NUMERO 16 | OTTOBRE 2015
Storie di eccellenza e innovazione
l’app che sfida le banche Alberto Dalmasso, fondatore di Satispay insieme a Dario Brignone e Samuele Pinta, racconta la storia di successo della più promettente fintech italiana.
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cloud multiforme
smart workplace
Le infrastrutture It nella nuvola assumono sembianze molto diverse. Un percorso guidato tra le nuove tendenze tecnologiche.
Il lavoro flessibile è ancora un frutto acerbo? La tecnologia c'è, mancano la cultura e l'organizzazione in azienda.
quaderno Una rivista nella rivista per approfondire le tecnologie, le soluzioni e gli scenari della "società connessa". Distribuito gratuitamente con “Il Sole 24 ORE”
SOMMARIO Storie di eccellenza e innovazione
N° 16 - OTTOBRE 2015 Periodico bimestrale registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012.
4 storie di copertina
La nuova banca è mobile e gratis
9 IN EVIDENZA
L’opinione: Europa paladina della privacy
Ai giapponesi dell’Ict piace il Vecchio Continente
Microsoft sfida Apple in bellezza e produttività
La piattaforma cloud made in Italy va online
Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Valentina Bernocco, Jacopo Cassina, Carlo Fontana, Paolo Galvani, Roberto Loiola, Riccardo Manzini, Nunzio Mirtillo, Alberto Onetti, Leo Pillon, Claudia Rossi, Laura Tore
Quattro nuovi pilastri per la casa Hewlett Packard
La sfida contro il tempo si vince con la tecnologia
Con la “war room” virtuale si progetta il futuro
Progetto grafico: Inventium Srl Sales and marketing: Marco Fregonara, Francesco Proietto Foto e illustrazioni: Dollar Photo Club, Istockphoto
Il lavoro flessibile: un frutto ancora acerbo
L’evoluzione digitale corre troppo?
Valorizzare la disruption
Direttore responsabile: Emilio Mango
18 SCENARI
Gli itinerari del cloud
30 speciale storage
I dati, una risorsa ingombrante
36 ECCELLENZE.IT Banca Esperia - Cedacri Editore, redazione, pubblicità: Indigo Communication Srl Via Faruffini, 13 - 20149 Milano tel: 02 36505844 info@indigocom.it www.indigocom.com Stampa: RDS Webprinting - Arcore © Copyright 2015 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati.
De Rigo Vision - Vasco Data Security
Gruppo Piaggio - Sap Fratelli Carli - Ricoh
40 italia digitale è tempo di digitalizzare
Investimenti cercasi per vincere in Europa Che cosa manca all’Italia per rimettersi al passo?
46 OBBIETTIVO SU Bticino
Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto.
51 i quaderni di Technopolis Vizi e virtù della società connessa
Pubblicazione ceduta gratuitamente.
STORIA DI COPERTINA | Satispay
la nuova banca è mobile e gratis Satispay, ex startup milanese fondata da un gruppo di agguerriti trentenni, sfida gli istituti di credito e vuole imporre in Europa la sua semplice e geniale idea che permette di pagare con lo smartphone senza commissioni. E per alleggerire i costi, tutto l'It è sviluppato in casa.
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aleotta fu la tavola. Ma non quella imbandita, simbolo di trattative e intese al tempo della old economy. Nel caso di Satispay, il ripiano in questione ha le sembianze di uno snowboard, un oggetto decisamente 2.0, ma anche la passione che accomuna Alberto Dalmasso e Dario Brignone, e che li fa incontrare nel poco tempo libero a disposizione. I due, giovanissimi ma già “sistemati” professionalmente (il primo lavora a Torino in una società finanziaria, il secondo è consulente di Agip Petroli), alla fine del 2012 si trovano nella pause tra una discesa e l’altra a ragionare sull’arretratezza dei sistemi di pagamento: pensano che le carte di credito, su cui si basa buona parte degli scambi commerciali del mondo civilizzato, e l’arcaica moneta contante, un metodo vecchio quanto l’uomo, siano ormai inadeguati a sostenere i ritmi e le esigenze della nuova economia. Nel mirino di Dalmasso e Brignone c’è anche la cosiddetta moneta elettronica, il denaro digitale, che deve quasi sempre appoggiarsi a una carta di credito per poter essere scambiata. I due futuri fondatori di Satispay, che saranno poi affiancati da un terzo socio, Samuele Pinta, iniziano a pensare a un metodo completamente innovativo, un “attore” che sia in grado di addebitare il pagato4
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re e accreditare il beneficiario in modo rapido, facile e soprattutto senza dover passare dai circuiti delle carte di credito e dalle relative commissioni. Ad aiutare i tre giovani che vogliono sfidare il sistema, paradossalmente, è proprio il sistema stesso che, a seguito della direttiva comunitaria sui pagamenti (Payment Service Directive), sostituisce i vecchi bonifici con delle transazioni standard Sepa (Sepa Direct Debit e Sepa Credit Transfer, che poi saranno operative a partire dal 2014), che consentono di addebitare e accreditare qualunque conto corrente con un solo messaggio informatico standard, accettato in tutti i Paesi europei. Nasce così, sfruttando lo stretto corridoio tra normative e tecnologia, la prima idea della futura startup. Dalmasso e Brignone si licenziano dai rispettivi impieghi (a tempo indeterminato) e a gennaio del 2013 fondano la società. Pochi mesi dopo, avendo intuito che l’idea ha tutte la carte in regola per funzionare, inviano un’email a sessanta contatti selezionati (amici e parenti) per cercare i fondi necessari a un primo aumento di capitale. Cinquantadue destinatari rispondono positivamente. E’ un successo superiore alle attese, tanto che i soci decidono di accettare solo il 50% delle offerte, che ammontano a 600 mila euro. Così, con centomila euro di capitale iniziale e 300mila di finanziamento
Satispay inizia ufficialmente il suo percorso, assumendo i primi dipendenti e sviluppando le piattaforme It necessarie al funzionamento della soluzione (l’app per dispositivi mobili e i software di backoffice). “Contestualmente all’arrivo di Samuele, che per unirsi a noi ha lasciato l’azienda di famiglia”, racconta Dalmasso, “la società inizia ad assumere una precisa fisionomia: da una parte l’anima più tecnologica, dall’altra quella volta a studiare le normative legali e finanziarie e a cercare la giusta integrazione con il mondo interbancario. Alla fine
profilo di una ex startup Oggi Satispay è una Società per Azioni con un capitale di 8,5 milioni di euro. Tra i soci figurano anche istituti bancari, manager del settore delle telecomunicazioni e altri advisor influenti, che hanno aiutato l’azienda a districarsi tra le complicate maglie della legislazione finanziaria italiana. La sede principale è a Milano, dove al momento lavorano circa 25 dipendenti destinati a raddoppiare entro la fine del prossimo anno. La società ha però già aperto una sede a Londra, capitale finanziaria d’Europa, in previsione dell’espansione internazionale che dovrebbe iniziare già dal 2016. Al momento di andare in stampa, l’ecosistema Satispay contava 25mila utenti che avevano eseguito il download dell’applicazione, ma i fondatori prevedono di chiudere il 2015 con 50mila download e 30mila utenti attivi. Le insegne aderenti al circuito sono 700, destinate a raddoppiare entro la fine dell’anno.
del 2013 avevamo già una soluzione da mostrare e potevamo iniziare a raccogliere adesioni sul fronte dei retailer, un anello importante della catena del nostro business”. In quasi due anni, Satispay ha fatto parecchi passi avanti. Sul fronte della solidità finanziaria, un secondo round di raccolta fondi ha raggiunto la ragguardevole somma di 5,1 milioni di euro e un terzo giro, più recente, ha fruttato altri tre milioni di euro, proiettando l’azienda (che nel frattempo è diventata una Società per Azioni) ben oltre le affascinanti ma magre prospettive delle
“semplici” startup. Anche sul fronte della riconoscibilità, Satispay non è più di primo pelo: il Gruppo Bancario Iccrea, ad esempio, oltre a essere socio (con un pesante gettone da 3,1 milioni di euro) è anche partner attivo della società, che si appoggia all’istituto per le operazioni bancarie in attesa di poter operare in modo indipendente. Forti di visibilità e relazioni ormai importanti, Dalmasso e compagni a partire dallo scorso aprile hanno siglato accordi con partner strategici, come Grom e Total Erg, e con altre 700 aziende, che accettano quindi in tutta Italia pagamenti con Satispay.
Ma la cosa che fa inorgoglire di più i tre giovani imprenditori è l’attrattività che la loro azienda esercita sui potenziali collaboratori e advisor. Tra questi ultimi ci sono specialisti di Google Wallet e Paypal. “Un segno inequivocabile”, secondo Dalmasso, “che Satispay non è più solo una promessa ma un concreto caso di successo”. Il meccanismo è semplice
Il sistema di Satispay si regge sia sullo scambio di denaro tra utenti senza alcuna commissione, spesa o canone, sia sulle transazioni tra clienti ed esercenti. In 5
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quest’ultimo caso è prevista, solo per il negoziante, una commissione fissa di 20 centesimi per gli importi superiori ai 10 euro. “Si tratta di un modello di business che, come si può ben immaginare, diventa profittevole solo con grandi numeri”, ammette Dalmasso, “ma noi stiamo puntando proprio a quelli: oggi abbiamo circa 25mila download di cui 15mila utenti attivi, con un tasso di nuove adesioni che ci proietta a 50mila download e 30mila utenti attivi entro dicembre e a 250mila per la fine dell’anno prossimo. Al di là dei numeri, noi abbiamo però un vantaggio strategico rispetto ad altri operatori del settore fintech: conosciamo i nostri utenti e abbiamo una relazione diretta con loro. Nulla ci vieterà, un domani che avremo l’autorizzazione a operare come una vera a propria banca, di proporre prestiti agli utenti o servizi valore aggiunto agli esercenti”. L’infrastruttura It è proprietaria
Anche se la storia di successo è già di per sé catalogabile come hi-tech, visto il settore a cui appartiene, Technopolis non poteva non chiedersi quali strumenti It utilizzi Satispay per erogare i suoi servizi. Anche in questo caso, Dalmasso e soci non si smentiscono: “Tutta la tecnologia usata da Satispay è di Satispay: l’applicazione mobile, i protocolli di sicurezza (creati insieme a esperti di caratura mondiale) e perfino i sistemi di backend, come il database dei clienti e il gateway che esegue i pagamenti sono sviluppati internamente e quindi proprietari. Questo ci consente di garantire la qualità del servizio ma anche di risparmiare sulle licenze, un fattore importante visto che il nostro modello di business si fonda sulla gratuità della soluzione per gli utenti”. Nell’ottica dell’impresa giovane e moderna, l’unica grossa voce di spesa It è quella relativa all’acquisto di risorse server e storage in cloud da Amazon che, detto per inciso, è considerato dai ragazzi di Satispay uno dei pochi concorrenti dell’ecosistema finanziario del futuro. Emilio Mango 6
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come funziona Si comincia scaricando su qualsiasi smartphone un’App gratuita (disponibile per iOs, Windows e Android). Poi ci si iscrive, sempre senza nessun costo, inviando a Satispay il proprio Iban e i documenti (carta d’identità e codice fiscale). La società effettuerà così i controlli necessari a garantire se stessa e gli altri utenti dalle frodi (secondo le dichiarazioni della stessa Satispay al momento non è andato a buon fine nessun atto fraudolento). Infine, si stabilisce un budget, come si farebbe con una carta ricaricabile. Da quel momento in poi si possono eseguire operazioni: si può pagare (senza nessuna commissione) un esercente tra quelli che hanno aderito al circuito, si può trasferire a un amico una somma di denaro (opzione comoda, per esempio, quando si fa una colletta o si paga “alla romana” in un ristorante) o si possono ricevere pagamenti (per esempio per un oggetto venduto su Ebay). Satispay si occuperà, ogni sette giorni, di ripristinare il budget stabilito prelevando o bonificando dal conto corrente di appoggio la cifra necessaria. Il funzionamento è semplicissimo: con l’app si sele-
ziona da una rubrica il destinatario del pagamento, si inserisce la cifra e si fa un ultimo clic di conferma. In pochi secondi l’operazione è eseguita. Unica condizione è che i destinatari dei pagamenti, siano essi utenti finali o esercenti, devono a loro volta essere registrati a Satispay.
Nel comparto fintech c'è spazio per tutti Il potenziale di mercato delle app nel settore finanziario si misura in trilioni: una vera "disruption". A farne le spese potrebbero essere gli istituti di credito tradizionale, anche per via di nuove regole meno protezionistiche.
Alberto Dalmasso
I
fattori principali che hanno fatto esplodere il comparto chiamato “fintech”, neologismo che accosta i termini finanza e tecnologia, sono almeno due. Da una parte l’esigenza di flessibilità, mobilità e modernità che accomuna tutti i settori della vita quotidiana e del business (lo stesso è accaduto per i trasporti e per il turismo, tanto per fare due esempi eclatanti); dall’altra l’apertura, non sempre avvenuta spontaneamente, del settore bancario alle nuove regole e ai nuovi operatori. I nomi più famosi del settore, come Paypal e Bitcoin (sia pur con percorsi e destini molto diversi), richiamano subito alla mente le funzionalità alternative di pagamento o la moneta digitale, ma il fintech non è solo questo: è anche, tra le altre cose, sicurezza, trading, crowdfunding, servizi per l’e-commerce. Un settore che solo negli Usa nel 2014 ha attratto quasi dieci miliardi di dollari di investimenti (fonte: The Economist) e che anche in Europa e Ita-
lia sta vivacizzando il panorama delle startup e del business in generale. Sul piatto, secondo Goldman Sachs, c’è una torta da 4.700 miliardi di dollari a livello mondiale. “Lo scenario è costituito da soluzioni proposte dalle banche tradizionali”, spiega Alberto Dalmasso, co-fondatore di Satispay, “e da esperienze di società indipendenti. Fino a ora, però, almeno in Italia, non si è vista una killer application. Un po’ perché gli istituti bancari fanno fatica ad adeguarsi ai modi e ai ritmi della nuova economia, un po’ perché anche gli outsider si sono dovuti comunque appoggiare ai circuiti bancari e a quelli delle carte di credito, con la complessità e con i costi che ne conseguono”. Le esperienze veramente “fuori dal coro”, secondo Dalmasso, si contano sulle dita di una mano: “In Europa, oltre a Satispay, ci sono altri due operatori che non usano i circuiti tradizionali, cioè la tedesca Sofort e la svedese Klarna”.
Nel 2014 le due società si sono fuse, dando vita a un unico operatore che offre sia un servizio di pagamenti via Web sia un’app per il mobile commerce (che però non gestisce la transazione). “Sofort è stata l’iniziativa più dirompente”, spiega Dalmasso, “ha realizzato un software chiamato Bonifico Veloce, che va a leggere i dati dell’home banking dell’utente (ovviamente senza salvare alcun dato, in tutta sicurezza) e che in pratica pre-compila i moduli dei bonifici. Ancora una volta, però, è la banca del pagatore che esegue il bonifico, mentre nel caso di Satispay siamo direttamente noi, e la nostra banca partner Iccrea, a fare da intermediari tra pagante e beneficiario”. In pieno spirito “new economy”, Dalmasso non considera concorrenti né Sofort né Klarna, con cui anzi collabora spesso e volentieri: “Ci incontriamo o ci sentiamo frequentemente per condividere le soluzioni ai problemi o le opportunità che si aprono. E ora che abbiamo anche una sede a Londra sarà ancora più facile scambiare informazioni utili con altre aziende del settore. Le potenzialità di questo mercato sono talmente elevate che c’è posto per tutti: lo scenario cambierà in modo sostanziale e tra qualche anno le banche tradizionali con tutta probabilità non esisteranno più: le transazioni di denaro saranno gestite da realtà come Satispay o direttamente da aziende come Amazon e Google”. Dichiarazioni forti, che per ora non preoccupano più di tanto i colossi della finanza, ma l’entusiasmo dei “Millennial” non va sottovalutato, soprattutto se condito con più classico genio italiano. E.M. 7
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IN EVIDENZA
l’analisi
EUROPA PALADINA DELLA PRIVACY: MA LA GUERRA A FACEBOOK E AGLI STATES È FONDATA?
E se fosse una forma, neppure tanto velata, di mero protezionismo? C’è chi ha inquadrato così, appellandosi al fondamento di una rete Internet aperta dove i dati viaggiano da una parte all’altra del globo, il “colpo di teatro” della Corte di Giustizia Ue. Un colpo andato in scena a inizio ottobre e mirato a rovesciare la decisione presa nel 2000 dalla Commissione di Bruxelles, che attestava come “adeguato” il livello di protezione garantito dagli Stati Uniti alle informazioni personali dei cittadini europei trasferiti oltreoceano. In poche parole, il cosiddetto “Safe Harbor” è stato cancellato e ogni governo del Vecchio Continente potrà fare richiesta di vietare a Facebook e a circa quattromila società statunitensi presenti sul Web di conservare i dati dei cittadini europei nei loro data center in terra americana. Tutto nasce, lo ricordiamo, dalla battaglia giudiziaria avviata dal 2008 contro la società di Mark Zuckerberg da uno studente austriaco di giurisprudenza, Max Schrems. A valle del provvedimento preso dalla Corte di Lussemburgo si arriva a una realtà in cui gli “over the top” a stelle e strisce (Facebook, Apple, Google, Microsoft, Twitter, Amazon) finiscono dietro la lavagna perché impossibilitati a proteggere i profili digitali dei cittadini europei dalla vista lunga delle autorità di sicurezza nazionale statunitense, Nsa ovviamente in testa. In ballo, come si può ben intuire, c’è la possibile violazione della privacy. Come andrà a finire la diatriba? E come si interseca con il progetto stra-
La sentenza emessa dalla Corte di Giustizia della Ue azzera dopo 15 anni l’accordo “Safe Harbor”, riaprendo il dibattito sull’utilizzo delle informazioni personali da parte dei giganti tech Usa. È una mossa dovuta? tegico del “Digital Single Market”? La Commissione Europea ha sempre manifestato totale fiducia nei confronti degli Usa e ora si trova di fronte a un problema quanto mai spinoso: il Vecchio Continente si riprende la responsabilità della questione privacy conferendo agli Stati membri l’autorità di poter decidere quali regolamenti e leggi applicare e, soprattutto, dove vadano conservati e gestiti i dati dei propri cittadini. Assisteremo a prese di posizione intransigenti da parte dei governi? Alla domanda ha risposto indirettamente, come parte in causa, la Computer & Communications Industry Association, l’associazione americana che rappresenta i colossi del Web, lanciando un avvertimento che suona come minaccia: se l’Europa darà seguito al provvedimento, stringendo la mor-
sa sulle modalità di trattamento dei dati personali degli utenti, potrebbe rischiare di mettere a repentaglio la propria crescita economica. Una crescita che, i massimi esponenti Ue lo ripetono come un mantra da tempo, ha bisogno come il pane di sviluppare il suo mercato digitale. La Commissione si trova davanti a un bivio: obbligata a recepire la sentenza, deve mediare tra falchi e colombe e trovare un nuovo accordo con gli Usa. In attesa che si definiscano linee guida comuni sulla privacy e che si arrivi finalmente a una norma in tema di protezione delle informazioni. Nel frattempo, i nostri dati, con tutto il valore enorme che rappresentano per l’industria digitale mondiale, continueranno a viaggiare al di là dell’Atlantico. Gianni Rusconi OTTOBRE 2015 |
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IN EVIDENZA
La società nata dall’acquisizione di Cosmic Blue Team da parte di Hitachi Systems sarà la testa di ponte della multinazionale, che mira a entrare con decisione nel mercato europeo.
Flavio Radice
Ai giapponesi dell’Ict piace il Vecchio Continente A Flavio Radice, neo presidente e Ceo di Hitachi Systems Cbt, è affidata la guida della società nata dall’acquisizione, lo scorso aprile, di Cosmic Blue Team da parte di Hitachi Systems. Technopolis lo ha intervistato per capire in quale direzione si muoverà la società e in che modo la multinazionale giapponese potrà supportare il team italiano. Facciamo un primo bilancio dopo l’acquisizione da parte del colosso nipponico?
Dopo quattro mesi di operatività nella nuova configurazione, posso già dire che i due cambiamenti più evidenti che abbiamo apportato sono una revisione accurata dei processi interni, che ci hanno condotto a un sistema di rilevazione delle performance molto più efficace, e una maggiore solidità finanziaria. Stiamo infatti parlando di un partner (Hitachi Systems) che ha “sul campo” oltre 10mila dipendenti, con 3,5 miliardi di dollari di fatturato, per non parlare della capogruppo Hitachi, che muove un giro d’affari mondiale di oltre 80 miliardi di dollari. Al di là di qualsiasi considerazione di carattere tecnico e tecnologico, fare parte di un gruppo così significa potersi muovere con molta più autorevolezza e credibilità nel mondo delle grandi imprese e della Pubblica Amministrazione. 10
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Come sta cambiando il vostro profilo?
L’acquisizione di Cbt da parte di Hitachi Systems è solo uno dei tanti tasselli di una strategia internazionale volta a rafforzare la presenza in Europa della multinazionale. Dal settore dei trasporti a quello medicale, sono già oltre 150 le aziende del gruppo che operano nel Vecchio Continente. In Italia, tanto per citare il caso più eclatante, c’è stata anche la recente acquisizione di Ansaldo Breda, che da sola conta più di quattromila dipendenti, da parte di Hitachi Rail. Ma tornando al nostro mercato, quello dell’Ict, il ruolo di Hitachi Systems Cbt sarà quello di guida e riferimento, in questo settore, per tutta l’Europa. Un ruolo importante e di grande responsabilità.
Stiamo procedendo speditamente ad allineare l’offerta e le competenze. Ma oltre al fronte interno stiamo anche valutando ulteriori acquisizioni, in Italia ed Europa, per attuare la strategia di penetrazione del mercato. Dal punto di vista dei prodotti e delle soluzioni, WebRainbow è stato oggetto di pesanti investimenti ed è già multilingua e multicountry, così come le nuove soluzioni in ambito security, un settore decisamente strategico nella nuova vision di Hitachi Systems Cbt.
Non è un compito facile, fare da capofila. Su quali valori basate la vostra strategia?
Il fattore umano viene prima di tutto. Chiunque può comprare tecnologia, il know-how invece è merce molto più rara. Per questo, parallelamente ai piani di espansione in Europa, abbiamo attivato un progetto di sviluppo sul territorio italiano che prevede da una parte l’assunzione di nuove risorse (dall’inizio dell’anno abbiamo avuto circa 25 nuovi ingressi in azienda) e dall’altra la formazione di giovani talenti che, grazie al programma Hitachi Next Leader Generation appena varato, darà la possibilità a una ventina di persone di entrare nel nostro mondo con un programma di formazione e tutoring. Un programma di impronta giapponese?
No, un’iniziativa nostra, che Hitachi Systems ha sposato. Ci tengo a dirlo perché, a parte il fattore finanziario, la mentalità aperta dei manager del gruppo, e di conseguenza la forte autonomia operativa che hanno lasciato all’organizzazione italiana, sono forse l’elemento più strategico e importante dell’acquisizione. Quello che ci permetterà di conquistare il mercato europeo.
Microsoft sfida Apple in bellezza e produttività Belli, sottili, incredibilmente performanti. Microsoft lancia un guanto di sfida alla concorrente Apple, anzi due: il Surface Pro 4, quarta generazione del tablet nato per la produttività, e il laptop Surface Book. Il richiamo nel nome è già una premessa, ma durante la conferenza di presentazione tenutasi a New York Panos Panay, corporate vice president della divisione Surface Computing, ha fatto un confronto esplicito: Surface Book è due volte più veloce di un MacBook Pro di ultima generazione. Panay non ha avuto paura di descriverlo come “il laptop defini-
tivo” (oltre che il primo di Microsoft) e come “il più potente sul mercato”. Un dispositivo che può soddisfare designer, architetti, ingegneri, video maker e tutti coloro che vogliano utilizzare applicazioni grafiche su uno schermo ampio (13,5 pollici) e ad altissima risoluzione, sfruttando una batteria che può durare 12 ore. Una dotazione di processori Intel Core e schede grafiche Nvidia è racchiusa in un design compatto che da un lato ricorda quello dei MacBook Air e dall’altro permette di utilizzare il dispositivo come un computer classico o come un tablet. Schermo e tastiera sono, infatti, uniti da un meccanismo a fisarmonica e da un gancio. Sul mercato americano costerà dai 1.499 dollari in su, a seconda delle configurazioni. Microsoft ha sfoderato il paragone con Apple anche per esaltare il nuovo Surface Pro 4, quarta edizione del tablet (con tastiera/cover acquistabile a par-
te) focalizzato sulla produttività. “È nettamente il Pc con processori Core più sottile mai presentato”, ha sottolineato Panay. Rispetto alla precedente generazione, il nuovo Surface vanta uno schermo più ampio (la diagonale è passata da 12 a 12,5 pollici) e in grado di visualizzare il 60% di pixel in più. Il Surface Pro 4, inoltre, promette di essere il 30% più veloce del Pro 3 nonché il 50% più veloce rispetto al MacBook Air. I prezzi in Italia partono da 1.029 euro. L’azienda ha anche riprogettato l’accessorio che permette di scrivere e disegnare a mano libera sui due portatili, cioè la Surface Pen, ora capace della massima precisione e naturalezza di interazione. Funziona, infatti, con lo stesso livello di pressione mediamente esercitata per scrivere su carta, ha una “gomma” utile per cancellare ed è ottimizzata per funzionare con gli applicativi di Office, con OneNote e con l’assistente virtuale di Windows 10, Cortana. V.B.
oracle premia i partner del cloud Barra dritta verso il cloud e grande affiatamento con l’equipaggio dei partner si canale. La metafora velistica, che si addice a una delle ormai note passioSauro Romani
ni di Larry Ellison, potrebbe ben spiegare la recente focalizzazione di Oracle Italia nei confronti di un ecosistema ‒ quello dei partner, appunto ‒ che con i recenti sviluppi della tecnologia nella direzione dell’offerta Iaas, Paas e Saas (rispettivamente infrastruttura, piattaforma e software venduti come servizi) sta assumendo un ruolo sempre più centrale nel mercato Ict. I nuovi programmi di canale, messi in campo nel nostro Paese sotto la guida di Sauro Romani, responsabile alliance e channel di Oracle Italia, prevedono un modello a due livelli: i Cloud Value Added Distributor e i Qualified Cloud Resale Partner.
I primi hanno un rapporto diretto con Oracle, mentre tocca ai secondi interfacciarsi con i clienti finali. Questa organizzazione, anche grazie al supporto di numerose iniziative incentivanti (premi per la segnalazione di potenziali clienti, concorsi che eleggono gli operatori più performanti, tour per diffondere la cultura del cloud e spiegare le nuove opportunità agli aspiranti nuovi partner) dovrebbe generare, secondo Oracle, un importante business incrementale. Business che, tra l’altro, sfrutterebbe la forte crescita degli investimenti in tecnologie e servizi cloud prevista in Italia (Assinform, ad esempio, stima un incremento del 37%). 11
IN EVIDENZA
LA PIATTAFORMA CLOUD MADE IN ITALY VA ONLINE L’obiettivo è duplice, ma si riassume comunque in un concetto unico: essere più vicini alle imprese italiane e al lavoro dei chief information officer fornendo loro una piattaforma cloud con la garanzia di una gestione end-to-end, scalabilità, elevati livelli di controllo del servizio e rapidità del supporto. Tutto rigorosamente in lingua. È quanto vuole proporre Tiscali con il lancio delle proprie soluzioni sulla nuvola, rivolte alle aziende del nostro Paese, in un’ottica di trasformazione del proprio business. “È la naturale evoluzione dei servizi di gestione dei dati a consumo su cui Tiscali fonda la propria storia”, commenta Salvatore Pulvirenti, Cio della compagnia di Cagliari. E l’approdo finale? “La conoscenza e la collaborazione diretta con le nostre persone, che operano al fianco delle imprese secondo un approccio di partnership più che di fornitorecliente”, aggiunge il Cio. Molti dei servizi del cloud Tiscali sono basati sull’infrastruttura Helion di Hp e le due realtà operano già insieme a livello globale in Cloud28Plus, l’ecosistema sulla nuvola in cui diversi service provider mettono a disposizione delle grandi aziende un portafoglio di servizi condiviso, garantendo loro una gestione completa ed omogenea su tutto il territorio europeo. In ambito locale, la collaborazione darà luogo allo sviluppo congiunto di soluzioni nel cloud. “Siamo in grado di essere estremamente agili, poiché ci avvaliamo di partner con solide competenze e integriamo componenti di tecnologie differenti e molto complesse, partendo sempre dalla valutazione e dalla valorizzazione del patrimonio tecnologico che l’azienda già pos12
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Salvatore Pulvirenti
Dalle soluzioni gestite “as-a-service” alla nuvola “abilitante”, con offerte a pacchetto per le Pmi e servizi sartoriali per le grandi imprese: evoluzione in chiave business per Tiscali.
siede”, sottolinea Pulvirenti. Fino ad arrivare, in qualche caso, allo sviluppo di soluzioni ibride, di cui Tiscali gestisce comunque l’assemblaggio del servizio finale. “Nel nostro Paese, soprattutto in ambito piccole e medie imprese, ci confrontiamo spesso con i Cio, che cercano di selezionare soluzioni esterne alle proprie infrastrutture per singole aree aziendali”, aggiunge il manager di Tiscali. “Ma quando in gioco ci sono le aree critiche di business, le esigenze sono diverse. Il cloud può diventare un abilitatore, sul fronte della riduzione dei costi e dell’ottimizzazione dei processi. Ed è questo il minimo comune denominatore della nostra offerta”.
Che si diversifica a seconda degli interlocutori: le Pmi, per cui è fondamentale la semplificazione della gestione quotidiana, avranno a disposizione tra le altre cose prodotti “a scaffale” per il backup, lo storage, i server virtuali, la gestione della mobilità. Le realtà di dimensioni maggiori potranno invece contare su servizi a progetto, in ottica di una vera e propria partnership tecnologica, per innovare anche i processi più complessi: virtual desktop infrastructure, Billing-as-a-Service, security, disaster recovery. E altri servizi sono ancora in gestazione, senza però rinunciare mai alla sicurezza. Che “deve partire dalla residenza del dato”, afferma Pulvirenti. Tra i progetti più importanti, la futura realizzazione di un Security Operations Center (Soc) nell’ambito della gara Spc Consip che l’azienda di Renato Soru si è aggiudicata lo scorso aprile. “Erogheremo anche servizi di sicurezza gestiti in cloud per la Pubblica Amministrazione, dove è compresa anche tecnologia per la valutazione degli eventi di sicurezza Security Information & Event Management System (Siem), disponibile sempre online”, conclude Pulvirenti.
mobilità SMART Auto connesse, veicoli intelligenti, sicurezza stradale, tecnologie per migliorare la vita urbana. Sono questi alcuni dei temi al centro della dodicesima edizione di Smart Mobility World, in programma dal 28 al 30 ottobre all’interno dell’Autodromo di Monza. Il circuito ospiterà per tre giorni un evento articolato in conferenze internazionali, convegni, aree espositive e opportunità di incontro tra le imprese.
l’it forum vede la crescita La digital transformation è stata al centro dell’attenzione della sedicesima edizione del Forum Ict, organizzato prima dell’estate da Grandangolo Communications. Focalizzato sul mondo della distribuzione, il Forum ha evidenziato, anche grazie all’intervento di Isabel Aranda, country manager Italy di Context, alcuni interessanti trend. Secondo la società di ricerca, il mercato del canale Ict in Italia è cresciuto del 13,4% contro una media europea del 7%, continuando a privilegiare i settori delle telecomunicazioni (+112%), del data center networking & security (+27%) e infine quello legato ai server (+16%). In calo invece il giro d’affari legato agli investimenti sui sistemi operativi, le applicazioni office e le licenze software. “I numeri dicono che oggi non è più possibile, per chi gestisce un data center, evitare l’inevitabile, provando a ottenere il massimo dalle infrastrutture legacy”, ha detto nel corso del dibattito Paolo Lossa, regional director di Brocade Italia e Iberia. “Sono necessari cambiamenti radicali nella direzione del softwaredefined networking, a sua volta parte di un movimento più ampio verso reti Ip virtualizzate”.
Stefano Venturi
Hewlett Packard Enterprise presenta ufficialmente il nuovo logo e la nuova strategia anche in Italia. Le prime impressioni a caldo con Stefano Venturi.
quattro nuovi pilastri per la casa hewlett packard “Focalizzarci sul mercato enterprise mantenendo lo spirito di una startup”. Con questa forte dichiarazione d’intenti inizia ufficialmente il novo percorso di Hewlett Packard Enterprise dopo lo split, annunciato già a ottobre 2014, con Hp Inc. Technopolis ha incontrato Stefano Venturi, corporate vice president e amministratore delegato del Gruppo Hewlett Packard in Italia, proprio in occasione del lancio ufficiale della nuova organizzazione. I pilastri della nuova strategia sono: infrastrutture ibride, sicurezza, Big Data e smart workplace. Sembra uno strappo netto dal vostro storico core business, quello dei sistemi.
Non lo è. Le architetture ibride, e in particolare quelle basate su Openstack, sono le uniche che consentono alle imprese di gestire con flessibilità i picchi di utilizzo delle risorse, e noi abbiamo tutti i tasselli delle tecnologie e delle competenze per costruire architetture di questo tipo. La sicurezza è ormai un concetto trasversale per l’It delle imprese, e proprio le infrastrutture ibride hanno rilanciato con forza questo tema. Dai Big Data non si può più prescindere; sono in-
dispensabili, tra l’altro, proprio per anticipare attacchi e pericoli a dati e sistemi. Quello del workplace, infine, è un trend strategico, perché comprende tutto quello che può essere orchestrato sul posto di lavoro e in mobilità per far funzionare l’azienda. Insomma, un modo diverso di vedere la vecchia offerta?
No, è un cambiamento forte e prima di tutto culturale. Tanto che stiamo rivedendo tutti i programmi di training e di ingengerizzazione della nostra offerta proprio per adattarli a questi quattro pilastri. Non avremo più una visione a silos (server, storage, software) ma saremo molto più agili e in grado di capire le esigenze dei nostri clienti. Essere più agili significa ridurre le spese in ricerca e sviluppo?
Non rinunciamo al nostro Dna. Continuiamo a investire pesantemente sui nostri centri di ricerca e di competenza, molti dei quali sono proprio in Italia e spesso agiscono da guida per le altre country. Parliamo di cloud, Internet delle cose, Industry 4.0. Tutti temi strategici per la nuova Hewlett Packard Enterprise. 13
IN EVIDENZA
l’app store italiano è collaborativo Makeitapp, startup milanese che vuole creare un catalogo da mille applicazioni, sceglie la formula della collaboration e sfida i colossi mondiali. Una casa editrice di software e contenuti che utilizza la modalità collaborativa per realizzare le sue opere. Non è facile definire Makeitapp, startup italiana fondata nel 2013 da tre amici decisi a cavalcare l’onda di due trend sicuramente forti: lo sviluppo di applicazioni mobili e la collaborazione via Web tra professionisti. I fondatori Giulio Roggero, Federico Soncini Sessa e Michele Facco, forti di una buona dose di know-how accumulato realizzando a loro volta applicazioni (Trenord è uno dei loro clienti), dopo qualche mese di gestazione a settembre 2013 vanno online e rendono visibile il portale. Le componenti del progetto imprenditoriale sono la community di coloro che de-
siderano offrire le proprie competenze (programmatori, grafici, traduttori, musicisti, project manager e, non ultimi per importanza, coloro che dispongono di contenuti interessanti) e il catalogo delle app, che vengono spinte e pubblicizzate da Makeitapp. Tutto il processo creativo di un nuovo prodotto parte da un individuo (professionista, azienda o anche semplicemente un utente che abbia un’idea da sviluppare) che propone alla community un’idea. Gli specialisti di Makeitapp vagliano l’affidabilità del proponente e, in caso di responso positivo, assegnano un tutor al progetto. Da questo momento, altri utenti possono candidarsi a partecipare o essere invitati dall’ideatore. Nasce un team
che non viene retribuito per il lavoro che mette a disposizione, ma con una percentuale sulle vendite dell’app. A proposito di percentuali, Makeitapp tiene per sé il 30% dei ricavi della vendita, una quota molto più bassa rispetto ai più blasonati Store (che arrivano fino all’80%). Per questo motivo, il modello di business della startup milanese prevede il raggiungimento di numeri importanti. “Fino a ora abbiamo pubblicato oltre quattrocento idee sulle mille che ci sono pervenute”, dicono i tre giovani fondatori, “ma puntiamo a essere il primo editore mondiale in termini di numero di prodotti. Ea Sports, che è l’editore più prolifico, ha a catalogo circa mille applicazioni”.
record sul giro del web Va forte la Williams e lo ha dimostrato anche nel corso dell’ultimo Gran Premio d’Italia, disputato a Monza a settembre. Il sito Web della scuderia, invece, non era così veloce: affidato a un’agenzia esterna, era poco performante e poco coinvolgente nei confronti dei tifosi di Formula 1. Così il management, prima dell’inizio del campionato 2015, ha deciso di riportare all’interno dell’organizzazione il controllo e le competenze, facendosi aiutare da Avanade. Quest’ultima ha scelto la tecnologia Sitecore e l’ambiente Microsoft Azure per progettare e offrire un sito finalmente all’altezza del brand inglese. I benefici sono stati immediati, sia in termini di costi sia in termini di prestazioni. Il nuovo sito, più dinamico e adatto a diffondere le informazioni ai tifosi sparsi in tutto il mondo, ha 14
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subito incrementato le visite, oltre ad avere un look decisamente più moderno e dinamico. Il progetto? Veloce come la monoposto: è durato solo un mese.
l’opinione la sfida contro il tempo si vince con la tecnologia Nell’era dell’Internet of Things l’evoluzione della tecnologia è talmente rapida da trasformare ogni idea e progetto in una sfida contro il tempo. Al tempo stesso, è fondamentale realizzare servizi che rispondano in modo efficace e personale alle richieste degli utenti. È un dato di fatto che i modelli di business debbano essere riprogettati e allo stesso modo dovranno essere rivisti i processi organizzativi che portano le aziende e i loro prodotti e servizi sul mercato. Rispondere in modo efficace a questa sfida è tutt’altro che semplice: vuol dire creare applicazioni subito comprensibili e usabili, con tecnologie che permettano di realizzare in tempi ridotti nuovi servizi. Significa creare applicazioni che sfruttano dati complessi, strutturati e non, i quali dovranno essere immediatamente interpretabili e consentire alle aziende reazioni personalizzate e in tempo reale. Stiamo vivendo una nuova evoluzione dei bisogni. Gli utenti sono molto esigenti e capaci di recuperare informazioni da più fonti per poi confrontarle e prendere velocemente decisioni consapevoli. Stiamo parlando dell’evoluzione della Digital Generation, che ha preso così le sembianze di una “Now Generation”: la generazione del “qui e ora”, che vive l’ossessione del presente, unica dimensione che abbia un significato. Diventa quindi fondamentale riuscire a distinguersi, fidelizzare il cliente e anticipare i tempi. Gli approcci cosiddetti agile (capace di adattarsi ai cambiamenti) e lean (snello, mirato ad annullare gli spre-
Dai principi che ispirano lo sviluppo software all’analisi dei dati per migliorare le relazioni con il cliente: oggi tutti i tipi di business possono e devono guadagnare velocità.
Leo Pillon
chi) permettono di raggiungere questi obiettivi. Altro tassello fondamentale è il passaggio dal Customer Relationship Management al Customer Experience Management. Se per Crm intendiamo la gestione della relazione del cliente, il Cem è la gestione dei processi di servizio verso il cliente, capace di valutare il “prima, durante e dopo” della sua esperienza di consumo e le sue aspettative, misurando il feedback. In un sistema di Cem la tecnologia è centrale ma conta anche l’investimento a lungo termine in risorse umane, cultura aziendale e processi organizzativi. Per quanto riguarda lo sviluppo sof-
tware, le Reactive Application e i quattro principi su cui si basano – Responsive, Resilient, Elastic e Messagedriven – permettono di ottenere applicazioni flessibili, scalabili e basate sugli eventi. Associando a questo l’adozione di architetture moderne, basate sul concetto di micro-servizi, e linguaggi evoluti (per esempio Scala) sarà possibile ottenere una riduzione del time to market. Collante di tutti questi elementi è il trattamento delle informazioni. I Big Data possono essere usati per conoscere e indirizzare eticamente il rapporto con il cliente, anche attraverso applicazioni velocemente disponibili, realizzate secondo principi di user experience, reattive e capaci di imparare. Per raggiungere tali risultati è necessario introdurre il concetto di Fast Data, cioè la combinazione di dati storici e non, strutturati e non, con i dati in movimento (tipici dell’Internet of Things) per fornire informazioni a valore aggiunto in realtime. La naturale evoluzione dei Fast Data saranno, prevedibilmente, gli Smart Data. Questi ultimi, sfruttando architetture innovative e scalabili, consentiranno di armonizzare la raccolta, il collegamento e la gestione di grandi volumi di dati eterogenei con la capacità di elaborare contenuti semantici sia espliciti (per esempio derivati da analisi del linguaggio naturale) sia impliciti (come nel machine learning e nei processi inferenziali). Leo Pillon Ad e fondatore di Databiz 15
IN EVIDENZA
seconda mano per il software Si comincia a Padova il 20 ottobre per finire a Catania il 29. Il mini-tour organizzato da Relicense, multinazionale tedesca specializzata nell’acquisto e nella vendita di software di seconda mano, ha lo scopo di sensibilizzare ulteriormente manager e imprenditori sull’opportunità di valorizzare le licenze inutilizzate o di risparmiare acquistando programmi “usati”. Ma il tour è anche l’occasione per fare il punto su un anno di lavoro, visto che il co-fondatore Stefan Buschkuehler, direttore vendite internazionali, e Corrado Farina, territory manager per l’Italia, hanno inaugurato ufficialmente la sede del Belpaese nel 2014. “L’85% delle aziende ha un surplus di software”, dice Buschkuehler, “anche se molti non se ne accorgono. E non sanno che possono venderlo, legalmente, ottenendo un importante vantaggio economico”. “L’Italia è un mercato molto promettente”, gli fa eco Farina, “abbiamo raggiunto i cento clienti nel primo anno di attività e ci sono tutte le premesse per raddoppiare questa cifra. Per farlo, però, dobbiamo far capire a Cio, Cfo e Ceo il vero potenziale di questa opportunità. Ecco perché abbiamo deciso di portare sul territorio la testimonianza di esperti legali e fiscali, organizzando questo tour”. Corrado Farina
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CON LA “WAR ROOM” VIRTUALE SI PROGETTA IL FUTURO
LinkedDesign è un’attività di ricerca quadriennale, cofinanziata dell’Unione Europea, per lo sviluppo di strumenti e metodologie che possano migliorare la gestione delle informazioni di prodotto, la collaborazione delle persone e l’efficienza dei processi di progettazione e produzione. L’iniziativa ha coinvolto 14 partner in tutta Europa, suddivisi tra aziende industriali, enti di ricerca e fornitori di soluzioni Ict innovative. Il progetto si è basato su due pilastri: l’utilizzo delle informazioni di prodotto, grazie alle tecnologie dell’Internet delle cose, e l’applicazione della filosofia “lean”, finalizzata a rendere semplice e snello l’accesso e utilizzo dei dati registrati. LinkedDesign ha sviluppato venti strumenti differenti, fruibili dal mondo industriale attraverso Virtual Obeya: una piattaforma di collaborazione modulare, accessibile via Web, il cui concetto richiama le originali “large room” delle aziende giapponesi. Stanze dove i team di progetto si riuniscono per attaccare sulle pareti i documenti e le informazioni utili a prendere decisioni sul flusso di lavoro. Virtual Obeya permette di estendere questo metodo di collaborazione
Seguendo la filosofia delle obeya giapponesi, stanze per il brainstorming, LinkedDesign migliora i processi produttivi. in tempo reale in un ambiente virtuale, visualizzando informazioni identiche e interagendo senza essere fisicamente nello stesso luogo. La sua semplicità d’uso e l’elevata flessibilità fanno della Virtual Obeya una soluzione estremamente versatile e utilizzabile da diverse funzioni aziendali (progettazione e produzione) o come strumento di supporto per la manutenzione di impianti e macchinari. All’interno dei singoli ambienti di collaborazione è possibile, inoltre, utilizzare collegamenti a strumenti differenti, tutti a supporto degli utilizzatori: Erp, file Cad, soluzioni per la gestione del ciclo di vita del prodotto e così via. LinkedDesign è sviluppato in collaborazione con diversi enti di ricerca e aziende, tra cui Sap, Comau, Volkswagen Group, Trimek, Aker Solutionse e Holonix. Jacopo Cassina, AD di Holonix
SCENARI | Cloud Computing
Sul futuro della nuvola abbondano numeri, previsioni e scommesse. Come quella sulla crescita delle applicazioni Webbased utilizzate in azienda, o sui benefici economici attesi nei prossimi anni. Ma un terzo dei responsabili It ancora non ha elaborato una vera strategia.
gli itinerari del CLOUD
O
rientarsi fra i tanti numeri del cloud computing, quelli che emergono dagli studi e dalle previsioni delle società di ricerca e dei vendor, non è facile. Anche perché il fenomeno è frammentato sui diversi approcci alla nuvola, dal cloud privato al pubblico, passando per il modello ibrido. Una considerazione di fondo è però valida per tutto questo scenario, e la riassume uno studio realizzato dall’Economist Intelligence Unit per conto di Ibm: “I benefici del cloud superano i suoi svantaggi”, recita l’introduzione dello report. “Le aziende non si chiedono più se la nuvola sia un tormentone o una moda passeggera. Adesso si preoccupano di più della possibilità di compiere errori costosi rimanendo avvinghiate alle 18
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vecchie tecnologie”. E per non rimanere “avvinghiate” le aziende stanno decisamente investendo: a detta di Technology Business Research, la spesa per l’Infrastructure-as-a-Service dai 23 miliardi di dollari di quest’anno salirà a 34 miliardi di dollari nel 2018, con un tasso di crescita annuo del 10% circa, mentre il mercato del Software-as-a-Service passerà da 49 a 67 miliardi di dollari nel medesimo lasso di tempo (la previsione è di Tbr, Technology Business Research). Altri calcoli, come quello di Gartner, sono lievemente più riduttivi per lo IaaS e indicano un giro d’affari globale di 16,5 miliardi per il 2015. Per quanto riguarda invece il Platformas-a-Service, nel lungo periodo il giro d’affari esploderà, passando dagli 1,7 miliardi di dollari dello scorso anno ai 68,3 miliardi ipotizzati da Wi-
kibon per il 2026. Attualmente il segmento è dominato da Salesforce. com (24% di market share), Amazon (17%) e Microsoft (10%). I motori della crescita
Uno dei fattori trainanti nei prossimi anni sarà la conquista di nuovi adepti fra aziende ancora legate a infrastrutture legacy, dati e applicazioni custoditi in casa. Ma conteranno soprattutto la diversificazione e l’ampliamento dei servizi da parte delle aziende già oggi “mature” dal punto di vista dell’adozione del cloud. Secondo l’Economist, in particolare, molte organizzazioni tecnologicamente avanzate lo stanno sfruttando per espandere i canali di vendita e di promozione dei loro prodotti e servizi. Al contrario, le realtà più “acerbe” mirano ancora soprattutto al taglio
Il fattore agilità
Chi si divide la torta del Paas 2% 2% 37 %
2%
3% 3% 10 % 17 %
Google Google Oracle Oracle Netsuite Netsuite ServiceNow ServiceNow Ibm Ibm Microsoft Microsoft Amazon Amazon Salesforce Salesforce
24 %
Altri Altri Fonte: Wikibon, primo semestre 2015
dei costi e delle inefficienze, più che alla generazione di nuovo reddito. La moltiplicazione delle app
Secondo la società di consulenza Bcsg, oggi il 64% delle piccole e medie imprese già utilizza applicazioni basate su cloud, in media tre a testa. Nei prossimi due o tre anni, il numero medio passerà a sette e la percentuale di Pmi aliena al loro utilizzo si ridurrà al 12%. Fra le tipologie di applicazioni Web-based in ascesa spiccano quelle di analytics: secondo MarketsandMarkets, il loro giro d’affari passerà dai 7,5 miliardi di dollari del 2015 ai 23,1 miliardi di dollari del 2020. Oltre ai servizi di cloud storage ormai diffusi endemicamente, le tipologie di applicazioni business più popolari rimangono quelle di Crm, quelle di gestione finanziaria/contabile e quelle mirate ad aumentare la capacità di calcolo per sostenere specifici software aziendali. Secondo l’Eurostat, nel Vecchio Continente il 46% delle organizzazioni attualmente sfrutta servizi che rientrano in queste categorie.
La seconda ondata
Passata la prima “onda distruttrice”, assisteremo a una nuova e più matura fase. Fra coloro che hanno già sperimentato il cloud, una metà abbondante (53%) si attende di raccogliere benefici economici, cioè ricavi maggiori, nei prossimi due anni: un dato indubbiamente positivo, anche se non esaltante, emerso da un’indagine condotta da Idc per conto di Cisco interpellando 3.400 decisori It in diversi Paesi. Lascia più perplessi un’altra percentuale, quella del 32% dei responsabili It che ammettono di non aver nemmeno elaborato una precisa strategia di utilizzo del cloud per la loro azienda. Per parlare di vera maturità dunque sarà necessario uno sforzo ulteriore, come riassunto da Robert Mahowald, vice president della divisione SaaS & cloud software di Idc: “La maggior parte delle aziende non ha fatto molta strada sul percorso verso il cloud e deve capire quali competenze, metodologie e best practice servano per salire di livello”. Valentina Bernocco
Quando si parla di agilità, le aziende spesso si sopravvalutano. Ovvero pensano che i propri modelli di business e di utilizzo dell’It siano sufficientemente flessibili e reattivi ai cambiamenti, mentre in realtà non lo sono. Secondo uno studio commissionato da Oracle e condotto su un migliaio di chief information officer di grandi aziende in in Europa, Medio Oriente e Africa, il 62% dei Cio definisce come “agile” la propria organizzazione. Eppure una percentuale simile di intervistati, il 58%, ammette di non avere un’infrastruttura It in grado di rispondere alla rapidità con cui i competitor dell’azienda lanciano nuove applicazioni. “Sta emergendo una certa mancanza di consapevolezza su come poter diventare più agili”, ha commentato Tino Scholman, vice president per l’Emea della divisione cloud di Oracle. “Molte aziende si considerano già agili, ma non hanno ancora realizzato quanto le soluzioni Platform-as-a-Service possano aiutarle a lanciare rapidamente nuovi servizi”. Solo il 34% degli interpellati, infatti, afferma di comprendere completamente che cosa siano le soluzioni PaaS, mentre il 20% ammette di non aver compreso affatto il concetto. Inoltre, solo il 44% delle aziende è in grado di sviluppare, testare e implementare nuove applicazioni business da usare su dispositivi mobili in un tempo non superiore ai sei mesi; appena il 27% è in grado di farlo in un mese.
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SCENARI | Cloud Computing
L’ITALIA È IN PRIMA FILA Quattro aziende su dieci adottano soluzioni Web-based: siamo terzi in Europa. Ma a dominare sono ancora in larga parte i servizi mail. Il futuro? È ibrido.
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e fosse un frutto sarebbe quasi giunto alla piena maturazione. È il cloud in Italia che, per una volta, potrebbe rappresentare una delle eccellenze del nostro Paese. Secondo Eurostat, infatti, la percentuale di adozione della nuvola tra le aziende della Penisola (con più di dieci dipendenti) arriva al 40%, superata soltanto dalla Finlandia (51%) e dall’Islanda (43%). La media dell’Unione si ferma al 19%. E il dato è in costante crescita: nel 2014, secondo rilevazioni di Sirmi, il comparto valeva 949 milioni di euro, in aumento del 20,9% rispetto al 2013 e in controtendenza rispetto all’andamento del mercato It (-2,2%). Segno che il mondo imprenditoriale italiano ha finalmente compreso il valore aggiunto rappresentato dalle soluzioni cloud. Certo, come riportato 20
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dall’Eurostat, la maggior parte delle imprese si affida alla nuvola soprattutto per gestire il traffico email (86%) mentre sono minoranza quelle che portano off-premise software complessi come i Crm o altre applicazioni finanziarie. Ma in futuro le cose cambieranno, con il boom delle soluzioni ibride, capaci di offrire benefici unici. “Unendo il meglio delle soluzioni private e pubbliche, le aziende possono così garantirsi la sicurezza, la continuità e il controllo di cui hanno bisogno”, spiega Alberto Clavarino, responsabile vendite di Netalia. “Sono contemporaneamente in grado di scalare rapidamente e a costi contenuti nel caso debbano lanciare un nuovo servizio o una campagna di marketing. Oggi due terzi dei responsabili It nel mondo dichiara di avere adottato una soluzione ibrida e Idc
ritiene che, a partire dal 2020, sarà questa architettura a dominare la scena”. E il trend riguarda già oggi anche le Pmi. “Fino alla metà del 2013 la tipologia di azienda più orientata al cloud era la grande impresa”, aggiunge Stefano Sordi, direttore marketing di Aruba. “Ora registriamo un cambiamento, perché anche le piccole e medie imprese hanno iniziato a preferire queste soluzioni. Chi disponeva di infrastrutture dedicate si sta preparando, attraverso roadmap di trasformazione, a integrare in modo fluido processi flessibili e automatici. Inoltre, si sta lavorando alla definizione della cosiddetta ‘cloud enabling infrastructure’: l’insieme dei processi e dei componenti che interessano l’ambito infrastrutturale, applicativo e d’interazione degli utenti aziendali con le piattaforme It”. A.A.
UNA NUVOLA DI DATA CENTER Latenza ridotta al minimo, dati “italiani” e un network di sale macchine gemelle: è questa la ricetta vincente di Ibm per lo sviluppo del cloud nel nostro Paese. Anche nelle Pmi.
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opo diversi anni di assestamento, le tecnologie cloud stanno trovando una diffusione sempre più ampia nelle aziende, anche italiane. Usciti da una logica di terrore misto ad adorazione, dovuta alla scarsa conoscenza del mezzo e alle sue virtù propagandate come taumaturgiche, anche la nuvola è ora vista come uno strumento per lavorare e sviluppare business. Al pari di molti altri. Lo scorso giugno Ibm ha inaugurato vicino a Milano il suo primo data center tutto rivolto al cloud situato nel nostro Paese, basato su infrastruttura SoftLayer. Parliamo, anche di questo, con Andrea Viarengo, cloud services leader di Ibm Italia. Qual è la strategia di Ibm verso il cloud e, in particolar modo, per le soluzioni ibride? I numeri del nostro Paese nel cloud ibrido sono in continua e costante crescita, grazie anche agli investimenti di Ibm, effettuati sempre con un obiettivo preciso: ridurre gli attuali disagi causati dalla distanza. Poter contare su una “sala macchine” per il cloud localizzata nella Penisola porta all’impresa italiana un innegabile vantaggio: disporre di
Andrea Viarengo
queste informazioni come se le avesse effettivamente on-premise. Oltre alla bassa latenza, si può riscontrare un ulteriore valore aggiunto sotto il profilo normativo: l’impegno di Ibm è di non spostare per alcuna ragione i dati dal territorio italiano, offrendo così una soluzione ai possibili problemi legislativi che potrebbero sorgere con la delocalizzazione delle informazioni. Che cosa distingue la vostra offerta da quella di altri player? Innanzitutto, una rete di quaranta data center collegati tra loro in tutto il mondo grazie a una rete privata ad alta velocità con connessione a 20 Gb: è come avere un’enorme sala macchine a livello globale. Inoltre, la capacità di standardizzare lo schema di funzionamento dei data center. Un valore aggiunto dal punto di vista operativo, con la possibilità di configurare e rendere disponibile una macchina in 15 minuti. Il polo di Milano completa concretamente il centro di Roma, che già offriva soluzioni cloud e di disaster recovery. Come aiutate le aziende italiane nel cammino verso il cloud? La struttura di Ibm in Italia prevede una decina di consulenti e si occupa
esplicitamente di “cloud enabling”: illustriamo che cosa significhi realmente la “nuvola” e affianchiamo le imprese in questo cambiamento. Ad esempio, siamo in grado capire quali carichi di lavoro possano adattarsi al cloud e quali no. I parametri vengono elaborati per ottenere una mappa di trasformazione e mostrare al cliente quali passi compiere. L’offerta è solitamente rivolta a realtà di medie e grandi dimensioni e alla Pa, ma da poco abbiamo aperto anche alle Pmi. L’evoluzione tecnologica deve essere accompagnata anche da una trasformazione di competenze. A che punto siamo in Italia? Abbastanza indietro. Dobbiamo coinvolgere di più il mondo universitario. Si ha bisogno di professionisti nell’analisi dei dati, ad esempio, perché il cloud è uno dei principali motori per il mondo dei social network e degli analytics. Invece, nel nostro Paese il ruolo del data scientist è ancora poco riconosciuto. Servono persone capaci di aggregare dati in modo diverso, da fonti non omogenee. Per questo Ibm mantiene aperto un canale con gli atenei, per capire che ruolo potranno svolgere i giovani in un mercato del lavoro in costante cambiamento. Certo, è difficile fare previsioni esatte, perché l’esperto di cloud è un professionista a tutto tondo, che deve acquisire “orizzontalità” per capire quali competenze e servizi vadano uniti per offrire qualcosa di nuovo. Purtroppo, quello che si insegna in Italia è spesso obsoleto: i programmi di cinque anni fa sarebbero quasi tutti da aggiornare. Alessandro Andriolo 21
SCENARI | Smart working
LAVORO FLEX: UN FRUTTO TROPPO ACERBO Meno di un quinto dei professionisti italiani beneficia dei vantaggi del lavoro flessibile e appena un’azienda su dieci li concede a tutti i suoi dipendenti. Serve un cambiamento culturale, prima che tecnologico.
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irca otto lavoratori italiani su dieci, l’81%, sognano di poter gestire in modo migliore la propria giornata operando da casa o da altri luoghi diversi dall’ufficio. Per appena il 19%, tuttavia, questo sogno è già realtà. Le due percentuali, frutto di un’indagine condotta da ContactLab e sponsorizzata da Citrix, riassumono bene lo scenario dello smart working in Italia: quello di un desiderio sempre più diffuso che però raramente trova soddisfazione. Lavoro agile significa potersi slegare, anche occasionalmente, dal vincolo della scrivania e di orari rigidi, ma per farlo servono due tipi di cambiamento: culturale e tecnologico. “A livello culturale”, spiega Benjamin Jolivet, country manager di Citrix Italia, “esistono ancora molte resistenze verso forme di lavoro basate più sul raggiungimento di obiettivi concordati che sul numero di ore trascorse in ufficio. Questo ha a che fare da una parte con una classe dirigente ancora appartenente alla vecchia generazione, dall’altra con un sotto-utilizzo delle tecnologie oggi a disposizione”. Gli strumenti, spesso, in azienda già esistono: quelli per comunicare a distanza a costo zero (VoIP, applicazioni di instant messaging e videoconferenza, oltre naturalmente 22
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alle email), quelli per collaborare su progetti comuni (lavagne interattive, servizi di file sharing basati su cloud), quelli per trasformare un qualsiasi notebook o addirittura un tablet o uno smartphone in un punto di accesso alle applicazioni di lavoro (grazie alla virtualizzazione e, ancora una volta, al cloud). Desiderio poco accessibile
Secondo l’indagine di Citrix, basata su un campione di 1.200 individui rappresentativo dei lavoratori italiani tra i 25 e i 54 anni e utenti regolari di Internet, soltanto il 19% dei professionisti svolge con maggiore o minore frequenza le proprie mansioni da casa o da altro luogo diverso dall’ufficio. Il dato peggiora se si guarda al numero di aziende che ammettono questa modalità per tutti i loro dipendenti: meno del 10%. Quasi una su quattro, il 39%, permette invece il telelavoro nel caso si verifichino condizioni particolari, come la maternità o situazioni familiari che richiedano la presenza a casa. Il dato trova riscontro nelle associazioni mentali fatte dagli intervistati: la maggior parte considera come “figure più adatte” a usufruire del lavoro agile i genitori con figli piccoli (62%). Il quadro è confermato anche dagli studi
Regole assenti, il LATO OSCURO DEL BYOD
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uella dei dispositivi personali usati dai dipendenti (anche) per lavorare, per controllare l’email aziendale, un’applicazione o un database continua a essere una questione controversa. Terminata quasi ovunque l’epoca e soprattutto i budget dei dispositivi aziendali, il “bring your own device” è una pratica sempre più ben accetta ma ancora non adeguatamente controllata. Secondo un’indagine di F-Secure, condotta lo scorso giugno intervistando 1780 professionisti It, l’87% delle aziende francesi, britanniche, polacche e scandinave considera la sicurezza associata al Byod come una “sfida complessa”. Una percentuale ancor più alta, il 92%, pensa che risolverla diventerà prioritario nei prossimi dodici mesi, qualora non lo sia già. Eppure questi dati cozzano con un altro, il misero 36% che racchiude le aziende attualmente dotate di una soluzione di gestione dei dispositivi mobili. E vale la pena notare che le imprese con meno di 200 dipendenti
(da 25 a 199) presentano lacune di sicurezza superiori alla media: appena il 29% possiede una soluzione di mobile device management (contro il 36% della media del campione), altrettante implementano soluzioni di sicurezza specifiche per smartphone e tablet (contro il 37%) e solo il 41% utilizza reti Vpn (contro il 50%). I rischi ci sono. Uno studio sponsorizzato da Aruba Networks e condotto da Vanson Bourne intervistando 11.500 professionisti di 23 Paesi ha svelato che in Italia il 35% dei dipendenti aziendali ha smarrito informazioni o dati personali e l’8% ha perso dati di carattere finanziario della propria organizzazione a causa dell’uso improprio del dispositivo mobile. Quasi la metà dei lavoratori, il 47%, ammette di essere propenso a disubbidire alle policy It per poter raggiungere un obiettivo, per esempio per svolgere più facilmente un’attività. L’eccessivo rigore, dunque, non pare essere il metodo più adatto per arginare i rischi del bring your own device.
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SCENARI | Smart working
dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, secondo cui in Italia il lavoro a distanza nel 2013 risultava praticato nel 20% delle imprese ma era una possibilità concessa a tutti i dipendenti appena nel 2% dei casi. “Nonostante la penetrazione del mobile sia stata molto elevata e molto veloce in Italia”, prosegue Jolivet, “le aziende sono rimaste legate a una cultura che di fatto identifica il posto di lavoro con il luogo della produttività. Le cose però sono destinate a cambiare, perché le nuove generazioni di professionisti sono abituate a vivere connesse e a lavorare in modi e tempi molto diversi”. Smart è anche utile?
Una grossa fetta di chi in Italia ha sperimentato lo smart working, il 78%, dichiara di aver migliorato sensibilmente la propria condizione lavorativa e le proprie giornate, riducendo il tempo perso per gli spostamenti (voce citata dall’87% degli intervistati di Citrix) e bilanciando meglio le esigenze professionali e personali (86%). L’entusiasmo verso il lavoro flessibile si raffredda un po’ se dal generico popolo dei professionisti si passa alla categoria dei manager e in particolare a quelli italiani. Dei 44mila interpellati da un’indagine di Regus in diversi Paesi, il 72% si è schierato in favore del lavoro flessibile (un dato comunque inferiore all’81% della survey di Citrix) mentre
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nel Belpaese la percentuale si ferma al 58%. La differenza fra Italia ed estero è non solo qualitativa: da noi l’urgenza di tagliare i costi di gestione degli uffici è più sentita, citata dall’87% dei manager (contro l’81% della media globale) fra le priorità da assecondare ricorrendo allo smart working. Di soldoni parla anche l’Osservatorio del Politecnico di Milano, calcolando che l’adozione di pratiche di smart working nello Stivale potrebbe significare una riduzione di 10 miliardi di euro alla voce costi fissi e un guadagno di produttività corrispondente a 27 miliardi di euro. La strada è dunque ancora lunga prima di giungere a questi traguardi numerici e, nel tempo, a mete ancora più elevate. Il sogno di poter lavorare con maggiore libertà di spostamento e di orario potrà combinarsi con il piacere di stare in ufficio ma in un ufficio diverso, un ambiente anch’esso meno rigido e meno chiuso. Così lo immaginano, intorno all’anno 2020, gli oltre duemila professionisti di 15 Paesi intervistati da Coleman Parkes Research (l’indagine è stata sponsorizzata da Ricoh e risale a fine 2014): un luogo corredato di sistemi per la videoconferenza e la telepresenza, ma anche popolato di tecnologie indossabili usate per supportare l’esecuzione di attività lavorative, e poi ancora di computer in grado di dialogare con gli umani grazie all’intelligenza artificiale. Valentina Bernocco
coworking: UFFICIO LOW COST Negli uffici moderni solo il 50% della superficie disponibile viene utilizzato dai dipendenti, sempre più abituati a lavorare al difuori dei classici spazi aziendali, al punto che il 54% di loro è ormai classificabile come “mobile”. Le imprese sono quindi costrette a sostenere spese elevate per mantenere uffici utilizzati poco e male. È in questo contesto che si inserisce il coworking, che profetizza la condivisione totale degli spazi con altri professionisti. Costola di quella che viene definita genericamente sharing economy, il coworking consente in particolar modo ai lavoratori non strutturati, come i freelance, di fruire di ambienti attrezzati (connessione Internet, stampanti, scanner e così via) abbattendo i costi grazie alla ripartizione delle spese con gli altri occupanti. Un trend che sta prendendo sempre più piede anche in Italia, spinto dalla crisi economica. Nel nostro Paese, secondo myCowo, sono attivi quasi trecento centri per il coworking, con Milano a guidare la classifica (59). Il costo medio giornaliero per postazione è di 25 euro, mentre quello mensile di 263. Il 53% dei coworker è freelance e il 62% è uomo, anche se le donne sono in crescita costante. I primi cinque motivi per condividere l’ufficio? Flessibilità dei tempi e interazione con altre persone (86%), condivisione della conoscenza (82%), nuove opportunità di lavoro (79%) e, soltanto ultimo, il basso costo dell’affitto (61%). A.A.
a spingere? non solo i millennial Vmware punta su tecnologie software defined, sistemi iperconvergenti e mobility per aiutare le imprese nella transizione verso lo smart working. Appoggiata soprattutto dai dipendenti tra i 35 e i 44 anni.
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a nuova mission aziendale è aiutare i clienti nella transizione verso la “digital age”. Di transizioni Vmware ne sa qualcosa, visto che solo pochi anni fa era praticamente un’azienda monoprodotto, leader nel settore della virtualizzazione, mentre ora si propone, su scala molto più ampia, come player a tutto tondo della trasformazione digitale. A guidare la multinazionale in Emea, da qualche mese, c’è Jean-Pierre Brulard, che Technopolis ha intervistato proprio sul tema dello smart workplace. Come si innesta il tema del workplace con l’offerta di Vmware?
Si può dire che, con la virtualizzazione del desktop, la soluzione che ci ha fatto conoscere in tutto il mondo, siamo stati i precursori di quella che oggi è una tendenza globale: la virtualizzazione del posto di lavoro. Tra le componenti principali di questo trend ci sono la mobility (con la gestione dei device), le app, il cloud e le infrastrutture iperconvergenti e software-defined. Esattamente i quattro pilastri su cui si basa oggi la nostra offerta. Chi guida, nelle aziende clienti, la trasformazione verso i nuovi paradigmi?
Una recente ricerca realizzata da Vanson Bourne e commissionata da Vmware ha messo in evidenza un aspetto sorprendente. Non sono solo i Millennial a guidare la digital trasformation, come tutti potrebbero pensare, ma la spinta arriva in modo molto più distribuito da tutti i collaboratori, di qualsiasi età. Lo studio, condotto su 5.700 dipendenti della regione Emea, ha rivelato
Jean-Pierre Brulard
miglioramento e quindi anche opportunità di business per aziende come la nostra, che sono in grado di guidare individui e imprese sia dal punto di vista tecnologico sia da quello culturale. Chi sono i soggetti più sensibili alla digital transformation?
che coloro che stanno guidando il cambiamento hanno un età compresa fra i 35 e i 44 anni. Questa fascia anagrafica è attiva nei processi di trasformazione tanto quanto quella dei più giovani, nel range incluso tra i 25 e i 34 anni. Tutti riconoscono nelle digital skill un valore aggiunto per l’azienda ma anche per se stessi, tanto che il 75% degli intervistati dichiara esplicitamente di ritenerle una fonte di vantaggi competitivi per l’impresa ma anche di volerle acquisire maggiormente per migliorare la propria produttività. Che significato ha questo per Vmware?
L’analisi diventa interessante nel momento in cui la stessa Vanson Bourne rivela che solo il 55% dei dipendenti dichiara di poter sfruttare pienamente queste conoscenze in azienda, per una serie di motivi che vanno dal disallineamento delle strategie digitali rispetto a quelle personali, alla carenza di budget, alle policy aziendali troppo restrittive e alla mancanza di supporto da parte dell’It. è ovvio che in un contesto come questo ci sono ampi margini di
Per la loro stessa natura, le startup sono i clienti ideali delle tecnologie software-defined e della mobility. Ma anche molti incumbent, viste le spinte evidenziate nella ricerca Vanson Bourne, sono ottimi potenziali clienti. Da quello che ho potuto verificare di persona, le aziende già affermate devono riuscire a “erogare” prodotti e servizi con le performance di una incumbent ma agire con la flessibilità di una startup. Un’altra cosa certa è che per essere efficaci nella trasformazione digitale bisogna prima essere efficaci nella trasformazione dell’It. Che significa, però, fare ulteriori investimenti...
Mi rendo conto che il compito dei Cio non è facile. Devono supportare il business con sicurezza e continuità ma devono contemporaneamente iniziare il percorso della “digital disruption”. Quello che Vmware fa è esattamente offrire una piattaforma It che permetta di realizzare in modo efficace entrambe le cose. Un recente studio McKinsey ha dimostrato che chi affronta la trasformazione osserva variazioni di Ebitda che vanno da -20% a +40%. A ben guardare, è comunque un bilancio positivo per chi affronta questa strada nel modo migliore. Per non parlare del fatto che chi resta fermo rischia di essere “disrupted”. 25
SCENARI | Digital Transformation
I ridotti cicli di vita di dispositivi e servizi rendono più importanti le attività di monitoraggio e di analisi delle applicazioni. E mettere in sicurezza i propri sistemi rimane la priorità.
l’evoluzione DIGITALE corre troppo?
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a velocità della trasformazione digitale, e in particolare l’aumento significativo del numero di nuove applicazioni che sollecitano il business, è vista come un chiaro ostacolo all’interno delle organizzazioni. Più di un’azienda su due, e precisamente il 55%, riconosce nel troppo rapido cambiamento delle funzionalità delle applicazioni la sua più grande sfida. Lo dice il “World Quality Report 2015” realizzato da Capgemini in collaborazione con Hp. Lo studio ha raccolto le testimonianze di oltre 1.500 manager appartenenti a realtà di 32 Paesi e il messaggio di sintesi che ne sortisce suona come una sorta di allarme: le aziende sono in difficoltà a tenere il passo con l’evoluzione tecnologica. In altre parole, gli effetti della digital transformation, a cominciare 26
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dai ridotti cicli di vita di dispositivi e servizi, accrescono l’importanza e l’urgenza del monitoraggio e dell’analisi delle applicazioni. Una pratica utile se non necessaria, a cui però non tutte le aziende sono abituate. Un primo parametro di valutazione sta nell’incremento anno su anno del budget It dedicato alle soluzioni di testing & quality assurance: gli investimenti sono in crescita del 9%, con l’obiettivo di ottenere un maggiore controllo delle nuove applicazioni. Di questa spesa, quasi la metà (il 49%) è dedicata ad attività di mantenimento e quindi è focalizzata sul tentativo di garantire la “coerenza” delle applicazioni rispetto al business aziendale. Per contro, è diminuito dell’1% il budget per i progetti di trasformazione, mentre un manager su tre (il 29%) è in-
tenzionato a sviluppare processi di “testing center of excellence” entro i prossimi due anni. Un secondo indicatore del cambiamento in atto ha a che vedere con la sicurezza. Stando al rapporto, infatti, più di quattro aziende su cinque (l’81% del campione) individua nella
“
Internet of Things, Big Data e mobility stanno trasformando il business più rapidamente che mai. Le aziende devono cambiare in fretta per anticipare questa rivoluzione
”
volontà di mettere al sicuro i propri sistemi l’obiettivo principale delle attività di testing. Un’accresciuta consapevolezza, dicono gli analisti, guidata dagli imperativi della digital transformation e dal fatto che dentro le organizzazioni
nali dell’azienda, riveste oggi un ruolo altrettanto importante in fase di test delle applicazioni: il 79% delle aziende censite la ritiene un fattore chiave per il proprio successo. Largo a nuove professionalità
il fattore sicurezza sia ormai diventato un asset aziendale fondamentale. Ma non è tutto. Anche la customer experience, e quindi l’insieme degli strumenti volti a offrire ai clienti un’esperienza semplice ed efficace ogni volta che entrano in contatto con i ca-
Se è indubbio che le organizzazioni stiano facendo significativi investimenti per automatizzare il controllo delle applicazioni, il “World Quality Report” fa anche notare come le aziende debbano andare oltre per puntare, come dicono gli esperti, a un ciclo di vita di “quality assurance” integrato, intelligente e in grado di fornire sinergie in materia di operatività del business. Il report, in proposito, evidenzia come più del 59% degli intervistati affermi di utilizzare i principi di DevOps per almeno la metà dei progetti interni e come il 47% ricorra ad ambienti di test virtuali. Un’innovazione di approccio che per certi versi è dovuta, perché occorre trovare rimedi concreti ai cicli di vita sempre più brevi di programmi e applicazioni, tendenza che sta facendo lievitare la domanda di sistemi di mo-
nitoraggio di infrastrutture e hardware. Di pari passo con la crescente maturità di queste soluzioni, nelle azinede stanno nascendo figure professionali che in precedenza non esistevano. Il software development test engineer, per esempio, la cui richiesta è solo destinata ad aumentare di pari passo con la sempre maggiore centralità delle attività di “quality assurance” all’interno delle singole organizzazioni. “Tecnologie dirompenti come Internet of Things, Big Data e mobility”, ha commentato Raffi Margaliot, senior vice president e general manager, application delivery management della divisione software di Hp, “stanno trasformando il business più rapidamente che mai. Le aziende devono cambiare in fretta per anticipare questa rivoluzione, e adattarsi ai nuovi modelli di business”. In linea generale, il “World Quality Report” conferma come i responsabili It stiano rispondendo a questi mutamenti senza compromettere la qualità delle applicazioni e la user experience. Chi non lo sta facendo, invece, rischia di perdere competitività. Gianni Rusconi
ALLA CONQUISTA DELLA TERZA PIATTAFORMA La trasformazione digitale passa anche dalle reti Lan e Wan. Ne sono convinte molte delle 900 aziende europee coinvolte in un recente sondaggio condotto da Idc. Il 51% delle imprese intervistate considera il potenziamento dei livelli di sicurezza della rete aziendale come il principale investimento tecnologico per il prossimo triennio. Una su due cita invece il cloud, mentre il 49% l’aggiornamento dell’esistente infrastruttura o l’incremento di banda. Seguono il miglioramento delle capacità di backup e di recovery e la predisposizione per l’attività di analisi dei Big Data. È chiaro,
quindi, come una buona parte delle organizzazioni stia già oggi investendo risorse per aumentare l’efficienza e la sicurezza dei propri network. Nel dettaglio, la security è vista come elemento determinante soprattutto dalle imprese che operano nei settori finanziario, manifatturiero, pubblico e dei trasporti, mentre il potenziamento di infrastruttura e della banda disponibile è ritenuto ancor più prioritario nel mondo del commercio. Nei prossimi anni, secondo Idc, si assisterà inoltre a una progressiva integrazione dei servizi cloud nelle reti aziendali, con lo scopo di assicurare un accesso continuo alle applicazio-
ni. Una tendenza che coincide anche con lo sviluppo delle tecnologie della cosiddetta “terza piattaforma”, ovvero l’intreccio di cloud, mobile, social media e Big Data, che richiederà network ad alte prestazioni ed estremamente flessibili. I responsabili It dovranno scegliere se affidarsi solo alle forze interne oppure, in alternativa, appoggiarsi parzialmente o in toto a provider esterni. Il 22% delle aziende europee ha già intrapreso la strada dell’outsourcing, mentre un ulteriore 40% prenderà in considerazione l’esternalizzazione dei servizi rete nell’arco del prossimo anno. 27
SCENARI | Digital Transformation
Le nuove tecnologie sono sinonimo di vantaggio competitivo, maggiore agilità, contenimento dei costi e time to market migliore. Ma servono investimenti per aggiornare l’infrastruttura esistente.
VALORIZZARE La disruption
V
ia libera alle nuove tecnologie, ma che siano realmente in grado di cambiare faccia alle aziende e ai lori processi. Solo così si potrà fare della trasformazione digitale un elemento capace di apportare un vantaggio competitivo significativo. Si tratta di un pensiero diffuso a livello di top management, almeno secondo quanto riporta lo studio “Accelerating business transformation through It innovation: Getting the business leader take on the It change mandate”, realizzato da Bpi Network e sponsorizzato da Dimension Data. L’indagine ha coinvolto a livello mondiale 250 executive di aziende con fatturato medio superiore ai cento milioni di dollari. Se il 70% dei responsabili intervistati considera la tecnologia “sempre più importante” per il business, meno della metà (il 47%) valuta alto o molto alto il livello di innovazione dei propri dipartimenti It. Soltanto il 42%, inoltre, pensa che il proprio reparto informatico stia facendo un buon lavoro per sostenere in modo efficace il business aziendale.
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Ma quali sono le metriche utilizzate dai manager per misurare gli impatti delle nuove tecnologie? Il 46% mette ai primi posti affidabilità, scalabilità e sicurezza dell’infrastruttura It, mentre il 38% ritiene vitale la capacità di apportare idee e soluzioni per migliorare i risultati. Seguono qualità e tempestività nel rilascio delle applicazioni (29%) e la soddisfazione del cliente, relativa però a un’interfaccia di business guidata dalla tecnologia stessa (27%). Gli impatti della tecnologia
Lo studio analizza singolarmente anche gli effetti considerati realmente “disruptive”. In particolare, i manager considerano importanti gli sviluppi legati alle soluzioni cloud e ai data center, tecnologie dalle quali si ritiene possano arrivare i benefici maggiori, grazie a una maggiore agilità verso i cambiamenti del business (70%), al contenimento dei costi (57%) e a un time to market migliore (47%). Per quanto riguarda le “sale macchine” aziendali, invece, il 48% degli executive prevede un aggiornamento dei sistemi e il 44% si aspetta una progressiva migrazione a
un modello ibrido, che unisca risorse on-premise e nella nuvola. Ma non ci sono soltanto ambienti cloud e data center di nuova generazione. Secondo lo studio esistono infatti cinque “tecnologie di trasformazione” capaci di generare vantaggio competitivo: in cima alla lista c’è l’Internet delle cose (35%), poi i modelli operativi always on (33%) e a seguire i sistemi di data mining applicati ai social media (29%), la personalizzazione dei servizi tramite l’analisi dei Big Data (28%) e la proliferazione di dispositivi mobili smart e applicazioni (26%). Se è bene conoscere quali siano le tendenze in atto, una visione di insieme delle stesse può non essere sufficiente a superare gli ostacoli. L’adozione delle nuove tecnologie deve infatti affrontare ancora sfide importanti, come la sostenibilità degli investimenti, la riduzione dei rischi legati alla sicurezza delle informazioni e l’ammodernamento dell’infrastruttura It. Tassello necessario per garantire la corretta applicazione della trasformazione digitale. Piero Aprile
ENT FEATURED EV
ILES.EU
CTEDAUTOMOB
WWW.CONNE
2015 WORLD EDITION
AVL AVM
LNG
SAFETY
APP
SMART MOBILITY SMART PEOPLE SMART CITY
E-TICKETING
SHARING MOBILITY CONNECTED CAR Organized by
Organized by
GREEN LOGISTICS
Organizational partner Organizational Networking partner partners Networking partners
ITS
ORGANIZZATO DA
SMART PARKING
Organizzato da
Organizzato da
RFID E-MOBILITY
Partner organizzativoPartner Networking organizzativo partner Networking partner
SPECIALE | Storage
I dati, una risorsa ingombrante I carichi di lavoro derivanti dalle applicazioni cloud, social e mobile producono informazioni capaci di generare importanti opportunità per il business. Ma possono mettere a dura prova anche la più solida infrastruttura di storage. Le nuove parole d’ordine sono prestazioni, agilità e controllo.
I
l desiderio di flessibilità si diffonde nelle aziende. Oggi, sempre più, i dipendenti si aspettano di avere a disposizione tecnologie che consentano di lavorare e collaborare meglio, in modo più libero e più propizio allo sviluppo di nuove idee. La digitalizzazione dei processi è un fenomeno che sta ormai attraversando tutti i settori. Dalle piccole alle grandi realtà, tutte le organizzazioni stanno 30
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compiendo un lento ma progressivo cammino di trasformazione digitale per migliorare la conoscenza del proprio business e per guadagnare in competitività. Una digital transformation che obbliga alla gestione di una molteplicità di dati generati da fonti estremamente etereogenee (applicazioni cloud, social, mobile e analytics), tutte da monitorare e analizzare per garantirsi quella visi-
bilità indispensabile all’adozione delle migliori strategie di mercato. Secondo un recente studio commissionato a Vanson Bourne da Emc e condotto su un panel di 3.600 Cxo di 18 Paesi (tra cui l’Italia), oggi il 65% dei C-Level sfrutta la possibilità di disporre di analisi dettagliate delle informazioni per riformulare il proprio business. Un treno in corsa, che spinge al massimo la richiesta di soluzioni altamente
performanti non solo in ambito di Big Data analytics, ma anche di storage. “Indubbiamente le aziende che hanno intrapreso un percorso di trasfromazione digitale sono quelle che oggi, più di altre, stanno sostenendo la domanda di soluzioni di archiviazione dalle prestazioni più spinte”, afferma Rossella Macinante, practice leader di NetConsulting Cube, sottolineando come negli ultimi anni il mercato dello storage, in particolare nel segmento enterprise, abbia registrato tassi di crescita molto interessanti. Nel 2014 il settore ha messo a segno in Italia un incremento in valore pari al 4,5%, un dato più o meno in linea con il mercato mondiale. “In termini di terabyte questa crescita è stata ancora più significativa”, precisa Macinante, ricordando che il prezzo medio per TB è in costante calo di anno in anno. Per il 2015 le previsioni a livello locale stimano un livello di spesa stabile anche se in alcuni settori, come la Pubblica Amministrazione e la sanità, il trend sarà decisamente più sostenuto a causa delle esigenze di archiviazione conseguenti alle nuove disposizioni sulla fatturazione elettronica.
ry manager converged infrastructure Italy di Hp Enterprise, “oggi l’attenzione alle prestazioni e alla scalabilità viaggia di pari passo con quella rivolta al total cost of ownership: nel migliore dei casi i budget a disposizione dei dipartimenti It sono stabili, il che spinge lo storage verso architetture sempre più performanti”. Andrea Sappia, sales consultant manager di Fujitsu Italia, condivide la visione, anche se con un taglio leggermente diverso: “Le prestazioni e in particolare i tempi di risposta sono stati per lungo tempo un’esigenza di una ristretta cerchia di aziende. Oggi, con l’online e con il real time, molte organizzazioni cercano soluzioni semplici da gestire ma che garantiscano elevata velocità, ancora più che grande capacità”. In questa situazione di mercato, la tecnologia flash si sta facendo sempre più apprezzare per la sua prerogativa di rispondere in modo adeguato alle
nuove urgenze di conservazione dei dati. A testimoniarlo sono le analisi di Idc, che nel secondo trimestre del 2015 ha registrato nella regione Emea una crescita a due cifre per i sistemi di archiviazione flash, sostenuti soprattutto dai sistemi All Flash Array (Afa), cresciuti addirittura del 113% in valore rispetto al medesimo periodo dell’anno scorso. Ecco spiegata la proliferazione di almeno una dozzina di nuovi competitor nell’arco degli ultimi due anni: una abbondanza che, come spesso accade, sta rendendo più difficile orientarsi nel panorama dell’offerta, soprattutto a causa dell’eterogeneità delle proposte oggi disponibili. “Il progressivo calo dei prezzi di questo tipo di tecnologia, la sua superiorità in termini di performance e l’offerta anche da parte dei vendor più tradizionali fanno prevedere che le architetture All Flash, assieme a quelle ibride (ossia in grado di combinare tecnologie flash con i classici hard drive), tenderanno
Fujitsu Eternus Cd 10000
Prestazioni e costi sotto controllo
La necessità di ridurre i costi operativi e l’esigenza di implementare risorse più performanti sono, oggi, i driver più ricorrenti alla base dei ricambi delle infrastrutture aziendali. A sostenerlo è Fabio Pascali, responsabile top account North di Emc Italia, che sottolinea la loro precisa corrispondenza con la strategia di sviluppo dei prodotti Emc. “Se fino a qualche tempo fa le organizzazioni si focalizzavano soprattutto sul tema del consolidamento, oggi registriamo una significativa crescita d’attenzione nei confronti del supporto a carichi di lavoro specifici, da dover garantire con risorse dal corretto rapporto prezzo/prestazioni e dal massimo livello di performance”. Anche secondo Yari Franzini, count31
SPECIALE | Storage
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ticolare quella delle soluzioni Eternus Dx, e non richiede quindi nessuno sforzo aggiuntivo da parte del cliente per integrarla con i sistemi precedenti. Il nostro All Flash è frutto di ricerca e sviluppo interna, e non di acquisizioni di altre aziende”. Infrastrutture iperconvergenti per guadagnare agilità
Sempre più spesso le realtà chiamate a gestire grandi moli di dati, caratterizzate da esigenze di I/O e throughput molto elevati, stanno trovando nelle soluzioni iperconvergenti la risposta migliore. Attraverso l’integrazione di funzioni storage, di rete e di calcolo gestite da un unico ambiente software, questo tipo di architettura è in grado di velocizzare la distribuzione delle applicazioni, abilitando una nuova generazione di servizi It. Il risultato è un’agilità infrastrutturale senza precedenti, ca-
pace di rispondere rapidamente alle mutevoli necessità del business. “Oggi siamo di fronte a un mercato storage in rapida evoluzione: se da una parte le soluzioni All Flash stanno diventando un forte punto di riferimento per i livelli prestazionali offerti, dall’altro l’approccio iperconvergente sta guadagnando sempre più consensi per l’agilità che è in grado di garantire”, afferma Franzini. D’altra parte, via
FABIO PASCALI - EMC
ROSSELLA MACINANTE - NET CONSULTING CUBE
anche all’interno della gamma enterprise DS8000”, commenta Maurizio Rizzi, storage solutions leader di Ibm Italia. “Adesso che grazie alle economie di scala i sistemi All Flash sono diventati competitivi”, chiosa Sappia, “questo tipo di soluzioni gode di un successo crescente. La nostra offerta si distingue perché è basata sulla stessa tecnologia delle architetture tradizionali, in par-
YARI FRANZINI - HP
a prevalere nel medio periodo”, commenta Macinante, sottolineando che sarà soprattutto il trend dei prezzi a condizionare i tempi di adozione di questa scelta tecnologica e, quindi, la velocità con cui si affermerà sul mercato. Per quanto riguarda la frammentazione dell’offerta, per l’analista non è difficile predire che “si avvierà presto un processo interno di consolidamento, anche per la necessità di conseguire quelle economie di scala che da sempre rappresentano uno dei principali fattori competitivi del mercato storage”. Tra gli array All Flash oggi più venduti al mondo spicca sicuramente XtremIo di Emc, un Afa completamente scaleout. “Si tratta della soluzione più velocemente venduta nell’intera storia di Emc, un primato dovuto non solo alle prestazioni che questo array è in grado di offrire, ma anche ai livelli di scalabilità e flessibilità che può raggiungere e alla sua capacità di sapersi integrare in modo estremamente facile all’interno di workflow in continua evoluzione”, afferma Pascali. Grande successo sta registrando anche l’offerta All Flash di Hewlett Packard Enterprise, basata sulle soluzioni 3Par StoreServ. “Il nostro percorso All Flash è iniziato con StorServ 7450 e oggi è ormai giunto a piena maturità con ben tre modelli presenti nella gamma”, precisa Franzini, convinto che le ultime soluzioni annunciate da Hewlett Packard faciliteranno la diffusione dei sistemi flash storage nelle imprese anche dal punto di vista dei costi. Il prezzo per gigabyte utilizzabile di un sistema configurato con le nuove unità Ssd da 3,84 Tb è sceso, infatti, a 1,50 dollari, avvinandosi molto a quello dei dischi Sas da 10mila Rpm. Disponibile da tempo è anche l’offerta Flash di Ibm, “che abbiamo introdotto per primi sul mercato grazie all’acquisizione di Texas Memory Systems e che oggi, oltre a essere disponibile attraverso gli All Flash Array FlashSystem, è inserita con vari componenti
via che le organizzazioni si spostano verso un modello “It-as-a-Service”, è fondamentale semplificare i servizi per migliorare al massimo l’agilità d’impresa. La risposta di Hp a queste esigenze sono i ConvergedSystem, soluzioni pensate in funzione di obiettivi specifici e progettate per gestire i requisiti dei carichi di lavoro in modo rapido ed efficiente. L’integrazione tra server, storage e reti rende questi sistemi particolarmente facili da distribuire e gestire, accelerandone nettamente il time-to-value. In ambito iperconvergenza l’ultimo nato di casa Emc si chiama invece Vspex Blu: un’appliance che si inserisce in un’offerta più ampia e che permette di completare il provisioning di macchine virtuali in meno di 15 minuti dall’accensione del sistema. Pensata per aziende di medie dimensioni, la soluzione offre scalabilità li-
L’impresa definita dal software
L’indiscutibile flessibilità delle infrastrutture convergenti e iperconvergenti corre il rischio di essere in parte vanificata nel momento in cui questi sistemi vengono gestiti in modo separato all’interno delle infrastrutture aziendali. Il discorso vale, ovviamente, per qualsiasi dispositivo storage, che
nell’eterogeneità delle soluzioni impiegate rischia di rendere sempre più complesse le attività di controllo e gestione. “Nasce da questo snodo la domanda crescente di architetture storage software-defined, in grado di permettere un salto quantico nella gestione dei data center, introducendo semplicità e ottimizzazioni. Si tratta di soluzioni che, in prospettiva, dovranno ovviamente estendere la loro capacità di orchestrazione anche ai servizi di archiviazione in cloud, in modo da riuscire ad armonizzarli all’interno di un’unica architettura di data storage aziedale”, commenta Macinante. Si tratta di una direttrice di sviluppo su cui Ibm sta già investendo da tempo, come precisa Rizzi. “Negli anni le nostre soluzioni si sono evolute per rispondere a un mercato che richiede sempre più efficienza, flessibilità e soprattutto capacità di adeguarsi in maniera dinamica. Un percorso intrapreso da tempo, ma che sta vedendo
ANDREA SAPPIA - FUJITSU
MAURIZIO RIZZI - IBM
neare e trasparente, rispondendo in modo estremamente veloce e facile all’evoluzione delle esigenze di business. Ma l’impegno di Emc in questo ambito va oltre i singoli prodotti. “Da sempre Emc lavora per anticipare i trend del mercato”, afferma Pascali. “Per quanto riguarda le infrastrutture convergenti, questo si è tradotto nei forti investimenti fatti in Vce già a partire dal 2009. Risale ad allora l’alleanza stretta tra Emc, Cisco e Vmware per portare semplificazione all’interno dei data center con le soluzioni Vblock”. Anche per Fujitsu le architetture iperconvergenti rappresentano la tendenza più importante dello storage moderno: “Abbiamo fatto una scelta decisa”, dice Sappia, “sposando le soluzioni open source. Fujitsu Eternus Cd 10000 è progettato in quest’ottica e può quindi crescere linearmente e con una scalabilità infinita, mantenendo però sotto controllo sia i costi di acquisizione sia di manutenzione”.
ulteriori investimenti attraverso il recente stanziamento di un miliardo di dollari sul tema dello storage software-defined, ricondotto sotto il cappello dell’Ibm Spectum Storage”. Accanto al software come componente chiave del futuro storage, la ricerca e sviluppo di uno dei laboratori più attivi di Big Blue, ubicato a Zurigo e gui-
dato dall’italiano Alessandro Curioni, sta lavorando anche all’incremento di densità delle capacità di memoria. Ibm continua, infatti, a puntare sulle nanotecnologie come frontiera delle soluzioni di domani. Quasi pionieristico è stato l’impegno di Hp, che ha creduto da subito nelle architetture storage definite dal software come viatico per creare un pool aperto di risorse orchestrate attraverso interfacce standard di programmazione applicativa. Da subito la società ha svolto un ruolo particolarmente attivo in quest’ambito, affrontando tutti gli aspetti del data center definito dal software ovvero l’elaborazione, la connettività di rete, lo storage e la gestione. E lo ha fatto con una strategia e una soluzione completa, OneView, sviluppata sui cardini della semplicità, dell’efficienza e dell’apertura. Decisamente impegnata è anche Emc, che per la gestione e l’automazione dello storage oggi propone Vipr. Si tratta di un software che consente di astrarre e raggruppare le risorse per offrire servizi di archiviazione automatizzati e basati su policy on-demand. “La nostra capacità di integrare le soluzioni in un framework complessivo software-defined permette alle aziende di ridurre i costi di gestione a fronte di un’esplosione di dati senza precedenti, rendendo le nostre soluzioni davvero uniche sul mercato”, afferma Pascali. “Iperconvergenza e software-defined storage sono per Fujitsu due facce della stessa medaglia”, conclude infine Sappia, “che si concretizzano ancora una volta nella soluzione scale-out rappresentata dal sistema Eternus Cd 10000. I suoi plus: tecnologia open source, nodi a basso costo gestiti dal software e uniformità dei protocolli per l’accesso ai dati sono i punti di forza che le imprese di ogni dimensioni - le grandi da sole, le medie aiutate dai partner di canale - possono oggi sfruttare con successo”. Claudia Rossi 33
SPECIALE | Storage
Il cloud storage si sta affermando come risposta a una delle maggiori sfide del momento: gestire la crescita massiva dei dati. Senza entrare nel circolo vizioso del continuo acquisto di nuovo hardware.
La nuvola crea spazio
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o storage ospitato sul cloud guadagna consensi. La capacità della nuvola di semplificare e accelerare l’adozione di servizi sta attraendo un crescente numero di aziende alla ricerca d’efficienza, specie quelle appartenenti alla fascia medioalta del tessuto economico italiano. “A livello locale, le soluzioni cloud Infrastructure-as-a-Service hanno ormai raggiunto una buona penetrazione, soprattutto all’interno delle realtà di grandi dimensioni”, afferma Rossella Macinante, practice leader di NetConsulting Cube, sottolineando come da una survey recentemente condotta risulti che il 32% delle organizzazioni con oltre 250 addetti abbia già sposato soluzioni di questo tipo, con un 14% che, nello specifico, si avvale di soluzioni storage as-a-Service. “Nelle aziende di medie e piccola dimensione le percentuali di adozione sono decisamente più basse, arrivando al 13% per quanto riguarda il cloud IaaS e al 6% per lo storage as-a-Service”, specifica Macinante. “La differenza di penetrazione è da at34
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tribuire principalmente alla mancanza di know-how all’interno delle realtà più piccole, in cui spesso i fornitori tradizionali, ancora focalizzati sulla rivendita di hardware, rappresentano il punto di riferimento principale dell’imprenditore per tutte le problematiche It”. In prospettiva sarà, però, inevitabile che la proliferazione dei dati da gestire e la maggiore disponibilità di offerte storage a consumo spingano la domanda cloud anche in questi contesti. Soprattutto in considerazione dei vantaggi economici che l’archiviazione “a servizio” è in grado di offrire. Se questo è lo scenario a tendere, oggi però due elementi possono ancora rallentarne l’adozione all’interno di qualsiasi tipologia d’azienda: le problematiche di sicurezza e la resistenza psicologica nel collocare i dati di business su repository esterni. Motivazioni che spingono soprattutto le grandi organizzazioni a puntare su modelli ibridi pubblici/privati, capaci di garantire tutta la flessibilità di cui hanno bisogno assicurando anche visibilità e controllo continuo sui dati.
“In un momento come quello che stiamo attraversando, caratterizzato da una forte discontinuità sul piano non solo tecnologico ma anche socio-economico, le aziende possono trovare nell’hybrid cloud un traguardo a tendere per guadagnare nuovi orizzonti di competitività. Il modello ibrido permette, infatti, di connettere il mondo privato con quello pubblico, facendo mantenere la gestione e il controllo dei dati critici pur garantendo l’accesso a solide risorse esterne”, commenta Fabio Pascali, responsabile top account North di Emc Italia. Se l’approccio ibrido rappresenta, qundi, il compromesso migliore tra richieste di governo e flessibilità, il paradigma cloud non sembra comunque essere in discussione. Un recente studio di Vanson Bourne, commissionato da Emc e condotto su oltre diecimila professionisti di 33 Paesi, indica che i dipartimenti It delle aziende si stanno progressivamente spostando verso infrastrutture sulla nuvola, un metodo ritenuto non solo capace di migliorare la qualità del servizio ma anche di ridurre i costi.
Occorre, però, stare attenti ad appoggiarsi all’infrastruttura giusta, mette in guardia Yari Franzini, country manager converged infrastructure Italy di Hp Enterprise. “Fondamentale, per un cloud storage di successo, è essere certi di utilizzare dispositivi capaci di gestire carichi di lavoro contemporanei anche completamente differenti tra loro, in grado di garantire i corretti livelli di servizio e di partizionarsi da un punto di vista logico per offrire impermeabilità ai differenti ambienti applicativi”. In sostanza, dispositivi in grado di scalare le performance e la capacità senza introdurre complessità (o, peggio, fermi operativi), abbattendo i consumi e garantendo un livello di affidabilità totale. E proprio sul tema della complessità torna a battere Maurizio Rizzi, storage solutions leader di Ibm Italia, ricordando come “il proliferare dell’hybrid cloud imporrà che tutte le soluzioni operino in maniera orchestrata e sincronizzata indipendentemente dalla modalità di fruizione scelta”. Una caratteristica garantita da tutte le principali soluzioni Big Blue, oggi disponibili on premise e nel cloud con lo stesso livello di servizio. La prevalenza delle soluzioni ibride, soprattutto nel mercato europeo, è testimoniata anche da Andrea Sappia, sales consultant manager di Fujitsu Italia: “Le aziende che si affidano in toto a storage nel cloud pubblico sono ancora una rarità, mentre la stragrande maggioranza delle organizzazioni ha la necessità di far convivere sistemi esterni e on premise. Il filo rosso che lega tutta la nostra offerta è l’utilizzo delle tecnologie Openstack, che proponiamo ai nostri clienti e che stiamo sfruttando per realizzare la trasformazione di tutti i nostri data center. A livello di soluzioni, Fujitsu permette alle aziende di andare oltre i confini dell’imprevedibile crescita dei dati, arrivando fino alle capacità a due cifre in petabyte, con l’introduzione di Fujitsu Storage Eternus Dx 8700 S3, Dx 8900 S3 ed Eternus Cd 10000. Claudia Rossi
piccoli e smart: Nas alla carica
I
l cloud, sia quello pubblico di Amazon, Microsoft Azure e servizi simili, sia quello ibrido, non ha spazzato via i sistemi di Network Attached Storage. Moltre realtà, soprattutto le piccole imprese e gli studi professionali, continuanano anzi a trovare nei Nas “intelligenti” la miglior risposta alle proprie esigenze di storage e di facilità di gestione. “In generale” esordisce Luca Marazzi, country manager per Italia, Israele, Grecia, Cipro e Malta di Western Digital, “le richieste delle Pmi e degli uffici domestici sono legate alla semplicità d’uso, alla sicurezza e alla massima capacità. Tre caratteristiche che i produttori di Nas cercano di soddisfare con prodotti compatti e altamente performanti, offerti a costi assolutamente accessibili”. Prestazioni ed efficienza sono garantiti da processori di ultima generazione e software sempre più leggeri, nonostante siano sempre più dotati di funzionalità e app. “Negli ultimi mesi l’offerta di Wd si è indirizzata verso la produzione di sistemi Nas dotati di processori particolarmente performanti, come Intel Atom e Marvell Armada, Cpu dual-core con frequenza di clock fino a 2 GHz”, precisa Marazzi, sottolineando che sul mercato i Nas Wd si differenziano dai prodotti dei competitor soprattutto grazie alla presenza di dischi interni Wd Red, declinati in capacità da 4 a 24 TB, e alla preistallazione del sistema operativo e di tutti i relativi software (caratteristica che fa dei prodotti Wd soluzioni del tutto Plug&Play). “Sul tema della semplicità di utilizzo e di gestione”, conclude Marazzi, “i nostri
Luca Marazzi
ingegneri della ricerca e sviluppo sono chiamati a lavorare costantemente. L’obiettivo è garantire ai nostri clienti il massimo della customer experience, senza però mai perdere di vista le prestazioni in termini di capacità e di velocità delle operazioni”. Un modello per ogni necessità
La gamma dei sistemi Nas di Wd è può rispondere alle esigenze di diversi target di utenza: accanto a una linea prettamente consumer destinata ai contesti domestici (My Cloud singlebay e My Cloud Mirror dual-bay), lo specialista californiano mette a disposizione una gamma Prosumer, dedicata ai professionisti creativi, agli studi professionali e a quelli di architettura. Questa offerta include i modelli My Cloud Ex2 ed Ex4 in fascia entry, ma anche i più evoluti e performanti My Cloud Ex2100 ed Ex4100. Infine all’utenza delle piccole e medie imprese, più esigente in termini di prestazioni e funzionalità, è dedicata la linea di Nas Business Dl: My Cloud Dl2100 e Dl4100, rispettivamente a due e quattro bay, sistemi dotati di processore Intel Atom dualcore a 2 GHz, 2 GB di Ram, 25 licenze di backup, iScsi target, Active Directory e scalabilità totale. 35
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Banca Esperia
il documento digitale è al sicuro nel caveau Partito nel 2009 con la collaborazione di C-Global, parte del Gruppo Cedacri, il processo di dematerializzazione dei fascicoli di Banca Esperia ha portato finora alla conversione di circa 148mila dossier.
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ematerializzare per lasciare una traccia duratura nel tempo. A prima vista potrebbe sembrare un paradosso, ma così non è. La chiave di volta è la trasformazione digitale dei documenti che, una volta “strappati” al mondo fisico, possono essere conservati in modo più efficiente e sicuro. Ecco perché, fin dal 2009, Banca Esperia, boutique di private banking di Mediobanca e Mediolanum, ha intrapreso un progetto di digitalizzazione della contrattualistica della clientela. Con un triplice obiettivo: migliorare la conservazione dei documenti cartacei, rafforzare la sicurezza nelle operazioni di accesso e consultazione e velocizzare il reperimento delle informazioni. Il partner ideale si è rivelato essere C-Global, azienda del Gruppo Cedacri specializzata nel management dei processi di business. “La nostra Banca si affidava già a Cedacri per la gestione del sistema informativo, per cui è stato naturale cercare supporto in un gruppo con cui ave36
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vamo già instaurato una relazione di collaborazione proficua”, commenta Patrizio Lattanzi, responsabile della direzione affari generali e operations di Banca Esperia. “Gli aspetti di C-Global che ci hanno convinto della bontà della scelta sono stati la concorrenzialità nei costi del servizio, resa possibile dall’economia di scala conseguita dall’azienda, gli elevati standard qualitativi e l’esperienza consolidata”. Nel 2010 l’istituto di credito è partito con la dematerializzazione degli archivi pregressi, portando tutta la documentazione cartacea nella sede centrale. CGlobal ha messo quindi a disposizione un gruppo di risorse specializzate e gli strumenti professionali per effettuare la normalizzazione e l’acquisizione ottica dei fogli. Una volta conclusa questa fase è toccato alla documentazione corrente: un processo tuttora in corso nel polo operativo di C-Global, che si concretizza in questo modo. Le filiali spediscono i plichi alla sede centrale della banca, C-Global
li preleva con cadenza bisettimanale e ne garantisce la digitalizzazione in tre giorni lavorativi. Un flusso operativo che dall’avvio del progetto ha riguardato circa 148mila documenti lavorati per conto delle diverse società di Banca Esperia, toccando quindi anche Duemme Sgr, Duemme International Luxembourg ed Esperia Servizi Fiduciari. Ogni contratto è disponibile in un repository digitale consultabile solo dagli autorizzati: al dossier di ciascun cliente viene attribuito un codice associato al private banker che lo segue, l’unica figura (insieme ai referenti interni e al personale delle operations) che può accedervi. È così possibile rispondere in modo tempestivo alle richieste del cliente. Nel 2014 Banca Esperia ha poi deciso di dematerializzare i fascicoli relativi alle risorse umane, per un totale di circa 5.200 documenti. Nel prossimo futuro, invece, l’istituto vuole digitalizzare anche i flussi di documentazione di cassa, arrivando così a dematerializzare tutte le tipologie di fascicoli sulla clientela.
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De Rigo Vision
nella gestione delle identità è possibile vederci meglio L’azienda bellunese, titolare dei marchi Lozza, Police e Sting e presente in ottanta Paesi, ha adottato Identikey, soluzione di Vasco Data Security per rendere sicuro l’accesso degli utenti esterni alla Vpn.
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a chiave della sicurezza può essere una Identikey. Così è stato per De Rigo Vision, storica azienda nata nel 1978 a Belluno e specializzata nella progettazione, produzione e distribuzione di montature da vista e occhiali da sole di alta gamma. Con i propri marchi Lozza, Police e Sting e con numerose licenze (come Chopard, Escada, Lanvin, Loewe, Fila, Furla, Blumarine, Carolina Herrera, Zadig & Voltaire, Tous, Momo Design, Orla Kiely e 1000 Miglia) oggi è presente in un’ottantina di Paesi attraverso 13 società con 18 divisioni commerciali e oltre cento distributori. A tutto questo si aggiunge l’impegno nel retail con catene di proprietà in Spagna, Portogallo, Turchia e a partecipazioni in Regno Unito e in Corea. Facile immaginare come una tale struttura includa un elevato numero di utenti che accedono, spesso da dispositivo mobile, alle applicazioni aziendali: dipendenti, ma anche consulenti, commerciali e altre figure professionali esterne all’organizzazione. Negli anni, l’azienda bellunese ha sperimentato diversi metodi di controllo e gestione della sicurezza. Dapprima, dotandosi di un sistema di Erp centralizzato e sfruttando connessioni Mpls per far accedere i dipendenti delle filiali estere alla propria rete. L’accesso alla Virtual Private Network da parte degli utenti mobile rappresentava, però, un tallone d’Achille: De Rigo aveva, dunque, adottato il modulo Vpn di Check Point Software Technologies, cioè dello stesso vendor che aveva fornito il firewall. Con questo metodo, gli utenti potevano connettersi accedendo a
LA SOLUZIONE De Rigo ha integrato il software Identikey come front-end, in grado di dialogare con il modulo Vpn di Check Point. Per ogni accesso alla Vpn, gli utenti devono digitare la loro username e una one-time password, generata da un token Vasco. Dopo questo passaggio, il modulo Check Point invia le specifiche a Identikey per sbloccare l’autorizzazione ad accedere. Con la soluzione Digipass for Mobile Enterprise Security Edition gli amministratori It inviano le parole chiave sui terminali iOS e Android degli utenti, sui cui è installata la relativa app.
una extranet con username e password statiche. “Ben presto, tuttavia, considerammo il problema della sicurezza delle credenziali di accesso, che in quanto statiche erano facilmente violabili da attacchi informatici”, racconta Giovanni Randi, responsabile network security di De Rigo Vision. “Ci ponemmo l’obiettivo di garantire che l’utente che si collegava fosse davvero chi affermava di essere, accertarne cioè l’identità effettiva”. Si adottò dunque una soluzione di strong authentication, la cui gestione si rivelò tuttavia sempre più onerosa al crescere del numero degli utenti. Finalmente il punto di svolta: con il supporto e la consulenza del partner Biomas, a sua volta coadiuvato dal distributore a valore aggiunto Alias, De Rigo ha scelto Identikey Authentication Server, soluzione di Vasco Data Security per l’identificazione forte. “Identikey”, sottolinea Randi, “si è rivelata di facile implementazione e molto meno onerosa della precedente, sia in termini di infrastruttura server richiesta sia per la politica di licensing, basata su un approccio flat decisamente più conveniente”. Ulteriori vantaggi riguardano la gestione dei token: quelli di Vasco, avendo durata più lunga, limitano enormemente le procedure di sostituzione e spedizione verso utenti dislocati ovunque nel mondo. Grazie poi all’introduzione di Digipass for Mobile, spiega Randi, si è ottenuto un ulteriore beneficio: “Man mano che i token si esauriscono o quando vengono smarriti, non abbiamo più la necessità di sostituirli fisicamente, ma si ricorre al download e all’attivazione dell’app con una procedura da remoto”. OTTOBRE 2015 |
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Fratelli Carli
un centro stampa digitale per il precision marketing La Fratelli Carli di Oneglia rinnova il parco macchine del proprio centro stampa, che realizza documenti e cataloghi personalizzati per i propri clienti, con le nuove macchine ad alte prestazioni di Ricoh.
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gli inizi del Novecento in Liguria le famiglie che se lo potevano permettere avevano un oliveto da cui ricavare il prezioso “oro verde” da usare per i condimenti. Anche i Carli di Oneglia, proprietari di un’avviata tipografia, coltivavano una certa quantità di piante il cui ricavato veniva regolarmente smaltito sulle tavole della numerosa famiglia. Nel 1911, però, un raccolto eccezionale spinge i Carli a vendere la produzione in eccesso. Giovanni Carli decide di utilizzare il metodo del porta a porta, molto efficace per le vendite locali. La disponibilità della tipografia per stampare i “materiali di marketing” LA SOLUZIONE L’accelerazione sul fronte delle tecnologie di stampa in Fratelli Carli è iniziata nel 2010, quando nel centro stampa dell’azienda ha fatto capolino la prima macchina a foglio singolo, la Ricoh Pro C900 da 90 pagine al minuto, usata per produrre brochure e flyer di alta qualità e personalizzabili. Nel 2012 arrivano anche tre Ricoh Pro C901, che sostituiscono in parte le vecchie IP4100 nella stampa di bolle e fatture. L’ingresso più recente è la nuova Infoprint Ip 5000 Gp, usata per la produzione di cataloghi e listini e aperta a interessanti sviluppi futuri, visto che è in grado di arrivare a 860 impressioni in formato A4 al minuto e di interfacciarsi con i sistemi più evoluti per il precision marketing. 38
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e l’attitudine alla comunicazione fanno il resto. Il successo è tale che presto la famiglia decide di fondare la Fratelli Carli, azienda dedicata alla produzione e vendita di olio di oliva. Passata quasi indenne attraverso le due guerre (in realtà la sede viene distrutta più volte durante i bombardamenti ma caparbiamente ricostruita nello stesso luogo), la Fratelli Carli è oggi una realtà da 1,5 milioni di consegne all’anno, un organico di 300 dipendenti e un fatturato vicino ai 150 milioni di euro. Nonostante lo sviluppo e la modernizzazione, il modello di vendita, sia pure ora su scala internazionale, è rimasto sempre lo stesso: la distribuzione diretta, con consegna a domicilio e vendita attraverso telefono, posta tradizionale o Web. Negli ultimi anni, poi, il mercato ha spinto i manager di famiglia a diversificare (nel settore alimentare e in quello dei cosmetici) e ad aprire alcuni negozi monomarca. Ma c’è un’altra caratteristica, oltre alla vendita diretta,
che richiama le origini della Fratelli Carli: l’attenzione per la stampa dei materiali di marketing. Già tipografi nel Dna, i Carli hanno grande bisogno di stampare lettere commerciali, pubblicità cataloghi ed etichette, da inviare alle centinaia di migliaia di clienti. Fanno quindi una scelta particolare: utilizzare un centro stampa interno all’azienda e dotato delle tecnologie più innovative, in grado di produrre grandi volumi di documenti, con elevata qualità e soprattutto con la possibilità di personalizzare i lavori, interfacciando le macchine da stampa con i database dei clienti e dei prospect. Fedele da anni al marchio Ricoh, l’azienda ligure ha costantemente rinnovato il proprio parco stampanti per giungere oggi a sfruttare appieno le potenzialità di quello che viene chiamato “precision marketing”, che utilizza la stampa digitale (unitamente a software avanzati) per produrre messaggi personalizzati in modo veloce e dinamico.
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Gruppo Piaggio
I BIG DATA emozionali viaggiano sulle DUE RUOTE Forte dell’esperienza con la Moto Gp, il Gruppo Piaggio raccoglie ed elabora anche i dati provenienti dall’uso quotidiano dei modelli da strada e degli scooter. E li analizza con la tecnologia Sap.
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uidare una moto è sempre una questione di equilibrio. Non solo quello necessario per rimanere in sella nelle condizioni più difficili: è un discorso che riguarda anche il giusto rapporto tra prestazioni del mezzo, sicurezza del centauro e resistenza dei componenti utilizzati. Ne sa qualcosa l’Aprilia Racing Team, divisione sportiva di Aprilia e parte dal 2004 del Gruppo Piaggio. Dalla stagione 2015, dopo un’assenza di oltre dieci anni, la casa di Noale è rientrata nel grande circo della Moto Gp con un progetto di motocicletta completamente rinnovato. E, per ottenere il meglio dai proprio bolidi, ha avvertito subito la necessità di dotarsi di sistemi di analisi puntuali, in modo da riuscire a intervenire con maggiore efficacia e in tempo reale sui parametri tecnici delle due ruote. Il team ha scelto come partner tecnologico Sap, per una collaborazione che non si limitasse soltanto al mondo delle corse, ma coinvolgesse tutto il Gruppo Piaggio. “Grazie alla telemetria è possibile sapere praticamente tutto di una moto quando si trova in pista: sono veri e proprio oggetti connessi”, commenta Luca Sacchi, responsabile del dipartimento di innovazione strategica dell’azienda di Pontedera. “Il discorso purtroppo cambia con i veicoli destinati alla produzione di massa. Come vengono realmente utilizzati dagli utenti? I feedback che riceviamo provengono soltanto dai piloti e sono troppo ‘emotivi’. Ecco perché da circa due anni abbiamo deciso di rendere ‘smart’ i nostri veicoli. Da allora abbiamo raccolto
miliardi di dati, ma è poi sorta un’altra domanda: come possiamo davvero sfruttare questa mole immensa di informazioni?”. L’azienda tedesca ha quindi fornito a Piaggio una serie di tecnologie e soluzioni innovative, tra cui spiccano Sap Hana, Sap Predictive Analysis, Sap Mobile Platform e hybris for Marketing and Commerce, in modo da supportare il processo di trasformazione del gruppo italiano verso il digitale, la “real-time enterprise” e una gestione migliore del post-vendita. La collaborazione tra Sap e Piaggio si concretizza in due aree principali: l’Internet delle cose, con cui la compagnia di Pontedera può creare nuovi servizi e modelli di business basati sui Big Data, e la digital customer journey, in modo da interpretare in modo veloce e agile i desideri dei consumatori, differenziando l’offerta.
LA SOLUZIONE Le ultime soluzioni che il Gruppo Piaggio ha acquistato dall’azienda tedesca per sostenere la propria trasformazione digitale, sia nel mondo delle corse sia in quello consumer, sono Sap Hana, Sap Predictive Analysis, Sap Mobile Platform e Hybris for Marketing and Commerce. In particolare, la prima è una piattaforma in-memory che unisce database, elaborazione dati e suite di applicazioni per il business. Una tecnologia abilitante per l’analisi dei Big Data e per le previsioni in tempo reale, di recente potenziata e resa più accessibile anche grazie alla semplificazione introdotta con Fiori, la nuova interfaccia utente. OTTOBRE 2015 |
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ITALIA DIGITALE
Il Presidente del Consiglio scommette su un approccio omnicomprensivo per mettere a fattor comune manifattura, banda larga e competenze digitali. Il direttore dell’Agid conferma la sua ricetta: chiarezza di obiettivi e collaborazione fra governo centrale, Regioni ed enti locali.
Salvata l’industria è TEMPO DI digitalizzare
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opo aver lavorato per un anno e mezzo al “salvataggio dell’industria manifatturiera, il passaggio successivo è ora quello di definire e declinare i nuovi paradigmi dell’investimento in Italia”. Guardando, naturalmente, alle tecnologie digitali. Parole e obiettivi di Matteo Renzi, declamate non più tardi di un mese fa. Che le capacità comunicative del titolare di Palazzo Chigi siano spiccate non lo scopriamo certo oggi. L’importante è cercare di capire cosa significa, per l’industria italiana dell’information and communication 40
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technology, questo passaggio. Nella testa del capo del Governo il concetto appare molto chiaro: “Il tentativo in atto”, ha aggiunto ancora il premier, “è quello di portare nelle nostre aziende un percorso di digitalizzazione a sostegno di un nuovo modello produttivo. Ciò che il governo sta facendo è seguire un approccio omnicomprensivo che vada oltre l’uso degli strumenti informatici e tenga insieme non solo Industry 4.0 ma anche tutte le parti collegate: banda larga, competenza per applicare l’alternanza scuola-lavoro, canalizzazione delle risorse”.
Sulla carta il disegno è perfetto, ma di nuova rivoluzione industriale (e delle tecnologie che la animano, dall’Internet of Things al cloud computing passando per la stampa 3D) e di fabbrica 4.0 si parla già da parecchio, da quando cioè il progetto di trasformazione digitale del mondo manifatturiero è uscito dai confini della Germania, dove è nato. Il “sono certo che ce la faremo” che ha accompagnato l’ennesima promessa del capo del governo italiano lo prendiamo come buon auspicio. Anche se con ragionevole prudenza, visti i precedenti in materia di innovazione digitale.
L’Agenda che ci aspetta
Le priorità sul tavolo di Antonio Samaritani, direttore dell’Agenzia per l’Italia Digitale, sono note: il piano per la banda ultralarga, le misure attuative del decreto Crescita digitale e la riforma della Pa. Tutte azioni che, ovviamente, rientrano sotto il cappello dell’Agenda e dei programmi di innovazione in essa contenuti. Al netto degli innumerevoli ritardi che hanno caratterizzato la vita di questo “documento” negli ultimi tre anni, possiamo ottimisticamente pensare che il classico bicchiere, se non mezzo pieno, non sia neppure troppo vuoto. Uno degli elementi che, sulla carta almeno, fa ben sperare è la riorganizzazione che ha interessato l’assetto dell’Agenzia, un rimescolamento avente il fine, parole di Samaritani, “di rispondere meglio alle necessità operative che derivano dai progetti strategici del Piano Crescita”. Si parla nel concreto di tappe chiare, di scadenze e obiettivi condivisi con i soggetti (pubblici e pri-
vati) che operativamente dovranno realizzare i progetti. E il rischio, più volte assunto a vero e proprio ostacolo in sede di attuazione dei piani dell’Agenda, di una governance troppo (e colpevolmente) frammentata? Rimane, anche se vi sono sentori che, per quanto complesso e articolato, possa finalmente emergere
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Il tentativo in atto è quello di portare nelle aziende italiane un percorso di digitalizzazione a sostegno di un nuovo modello produttivo. Sono certo che ce la faremo
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in seno all’Agid un modello di gestione capace di sviluppare servizi destinati a tutti i livelli dell’architettura pubblica. Un primo riscontro sull’efficienza del nuovo corso dell’Agenzia lo avremo a breve, entro fine anno, quando alcuni cittadini e imprese, stando ai piani, riceveranno le prime identità digitali. Lo stesso Samaritani ha di recente confermato come l’avvio ufficiale del sistema
Spid, a luglio, sia stata una pietra miliare per rendere concreto questo progetto. Un progetto da sempre definito strategico e che, necessariamente, passa sia dai provider privati sia dalla partecipazione condivisa di Pubblica Amministrazione centrale, Regioni, Città Metropolitane e Comuni. Le amministrazioni locali, in particolare, si riveleranno preparate sull’identità digitale e su altri fronti? L’Agid, in tal senso, professa ottimismo e conta sulla forte mobilitazione di tutti gli attori coinvolti. E c’è fiducia anche per ciò che concerne i pagamenti digitali verso la Pa, convogliati nel sistema PagoPa: al momento le banche che hanno aderito alla piattaforma sono già una trentina, cui si aggiungono Poste Italiane e due importanti circuiti. Il processo di efficientamento, e quindi del cost saving e della maggiore qualità dei servizi offerti alla comunità, passa anche da qui. Aspettando la rivoluzione 4.0 prospettata da Matteo Renzi. Gianni Rusconi
SMART CITY IN CERCA DI ORIENTAMENTO Le idee, nello Stivale che vuol trasformare le sue città (luogo di residenza del 70% degli italiani), certamente non mancano. Ma il problema della linee guida e della definizione di una “carta d’identità” delle smart city è ancora in gran parte da risolvere. Passi avanti sono stati fatti negli ultimi mesi dall’Anci, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani, nel tentativo di fornire un orientamento per i progetti made in Italy. Oltre 1.200 quelli in corso, con 110 Comuni protagonisti e 14 milioni di cittadini coinvolti. Ebbene, il primo passo si chiama Italian Smart City ed è una piattaforma Web, attiva dalla scorsa primavera, che cataloga le buone pratiche dei Comuni più orientati alla
trasformazione. Otto le categorie prese in esame dalla piattaforma, ovvero ambiente (con 191 progetti in divenire, fra monitoraggio e controllo dell’inquinamento, gestione delle risorse idriche e smaltimento dei rifiuti), energia (130 iniziative su fonti rinnovabili ed efficientamento dei sistemi esistenti), economia (107 piani di sviluppo dell’imprenditoria locale e finanziamento di startup), persone (163 campagne di sensibilizzazione, coinvolgimento e informazione), qualità della vita (151 iniziative per sanità, istruzione e sicurezza), Pubblica Amministrazione (semplificazione delle comunicazioni e nuovi servizi, 151 progetti in corso) e pianificazione (92 azioni trasversali alle categorie citate).
Il secondo passo in avanti è la bozza del “Manifesto per un’Agenda Digitale”, presentata a luglio dall’Anci e mirata a definire le priorità della Pubblica Amministrazione locale. Nella lista primeggia l’abbattimento delle barriere digitali con progetti di banda larga e WiFi pubblico gratuito, cui seguono l’alfabetizzazione digitale di cittadini e dipendenti pubblici e, in terzo luogo, la semplificazione della burocrazia. Le altre priorità del Manifesto riguardano la disponibilità e razionalizzazione delle banche dati, il miglioramento dei sistemi di trasporto in ottica sostenibile e accessibile, la valorizzazione del territorio e del turismo. V.B.
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ITALIA DIGITALE | Startup
Investimenti cercansi per VINCERE IN EUROPA Da Milano a Napoli, il numero delle "newco" tecnologiche continua a crescere. Ma alla voce finanziamenti il gap rispetto agli altri Paesi rimane ancora notevole.
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n attesa dei dati previsionali per il 2015, di cui avremo conto in occasione dell’evento organizzato da Italia Startup il 21 ottobre a Smau, gli investimenti complessivi (sia da attori istituzionali sia business angel, family office e venture incubator) in startup tecnologiche sono arrivati l’anno passato a quota 118 milioni di euro. Una cifra in flessione del 9% rispetto al 2013, che conferma in modo evidente come l’ecosistema delle “new company” italiano debba trovare un nuovo abbrivio per realizzare tutte le potenzialità di cui è accreditato. Il ruolo giocato 42
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dagli investitori, istituzionali e non, deve quindi diventare più pervasivo e concreto e deve farlo in tempi rapidi, perché in Italia i finanziamenti che alimentano le nuove imprese innovative sono un ottavo rispetto a quelli che si registrano in Francia e Germania, un quinto di quelli del Regno Unito e poco meno della metà di quelli spagnoli. Ci sono però segnali incoraggianti a cui attaccarsi, a cominciare dal numero di startup innovative, che a fine 2014 risultava raddoppiato rispetto al 2013 e che è poi salito ulteriormente per arrivare (al momento in cui scriviamo) ol-
tre quota 4.660. Interessante, in questo senso, il dato che certifica il numero di nuove imprese tecnologiche che hanno ricevuto finanziamenti attraverso il Fondo di garanzia governativo per le piccole e medie imprese, che facilita l’accesso al credito bancario: poco meno di 400 su scala nazionale. Quanto alle aree del Belpaese oggi più fertili nel dare vita alle startup innovative, la Lombardia è la Regione che ne ospita di più, circa 1.020. Seguono l’Emilia-Romagna con 540, il Lazio con circa 450, il Veneto e il Piemonte che ne contano rispettivamente 320
e 350. In coda alla classifica troviamo Basilicata, Molise e Valle d’Aosta, con meno di 30 startup incubate. “L’aspetto dei finanziamenti, considerando l’alto rischio di mortalità, è fondamentale nella fase di avvio di una nuova impresa”, ha affermato Fiorenzo Bellelli, presidente di Warrant Group, società di consulenza che ha dato vita con Italia Startup a una piattaforma online per accedere ai fondi regionali, nazionali ed europei. “Oggi”,
dice ancora Bellelli, “sono disponibili moltissime opportunità di finanziamento ma non sempre le startup sono a conoscenza dei bandi e sanno come accedervi. E le startup che non sopravvivono coincidono, in molti casi, con quelle che non hanno ricevuto fondi”. La necessità, urgente, di fare un passo sostanziale in avanti è confermata del resto dai dati dal report “From Unicorns to reality, a five-country comparison of European Ict Scaleups”,
nuove imprese CRESCONO. in Accademia Come tutti i giovani, anche le startup hanno bisogno di qualcuno che le prenda per mano e che le aiuti a crescere. È il caso delle aziende tecnologiche, che hanno interesse ad “andare a caccia” di talenti non ancora sbocciati per permettere loro di realizzare progetti innovativi. Come l’italiana Research for Enterprise Systems (Res), da sempre nel campo dello sviluppo di soluzioni software per le imprese, che ha lanciato l’iniziativa Res Academy per fare scouting di idee all’avanguardia nel campo dei Big Data, in collaborazione con le università (si è partiti con Bergamo e Pavia). Due i filoni del progetto. Il primo, Res Academy, fornisce un supporto completo alle startup, sotto tutti gli aspetti: logistico, tecnologico, amministrativo, di marketing e così via. Senza dimenticare, ovviamente, il lato economico. Fino alla fine del 2018 Res vuole mettere sul piatto circa 1,5 milioni di euro in investimenti per una decina di startup. Grazie alla creazione di una rete d’imprese, l’azienda milanese entrerà nel capitale delle singole Srls (Società a responsabilità limitata semplificate) come socio di maggioranza, lasciando però la governance in mano ai giovani imprenditori.
Il business plan sarà condiviso passo dopo passo con la consulenza del team messo a disposizione da Res. Il progetto Academy for Students, invece, incentiverà i migliori laureandi con borse di studio, stage e dottorati. Si concentra invece esclusivamente sulle applicazioni mobili l’iniziativa Samsung App Academy, che ha chiuso la seconda edizione offrendo la possibilità a trenta giovani senza occupazione di imparare a sviluppare software per l’ecosistema mobile più diffuso al mondo. Durante un evento presso il Samsung District di Milano i ragazzi hanno avuto tre minuti di tempo a testa per presentare la propria app. Gli ambiti di sviluppo più gettonati sono stati il turismo, l’alimentazione, il car sharing e la fotografia. I giovani più interessanti saranno valutati per svolgere uno stage in Samsung o in una delle aziende partner che aderiscono al progetto. Punta invece all’insegnamento dei linguaggi Java ed Sql l’iniziativa Oracle Academy, voluta dal colosso californiano per fare appassionare gli studenti di medie superiori e università alle materie informatiche. In Italia gli istituti e gli atenei che hanno aderito al progetto sono stati finora 28, per un totale di quasi ottomila ragazzi coinvolti. A.A.
redatto da Sep (Startup Europe Partnership), che elegge il Regno Unito a Paese guida del fenomeno. Per il mercato britannico si parla, infatti, di oltre 11 miliardi di dollari distribuiti tra 399 “scaleup” e “scaler”, ossia quelle startup capaci di raccogliere capitali per oltre un milione e oltre cento milioni di dollari rispettivamente. Seguono la Germania con 208, la Francia con 205 e la Spagna con 106. L’Italia chiude malinconicamente la fila con appena 72 realtà, capaci di attrarre “solo” 400 milioni di dollari: una cifra 28 volte inferiore a quella del Regno Unito. La mappa delle aziende innovative
A che punto è l’ecosistema delle startup italiane? Alla domanda che anima il dibattito nella comunità tecnologica ha provato a rispondere anche Associazione Indigeni Digitali, realtà recentemente nata con l’obiettivo di approfondire le dinamiche e le relazioni sociali che contribuiscono aello sviluppo delle nuove imprese tecnologiche. Il primo passo è stato quello di realizzare una mappatura (accessibile online all’indirizzo http://startup.indigenidigitali.com) della distribuzione delle startup sul territorio nazionale, una mappatura che ha evidenziato in modo particolare l’alta distribuzione di realtà innovative nella zona di Milano e in quella compresa tra Roma e Napoli. Sono circa un centinaio, per la precisione le startup che sono nate fra l’area urbana e l’hinterland della metropoli lombarda, 65 delle quali si sono sviluppate in pieno centro città. La capitale ospita invece 92 neoimprese, mentre sotto il Vesuvio sono una cinquantina le giovani aziende emergenti. Per quanto riguarda il resto dell’Italia, buone indicazioni arrivano dal Nord-Est, del Centro e della parte restante del Sud. Decisamente più bassa, invece, è la concentrazione di startup nelle isole. Piero Aprile 43
ITALIA DIGITALE | Startup
Il Belpaese è partito tardi nel supportare lo sviluppo del fenomeno startup, ma può recuperare. Se crescerà il mercato dei venture capital e se i soldi pubblici verranno spesi in modo più intelligente. Ma anche con una migliore (e più snella) regolamentazione.
REGNO UNITO $ 11,1
GERMANIA $ 6,6
FRANCIA $ 3,1
SPAGNA $ 1,8
ITALIA $ 0,4
DATI IN MILIARDI DI DOLLARI
Cosa manca all’Italia per rimettersi al passo?
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uando nacque Mind the Bridge, nel 2007, in Italia si parlava ancora pochissimo di startup. Per noi che cercavamo di portare lo spirito della Silicon Valley era molto impegnativo incontrare l’interesse di istituzioni, centri di ricerca e media. Era una sfida culturale in primis. Oggi, a otto anni di distanza, le cose sono fortunatamente molto cambiate nel nostro Paese. Si è modificato, innanzitutto, il contesto e sono aumentati i player in gioco. Oggi chi ha un progetto può rivolgersi a molti attori (fondi di venture capital, acceleratori, incubatori, business angel) che possono fornire supporto a più livelli, dal coaching all’incubazione fino all’apporto di capitali per testare l’idea. Sono an44
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che cambiate le norme e un grosso sforzo è stato compiuto dal Decreto Crescita in poi (Restart Italia, Destinazione Italia e così via) con tutte le agevolazioni alle nuove imprese innovative. Sono infine mutati mentalità e approccio al lavoro, in un’Italia che fino a ieri vedeva nel miraggio del posto fisso la premessa per il raggiungimento di qualunque obiettivo professionale. La ripresa economica, lenta ed estenuante dopo anni di recessione, ha infine fatto il resto. Davide Serra, a capo del fondo londinese Algebris, ha dichiarato di non aver mai come in questo momento incontrato tanto interesse per il nostro Paese da parte degli investitori internazionali. Eppure, se confrontiamo dati e ricerche sulla situazione startup italiana provenienti da varie fonti, lo sce-
nario non appare confortante: per quanto riguarda la fase più matura delle imprese innovative (le cosiddette “scaleup”, aziende che hanno raccolto oltre un milione di dollari) ci ritroviamo ultimi dopo Regno Unito, Germania, Francia e Spagna. Sia per numero di aziende sia per capitali raccolti, come ben fotografato dal Sep Monitor (vedi il grafico a fianco, ndr). Ma siamo indietro non perché non siamo capaci. Siamo indietro perché siamo partiti dopo. Scontiamo ancora gli anni in cui il resto del mondo andava avanti mentre noi stavamo ancora a interrogarci sul digitale terrestre o la tv via cavo, intrappolati nelle fitte maglie delle normative e in una burocrazia e complessità che soffocava anche i più virtuosi istinti imprenditoriali. La ricetta per crescere
Che cosa serve, quindi, al nostro Paese per rimettersi in pari sul fronte startup? Innanzitutto una presenza più consistente del mercato dei venture capital: il numero delle operazioni nel 2014 è cresciuto dell’8% rispetto al 2013 confermando un trend in crescita e, come ci dice il rapporto 2014 di Liuc e Aifi, il mercato dal 2009 a oggi è più che tri-
plicato. Ma 150 milioni di euro all’anno sono ancora troppo pochi. Fare innovazione richiede di investire in modo “upfront”. L’obiettivo, lanciato da Italia Startup, di raggiungere il miliardo è arduo ma necessario. Basterebbe dirottare una minima parte dei soldi che finiscono nel mercato immobiliare, il quale peraltro, senza crescita economica, è destinato a perdere valore. Lasciamo stare le banche. Le startup non sono il loro business né la loro colpa. Il debito bancario mal si coniuga con imprese innovative nelle prime fasi del ciclo di vita. Troppi i rischi. Serve il venture capital. Occorrono invece più soldi pubblici e soprattutto occorre spenderli in modo più intelligente. Siamo dei campioni nella dispersione dei finanziamenti a livello locale e nel supporto di micro-iniziative territoriali. Serve fare massa critica su poche iniziative solide e supportare le migliori già esistenti nel privato con criteri di scelta che vanno dalla reputation alle connessioni internazionali, passando naturalmente per i risultati. E serve investirci con una combinazione di private fund, meglio se internazionali. Abbiamo bisogno, soprattutto, di una migliore e più snella regolamentazione. La burocrazia in Italia ruba tanto tempo
alle imprese, che invece dovrebbero pensare soltanto a crescere. Il lavoro svolto dal Mise negli ultimi tre anni va nella giusta direzione, ma di tutti questi provvedimenti (Italia Startup Visa, credito d’imposta, Patent Box, Pmi innovative) viene comunicato poco o niente. Ed è un’occasione persa. Occorre, necessariamente, essere parte del villaggio globale. Dobbiamo attrarre player stranieri che mettano gli occhi sui nostri progetti e talenti per investire parte del loro denaro in Italia. Il matching fra startup e grandi corporate europee che svolgiamo per conto di Startup Europe Partnership è un esempio di incontro concreto a livello europeo tra offerta e domanda di innovazione. Serve, infine, investire sulla cultura a livello strategico nazionale. Fare startup è diventato “cool”, ma servono realtà che sappiamo crescere a livello internazionale e si deve insegnare imprenditorialità e programmazione nelle scuole. Le imprese più tradizionali devono capire che le startup e il digitale stanno stravolgendo i paradigmi competitivi: se non lo faranno, ne saranno travolte. Alberto Onetti, Presidente Mind the Bridge Foundation e Responsible Startup Europe Partnership
giovani idee germogliano. grazie alle aziende tecnologiche Per le startup italiane fioccano concorsi e investimenti a firma di colossi Ict e dell’automotive. L’ultima edizione dello SmartCamp di Ibm ha selezionato Horus Technology, società trentina che potrà avvalersi dei mentor di Big Blue, di tre anni di servizi cloud gratuiti e dei contatti con la rete di partner di Ibm (oltre 100mila) per realizzare il suo progetto: sviluppare un assistente personale indossabile per persone ipovedenti e non vedenti, in grado fornire indicazioni vocali e aiutarli a leggere e a muoversi in città. Microsoft punta sui giovani con il
programma YouthSpark, che dal 2012 ha già coinvolto 300 milioni di ragazzi (250mila in Italia) con attività di formazione informatica e opportunità di lavoro, e che da qui al 2018 investirà altri 70 milioni di dollari. Fra i sostenitori delle startup c’è anche Ericsson: in dieci anni, il suo Programma Ego ha supportato una ventina di neoimprese, accogliendole per un biennio nel suo campus di Roma. Fino al 31 ottobre gli under-35 (singoli o team) possono candidare la propria idea partecipando alla seconda edizione del concorso, nelle categorie Internet delle cose ed
M2M, cybersecurity, m-commerce, mobilità e trasporti, ambiente e innovazione sociale. Il premio L’Ovale Blu di Ford quest’anno è andato a Lookly, piattaforma che permetterà agli utenti di film o serie Tv di acquistare oggetti di scena, vestiti e gadget o di visitare i luoghi delle riprese. Attraverso Tim Ventures, il Gruppo Telecom ha invece investito 150mila euro in Crowdway, un servizio che genera informazioni sui mercati finanziari attraverso l’analisi in tempo reale del comportamento di migliaia di trader che negoziano in Borsa. V.B. 45
OBBIETTIVO SU | Bticino
IL POLO DELLA DOMOTICA abita in BRIANZA Nella sede di Erba si progettano e si producono le soluzioni che hanno reso famoso nel mondo il marchio Bticino. Le tecnologie giocano un ruolo vitale.
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| OTTOBRE 2015
È
la struttura in cui vengono progettate, ingegnerizzate e realizzate da zero cioè partendo dalle schede su cui vengono montati i singoli componenti elettronici, i prodotti di videocitofonia e di domotica e i sistemi destinati all’automazione degli edifici. Ma non solo. È anche il centro che opera come unico polo dell’elettronica dell’azienda varesina e (in modo parziale) della casa madre, il gruppo francese Legrande. Ed è situato a Erba, punto estremo di
quell’area, storicamente culla dell’imprenditorialità lombarda e di migliaia di piccole e medie imprese, che è la Brianza. Qui lavorano circa 400 persone, un centinaio delle quali sono ingegneri e programmatori informatici. Quello di Bticino è quindi un esempio di “made in Italy” all’avanguardia e non solo per via dei circa duemila modelli esibiti a catalogo. L’innovazione tecnologica di tipo “bottom up” che rivendica questo centro trova supporto nelle linee robotizzate di produzio-
Ogni prodotto finito dispone di un Qr Code che permette di risalire a tutta la sua storia.
ne, costate qualche milione di euro, e nell’adozione del modello “lean production” per la fase di assemblaggio, che sfrutta un avanzato sistema Mrp (manufacturing resource planning) per gestire gli approvvigionamenti. Sprechi ridotti al minimo e grande flessibilità operativa sono il punto di partenza per saturare impianti capaci di montare sulle schede elettroniche circa 1,3 milioni di componenti al giorno. Con un livello di difettosità pari a una parte su diecimila. 47
OBBIETTIVO SU | Bticino
Un software sviluppato internamente ottimizza la produzione gestendo la distribuzione dei componenti impiegati su più schede elettroniche.
ROBOT COMANDATI IN REAL TIME Il caricamento delle macchine di assemblaggio dei componenti avviene tramite carrelli intelligenti e ricorda il “pit stop” delle vetture di F1. Il riconoscimento della “rolla” è gestito automaticamente tramite codice a barre. Il settaggio dei programmi che comandano i robot di produzione è effettuato in modo dinamico da un tecnico specializzato a bordo linea.
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Sulle tre linee automatiche di produzione sono lavorate 150 diverse tipologie di schede elettroniche. Il fermo macchina è di soli dieci minuti.
Tutte le macchine di produzione sono collegate fra loro via rete Ip e i dati sono visualizzati in tempo reale.
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TOGETHER TO OVERCOME TOMORROW’S OMNICHANNEL CHALLENGES OMNICHANNEL CUSTOMER EXPERIENCE MARKETING CAMPAIGN MANAGEMENT
CUSTOMER
INTELLIGENCE & ANALYTICS PRICING & PROMOTION E-COMMERCE & DIGITAL STRATEGY
NETWORK DEVELOPMENT PLAN KPI & PERFORMANCE MANAGEMENT
STORE
MERCHANDISING & CATEGORY MANAGEMENT IN STORE DIGITAL & CLIENTELING SELLING CEREMONY & MYSTERY SHOPPING
SALES FORCE AUTOMATION PERFORMANCE MANAGEMENT
SALES FORCE
SELECTIVE DISTRIBUTION STRATEGY TRADE MARKETING MANAGEMENT PLANNING & CONTROL
www.valuelab.it info@valuelab
NUMERO 05 | OTTOBRE 2015
Storie di eccellenza e innovazione
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Scenari Smart city in Italia, fra prospettive e criticità
Tecnologie La società connessa passa per le reti 5G
Esperienze La catena del cibo e la sfida della logistica 2.0
Connected Society L'ECOSISTEMA DIGITALE STA PRENDENDO FORMA. CON IMPATTI E BENEFICI SUL MONDO PUBBLICO E PRIVATO
SCENARI
Vizi e virtù della società connessa L'INFORMATION TECHNOLOGY GIOCA UN RUOLO CHIAVE NELLO SVILUPPO SOSTENIBILE DEL PIANETA E PER REALIZZARE UN ECOSISTEMA DIGITALE ACCESSIBILE A TUTTI. MA SERVONO COOPERAZIONE FRA PUBBLICO E PRIVATO E UN’INNOVAZIONE FACILE DA USARE. Testo di Gianni Rusconi
D
all’uso efficiente dell’energia alla tutela degli oceani, dall’accesso all’istruzione fino all’ambizioso sogno della lotta alla povertà. Sono alcuni dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dalle Nazioni Unite e approvati da rappresentanti di 193 Paesi nel corso del Sustainable Development Summit tenutosi a New York a fine settembre. In queste sfide, da portare a termine entro il 2030, le tecnologie Ict giocano un ruolo fondamentale. Quale? La risposta è contenuta in uno studio condotto da Ericsson e dall’Earth Institute della Columbia University, presentato proprio in occasione dell’evento newyorchese. A dare man forte allo sviluppo sostenibile della società digitale, questo l’assunto, saranno in particolare alcune tecnologie, come la banda larga mobile di nuova generazione, l’Internet delle cose, l’intelligenza artificiale e le stampanti 52
3D. Strumenti in grado di abilitare progressi senza precedenti in campo sanitario e agricolo, nell’educazione e nella tutela dell’ambiente. Un punto centrale emerso dal report chiama in causa i governi, a cui spetta il compito di assicurare che l’intero settore pubblico sia pienamente supportato da servizi e soluzioni informatiche e di rete adeguate. Nella lista delle “cose da fare” spiccano per esempio la copertura broadband di tutte le strutture entro il 2020, la formazione Ict per tutti i funzionari e i fornitori di servizi e l’implementazione di soluzioni IoT (e quindi l’utilizzo di dispositivi connessi da remoto) per le infrastrutture e il monitoraggio ambientale. Non meno importante sarà la creazione di un sistema di gestione delle informazioni che connetta, a fini cooperativi e collaborativi, gli organismi pubblici con il settore privato.
SCENARI A detta di Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute e Professore di Health Policy e Management alla Columbia University, l’Ict è fondamentale in quanto “offre la possibilità di aggiornare la tecnologia e di introdurre nuovi servizi più velocemente e ad un minor costo”. Ma a una precisa condizione, e cioè “solo se i sistemi sono progettati e implementati velocemente, perché con gli obiettivi del 2030 che incombono non ci sarà alcuna possibilità per una lenta, prudente o graduale adozione di nuovi approcci”. L’idea di una società connessa virtuosa, in ogni caso, non è utopica. E lo confermano precisi indicatori come la penetrazione della banda larga, un motore di crescita del Pil di una nazione che va dall’1% fino al 10%. Un primo passo per affrontare le sfide globali di sviluppo sostenibile, come ricorda Ericsson, è quello di assicurare (entro il 2020) al 90% della popolazione mondiale l’accesso alle reti a banda larga mobile. Chi deve giocare un ruolo chiave nella realizzazione dell’ecosistema digitale sono le aziende Ict e i carrier telco. Uno studio di Accenture (“Engaging the Digital Customer in the New Connected World”) conferma come il 79% di chi possiede dispositivi intelligenti preferirebbe un unico fornitore per gestire tutte le soluzioni di comunicazione e intrattenimento utilizzate. I vendor tecnologici, in altre parole, sono considerati dagli stessi utenti i primi abilitatori di servizi digitali avanzati. Se di società connessa è lecito parlare, è anche vero che i cambiamenti dettati dalla “digital transformation” si riflettono anche nell’esperienza dei consumatori che vivono e lavorano a contatto con gli smart device. Circa l’83% degli utenti, dice l’indagine, trova complicato attivarli, connetterli a Internet e gestirne la complessità. Come sottolinea Tom Loozen, managing director and global communications industry lead di Accenture, “Orientarsi nell’ecosistema digitale può rivelarsi un compito arduo”. Per questo motivo le aziende tecnologiche hanno un compito inderogabile per contribuire alla diffusione di massa del digitale: realizzare prodotti innovativi, ma di facile utilizzo. 53
SCENARI
LO SPREAD DIGITALE COSTA CARO All’economia italiana basterebbero alcune azioni mirate per recuperare, grazie alla tecnologia, circa 3,6 miliardi di euro l’anno. La stima è del Censis, che ha misurato lo “spread digitale” del Belpaese ovvero il suo ritardo rispetto al resto d’Europa. Meno di sei italiani su dieci (il 58% dei 16-74enni) navigano su Internet, contro l’84% dei tedeschi e l’82% dei francesi, mentre solo il 5% delle imprese è attivo sul canale e-commerce. Quali sono, per il Censis, le azioni da compiere? Innanzitutto, bisognerebbe mettere ordine nelle banche dati della Pubblica Amministrazione, digitalizzandole e riducendone il numero dalle oltre 1.500 esistenti a un centinaio. Andrebbe poi azzerato il disavanzo nella bilancia dei pagamenti per i servizi informatici e infine, terzo step, l’e-commerce e l’utilizzo della moneta elettronica necessiterebbero di incentivi, per raggiungere i livelli europei.
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La digital transformation non aspetta: è l’ora del “dentro o fuori” Il “Global Connectivity Index 2015” mette a confronto le economie di 50 Paesi valutate in base agli investimenti in campo Ict. In testa ci sono gli Usa, l’Italia si muove nel limbo dei cosiddetti “follower”. ECCO COME SI CAVALCA L'ONDA DIGITALE. Testo di Alessandro Andriolo
I
l numero delle sottoscrizioni alla banda larga mobile ha superato nel mondo, alla fine del secondo trimestre di quest’anno, quota 3,1 miliardi, con un aumento del 25% rispetto al 2014. Il traffico dati è cresciuto invece anno su anno del 55%, mentre gli abbonamenti ai servizi di quarta generazione Lte sono arrivati a 740 milioni, sfruttando la crescente diffusione degli smartphone. Su quattro telefonini venduti, tre
sono apparecchi intelligenti. I numeri, roboanti, contenuti nell’ultimo “Mobility Report” di Ericsson, sono una faccia della società digitale ma ovviamente non l’unica. Prendiamo per esempio l’Internet delle cose. Le analisi sulla crescita dei dispositivi connessi si sprecano, ma sono più rare le stime sul loro impatto potenziale sulle aziende e sulle grandi organizzazioni in particolare. Che cosa succederebbe
SCENARI
SIAMO nell’era delle informazioni, LE AZIENDE CAMBIANO PELLE Dai Baby Boomer, attraverso la Generazione X, fino ai MIllennials. Uno studio ha fatto piazza pulita di tutte le etichette generazionali con una nuova definizione, trasversale alle età anagrafiche e che indica l’appartenenza a un diverso modello di interazione fra persone, tecnologie e dati. I “figli”, giovani e meno giovani, della “Information Generation” sono coloro che vivono e lavorano connessi alla Rete, tramite Pc e soprattutto tramite dispositivi mobili, visualizzando, creando e condividendo un flusso costante di contenuti. Il ritratto emerge da un’indagine sponsorizzata da Emc e condotta da Vanson Bourne intervistando 3.600 manager di aziende medio-grandi e oltre una quarantina tra accademici, influencer e opinion leader in materia di tecnologia in 18 Paesi, Italia compresa. Ebbene, quasi tutti gli interpellati (il 96%) concordano sul fatto che molti paradigmi di business, oggi ancora validi, tra pochi anni saranno radicalmente messi in discussione dalle nuove tecnologie. Quali? Alla domanda su quali saranno i motori di cambiamento per la propria azienda entro i prossimi cinque-dieci anni, il 66% ha citato i dispositivi mobili, il 51% gli analytics, il 45% il cloud computing e il 40% i social media. Circa un terzo degli intervistati tiene in considerazione anche l’Internet delle cose (citato dal 34%), la data visualization (34%), gli analytics in tempo reale (30%) e i dispositivi indossabili, mentre solo il 4% dei professionisti pensa che le tecnologie non avranno alcun impatto significativo sulle modalità di lavoro e di business. Purtroppo, secondo la ricerca, le imprese della Penisola hanno ancora la “vista corta”: solo il 15% degli intervistati italiani crede che la propria azienda sia in grado di sviluppare previsioni affidabili sulle nuove opportunità di mercato, sfruttando le potenzialità dei Big Data e degli analytics. La media globale è invece del 23%. Quel che è certo, comunque, è che l’esplosione dei dati richiederà necessariamente nuove capacità di filtrarli, analizzarli e gestirli.
se processi produttivi o intere catene distributive fossero adattate per implementare tecnologie IoT? La Ford potrebbe ridurre i costi di 1,13 miliardi, la Coca-Cola migliorare il reddito netto di 3,5 punti percentuali, la FedEx evitare di spendere 447 milioni di dollari in carburante. Le stime in questione sono contenute nel “Global Connectivity Index 2015” diffuso da Huawei, indagine che ha messo a confronto le economie di cinquanta Paesi in termini di connettività, grado di utilizzo delle tecnologie Ict e trasformazione digitale. Quest’ultima è un processo ormai inarrestabile, che può determinare il successo e allo stesso tempo il crollo delle economie moderne. Come ammoniscono gli autori del report, “Gli Stati e le comunità che non abbracceranno questo trend rischiano di rimanere indietro. I Paesi sentono l’enorme pressione per cavalcare in tempo l’onda digitale e accelerare così lo sviluppo economico e sociale, aumentando anche la competitività”. L’obiettivo di adattarsi ai cambiamenti introdotti dal-
le nuove tecnologie, cui sono sono chiamati tutti gli attori attivi della società (governi, imprese e ovviamente cittadini), è quello di creare nuovi paradigmi di sviluppo, di produzione e di realizzazione di servizi che combinino elementi del mondo reale e di quello informatico. Quali sono, quindi, i Paesi che hanno già acquisito le esperienze per “surfare” sull’onda digitale? Manco a dirlo, i primi sono gli Stati Uniti, grazie a un importante mercato dei servizi Ict e a un avanzato stato di adozione delle nuove tecnologie. Il report evidenzia in generale come i Paesi con un valore Global Connectivity Index maggiore siano anche quelli con un Pil più corposo. Dietro gli Usa (85 punti) troviamo Svezia (82), Singapore (81), Svizzera e Regno Unito (78) e Olanda (74): tutta la prima parte della classifica, quella dei “leader”, consta di nazioni dell’Occidente più sviluppato. L’Italia (con 51 punti) è nel gruppo dei “follower” ed è fra quei Paesi che, sebbene definiti maturi dal Fondo Monetario Internazionale, evidenziano performan-
ce di connettività da economia in via di sviluppo. Oltre a rischiare di perdere ulteriore competitività. Le sostanziali differenze tra i Paesi più avanzati e gli altri si trovano nei maggiori investimenti nella banda larga, in particolar modo quella mobile (sinonimo di maggiore fruibilità dei servizi), e in una parte consistente di budget Ict trasferita alle piattaforme cloud. Il rapporto tra i due valori, connettività e Pil, è fortemente correlato: aumentare del 20% gli investimenti in campo Ict significa fa risalire il Prodotto Interno Lordo di un punto percentuale. È chiaro quindi come spendere nella connettività globale significhi ottenere un impatto tangibile sulla crescita e sulle performance economiche generali. Il digitale, essendo per sua natura proiettato nel futuro, dovrà però affrontare nei prossimi mesi problematiche sempre più complesse, che aumenteranno al crescere della domanda. Il report di Huawei identifica in tal senso quattro criticità: privacy, sicurezza, abbondanza di dati e investimenti nelle infrastrutture. 55
SCENARI
Smart city in Italia fra prospettive e criticità Gli enti pubblici spesso non hanno fondi da investire in tecnologie e servizi innovativi. In altri casi sono bloccati da vincoli tecnici. Ma non è solo un problema di risorse e di burocrazia. E il bicchiere resta mezza vuoto. Testo di Gianni Rusconi
G
iuseppe Anastasi è il direttore del Laboratorio Nazionale Smart Cities & Communities attivato di recente dal Cini, il Consorzio Inter-universitario Nazionale per l’Informatica. Un ruolo privilegiato, il suo, per osservare l’evoluzione dei progetti in materia di città intelligenti. A lui, che ricopre anche la carica di direttore del Master Universitario in Smart Cities organizzato dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr, abbiamo chiesto di scattare una fotografia del fenomeno per mettere in evidenza anche gli ostacoli che limitano il processo di innovazione dei centri urbani della Penisola. Le smart city in Italia: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Dal mio punto di vista direi che è mezzo vuoto. Diversi progetti sono stati avviati negli ultimi anni ma siamo ancora indietro. Se guardiamo alle classifiche delle città europee più smart, per quello che possono valere queste graduatorie, nei primi posti non figura alcuna città italiana. E anche rimanendo nell’ambito nazionale le città del Nord sono molto più attive rispetto a quelle del Sud. Inoltre, sempre secondo queste classifiche, le città più smart sono, tipicamente, le metropoli. Le criticità maggiori che limitano la diffusione sistemica di questi progetti sono di tipo economico? Certamente la mancanza di risorse limita molto la capacità di innovazione. Spesso gli enti pubblici non hanno fondi da inve56
stire in tecnologie e in servizi innovativi. In altri casi hanno le risorse ma sono bloccati da vincoli di bilancio. Ma non c’é solo un problema di risorse. In alcuni casi basterebbe poco a rendere le città più amichevoli, facendo semplicemente funzionare adeguatamente gli strumenti che già ci sono. Incidono sicuramente anche altri fattori, quali la mancanza di incentivi. Pianificare e realizzare l’innovazione costa, in termini di energie e tempo. Senza incentivi appropriati, è comprensibile che ci si limiti a portare avanti le semplici attività di routine. Un altro ostacolo è la burocrazia: anche quando un’azienda è disponibile a offrire gratuitamente le proprie soluzioni, spesso le resistenze poste dagli uffici tecnici e i tempi decisionali estremamente lunghi degli enti vanificano il progetto e fanno venire meno la disponibilità dell’azienda. Quali sono i settori più bisognosi di diventare smart? Tutti i settori, a mio parere, necessitano di innovazione continua. Non sarebbe saggio concentrarsi su alcuni a scapito di altri. Certamente alcuni sono più vicini alla sensibilità delle persone e, conseguentemente, dei politici che governano le città. Penso, per esempio, alla sanità e a tutto ciò che riguarda la sicurezza dei cittadini e delle infrastrutture. Altri, data la peculiarità delle città italiane, spesso città d’arte e a forte vocazione turistica, andrebbero particolarmente valorizzati. E quindi converrebbe investire in attività in ambito e-tourism ed e-culture.
SCENARI Ha senso fare riferimento a best practice su scala internazionale? Certamente si. Anche se le città sono tutte diverse fra di loro, per cui le soluzioni non sono immediatamente replicabili. Tuttavia alcune soluzioni già implementate possono essere facilmente adattate al contesto locale. In questa prospettiva giudico molto positivamente l’Osservatorio Smart City dell’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) nato per raccogliere, classificare e condividere tutti i progetti realizzati in Italia. Uno strumento che vuole favorire la creazione di una rete di soggetti in grado di promuovere innovazione nei territori. Vedremo se gli amministratori sapranno farne buon uso. Perché nasce il Laboratorio Nazionale Smart Cities & Communities? Rendere le città e le comunità più smart è un processo assai complesso che coinvolge diversi attori e pone numerose sfide, non solo di tipo tecnologico, ma anche in
campo sociale, economico, organizzativo, politico. Il ruolo delle tecnologie Ict in questo processo è fuori discussione. In questo contesto il Laboratorio promosso dal Cini mette a disposizione il suo potenziale di competenze tecniche e le soluzioni già sviluppate nei precedenti progetti, con l’intento di collaborare con amministrazioni pubbliche e aziende in attività di formazione, di trasferimento tecnologico e/o di sviluppo di nuove idee progettuali. Come opera? È un laboratorio organizzato a rete e distribuito su tutto il territorio nazionale. Attualmente è costituito da 26 nodi, siti in altrettante Università Italiane, e comprende circa 350 ricercatori che operano principalmente nell’ambito delle tecnologie Ict e per la loro applicazione in aree quali l’efficienza energetica, la sostenibilità ambientale, la mobilità intelligente, la sicurezza dei cittadini e delle infrastrutture, il turismo, la cultura e l’egovernment.
La formula magica? Si chiama integrazione “Senza una visione d’insieme di tutte le iniziative, parlare di città connessa è solo un modo di vendere una visione del futuro per ottenere sovvenzioni pubbliche”. Parole di David Socha, numero uno della divisione Utility di Teradata per Europa, Medio Oriente e Africa, Asia Pacifico e Giappone. Su Forbes anima un blog in cui argomenta di analitycs e Internet of Things ed è scettico nei confronti di chi crede che molte iniziative “smart” in Europa siano destinate a morire prematuramente. I progetti di città intelligente avviati nelle zone urbane densamente popolate sono molti e si declinano nell’illuminazione stradale a basso consumo energetico, nei sistemi di individuazione automatica dei parcheggi liberi, nell’accesso online ai portali della Pubblica Amministrazione con un unico account e altro ancora. Tutte espressioni di quello che l’esperto di Teradata chiama semplicemente “progresso ed evoluzione naturale delle cose, proprio come le città che si sono sempre evolute sin da quando esistono”. Ma che cosa, allora, rende davvero “smart” una città? Secondo Socha, solo un fattore abilitante: l’integrazione. Perché quando si arriva all’integrazione si inizia a generare valore aggiunto da tutte le iniziative e il beneficio di tutti i singoli progetti sarà maggiore della somma delle loro parti. Un esempio? In campo energetico potrebbe significare la correlazione dei dati sui consumi domestici di energia con quelli dell’auto elettrica, con vantaggi per il singolo cittadino e per la comunità (per esempio, tariffe agevolate per chi sfrutta fonti rinnovabili o la possibilità di rivendere l’energia risparmiata al gestore della rete). Integrando altri dati si potrebbe creare un “profilo energetico” individuale doppiamente valorizzabile , sotto l’aspetto economico e in termini di maggiore efficienza comune. La formula magica per creare una città intelligente non esiste. Ma è certo che l’integrazione sia un ingrediente irrinunciabile della ricetta “smart”.
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TECNOLOGIE
COLONNINE ECOSOSTENIBILI Sul territorio italiano sono ormai centinaia: tante ma mai abbastanza, specie se si considera la loro distribuzione disomogenea, concentrata soprattutto a Roma e a Milano. Parliamo delle stazioni di ricarica per i veicoli elettrici, capaci di restituire energia alle automobili green ma anche a moto e biciclette. Per il successo dei trasporti ecosostenibili, è facile intuirlo, sarà cruciale la diffusione dei punti di ricarica ma anche la loro buona gestione. A questo mira la nuova soluzione sviluppata da Abb Italia per Repower, multinazionale svizzera del settore energetico (che con la stessa Abb da anni ha già lanciato la colonnina di ricarica Palina): si tratta di un servizio che permette ai proprietari dei network di stazioni di ricarica di monitorare ciascun sistema da remoto, tramite portale Web, rilevando disservizi ed eseguendo diagnosi dei malfunzionamenti. Il sistema, inoltre, è pensato per operare con applicazioni mobili utili a gestire le ricariche e diversi metodi di pagamento.
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La società connessa passa per le reti 5G PER GESTIRE MILIONI DI OGGETTI DELL'IOT IN AREE MOLTO CONCENTRATE SARANNO NECESSARIE TRASMISSIONI OTTICHE DA DECINE DI TERABIT AL SECONDO. Testo di Roberto Loiola presidente e amministratore delegato alcatel-lucent italia
e regional leader south and central europe
S
tiamo vivendo una grande trasformazione tecnologica che sta impattando sui fornitori di reti e servizi, ma soprattutto impatterà sull’evoluzione dei modelli economici e sociali. Una trasformazione che vuole dare risposte alle esigenze sempre più marcate degli utenti, come l’esplosiva richiesta di traffico dati a basso costo su terminali mobili/wireless e su televisori connessi per gli utenti residenziali (nel 2015 circa il 60% del traffico Internet sarà generato da contenuti video) e come l’utilizzo di servizi online per gli utenti business (circa l’80% di tutti i nuovi pacchetti software/applicativi è già oggi disponibile
TECNOLOGIE
IL PONTE FRA LE ISOLE SI FA CON LE RETI A MICROONDE Una tecnologia sviluppata nel nostro Paese, nata per avvicinare gli italiani. È quanto realizzato di recente da Alcatel-Lucent fornendo a Tim un collegamento su ponte radio per garantire la continuità della connessione a banda ultralarga tra le isole siciliane di Pantelleria e Lampedusa, distanti fra loro circa 147 chilometri. La tecnologia, messa a punto nei laboratori di ricerca e sviluppo di Vimercate, rafforzerà l’affidabilità dei servizi voce e di accesso ultra broadband per cittadini e turisti. Il ponte radio è caratterizzato da alta capacità (800 Mbits) e da alta disponibilità per supportare una combinazione fra traffico Ip e tradizionale. Per gestire la connessione opera l’appliance 9500 Microwave Packet Radio (Mpr) di Alcatel-Lucent, un sistema a lunga distanza capace di massimizzare lo spettro elettromagnetico riducendo al contempo il costo totale di possesso delle reti a microonde. A.A.
in modalità cloud). A trasformare la vita quotidiana delle persone e a mutare la tipologia di servizi offerti dalle imprese e dalle pubbliche amministrazioni sarà soprattutto la pervasività degli oggetti intelligenti e connessi: il cosiddetto Internet of Things, per cui i nostri Bell Labs prevedono per il 2020 più di 20 miliardi di dispositivi in azione. Il cambiamento più grande che a livello globale l’industria tecnologica ha iniziato ad affrontare, per poter così rispondere alle sfide poste dal mercato, è quello della quinta generazione delle reti mobili, il 5G. Questa nuova architettura richiederà una mutazione, sia per la parte di accesso mobile sia per tutti i segmenti delle reti di comunicazione, per poter sfruttare al meglio potenzialità che saranno veramente “disruptive” se confrontate con quelle delle reti mobili realizzate con tecnologia 4G/Lte. Il 5G avrà una velocità
di connessione dati cento volte maggiore, arrivando a toccare i 10Gbps. In un’area di un chilometro quadrato le celle telefoniche 5G potranno gestire la presenza di un milione di oggetti connessi e un traffico dati aggregato di un terabit al secondo. Con un incremento di mille volte rispetto al 4G, queste caratteristiche permetteranno di realizzare l’infrastruttura di base per l’IoT e di garantire un’eccellente user experience. Si aggiungono, inoltre, altre peculiarità che permetteranno alle reti 5G di essere la piattaforma abilitante per l’ampia diffusione delle applicazioni “mission critical” in ambito trasporti, mobilità, salute e assistenza: un’affidabilità della rete al 99,999%, una latenza delle comunicazioni end-to-end garantita in cinque millisecondi e la possibilità di creare un nuovo servizio in circa 90 minuti rispetto ai 90 giorni delle attuali piattaforme. Il 5G rappresenta una grande opportunità di rilancio dell’industria digitale in Europa. La Commissione Europea sta promuovendo con forza il rilancio della ricerca e sviluppo e nello specifico quella legata alle reti di quinta generazione. Nell’ambito del programma quadro Horizon2020 è stata creata una partnership pubblico-
privata denominata 5G-Ppp, mirata alla definizione di standard e tecnologie, con il coinvolgimento di aziende Ict, centri di ricerca e università. Alcatel-Lucent è tra i membri fondatori e sono parte attiva di questa iniziativa realtà italiane quali Telecom Italia, Telespazio (di Finmeccanica) e il Cnit, il Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni. I nostri laboratori di ricerca e sviluppo in Italia sono un’eccellenza riconosciuta a livello globale nell’ambito di due segmenti di rete molto importanti per l’evoluzione verso il 5G. Il primo è quello dei sistemi per le trasmissioni ottiche a grandi capacità: stiamo parlando di apparati attualmente in grado di trasportare 100/200/400 Gbps per singolo flusso ottico. Il secondo è quello delle tecnologie per le trasmissioni Ip wireless, e cioè i ponti radio che permettono sia connettività a grandi distanze sia connettività a bassi costi in ambito urbano per collegare celle radiomobili. In questi laboratori si stanno già studiando e iniziando a progettare soluzioni che abiliteranno la trasformazione richiesta dal 5G. Saranno infatti necessarie trasmissioni ottiche da decine di Terabit al secondo e ponti radio di piccola dimensione per essere sempre più vicini ai milioni di dispositivi intelligenti che si dovranno gestire nella “connected society”. Ma una società connessa, dotata dei benefici offerti dalle trasformazioni tecnologiche in corso, potrà realizzarsi in Italia solo se facciamo velocemente significativi passi avanti quanto alla disponibilità di infrastrutture ad alta velocità e prestazioni. Servono e serviranno sempre più tecnologie digitali di nuova generazione come il 5G, ma serve soprattutto un cambio culturale verso il digitale dei policy maker, delle pubbliche amministrazioni, delle imprese e dei consumatori.
Le reti mobili di quinta generazione rappresentano una grande opportunità di rilancio dell’industria digitale in Europa e permetteranno di realizzare l’infrastruttura di base per l’Internet of Things. 59
TECNOLOGIE
Reti, fotonica, cloud: abilitatori della networked society
S
tiamo assistendo a una profonda trasformazione digitale guidata da mobilità, banda larga e cloud, che porterà alla realizzazione di quella che in Ericsson chiamiamo “networked society”, dove tutto ciò che può beneficiare di una connessione sarà connesso, generando benefici per cittadini, imprese e ambiente. L’innovazione rappresenta una leva strategica per accelerare la crescita economica e quella sociale, anche in Italia. E ci sono dati che lo confermano. Il 72% degli italiani, lo dice una ricerca che abbiamo condotto con la Luiss Business School, è convinto che lo sviluppo tecnologico sia una leva strategica per creare nuovi mercati e posti 60
Innovare è un passaggio obbligato per accedere ai benefici economici e sociali garantiti dalla società connessa. I centri di ricerca Ericsson e le università italiane sono in prima fila per lo sviluppo del 5G. Testo di Nunzio Mirtillo, amministratore delegato di ericsson italia e presidente regione mediterranea
di lavoro. Un altro studio, realizzato con Arthur D. Little, dimostra che il raddoppio della velocità di connessione porta a un incremento dello 0,3% del Pil e che a ogni incremento del 10% del tasso di penetrazione della banda larga corrisponde un aumento del prodotto interno lordo dell’1%. Tassello fondamentale di
questa evoluzione è la rete, che deve essere in grado di sostenere il traffico dati in costante crescita. Ericsson ricopre un ruolo centrale nello sviluppo delle reti mobili del futuro e ha recentemente deciso di lanciare una sua iniziativa su scala europea, il progetto “5G for Europe”: l’obiettivo è quello di
TECNOLOGIE creare – coinvolgendo operatori, industrie, centri di ricerca e università – un vero e proprio ecosistema mirato a rafforzare la competitività delle aziende europee, anche quelle di piccole dimensioni, attraverso progetti pilota innovativi che avranno proprio le reti 5G come abilitatore. Il nostro compito è inoltre quello di identificare i giusti requisiti tecnologici che dovranno avere le reti del futuro e in questo contesto l’Italia ha un ruolo centrale. Basti pensare al progetto Iris, che ha prodotto uno switch basato sulla fotonica del silicio e in grado di ospitare migliaia di circuiti ottici in un solo chip; alla partnership avviata con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa per studiare e creare prototipi di componenti, moduli e sottosistemi fotonici di nuova concezione che giocheranno un ruolo dirompente nello sviluppo del 5G; alle collaborazioni in essere con l’Istituto di Biorobotica della stessa Scuola Superiore di Pisa e con Zucchetti Centro Sistemi per il mobile cloud robotics. Progetti che si affiancano alle attività dei centri di ricerca e sviluppo di Ericsson in Italia (a Genova, Pisa e Pagani, con oltre 800 ricercatori impegnati), tra i più attivi nello sviluppo delle tecnologie per la società connessa, come dimostrano i 250 brevetti depositati negli ultimi cinque anni. Grazie a una maggiore velocità, a una minore latenza e a una migliore prestazione nelle aree densamente popolate, le reti di quinta generazione permetteranno un’evoluzione della user experience, oltre ad abilitare nuove applicazioni che avranno un impatto sia sui consumatori sia sulle industrie. Qualche esempio? Ericsson ha lanciato al fianco di Abb, Boliden e Volvo Construction Equipment un progetto pilota nelle miniere svedesi che sfrutta la rete 5G per le operazioni di comunicazione e di controllo a distanza, confermando le potenzialità della tecnologia per migliorare la sicurezza e la produttività in ambienti pericolosi. Pensiamo al settore dei trasporti. Il futuro delle vetture è quello di essere sempre più connesse a Internet e al cloud. Serve quindi sviluppare un’offerta di soluzioni affinché conducenti e
DIALOGO A DISTANZA FRA EUROPA E CINA Le reti mobili di quinta generazione avvicineranno ancora di più il Vecchio Continente al Paese del Dragone, nel segno di un’innovazione che vuole e che deve fare ecosistema. Lo dice l’accordo sancito a fine settembre fra l’Unione Europea e il governo di Pechino per collaborare allo sviluppo della tecnologia 5G, definita come la “spina dorsale della società digitale del futuro”. La dichiarazione d’intenti permetterà alle due parti di avere completo accesso anche ai finanziamenti previsti dai due principali progetti messi in campo da Bruxelles e Pechino, e cioè la 5G Ppp Association (che prevede lo stanziamento di 3,5 miliardi di euro di investimenti privati, in aggiunta ai 700 milioni di euro di fondi Ue del programma Horizon 2020) e la Imt-2020 (5G) Promotion Association. I cardini della collaborazione sono cinque e comprendono l’identificazione delle bande radio più promettenti per la velocità e l’efficienza del segnale. Azioni necessarie, perché la prossima generazione di reti a banda larghissima non dovrà soltanto distribuire dati con una rapidità maggiore (fino a 20 Gbps), ma anche fare i conti con un traffico decisamente più intasato rispetto a oggi: il numero dei dispositivi connessi porterà nel 2020 a un aumento del traffico pari a trenta volte rispetto al 2010. E, proprio per il boom di oggetti collegati alla Rete e disseminati ovunque, le reti 5G dovranno dimostrare di essere molto performanti anche in termini di consumi energetici. L’accordo siglato con la Cina ricalca le partnership già avviate dall’Unione Europea con Corea del Sud e Giappone nel 2014 e nel 2015. “Con la firma dell’accordo”, ha dichiarato Günther Oettinger, commissario per l’economia e la società digitale, “la Ue si è messa al fianco del più importante partner asiatico nella corsa per rendere il 5G una realtà entro il 2020”. L’Asia è attualmente capofila nella diffusione delle reti di quarta generazione, come certificato dai dati di OpenSignal, con quattro Paesi nelle prime cinque posizioni (in testa c’è la Corea del Sud, con il 97% di copertura per le 4G). L’Italia figura al cinquantesimo posto nel mondo come copertura (50%) ma vanta una velocità media di 17 Mbps (superiore a quella della Cina) e si dichiara pronta alla sfida.
Le reti di quinta generazione permetteranno un’evoluzione della user experience e abiliteranno applicazioni che avranno un impatto sia sui consumatori sia sulle industrie. passeggeri possano accedere a servizi e applicazioni di infotainment in tempo reale. Le amministrazioni pubbliche, da parte loro, potrebbero fare in modo che le auto diventino un’importante fonte di informazione per le società di assicurazioni, con il fine di garantire polizze più vantaggiose ai clienti finali. Guardiamo infine anche al mondo della sanità e alla chirurgia a distanza, un ambito che richiede la trasmissione di enormi quantità di dati e quindi una rete estremamente affidabile con un ritardo bassissimo. Caratteristiche proprie della rete 5G. 61
ESPERIENZE
LA FILIERA ALIMENTARE DIVENTA PIÙ INTELLIGENTE GRAZIE A NUOVI MODELLI, COME GLI SMART CONTAINER. PER RISPONDERE ALL’ESIGENZA DI SEMPRE: GARANTIRE QUALITÀ AL CONSUMATORE FINALE. Testo di Riccardo Manzini professore di logistica e direttore del food supply chain center dell'università di bologna
La catena del cibo e la sfida della logistica 2.0
O
ggi più che mai, anche grazie a Expo, la filiera agroalimentare è al centro dell’attenzione di tutti, istituzioni e settore produttivo in primis. Se muovere un prodotto da un estremo all’altro della Terra è costoso e difficile, la complessità cresce se l’alimento è deperibile e se qualità e sicurezza sono sensibili agli stress fisici e ambientali cui è esposto lungo il suo ciclo di vita. Si parla non a caso di “food supply chain”, ambito che per l’industria alimentare ha ancora notevoli margini di miglioramento e di efficientamento di sistema. Provando a ribaltare una prospettiva molto popolare nel dibattito sulla sostenibilità di filiera, si può passare dalla visione “from farm to fork” a quella “from fork to farm”, ovvero “dalla forchetta al campo”. Quest’ultima sposta l’attenzione sulla movimentazione dei prodotti, ovvero sul loro stoccaggio e trasporto, e i suoi elementi chiave sono integrazione e multidiscipli62
narietà. Il focus è quindi su tutta la filiera, prescindendo dall’interesse del singolo operatore. Negli ultimi anni il Centro di Ricerca sul Food Supply Chain dell’Università di Bologna ha condotto numerosi studi sul controllo della qualità e della sicurezza di prodotti deperibili secchi, freschi e surgelati, arrivando a delineare linee guida utili ai produttori e ai numerosi attori della filiera (dai fornitori di materie prime agli operatori della distribuzione organizzata). Governare e controllare in modo integrato e simultaneo sicurezza, qualità, sostenibilità ambientale ed efficienza logistica è un compito molto ambizioso, perché non esistono soluzioni di valore assoluto nella scelta delle modalità di trasporto, packaging e tratta/percorso. Ogni filiera circostanziata con un particolare profilo di domanda finale e georeferenziata in tutte le sue anime è configurabile in modo ottimale. La maglia della rete logistica
può contabilizzare decine di migliaia di nodi, ciascuno con un determinato ruolo (produzione, stoccaggio, trasformazione, trasporto, ecc.) e attrezzato con disponibilità energetiche, tecnologiche e di smaltimento particolari. Ci si trova di fronte a modelli di ottimizzazione fatti da centinaia di migliaia di variabili, ed è questo l’ostacolo da superare per massimizzare le prestazioni globali del sistema, riducendo al minimo costi e impatto ambientale e garantendo alti livelli di qualità e servizio al consumatore finale.
ESPERIENZE
APP, SENSORI E ANALYTICS RIVOLUZIONANO I TRASPORTI Altro che partenze intelligenti. Con l’Internet of Things l’intero sistema dei trasporti – da quelli che corrono sui binari a quelli in navigazione verso i porti cittadini – diventa più efficiente, economico e anche sicuro. Dai navigatori Gps, cioè dal primo tassello dell’Internet delle cose applicato agli spostamenti, molta strada è stata percorsa e oggi si riflette non più soltanto sulla raccolta e trasmissione dei dati ma su sistemi più completi, che integrino comunicazione, controllo e analisi delle informazioni. Lo stesso Gps sta diventando uno fra i tanti ingredienti delle “auto connesse”, dotate di Bluetooth e WiFi per le comunicazioni fra dispositivi mobili e sistemi di infotainment, o fra la vettura e il Web, oppure ancora fra veicolo e veicolo. Un business che attrae i produttori di tecnologie hardware ma anche i fornitori di servizi, come Google con le sue Maps (e non è un caso che proprio l’azienda di Mountain View sia da anni concentrata sulla sperimentazione delle automobili senza conducente). C’è poi il ruolo delle istituzioni: negli Usa, per esempio, la National Highway Transportation Safety Administration è al lavoro sulla definizione di standard per la comunicazione wireless applicata ad automobili e mezzi pesanti. Lo scambio di informazioni in tempo reale permetterà di ridurre il traffico, il consumo di benzina e – quel che più conta – gli incidenti, tant’è che la tecnologia “vehicle-to-vehicle” è stata citata dal Segretario ai Trasporti degli Stati Uniti, Anthony Foxx, come un’innovazione paragonabile agli airbag e alle cinture di sicurezza. E standard simili sono l’obiettivo della Federal Railroad Administration, per un progetto che già consente di sfruttare le app per smartphone per inviare ai passeggeri informazioni su orari, ritardi e percorsi di treni e autobus. L’intelligenza che viaggia sui binari nasce anche da Huawei e dalle sue soluzioni basate su protocollo Ip e tecnologia eLte, attualmente già testate e impiegate su circa 85mila chilometri di tracciati ferroviari in diversi Paesi del mondo. Si spazia dal supporto ai sistemi di controllo della segnaletica alle attività di videosorveglianza, passando per la connettività wireless (ad alta velocità) a bordo dei treni. Anche un luogo catalogato come patrimonio Unesco e testimonianza della storia di una città può diventare esempio di avanguardia smart. È il caso del porto di Amburgo, inserito all’interno di un progetto sperimentale di Cisco. Quattro le finalità: aiutare, attraverso gli analytics, i responsabili della gestione della viabilità del porto a monitorare il traffico stradale; usare sensori posti sulle infrastrutture, per esempio ponti, per controllarne il funzionamento e pianificare interventi di manutenzione; vigilare sull’area portuale attraverso sensori ambientali; sfruttare un sistema di illuminazione intelligente (con luci che “inseguono” le persone) per migliorare la sicurezza di pedoni e ciclisti in transito e per ridurre i consumi di energia elettrica. L’obiettivo finale è quella di realizzare la prima “smart road” d’Europa. V.B.
La sfida per il futuro è guardare alla filiera come a un vero ecosistema che va progettato, gestito e controllato nella sua interezza, cercando un compromesso fra tutte le variabili in gioco. La logistica 2.0 si sposa, di conseguenza, alla gestione dell’energia e di risorse quali terra e acqua, il cui fabbisogno da qui al 2050 è previsto in significativa crescita. Obiettivo di ogni ecosistema è quello di essere bilanciato: servono quindi scelte logistiche che supportino lo stoccaggio e la movimentazione “from farm to fork” della
merce, dalla materia prima ai prodotti finiti e senza dimenticare gli scarti, che non si generano solo nel fine vita. Una Internet “fisica” Le tecnologie sono parte integrante delle linee guida definite dal nostro Centro di Ricerca. Sull’Internet of Things la logistica sta investendo moltissimo e c’è in particolare un modello concettuale cui fare riferimento: quello del “Physical Internet”, che mira all’integrazione e alla condivisione di strumenti fisici e digitali per esten-
dere l’interconnettività a tutta la filiera. Fa leva principalmente sulla modularità e scalabilità delle infrastrutture logistiche, con il fine di rendere più efficienti i sistemi di movimentazione della merce. L’elemento base è lo “smart container”. Il Physical Internet si basa infatti su un concetto di rete, che ricorda molto il Www e che veicola informazioni spacchettandole, facendole viaggiare su maglie fittissime. Si tratta di un modello in linea con molte sfide lanciate recentemente da alcuni grandi operatori, a cominciare da Amazon. 63
ESPERIENZE
L’efficienza energetica nelle città intelligenti? Si fa anche senza le rinnovabili
LA SMART ISLAND INQUINA MENO E FA RISPARMIARE MILIONI Per far “sbocciare” l’Isola del Giglio, coniugando tecnologia ed ecologia, si sono messi d’impegno Ibm, Terna Plus (controllata dell’operatore per la trasmissione dell’energia), la società concessionaria locale dell’erogazione di elettricità (Sie), l’Ente Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e l’Acquedotto del Fiora. Il progetto di “smart island” prevede la realizzazione di un sistema elettrico più efficiente e meno inquinante, che potrà abbattere costi e impatto ambientale grazie all’impiego di fonti rinnovabili. Come accade anche su altre isole minori, non connesse alla rete nazionale, la produzione di elettricità è affidata a motori alimentati a gasolio, che disperdono nell’ambiente circa i tre quarti dell’energia sotto forma di calore refluo e fumi nocivi. Per soddisfare una domanda annua di 10 milioni di kilowattora si bruciano oltre 2.300 tonnellate di combustibile, immettendo nell’atmosfera 7.500 tonnellate di CO2. Quantità che potrebbe essere quasi dimezzata utilizzando un modello “ibrido”, cioè associando motori a gasolio, impianti fotovoltaici e sistemi di accumulo. Considerato l’attuale costo della produzione di elettricità sull’Isola del Giglio (in media sei volte più alto rispetto a quello continentale), con questo metodo si otterrebbe un risparmio di oltre 60 milioni di euro l’anno. V.B.
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La smart grid di Expo 2015 è un esempio virtuoso, e replicabile ANCHE In ambiti industriali, di come sia possibile tenere sotto controllo i consumi aumentando l’affidabilità del sistema. Grazie a TECNOLOGIE e software ALL'AVANGUARDIA, sviluppate in Italia.
Testo di Gianni Rusconi
ESPERIENZE
I
l tema della sostenibilità energetica è uno dei leitmotiv di Expo 2015. Un evento che è stato considerato a ragione un esempio reale di cittadella intelligente e che rappresentava un banco di prova altisonante per testare sul campo il funzionamento di una smart grid. La natura “green” dell’esposizione universale ha trovato concretezza in un sistema di distribuzione dell’energia elettrica che prometteva di essere intelligente, sicuro ed efficiente grazie a un software di gestione con capacità previsionali e di autodiagnostica basato su piattaforma cloud. A tirare le fila della smart grid di Expo ci hanno pensato Enel Distribuzione e Siemens. Quest’ultima ha realizzato una soluzione il cui compito è stato quello di abilitare il monitoraggio e il reporting di tutti i consumi energetici all’interno della manifestazione, dalle parti comuni ai padiglioni, dalle infrastrutture di ricarica dei veicoli elettrici a quelle dell’illuminazione a Led (oltre 8.500 punti luce in tutta l’area espositiva). Il tutto, integrando fonti energetiche rinnovabili, per quanto la capacità di autoproduzione da fotovoltaico sia risultata essere limitata. Come si può, allora, rendere più efficiente la rete non potendo agire sulla generazione di energia? L’esperienza di successo maturata in Expo ci fornisce la risposta: facendo leva sui consumi, ottimizzandoli. Qui entrano in gioco il sistema Ems (Energy Management System) sviluppato nei laboratori milanesi di Siemens e basato su piattaforma cloud. La sua peculiarità è quella di verificare in tempo reale lo stato di funzionamento di tutti i dispositivi della smart grid, effettuare operazioni di controllo e supportare i processi di manutenzione ordinaria e straordinaria, segnalando l’eventuale presenza di anomalie. Il sistema accessibile anche da remoto attraverso un’applicazione per smartphone. Benefici misurabili La flessibilità d’uso della soluzione è comunque solo uno dei benefici che la smart grid ha elevato a livello di vera e propria best practice. Gli energy manager di ciascun padiglione dell’esposizione possono, infatti, verificare le informazioni di
UN CERVELLO PIÙ EVOLUTO PER PREVEDERE SOLE E PIOGGIA Alla proverbiale precisione dei suoi orologi, la Svizzera vuole associare un nuovo vanto in fatto di capacità di calcolo: le previsioni del meteo. Un nuovo supercomputer, equipaggiato con le unità di calcolo grafico Nvidia Tesla, garantirà infatti all’Ente di Meteorologia elvetico e al suo servizio MeteoSwiss prestazioni quaranta volte superiori a quelle offerte dal sistema (basato su Cpu) che andrà a sostituire. Perché è importante questa innovazione? Perché da Cray – questo il nome del “supercervello” – usciranno modelli di previsione con una risoluzione raddoppiata per i bollettini meteo di breve raggio (entro le 24 ore) e addirittura triplicata per quelli a medio raggio. “La sfida dei modelli previsionali di nuova generazione risiede nel tempo estremamente breve che i meteorologi hanno a disposizione per completare queste simulazioni”, ha spiegato Thomas Schulthess, direttore dello Swiss National Supercomputing Centre di Lugano, che dalla primavera/estate del prossimo anno ospiterà Cray. “L’accelerazione via Gpu”, ha proseguito, “permette ai meteorologi di creare rapidamente previsioni del tempo a elevata risoluzione, assicurando un più elevato livello di attendibilità”.
propria competenza (come il consumo di luci e climatizzazione) ed eventualmente intervenire sui singoli carichi connessi al sistema mediante un’interfaccia Web multilingue fruibile con poche istruzioni. Quali benefici ha prodotto? Le percentuali di risparmio energetico sono confermate a due cifre e si tratta del parametro decisamente più importante, considerando che (secondo le stime di Avvenia) alla fine dell’esposizione i consumi ammonteranno a circa 150 milioni di kilowattora. Ma la valenza del progetto non si esaurisce in questo numero, per quanto indicativo. L’architettura in questione raccoglie dati da oggetti e servizi diversi grazie alla compatibilità in ingresso con una varietà di protocolli aperti e stan-
dardizzati, sposando in toto il paradigma dell’Internet delle cose. Definire la smart grid di Expo come un’applicazione IoT su larga scala è tutt’altro che improprio. L’Ems di Siemens è infatti un “pacchetto” implementabile anche in contesti esistenti, modulabile e personalizzabile a seconda delle esigenze: non solo smart city e building automation, ma anche fabbriche e processi industriali. Applicando questo modello a una grande azienda produttiva, si intuisce come un’architettura di questo genere possa costituire un sostanziale salto in avanti nelle modalità di gestione e ed efficientamento energetico in ambienti a elevato consumo. Cavalcando la rivoluzione digitale dettata da Industry 4.0. 65
ESPERIENZE
La carta di identità delle città smart La piattaforma creata dall’Anci segnala per l’Italia più di mille progetti in corso, con al primo posto il tema dell’ambiente. E Anche per il popolo del Web questa è la priorità. Testo di Valentina Bernocco
C
he cosa rende “smart” una smart city? Per rispondere ci sono almeno due punti di vista diversi da considerare: da un lato, la definizione formale di città intelligente così come elaborata dalle istituzioni; dall’altro le aspettative e i desideri delle persone. Punti di vista che a volte convergono, ma non perfettamente. Nello Stivale, dal maggio di quest’anno, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci) ha affrontato la questione creando Italian Smart City: una piattaforma Web che cataloga le buone pratiche dei Comuni più orientati alla trasformazione e che può fungere da orientamento per gli altri. La carne al fuoco non manca, perché l’Osservatorio dell’Anci considera 110 Comuni, oltre 1.200 azioni in corso e 14 milioni di cittadini beneficiari. Otto le categorie prese in esame dalla piattaforma, ovvero ambiente (con 191 progetti in divenire, fra monitoraggio e controllo dell’inquinamento, gestione delle risorse idriche e smaltimento dei rifiuti), energia (130 iniziative su fonti rinnovabili ed efficientamento dei sistemi esistenti), economia (107 piani di sviluppo dell’imprenditoria locale e finanziamento di startup), persone (163 campagne di sensibilizzazione, coinvolgimento e informazione), qualità della vita (151 iniziative per sanità, istruzione e sicurezza), Pubblica Amministrazione (semplificazione delle comunicazioni e nuovi servizi, 151 progetti in corso) e pianificazione (92 azioni trasversali alle categorie citate). Dietro queste tematiche stanno le tecnologie, come l’Internet of Things che collega i sistemi di illuminazione pubblica o di monitoraggio delle smart grid, e come le app mobili con cui i cittadini fruiscono di nuovi servizi o le reti WiFi pubbliche. 66
I singoli esempi potrebbero essere infiniti, ma vale la pena tornare alla visione d’insieme per cogliere un’indicazione importante: il primo attributo di una città (o di un territorio) smart è il rispetto per l’ambiente. Anche spostandosi sul fattore non istituzionale, l’ecologismo risulta infatti al primo posto nella lista dei desideri. Un sondaggio condotto dalla società di ricerca WelikeCrm ha svelato che sui social network, in Italia, questo è il tema che compare più spesso (39%) in associazione alle smart city, seguito a cortissima distanza (38%) dalla cultura e dunque dall’offerta di beni immateriali. Vengono poi i temi dell’educazione (6% di citazioni), del government (5%) e della cura degli anziani (6%), a dimostrazione di come la tecnologia non sia il valore fondante delle smart city ma piuttosto un mezzo per migliorare la qualità della vita, l’istruzione e l’inclusione sociale.
VIAGGIARE SENZA BIGLIETTO Dimentichiamo le code alla biglietteria o davanti alle vending machine. Il modo più facile per acquistare titoli di viaggio sono le app, appoggiate a circuiti di mobile payment e spesso in grado di “obliterare virtualmente” i biglietti attraverso la scansione di un Qr code. Così permette di fare, per esempio, Tep SmarTicket, applicazione per iOs e Android creata dalla società di trasporto pubblico di Parma e Provincia insieme al Consorzio Movincom. Con l’app si acquistano corse urbane ed extraurbane, si conservano i biglietti non usati e si esegue la vidimazione inquadrando un codice Qr con la fotocamera del telefono. In Trentino, invece, dalla primavera scorsa tutto il sistema di trasporti pubblici (bus, treni e funivie) è gestito da OpenMove, piattaforma che consente non solo di comprare biglietti ma anche di trovare la migliore combinazione di viaggio. Pianificare gli spostamenti è infine l’unica missione di Moovit, che oggi si vanta di essere l’app per il trasporto pubblico più usata al mondo: se ne servono 28 milioni di persone (di cui un milione solo in Italia) per controllare orari, coincidenze e percorsi in più di trecento aree metropolitane.
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