ ΘΘ
Arione Glauco
nei delfini nell’erba
In queste non si richiede necessariamente che la prima lettera del nome dell’agente o dell’azione sia la stessa che si vuole esprimere: basta infatti stabilire che entrambi indichino quella determinata lettera. (159) Per prima cosa dunque collocherai una ruota immobile all’interno di un’altra pure immobile, così che quella esterna indichi le persone e quella interna le azioni ad esse peculiari. (160)
FIG. 7
V Una volta fatto questo, si può progredire ad una fase successiva. Aggiungi all’uomo e alla sua azione uno strumento o un contrassegno distintivo che non si dovrà riferire solamente alla sua azione, ma che sia tale da poter essere adattato a tutte le azioni o per lo meno a quelle che possono capitare. Infatti queste ruote non sono concepite per rimanere sempre ferme, bensì allo scopo di imprimere nella nostra memoria azioni e contrassegni peculiari di un adiectum, così che quando gireranno da una parte e dall’altra possano sempre essere immediatamente riferiti a colui al quale sono attualmente uniti. In tal modo Licaone ha una catena, Deucalione una benda, Apollo il balteo, Argo il cappuccio, Arca la bisaccia, Cadmo l’insegna, Semele ha una sedia
sotto di sé, e così via anche gli altri hanno qualcosa che anche se è loro appropriato, può comunque essere accostato ad ognuno degli altri secondo le proprie possibilità, anzi va soprattutto curato quest’ultimo tipo di correlazione. Infatti il sistema e il principio di quest’ultima pratica sono preferibili al metodo della precedente. (161) In secondo luogo, quindi, collocherai una ruota immobile all’interno di altre due ruote pure immobili così che incontri costantemente le due cose peculiari riferite alle persone, in modo tale da essere in grado di indicare sempre la propria lettera, ovunque esse siano poste e in qualsiasi modo siano disposte. Le ruote fisse da osservare con lo sguardo della mente sono fatte come la seguente (fig. 8). In questo caso la ruota esterna indica le persone; quella di mezzo le azioni specifiche; quella interna, invece, i contrassegni distintivi in questo modo: A Licaone B Deucalione C Apollo D Argo E Arcade (162)
A nel banchetto B nelle pietre C nel Pitone D nella custodia
A incatenato B bendato C col balteo D incappucciato
E in Callisto
E con la bisaccia
FIG. 8
Anche riguardo alle altre persone si useranno disposizione, ordine e criterio simili. Quando si aggiunge uno strumento per rappresentare la terza lettera – per quanto sembri meno agevole, poiché l’azione appropriata, cioè reale, non ammette che si abbia in mano un siffatto oggetto – lo si immagina per comodità aggiunto, attaccato o inserito in una qualche maniera in modo che venga a turbare o ad aiutare l’azione e sia gettato, rovesciato, rimosso, districato, distrutto, possa precipitare, cadere o ancora comportarsi in qualunque altro modo si voglia, in relazione all’azione che si svolge. Del resto è estremamente appropriato distinguere con segni a questo modo, dal momento che tali contrassegni distintivi possono riferirsi ed applicarsi a tutti. (163)
VI Non a caso abbiamo voluto lasciare a te il compito di trovare delle azioni adatte e degli strumenti, ovvero dei segni distintivi: come infatti a ciascuno sono più note e conosciute le immagini peculiari di determinati uomini, allo stesso modo – come piace a ciascuno – ognuno ha certe azioni, strumenti e segni distintivi dai quali è più stimolato ed agitato nei sensi. Precedentemente infatti abbiamo detto che gli affetti sono le porte della memoria; di questi i più evidenti e manifesti sono anche i più efficaci. Essi tuttavia non sono gli stessi e non hanno la medesima origine in ciascuno di noi. (164)
IL MOVIMENTO DELLE RUOTE I Ora dunque, dopo aver fissato con la mente in maniera immobile le precedenti ruote, così da aver pronto ciò che ognuno ritiene opportuno, è giunto il momento di prepararsi ad una pratica più complessa in modo da arrivare, per cominciare, al primo raggruppamento formato da due lettere qualsiasi. Osserva come la prima figura sia formata da due ruote immobili. Adesso, mantenendo fissa quella esterna, lascia che quella interna sia libera di muoversi. Se prima l’immobilità di questa ruota era in relazione alla condizione di ciò che deve essere fissato nella memoria, ora, conformemente
al movimento delle numerosissime azioni possibili che deve svolgersi senza alcun limite per quanto riguarda la varietà, tale ruota deve poter essere girata in qualsiasi direzione. (165)
II Il movimento della ruota interna della prima figura per rappresentare una qualsiasi sillaba di due lettere Quell’azione che era specifica di un solo personaggio, ora viene condivisa da tutti gli altri posti sul cerchio, e perciò viene adattata a ciascuno di essi in base alla particolare sillaba di due lettere che si vuole formare. Licaone nel banchetto ti restituiva alla memoria due A identiche, cioè AA, trovandosi la A della ruota interna in corrispondenza della A della ruota esterna; lo stesso dicasi per Deucalione nei sassi, il quale indicava BB. Ora che la ruota gira avrai coppie di lettere non più gemelle, bensì diverse: infatti quando la B della ruota interna si trova in corrispondenza della A della ruota esterna, non hai più Licaone nel banchetto, bensì Licaone che trasforma i sassi. Deucalione che uccide il Pitone, Apollo che custodisce il bue e così via tutti gli altri svolgono l’azione di quelli a loro successivi man mano che si susseguono le altre lettere. Vuoi richiamare la sillaba PA? Poni la A della ruota interna in corrispondenza della P di quella esterna e la otterrai per mezzo di Plutone nel banchetto. La sillaba RE? Basta mettere la E della ruota interna in corrispondenza della R di quella esterna e la otterrai per mezzo di Nettuno che trafigge Callisto. Allo stesso modo la sillaba SI con Pallade con Bacco fanciullo e VO con Medea che trascina via Proserpina. Ora sai come si deve procedere per raffigurare in maniera sensibile una sillaba di due lettere. (166)
III Il movimento della ruota interna della prima figura per rappresentare una qualsiasi sillaba di tre lettere Prendendo in esame la seconda figura, quando le due ruote interne sono staccate e libere di ruotare senza impedimenti, potrai rappresentare qualsiasi combinazione composta da tre lettere; così come accadeva che a ruote
inchiodate “Licaone nel banchetto incatenato” ti presentava la combinazione di lettere AAA, adesso Licaone che compie l’azione di Medusa, con l’insegna di Plutone, ti presenterà la combinazione AMO. Arcade, che compie l’azione di Semele con l’insegna di Plutone, ti presenterà la combinazione EGO. Medea che si comporta come Tirreno con l’insegna di Perseo, presenterà VIM. E così, facendo variare in molti modi le lettere che si trovano sulla ruota intermedia e su quella interna sotto ciascuna delle lettere situate sulla ruota esterna, potrai produrre a tuo piacimento tutte le combinazioni immaginabili di tre lettere. (167)
IV Un modo per rappresentare qualsiasi sillaba di quattro lettere Quando capiti che a una sillaba si aggiunga una quarta lettera, non è necessario mettere una quarta ruota all’interno delle altre: infatti non accade a tutte le lettere di occupare il quarto posto di una sillaba, bensì a poche di esse, come la S che ha il quarto posto nella sillaba MENS e la T che ha il quarto nella sillaba DANT. Che bisogno c’è dunque di una ruota per indicare questa presenza di una quarta lettera? È sufficiente raffigurarsi una determinata cosa particolare che sia relazionata al subiectum o all’adiectum secondo una qualche complessione, così da indicare la S nel primo caso e la T nel secondo. (168)
V Un altro caso simile di una sillaba di tre lettere disposta in un altro modo Ci sono altri casi in cui si aggiunge una quarta lettera alla terza, cioè L, R e N interposti tra una consonante e una vocale, come accade nella prima sillaba di questa parola composta da più sillabe: TRUNCUS, o nella seconda sillaba di INCRASSATUS o ancora nella terza di PERMAGNUS. Per indicare la presenza e la collocazione di queste lettere potrai stabilire altre disposizioni, ponendo accidenti sensibili nel subiectum, congiungendoli ad esso o ponendoglieli accanto. A tal scopo di solito mi tornava assai utile un adiectum razionale che mi significava la terza, la seconda o la prima lettera a seconda che stesse seduto, appoggiato o ritto. E se si presentassero altre lettere oltre a queste, il che può accadere assai di
rado nei termini latini, greci, ebrei, caldei, persiani, italiani, arabi e spagnoli, vi provvederai grazie alla medesima luce che hai visto venirci in aiuto per le tre lettere precedenti. Per quanto riguarda i francesi – riguardo ai tedeschi, ai goti, agli scizi e altri di tal fatta, essi stessi vi provvederanno – i quali non perché la loro lingua sia rozza, ma a causa di non so quale uso o consuetudine ammettono l’uso di alcune lettere che vengono omesse nella pronuncia per distinguere le parole, a tal riguardo, si diceva, non vi è alcunché che ti possa creare dei problemi: la scrittura interna infatti non ne viene toccata e viene eseguita in relazione a ciò che va pronunciato, senza aggiungere quelle lettere di cui si è detto. Per questo non mancano tra i francesi uomini dall’ingegno affatto superficiale che cercano di liberare la scrittura della loro lingua da questa specie di condizione ingiusta arrecatale da una evidente mancanza di cultura. (169)
VI La rappresentazione di qualsiasi sillaba di cinque lettere Per una sillaba di cinque lettere non c’è bisogno di dire altre cose in aggiunta; semplicemente ci serviamo o – per dirlo più chiaramente – facciamo un uso contemporaneo di quanto abbiamo detto innanzi: infatti non può accadere altro che avvengano contemporaneamente i due succitati casi particolari, così che si aggiungono la S e la T alla quarta lettera e si interpongono la L, la R e la N prima della quinta, come avviene nella sillaba PLEBS, nella prima sillaba di TRANSACTUM e nell’ultima di STUPRANS. (170)
VII Qualsiasi sillaba di più lettere Per uno o due casi particolari, che capitano peraltro assai di rado, che bisogno abbiamo di destare preoccupazione, se non sono altro che unioni di più lettere? Queste, aggiungendo un piccolo particolare, si potranno far entrare senza problema nella rappresentazione di una sillaba da quattro o da cinque. A dire il vero non so se ne esistano altri di questo genere oltre a SCROBS, le cui veci, al fine di essere richiamato alla memoria, possono essere fatte dalla sillaba di cinque lettere SCROΨ grazie alla sua somiglianza di pronuncia.
(171)
VIII La U dopo la Q Non voglio fare a meno di notare – sebbene quanto sto per dire vada collocato non tra i precetti indispensabili, bensì tra quelli utili – che nella scrittura interna non bisogna considerare la U dopo la Q: infatti il suono della Q non muta, con o senza la U, così che QU mostra chiaramente il proprio valore, che è semplicemente quello di un’unica lettera; per questo, se servissero lettere da vendere, andrebbe bene scrivere: «Quinte, Quinte quare quadrum quintum quatis?». Ma se si dovesse comprarne, non sarebbe male scrivere: «Qare Qinte qatis qadrum qintum?». Così anche coloro che sono soliti fare uso di lettere inutili senza basarsi su qualche giudizio preliminare imparziale e di maggior cultura, renderebbero un servizio migliore agli stranieri che studiano la loro lingua, servizio che è invece completamente inutile nella loro patria. (172)
IX Come estendere lo spazio interiore dei subiecta e moltiplicare senza limiti il numero degli adiecta Dopo aver fatto pratica e aver preso la mano nell’utilizzo spedito di pochi adiecta e di un ristretto numero di subiecta, aggiungerò solamente ciò che concerne il modo di moltiplicarli. Esaminerai quali di questi subiecta di solito conservi gli adiecta in modo più saldo o più precario così che, scoperte le cause della loro forza o della loro debolezza – il che ti riuscirà facile applicando la dottrina da noi esposta – potrai trovarne altri simili. Per quanto riguarda poi la moltiplicazione degli adiecta ti viene data una importante capacità, poiché, osservando quale sia l’origine di tale principio, potrai procurarti una vantaggiosa pratica utilizzabile anche in altri campi: infatti possiamo rivolgere la nostra conoscenza da cose simili ad altre cose simili. Prima avevi trenta adiecta vistosi, come trenta sono le lettere, che ti potevano servire per una scrittura breve; ora, allargata la pagina all’infinito – nel caso se ne presenti la necessità – è utile aumentare senza limiti l’aggiunta
di parole. Infatti ciò può avvenire in maniera poco agevole se si ricollocano sempre più spesso gli stessi adiecta alla stessa maniera, dal momento che per la scrittura interna è richiesta una varietà che non serve affatto per quella esterna, come sanno bene coloro che si esercitano in questa pratica. E allora? Come prima avevi un Licaone, un Deucalione, etc., adesso immaginati due Licaoni, due Deucalioni e così via in modo che dove prima ne avevi trenta, ora se ne presentino sessanta. Se li triplichi ne avrai novanta, se li quadruplichi centoventi. Tutti quelli di cui hai potuto sperimentare con certezza l’efficacia sulla tua immaginazione vanno ridotti al numero di trenta nomi principali. Nulla infatti impedisce che abbiano un nome proprio diverso dal loro. Infatti a Filoteo rimarrà sempre addosso il carattere del nome di Deucalione se anche solo una volta è stato annoverato nel numero di quelli che lanciano sassi. Si può comprendere meglio il valore di questa scoperta applicandola ad altre cose, piuttosto che osservandola da fuori. (173)
SECONDA PRATICA CHE RIGUARDA I TERMINI SEMPLICI PER MOSTARE UN QUALSIASI RAGGRUPPAMENTO DI DIVERSE SILLABE DI PAROLE
I Mentre la prima pratica in fase iniziale permetteva solo la combinazione di lettere, la pratica maggiore, in cui sfocia la prima in fase avanzata, consente la composizione di sillabe allo scopo di illustrare delle parole complete, in modo da poter collocare su ciascun subiectum un singolo adiectum completo, che è definito come parola semplice ed isolata, e percepirlo senza indugio. (174)
II Ciò avviene nella seguente maniera. Come ti eri fissato trenta agenti, azioni, segni distintivi, oltre a circumstantia e adstantes correlati alle trenta lettere, ora, in maniera altrettanto ordinata, collocane centocinquanta, cifra che si ottiene combinando ogni prima lettera di una sillaba bielementale aperta con
ognuna delle cinque vocali. Vediamo dunque che in base allo stesso principio con cui abbiamo insegnato ad organizzare un abbecedario abbiamo insegnato anche a formare un sillabario. (175)
III Grazie a quanto abbiamo detto riguardo all’estensione grafica abbiamo ottenuto dei nomi conosciutissimi, giacché ciò giova appunto a quella varietà che è assolutamente necessaria in questa arte, e ricondurrai alcuni nomi principali ed utilizzati con maggiore frequenza, tra quelli che è tua cura aggiungere, come centurie al riparo e sotto l’ala dei trenta vessilli. Poi, per poter lavorare senza limitazioni, ad ognuno dei vessilli posti innanzi, ciascuno dei quali va articolato nel quinario delle cinque lettere sussistenti, sottomettiamo altre cinque vessilli. (176)
IV Così, quei nomi a te meglio noti siano correlati a questo insieme di vessilli in modo che ciascuno di essi occupi quel posto che sembrerà essere più adatto secondo la propria natura. I vessilli che vanno più spesso in battaglia si prenderanno le truppe maggiori; tra tutti infatti ce ne sono anche di quelli che si accontentano di uno o due soldati. Bisogna fare in modo tale da operare con tutti secondo un’uguaglianza di proporzione, non di numero. (177)
V Tu stesso ti preparerai un elenco di centocinquanta nomi che in base alla loro denominazione, o alla loro azione abituale, o per la loro disposizione siano strutturati secondo l’ordine della prima lettera della sillaba, e organizzati ordinatamente dalle cinque lettere sussistenti. Fatto ciò, ricondurrai questi nomi alla disposizione di queste o di altre – se ne hai di migliori – specie e mestieri delle vocali – in modo che si uniscano alle medesime per mezzo di azioni e in mestieri definiti – o collocando nomi a te conosciuti secondo una disposizione ordinata che procede in linea retta, o ordinando in modo diverso da come li abbiamo collocati noi, come ti sia più comodo, usandone altri che
si susseguano al posto di certi altri, riconducendoli in una successione precisa, in modo tale che possano entrare in relazione alle stesse o ad altre circumstantia, agli stessi o ad altri tratti distintivi e co-agenti. (178)
VI Così, in modo simile alle altre ruote precedenti, preparerai cinque ruote immobili, ciascuna delle quali sia formata da centocinquanta sillabe bielementali aperte. La prima e più esterna di tali ruote starà a significare chi compie l’azione, raffigurato con nomi di inventori. La seconda le azioni. La terza i tratti distintivi. La quarta gli adstantes. La quinta le circumstantia. Queste vanno scelte in modo tale da interagire con quelle non in un’unica maniera, bensì in maniera varia, così da essere alla base di una regola generale. (179) Poiché è difficile far stare cinque ruote in poco spazio, ne collochiamo solo una, a cui le altre sono simili, e non estesa, bensì ristretta, poiché i trenta vessilli principali sono disposti sulla circonferenza, e i cinque sottomessi a ciascuno di essi sono disposti in scala da questi verso il centro (fig. 9).
FIG. 9 AA AE AI AO
(AA) (AE) (AI) (AO)
Rhegima Osiride Cerere Trittolemo
nel pane di castagne nell’agricoltura nel giogo per i buoi semina
1 2 3 4
AU
(AU)
Pitumno
concima
5
BA BE BI BO BU
(BA) (BE) (BI) (BO) (BU)
Erittonio Glauco Trace Misa Pyrode
nel carro sguaina la spada nella falce condisce col sale trae il fuoco dalla selce
6 7 8 9 10
CA CE CI CO CU
(CA) (CE) (CI) (CO) (CU)
Hasamon Phega Belhaiot Pilumno Oresteus
trapianta innesta nell’asino da soma trebbia il grano cura le viti
11 12 13 14 15
DA DE DI DO DU
(DA) (DE) (DI) (DO) (DU)
Noè Liber Stafilo Iside Minerva
sistema la vigna ottiene il vino dall’orzo nel vino tagliato con l’acqua nella coltura dei giardini nell’olivo
16 17 18 19 20
EA EE EI EO EU
(EA) (EE) (EI) (EO) (EU)
Aristeo Nembrot Phalla Gebur Ramessus
nel miele cacciatore nella rete nelle trappole nell’amo da pesca
21 22 23 24 25
FA FE FI FO FU
(FA) (FE) (FI) (FO) (FU)
Regomer Sargo Danaus Doxius Iobal
nella scala nella cesta scava il pozzo costruisce con l’argilla costruisce col legno
GA GE GI GO GU
(GA) (GE) (GI) (GO) (GU)
Husbal Ciclope Teodoro Perdix Talus
nella fornace della calce nella torre nel tornio nel compasso nella sega
26 27 28 29 30 (181 31 32 33 34 35
HA HE HI
(HA) (HE) (HI)
Teodotus Parug Semeol
nel trapano nel martello nello strettoio (torchio)
36 37 38
HO HU
(HO) (HU)
Seusippo Luscinio
nelle botti (giare) nell’ascia
39 40
GA GE GI GO GU
(IA) (IE) (II) (GO) (IU)
Choraebus Barcham Closter Aracne Boezio
vasaio avvolge la lana ordisce i fili tesse calzolaio
41 42 43 44 45
HA HE HI HO HU
(KA) (KE) (KI) (KO) (KU)
Frigio Caathar Procon Licarnasso Chares
cardatore nelle calzature nel vetro delle erbe nelle tenaglie negli arnesi
46 47 48 49 50
IA IE II IO IU
(LA) (LE) (LI) (LO) (LU)
Abas Stram Crates Arphalus Dubitrides
barbiere nel rasoio tornisce l’oro (orafo?) fa la doratura nelle bottiglie
51 52 53 54 55
KA KE KI KO KU
(MA) (ME) (MI) (MO) (MU)
Hermael Ramesse Minosse Dedalo Glycera
nei pettini nei tappeti marinaio nell’antenna (della vela) intreccia corone
LA LE LI LO LU
(NA) (NE) (NI) (NO) (NU)
Emor Anacharsis Delos Lydus Api
danza tira i mantici fonde il rame nelle monete medico
56 57 58 59 60 (182 61 62 63 64 65
MA ME MI MO MU
(OA) (OE) (OI) (OO) (OU)
Chitone Circe Farfacone Aiugam Ostane
chirurgo incantesimi necromante nei cerchi evocatore di demoni
66 67 68 69 70
NA NE NI NO NU
(PA) (PE) (PI) (PO) (PU)
Zoroastro Suah Caldeo Attalo Prometoe
nella magia chiromante piromante nell’idromanzia immola i tori
71 72 73 74 75
OA OE OI OO OU
(QA) (QE) (QI) (QO) (QU)
Abele Enos Zedecor Cureta Abramo
sacrifica del bestiame erige l’altare gira la mola nell’acqua sacrifica un fanciullo circoncide
76 77 78 79 80
PA
(RA)
Giovanni
PE
(RE)
Emael
PI
(RI)
Imus
PO PU
(RO) (RU)
Anfiarao Orfeo
battezza 81 scopre il capo di un uomo 82 davanti all’altare vela il capo di una donna 83 davanti agli dei augure 84 nell’orgia 85
QA QE QI QO QU
(SA) (SE) (SI) (SO) (SU)
Alfare Critone Belo Diagora Chemis
marsicano cerretano negli idoli abbatte gli altari sepoltura nelle piramidi
RA RE
(TA) (TE)
Mirchanes Giges
nei ceri nella pittura
86 87 88 89 90 (183 91 92
RI RO RU
(TI) (TO) (TU)
Marsia Tubal Anfione
flautista citaredo nelle note musicali
93 94 95
SA SE SI SO SU
(VA) (VE) (VI) (VO) (VU)
Amurius Baros Venus Tubalchain Pysaeus
nella cetra a corde (di cuoio) nella cetra di bronzo nel postribolo nel combattimento nella tromba di bronzo
96 97 98 99 100
TA TE TI TO TU
(XA) (XE) (XI) (XO) (XU)
Birrias Bellerofonte Nettuno Aetholus Perseo
nel tamburo va a cavallo doma i cavalli nella lancia nella freccia
101 102 103 104 105
VA VE VI VO VU
(YA) (YE) (YI) (YO) (YU)
Arthemon Phoenix Maletes Gaegar Ermus
nella testuggine (da guerra) nella balestra nella bandiera (vessillo) nello scudo nella campana
106 107 108 109 110
XA XE XI XO XU
(ZA) (ZE) (ZI) (ZO) (ZU)
Marmitus Theut Conradus Talete Pitagora
nella corazza e nell’elmo nelle lettere e nella scrittura lettere impresse col torchio nell’eclissi e nell’Orsa in Venere e Vespero
111 112 113 114 115
YA YE YI YO YU
(ΨA) (ΨE) (ΨI) (ΨO) (ΨU)
Nauphides Endimion Ipparco Athlas Archimede
nel corso del sole nella natura della luna moto sinistrorso delle stelle nella sfera celeste nel cielo di bronzo
116 117 118 119 120
ZA ZE ZI ZO ZU
(ΦA) (ΦE) (ΦI) (ΦO) (ΦU)
Cleostrato Archita Senofane Platone Raimondo
(ψA (ψE (ψI (ψO (ψU
(ΩA) (ΩE) (ΩI) (ΩO) (ΩU)
Giordano nella chiave e nelle ombre Protagora nelle due dottrine contrarie Alcmeone nella scienza della natura Euclide nel male come nulla [manca nel testo originale]
126 127 128 129 130
AA AE AI AO AU
(ΘA) (ΘE) (ΘI) (ΘO) (ΘU)
Epicuro Timon Crates Cleantes Menudemus
nella libertà dell’anima nella misantropia nel pane delle origini attinge alla filosofia superstizioso contro natura
131 132 133 134 135
BA BE BI BO BU
( ( ( ( (
Polimnestore Filolao Speusippus Anassagora Archelao
culto pitagorico delle fave evidente armonia delle cose nella soave filosofia nel caos nella natura senza misura
136 137 138 139 140
CA
( A)
Pirro
CE
( E)
Diodoro
CI CO
( I) ( O)
Simon Eschilo
CU
( U)
Diogene
cerca per non trovare 141 nell’esposizione avviluppata e capziosa 142 afferma tutto a cenni 143 nei personaggi (maschere) 144 nei grammatici che ignorano i 145 propri mali
A) E) I) O) U)
nei dodici segni zodiacali el cubo geometrico nei mondi innumerevoli nelle idee e dalle idee nelle nove lettere
(184 121 122 123 124 125
DA DE DI DO DU
( ( ( ( (
A) E) I) O) U)
Omero Sofocle Farmacon Tapes Melico
in Sofocle epico in Omero tragico nell’ottica nella prospettiva nella memoria
AA AE AI AO AU
(AA) (AE) (AI) (AO) (AU)
nodoso simulato intricato deforme (informe) infame (celebre)
146 147 148 149 150 (185 1 2 3 4 5
BA BE BI BO BU
(BA) (BE) (BI) (BO) (BU)
fiacco, pigro turpe, indecoroso avvolto, ricoperto inetto giacente
6 7 8 9 10
CA CE CI CO CU
(CA) (CE) (CI) (CO) (CU)
calpestante inaudito instabile, mutevole rozzo incantato
11 12 13 14 15
DA DE DI DO DU
(DA) (DE) (DI) (DO) (DU)
avvicinato adescato giacente orribile impotente
16 17 18 19 20
FA FE FI
(EA) (EE) (EI)
colpito privo di onore gaio, divertente
21 22 23
FO FU
(EO) (EU)
che porta (sopporta) atteso
24 25
FA FE FI FO FU
(FA) (FE) (FI) (FO) (FU)
sprezzante che ha messo radici, testardo fatale sottratto, evitato sfinito, spaventato
GA GE GI GO GU
(GA) (GE) (GI) (GO) (GU)
brutale disordinato appeso, sospeso confuso indistinto
26 27 28 29 30 (186 31 32 33 34 35
HA HE HI HO HU
(HA) (HE) (HI) (HO) (HU)
estraneo, straniero povero, misero cacciato lontano aspro (scrupoloso) rupugnante
36 37 38 39 40
IA IE II IO IU
(IA) (IE) (II) (IO) (IU)
finto (sostituito) sepolto resuscitato (svegliato) mobile, instabile fluente, (molle)
41 42 43 44 45
KA KE KI KO KU
(KA) (KE) (KI) (KO) (KU)
cadente (incline) offensivo (funesto) ingurgitante preparato (rinnovato) odioso
46 47 48 49 50
LA LE LI LO LU
(LA) (LE) (LI) (LO) (LU)
trovato, scoperto legato intercalato, rinviato privato separato, ucciso
51 52 53 54 55
MA ME MI MO MU
(MA) (ME) (MI) (MO) (MU)
rotto intrecciato insolito spruzzato, versato contraffatto, finto
NA NE NI NO NU
(NA) (NE) (NI) (NO) (NU)
appoggiato inosservato, ignoto irritato, aggredito ferito, molestato funesto
56 57 58 59 60 (187 61 62 63 64 65
OA OE OI OO OU
(OA) (OE) (OI) (OO) (OU)
affamato sussurrato ripetuto, rinnovato impacciato irremunerabile
66 67 68 69 70
PA PE PI PO PU
(PA) (PE) (PI) (PO) (PU)
sporco fragile, debole mendicante multiforme che si oppone (interpone)
71 72 73 74 75
QA QE QI
(QA) (QE) (QI)
stretto misterioso, segreto prodigioso
76 77 78
QO QU
(QO) (QU)
ignoto ozioso
79 80
RA RE RI RO RU
(RA) (RE) (RI) (RO) (RU)
che si lamenta implacabile privato trascurato schiacciato
81 82 83 84 85
SA SE SI SO SU
(SA) (SE) (SI) (SO) (SU)
laborioso funesto nuovo, insolito oscuro infausto, osceno
TA TE TI TO TU
(TA) (TE) (TI) (TO) (TU)
impenetrabile disseccato duro infido che (si) precipita
86 87 88 89 90 (188 91 92 93 94 95
VA VE VI VO VU
(VA) (VE) (VI) (VO) (VU)
venale incitato, molestato pusillanime sfrenato rotto, indebolito, fiaccato
96 97 98 99 100
XA XE XI XO XU
(XA) (XE) (XI) (XO) (XU)
ardente aperto, sconnesso tagliato, inciso piegato fumante
101 102 103 104 105
YA YE YI YO YU
(YA) (YE) (YI) (YO) (YU)
naufrago inattivo (da mescolare) incatenato macilento, magro errante
106 107 108 109 110
ZA ZE ZI ZO ZU
(ZA) (ZE) (ZI) (ZO) (ZU)
gelido trafitto lugubre insanguinato livido
111 112 113 114 115
AA AE AI AO AU
(ΨA) (ΨE) (ΨI) (ΨO) (ΨU)
marcio, putrefatto pestilenziale corrosivo, mordace, pungente che beve, assorbe ansioso, inquieto
AA AE AI AO AU
(ΦA) (ΦE) (ΦI) (ΦO) (ΦU)
obliquo, torvo infernale tremante assalito amaro, aspro
116 117 118 119 120 (189 121 122 123 124 125
AA AE AI AO AU
(ΩA) (ΩE) (ΩI) (ΩO) (ΩU)
deforme (informe) diverso, discordante deserto, abbandonato boscoso, silvestre inoperoso, pigro
126 127 128 129 130
AA AE AI
(ΘA) (ΘE) (ΘI)
stigio, mortifero paludoso, lacustre sonnolento
131 132 133
AO AU
(ΘO) (ΘU)
digiuno, smagrito spettrale
134 135
AA AE AI AO AU
( ( ( ( (
A) E) I) O) U)
gonfio, tumido armato insipido, stupido sassoso bieco, torvo
136 137 138 139 140
AA AE AI AO AU
( ( ( ( (
A) E) I) O) U)
ambiguo, incerto scherzoso, sfrenato rabbioso fremente rapace, avido, furioso
141 142 143 144 145
AA AE AI AO
( ( ( (
A) E) I) O)
insano (di mente) discordante mordace, mordente che tira calci, recalcitrante
AU
( U)
stupefacente
aa ae ai ao au
(AA) (AE) (AI) (AO) (AU)
ulivo alloro mirto rosmarino cipresso
146 147 148 149 150 (190 1 2 3 4 5
aa ae ai ao au
(BA) (BE) (BI) (BO) (BU)
ulivo alloro papavero quercia ortica
6 7 8 9 10
aa ae ai ao au
(CA) (CE) (CI) (CO) (CU)
fiori spine tiara triplice corno corna
11 12 13 14 15
aa ae ai ao au
(DA) (DE) (DI) (DO) (DU)
corona regale buffone canna (flauto o zampogna) salice corna del cervo
16 17 18 19 20
aa ae ai ao au
(EA) (EE) (EI) (EO) (EU)
splendore (raggio) cometa arcobaleno torre giunonica nube che incombe
21 22 23 24 25
aa ae ai ao
(FA) (FE) (FI) (FO)
fumo che sale torce (lampade) chioma di Tisifone gemme
au
(FU)
gigli
aa ae ai ao au
(GA) (GE) (GI) (GO) (GU)
mezza luna fulmine spada scure freccia (saetta)
26 27 28 29 30 (191 31 32 33 34 35
aa ae ai
(HA) (HE) (HI)
sega pioggia uncino
36 37 38
ao au
(HO) (HU)
freno (dei cavalli) lingua vibrante
39 40
aa ae ai ao au
(IA) (IE) (II) (IO) (IU)
cono, cimiero mano che afferra becco d’aquila testa di cinghiale testa di leone
41 42 43 44 45
aa ae ai ao au
(KA) (KE) (KI) (KO) (KU)
piogge inondanti elogio funebre gufo lugubre gallo colomba
46 47 48 49 50
aa ae ai ao au
(LA) (LE) (LI) (LO) (LU)
cesto di frutta idra fiamma vento nido di api
51 52 53 54 55
[viscere aruspici]
ADIECTA RELAZIONABILI AL COLLO aa ae ai ao
(MA) (ME) (MI) (MO)
collana serpente pelle d’agnello pelle di volpe
au
(MU)
clavicole
aa ae ai
(NA) (NE) (NI)
catena anello spirito di un morto
56 57 58 59 60 (192) 61 62 63
ao au
(NO) (NU)
ala fascio
64 65
aa ae ai ao au
(OA) (OE) (OI) (OO) (OU)
cappio faretra balteo setaccio macina (mola)
66 67 68 69 70
aa ae ai ao au
(PA) (PE) (PI) (PO) (PU)
giogo borsa ventaglio scettro frusta
71 72 73 74 75
aa ae ai ao au
(QA) (QE) (QI) (QO) (QU)
brocca tromba spada trofeo piatto
76 77 78 79 80
aa ae ai ao au
(RA) (RE) (RI) (RO) (RU)
cappuccio monacale lino (stoffa) cintura d’oro erbe orologio Oggetti adattabili ai piedi
81 82 83 84 85
OGGETTI ADATTABILI AI PIEDI aa ae ai ao
(SA) (SE) (SI) (SO)
scorpione cane cavità (grotta) oca
86 87 88 89
au
(SU)
altare
aa ae ai ao au
(TA) (TE) (TI) (TO) (TU)
albero mele d’oro serpente ceppi conchiglia
90 (193) 91 92 93 94 95
aa ae ai ao au
(VA) (VE) (VI) (VO) (VU)
colonna delfino drago cavallo ruota della fortuna
96 97 98 99 100
aa ae ai ao au
(XA) (XE) (XI) (XO) (XU)
fieno fossato fornace granaio (deposito) culla
101 102 103 104 105
aa ae ai ao au
(YA) (YE) (YI) (YO) (YU)
inferno lago leone lepre strada, via
106 107 108 109 110
aa ae ai ao au
(ZA) (ZE) (ZI) (ZO) (ZU)
bosco fiume marmo scrofa che allatta sasso corroso
111 112 113 114 115
aa
(ΨA)
panca
116
ae ai ao
(ΨE) (ΨI) (ΨO)
sedia tomba specchio riflettente
au
(ΨU)
viscere degli aruspici
aa ae ai ao au
(ΦA) (ΦE) (ΦI) (ΦO) (ΦU)
bue lento alveare spaventapasseri trappola per topi fascio di giunchi
117 118 119 120 (194) 121 122 123 124 125
aa ae ai ao au
(ΩA) (ΩE) (ΩI) (ΩO) (ΩU)
cavallo della morte sette candelabri incenso odoroso zolfo brillante trave che ostruisce
126 127 128 129 130
aa ae ai ao au
(ΘA) (ΘE) (ΘI) (ΘO) (ΘU)
asino indolente cratere (da vino) vaso di Pandora cornucopia toro recalcitrante
131 132 133 134 135
aa ae ai ao au
( ( ( ( (
A) E) I) O) U)
uomo mutilato (il solo tronco) donna impiccata (sospesa) lupo sul cadavere gallina che cova tomba
136 137 138 139 140
aa ae ai ao
( ( ( (
A) E) I) O)
fornace stoppa che brucia tugurio di pesci (?) cagna che allatta i cagnolini
141 142 143 144
au
( U)
cocchio
145
aa ae ai ao
( ( ( (
galli lottatori ariete che attacca maiale che fa razzia bimbo che gioca
au
( U)
146 147 148 149 150 (195)
A) E) I) O)
tamburello, timpano
DESCRIZIONE DELLE FIGURE DEI SEGNI ZODIACALI, TRATTE DA TEUCRO BABILONESE, CHE POSSONO ESSERE FACILMENTE UTILIZZABILI PER LA PRESENTE ARTE
ARIETE AA
(AA)
Ae
(AE)
Ai
(AI)
Nella prima immagine dell’Ariete ascende un uomo nero, di smisurata statura, con occhi ardenti, col volto austero, (che sta in piedi) cinto di un mantello bianco. Nella seconda una donna non priva di grazia che porta una tunica bianca, ma con un mantello di colore purpureo, coi capelli sciolti e con la testa cinta d’alloro. Nella terza un uomo pallido dai capelli fulvi, vestito di rosso, con un bracciale d’oro nella mano sinistra e un bastone di rovere nella destra che ha il volto di chi è inquieto e sdegnato poiché non può ottenere né procurare i beni vagheggiati. (196)
TORO Ao
(AO)
Nella prima immagine del Toro vi è un uomo nudo che ara, con un pileo (berretto) di paglia intrecciata; l’uomo, di colore scuro, è seguito da un altro contadino che semina. Nella seconda un uomo nudo e coronato che porta una
Au
(AU)
Ba
(BA)
chiave, con un balteo d’oro a tracolla e uno scettro nella mano sinistra. Nella terza un uomo che tiene nella mano sinistra un serpente e nella destra una lancia o una freccia; davanti a lui una lampada di fuoco (accesa) e una brocca d’acqua. (197)
GEMELLI Be
(BE)
Bi
(BI)
Bo
(BO)
Nella prima immagine dei Gemelli vi è un uomo pronto a servire, con una verga nella mano destra, col volto allegro e giocondo. Nella seconda un uomo che zappa e lavora la terra a fatica; accanto a lui un flautista che danza a piedi nudi e col capo scoperto. Nella terza un buffone che tiene un flauto nella mano destra, un passero nella sinistra e accanto a lui un uomo adirato che afferra un bastone. (198)
CANCRO
Bu
(BU)
Ca
(CA)
Ce
(CE)
Nella prima immagine del Cancro vi è una fanciulla coronata, riccamente vestita, che tiene un ramo d’ulivo nella destra e una coppa nella sinistra. Nella seconda un uomo con una donna che giocano seduti a tavola; davanti all’uomo ci sono vari tipi di indumenti, davanti alla donna dei vasi d’oro e d’argento. Nella terza un cacciatore preceduto e seguito dai cani, che tiene in mano il corno e la balestra, con un incedere rapido e privo di meta. (199)
LEONE
Ci
(CI)
Co
(CO)
Cu
(CU)
Nella prima immagine del Leone vi è un uomo di colore rossiccio, vestito di abiti gialli, con la testa cinta d’oro, con un gallo nella mano destra e a cavallo di un leone. Nella seconda una donna che cammina con le mani levate al cielo; accanto a lei un uomo che sembra pronto alla vendetta con la spada sguainata e lo scudo. Nella terza un uomo triste in volto, con lo sguardo basso e il viso sgraziato, che porta una bisaccia o, volendo, uno scudiscio, seguito da un giovane vestito di bianco. (200)
VERGINE
Da
(DA)
De
(DE)
DI
(DI)
Nella prima immagine della Vergine: una fanciulla inghirlandata di fiori e un uomo che sparge fiori e foglie di fronte a lei, con addosso una veste verde e discinto. Nella seconda un uomo nero vestito di cuoio, che tiene in mano una borsa e un mantello che gli scende dal capo. Nella terza un vecchio che si sostiene con due bastoni, con i capelli scomposti davanti alla fronte, la barba incolta, vestito di colore scuro. (201)
BILANCIA
Do
(DO)
Nella prima immagine della Bilancia si trova un uomo che legge attentamente un libro, con un pugnale, o uno stiletto nella destra e che avanza con sguardo truce. Nella seconda due persone agitate che litigano davanti a una terza che sta seduta a mo’ di giudice; questi tiene
Fa
(EA)
nella destra un bastone teso verso di loro e la sinistra sollevata. Nella terza un uomo impetuoso armato di arco e frecce seguito da un uomo che tiene in mano un pane e una coppa di vino e preceduto da un uomo completamente nudo. (202)
SCORPIONE
Ee
Ei
Eo
Nella prima immagine dello Scorpione si erge una donna bella e riccamente vestita davanti alla quale due (EE) giovani adirati uno contro l’altro si picchiano fino allo sfinimento. Nella seconda una donna completamente nuda e due (EI) uomini nudi come lei, uno dei quali le sta a fianco, mentre l’altro è sdraiato a terra e gioca con un cane. Nella terza un uomo che si afferra i piedi con entrambe le (EO) mani e offre la propria schiena a una donna che lo percuote. (203)
SAGITTARIO
Eu
(EU)
Fa
(FA)
Fe
(FE)
Nella prima immagine del Sagittario si trova un uomo armato di tutto punto: brandisce uno scudo nella sinistra e nella destra un’enorme spada e quando cammina sembra che la terra tremi. Nella seconda una donna triste, che veste a lutto e tiene un bambino tra le braccia ed un altro per mano. Nella terza un uomo sdraiato a terra che scossa a caso un bastone, pallido in viso e coi vestiti sporchi; vicino a lui c’è un maiale che scava delle manate di terra. (204)
CAPRICORNO
Fi
(FI)
Fo
(FO)
Fu
(FU)
Nella prima immagine del Capricorno si trova un uomo vestito da mercante, brutto e triste in volto, seguito da un giovane che saltella e applaude con le mani. Nella seconda un uomo che scaglia dei dardi contro una colomba in volo, e due donne che si abbracciano al medesimo uomo. Nella terza una ragazza vestita di bianco che calpesta una piccola volpe e legge ad alta voce un libro. (205)
ACQUARIO
GA
(GA)
GE
(GE)
GI
(GI)
Nella prima immagine dell’Acquario si trovano un padre e una madre in atto di pensare: lui ha in mano delle pietruzze e lei un fuso. Nella seconda un uomo seduto, vestito da consigliere, che tiene in mano dei foglietti di appunti, dal cui mento scende una lunga barba e mostra in volto un’espressione seria. Nella terza un giovane in collera che sembra infiammato d’ira nell’aspetto, quasi con le mani tese e le dita contorte. (206)
PESCI Nella prima immagine dei Pesci abbiamo la figura di un uomo che trasporta i propri averi, in cerca di una nuova dimora,
Gu
(GU)
lavorare con le vesti raccolte e le braccia nude, mostrandosi agile nel corpo e allegro in volto.
Ha
(HA)
Nella terza un giovane che abbraccia una fanciulla di cui si è invaghito e accanto a loro due pavoni che lottano.
Benché gli aspetti e le azioni delle suddette immagini non giovino di per sé all’arte della memoria, sono comunque in grado di completare le caratteristiche delle immagini. (207)
I
La prima immagine dell’Ariete è audace, impudente e di forte immaginativa. La seconda piuttosto superba, ambiziosa e di animo nobile. La terza più agitata e quasi disperata, di ingegno più acuto, in attesa di gioire.
II
La prima immagine del Toro è fautrice dell’inizio di opere e lavori, nonché di attività geometriche. Potente e nobile la seconda per il volgo. La terza bisognosa, miserabile e schiava.
III
La prima dei Gemelli è sapiente riguardo alle scienze matematiche e alle altre scienze totalmente inutili. La seconda è sfrontata, ingannatrice e dotata di zelo diligente, anche se per nulla onesta. La terza delirante, immemore e dotata di grande loquacità.
IV
La prima del Cancro è caratterizzata da una contemplazione acuta, da un ingegno vigile ed è ben disposta all’amore. La seconda di ingegno modesto e di grande fortuna. La terza ha molti traffici, ma ne porta pochi a compimento, a causa delle difficoltà che incontra lungo la strada.
V
La prima del Leone è impetuosa, focosa, feroce e inesorabile. La seconda incline allo spargimento di sangue, traditrice e sospettosa. La terza compagna e amica che preferisce perdere che possedere o ottenere litigando. (208)
ottenere litigando. (208)
VI
VII
VIII
La prima della Vergine ammucchia ricchezze, tuttavia non grazie ad attività illecite. La seconda fa lo stesso, ma con più avarizia e dedicandovi più energie. La terza fiacca, indebolisce, separa e distrugge. La prima della Bilancia è giusta e strappa i poveri dalla mano dei potenti e dei violenti. La seconda non tollera l’ingiustizia e pacifica i tumulti. La terza donnaiola, adultera e divoratrice. La prima dello Scorpione bella e attraente, traditrice e malvagia. La seconda allo stesso tempo infida e turpe. La terza non cela la propria ira, lo sdegno e la fierezza.
IX
La prima del Sagittario audace, furiosa e rifiuta il giogo di qualsiasi legge. La seconda a causa del proprio timore si procura tristezza e diviene ubbidiente. La terza è incline a interpretare malignamente, è litigiosa e nemica della pace.
X
La prima del Capricorno sperpera nel lusso i propri averi. La seconda vuole l’impossibile. La terza, più intenta ad arricchirsi, impazzisce col proprio senno.
XI
La prima dell’Acquario pensa e lavora per lucro, oppressa com’è dalla povertà e dal disprezzo. La seconda è assai intelligente e sobria. La terza ha non poca sfrontatezza e presunzione.
XII
La prima dei Pesci è mossa dalla penuria di averi. La seconda è impegnata in molte importanti attività. La terza è indolente per il troppo ozio e il lusso.
Naturalmente queste cose non saranno utilizzate come immagini; sono invece necessarie sia per specificare il carattere e le qualità delle immagini stesse sia per rappresentarle in una qualche forma sensibile. (209)
SETTE IMMAGINI DI SATURNO
He
(HE)
Hi
(HI)
Ho
(HO)
Hu
(HU)
IA
(IA)
Ie
(IE)
Ii
(II)
Prima immagine di Saturno: un uomo dal volto di cervo sopra un drago tiene nella destra un gufo che sta ingoiando un serpente. La seconda è un uomo che ha una falce nella mano destra, un pesce nella sinistra ed è a cavallo di un cammello. La terza: un uomo triste che si lamenta, con le mani rivolte al cielo, vestito di abiti scuri. La quarta: un uomo nero con piedi di cammello, seduto su un drago alato, con un ramo di cipresso nella mano destra. La quinta: un uomo vestito di nero col volto pure nero; nella mano destra tiene un basilisco che gli sta attorcigliando la coda attorno al braccio. La sesta: un vecchio zoppo appoggiato al bastone, seduto su un alto scranno in cima a un carro trainato da un mulo e un asino. La settima: un cocchiere su di un carro trainato da due cervi con un pesce in una mano e una falce ricurva nell’altra. (210)
SETTE IMMAGINI DI GIOVE
Io
(IO)
Iu
(IU)
ka
(KA)
ke
(KE)
Prima immagine di Giove: un uomo elegante su di un carro trainato da draghi lancia un dardo con la mano destra contro la testa di un drago. Seconda immagine di Giove: un uomo seduto su uno scranno trainato da quattro giovinetti alati, appoggiato ad un fronzuto faggio. La terza è un uomo con la testa di ariete, seduto su una ruota, con un vaso di balsamo in mano. La quarta è un uomo con la testa di leone e piedi d’aquila, con un ramo di quercia nella mano destra, davanti al quale si
ka
(KA)
ke
(KE)
kI
(KI)
ko
(KO)
k
(KU)
La terza è un uomo con la testa di ariete, seduto su una ruota, con un vaso di balsamo in mano. La quarta è un uomo con la testa di leone e piedi d’aquila, con un ramo di quercia nella mano destra, davanti al quale si inchinano due bellissimi giovani vestiti di bianco. La quinta: un uomo seduto su di un’aquila, ornato di vesti di smeraldo, con una corona di giacinto in testa e uno scettro in mano. La sesta: un uomo incoronato, vestito di abiti gialli, con un ramo d’ulivo nella destra, a cavallo di un drago. La settima: un uomo incoronato, con le mani alzate e giunte, come in atto di implorare, la cui veste azzurra è cosparsa di stelle d’oro. (211)
SETTE IMMAGINI DI MARTE
La
(LA)
Le
(LE)
Li
(LI)
Lo
(LO)
Lu
(LU)
La prima immagine di Marte è un uomo armato a cavallo di un leone, il cui elmo è beccato da un avvoltoio. L’uomo è di aspetto truce. La seconda: un uomo armato di una grande spada e di una lancia con sopra all’elmo qualcosa che assomiglia a una chimera che butta fuori faville di fuoco dalla bocca. La terza: uno che lancia con la mano destra dei tizzoni di zolfo ardente e che con la sinistra tiene salda la testa di un leopardo che egli cavalca, nonostante l’animale non sia molto d’accordo. La quarta: un uomo col volto quasi bruciato dal sole che brandisce nella destra una spada grondante di sangue, nella sinistra la testa di un uomo. La quinta: un uomo di colore fulvo vestito di abiti rossi che porta un pesante scettro di ferro ed è a cavallo di un lupo. La sesta: lo stupratore di una bellissima fanciulla la quale cerca
spade in pugno. (212)
SETTE IMMAGINI DEL SOLE
Mi Mo Mu
Prima immagine del Sole: una bella donna incoronata su un (MI) cocchio d’oro trainato da una quadriga di cavalli che salgono verso l’alto. Seconda: un bellissimo giovane nudo con in testa una corona (MO) fatta di tanti fiori intrecciati, abbracciato a un pavone. Terza: un giovane con arco e frecce, ornato di diadema, dalla (MU) cui testa si sprigiona un bagliore di raggi.
Na
(NA)
Ne
(NE)
Ni
(NI)
No
(NO)
Quarta: una donna che abbraccia e bacia un fanciullo che indossa una veste talare verde; la donna ha i capelli rossi, è di bell’aspetto e tiene uno specchio nella mano destra. Quinta: una fanciulla che tiene nella mano sinistra uno scudo (rotondo) e scaglia un dardo con la destra, seduta sopra un coccodrillo. Sesta: un uomo con un gallo nella mano destra a cavallo di un leone in corsa dalle cui narici esce una scura nube di fumo Settima: un uomo vestito da pontefice, preceduto da due uomini a capo scoperto, vestito di rosso o di giallo, con un corvo in grembo e un cane d’oro sotto i piedi. (213)
SETTE IMMAGINI DI VENERE
Nu
(NU)
Prima immagine di Venere: una fanciulla incoronata di mirto, nuda, coi capelli lunghi fino ai piedi; davanti a lei una cagnetta bianca che manifesta nei movimenti la propria gioia.
Nu
(NU)
Oa
(OA)
Oe
(OE)
Oi
(OI)
Oo
(OO)
Ou
(OU)
Pa
(PA)
Prima immagine di Venere: una fanciulla incoronata di mirto, nuda, coi capelli lunghi fino ai piedi; davanti a lei una cagnetta bianca che manifesta nei movimenti la propria gioia. Seconda: un bel fanciullo che porta con entrambe le mani un cesto pieno di fiori diversi, seguito da un uomo che sembra un giardiniere. Terza: il busto nudo di una donna in cui sembrano essere stati innestati una testa di colomba e dei piedi d’aquila, seguita da un giovane; davanti c’è un uomo che sembra fuggire. Quarta: una donna a cavallo di un toro; con la destra si pettina i capelli e tiene uno specchio nella sinistra; vicino a lei una donna più giovane tiene un uccello verde in mano. Quinta: un fanciullo con una catena d’argento; accanto a lui una fanciulla che danza nuda, incoronata di foglie d’alloro con bacche. Sesta: un fanciullo alato coi capelli più brillanti dell’oro; le penne sono tutte variopinte; il fanciullo lancia dardi infuocati. Settima: un giovane e una fanciulla che lottano, entrambi nudi, cercando di legarsi a vicenda; lei ha in mano del lino, lui una catena d’oro. (214)
SETTE IMMAGINI DI MERCURIO
Pe
(PE)
Pi
(PI)
Po
(PO)
Invece, per indicare e fissare Mercurio, si rappresenta prima un bellissimo giovane con lo scettro, attorno al quale siano avvinghiati due serpenti che si guardano con le teste una di fronte all’altra. Seconda: un giovane leggiadro con la barba, la testa cinta di rami d’ulivo, uno scettro in mano e un fuoco acceso da vanti a lui. Terza: uno con le ali all’elmo e ai talloni, che tiene un bastone nella sinistra e un dardo nella destra.
Qa
(QA)
Qe
(QE)
Qi
(QI)
Quinta: uno che sta trafiggendo Argo; impugna una lancia nella mano destra e un flauto nella sinistra; vicino a lui una giovenca si pasce dell’erba verde. Sesta: un uomo in abito da mercante pellegrino, con gli occhi rivolti al sole e le mani tese. Settima: un fanciullo a cavallo di un ariete di cui afferra le corna con la sinistra, mentre nella destra tiene un pappagallo. (215)
SETTE IMMAGINI DELLA LUNA
Qo
(QO)
Qu
(QU)
Ra
(RA)
Re
(RE)
Ri
(RI)
Ro
(RO)
Ru
(RU)
Prima immagine della Luna: una donna cornuta a cavallo di un delfino, con un camaleonte nella destra e dei gigli nella sinistra. Seconda: un contadino incappucciato che pesca con un amo che tiene nella destra e si appoggia alla fiocina che tiene stretta con la sinistra. Terza: una donna ornata con molte perle, con le vesti bianche, tiene un vaso di cristallo nella destra e un gatto nella sinistra. Quarta: una donna sopra un’idra che ha tre colli da ognuno dei quali saltano fuori sette teste; la donna tiene in avanti le mani vuote. Quinta: un fanciullo con una corona d’argento e uno scettro, su di un carro trainato da due capre. Sesta: una donna che ha delle serpi attorcigliate ad ognuna delle corna, delle braccia e delle gambe ed è a cavallo di una pantera. Settima: un cacciatore che spinge il cane contro una scrofa selvatica e gli va dietro; è vestito con abiti di lino.
IMMAGINE DEL DRAGO DELLA LUNA
Sa
(SA)
Un re che tiene un drago nella destra; il re ha una lingua di fuoco sulla testa, mentre la testa del drago assomiglia a quella di uno sparviero. (216)
VENTOTTO IMMAGINI DELLE POSIZIONI DELLA LUNA TRATTE AD USO DI QUESTA ARTE Se
(SE)
SI
(SI)
So
(SO)
Su
(SU)
Ta
(TA)
Te
(TE)
Ti
(TI)
To
(TO)
Tu
(TU)
Va
(VA)
Ve
(VE)
Prima: un Etiope su sfondo di ferro che scaglia un dardo, cinto alla vita da una corda. Seconda: un re sul trono, con lo scettro, alza un uomo che giace prostrato a terra. Terza: un donna vestita elegantemente, su un seggio, ha la destra sopra la testa e con la sinistra sistema i capelli a una donna timida e sciocca. Quarta: un soldato a cavallo tiene un serpente nella destra e con la sinistra trascina un cane nero. Quinta: un principe su un trono d’argento che ha un bastone nella destra, mentre con la sinistra abbraccia una fanciulla. Sesta: due uomini armati a capo scoperto che si abbracciano con le spade sguainate. Settima: su uno scranno d’argento un uomo supplice tende entrambe le mani al cielo; è riccamente vestito. Ottava: un uomo a cavallo di un’aquila con un ramo di palma nella destra, seguito da due sottomessi. Nona: un eunuco che si chiude gli occhi con le mani di fronte a un letto sudicio. Decima: una partoriente; davanti a lei un leone d’oro e un uomo in atteggiamento da convalescente. Undicesima: uno a cavallo di un leone; con la sinistra si tiene alla criniera, nella destra ha una lancia.
Vi
(VI)
Vo
(VO)
Vu
(VU)
Xa
(XA)
Xe
(XE)
Xi
(XI)
Xo
(XO)
Xu
(XU)
Ya
(YA)
Ye
(YE)
Yi
(YI)
Yo
(YO)
Yu
(YU)
Za
(ZA)
Ze
(ZE)
Zi
(ZI)
Dodicesima: un drago lotta con un uomo su uno scranno nero come il piombo. Tredicesima: un cavallo insegue una cavalla, mentre un pastore appoggiato con entrambe le mani ad un bastone sta con lo sguardo fisso. Quattordicesima: un uomo tiene un cane sospeso per la coda; il cane morde la coda in direzione della propria zampa. (217) Quindicesima: un uomo seduto legge una lettera, lusingando il portalettere. Sedicesima: un mercante ha in mano un bilancino d’argento; un altro lo paga (contando). Diciassettesima: un uomo porta una cassa inseguito da una scimmia. Diciottesima: un uomo ha in mano una serpe d’oro che fa fuggire molti serpenti. Diciannovesima: una partoriente con le mani sul volto. Ventesima: un Centauro cacciatore, con la faretra, ha un arco nella sinistra e una volpe morta nella destra. Ventunesima: due uomini di cui uno è voltato indietro, l’altro guarda avanti; accanto a loro uno si sta raccogliendo i capelli tagliati. Ventiduesima: un uomo con elmo e coi piedi alati fugge portandosi in salvo. Ventitreesima: un vecchio con la testa di cane, o un cane con corpo di vecchio che scava; un uomo cade a terra. Ventiquattresima: una donna allatta un bimbo e stringe il corno di un ariete, seguito da un gregge numeroso. Venticinquesima: uno che pianta un fico, un altro che semina il frumento. Ventiseiesima: una donna si sta pettinando i capelli puliti; davanti a lei un fanciullo alato. Ventisettesima: un uomo alato immerge una brocca vuota e
Zo
(ZO)
Zu
(ZU)
Aa
(ΨA)
Ae
(ΨE)
Ai
(ΨI)
Ao
(ΨO)
Au
(ΨU)
Aa
(ΦA)
Ae
(ΦE)
Ai
(ΦI)
Ao
(ΦO)
Au
(ΦU)
Aa
(ΩA)
Ae
(ΩE)
sfonda in un pozzo. Ventottesima: uno che getta un pesce d’oro in acqua per farne accorrere molti dei vivi. (218) Prima immagine della prima casa: un uomo getta delle fondamenta, un altro, vicino a una sorgente zampillante allontana una pecora col bastone e ne fa avvicinare un’altra. Seconda: un uomo siede alla mensa, mentre sua moglie partorisce con due levatrici vicino a lei. Terza: una donna nuda gira una ruota, con una coperta davanti agli occhi, in piedi su una sfera sotto alla quale si agitano i flutti d’acqua. Prima immagine della seconda casa: due servi con dei vasi d’argento pieni di oro e gioielli. Seconda: una vecchia nuda e oltremodo magra fugge da un uomo che sta scavando un tesoro. Terza: un fabbro di Vulcano, coi capelli neri e crespi, tutto intento al suo lavoro; vicino ha un bimbo tutto nero, ben vestito, con una corona d’oro in mano. La prima della terza è come l’immagine di Castore e Polluce sull’altare, in mezzo alla quale arde il fuoco. Seconda: una famiglia che sta come per andarsene, portando via i propri averi, tutti con i visi tristi e taciturni. Terza: un eremita col cilicio tiene un libro in mano, inseguito da un’immagine del feroce Marte. Prima della quarta: un vecchio con la vecchia moglie su una coperta d’oro osservano le ossa di un cadavere in mezzo a loro. Seconda: una bella donna ha nella sinistra un globo terrestre, in testa una corona a forma di torre, nella destra uno scettro col quale sembra voler scavare la terra. Terza: un uomo presso una tomba circondata da un’inferriata; vicino a lui un bue divora del fieno. (219) Prima della quinta: un uomo canuto con una lunga barba, accompagnato da due figli, elargisce doni ai suoi amici, dietro
Ai
(ΩI)
Ao
(ΩO)
Au
(ΩU)
Aa
(ΘA)
Ae
(ΘE)
Ai
(ΘI)
Ao
(ΘO)
Au
(ΘU)
Aa
( A)
Ae
( E)
Ai
( I)
Ao
( O)
Au
( U)
ai quali ci sono due custodi di lepri. Seconda: un uomo con gli occhi rivolti a un libro e un portalettere vestito di bianco che si avvicina col capo coperto con un berretto verde. Terza: un uomo siede a tavola con la moglie o un’altra donna, la bacia e le versa da bere. Prima della sesta: un malato steso a terra; vicino ha un cane magro e scuro che gli abbaia contro. Seconda: una fanciulla vestita da regina a cui un giovane maritano regge le frange dell’abito; davanti a lei due ancelle danzanti con ghirlande nelle mani. Terza: un uomo con un globo nella sinistra e una spada sguainata nella destra; un altro uomo avanza davanti a lui. Prima della settima: due litiganti con le mani sulle impugnature delle spade non ancora sguainate in mezzo ai quali un giovane legge una lettera. Seconda: un bel giovane e una giovane coronata di fiori vengono fatti abbracciare da un anziano e si baciano a vicenda. Terza: un uomo armato seguito da uno che pare un ladro che porta delle mercanzie. Prima dell’ottava: una donna nuda assai magra, davanti alla quale fuggono delle lepri, che invoca tempeste e fulmini dal cielo. Seconda: come Sisifo che cerca di far rotolare un enorme sasso in cima a un monte, seguito da una donna col capo e il volto velati, con un mantello scuro. Terza: un contadino che porta dei frutti e si tira dietro una volpe legata a una catena. (220) Prima della nona: una bellissima donna vestita di verde, coronata d’oro, con la mano destra levata al cielo, sul cui volto discende la folgore. Seconda: un uomo prega inginocchiato, con le mani giunte sul capo; davanti a lui un altare sul quale una vittima è consumata dal fuoco.
Aa
( A)
Ae
( E)
Ai
( I)
Ao
( O)
Au
( U)
Aa
( A)
Ae
( E)
Ai
( I)
Ao
( O)
Au
( U)
Terza: una ragazza con un globo celeste nella sinistra e uno specchio nella destra, vestita di celeste, con una corona e scarpe d’oro splendide. Prima della decima: un re sul trono, seduti vicino a lui i consiglieri e davanti diverse persone inchinate. Seconda: un uomo pio su una poltrona sorretta dall’effigie di una donna che suona la tromba. Terza: una colomba bronzea che regge la figura d’oro di un re nudo; un sacerdote sta vicino a essa e tende le mani giunte. Prima dell’undicesima: una bella donna nuda col capo ornato di gemme e d’oro e al collo una collana di carboncini lucenti e perle, ha un arco e una faretra d’oro. Seconda: un esercito schierato che porta un tesoro. Terza: un anziano re avanza in abito regale, seguito da un fanciullo in abito talare rosso, con la corona regia in mano ed il capo nudo. Prima della dodicesima: un uomo accarezza un amico con una mano; nell’altra tiene nascosto un pugnale; vicino una vecchia intirizzita presso il fuoco. Seconda: un bue al pascolo; vicino il giogo e la soma. Terza: un uomo che si ferisce il petto nudo con un sasso; vicino c’è un altro uomo infuriato che spacca dei vasi di argilla e versa l’olio per terra. (221)
GRANDE UTILITÀ DELLE IMMAGINI PRECEDENTI PER LA MEMORIA DELLE COSE Tutto ciò tornerà di grandissima utilità e ti procurerà vantaggi senza eguali. I. Le immagini da collocare in maniera permanente andranno unite ai subiecta più stabili. II. I subiecta diano ordine alle immagini oppure siano ordinati da esse, ciò infatti porta ad aver memoria delle immagini stesse. III. Non c’è nulla che possa impedirti di trasformare gli adiecta alla maniera dei subiecta e viceversa. IV. Unirai dunque di seguito le parti di ciò che va ricordato a immagini vive
e a tratti distintivi, azioni e circumstantia delle immagini stesse, in modo tale che ciascuna di esse sia capace di descrivere figurativamente le parti in cui abbiamo diviso ciò che va ricordato secondo un criterio conforme all’agire, al subire, alla situazione adatta, o in base a tante altre maniere di essere, sia attive sia passive e riguardo alle azioni che vengono svolte. In tutto questo lavoro non dimenticare che le immagini vanno scelte in modo tale da essere non astratte, bensì ben presenti allo sguardo della fantasia. Noi abbiamo mostrato in un’altra sede in che modo dobbiamo prendere quelle che, risultando più eccitanti per i sensi esterni, sono penetrate in modo più profondo in quelli interni. (222)
RIGUARDO ALLE SILLABE IN CUI LA VOCALE PRECEDE LA CONSONANTE Se avrai ordinato il tutto in tal guisa, per formare un numero illimitato di sillabe con le lettere, non vi è bisogno di aggiungere altri modi per ordinare le combinazioni originali. Infatti, come hai centocinquanta sillabe semplici nelle quali la consonante (o la lettera che ne svolge la funzione) precede la vocale (o la lettera posta per essa), così in modo estremamente semplice puoi ottenerne altre centocinquanta in cui la vocale (o la lettera che ne svolge la funzione) precede la consonante (o chi per essa). Potrai infatti procurarti ciò differenziando le immagini: dritte o curve, vestite o nude, voltate da una parte o dall’altra, sedute o in piedi o in mille altri modi in cui sia presente una chiara distinzione oppositiva. Il vasaio Corebo seduto indica AM, in piedi MA. (223)
RIGUARDO ALLE LETTERE LIQUIDE E ALLE TERMINALI POSTE TRA LE SILLABE O AL TERMINE DELLE STESSE
Per quanto concerne le lettere interposte e quelle aggiunte, o terminali e subentranti in ciascuna delle cinque sillabe potrai provvedere da solo con il tuo zelo, amico mio. Infatti ti abbiamo svelato una strada assai ampia quando
ti abbiamo insegnato a formare qualsiasi sillaba costituita da un numero di lettere via via crescente, sino a cinque. Darai dunque a chi svolge l’azione (l’agens) undici differenze distintive, che staranno a significare le lettere finali C.G.L.M.N.P. NS. NT. R. S. T. e altre tre differenze distintive che indichino le lettere liquide poste in mezzo alla sillaba L. N. R. Volendo, le prime saranno poste in testa a chi svolge l’azione, le altre sulla schiena o viceversa. Allo stesso modo darai undici differenze distintive di azione per le undici lettere finali e tre per le intermedie: se vuoi puoi collocare le prime nella materia che subisce l’azione e le altre nelle mani o nelle braccia di chi compie l’azione. Similmente ne distinguerai dodici più tre nelle determinazioni circostanti (circumstantia). Con gli adstantes invece potrai usare le stesse differenze distintive dell’agens, poiché sono dello stesso tipo. Abbiamo spiegato tutto in modo talmente semplice da lasciare ben poco compito al tuo personale impegno. (224)
LE DUE GRANDI INVENZIONI DI QUESTA ARTE, ED ELOGIO DELLA STESSA Due sono dunque le cose che abbiamo scoperto e realizzato in questa arte, entrambe considerate impossibili da tutti gli antichi: innanzitutto nella prima prassi, quando abbiamo permesso ad un unico subiectum di rappresentare una qualsivoglia sillaba. Inoltre nella seconda prassi – scoperta quasi divina e colma di altre invenzioni: nessuno, finora, è stato in grado di farlo – poiché possiamo facilmente collocare qualsiasi parola da ricordare su di un singolo ed individuale subiectum di questa arte. La nostra scoperta permette di compiere la scrittura interna in maniera più rapida e semplice, oltre a far maturare il frutto dell’esercizio. Dove infatti [gli antichi] belavano le lettere cercando di unirle in sillabe, prima di accingersi ad azioni più complete, ma quando ormai era troppo tardi, noi invece insegniamo a riunire senza indugio le parole in un discorso. Appena l’allievo avrà avuto il mio catalogo grazie all’arte della prima o della seconda prassi, potrà ricordare le cose lette o udite collegandole ai subiecta ordinati. In seguito con l’esercizio sarà in grado di fare qualunque cosa senza il benché minimo indugio. Perciò questa arte annienta tutte le altre che l’hanno preceduta in questo campo e non teme di essere superata da quelle che seguiranno. Riteniamo infatti di aver
portato questa materia al culmine del suo sviluppo, poiché mentre gli altri spalancavano gli occhi cercando di andare quasi a caccia delle lettere, noi abbiamo trattato la realizzazione di un discorso e di un’orazione per mezzo di parole compiute. (225)
LA PRATICA DELLE COSE RAPPRESENTABILI CON TERMINI INCOMPLESSI Ora passiamo a quella pratica che si occupa della memoria delle cose. Delle cose che sono, alcune sono dette senza complessione, altre invece secondo una complessione. Di quelle che si trovano in una complessione, alcune sono sostanze, altre accidenti. Le sostanze possono essere sensibili o intellegibili. Quelle sensibili alcune lo sono o per sé, altre per accidente. Di quelle che sono accidenti, alcune appartengono alla sostanza, come la qualità e la quantità intrinseca, altre sono unite alla sostanza in quanto qualità estrinseche, come i colori e la configurazione. Altre, invece, per certi versi appartengono alla sostanza e per altri sono associate ad essa: è il caso delle disposizioni, alcune delle quali sono ricavate da ciò che è, altre da ciò che viene detto. Ce ne sono che si collocano nella sostanza, come quelle che agiscono nei confronti di qualcosa e quelle che subiscono da qualche altra cosa. Altre si collocano accanto alla sostanza – è il caso delle cose a cui si congiunge la sostanza, come la disposizione – altre invece si congiungono alla sostanza stessa, ed è il caso delle cose che diciamo trovarsi all’esterno, delle quali alcune sono unite al subiectum che è appunto aggettivato grazie ad esse, per cui si dice che uno è inanellato, calzato, vestito, ammogliato; altre sono aggiunte, come casa, podere, donna. Alcune per certi versi si trovano dentro e per altri vi stanno accanto, come lo stesso “quando”. Osserva infatti come sia unico e generale rispetto a tutte le cose, al di fuori e al di sopra di esse, mentre nelle singole cose sia specifico a ciascuna di esse. Lo stesso si può dire del tempo e del luogo. Il tempo, infatti, è soggettivamente unico in cielo ed è soggettivamente molteplice in ciascuna delle cose che vengono definite temporali. Anche il luogo, se lo definiamo, come i filosofi logici, superficie del contenente, è circostante. Se parlando in maniera meno comune, lo definiamo corpo contenente, è ancora circostante. Se invece come i migliori fisici, lo chiamiamo spazio, e dimensione della materia più sicura, o ricettacolo di ogni dimensione, allora esso è nella cosa ed
unito ad essa, a suo modo, come è evidente a chi rifletta. (226) Perché possa avvenire la memorizzazione di tutte queste cose, è necessario che prima se ne realizzi la raffigurazione. Perciò le sostanze complesse intellegibili vanno raffigurate tramite la raffigurazione di quelle sensibili, come avveniva nelle ruote e nei fuochi di Ezechiele. Le sostanze in complessi sensibili vanno raffigurate per il tramite dei loro accidenti, come avviene nella disposizione regolare delle membra dell’uomo o coi molteplici modi dei bruti di chinarsi verso terra. Le sensibili per accidente, grazie a quanto per sé cade sotto i sensi. Gli accidenti che appartengono alla sostanza per mezzo di ciò con cui appartengono alla sostanza: una certa quantità va raffigurata con ciò che ammette la stessa quantità, in maniera continua o discreta; una certa qualità con ciò a cui essa appartiene; allo stesso modo la sostanza con quegli accidenti ai quali immaginiamo che essa sia sottostante. Gli accidenti che sono uniti alla sostanza per mezzo di ciò grazie a cui sono uniti ad essa, così come le cose a cui sono uniti mediante gli accidenti che sono uniti. Gli accidenti che vengono associati alla sostanza per mezzo di ciò con cui sono reciprocamente associati. Gli accidenti che si collocano nella sostanza per mezzo di ciò con cui sono mutevolmente collocati. Gli accidenti che si collocano accanto alla sostanza, non essendo raffigurabili da soli, vanno raffigurati mediante le cose a cui sono circostanti o alle quali sono poste come circostanti. Queste cose, una volta che siano state raffigurate, possono reciprocamente riferirsi al significato di quelle cose con le quali sono state raffigurate. Dopo aver quindi raffigurato tutto a tal modo, utilizzando quanto abbiamo detto essere necessario riguardo ai subiecta ed agli adiecta, tutte le cose divengono memorabili e possono essere trattenute negli atrii dei sensi interni. (227)
LA PRATICA DELLE COSE RAPPRESENTABILI CON TERMINI COMPLESSI Nello stesso modo con cui avviene la complessione nella mente e nella voce, allorché, grazie la copula del sostantivo, si unisce una parola in complessa con un’altra in complessa, così nella scrittura interna, la quale imita quelle complessioni e si riferisce ad esse, innanzitutto si realizza la complessione partendo dai termini incomplessi, connettendo una sostanza all’altra,
adattando accidente ad accidente, ciò che è unito a ciò a cui esso è unito, ciò che viene associato con ciò a cui è associato, ciò che è circostante con ciò a cui è circostante. Tale complessione contribuisce innanzitutto alla raffigurazione delle immagini, delle figure e di quelli che vengono generalmente chiamati segni, per quanto riguarda le definizioni – lasciamo stare il fatto che in alcuni casi le definizioni sono considerate incomplesse, poiché senza complessione esse non possono essere raffigurate nella scrittura interna e qui senza la semplicità dei termini semplici non possono venire espresse. In secondo luogo la complessione serve per formare e completare le enunciazioni, quando uno o più termini si riferiscono a proposito di altri termini o in conseguenza di essi. Infine essa contribuisce alla elaborazione dei discorsi, quando si ottiene la complessione a partire dai termini complessi come se fossero membra appropriate, componendo ulteriormente cose già composte. (228) Come i fisici affermano che la forma giunge alla materia nella composizione del corpo semplice; in seguito il corpo semplice nella composizione del misto imperfetto, e tutti i corpi semplici in uno stesso tempo giungono alla formazione da una parte del nervo perfetto, dall’altra delle ossa perfette, dall’altra ancora della carne perfetta, tutte parti considerate fra loro omogenee; tutte quelle parti contribuiscono alla costituzione di questo o di quel membro eterogeneo, come la testa o le braccia, e tutte le membra infine si uniscono per mettere insieme il corpo animato di un’unica persona, non diversamente avviene con le immagini e gli adiecta: dopo una prima rappresentazione giungiamo alla realizzazione di una prima complessione, da qui a una seconda e poi a una terza e oltre, a seconda delle possibilità dei subiecta. E se un unico subiectum non è in grado da solo di accogliere una complessione così grande mantenendola integra, si dovrà innanzitutto realizzare la complessione di un subiectum con un altro o la connessione di più subiecta ad altri, in modo che la connessione degli adiecta avvenga solo dopo la connessione di quelle cose grazie alle quali l’aggiunta viene realizzata, ovvero dei subiecta. Perciò, mentre le navi si uniranno una dopo l’altra in modo da formare un ponte, attraverserai l’Ellesponto con i piedi asciutti. (229)
NOTE
1. In italiano nell’originale. 2. Gioco di parole: in latino substantia significa tanto essenza, sostanza, quanto alimento.
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA Nella presente bibliografia vengono riportati sia i titoli direttamente citati nel testo, sia quelli che, pur non essendo citati, sono stati consultati nella fase di ricerca e stesura.
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FIGURE
Fig. 1 Fig. 2 Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5 Fig. 6 Fig. 7 Fig. 8 Fig. 9
SELEZIONE DEI VOLUMI PUBBLICATI DA ANIMA EDIZIONI
Anonimo. Destatevi Figli della Luce. Dall’«Io sono» al «nuovo millennio». A. Besant; C.W. Leadbeater. Le forme-pensiero. Capitanata. Il canto dell’OM (con CD allegato). Ida Caruggi. Da Cuore a Cuore - Comunicazioni con animali. Silvia Cecchini; Ezio Sposato. L’abbraccio dei fiori (con CD allegato). Giorgio Cerquetti. La scienza spirituale dei chakra (con CD allegato). Graziella Cesarello. Gesù anima mia. Marco Colantuoni; Paolo Piccinini. Angeli - Gocce celesti per l’anima (con CD allegato). Marco Colantuoni; Paolo Piccinini. La musica del cerchio (con CD allegato). Luigi Crespi; Natascia Turato. L’anima della comunicazione. Bhagavan Das M.A. La scienza delle emozioni. Adriano De Carlo. L’ambiguità della perfezione. Scilla di Massa. Il giardino interiore. Vincenzo Fanelli. Il potere di rendersi felici (con CD allegato). Silvano Federici. La pace tornerà. Nirodh Fortini. Brainwaves (con CD allegato). Cristina Garavaglia. Diario di una nascita. Gianni Golfera. L'arte della memoria di Giordano Bruno. Ludovico Guarnieri. La formula di Rene Caisse. Un rimedio per difendersi dal cancro e dalle malattie degenerative. Ludovico Guarnieri. La cosa più stupefacente al mondo. Avventure di un malato esperto.
F. Hartmann. I simboli segreti dei Rosacroce. Olga Karasso. Esperanza. Pier Luigi Lattuada. Sciamanesimo brasiliano. Alfredo Lissoni. UFO. Maet. Come superare il sistema capitalista. Rita Massarenti. Ricomincio da capo. Laura Pellegrini. Letti di ghiaccio. Anna Piantadosi. Il Signore è il mio Pastore. Massimo Picasso. Il gemello di Dio. Angelo Picco Barilari. Kryon. Mario Pincherle. Leopardi Segreto. Fiamma Rossa Secchi. Il tentativo. Conte di Saint Germain. Io sono. Iole Sesler. Numeri e conoscenza. Igor Sibaldi. La trama dell’Angelo. Igor Sibaldi. Iniziazione. Come incontrare i propri Maestri Invisibili (con CD allegato). Nada Starcevic. Eros. Il sesto senso. Roberta Stucchi. Maree del tempo. Gabriella Zevi. Donne in via d’estinzione?