Intransit ironmen 2013

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Galleria di Porta Pepice presenta

FREE • anno III • numero 8 • 2013 PRESS • Registrazione al Tribunale di Matera n. 8/2009 del 13/10/2009

IRONMEN 11

Gente al limite

Reportage

Siriani rifugiati in Libano Grandi Mostre

World Press Photo a Napoli La mostra di Salgado a Roma



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IRONME

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EN

EDITORIALE

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o sport come non si era mai visto. E’ un giro tra i continenti e tra gli sport meno comuni quello proposto da Intransit in questo numero. Ancora una volta un viaggio di immagini per scoprire il lato autentico dello sport con la sua componente di sacrificio, di sforzo, di metodo e disciplina tesa al raggiungimento di un traguardo. Nelle immagini di questo numero di Intransit abbiamo la possibilità di apprezzare discipline sportive lontane dalle dirette tv, dai canali commerciali, dal business. Per ritornare all’essenza stessa dello sport inteso come un grande impegno che si prende prima di tutto con se stessi. Un traguardo da raggiungere a piccoli passi, con costanza e dedizione per arrivare al massimo delle proprie possibilità. Negli scatti delle prossime pagine si assapora l’altra faccia dello sport. Lo sport fatto anche di retroscena: la preparazione, la fatica che c’è dietro la vittoria. La soddisfazione del traguardo è una strada spesso in salita, fatta non solo di competizione e gare, ma un modo per imparare a vivere, a essere forti di spirito. Una “disciplina” che si alimenta con la grinta e la voglia di fare bene. Per imparare il rispetto, la costanza, la lealtà, nonostante l’avversario da battere. Mettersi continuamente in gioco senza la paura di perdere è un modo per imparare a superare le difficoltà della vita di tutti i giorni con i valori puri che lo sport trasmette. Valori universali in tutti gli angoli del mondo come filo rosso degli scatti di questo numero: dal Kendo in Giappone, al tiro con l’arco in Cina passando per il cricket in India o la kickboxing in Italia. Per non smettere mai di credere nelle proprie capacità.

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ports as you have never seen. It’s a race across continents and between sports less common offering from InTransit in this issue. Once again , a journey of images to discover the authentic side of sport with its component of sacrifice, commitment , method and discipline aimed to achieving a goal. In the images of this issue of InTransit we can appreciate the sport away from direct tv, from commercial channels , from the business. To return to the true essence of sport as a big commitment that you take first of all with yourself. A goal to achieve in small steps , with perseverance and dedication to get to the best of own abilities. In the shots of the next pages you can taste the other side of sports. Sports consists of the most important background: preparation and effort behind victory. The satisfaction of the result is often an uphill battle, made ​​not only of competitions and races , but it’s a way to learn to live , to be strong in spirit. A “discipline” that’s powered by the determination and desire to do well . To learn respect , perseverance and loyalty, despite the opponent to beat. Continually get involved, without the fear of losing is a way to learn how to overcome the difficulties of everyday life with pure values ​​that transmits the sport. Universal values ​​in all corners of the world as a common thread of the shots in this issue: from kendo, in Japan, to archery, in China, through cricket in India and kickboxing in Italy . So you never stop to believe in your abilities.

Giovanni Martemucci

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IRONMEN | 2013

di Laura Durando

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L’ARTE DI CORRERE

’arte di correre di Murakami Haruki è una raccolta di brani scritti, tra l’estate del 2005 e l’autunno del 2006, per spiegare ciò che ha rappresentato per lui, scrittore maratoneta, praticare la corsa a piedi. Tutto ha inizio nell’autunno del 1982, quando, per le troppe ore passate seduto a scrivere, le sigarette che non si contano più e un corpo appesantito e odor tabacco, prende la decisione di iniziare ad allenarsi con regolarità. È chiaro fin dalle prime battute che non intende lanciarsi in esortazioni edificanti su quanto sia importante avere ambizioni sportive, il punto è l’inevitabilità della fatica, la possibilità di ciascuno, a propria discrezione, di farcela o meno. Una maratona sono 42,195 chilometri e per riuscire bisogna lavorare ogni giorno sulla resistenza, aumentando progressivamente, nel minor tempo possibile, le distanze che si percorrono, ma l’essenziale è: «Ritrovare domani il piacere fisico che provo oggi». Murakami sente che la corsa è in linea con il suo carattere, diventa uno spazio tutto suo, prezioso, inizia a «correre sul serio» e a gareggiare: dall’isola di Kauai, arcipelago delle Hawaii, a Cambridge nel Massachusetts, da New York a Maratona in Grecia, attraversiamo, oltre ai climi che sono parte concreta dell’allenamento, gli umori e i disamori dello scrittore nei confronti della corsa, fino a quello che definisce runner’s blues, il blues del corridore, quel momento in cui le sfumature del blu e l’abbattimento superano ogni sforzo. Già, perché facilmente succede che le ore di allenamento non fruttino su strada ciò che ci si aspetta e l’atto viene a noia, si instaura una molle stanchezza che include la delusione per gli sforzi non compensati; è simile a un senso di ingiustizia davanti a una porta che dovrebbe aprirsi e invece si chiude. D’altro canto: «Se malgrado tutto tieni duro e continui a correre, finisci col provare una sorta di disperato sollievo, come se il tuo corpo venisse svuotato di ogni sostanza». Eppure, correre resta sia un ottimo esercizio sia una valida metafora: l’avversario più duro da battere è il se stesso del giorno prima, ci vuole ardore, consapevolezza che semplicemente si corre, in teoria nel vuoto, o viceversa si corre per raggiungere il vuoto e in quella sospensione contemplativa del paesaggio esterno e interiore si annida la gioia dell’andare avanti.

di Murakami Haruki

Per Murakami scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione è della stessa natura: uno stimolo silenzioso e preciso che non cerca conferma nel giudizio degli altri. Far nascere una storia, scegliere le parole a una a una, mantenere i fili della trama nella posizione giusta è una sfacchinata, si fa uno sforzo che consuma carne e ossa, si porta alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano. L’unica dedica possibile: «Ai corridori incontrati sulle strade del mondo, a quelli che ho superato e che mi hanno superato». Non ci si chiede più che necessità abbia oggi di correre allo sfinimento ogni mattina all’alba, senza riposo settimanale, o di partecipare almeno a una maratona l’anno, sarebbe un po’ come chiedersi perché il gestore di un avviato jazz club di Tōkyō, durante una partita di baseball, nel vedere un giocatore girare a velocità inaudita la prima base e immobilizzarsi sulla seconda, decida di scrivere il suo primo romanzo.

“Se malgrado tutto tieni duro e continui a correre, finisci col provare una sorta di disperato sollievo, come se il tuo corpo venisse svuotato di ogni sostanza”


SOLITUDINE BIANCA La mia lunga scalata al Nanga Parbat di Reinhold Messner

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olitudine bianca, La mia lunga scalata al Nanga Parbat di Reinhold Messner racconta la «montagna del destino», com’è definito nei paesi di lingua tedesca il Nanga Parbat, conosciuto anche come «Diamir: il re della montagna», pilastro angolare occidentale dell’Himalaya che insieme al K2 e all’Everest è il più famoso degli Ottomila. La voce narrante è quella di Messner stesso che su quella montagna ha perso il fratello minore Günter, travolto da una valanga, la moglie che lo lascerà per la follia che lo riporterà lassù in solitaria devastato dai sensi di colpa, e non di meno dove crede di aver perso se stesso. È la montagna di cui Messner ha letto più di qualunque altra: dai diversi tentativi di scalata, la prima ascensione realizzata da Hermann Buhl nel 1953, alle tragiche spedizioni del 1895, 1934, 1937, 1962. Per sua ammissione, il desiderio che nel 1970 lo spinge ad affrontare l’ascensione è in buona porzione frutto di egoismo, inesperienza, e una visione per lo più naïf di come l’uomo reagisca a quelle altitudini. Sogni ad occhi aperti che diventano, nonostante la vetta raggiunta e la traversata finale, l’incubo di una vita. Le intenzioni erano di partire dal versante Rupal, salire i 4300 metri della parete e raggiungere la vetta. Un insieme di condizioni fanno sì che i due fratelli, grazie al lavoro preparatorio dei membri della spedizione, riescono a iniziare la scalata e in condizioni disperate, ad affrontare il ritorno, una vera odissea fra i ghiacci, a superare la notte più lunga della loro vita, un bivacco della morte a quota 7800 metri, nella bufera, e con le poche energie rimaste in corpo a compiere la traversata sul versante Diamir. Purtroppo non avendo mai visto prima quella parete, si trovano in un abisso scuro, e con la nebbia che si era levata, l’unica era rimanere aggrappati al senso di sopravvivenza e continuare a muovere il prossimo successivo attraverso crepacci, seracchi e precipizi. Günter segue il fratello maggiore, in tappe rese sempre più corte, da due giorni non mangiano né bevono niente, non hanno dormito, si muovono come in trance. Da ogni parte si sente il rombo delle valanghe, Günter resta indietro, è sfinito, arrivato a una morena Reinhold si accuccia e aspetta il fratello, non lo vede, non arriva. Aspetta ancora. Niente. Grida nonostante non abbia più forze, le allucinazioni ormai stanno per farlo impazzire, a quel punto sa che il fratello è morto, ma continua a cercarlo per una notte intera. Mani e piedi sono congelati. A tratti deve

“Ho la sensazione che io possa dipingere su queste pareti. Come la maestra sulla lavagna, ma non disegno linee pensate, io queste linee le vivo. Ho la sensazione che queste rimangano”

scendere carponi, sviene più volte prima di essere trovato per caso a valle. Il trauma enorme è aggravato dalle calunnie e dalle accuse da parte di alcuni membri della spedizione. Solo il ritrovamento sulla base della parete Diamir nel 2004 di un osso appartenuto a Günter chiarisce che la sua morte è avvenuta nel luogo e secondo le circostanze descritte da Reinhold accusato invece, tra le altre cose, di aver abbandonato il fratello alla sua sorte molto prima, addirittura poco dopo aver raggiunto la vetta, per protagonismo, rivalità, incapacità di gestire la smania di arrivare. Si racconta delle Dolomiti, della scalata al Manaslu, suo secondo Ottomila dopo il Nanga Parbat, poi di nuovo della ricerca dei resti di Günter sul versante Diamir, di quella che Reinhold chiama la sua «solitudine nera», la condizione di sopravvissuta canaglia, e del senso di autodistruzione che lo dominerà nelle imprese successive. Eppure, in un dato momento, forse proprio quando sta in piedi per la seconda volta sulla vetta del Nanga Parbat, che scala in solitaria nel 1978, l’orizzonte sfuocato davanti, le striature in cielo, la sua storia personale che si dilaga come il vento: «Sotto di me il mondo freme e ribolle. Mi include e mi espelle», è libero, si sente bene, la solitudine è finalmente diventata bianca. Raggiungere l’autonomia gli permette di riprendere il controllo, di lasciar respirare il settimo senso che lo ha riportato a casa ogni volta. In Gasherbrum, documentario del 1984, girato da Werner Herzog, quando gli chiedono a cosa sia servito tutto questo, Reinhold risponde: «Ho la sensazione che io possa dipingere su queste pareti. Come la maestra sulla lavagna, ma non disegno linee pensate, io queste linee le vivo. Ho la sensazione che queste rimangano». Ha portato a compimento il sogno di lasciare una traccia eterna, l’unico modo di sopportare una vita solitaria, in fondo, è continuare a essere in cammino.

Foto Gaetano Plasmati

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SOM MA RIO


TRIATHLON

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Il Triathlon, in dosi normali, è una disciplina per tutti. L’Ironman è un’altra cosa. La vera gara è il costante confronto con sé stessi.

KICKBOXING

La Kickboxing è dura, e lo si può immaginare, ma il vero sacrificio sta, come al solito, nella preparazione. Perciò allenarsi, allenarsi e allenarsi ancora, con un solo scopo: salire sul ring e vincere.

CRICKET

Una partita di cricket non ha una durata predeterminata: può durare alcune ore o alcuni giorni. Tra un inning e l’altro ci sono pranzi e merende.

CYCLING IN DHAKA

Pesa circa 92 kg e il telaio è una struttura realizzata con pesanti tubi in ferro. Sono principalmente utilizzati per coprire brevi distanze, in cui la velocità non ha molta importanza.

ARCHERY

Sembrano due squadre: un gruppo porta in vita una vistosa fascia color arancio, mentre gli altri hanno una fascia fucsia. C’è eccitazione.

KENDO

L’antica arte giapponese del combattimento con la katana, interpretata da un fotografo e da un grafico.

FRAME

GRANDI MOSTRE World Press Photo a Napoli

GENESI by Salgado a Roma

REPORTAGE

Siriani in Libano



[Pierre De Coubertin]

Lo sport è la coltivazione abituale e volontaria di intensi sforzi fisici.

Il fascino delle sfide, la continua ricerca di stimoli e l’energia che prorompe dalla passione sportiva, ci hanno determinato a dar vita a questo numero dedicato allo Sport.

• triathlon • kickboxing • kendo • cricket • ciclismo • tiro con l’arco

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IRON


NMEN N

on c’è dubbio che una delle sfide che più appassiona uno sportivo è affrontare sé stesso a singolar tenzone, rincorrere e raggiungere i propri limiti e mettere a dura prova, soprattutto sotto il profilo psicologico, le proprie capacità.

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Europe Italy Pescara Adriatic Sea and streets near Pescara

Testo Gaetano Plasmati Foto Gaetano Plasmati

Negli ultimi anni, dopo il parapendio, il basejumping e lo zorbing, la mente di tanti “offlimiters” è stata assorbita da una disciplina olimpica: il triathlon. Portata all’estremo viene soprannominata IRONMAN. Nuoto, ciclismo e corsa da effettuare in successione, senza riprender fiato. Diverse distanze da coprire. IRONMAN 70,3 significa 1,9 Km di nuoto, 90 Km di bicicletta e 21,097 Km di corsa a piedi. Ma il vero off-limiter cerca di superare il confine di se stesso nell’IRONMAN più massacrante: 3800 m di nuoto, 180 Km sul sellino di una bicicletta e 42,195 Km di corsa assieme alla propria ombra, le proprie debolezze e la costante tentazione di fermarsi, di lasciarsi sopraffare dalla fatica. I miei trascorsi sportivi da decatleta, devo ammetterlo, non mi avevano permesso di vedere di buon occhio questo “cumulo di eccessi” (così avevo catalogato questa disciplina). Le prove dell’IRONMAN incutono timore anche se prese singolarmente; una maratona da affrontare dopo 3.800 metri di nuoto e 180 km in bici sono quasi una provocazione.

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Il vero off-limiter cerca di superare il confine di sé stesso nell’Ironman più massacrante: 3800 m di nuoto, 180 Km sul sellino di una bicicletta e 42,195 Km di corsa assieme alla propria ombra, le proprie debolezze e la costante tentazione di fermarsi, di lasciarsi sopraffare dalla fatica.

Pescara is an Italian city located in front of the Adriatic Sea. Here we saw a wonderful event: IRONMAN 70.3. The strongest athletes in this incredible sport took up the challenge. In a beautiful day they have to swim in the sea (doing the best) for 1.9 km, then they cycle on the road for 90 km and run for 21.1 km. That sport requires great physical strength, but also a great mental strength to win against his own weakness.

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Donne e uomini con un braccialetto elettronico alla caviglia che guardano lontano, oppure stringono la cinghietta dell’orologio, o chiudono gli occhi per cercare la concentrazione e ripassare le fasi della gara.

É umanamente impossibile, pensavo. Ma i video su YouTube erano lì a dimostrare che c’erano persone in grado di affrontare in successione quel terribile tour de force. Recentemente, mosso dalla curiosità, ho seguito da vicino la variante più corta: ironman 70.3. Roulotte, camper e poi loro, gli ironmen. E poi la gente dietro le transenne, la pacca sulla spalla e l’abbraccio tra chi si ritrova all’ennesima sfida. Gli ironmen sono girovaghi: rincorrono una specie di circo senza tendone, solo transenne, tavolini e cronometri e aria aperta. E ancora gente, tanta gente. Poi il silenzio. Manca poco. Concentrazione. Donne e uomini con un bracciale elettronico alla caviglia che guardano lontano, oppure stringono la cinghietta dell’orologio, o chiudono gli occhi per cercare la concentrazione e ripassare le fasi della

gara. La vera sfida si vive in solitaria. Ho provato, mi sono lasciato coinvolgere, prima a piccole dosi, poi con folle entusiasmo. Per mesi e mesi, ogni giorno, più volte al giorno, per diverse ore. Perdere peso per riportarmi alla forma ideale, è stata la mia prima ossessione. L’alimentazione, prima di tutto, poi l’allenamento fisico, con l’attenzione ad avvertire i primi segnali di stress fisico. Ho iniziato aggredendo la piscina, per recuperare la tecnica di respirazione e, bracciata dopo bracciata, la sintonia con l’acqua. Poi il mare, per ritrovare le distanze, senza bordo-vasca e corsie di galleggianti: per capire e imparare a contrastare le onde e le correnti.

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L’allenamento sulla bicicletta si è trasformato nella ricerca dell’assetto migliore, fino a trovare affinità con il mezzo meccanico.

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Il Triathlon, in dosi normali, è una disciplina per tutti. L’Ironman è un’altra cosa. La vera gara è il costante confronto con sé stessi. Una gara contro il nostro quieto avanzare nel quotidiano.

L’allenamento sulla bicicletta si è trasformato nella ricerca dell’assetto migliore, fino a trovare affinità con il mezzo meccanico. Nel passaggio alla corsa si incontra la maggior difficoltà: le gambe, dopo una lunga e impegnativa pedalata, stentano non poco a trovare la necessaria scioltezza per affrontare il ritmo del tratto a piedi. Gli arti sono rigidi e soffrono, si contraggono, al nuovo stimolo. Mi tuffavo, nuotavo, uscivo dall’acqua salata, mia moglie mi attendeva con scarpette, casco e bicicletta, poi mi seguiva in automobile nel percorso, dettando ritmi e tempi che si imprimevano nella mia mente. Mi rendevo conto, però, che non avrei potuto migliorare i tempi: dovevo dimagrire ancora! Vedere gli amici per

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una pizza diventava una lotta immane: l’acqua al posto della birra, un’insalata al posto della pizza. Niente caffè, grazie. Il Triathlon, in dosi normali, è una disciplina per tutti. L’Ironman è un’altra cosa. La vera gara è il costante confronto con sé stessi. Una gara contro il nostro quieto avanzare nel quotidiano, dove le sveglie all’alba, il freddo e il caldo degli allenamenti in diversi periodi dell’anno, costituiscono il passaggio obbligato per scoprire altri sé stessi. Una rincorsa per stimolare il proprio organismo, che a volte si ribella. I muscoli, le caratteristiche fisiche, lasciano il posto alla consapevolezza e alla voglia di tagliare il traguardo

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Alla comparsa dei crampi non c’è materiale composito che tenga! E la loro inefficacia si materializza ogni volta che ci si scopre fiacchi all’imbocco di una salita, con le gambe pesanti come frigoriferi e i polmoni grandi quanto una noce.


(non necessariamente tra i primi). La tecnica nell’eseguire le diverse discipline, la muta idrodinamica, la leggerezza della bicicletta e la qualità delle scarpette da running, aiutano non poco. É vero. Ma, alla comparsa dei crampi, nulla possono: non c’è materiale composito che tenga! E la loro inefficacia si materializza ogni volta che ci si scopre fiacchi all’imbocco di una salita, con le gambe pesanti come frigoriferi e i polmoni grandi quanto una noce. Il corpo si ribella e chiede risorse. La vera gara inizia in quel momento. E non è retorica. Dopo otto mesi trascorsi ad allenare e temprare la mia resistenza fisica, ho insegnato al mio corpo e alla mia mente che le lunghe distanze ormai possono far parte del quotidiano. Privarmi di alcuni cibi ipercalorici non è più una sofferenza. Tutto comincia a diventare piacere puro. Questa nuova quotidianità ha un altro percorso e porta a interessanti introspezioni alla ricerca di stimoli. A differenza di quanto accade nella mia professione, in questo micro-mondo le interazioni

non avvengono con il paesaggio o con la gente: si tratta di una storia personale fatta di fisicità, disciplina e “meditazione attiva”, se posso usare questo termine. Ora la gara mi spaventa, come quando, anni or sono, mi confrontavo con altri atleti. Sarà l’ennesimo esame ma, a differenza delle gare giovanili, non sarà importante vincere sugli altri. Correremo insieme, anche se non potremo aiutarci. Gli sguardi che ci si scambierà prima della partenza non saranno attenti alla condizione fisica degli altri, saranno sguardi di incoraggiamento reciproco: ce la possiamo fare. Ognuno per sé, contro sé stessi, verso il traguardo.

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THE


FIGHTER L

a kickboxing ha una strana storia. Nasce dalla necessitĂ di proporre al pubblico uno sport spettacolare. Nei primi anni sessanta le uniche forme di combattimento a “contatto pienoâ€?, oltre la boxe, erano il karate full-contact, il muay thai thailandese, il taekwondo e pochi altri.

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Europe Italy Matera Dinamic Center Biagio Tralli

Testo Angelo Soro Foto Gaetano Plasmati

In Giappone, il successo dei match di boxing thailandese, indusse i promoter di incontri a presentare al pubblico uno sport da combattimento nel quale gli atleti adoperavano pugni e calci per affrontarsi. Nei primi match, molto abborracciati e senza precise regole, gli atleti sul ring indossavano calzoncini corti e guantoni, come nella boxe. Nacque così la “kickboxing giapponese”, in seguito abbreviata in “kickboxing”. Col tempo, grazie alla passione sportiva dei suoi praticanti, sfu creata una federazione internazionale (la W. A. K. O. - World Association Kickboxing Organisations) e numerose federazioni nazionali. Dagli anni sessanta a oggi sono state codificate regole comuni e gli incontri sul ring, a dispetto di quanto si possa credere, sono rigidamente disciplinati. Giuseppe Di Cuia ci ha sempre creduto in questo sport: “Mi sono appassionato fin da piccolo alle arti marziali, guardando i cartoni animati giapponesi. Già da allora sognavo di salire su un ring.” Il palmares dimostra che il suo sogno si è realizzato: nel 2008 ha vinto la Golden Belt, dal 2008 al 2012 è stato Campione italiano di Full Contact, titolo riconfermato anche quest’anno, nel 2012 ha conquistato il titolo di Campione europeo WAKO PRO e il 9 giugno scorso ha ottenuto la corona intercontinentale

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The kickboxing arises from the need to offer to the public a spectacular sport. In the early sixties the only forms of combat “full contact” were boxing, karate fullcontact, muay thai, taekwondo and a few others. The athletes were using punches and kicks to face each other. They were using the shorts and the gloves, as in boxing. Thus was born the “Japanese kickboxing”, then shortened to “kickboxing”. Giuseppe Di Cuia on last June 9 won the Intercontinental Championship of Kickboxing in Libreville (Gabon). We interviewed him to learn more about this tough sport and we photographed him at an incredible workout in the gym of the coach of Italian kickboxing’s team.

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vincendo il titolo a Libreville, nel lontanissimo Gabon. “Avevo preparato l’incontro con il mio maestro, Biagio Tralli (attuale Commissario tecnico della Nazionale Italiana - ndr), e mi sentivo tranquillo. Temevo solo il clima particolarmente umido di Libreville, che non avrebbe permesso una respirazione ottimale.” La Kickboxing è dura, e lo si può immaginare, ma il vero sacrificio sta, come al solito, nella preparazione. Hardest is better (faticoso è meglio) dicono i coach dei grandi campioni, perciò allenarsi, allenarsi e allenarsi ancora, con un solo scopo: salire sul ring e vincere. “Il maestro Tralli mi ha insegnato molto più delle tecniche base di questo sport. La kickboxing non è solo pugni e calci. Si deve avere la consapevolezza delle proprie capacità: se non si è sicuri di sé stessi non si può affrontare un avversario sul ring. Prima di tutto, quindi, si affrontano le proprie insicurezze, la paura di farsi male, la paura di perdere. Il maestro mi ha seguito e ha saputo farmi acquisire fiducia nelle mie capacità e coscienza delle mie qualità. É un lavoro lungo e paziente che si deve affrontare perché sul ring non può e non deve esistere un minimo dubbio su sé stessi. Partendo da questo, poi, si va alla ricerca delle debolezze dell’avversario per poter vincere. Questo è uno studio che va fatto, durante la preparazione, visionando i video dei suoi incontri poi, sul ring, nelle fasi iniziali dell’incontro.” E poi si sale sul ring. “No, non ho paura quando salgo sul ring. In quei momenti sono talmente concentrato su quello che dovrò fare durante l’incontro, che non ho il tempo di farmi prendere dall’ansia. Penso solo a tutto il lavoro fatto in palestra con il maestro per prepararmi a quel momento. Certo che si sentono i colpi! Si impara a concentrasi su altro: il dolore non deve prevalere, toglie lucidità.”. Stringere i denti, incassare i colpi, cancellare il dolore e studiare attentamente la tecnica di chi sta difronte. In questo consiste il combattimento. “Si vince, ma si deve rispetto a chi stai affrontando. Dopo il combattimento si va all’altro angolo e si saluta l’avversario e il suo team. Non c’è un nemico davanti a me. Non combatto contro un nemico. Il confronto è con me stesso e con un avversario che vuole vincere.”

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miti del cricket indiano


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sud di Mumbai, sulla Mahatma Gandhi Road, il parco Azad Maidan è quotidianamente invaso da centinaia di ragazzi (molti dei quali studenti della vicina Università ) che si riuniscono per giocare a cricket.

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Asia India Mumbai Azad Maidan Park

Testo Redazione Intransit Mag Foto Gaetano Plasmati

Il parco è costellato di numerosi campi dove si svolgono tornei studenteschi o semplici incontri tra squadre di amici: proprio come succede in Europa con il calcio. Sulle origini di questo sport si fanno diverse ipotesi, ma sembra che giochi simili all’attuale cricket fossero praticati nell’Inghilterra del sud-est già a partire dal 1300, importati in quella regione da pastori fiamminghi.

“Il cricket deve molto della sua unicità al fatto che dovrebbe essere giocato non soltanto secondo le proprie regole ma anche secondo lo Spirito del Gioco. Qualsiasi azione che sia vista come contraria a questo Spirito causa un danno al gioco stesso. La responsabilità principale di assicurarsi che il gioco sia condotto secondo lo spirito del fair play è dei capitani.” Questo è il preambolo che precede l’elenco delle “Regole del Cricket” e che introduce il breve paragrafo dal titolo Lo spirito del gioco, nel quale si elencano le regole che solitamente negli altri sport non sono “scritte” ma affidate al buon senso dei giocatori. Queste regole comprendono, ad esempio, il rispetto verso l’avversario, verso gli umpires (arbitri) e i valori tradizionali del gioco; il divieto di indirizzare verso un umpire e verso gli avversari parole irrispettose o offensive (è addirittura vietato avanzare verso un umpire con passo aggressivo) Una partita di cricket non ha una durata predeterminata: può durare alcune ore o alcuni giorni. Tra un inning e l’altro ci sono

pranzi e merende. Il campo è in erba, ha dimensioni variabili a seconda dello spazio disponibile, e può essere ovale o rettangolare. Al centro del prato vi è una corsia con l’erba rasata molto corta, ai cui estremi sono posti tre paletti che formano il wicket. Ogni frazione di gioco (inning), impegna undici giocatori che lanciano a turno la palla e difendono il campo, e due avversari alla battuta; una volta eliminati, sono sostituiti da un compagno di squadra fino all’eliminazione

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del decimo battitore. Tra un inning e l’altro, le squadre invertono i propri ruoli. In India il cricket è l’equivalente del calcio in Europa e richiama pubblico e cospicui interessi legati ai contratti pubblicitari. Sachin Tendulkar, Rahul Dravid o Virat Kohli sono giocatori che hanno scritto pagine epiche nel cricket indiano e ispirano ancora i giovani appassionati. Sourav Ganguly, però, è il più celebrato di tutti. Lui è il Principe di Calcutta, il Maharaja, il Dio dell’off-side, il Principe Guerriero.

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South Mumbai, on Mahatma Gandhi Road, there is the park Azad Maidan which is flooded with undred of guys floods Park Azard Maidan on Mahatma Gandhi Road in the south of Mumbai: they comes together to play cricket. In India, cricket is like football in Europe and attracts considerable public interest related to advertising contracts. A cricket match does not have a predetermined duration: it may take a few hours or a few days. Between innings there are lunches and snacks.

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É affettuosamente conosciuto come Dada (fratello maggiore). Ganguly, per diverso tempo capitano della nazionale indiana, nel 2004 è stato insignito del Padma Shri, uno dei più alti riconoscimenti civili dell’India. Difficile dire quando Sourav Ganguly si sia trasformato da giocatore di cricket in eroe popolare. Non ha avuto un’infanzia difficile, non ha mai fatto, come tanti suoi colleghi, il ball boy e non ha mai vissuto in uno slum. Il padre gestiva una fiorente attività di stampa ed è stato uno degli uomini più ricchi di Calcutta. Vita facile, insomma. Ciò nonostante è un fenomeno nella moderna

cultura pop indiana. Attualmente è un commentatore di cricket e presidente del Comitato Editoriale di Wisden India, rivista online che si occupa di cricket. I ragazzi di Azad Maidan continuano a giocare nel grande parco urbano fino a quando la luce del sole glielo permette. Poi, a piccoli gruppi, si allontanano con le loro divise bianche e i borsoni colmi di mazze, guanti ed elmetti. Si danno appuntamento per il giorno appresso. I campi si svuotano e la cornice di traffico, nel silenzio del parco, si fa più rumorosa.

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I ragazzi di Azad Maidan continuano a giocare nel grande parco urbano fino a quando la luce del sole glielo permette.

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Cyclo

PEDALARE PER VIVERE A DHAKA


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itto sui pedali avanza sulla Outer Circular Road, cercando spazio nel traffico intenso. Prabal ha appena accompagnato alla Prime Bank due signori con giacca e cravatta e ora rientra verso la stazione. É l’ora di punta, il sole allo zenith infiamma le auto che arrancano sulla strada e l’ombra di Prabal è sparita sotto il risciò.

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Asia Bangladesh Dhaka

Testo Angelo Soro Foto Gaetano Plasmati

Il sudore traccia lunghe corsie liquide sulla sua schiena ossuta, mentre le gambe pedalano seguendo un ritmo che solo lui sente. Il suo risciò si insinua tra auto, autobus e camion come fosse una canoa su un lento fiume di lava. La sua scia viene immediatamente cancellata da altri mezzi che cercano spazio nel traffico. Una signora con un bambino e due enormi valigie intercetta lo sguardo di Prabal, che esce dalla stretta corrente e attracca il risciò al marciapiede. Di corsa alla stazione degli autobus. Di nuovo in piedi sui pedali per dare vigore alla pedalata e avvistare correnti favorevoli nel traffico. Naresh, suo zio, è il proprietario del risciò e, alla fine della giornata, Prabal deve dargli conto. Lui, come altri, divide con lo zio i Taka raggranellati pedalando tra la stazione di Dhaka e le mille destinazioni scelte dai clienti. Naresh, corpulento e calvo, non è ne’ cattivo ne’ buono, ma l’affitto del risciò lo pretende tutte le sere che calano su questa terra. Quando all’alba Prabal entra nella rimessa ricavata nelle cantine di un palazzo in costruzione sulla Gandaria New Road, Naresh lo accoglie con un saluto anemico e gli indica il risciò con un cenno del capo: può prenderlo e iniziare la giornata. La sera Prabal riporta il risciò e paga il suo debito. Solo allora suo zio lo gratifica con un sorriso. Gli raccomanda di salutare sua madre e gli dà appuntamento all’indomani. Prabal rientra a casa una volta al mese. Lo slum dove vive sua madre è troppo lontano da Gandaria New Road e dalla stazione; così, ogni sera, dopo

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The rickshaws (so it’s called in Dhaka) is the most widely used means of transport in Bangladesh. Noone knows the number, but rough estimates there are about 300,000 only in Dhaka. It’s an industry on wheels that move people and goods across the country. The rickshaw transport is preferred by upper-middle class: it costs less than a bus or a taxi, it moves more easily in citizen traffic.

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aver riconsegnato il risciò, si rifugia in una vecchia caserma abbandonata. Il rikshaw (così è chiamato a Dhaka) è il mezzo di trasporto più usato nel Bangladesh. Non se ne conosce il numero, ma stime approssimate per difetto ne contano circa 300.000 solo a Dhaka. É una industria su ruote che sposta persone e cose in tutto il paese. Il trasporto su risciò è preferito dalla classe medio-alta: costa meno di un bus o di un taxi, si muove più agilmente nel traffico tormentato e senza regole di una città con oltre 14 milioni di abitanti. Usando un parametro inusuale come il risciò, Dhaka può essere approssimativamente divisa in due fasce: la prima, la classe medio-alta, utilizza i risciò mentre la seconda, costituita dalle classi più basse nella gerarchia sociale, li fa muovere. In Bangladesh i risciò sono approdati nel 1928, provenienti dalla Cina, e dal 1930 hanno assunto l’attuale forma; rispetto ai risciò cinesi, pur avendo conservato la “trazione umana”, si sono evoluti e ora il conduttore pedala, invece che camminare. Per lo più sono risciò convertibili, con capote pieghevole, e sono l’unico tipo di veicoli che può essere guidato nei quartieri della città con strade strette e vicoli. I risciò non trasportano solo persone. Nel

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Non se ne conosce il numero, ma stime approssimate per difetto ne contano circa 300.000 solo a Dhaka. É una industria su ruote che sposta persone e cose in tutto il paese.


I risciò non trasportano solo persone. Nel tempo hanno sostituito i classici animali da soma, monopolizzando il movimento delle merci. La piaga della disoccupazione in Bangladesh è, in un certo senso, contenuta proprio dai risciò.

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Il tipico risciò del Bangladesh pesa circa 92 kg. Il 50 per cento del suo peso è concentrato nel sedile del passeggero e nella capote che, solitamente è costruita in legno. Il telaio è una struttura realizzata con pesanti tubi in ferro. I risciò sono principalmente utilizzati per coprire brevi distanze, in cui la velocità non ha molta importanza.


tempo hanno sostituito i classici animali da soma, monopolizzando il movimento delle merci. La piaga della disoccupazione in Bangladesh è, in un certo senso, mitigata proprio dai risciò. La disoccupazione, nelle zone rurali, attanaglia la popolazione e la muove ad abbandonare i villaggi e riversarsi nelle città, dove le alternative sono varie: lustrascarpe, barbieri di strada, venditori ambulanti, mendicanti ma diventare conduttori di risciò assicura una relativa stabilità economica. Tra i conduttori che lavorano per Naresh, c’è Ahmet. Ha 65 anni, il volto segnato dal disagio ma un fisico invidiabile e due occhietti neri e incavati sempre in movimento. Parla uno strano inglese misto a hindi, ma si fa capire con gesti e smorfie. Ha fatto un calcolo: durante la sua vita, dice, ha pedalato per circa 275 mila chilometri. Anche se Ahmet va d’accordo con Naresh il rapporto non è certo paritario. L’affitto del risciò gli porta via un terzo dei suoi guadagni, lasciandogli quanto gli è appena sufficiente a sfamare se stesso e la moglie. Con l’affitto che ha pagato durante la sua vita, Ahmet avrebbe potuto acquistare il suo risciò almeno 40 volte.

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Il trasporto su risciò è preferito dalla classe medioalta: costa meno di un bus o di un taxi e si muove più agilmente nel traffico tormentato e senza regole di una città con oltre 14 milioni di abitanti.


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gli ARCIERI DEL QINGHAI U

n lungo rettilineo sull’altopiano di Dashan Shenyahe. É una stretta striscia di terra battuta che porta a Xining, capitale della provincia del Qinghai, nella Cina centrale. Sullo sfondo si intravedono i primi contrafforti del Lenglong Ling, una muscolare colata di roccia che supera i 5000 metri.

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Asia China Shanghongtu Goucun Dashan Shenyahe highland

Testo Gaetano Plasmati Foto Gaetano Plasmati

L’autobus avanza lasciando dietro di sé una nube di polvere rossastra e la tavola brulla che attraversiamo, tra scossoni e brusche sterzate a evitar le buche della pista, sembra infinita. Senza una meta visibile. Abbiamo lasciato alle spalle Shanghongtu Goucun, un villaggio rurale e percorriamo da qualche minuto quel rettilineo, quando l’autista ci invita a guardare alla nostra sinistra. In uno spiazzo poco più piccolo di un campo di calcio, si è materializzato un gruppo di persone; sono riunite in due gruppi distanti circa 30 metri l’uno dall’altro. Sembrano due squadre: un gruppo porta in vita una vistosa fascia color arancio, mentre gli altri hanno una fascia fucsia. C’è eccitazione. Chiediamo all’autista di fermarsi per comprendere cosa stia accadendo. L’atmosfera è visibilmente carica di energia e i due gruppi si stanno affrontando in una gara di tiro con l’arco. Dopo ogni tiro andato a segno gioiscono con urla e salti intorno al bersaglio. Dal terreno si alza una cortina di polvere rossa che rende surreale la scena. L’autista ci spiega che i due gruppi appartengono a due villaggi: Shanghongtu Goucun e Houhe Ercun. Da quelle parti le liti sui confini dei pascoli si regolano in modo incruento: una gara di tiro con l’arco.


On Shenyahe Dashan highland in China, I witnessed a strange race: two groups of people living in two neighboring villages, met for a sports competition of archery. They used archery to solve a problem that concerns the boundaries of the pastures. An example for all of us!

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L’Imperatore di Giada, signore del cielo, aveva dieci figli ribelli. Un giorno essi si trasformarono in dieci soli che in modo spietato bruciavano la Terra dall’alto dei cieli. Incapace di arrestare la loro malefatta, l’Imperatore di Giada convocò Hou Yi, un arciere famoso per la sua mira. L’imperatore comandò all’immortale di impartire una lezione ai suoi figli. Hou Yi discese sulla Terra e vide le sofferenze coi propri occhi. Tutto era carbonizzato e privo di vita e la gente era angosciata. Indignato da tutto ciò, passò all’azione.

Estrasse una freccia dalla sua custodia e prese di mira i soli.


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Ne cadde prima uno, poi un altro. Alla fine, nove dei figli dell’Imperatore di Giada erano morti. Hou Yi ne lasciò in vita solo uno, per dare alla Terra luce e calore. Udito quanto era accaduto, l’Imperatore di Giada divenne furioso. Bandì Hou Yi e la sua bella moglie, Chang’e, dal Cielo, privandoli della loro immortalità. Essi furono costretti a vivere sulla Terra come comuni mortali.


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ken 剣 道


ndo Chiunque può arrendersi, è la cosa più semplice del mondo. Ma resistere quando tutti gli altri si aspettano di vederti cadere a pezzi, questa è la vera forza.

dal libro “La via della spada. Young samurai” di Chris Bradford armatura indossata da Carlo Morgese

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i nombre es Javier Albuisech, ilustrador madrileño de 32 años. Soy autodidacta y me encanta aprender de todos y cada uno de los artistas que conozco. Por otra parte, soy el peor crítico de mis trabajos y aunque concibo el arte como puro entretenimiento y diversión, siempre intento mejorar y evolucionar, trabajando como freelance para muchos encargos. Rompiendo moldes entre los diferentes géneros (sin seguir reglas ni patrones estéticos), el dibujo es el medio que utilizo para evadirme pero sobre todo para expresar lo que siento, siendo una extensión de mi mismo en el que reflejo facetas de mi personalidad y experiencias de la vida cotidiana. A través de elementos procedentes de la imaginería del tatuaje Old School y el folclore mejicano (como corazones, calaveras, estrellas, golondrinas, serpientes, mariposas, puñales o las armas de fuego.), trato temas tan universales como el amor, el odio, la muerte, la soledad, el destino, el mundo de los sueños y sobre todo, la belleza. Aunque tras años, he desarrollado un estilo propio cercano a los cómics, con diseños llenos de fuertes contrastes, colores intensos, líneas bien definidas sin sombreados y multitud de detalles en los que las mujeres son las grandes protagonistas, mostrándolas con una actitud de anti-heroína frente al mundo, con numerosos tatuajes, grandes rasgos, ojos llamativos y mirada soñadora, evocando de manera onírica el espíritu de los carteles del Art Nouveau y Art Decó de principios del siglo XX Además de este estilo artístico, en mis ilustraciones tienen cabida el Arte tradicional japonés, el cartelismo de propaganda política de mediados del Siglo XX, el Pop Art, el mundo del tatuaje, el Street Art o Arte urbano, los cómics americanos y el Manga, los dibujos animados que veía de pequeño en televisión, las publicaciones Pulp, la literatura de Chuck Palahniuk, el cine y en especial, las películas de Tim Burton, las “Pin up girls” y las series de culto. Mención especial merece la música, ya que a la hora de crear, intento expresar mi particular manera de sentirla y de canalizarla, rindiendo tributo a los álbumes o canciones de mis bandas favoritas a través del título de mis composiciones.

Il mio nome è Javier Albuisech, 32 anni, da Madrid. Sono un illustratore autodidatta e mi piace imparare da tutti e da ciascuno degli artisti che conosco. Il disegno è il mezzo che uso per evadere ma soprattutto per esprimere quello che sento di me stesso. Nelle mie opere si riflettono le sfaccettature della mia personalità e le esperienze della vita di tutti i giorni. C’è spazio per l’arte giapponese, la grafica dei manifesti della propaganda politica della metà del XX secolo, la Pop Art, il mondo del tatuaggio, la Street Art e la Urban Art, i fumetti americani e i manga, i cartoni animati che ho visto da bambino in televisione, le pubblicazioni Pulp, la letteratura di Chuck Palahniuk, il cinema e soprattutto i film di Tim Burton, le “pin up girls” e le serie cult.


kendo disegno di

Javier Albuisech

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tre anni di Intransit

tre anni di storie e avventure numeri arretrati su issuu.com/in-transit back issues on issuu.com/in-transit


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y journey with photography began before I got my first camera, since I was spending lot of my childhood’s time watching photos with attention in deep to details. I owe to my father who kept nonstop bringing me (and my other 7 brothers and sisters) magazines and books. Since then I see everything around me through a photographer’s eye. In that period of time, a 10 member’s family and I experienced the Lebanese civil war conditions and its dramatic variations of the environments; that what gave the photographer in me lot of chances and wide spaces to store a huge amount of iconic pictures in the internal memory of the child. As a self-taught photographer, I devote myself to every corner of reality in order to picture time and keep as much memories in the wonder of my secret box. Throughout my journey I have been fortunate to communicate with people from different backgrounds, homeless and celebrities, models, new faces, old faces, different cultures finding new inspiration in each shooting project. As for where this journey is going to take me, I like to think that I’m working on it as it’s still the early beginning. In the other hand I take photography so serious, not only as job or hobby, it is a way of life. As i was always intrigued by this small box that could capture memories in an instant. Since I slowly began understanding the magic of light,


frame Bilal El Soussi perspectives, shapes, colors, lenses… the way I look to life has completely changed. For me photography is a pure art, and art needs passion. With passion, there’s learning, and I believe I can get a “wow shot” only because I make photography by heart, because I have passion for the art and through learning i try to combine all the elements to a degree of perfection!

Bilala El Soussi è nato a Tripoli (Libano) nel 1980, dove vive e lavora. É un giovane fotografo e grafico che ha coltivato le sue passioni fin dall’infanzia. Come fotografo autodidatta è attratto dai diversi aspetti della realtà, per fissare i ricordi e rielabolarli con calma. Nel corso dei suoi viaggi nel Libano e all’estero, ha avuto la fortuna di comunicare con persone di diversa provenienza, gente senza fissa dimora e celebrità, modelle, artisti e semplice umanità, culture diverse che aprono nuovi orizzonti e stimolano nuovi temi di ricerca.

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World Pre Foto Tomasz Lazar


ess Photo H

a ancora senso, oggi, percorrere chilometri di strada per “vedere� una mostra fotografica, mi chiedo mentre mi accingo a partire.

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Europe Italy Naples Complesso Monumentale of Santa Chiara

Testo Nico Cea Foto Gaetano Plasmati Foto della mostra per gentile concessione di Neapolis.Art

Il 15 ottobre 2011 a

Sanaa (Yemen) Samuel Aranda, fotoreporter spagnolo in missione per il New York Times, coglie il materno abbraccio di una donna, completamente ricoperta dalla abaja nera, al figlio ferito durante gli scontri di piazza. E’ la foto vincitrice del World Press Photo 2012. I campi sfilano veloci in questa calda domenica di inizio anno, mentre il profilo di una Napoli ammantata di luce dorata si profila sempre più vicino. E’ nel complesso monumentale di Santa Chiara che abita l’edizione 2012 del World Press Photo, approdata per la terza volta consecutiva nella città campana, ultimo avamposto a sud del fotogiornalismo mondiale.

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In un itinerario fatto di passioni e compassioni, sfilano le meraviglie immaginifiche della più importante mostra itinerante del fotogiornalismo internazionale. Il racconto per immagini di un anno denso di eventi, comincia con un’immagine struggente che, tuttavia, restituisce l’idea della potenza della natura.

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The exhibition was held in the Green Room of the Complesso Monumentale of Santa Chiara, in the heart of Naples, and was edited and produced by Neapolis.Art. The World Press Photo Exhibition is the most prestigious event of photogiornalism. From 55 years a group of independent international experts selects nine different categories of photographs indicated by photographers, agencies, newspapers and magazines around the world.

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Un imperioso rinoceronte bianco, privo di corno, rassicurato dalle guardie del parco, possente figura irradiata dalla calda luce della savana sudafricana. Brent Stirton racconta cosÏ la guerra contro il bracconaggio e la strategia di preservazione del rinoceronte: l’estrazione dei corni dagli esemplari a rischio, da parte dei veterinari del parco, per impedirne la strage da parte dei bracconieri.

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IRONMEN | 2013 Yasuyoshi Chiba descrive il terremoto nipponico: vagoni della metro scaraventati sulle urne di un cimitero, immagini di devastazione contrappuntate dal dolore composto e spiazzante della popolazione che allinea in fila ordinate cassette ricolme di oggetti, ormai senza più padrone. La grammatica delle immagini trova qui la sua più potente espressione. Molteplici istanti si susseguono dentro ed oltre gli sguardi meravigliati dei visitatori, incrocianti quelli delle reclute della polizia afgana di Ton Koene, o dell’attrice iraniana Mellica Mehraban ritratta da Laerke Posselt, che ti guarda diritta negli occhi, protetta da ciuffi di capelli corvini. E’ un rimando di sguardi che si incontrano e si intrecciano in un connubio naturale e magnetico, che si deposita nell’occhio del fotografo attraverso la lente della macchina fotografica: nonostante tutto, oggi, è ancora questo lo “strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina” (Dorothea Lange).

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1, 2, 3 Gaetano Plasmati 4 Brent Stirton 5 Ton Koene 6 Laerke Posselt 7 Gaetano Plasmati 8 Yasuyoshi Chiba

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Brasile, 2009 | Š Sebastião Salgado/Amazonas Images


GENESI Sebastião Salgado

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otto una pioggia battente, dopo ore di traffico, accanto al (non più “biondo”) Tevere mi incolonno nella folta processione per accedere all’Ara Pacis, lo spazio espositivo che ospita la mostra Genesi del fotografo della natura per eccellenza: Sebastião Salgado.

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Europe Italy Rome Ara Pacis Musemum

Testo Alessandra Soro Foto Sebastião Salgado/Amazonas Images Foto della mostra cortesemente fornite da Agenzia Contrasto - Roma

Genesi nasce per mostrare il nostro pianeta nelle sue parti più incontaminate e nascoste, per farci stupire davanti alla bellezza di ciò che noi stessi abbiamo distrutto nel tempo e portarci a proteggerlo. La mostra è divisa in cinque spazi espositivi che accolgono i paesaggi incontaminati dell’Antartide e dell’Argentina, le popolazioni indigene e la fauna dell’Africa e del Brasile, le parti più inesplorate (i “santuari del mondo”) e le zone fredde con i maestosi ghiacciai. Le immagini sono tutte in bianco e nero e catturano il moto delicato e silenzioso delle vaste e dissestate calotte di ghiaccio, i leoni marini distesi come sassi animati sulla spiaggia e le sterminate colonie di pinguini che attendono lo schiudersi delle uova. Un’atmosfera di curiosità avvolge l’Africa e il Brasile, che accolgono popolazioni indigene isolate nelle proprie tradizioni rimaste assolutamente uniche come i Nambikwara; Salgado ha documentato i costumi in maniera assolutamente non didascalica ed etnocentrica ma guidando il nostro sguardo in maniera delicata, senza falso stupore. Purtroppo la mancanza di utili spiegazioni riguardo alle popolazioni fotografate non ne ha permesso la piena comprensione, questo ha ovviamente portato molti visitatori a confoderle. I “santuari” mostrano il volto ancestrale del nostro pianeta dove tutto sembra essersi fermato alle origini; l’artista ci guida attraverso le foreste del Madagascar in paradisi in cui uomini e animali convivono in sintonia, verso i fiumi limpidi e vivi della Papua Nuova Guinea abitati da rettili che ne popolano la riva. Ancora pochi passi e siamo trascinati dal caldo vento del deserto. Tra le dune Salgado scopre il costante movimento della natura e dei popoli che, conoscendone i ritmi, seguono percorsi impressi nella memoria dai loro antenati. I movimenti della

LA SFIDA

Salgado nasce nel 1944 in Brasile da una famiglia di produttori agricoli, alla morte dei genitori l’azienda viene ereditata da lui e dalle sue sorelle. In poco tempo si rendono conto di avere sotto gli occhi un territorio devastato dalle colture intensive e dalla deforestazione: un Brasile arido. È così che Salgado e sua moglie Lèlia (curatrice della mostra) hanno elaborato un progetto di recupero ambientale per riportare il Brasile ai tempi della “genesi”; l’idea ha raccolto successo e abbastanza fondi da poter piantare in Brasile circa 2 milioni e mezzo di alberi di 100 specie diverse.

sabbia regalano l’idea di una perfezione presente in tutte le cose, ma che in queste immagini risulta geometrica e delicata, mai aspra e disperata. All’uscita dal nuovo-vecchio mondo in cui siamo stati catapultati, ci si sente rassicurati per la persistenza di tante bellezze su un pianeta che si credeva ormai distrutto, ma si fa spazio la preoccupazione e la coscienza di doverli preservare a tutti costi. Dopo aver lasciato a malincuore le sale, dove regnava un silenzio carico di stupore, ci immettiamo nel piccolo spazio shopping del museo, dove ci si affolla alla ricerca del gadget perfetto, come se la bellezza del deserto potesse restare impressa in una t-shirt dal prezzo esagerato. Una volta usciti ci rendiamo conto con stupore che molte ore sono passate in un battito di ciglia. Fuori il Tevere rumoreggia nel sole appena spuntato, la Città sembra risplendere inondata da una luce che ci appare diversa, e anche la noiosa pioggia sembra un fenomeno in perfetta armonia con il tutto che ci circonda.

Genesi is the last show of the photographer Sebastião Salgado, it’s put in exhibition in Rome last month and it will turn the world this year (more then 36 museums in the world). The photographic trip of the artist touches some of the most uncontaminated places of the earth, shows how this planet can still be spectacular and full of unespected landscapes, animals and different populations.


Galápagos, Ecuador, 2004 | © Sebastião Salgado/Amazonas Images

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photoreportage territorio industriale pubblicitario wedding viaggio moda sport


Gaetano Plasmati

fotografo archivio di emozioni

via delle beccherie 55 . matera . +39 0835330055 www.gaetanoplasmati.it . www.galleriaportapepice.com


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NVISIBLE DALLA SIRIA AL LIBANO di Francesca Longo | Gaetano Plasmati

REPORTAGE

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Asia Lebanon Tripoli

Testo Francesca Longo Foto Gaetano Plasmati

C

amminano per le strade di Tripoli come gli altri. Ma il loro sguardo è diverso. É lo sguardo di chi ha visto l’orrore con i propri occhi, di chi è scappato dal suo paese. Sono fuggiti da un paese che non interessa nessuno, un paese dove le armi chimiche vengono utilizzate da tempo ma la comunità internazionale lo ha deliberatamente ignorato fino a qualche tempo fa. Siria, culla di cultura e civiltà e teatro di massacri quotidiani. Non sono mai stata in Siria e, purtroppo, non avrò mai la fortuna di vedere quello che dicono fosse un paese stupendo. Forse un giorno potrò vederne le rovine. Della Siria conosco solo gli occhi delle donne siriane e gli sguardi impauriti, traumatizzati, dei bambini: sguardi che dopo l’orrore si posano, silenziosi, all’interno di garage abbandonati, di case disabitate, addirittura all’interno di cimiteri. A Tripoli l’elemosina non la chiedono solo gli homeless. A Tripoli l’elemosina la chiedono anche i bambini siriani. Profughi nell’indifferenza, ecco cosa sono. Le paure li inducono a sperare che nessuno si accorga di loro, ma non vorrebbero essere dimenticati dalla comunità internazionale, dal governo libanese e dallo stesso Libano, paese che ha visto più guerre che pace. Le Nazioni Unite paiono pendere dalle labbra di Obama e Putin, riguardo a un intervento diretto in Siria, mentre i profughi sono semplici pedine prive di dignità umana. Le organizzazioni umanitarie fanno quello che possono, ma non è facile gestire un flusso continuo di esseri umani disperati e terrorizzati. Questa guerra, sembra non avere fine. I più sono portati a etichettarla come una delle tante guerre di religione che scuotono il Medio Oriente e l’Africa. La verità scomoda, ma pur sempre verità, è che questa è una guerra tra potenze internazionali che sfogano le loro

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Della Siria conosco solo gli occhi delle donne siriane e gli sguardi impauriti, traumatizzati, dei bambini.


ambizioni in casa d’altri, commme d’habitude. A volte ho la sensazione che non ci sia una via d’uscita per i profughi siriani. Ho la sensazione che il loro destino sarà simile a quello dei palestinesi che vivono nei campi profughi in Libano e, dopo più di mezzo secolo, non gli è stato riconosciuto il diritto alla nazionalità libanese. I siriani hanno gli occhi di un colore indefinibile, un misto tra il castano e il giallo. La mattina, con lo sguardo basso, in coda per ricevere un buono pasto, la sera chiusi in garage, soffitte o ruderi segnati dai conflitti libanesi.

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The refugees coming from Syria, walk the streets of Tripoli as the others. But their eyes are different. It is the look of someone who has seen the horror with his own eyes, who has escaped from his country. They fled from a country that does not interest anyone, a country where chemical weapons are used for a long time but the international community has deliberately ignored until some time ago. Pictures and stories coming from uninhabited cellars, abandoned houses and places where the refugees are trying to hide.

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Profughi siriani a Tripoli.

Chiedono che non li si riprenda in volto. Alcuni di loro hanno lasciato parenti e amici in Siria e temono che possano subire rappresaglie. Temono anche la polizia libanese. Spesso occupano abusivamente locali abbandonati. Ma un popolo di rifugiati, che in Libano non sono ancora stati censiti come tali, che futuro ha? Un popolo che rimpiange una terra dove non può tornare, pena il rischio di essere torturato e poi eliminato, un popolo che sta pagando anche il prezzo dei precedenti conflitti con lo stesso libano, che speranze ha? Un mio alunno di origini siriane mi ha detto che “i killer sono due: Bashar Al Assad, che sta uccidendo il suo popolo, e la comunità internazionale, che da troppo tempo tace e ignora questo eccidio di massa”. Sono stata a Baalbek, sito archeologico dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO: un paradiso. Baalbek si trova nella Valle della Beqā, zona controllata dagli hezbollah libanesi. Al ritorno ho chiesto al tassista di fermarsi vicino ad uno dei campi per profughi siriani che si vedono lungo la strada che da Beirut porta a Baalbek. Il tassista ha accostato lungo la strada, sono scesa e ho scattato alcune foto alla tendopoli.

Solo i bambini sono corsi verso di noi: “Sawwrini, Sawwrini”. I bambini chiedono di essere fotografati, i bambini non sanno. Gli adulti non vogliono che si vedano i loro visi, ma chiedono di far conoscere al mondo la loro tragedia. Adesso che il mondo intero la conosce, potrà continuare ad ignorarla? Il 21 agosto abbiamo visto scorrere immagini terribili che provano l’uso delle armi chimiche. Immagini in cui 1429 civili, tra i quali 426 bambini, dormono un sonno dal quale non ci si risveglia. Il 27 gennaio è il giorno della memoria delle vittime dell’olocausto. A volte mi chiedo se ci sarà mai un giorno della memoria per le vittime di Bashar Al Assad.


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Profughi siriani a Tripoli. Waseem ha perso le mani in un attentato ad Aleppo. Nell’ospedale di Tripoli hanno dovuto operare nuovamente il braccio sinistro per evitarne l’amputazione totale. Durante la fuga era comparsa la cancrena.


Profughi siriani a Tripoli. Nel pronto soccorso dell’ospedale di Tripoli, ogni giorno vengono curati centinaia di profughi siriani. Amir ha sul corpo numerose piaghe dovute al contatto con agenti chimici.

Maria Francesca Longo

è nata a Padova. È laureata in Scienze Politiche e in Giornalismo. Da sempre appassionata di viaggi “on the road” , viaggi intesi come percorsi di conoscenza. Nel settembre 2012 si è trasferita in Libano per otto mesi e mezzo per andare ad insegnare italiano presso la Società Dante Alighieri di Tripoli nel nord del Libano e nella base UNIFIL di Shama, vicino al confine con Israele. «Volevo andare ad insegnare all’estero – dice – e la prima offerta che ho avuto l’ho accettata. Poi del medio oriente mi sono innamorata. Con tutte le sue contraddizioni, i suoi contrasti e i suoi continui conflitti, il Libano ha qualcosa di magico. È un popolo ospitale quello libanese, un popolo generoso, un popolo dove tutti parlano almeno una lingua straniera oltre alla lingua madre. Un paese, il Libano, dove è normale vedere un furgone contromano in quella che loro chiamano autostrada, un paese dove le regole sono un’eccezione e chi le rispetta si sente un alieno, un paese dove convivono 19 confessioni religiose e dove gli estremismi ogni tanto si fanno sentire, ma anche un paese dove colori, profumi, storia, religione, cultura e passione si fondono insieme siscitando quel senso di magia che solo il paese dei cedri conosce e solo chi vive nel paese dei cedri può assaporare.»

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IRONMEN | 2013 Profughi siriani a Tripoli. Ad Aleppo aveva una bottega artigiana ben avviata. A Tripoli Rashid ora vende palloncini. I suoi figli, quando possono, lavorano nei campi. Lui ha ormai una certa età e non può aiutarli.


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anno III • numero 8 • 2013 Editore Direttore responsabile Photo Editor Art Director Web assistant, ricerche iconografiche Redazione

Registrazione al Tribunale di Matera Pubblicità

Gaetano Plasmati Giovanni Martemucci GMB Akash Angelo Soro Yulya Tsyapenko Galleria di Porta pepice Via delle Baccherie 55, Matera tel and fax +39 0835 33 00 55 n. 8/2009 del 13/10/2009 +39 339 314 25 80 +39 0835 33 00 55 intransit@galleriaportapepice.com info@galleriaportapepice.com www.intransit.it www.gaetanoplasmati.com www.galleriaportapepice.com www.martemix.com

testi

fotografie

in copertina

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Laura Durando Gaetano Plasmati Angelo Soro Nico Cea Alessandra Soro Javier Albuisech Bilal El Soussi Maria Francesca Longo Gaetano Plasmati Brent Stirton Ton Koene Laerke Posselt Yasuyoshi Chiba Bilal El Soussi Sebastião Salgado “Ironman” di Gaetano Plasmati.




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