Technopolis 25

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NUMERO 25 | DICEMBRE 2016

Storie di eccellenza e innovazione

Barbara Cominelli, direttore commercial operations and digital di Vodafone Italia, spiega come analizzare il"viaggio" dei clienti nell’era della multicanalità.

un customer journey senza segreti ANALYTICS UBIQUI

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Sempre più pervasive, le funzionalità di analisi dei Big Data sono ormai indispensabili per qualsiasi settore di attività.

PROFESSIONI ICT

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Scienziati dei dati ed esperti di sicurezza: i nuovi trend digitali portano alla ribalta profili che pochi anni fa non esistevano.

SPECIALE SICUREZZA

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Le aziende faticano a difendersi dall'ondata delle nuove minacce. Complici budget e competenze ancora insufficienti.

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workplace.it.fujitsu.com © Copyright 2015 Fujitsu Technology Solutions. Fujitsu, il logo Fujitsu e i marchi Fujitsu sono marchi di fabbrica o marchi registrati di Fujitsu Limited in Giappone e in altri paesi. Altri nomi di società, prodotti e servizi possono essere marchi di fabbrica o marchi registrati dei rispettivi proprietari e il loro uso da parte di terzi per scopi propri può violare i diritti di detti proprietari. I dati tecnici sono soggetti a modifica e la consegna è soggetta a disponibilità. Si esclude qualsiasi responsabilità sulla completezza, l’attualità o la correttezza di dati e illustrazioni.

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SOMMARIO Storie di eccellenza e innovazione

N° 25 - DICEMBRE 2016 Periodico bimestrale registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012.

4 storie di copertina

Capire il percorso del cliente

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La scommessa che l’Italia deve vincere

L’alba digitale secondo Dell Technologies

L’intervista: Cloud alla francese per la trasformazione Direttore responsabile: Emilio Mango Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Valentina Bernocco, Massimo Cappato, Carlo Fontana, Paolo Galvani, Claudia Rossi, Gianluigi Riccio Progetto grafico: Inventium Srl Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock images, Martina Santimone

Macchine smart per tutti gli uffici

I nuovi analytics sono aperti e sulle nuvole

Italiani pazzi degli smartphone

L’opinione: Tanti modi per diventare social

16 SCENARI

Le mille sfumature dell’analisi dei dati

Data reporter cercasi

Scienziati dei dati: è boom di richieste

Il tesoro delle competenze

25 speciale sICUREZZA Nel mirino degli hacker

Editore, redazione, pubblicità: Indigo Communication Srl Via Correggio, 48 - 20149 Milano tel: 02 36505844 info@indigocom.it www.indigocom.it Stampa: Elcograf S.p.A. - Verona © Copyright 2016 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati.

Integrare e semplificare: le promesse dei vendor

Non chiamateli antivirus

34 ECCELLENZE.IT Panini - Retelit Gruppo Feltrinelli - Huawei 36 italia digitale La digitalizzazione va, ma l’Italia resta indietro

Startup e Pmi innovative: è ora di crederci Open innovation in salsa tricolore

42 OBBIETTIVO SU

Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto.

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Pubblicazione ceduta gratuitamente.

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47 VETRINA HI-TECH


STORIA DI COPERTINA | Vodafone PerpiciatisItalia

un customer journey senza segreti Conoscere i propri utenti, conservare nel tempo la loro fiducia, offrire esperienze personalizzate su più canali fisici e digitali: è la strategia portata avanti dall’operatore telco, sfruttando la raccolta e l’analisi dei Big Data.

U

n tempo si limitavano a vendere connettività, telefonica e poi anche Web, su rete fissa e mobile. Oggi le telco sono molto di più: attori protagonisti sul palcoscenico della rivoluzione digitale. Nel nostro Paese, Vodafone Italia è un ottimo esempio di una tendenza in atto non solo nel mondo delle telco, ma in tutte le realtà che vendono prodotti fisici o immateriali, ovvero la necessità di assecondare un cliente sempre più connesso (o meglio iperconnesso), che si informa e acquista su più canali fisici e digitali con l’aspettativa di vivere esperienze coerenti (da cui il concetto di “omnicanalità”). Sul tema Vodafone è stata fra gli avanguardisti, avendo fortemente puntato negli anni sia sul rapporto di fiducia con i propri utenti, sia sullo sviluppo di diversi canali di comunicazione. Tant’è che oggi dall’app My Vodafone transitano i tre quarti delle interazioni mensili complessive. “Il cliente ultraconnesso oggi si aspetta esperienze 4

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omnicanale, iperpersonalizzate, contestualizzate e sempre più ‘fi-gitali’, ovvero in cui fisico e digitale si fondono per creare un’esperienza, per così dire, aumentata”, racconta Barbara Cominelli, direttore commercial operations and digital dell’azienda. Come accontentare questo tipo di destinatario? Il punto di partenza dev’essere l’analisi dei dati. “Dati sempre più variegati”, specifica Cominelli, “che si spingono oltre alla semplice anagrafica aggregando, solo per citarne alcuni, le visite nei negozi, le interazioni con i touchpoint di assistenza, gli Sms che inviamo ai clienti e le informazioni social”. Per dirla con il gergo dell’informatica, si può realizzare tutto questo sfruttando come materia prima i Big Data – ovvero un materiale voluminoso ed eterogeneo – e come metodo di studio gli analytics. Affidandosi anche alla tecnologia di Sas (di cui parliamo nel box a pagina 6), la società ha adottato un approccio di “piattaforma”, ovvero si è dotata di soluzioni che le permettono di raccogliere, integrare e orchestrare più facilmente informazioni provenienti da fonti diverse. “Considerata la mole di dati che ogni secondo riempie le nostre dashboard e il complesso ecosistema di canali online e offline”, spiega la manager, “abbiamo necessità di progettare e attivare filtri efficaci per governare al meglio, in ogni istante, ogni dato. Senza questo livello di gestione, i milioni di interazioni che gestiamo ogni mese nei diversi touchpoint diventerebbero semplicemente insormontabili. Per


CONNETTERE LO STIVALE Vodafone Italia è parte del Gruppo Vodafone, una delle maggiori compagnie di telecomunicazioni al mondo che offre servizi a 470 milioni di clienti di rete mobile e 14 milioni di rete fissa. Il ramo italiano ha circa 7.000 dipendenti, di cui 2.500 operanti nel mondo dell’assistenza ai clienti in otto Competence Center su tutto il territorio nazionale. Negli ultimi due anni Vodafone Italia ha raddoppiato gli investimenti nello sviluppo della banda ultralarga mobile e fissa, raggiungendo il 97% di copertura 4G. I servizi in fibra sono disponibili oggi in 404 città e servono 10,3 milioni di famiglie e imprese. Grazie alla partnership con Enel Open Fiber, siglata per portare la rete ottica fino alla casa dei clienti in 250 centri urbani, Vodafone ha recentemente lanciato la prima offerta commerciale in fibra in Italia fino a 1 Gigabit al secondo, al momento in quattro città: Milano, Bologna, Torino e Perugia.

questo motivo stiamo puntando molto sulla trasformazione ecosistemica di tutti i canali in un’unica piattaforma sinergica, consistente e convergente”. In precedenza, le informazioni sui clienti venivano etichettate in modo schematico, limitandosi sostanzialmente alla distinzione del target, mentre oggi la definizione del customer journey deriva dall’incrocio di molteplicità variabili. Per esempio? L’attività online di utente e dunque i suoi interessi o necessità del momento, ma anche l’area geografica di residenza, il tipo di

piano tariffario attivato, lo smartphone posseduto, lo storico delle richieste rivolte al call center e i contenuti condivisi sui social network. Niente è statico e immutabile, ma anzi Vodafone Italia modifica dinamicamente la comunicazione e le offerte proposte al singolo sulla base, per esempio, di iniziative di comarketing varate con alcuni punti vendita. A tutto questo si aggiunge l’attività in “tempo reale”, come spiega Cominelli: “Abbiamo investito molto in strumenti di segmentazione e real-time marketing proprio per of-

frire uno specifico prodotto o servizio esattamente nel micro-momento in cui è necessario: per esempio, un giga di traffico aggiuntivo in prossimità della scadenza del precedente o contestualmente all’acquisto di un contenuto video, oppure un’offerta per le chiamate dall’estero quando la persona si trova nelle vicinanze di un aeroporto. Tutto questo, ovviamente, sempre nel rispetto del consenso dato dal cliente che vuole essere servito in logica personalizzata e contestuale”. E ancora non basta: l’azienda punta a realizzare, 5


STORIA DI COPERTINA | Vodafone Italia

nel breve periodo, ulteriori integrazioni di dati per offrire esperienze ancor più personalizzate, pressoché individuali. Vodafone Italia potrà, per esempio, tarare i contenuti e i servizi mostrati sui propri canali digitali sulla base delle interazioni faccia a faccia dell’utente con gli addetti dei negozi, di quelle telefoniche con il call center e di quelle digitali sul Web (anche su siti non proprietari). Cogliere le nuove opportunità

Tutti i filtri menzionati finora non sono semplicemente utili a creare maggiore coinvolgimento e soddisfazione nei clienti, ma consentono anche di ottimizzare i processi interni. Vodafone Italia sta impiegando le analisi Big Data per definire dei “casi d’uso” specifici e capire, per esempio, come fare upselling o crosselling, come limitare il churn (cioè il rischio di abbandono) e come gestire la propria rete fisica. Più in generale, l’azienda continua a procedere verso un approccio al marketing digitale “single-platform”, con l’idea di poter impiegare un’unica soluzione tecnologica per attività diverse, dal Crm, alla creazione dell’engagement, all’analisi del cliente. Così facendo e applicando di volta in volta i filtri opportuni, ciascun dipendente può e sempre più potrà accedere tempestivamente all’informazione che serve in un dato momento. La trasformazione del marketing e della cura delle relazioni con i clienti è uno specifico aspetto di un mutamento più ampio, osservato negli ultimi anni in Italia così come all’estero. Grazie alla vasta platea a cui si rivolgono ma anche grazie all’uso sapiente di tecnologie quali gli analytics, gli operatori di telecomunicazione oggi hanno in mano una grande opportunità: diventare, ancor più di quanto non siano, dei full service provider. “Riteniamo che per le telco ci sia uno spazio importante, che ci permetterà di giocare un ruolo chiave all’interno di catene del valore non più verticali e rigide ma orizzontali e 6

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dinamiche”, sostiene Cominelli. “Già oggi, quando disegniamo le esperienze, lo facciamo pensando oltre i nostri prodotti/servizi e oltre i nostri canali, e sempre più nell’ottica della piattaforma integrata. E credo che alla fine il vero

successo di questa strategia si baserà sulla nostra capacità di sviluppare una relazione con il cliente sempre più forte e basata sulla fiducia, nonché sull’esperienza che saremo in grado di offrire”. Valentina Bernocco

LA SOLUZIONE Il customer journey è un vero e proprio viaggio, con una partenza e un arrivo, che però deve essere costantemente ottimizzato, raccogliendo tutte le informazioni dai vari touch point. Il profilo storico del cliente viene integrato in tempo reale con i dati comportamentali: questo permette di mappare tutti i bisogni e gli eventi legati al cliente e identificare i moments of truth. Per fare questo sono stati adottati gli strumenti compresi nella soluzione Sas Customer Intelligence 360, vale a dire Sas 360 Discovery e Sas 360 Engage. Il primo raccoglie e colleziona dinamicamente le informazioni comportamentali sui canali digitali, integrandole con i dati storici presenti nella custo-

mer base. Il secondo orchestra e ottimizza ogni fase del customer journey, migliorando l’esperienza del cliente sia sui canali digitali sia su quelli fisici, grazie all’integrazione con il Sas Customer Decision Hub, garantendo un’esperienza altamente personalizzata. Customer Intelligence 360 si integra nella più ampia suite Sas Customer Intelligence, creando un ambiente completo e già pronto per analizzare i dati ed eseguire programmi di marketing fino al livello che coinvolge il singolo cliente. La soluzione permette agli uomini di marketing di gestire campagne multicanale avendo a disposizione, nello spazio di pochi clic, tutti gli strumenti all’interno di un ambiente unificato.


Con i Big Data per il cambiamento Barbara Cominelli, direttore commercial operations and digital di Vodafone Italia, racconta come sia mutato il “viaggio del cliente” e di come l’analisi di dati eterogenei permetta di personalizzarlo e migliorarlo.

I

l programma paneuropeo InspiringFifty l’ha inserita nella lista delle cinquanta donne della tecnologia più influenti nel Vecchio Continente. In azienda da sei anni, dal 2013 Barbara Cominelli è direttore commercial operations & digital di Vodafone Italia e guida un team di circa tremila persone, occupandosi di customer experience, canali digitali, sviluppo di prodotti e servizi. Con lei, Technopolis ha cercato di capire come sia cambiato il “viaggio” del cliente e come la multinazionale punti a migliorarlo sempre di più.

Come utilizzate i Big Data?

Oggi la sfida è andare oltre i dati proprietari relativi alla connettività, per integrare, formattare e connettere la grande mole di informazioni grezze provenienti da una moltitudine di fonti interne ed esterne, online e offline, al fine di trasformarli in insight capaci di guidare tutte le decisioni. Grazie a tale sforzo siamo ora in grado di gestire dashboard complesse di advanced analytics, che ci permettono di ottimizzare l’esperienza degli utenti in tempo reale. L’obiettivo è ottenere iper-personalizzazione e anticipare proattivamente i bisogni: a breve, per esempio, riusciremo a fornire in logica predittiva tutte le comunicazioni necessarie per un viaggio all’estero, a customizzare le proprietà digitali e le offerte in funzione

delle passioni dell’utente, a suggerire il contenuto giusto al momento giusto, a soddisfare qualsiasi esigenza di traffico dati prima che sia il cliente a manifestarla, a selezionare offerte di upselling personalizzate e non generiche, a individuare in anticipo possibili elementi di insoddisfazione attivando meccanismi preventivi ad hoc. Siete stati tra i primi in Italia a investire sulla customer experience digitale. Continuerà questa tendenza?

Il trend è esplosivo: delle molteplici interazioni mensili, oltre tre su quattro ormai sono in digitale. Alla base ci sono sicuramente gli strumenti di omnichannel analysis, fondamentali per analizzare e disegnare i customer journey perché ci permettono di osservare le scelte dei nostri clienti, di capire quali fattori le orientino e quali reazioni ne conseguano, di analizzarne le sequenze nonché le interdipendenze e i motivi per cui preferisce parlarci o venirci a trovare in negozio oppure affidarsi all’app. Che importanza hanno competenze e risorse umane in questo percorso?

In questa fase stiamo cercando persone con competenze digitali a tutto tondo, perché crediamo che presto non si distinguerà più tra skill tradizionali e nuovi. In particolare, i profili a cui guardiamo sono esperti di sviluppo agile, di multicanalità integrata, di In-

Barbara Cominelli

ternet of Things e cloud, che abbiano lavorato con soluzioni open, con le app mobili e con i Big Data. La sfida per noi è anche quella di far evolvere o convertire le competenze che già abbiamo in casa, puntando fortemente sulla formazione digitale e sulla capacità di aggiornamento tecnologico. Come sta cambiando il comportamento del cliente?

Oggi assistiamo a una straordinaria convergenza delle fasi del classico funnel: i percorsi sono frammentati in centinaia di micro-momenti e queste fasi spesso si sovrappongono e si integrano. I clienti sono online non solo prima di andare in negozio, ma anche durante l’esperienza: quasi la metà di loro ricerca informazioni, compara offerte o chatta mentre si trova all’interno del negozio, oltre il 20% fa showrooming. Sempre più, offrire proattivamente un prodotto customizzato durante un’interazione di assistenza diventa vincente nell’upselling e nel crosselling, tanto da far dire a qualcuno che “il servizio è la nuova vendita”. Questo ci impone di avere una vista a 360° del cliente, non solo in termini di dati bensì anche di contemporaneità di utilizzo dei touchpoint. Emilio Mango 7


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IN EVIDENZA

l’analisi

LA SCOMMESSA SUL DIGITALE CHE L’ITALIA DEVE FINALMENTE VINCERE. GUARDANDO ANCHE ALL’AMERICA

Sulla vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca si è detto e scritto di tutto. Anche per quanto riguarda le implicazioni che interessano l’industria tecnologica. Proviamo a riassumerne lo scenario. Molti illustri esponenti della Silicon Valley, fra cui diversi capitani di venture capital, non hanno preso bene la sconfitta di Hillary Clinton. Altri, una minoranza, vedono però nella nuova amministrazione un uno stimolo per fare innovazione, rompendo schemi ormai consolidati e rispondenti a un ecosistema di relazioni non così aperto come sembrerebbe. L’America, lo sappiamo, è fatta di contraddizioni anche molto forti. A luglio 140 esponenti della Silicon Valley firmarono una lettera contro Trump definendolo una figura “contro il libero scambio di idee”. Crociate (fallimentari, visti i risultati delle urne) a parte, sul tavolo c’è ora l’idea del successore di Obama di rimpatriare i profitti miliardari delle tech company, e quindi l’immenso tesoretto detenuto all’estero da Google, Apple & Co. Il tutto, grazie a una manovra che fa leva sull’applicazione di un’aliquota fiscale agevolata del 10% (rispetto all’attuale 35%) sui capitali che saranno riportati in casa. Uno “sconto” che si aggiungerebbe alla detassazione ad hoc riservata alle aziende che effettueranno investimenti (in ricerca e sviluppo, infrastrutture, risorse umane) a livello nazionale. Per le tech company statunitensi, insomma, si profila all’orizzonte un nuovo modello, sganciato dai benefici derivanti dall’aver preso dimora in Paesi fiscal-

Per il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, l’innovazione del Paese è un tema politico e non tecnico. Lo snodo cruciale sono i nuovi investimenti delle aziende. E il ciclone Trump, forse, potrebbe indicare la strada. Carlo Calenda

mente favorevoli (vedi l’Irlanda) ma anche dal peso delle azioni repressive a firma della Commissione Europea. Calenda e il piano Industria 4.0

Gli incentivi fiscali sono, come noto, protagonisti anche nella Penisola, perché è sulla possibilità di abbattere in modo sostanziale la tassazione che si regge il piano di crescita digitale del Governo. “Digitalizzazione e innovazione non sono temi tecnici, ma altamente politici. Sono fenomeni disruptive e su questa partita ci giochiamo tutto”, ha dichiarato circa un mese fa dal Ministro per lo sviluppo economico, Carlo Calenda. Giusta precisazione, quella del titolare del Mise. Che si conferma attento conoscitore delle criticità legate all’informatizzazione sistemica delle fabbriche quando ricorda che nel manifatturiero industriale c’è ancora incertezza su quale tecnologia prevarrà e in quale ambito. Per questo, dice Calenda, “abbiamo costruito un

piano nazionale Industria 4.0 integralmente contenuto nella finanziaria e tecnologicamente neutro, basato su incentivi che lavorano sul driver degli investimenti”. Ci sono analogie con il piano che vuole mettere in pista Trump oltreoceano? Forse sì, ma non è questo il punto. Il piano, lo ha ribadito Calenda ai critici della manovra, prevede nel complesso 34,4 miliardi di investimenti nell’arco di tre anni (dal 2017 al 2019), più quattro miliardi derivanti dal taglio dell’Ires. Il credito alle Pmi innovative (circa 25 miliardi di disponibilità grazie all’estensione del Fondo di Garanzia) e le competenze sono elementi centrali della scommessa digitale italiana. Ma, come ricorda il ministro, “dipenderà prima di tutto dalla propensione delle aziende a investire”. Evitando, come invece teme qualcuno, che gli incentivi all’innovazione creino una relazione parassitaria tra imprese e governo. Gianni Rusconi

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IN EVIDENZA

L’alba digitale secondo Dell Technologies

Michael Dell parla di trasformazione tecnologica e spiega la forza della nuova società dopo l’integrazione di Emc. “Siamo ormai un’azienda sola e vogliamo che pensiate a noi in questi termini”. Michael Dell ha ribadito più volte il concetto nel corso della convention che lo scorso ottobre a Austin ha celebrato la “seconda vita” della società texana. La fusione fra Dell e Emc, oggi parte di Dell Technologies, significa non solo integrazione societaria ma di offerta, proprietà intellettuale, risorse umane, competenze. Nell’edizione del Dell World (quest’anno, Dell Emc World) più grande di sempre, con ottomila partecipanti arrivati da 27 nazioni, si è parlato di tantissime cose, legate da un filo conduttore: il concetto di trasformazione. Un concetto citato un po’ da tutti gli executive alternatisi sul palco. “Un anno

fa avevamo appena annunciato il progetto di combinare Dell e Emc. E oggi siamo la più grande società tecnologica al mondo”, ha esordito l’amministratore delegato. “Si trattava di diventare grandi o di andare a casa. Beh, nessuno è andato a casa”. Parlando di trasformazione, Michael Dell ha sottolineato che “quando ho iniziato, più di trent’anni fa, nessuno poteva immaginare dove saremmo arrivati oggi nel processo di democratizzazione delle informazioni, nel modo in cui comunichiamo, prendiamo decisioni, nel modo in cui interagiamo con il mondo. Se crediamo nella tecnologia possiamo amplificare e rendere possibile il progresso umano. Ma mi rendo conto che siamo appena all’inizio”.

Le rapide innovazioni nel campo dell’Internet of Things, della realtà virtuale, dell’intelligenza artificiale permettono di definire il nostro tempo come “l’alba di una nuova era, un’alba digitale”, ha detto il Ceo. È anche vero che di fronte a tutto questo molte aziende sono disorientate: un’indagine di Dell eseguita su quattromila executive racconta che il 45% delle organizzazioni teme di poter diventare obsoleta entro cinque anni; il 48% non ha idea di come sarà il proprio settore di mercato fra tre anni; il 78% considera le startup digitali come una minaccia. Senza certo peccare di falsa modestia, Michael Dell ha rimarcato come il matrimonio con Emc e con le aziende della federazione (Vmware per la virtualizzazione, Pivotal per gli analytics, Rsa per la sicurezza) abbia permesso a Dell Technologies di diventare il primo player in molti segmenti di mercato, a partire dai server (con il sorpasso di Hpe) e proseguendo nello storage e nei sistemi iperconvergenti. In quest’ambito, una novità è l’estensione della gamma VxRail, ottimizzata per gli ambienti Vmware e basata su server PowerEdge. VxRack System 1000 è, invece, un sistema iperconvergente inclusivo di networking e opzioni software-defined che beneficia di incrementi di memoria e di prestazioni di calcolo, a parità di dimensioni e costi. Valentina Bernocco

LA POTENZA DELla nuvola PER LE PMI Consentire ai clienti di utilizzare le risorse del cloud privato con la stessa facilità ed efficacia con cui si usano quelle del cloud pubblico. Questa, in sintesi, è la filosofia di Nutanix, una delle aziende It a maggior tasso di crescita, presente anche in Italia da quattro anni e focalizzata sull’obiettivo di rendere le infrastrutture informatiche sempre più

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“invisibili” per chi le usa. “Le aziende che adottano Nutanix”, ha dichiarato Howard Ting, a capo della struttura marketing della multinazionale americana, “evidenziano risparmi che possono arrivare al 60% dei costi di storage e server e addirittura all’80% dei costi di virtualizzazione”. La novità più recente e più interessante per il mer-

cato italiano, anche perché nata da un progetto partito proprio dal nostro Paese, è Xpress, una soluzione progettata per mettere la potenza della piattaforma cloud a disposizione anche delle piccole e medie imprese. Il software, che si presenta come un prodotto all-in-one, è già pre-installato e può essere attivato in meno di 60 minuti. E.M.


l’intervista

Cloud alla francese per favorire la trasformazione digitale Una presenza che spazia dall’Europa al Nord America, con il plus di un’infrastruttura aperta. Gli obiettivi di Ovh raccontati dal Ceo.

Clienti che spaziano da colossi della grande distribuzione come Auchan a nuovi protagonisti della digital economy come JobRapido, senza dimenticare specialisti della consulenza come Capgemini. Ovh è solo in apparenza un attore di seconda fascia nel mondo dei servizi e delle infrastrutture cloud di Web hosting. Lo dicono gli accordi stretti con operatori telco come Rogers (il più importante in Canada), i 17 data center e i 250mila server in esercizio fra Europa e Nord America per offrire l’infrastruttura (hardware, connettività) necessaria per l’implementazione di applicazioni nella nuvola su modello pubblico o privato. Fondata nel 1999 da Octave Klaba, la società è arrivata a un fatturato di 320 milioni di euro nell’esercizio fiscale 2016 e vanta un milione di aziende clienti servite in tutto il mondo. L’ultima espansione è stata realizzata con l’apertura di nuove server farm a Varsavia, Singapore, Sydney e in Virginia, a cui seguiranno nell’arco del 2017 quelle in altri Paesi europei (Italia compresa, nell’area di Milano) e in California. Una presenza globale per assicurare un’infrastruttura accessibile ovunque nel mondo, per diventare protagonisti attivi della trasformazione digitale. Lo spiega a Technopolis Laurent Allard, il Ceo della società di Roubaix. Investirete 1,5 miliardi di euro nei prossimi cinque anni: come?

È un investimento di tipo Capex per le infrastrutture, la rete e gli apparati hardware. Non riguarda le risorse

A proposito di startup: con il programma Digital Launch Pad possiamo definirvi un incubatore di nuove imprese?

Laurent Allard

umane o la ricerca e sviluppo, ma solo i data center. Volete diventare una grande azienda, ma quanto grande rispetto ai big vendor di nuvola?

Siamo più piccoli delle varie Oracle, Amazon o Microsoft, ma non vogliamo neppure che se un grande cliente ci lascia questo abbia un impatto forte sulla compagnia. E il nostro piano di crescita è organico. Nel 2020 vogliamo arrivare a un miliardo di euro di fatturato con uno sviluppo significativo della forza lavoro, passando dagli attuali 1.300 dipendenti ai previsti 3.500 o 4.000, ed estendendo ulteriormente la presenza su scala globale. Oggi siamo attivi in 17 Paesi. Sono previste acquisizioni?

No, non abbiamo un piano definito in tal senso. Comprare un’azienda per il solo market share non ha ritorni. Cerchiamo, questo sì e siamo aperti a varie possibilità, complementarietà di tecnologie e di offerta, anche nelle startup.

Non siamo incubatori, non mettiamo soldi nelle startup. Non è il nostro lavoro. Siamo una tech company e non un venture capital. Le aiutiamo a crescere in chiave tecnologica e abilitiamo l’incontro con la comunità degli investitori quando ci sono le condizioni per farlo. Le selezioniamo in due fasi: una prima che verte sull’idea e sulla prototipazione della soluzione e una seconda in cui coinvolgiamo anche i nostri partner per verificare le potenzialità di mercato del progetto. La crescita di domanda dei servizi IaaS e SaaS, lo dice Gartner, è spinta dai “saving” di questi servizi. È d’accordo?

Nello IaaS siamo all’inizio. Il 10% delle infrastrutture è migrato sul cloud, il resto è ancora on-premise. Ed è una grandissima opportunità. Nel SaaS siamo in una fase di transazione più avanzata dalle applicazioni on-premise, ma è comunque un iter in corso. Qual è il mercato che volete conquistare e attaccare, quello dello small e medium business o quello enterprise?

Al momento il nostro core business sono le medie e piccole imprese ma abbiamo iniziato a lavorare anche con le grandi e con quelle che noi chiamiamo “digital enterprise”, e cioè Internet company con velocità di crescita molto elevate. Un esempio? L’italiana JobRapido. Gianni Rusconi

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IN EVIDENZA

MACCHINE SMART PER TUTTI GLI UFFICI

Il CLOUD è “FORTISSIMO”

Detentrice di una quota di mercato del 30% del complesso settore delle arti grafiche in Europa, e forte della stessa fetta nel segmento delle macchine multifunzione a colori in formato A3, Oki prosegue nella propria strategia di crescita, soprattutto sul fronte delle soluzioni per l’ufficio. “Il nostro approccio”, ha detto Terry Kawashima, amministratore delegato di Oki Europe, “è riassunto in tre parole: sicuro, facile e smart. Sulla base del successo ottenuto nel segmento A3 abbiamo recentemente portato anche sulle periferiche in formato A4 le stesse funzionalità avanzate, perché abbiamo capito che anche i clienti più piccoli hanno bisogno di dispositivi intelligenti”. Per crescere, la società punta con decisione su tecnologie consolidate, come la stampa laser a Led, ma anche su piattaforme estremamente innovative, come la Smart Extendable Platform, integrata in tutti i dispositivi, anche quelli A4 di fascia media e bassa. Tra i benefici promessi, quello di facilitare svilup-

Dare un forte scossone al business grazie alla nuvola. Anzi, uno scossone Fortissimo. È questo il nome del nuovo progetto finanziato dalla Commissione Europea (rientra nell’iniziativa I4MS, Ict Innovation for Manufacturing Smes) con lo scopo di rafforzare la competitività globale delle Pmi. Fortissimo utilizza una piattaforma cloud, Fortissimo Marketplace, per fornire accesso semplificato a simulazioni digitali ad alta intensità di elaborazione per diversi mercati verticali: automobilistico, aeronautico, produzione industriale, ingegneria medica, settore energetico e ambientale. Il vantaggio? Sfruttare da remoto risorse di High Performance Computing per studiare i dettagli necessari per la realizzazione e per il lancio sul mercato di un’ampia varietà di prodotti e soluzioni. Si può, per esempio, realizzare una progettazione accurata di oggetti complessi, accelerare il time-to-market grazie a modelli preserie (test di prova) e ridurre i costi dei materiali con la riproduzione virtuale dei prototipi. Ad oggi, all’interno della fase pilota del marketplace, sono stati avviati oltre cinquanta esperimenti.

Funzionalità avanzate anche sulle stampanti A4: ecco la nuova offerta di Oki per il mondo aziendale. patori di software e integratori di sistemi nel compito di realizzare applicazioni di stampa su misura per i propri clienti. E.M.

ANDROID CHIAMA LE STARTUP Il made in Italy può crescere e prosperare anche grazie al sistema operativo mobile di Google. Ne è convinta LVenture Group, la holding di partecipazioni che gestisce l’acceleratore di startup Luiss Enlabs e che ha dato avvio al varo del programma “Android Factory 4.0”. L’idea è quella di stimolare la creazione di nuove realtà imprenditoriali che sappiano sfruttare le potenzialità del sistema operativo di Google. Le

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candidature per partecipare al progetto possono essere inviate (online al sito di Luiss Enlabs) da startup che siano nelle prime fasi di vita, composte da team incompleti o da individui singoli, entro il 9 gennaio 2017. I gruppi selezionati per la fase di “pre-accelerazione”, della durata di due mesi, riceveranno 2.500 euro di finanziamenti e saranno supportati dagli esperti dell’hub dell’Università Luiss e di Google.


Fritz Lehman e Randy Guard

INNOVARE CON l’IBRIDO

i nuovi analytics sono aperti e sulle nuvole La strategia di Sas è duplice: continuare a sviluppare i prodotti tradizionali e, insieme, puntare sul cloud. “Non è più il momento di chiedersi se usare gli analytics. Piuttosto, bisogna capire come usarli correttamente per sfruttarne al meglio le potenzialità”. È iniziato così, con le parole di Carl Farrel e Randy Guard, rispettivamente chief revenue officer e chief marketing officer di Sas, l’appuntamento Analytics Experience, giunto alla seconda edizione in Italia (sarebbe un evento itinerante, ma il successo dello scorso anno ha convinto i vertici della multinazionale a ripetere l’appuntamento a Roma anche nel 2016). Per due giorni, quasi mille partecipanti arrivati da tutta Europa hanno condiviso esperienze e conoscenze, contando sulla massiccia presenza dei top manager di Sas a livello mondiale e su alcuni maestri di pensiero in tema di Big Data, Iot, risk management e customer experience, i principali filoni in cui si articola la nuova offerta di Sas. Sullo sfondo dell’evento romano, infatti, c’era inevitabilmente l’analisi del

portafoglio di soluzioni della multinazionale, che ora segue due strade parallele: lo sviluppo e il mantenimento della piattaforma tradizionale, vale a dire Sas 9.4, e il lancio della nuova architettura Viya. Quest’ultima al momento conta sulla disponibilità di due moduli: Sas Visual Data Mining and Machine Learning, il primo, e Visual Investigator il secondo, mentre sono in arrivo Sas Visual Analytics e Visual Statistics. “Viya è una piattaforma aperta, unificata, potente e in cloud”, ha sintetizzato Oliver Schabenberger, Cto di Sas, “quindi rappresenta il futuro degli analytics, ma il filone di soluzioni legato a Sas 9.4 godrà di tutte le attenzioni necessarie per proseguire il suo percorso di sviluppo e supporto, e noi investiremo sia sulla piattaforma tradizionale sia sui prodotti che fanno da ponte tra i due mondi”. “Abbiamo oltre mille clienti che utilizzano Viya”, ha aggiunto Randy Guard, “e tutti stanno sperimentando la nuova piattaforma in parallelo con l’offerta tradizionale. I feedback sono estremamente positivi e dimostrano, tra le altre cose, che la convivenza è possibile e che la transizione è facile e indolore”. Emilio Mango

Domanda: “Qual è la strategia giusta per vincere in un mondo ormai completamente digitale?”. Risposta, siglata Pat Gelsinger, Ceo di Vmware: il cloud ibrido. L’azienda per eccellenza nel campo della virtualizzazione sembra avere le idee chiare e ha ribadito la propria strategia con una serie di annunci disseminati negli ultimi mesi. Annunci culminati con la partnership di peso siglata con Amazon Web Services per l’erogazione in cloud dei componenti principali di gestione del data center moderno (elaborazione, funzionalità di rete e storage, tutti ovviamente virtualizzati). L’idea che la nuvola debba essere ibrida non è nuova dalle parti di Vmware, essendo nata già almeno cinque anni fa. Nel 2016 Vmware si è spinta avanti iniziando a parlare di “virtualizzazione del cloud”, avvicinandosi quindi al proprio core business originario. “Oggi la differenza la fa chi riesce a porsi come leader e a innovare, perché tutti devono essere coinvolti in questo processo”, ha spiegato Gelsinger al Vmworld 2016 Europe di Barcellona. Ma, nonostante se ne parli sempre, la strada per un’adozione della nuvola su larga scala è ancora lunga: secondo Vmware, solo il 27% delle aziende oggi dispone di processi gestiti in cloud. A.A.

Pat Gelsinger 13


IN EVIDENZA

Banda per il 5G, l’Italia c’è Antonello Giacomelli, il sottosegretario alle Comunicazioni, ha confermato di recente gli impegni del governo per liberare entro il 2022 le frequenze della banda a 700 Mhz, attualmente destinate alla Tv, e facilitare la diffusione delle reti 5G. “Non siamo in ritardo”, ha detto Giacomelli, “e saremo perfettamente in linea con le normative della Ue”. La transizione comincerà alla fine del 2019, ma già dall’anno prossimo dovrebbero scattare i primi test sulle connessioni di quinta generazione in tre città italiane. Rassicurazioni che fanno il paio con il rinnovo anticipato di un anno nelle bande a 900 e 1800 Mhz per gli operatori mobili e con la conferma che il problema delle interferenze sui Paesi confinanti è in via di risoluzione.

MILLENnIALS PER CRESCERE Da gennaio a ottobre 2016 sono state 126 le nuove assunzioni di Zucchetti per tutte le sue sedi in Italia. In molti casi si tratta di neodiplomati e neolaureati che potranno ottenere un contratto a tempo indeterminato. La crescita dell’azienda lodigiana prosegue quindi non soltanto dal punto di vista delle acquisizioni, ma anche da quello delle risorse umane. Dopo le oltre 200 figure inserite in organico nel 2015, i nuovi ingressi portano il numero di addetti complessivi a circa 3.300. E oltre 60 sono attualmente le posizioni aperte. L’ultima “new entry” entrata nella galassia Zucchetti, di cui è stata acquisita la maggioranza con un aumento di capitale, invece, si chiama Smart Touch, startup nata nel 2013 e specializzata nelle soluzioni di pagamento mobile di prossimità rivolte al settore della ristorazione e dell’hospitality.

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tutti PAZZI per GLI SMARTPHONE, SOLO IL 6% NE FA A MENO

Mai, o quasi, senza uno smartphone in tasca o in borsetta. Appena il 6% degli italiani di età compresa fra i 14 e i 74 anni non possiede un telefono smart, come certificato dal più recente dell’Agcom (“Il consumo di servizi di comunicazione: esperienze e prospettive”). Nello Stivale, inoltre, un buon 30% di cittadini compresi fra l’adolescenza e la seniority possiede tre dispositivi portatili personali a scelta fra Pc, tablet e smartphone, avendo attivato su di essi nel 60% dei casi piani ricaricabili o abbonamenti inclusivi di traffico voce e dati. Il dato non stupisce troppo, se solo si guarda alle statistiche di StatCounter, basate sul monitoraggio di due milioni e mezzo di siti Web: in ottobre, per la prima volta, nel mondo il “consumo” di Internet da terminali mobili ha superato quello da computer, rispettivamente con percentuali del 51,3% e del 48,7% sul traffico dati globale delle quattro settimane. Il sorpasso è un evento storico, ma anche prevedibile. Non solo su scala planetaria continua a crescere il numero di smartphone e tablet in circolazione, ma i pacchetti di GB inclusi nei piani mensili diventano più generosi, mentre si consumano sempre più video in streaming e fotografie in alta risoluzione.

Secondo l'Agcom, meno di un utente su due è disposto a pagare di più per ottenere maggiore larghezza di banda. Ma come si naviga? In un’Italia pur indubbiamente innamorata dei dispositivi mobili, al fattore velocità non sembra tuttavia riconosciuta un’importanza eccessiva. O, almeno, non tale da giustificare una spesa maggiore. Nell’indagine di Agcom, infatti, meno di un intervistato su due si è detto disposto a pagare di più per ottenere maggiore larghezza di banda e c’è anche un buon 45% di utenti che ammette di non conoscere i parametri della propria connessione (percentuale che però scende fra chi possiede un titolo di studio più elevato). Perché siamo poco sensibili al fascino della velocità? A detta dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, la causa è duplice: da un lato, gli italiani sono scarsamente informati in merito alle possibilità e agli avanzamenti della tecnologia; dall’altro, un’età media della popolazione più elevata che nel resto d’Europa influisce sul grado di interesse al tema della banda larga. V.B.


l’opinione

Tanti modi per diventare social: la scommessa di Workplace by facebook

La nuova piattaforma 2.0 promette di cambiare il modo in cui si lavora e si collabora. Ce ne parla uno tra i system integrator scelti da Menlo Park. Le parole chiave degli ultimi anni sono state “digitale” e “collaboration”, ripetute seguendo la moda, in attesa che acquisissero consistenza. Partendo da una maggiore consapevolezza, nelle aziende si è arrivati (nel primo caso) fino all’implementazione di nuovi strumenti e modelli organizzativi con l’obiettivo di misurarne gli impatti sul business. In effetti, la disponibilità pervasiva del Web e del mobile come canali di fruizione delle applicazioni ha trasformato il lavoro intellettuale da individuale e “statico” a collettivo e ubiquo. E ormai tutti comprendiamo il valore del digitale. Anche se la trasformazione delle aziende in direzione digitale è ancora ampiamente da compiere, la strada ormai è tracciata. Nel frattempo però nel mondo consumer – che ormai guida l’innovazione, costringendo spesso le aziende a inseguire – è dilagata un’altra parola chiave: “social”. Facebook, con i suoi 28 milioni di utenti in Italia che passano mediamente 40 minuti al giorno sulla piattaforma, ha reso virtuali le interazioni sociali tra le persone, svincolandole dalla fisicità. Fino a ieri potevamo offrire ai nostri dipendenti una “pallida imitazione” di questa piazza virtuale, ovvero email con lunghe liste di distribuzione. Un abisso. Sono quindi arrivati i progetti di “social enterprise”, con risultati altalenanti e soprattutto con un grosso difetto: non assomigliare alle piatta-

forme consumer. L’arrivo di Facebook nel mondo delle aziende ora cambia completamente lo scenario. Questo passo, infatti, può dare un incredibile impulso al paradigma della collaboration, e quindi a un nuovo modo di lavorare che consente a due o più persone di creare insieme un prodotto, di immaginare un nuovo servizio, di migliorare la propria efficienza e produttività nel raggiungimento di un risultato, di condividere e comunicare in modo aperto e veloce. Ci muoviamo, pertanto, in tre direzioni: all’interno dell’organizzazione (relazione e comunicazione), al suo esterno (co-innovatione, innovazione social, consenso) e sui processi di innovazione. Come e perché Workplace by Facebook può impattare su questi tre ambiti? Innanzitutto, può farlo sostituendo tutte le mail rivolte a una pluralità di persone con gruppi di colleghi che interagiscono intorno a tematiche, problemi, opportunità, successi. Oppure può creare un gruppo di lavoro per ogni progetto, al quale invitare solo le persone realmente interessate o necessariamente coinvolgibili. In modo del tutto naturale, senza forzature, quel gruppo diviene rapidamente il “luogo virtuale” dove si aggrega nel tempo tutta la conoscenza su un cliente o su uno specifico progetto. Ma si può fare anche di più, per esempio dando vita a un gruppo condiviso tra le due aziende. Se guardiamo, infine, a quanto pos-

Massimo Cappato

sa essere rilevante il processo di change management nell’adozione di uno strumento come Workplace, l’aspetto tecnologico è meno critico rispetto ai tradizionali progetti di system integration. Diventa fondamentale mettere al centro l’utente e la gestione del cambiamento, che corre invece il rischio di essere preso sottogamba. La sfida ovviamente non riguarda l’usabilità dello strumento, dato che in Italia 28 milioni di persone lo utilizzano già ogni giorno (nella versione consumer), quanto piuttosto la sua finalità, la creazione di valore. È grande la differenza tra “essere social in ufficio” e creare valore per l’organizzazione: tutto deve partire dagli obiettivi di business e deve essere adattato alla cultura aziendale. Se, come credo, quello che abbiamo imparato su Google e Microsoft nel passaggio al cloud si verificherà anche con Workplace, non vedremo mai due progetti uguali. Ogni azienda diventerà “social” in un modo diverso. Massimo Cappato, Ceo di Revevol Italia

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SCENARI | Big Data & Analytics

LE MILLE SFUMATURE DELL’ANALISI DEI DATI Deloitte ha messo sotto la lente di ingrandimento le tendenze che stanno modellando il concetto di “everywhere analytics”. Si va dalle trasversalità delle competenze alla cybersecurezza, dall’Internet delle cose alle tecnologie cognitive. Ecco che cosa sta succedendo in Italia.

L’

interesse nei confronti delle soluzioni di analisi dei dati non conosce sosta. La società di ricerca Idc stima addirittura che la spesa mondiale in servizi di business analytics sfiorerà i 102 miliardi di dollari entro il 2019, registrando un tasso medio di crescita annuale pari al 14,7%. A trainare la domanda è non solo l’adozione di nuova tecnologia, ma anche la carenza di competenze specialistiche all’interno delle organizzazioni, spinte a cercare al di fuori del proprio perimetro quegli skill indispensabili per affrontare il complesso universo dei Big Data. Di questo avviso è Deloitte Consulting, che evidenzia sei tendenze in atto nello scenario degli analytics. La prima riguarda la generale mancanza di figure 16

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dedicate, quantificata da Idc in 181mila analisti da formare da qui al 2018 per i soli Stati Uniti. “Per quanto riguarda l’Italia, molte aziende stanno approcciando il tema in modo ancora dicotomico, tenendo separate le competenze analitiche da quelle di business”, commenta Alfredo Maria Garibaldi, partner di Deloitte Italia. “Al contrario, per sfruttare tutto il potenziale degli analytics, sarà indispensabile creare figure ibride, a cavallo tra l’organizzazione e le tecnologie. Alcune grandi realtà italiane dei settori telco e media lo stanno già facendo, apportando interessanti modifiche al proprio assetto organizzativo con l’introduzione di un pool di talenti incaricati di operare trasversalmente all’azienda, in modo da abilitare quel

concetto di everywhere analytics alla base del secondo trend evidenziato dal nostro studio” . Sempre più spesso, infatti, le aziende puntano ad abbandonare l’uso tattico dell’analisi dei dati a favore di un approccio più strategico e pervasivo, capace di trasformarle in vere e proprie “insight-driven organization”: realtà in cui le indicazioni tratte dalle analitiche non sono finalizzate a usi singoli e mirati, bensì diventano pervasive e trasversali. Negli Stati Uniti questa tendenza è già molto evidente nel mondo della finanza, nel retail e nelle telecomunicazioni, ma il picco del fenomeno è previsto entro tre anni. “In Italia si procede decisamente più a rilento, anche se si registrano comun-


que importanti eccezioni sempre in ambito telco e media, con attori forzati da tempo al cambiamento per la forte competizione in essere nei propri settori di riferimento” precisa Garibaldi. Il mondo bancario si trova invece in uno stadio più arretrato rispetto a quello di molti altri Paesi, sebbene si stiano già profilando all’orizzonte forti stravolgimenti legati all’impatto della tecnologia blockchain e del mercato telematico. Il terzo trend studiato da Deloitte riguarda la sicurezza informatica, sempre più orientata all’uso degli analytics per riuscire a identificare in modo proattivo le minacce. Un avvicinamento tra questi due mondi sta dando vita a nuove figure professionali, in grado di coniugare due domini fino a oggi ben distinti. “Gli stessi hacker stanno sfruttando i meccanismi dei Big Data per sferrare attacchi sempre più sofisticati”, precisa l’esperto, “mentre in Italia si distinguono già alcune aziende al lavoro sulla creazione di team dedicati alle attività d’intelligence e all’uso preventivo di tutte le informazioni di security disponibili”. Importante, e siamo alla quarta tendenza, il legame fra analytics e Internet of Things, ritenuto da Deloitte un vero e proprio motore d’innovazione. Particolarmente interessanti sono i nuovi servizi ai clienti sviluppati dai dati che provengono dagli oggetti connessi. Alcune compagnie di assicurazioni auto, per esempio, stanno usando le informazioni raccolte attraverso gli smartphone degli utenti per proporre polizze “pay-as-youdrive”. Alcuni fornitori di assicurazioni mediche offrono, invece, sconti sulle polizze a chi è disponibile a monitorare la propria attività fisica con dispositivi fitness indossabili, mentre nella logistica gli autisti di mezzi dotati di Gps e sensori ricevono suggerimenti in merito a percorsi e aree di servizio in cui effettuare le soste. Il quinto fenomeno evidenziato da Deloitte riguarda il rapporto che si andrà a stabilire tra l’uomo e le macchine intelligenti. I progressi della tecnologia

Big Data: balzo DA 200 MILIARDI

Alfredo Maria Garibaldi

cognitiva stanno già generando nuovi strumenti analitici a supporto delle aziende, utili se sfruttati correttamente ma inadatti a sostituire completamente le capacità d’analisi tradizionali. L’uomo ha sempre aggiunto valore al lavoro delle macchine e questo sarà ancora vero, anche se i processi diventeranno sempre più automatizzati. Quello che le organizzazioni dovranno fare, dice in proposito Garibaldi, “è esaminare i processi ad alta intensità cognitiva e capire quali attività possono essere portate a termine dalle macchine e quali dall’uomo, sapendo, per esempio, che le macchine non potranno mai avere una visibilità completa dei clienti”. L’ultima tendenza, forse la più immatura oggi a livello italiano, riguarda l’utilizzo di modelli analitici di tipo scientifico da parte delle figure di business. Da anni, soprattutto nel Stati Uniti, università e laboratori di ricerca stanno applicando gli analytics allo studio di problemi molto complessi in campi che spaziano dalla biologia molecolare all’astrofisica, fino alle scienze comportamentali. Oggi le organizzazioni stanno utilizzando sempre più frequentemente questi modelli e, sebbene la collaborazione formale tra il mondo business e quello scientifico sia soltanto all’inizio, alcuni segnali, secondo Deloitte, fanno intravedere un’esplosione in arrivo per quanto riguarda tecniche, processi e talenti analitici condivisi. Claudia Rossi

Il fatturato mondiale dei servizi di business analytics e di Big Data crescerà dai 130,1 miliardi di dollari del 2016 ai 203 miliardi stimati per il 2020. Rispetto al 2015, quest’anno il giro d’affari farà un salto in avanti dell’11,3%, e continuerà poi a crescere a un tasso annuale composto dell’11,7% fino al 2020. I grandi dati iniziano quindi a essere un business molto serio e lo conferma la “Worldwide Semiannual Big Data and Analytics Spending Guide” pubblicata di recente da Idc. Secondo gli analisti, i settori che alimenteranno la crescita saranno in particolar modo il banking, i processi produttivi discreti, il process manufacturing, il segmento pubblico e i servizi professionali. Insieme, questi cinque ambiti attireranno nel 2016 il 50% degli investimenti globali in Big Data e business analytics e rimarranno nella top five anche nel 2020. Il settore bancario sarà quello caratterizzato dai tassi di spesa con crescita più rapidi e svilupperà circa 17 miliardi di investimenti soltanto quest’anno. Gli altri segmenti a maggior velocità di incremento, con crescite a doppia cifra, saranno le telecomunicazioni, le utilities, le assicurazioni e i trasporti. Le aziende più grandi (sopra i 500 dipendenti) saranno i principali “spender”, con oltre 154 miliardi di dollari di investimenti stimati al 2020 ma anche le piccole e medie imprese contribuiranno in maniera significativa alla sviluppo del giro d’affari legato ai Big Data, per una cifra pari al 25% del totale.

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SCENARI | Big Data & Analytics

Data protection all’europea: occorre muoversi subito

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dpr, acronimo di General Data Protection Regulation. È la nuova normativa europea per la protezione dei dati personali, che dovrà essere recepita dai Paesi membri entro maggio 2018. Sul tema la discussione è entrata nel vivo, vuoi anche per il prospettato vantaggio di cui potrebbero beneficiare le grandi aziende tecnologiche americane (in merito ai costi e ai vincoli amministrativi del Gdpr) per ambire al dominio nel mercato europeo del cloud computing. Per allinearsi alle nuove direttive, questo è certo, le imprese e la Pubblica Amministrazione sono chiamate da subito ad attivarsi per costruire un vero e proprio processo strutturato di trattamento dei dati e di tutela della privacy. Ma poche organizzazioni, oggi, sono preparate a recepire il nuovo regolamento e la quasi totalità non ha in essere piani per dichiararsi conformi alla normativa. Ne parliamo con Florian Malecki, international product marketing director di SonicWall. Che cosa cambia e cambierà per le aziende europee?

Il Gdpr influenzerà imprese di tutte le dimensioni, in tutte le regioni e in tutti i mercati, e coloro che non saranno conformi rischiano sanzioni significative, potenziali breach e perdita di reputazione. La scarsa consapevolezza sulla normativa e sull’impatto della non-conformità su sicurezza dei dati e business rappresenta un notevole ostacolo. La maggior delle aziende non solo non sa se sarà pronta per il Gdpr, ma nemmeno ne conosce requisiti o rischi. Ecco perché dovrebbero iniziare da ora a conformarsi ai criteri del

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nuovo regolamento, potenziando le soluzioni di access governance e access management, proteggendo l’accesso mobile, la posta elettronica e il perimetro delle loro reti. A che punto siamo in questo percorso?

Secondo un sondaggio condotto da Dimensional Research su 821 responsabili della data privacy di aziende con clientela europea, oltre l’80% sa poco o nulla del Gdpr. In Italia questo dato è inferiore, ci fermiamo al 51%, ma lo sforzo che le imprese devono fare è significativo se consideriamo che tutti gli intervistati dichiarano di non avere ancora dei piani o di essere ancora al lavoro, e che oltre il 90% è preoccupato dalla conformità alla direttiva. Quali saranno gli impatti sulla gestione del business e dei dati aziendali?

Diversamente dalla direttiva originaria, che viene recepita nei singoli Paesi su base individuale, il nuovo regolamento di protezione dei dati diventerà legge in tutti i 28 Paesi dell’Unione. Questo significa che la norma si applicherà a tutte le aziende che operano o offrono servizi in Europa: le modalità con cui i dati vengono immagazzinati e gestiti saranno sottoposte a controlli molto più stringenti di oggi, mentre requisiti di accesso più espliciti verranno applicati per gli individui le cui informazioni risiedono nella Ue. Il nuovo regolamento metterà inoltre in evidenza l’importanza della sicurezza dei dati e permetterà ai consumatori a controllare i propri dati personali. Le imprese, nella maggior parte dei casi, dovranno di conseguenza modificare le proprie infrastrutture per essere

Florian Malecki

in grado di elaborare richieste anche complesse in tempi brevi. Su quali aspetti le aziende italiane sono particolarmente poco consapevoli?

Le aziende italiane ritengono di essere ben preparate in molte discipline, fra cui l’access management e la sicurezza delle email. I settori che richiedono ulteriori investimenti sono invece l’access governance, l’autenticazione multi-fattore e soprattutto i firewall di nuova generazione. Qual è la via a “misura di Pmi” per procedere nel percorso di adeguamento?

A mano a mano che il termine si avvicina, le aziende che hanno a che fare con residenti Ue, sia che operino all’interno o all’esterno della comunità europea, dovranno adeguare la loro tecnologia con i nuovi requisiti di sicurezza e data privacy. I partner di canale svolgeranno un ruolo importante nell’assistere i loro clienti, Pmi in testa, nel processo di implementazione per garantire che adottino la soluzione più adatta al proprio business. Piero Aprile


SCENARI | Big Data & Analytics

data reporter cercasi

Comprendere i codici che comunicano il contesto: nel mare di informazioni in cui nuotano le aziende servono strumenti capaci di valorizzarle. Le classiche analitiche spesso non sono sufficienti. E la soluzione non è solo tecnologica.

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ono in aeroporto e il telefonino vibra, segnalando “due ore di ritardo”. Rimango perplesso: è l’aereo che atterrerà con due ore di ritardo o è l’amico che arriverà con due ore di ritardo? Si chiama consapevolezza del contesto, context awareness. Il concetto ci riporta al context aware computing: una disciplina che, dopo anni di ristagno nel mondo della ricerca, sta iniziando a prendere piede nel cuore dei sistemi informativi. Il fatto è significativo, non solo per i suoi contenuti ma anche perché questo nuovo corso non viene dal mondo della computer science bensì da quello della comunicazione. Ed è rilevante il fatto che l’addetto informatico lo stia seriamente considerando. La realtà digitale si rappresenta con dati di sempre maggiore quantità e varietà. E i dati, attraverso i computer, si creano con i numeri e utilizzando convenzioni. Ma

un numero è un’informazione fredda, che non offre una spiegazione, semplicemente la riporta. Per costruire esperienze immersive, in grado di farci capire compiutamente che cosa un dato significhi, c’è bisogno che lo spazio dei numeri sotto osservazione sia contestualizzato. In altre parole c’è bisogno di premere il tasto “play” di un racconto fatto di dati. Nel 1861 Charles Joseph Minard utilizzò un disegno per rappresentare, in uno spazio ristretto, un’informazione caratterizzata da quattro attributi. Oggi la chiameremmo infografica. Nel 2002 lo scrittore statunitense Lev Manovich definì i criteri estetici dell’informazione, facendoci capire che per realizzare un’infografica valida non è richiesto uno sforzo di creatività, e di conseguenza un data artist. È richiesto, invece, un data journalist. Prima di realizzare grafici e tabelle dovremmo infatti chiederci se esista una cultura

che ci consenta di comprendere i codici che comunicano il contesto. Pensiamo ai fumetti, testi in cui il contesto è implicito. Abbiamo la sequenza temporale, la rilevanza, il codice ambientale e quello dell’emozione. Un fumetto lo sappiamo leggere perché trasmette l’informazione di contesto implicitamente, con la storia che racconta. La comprensione di un dato implica quindi una specifica cultura. Siamo certi che le app mobili, Google, i social media e i sistemi informativi ci stiano trasmettendo la cultura del contesto? La risposta è sì, certo, ma troppo lentamente rispetto agli investimenti che si stanno operando. Le aziende hanno fatto per vent’anni spese pazze in soluzioni di Business Intelligence (prima) e di Big Data analytics (poi) per dotarsi di strumenti che sono ottimi nel creare numeri ma molto mediocri nel comunicare. Le analitiche realizzate con i prodotti di Business Intelligence che vanno per la maggiore, per esempio, che cosa hanno ereditato dai fumetti? Oltre alla tooltip, vedo veramente poco. Chi mette in campo gli analytics dovrebbe capire che comunicare un’azione aziendale non è solo questione di numeri. La narrazione che si fa oggi per sopperire a queste lacune, tipicamente un documento Power Point con tabelle e grafici in Excel, contestualizza poco o niente e richiede troppo tempo per comprenderla. Personalmente ho trovato molti “utenti” interessati a parlare di processi di redazione del dato, di linguistica e di codici di comunicazione; persone disposte ad affiancare agli informatici, ai business analyst e ai data scientist nuove professionalità capaci di riportare e di spiegare. Vedo quindi un’immensa opportunità perché, semplicemente, abbiamo molto di più della carta per fare “play” su una storia di dati. Gianluigi Riccio, Ceo di Datonix DICEMBRE 2016 |

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SCENARI | Professioni digitali

Scienziati dei dati: è boom di richieste Quest'anno sono aumentate del 137% le offerte di lavoro indirizzate agli specialisti in materia di Big Data e analytics. Il maggior numero di annunci si concentra in Lombardia.

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Big Data sono sempre più tra i pensieri delle aziende, come testimonia non solo il moltiplicarsi di tecnologie in grado di interrogarli e analizzarli, ma anche la crescita delle offerte di lavoro rivolte ai cosiddetti “data scientist”. Si tratta spesso di professionalità emergenti, dalle competenze completamente nuove, capaci di trarre valore dall’analisi di una mole crescente di dati, sempre più sparsi e destrutturati. A richiederle sono le aziende italiane appartenenti a tutti i settori, che in circa tre anni e mezzo hanno pubblicato oltre tremila annunci sul Web. Così segnala WollyBi – Italian Labour Market Digital Monitor, un’iniziativa congiunta di TabulaeX (società spin20

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off dell’Università Milano Bicocca) e Crisp (Centro di ricerca interuniversitario per i servizi di pubblica utilità). “Registriamo un forte aumento nella ricerca di professionalità legate all’ambito Big Data, con un incremento del 137% tra primi novi mesi del 2016 e quelli del 2015 e del 141% rispetto allo stesso periodo del 2014”, testimonia Mario Mezzanzanica, direttore scientifico del Crisp. Gli annunci di lavoro utilizzano espressioni diverse per indicare professionalità riconducibili alla figura dello “scienziato dei dati” o più in generale all’area Big Data. A emergere, in particolare, sono quattro professioni: quella del data analyst, quella del data scientist, quella del Business Intelli-

gence analyst e quella del social media specialist. La ricerca di tali figure si concentra prevalentemente nel Nord Italia e in particolare in Lombardia, dove si concentra poco meno della metà delle offerte di lavoro pubblicate in questo ambito. Proviene dal territorio lombardo il 49% degli annunci diretti ai data analyst, e per volume seguono il Lazio (17% delle inserzioni) e il Piemonte (10%), mentre le restanti regioni hanno quote non superiori al 7%. Per quanto riguarda i data scientist, ben il 58% delle offerte di lavoro riguarda la regione Lombardia e anche in questo caso al secondo posto segue il Lazio, con il 17% delle pubblicazioni. Anche le ricerche di so-


cial media specialist si concentrano in Lombardia, dove si registra il 37% dei casi, e seguire in Lazio (11%) ed Emilia-Romagna (9%). Analoga tendenza si osserva per il Business Intelligence analyst, con un 44% di inserzioni legate al territorio lombardo, seguito dal 22% del Lazio, dal 10% dell’EmiliaRomagna e dall’8% del Veneto e del Piemonte. Gli specialisti in area Big Data sono richiesti in prevalenza nel settore dei servizi di informazione e comunicazione (51% degli annunci pubblicati tra febbraio 2013 e settembre 2016) e nelle attività professionali, scientifiche e tecniche (26%),

Crisp) un corso di studi post laurea dedicato a Business Intelligence e Big Data Analytics. “Quest’anno è stata attivata la quinta edizione del master, che finora ha già formato circa 140 talenti, mettendo a disposizione tutte le competenze necessarie per operare con successo in un ambito di crescente rilevanza all’interno delle imprese”, sottolinea Mezzanzanica. Ad accedere al corso sono soprattutto studenti provenienti da facoltà scientifiche (Ingegneria, Informatica, Statistica, Matematica e Fisica), che ad oggi rappresentano circa il 60% degli iscritti. Il 33% proviene, invece, da facoltà economiche e il restante 7% a facoltà umanistiche. “Interessante”, aggiunte il direttore scientifico, “è la presenza crescente di studenti provenienti dal mondo del lavoro, che decidono di riqualificarsi o di approfondire le tematiche di Business Intelligence e di Big Data Analytics per iniziativa propria o su richiesta delle aziende di appartenenza”. In quest’ultimo caso, tali richieste provengono soprattutto da realtà del settore finanziario, telecomunicazioni, media e industria manifatturiera. Claudia Rossi

Business Intelligence e, ancora, spiccate abilità organizzative. Fra gli attributi professionali del data scientist, invece, al primo posto devono esserci competenze su Java ed Sql, e a seguire su database relazionali, Python, Business Intelligence, analisi dei dati, software statistico e, infine, capacità organizzative. Il Business Intelligence analyst deve avere maturato soprattutto competenze Sql e di Business Intelligence, e in seconda istanza capacità relazionali, conoscenze approfondite su analisi dei dati, database relazionali, data warehouse e software statistico. Infine, lo specialista di social media deve disporre innanzitutto di spiccate capacità organizzative e relazionali, ma anche di conoscenze approfondite sul marketing, su Microsoft Office, Adobe Photoshop, programmi grafici, Google Analytics e Google Adwords. Per acquisire tutte queste competenze, in Italia sono disponibili da anni alcuni percorsi formativi organizzati da atenei e business school. Tra questi spicca il master dell’Università di MilanoBicocca, fra le prime a varare (proprio in collaborazione con il centro di ricerca

Le competenze più ricercate

Quali sono le competenze più richieste per ognuna delle quattro professionalità in cui si scompone la figura del data scientist? WollyBi li ha raccolti tutti, ordinandoli in base all’importanza loro attribuita dalle aziende. Per quanto riguarda il data analyst, si pretendono innanzitutto conoscenze e capacità relative al software statistico e a Microsoft Office, e a seguire esperienze in linguaggio Sql, database relazionali,

ANNUNCI PER MESE E PROFESSIONE, AREA BIG DATA, FEBBRAIO 2013-SETTEMBRE 2016 (Fonte: Wollybi) 80 70 60 50 40 30 20 10

data scientist

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SCENARI | Professioni digitali

il tesoro delle COMPETENZE Information technology e telecomunicazioni si confermano fra i settori di impiego più dinamici in Italia. E il piano Industry 4.0 per la digitalizzazione delle fabbriche apre le porte agli specialisti di analytics e cybersicurezza.

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a rivoluzione digitale è in atto. Non ci sono più dubbi. E se gli investimenti delle aziende italiane ancora devono conoscere l’atteso boom, i riflessi della diffusione delle nuove tecnologie contagiano in positivo il mondo del lavoro. Se guardiamo infatti alle risultanze dell’Osservatorio Infojobs relativo al primo semestre di quest’anno, scopriamo che le offerte di lavoro nel complesso sono cresciute del 13% rispetto alla prima metà del 2015, mentre la domanda di professionisti Ict è aumentata del 17,8% e quella di specialisti delle telecomunicazioni del 13,9%. Solo la consulenza manageriale, che arriva a rappresentare il 18,4% delle posizioni aperte, ha fatto meglio. Questi dati, fanno notare da InfoJobs, evidenziano una crescente richiesta di competenze digitali: un requisito fondamentale e differenziante per tutti i professionisti chiamati a gestire, direttamente o indirettamente, attività e processi caratterizzati da un alto livello di informatizzazione. Il bilancio di metà 2016 conferma dunque i segnali incoraggianti emersi durante lo scorso anno e a beneficiare di quest’onda positiva sono soprattutto i professionisti dell’informatica e delle telco, che registrano un incremento di offerte su scala nazionale del 15,6%, toccando picchi di popolarità assoluta in Regioni come la Lombardia (che vanta il 37% dell’offerta di impieghi complessiva) e il Lazio (al 20,8%). 22

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Uno spaccato sull’attuale mercato del lavoro arriva anche dallo studio “Top skill 2016” di LinkedIn, che sottolinea come l’Italia presenti uno scenario leggermente diverso rispetto a quello globale, dove le competenze più importanti continuano a riguardare la sfera del cloud computing e del calcolo distribuito. Nella Penisola, invece, i professionisti della tecnologia più ambiti sono quelli che si occupano di analisi statistica e data mining, seguiti dagli esperti in materia di Seo/Sem (ottimizzazione e marketing per motori di ricerca) e da chi vanta competenze nelle attività di controllo qualità e nel testing del software. Indicatori, si legge nello studio, che confermano come per le aziende italiane stia diventando sempre più prioritario attivare strategie di marketing mirate per il posizionamento dei propri brand e contenuti sui motori di ricerca. Il Web, in questo senso, continuerà a essere uno sbocco professionale importante anche per categorie emergenti come quella degli specialisti in progettazione delle interfacce utente (user interface design). Le figure più ambite per Industria 4.0

Automazione e robotica sono una minaccia per i lavoratori del manifatturiero? Il dibattito, aperto da tempo, è tornato di stretta attualità dopo il varo del piano nazionale per la digitalizzazione delle fabbriche. Secondo i numeri della ricerca “The Future of the Jobs”

presentata all’ultimo World Economic Forum, la rivoluzione di Industry 4.0 comporterà la creazione di due milioni di nuovi posti di lavoro nelle 15 principali economie mondiali; contemporaneamente però ne spariranno sette milioni. L’importanza della formazione di nuovi professionisti e di competenze in grado di scaricare a terra i benefici dell’innovazione tecnologica è quindi massima. E questo perché vi sono conoscenze in grado di valorizzare la creatività nella progettazione e la capacità di analisi a livello di processo produttivo, che non possono essere affidate solo alle macchine. Gli specialisti di Web marketing e di comunicazione, il data analyst, l’esperto di cybersicurezza e il design engineer stanno pian piano emergendo proprio per svolgere compiti che l’intelligenza di robot e assistenti virtuali


Paura del digitale? investite in skill La trasformazione digitale è fonte di preoccupazione per le aziende? La soluzione non manca e risponde alla disponibilità di competenze in materia Ict. L’assunto arriva dall’Aica ed emerge da uno studio condotto da Sda Bocconi in collaborazione con Aidp (Associazione italiana direzione personale) e Aldai-Federmanager. Guardando al mondo delle fabbriche e alla rivoluzione annunciata di Industria 4.0, l’83% del campione di oltre 100 Hr manager interessati dall’indagine ritiene che l’affermarsi dell’automazione e dei robot sostituirà gran parte del lavoro umano. L’impatto della digital transformation, a detta del 54% degli intervistati, non comporterà però nel medio termine disoccupazione bensì svilupperà nuove opportunità professionali. Di contro, secondo il 71%, si deve cominciare a riflettere su nuove modalità di or-

ancora non possono eseguire. Nell’Industria 4.0 sarà sempre più importante saper lavorare con i dati, analizzarli, classificarli e utilizzarli per un migliore funzionamento della filiera produttiva. E non solo. La quarta rivoluzione industriale sta incidendo sui modelli di lavoro, contribuendo a modificare i canali di comunicazione e la relazione con il mercato. Per questo, sempre più spesso, si cercano nei nuovi addetti competenze che vanno al di là del prodotto. La sottolineatura di Guelfo Tagliavini, consigliere nazionale di Federmanager con delega a Industria 4.0, è emblematica: “Il primo vero investimento necessario per dare attuazione al Piano è quello di dotare le aziende di competenze capaci di interpretare e gestire i processi di disruption industriale che la globalizzazione impone”. P.A.

ganizzazione del lavoro, in quanto tra i prossimi cinque o dieci anni è prevista una riduzione permanente delle risorse umane dovuta all’innovazione immessa nei processi dalle nuove tecnologie. Il ruolo giocato dalle competenze diventerà quindi fondamentale. Se da una parte il tasso di obsolescenza di quelle tecniche sarà rapido (lo dice il 64% dei rispondenti), dall’altra la capacità di adeguarsi verrà assicurata dai “nativi digitali” e dalla maggiore facilità d’uso della tecnologia. Per questo, fa notare lo studio, risulta importante nelle aziende la conoscenza del cloud, dell’Internet delle Cose, delle macchine intelligenti, della stampa 3D e della robotica. Ma ancora più decisivo per la quasi totalità degli intervistati (il 92% per la precisione) sarà l’impiego delle tecnologie a supporto dei processi di progettazione organizzativa.

Lavorare nell’Ict fa bene alle tasche Le retribuzioni nel mondo del digitale crescono e risultano superiori alla media nazionale, calcolata in poco più di 29mila euro l’anno. A beneficiare maggiormente di questa tendenza sono soprattutto gli addetti che operano nel settore delle telecomunicazioni. La fotografia è di Job Pricing, secondo cui praticamente tutti i comparti dell’universo dell’Information e communications technology hanno contribuito a una ripresa significativa del valore delle buste paga. Ai dipendenti delle Telco, nello specifico, vanno mediamente circa 37mila euro, a chi opera nei servizi di consulenza e nel

sofware circa 36mila euro, mentre si attestano appena sotto i 33mila euro i salari per gli specialisti in campo media, Web e comunicazione. Sul livello delle retribuzioni pesa in modo particolare la dimensione delle aziende: le grandi organizzazioni, con oltre 1.000 dipendenti, pagano infatti circa il 40% in più di quanto non facciano le microimprese con meno di dieci addetti. A livello geografico, a sorpresa, è il Centro a vantare la retribuzione media più alta: 35mila euro, superiori ai 34.330 del Nord. Nel Sud e nelle Isole si registrano stipendi medi nell’ordine dei 31mila euro l’anno.

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TECHNOPOLIS PER BROTHER

L’EQUILIBRIO PERFETTO TRA COSTI E PRODUTTIVITÀ Attraverso l’analisi di planimetrie, movimenti del personale e comportamenti degli utenti, i servizi consulenziali di Brother possono ottimizzare l’uso dei dispositivi di stampa, riducendone al minimo i costi e spingendo al massimo l’efficienza dei flussi di lavoro.

Per lo svolgimento del proprio business, ogni azienda è chiamata a disporre del giusto mix di risorse e ad allocarle in modo estremamente attento per non causare sprechi e inefficienze: due rischi che non riguardano solo persone e processi, ma anche infrastrutture e asset, inclusi quelli dedicati alla gestione documentale. In questo caso, il disallineamento tra risorse di stampa e reali necessità operative si traduce spesso in forti cali di produttività, oltre che in costi gestionali decisamente fuori controllo. Secondo una recente analisi condotta da Idc, le imprese spendono in media il 3% del proprio fatturato per la stampa e la produzione di documenti, una percentuale che potrebbe essere ridotta del 15-20% attraverso un’attenta allocazione delle risorse di imaging & printing in base alle concrete esigenze degli utenti. “Il corretto bilanciamento delle periferiche di stampa”, chiarisce Daniela Durante, 24

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program manager Services & Solutions di Brother Italia, “è il risultato di una selezione accurata di dispositivi condivisi, personali, mono e multifunzione, collocati là dove gli utenti ne abbiano effettive necessità: un’ottimizzazione per zone, che all’interno delle aziende non solo è in grado di abbattere il costo di gestione dei dispositivi, ma anche di spingere al massimo la produttività del personale e, quindi, l’efficacia dei diversi flussi di lavoro”. Uno scenario ideale, che nella realtà spesso si scontra con infrastrutture printing fortemente sbilanciate per il dilagare di onerosi dispositivi monofunzione o per il ricorso eccessivo a “isole di stampa” centralizzate, che penalizzano la produttività degli utenti. InfoTrends calcola che i dipendenti delle medie imprese sprechino addirittura quattromila ore di lavoro all’anno per ritirare le copie dei documenti mandati in stampa in queste isole dedicate. “L’obiettivo del ribilanciamento delle risorse è correggere queste situazioni, riequilibrando le infrastrutture e assicurando importanti benefici economici alle aziende”, afferma Durante, sottolineando l’importanza di eseguire un assessment rigoroso delle necessità dei gruppi di lavoro e un calcolo accurato dei volumi di stampa e dei costi associati. Un’analisi approfondita che solo realtà dallo spiccato Dna consulenziale come Brother possono offrire, evidenziando le aree di miglioramento e suggerendo i correttivi indispensabili per riallineare le risorse ai flussi operativi e, quindi, per abbattere gli sprechi. Chi desidera un taglio ai costi e un’iniezione d’efficienza, può trovare nei servizi di stampa gestiti un ulteriore alleato. I Managed Print Services di Brother, infatti, sono in grado di automatizzare un’ampia gamma di operazioni, tracciando le attività, assegnando quote, registrando i consumi, profilando gli utenti ed elaborando report che fotografano costantemente l’andamento d’utilizzo delle risorse. “L’ottimizzazione delle infrastrutture è un processo continuo e richiede revisioni periodiche per avere certezza che gli asset siano sempre allineati con le necessità aziendali”, sottolinea ancora Durante. “Da questo punto di vista, affidarsi a un servizio di stampa gestita come Pagine+ offre anche a realtà dalle dimensioni medio-piccole la possibilità di appoggiarsi alle competenze di uno specialista come Brother e della sua rete di partner certificati. per tenere costantemente sotto controllo le risorse. Avvantaggiandosi, tra l’altro, di un costo copia certo e stabile nel tempo”.


SPECIALE | Sicurezza

nel mirino degli hacker Attacchi DDoS eclatanti, ma anche sottrazioni di dati che agiscono nell'ombra per mesi prima di essere scoperte. Le aziende faticano a difendersi, anche per colpa dei budget insufficienti.

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e imprese dei cybercriminali non hanno smesso di conquistare gli onori della cronaca anche in questo 2016 in dirittura d’arrivo. Basti pensare a episodi eclatanti recenti, come in ottobre l’attacco DDoS all’Internet provider statunitense Dyn, attacco che per ore ha paralizzato oltreoceano grandi siti e servizi Web, da Twitter a eBay, passando per Netflix, Paypal ed editori come il New York Times e il Wall Street Journal. Gli assalitori hanno fatto leva su decine di milioni di router WiFi e di dispositivi di domotica (videocamere di sorveglianza, webcam, termostati smart), infettati con un malware per generare anomali livelli di traffico e mettere fuori uso abbondanti porzioni del Web. A novembre,

invece, è malauguratamente finita sotto i riflettori la britannica Tesco Bank: ventimila suoi clienti hanno subìto intrusioni nei propri account e furti di centinaia di sterline dai conti corrente. Di chi è la colpa? I punti deboli della catena della sicurezza sono tanti e di diversa natura, talvolta di sconcertante banalità. Nel caso dell’attacco a Dyn, per esempio, i criminali hanno potuto introdursi nei dispositivi di domotica che risultavano associati a password di default, impostate dal produttore e mai personalizzate dall’utente. Nell’episodio di Tesco Bank, invece, la dinamica non è chiara: si ipotizzano vulnerabilità nei protocolli di scambio dei dati ma anche il dolo, cioè la cessione di informazioni da parte di un “insider” in cambio di denaro. Da

casi come questi emerge la disparità di forze fra chi si deve difendere, avendo a che fare con debolezze sia tecnologiche sia umane, e chi può boicottare, sottrarre dati e denaro grazie a strumenti d’attacco sempre più economici e disponibili nel mercato nero del Web. Aziende sotto assedio

Oltre che sui grandi Internet provider e sulle grandi aziende, il rischio di un attacco incombe anche sulle piccole e medie imprese. A detta di un recente monitoraggio di Kaspersky Lab, le Pmi nel terzo trimestre di quest’anno sono state bersagliate otto volte di più, rispetto all’analogo periodo del 2015, dal fenomeno dei ransomware. Una tipologia di malware, quest’ultima, che DICEMBRE 2016 |

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SPECIALE | Sicurezza

infetta i dispositivi per bloccarne il funzionamento o crittografarne i file, per poi chiedere all’utente il pagamento di un “riscatto” monetario. Ebbene, nei tre mesi di luglio, agosto e settembre il prodotto di Kaspersky Lab ha individuato e bloccato più di 27mila tentativi di infezione ransomware, quando solo un anno prima il conteggio superava di poco i tremila episodi. Che i sonni delle aziende non debbano essere tranquilli lo si comprende anche da un’indagine realizzata per conto di Fortinet dalla società di ricerca Lightspeed Gmi, che ha preso in considerazione realtà di dimensioni medie ed enterprise (dai 250 dipendenti in su) di 13 Paesi. Il 52% delle circa cinquecento aziende europee coinvolte nel sondaggio ha osservato almeno un episodio di violazione informatica nel corso del 2015. Al danno subìto si aggiunge spesso l’aggravante della mancata reazione, perché in appena il 16% dei casi la violazione è stata rilevata tempestivamente; per una metà circa delle aziende del settore sanitario, addirittura, i responsabili It hanno ammesso colpevoli ritardi di mesi o di anni fra il giorno dell’attacco e quello della scoperta. Spaventa anche la previsione di Juniper Research, quella secondo cui il costo su scala mondiale dei data breach salirà a 2,1 miliardi di dollari nel 2019, quadruplicando il valore calcolato nel 2015.

Buoni propositi e budget insufficienti

Uno sguardo al futuro

adottare un approccio “olistico” che includa in un’unica strategia tutti gli aspetti della sicurezza informatica. Per esempio l’utilizzo di dispositivi, applicazioni o servizi da parte di dipendenti e collaboratori aziendali i quali agiscono di iniziativa propria e senza il consenso dei reparti It: è il fenomeno del cosiddetto “shadow It”, che nel 2020 sarà causa di un attacco cybercriminale andato a buon fine su tre. Al problema delle policy non rispettate si continuerà ad affiancare quello dei

Secondo Idc, quest’anno la spesa mondiale in prodotti e servizi di cybersicurezza arriverà a 74 miliardi di dollari, per poi salire a 101 miliardi nel 2020. Gli investimenti cresceranno, ma dovrà anche cambiare l’atteggiamento di fondo: come sottolinea un’altra grande società di ricerca, Gartner, sempre più sarà necessario 26

Secondo l’indagine di Fortinet, per il 48% dei responsabili It aziendali in Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito il modo migliore per reagire all’aumento delle violazioni è acquistare nuove tecnologie di cybersecurity, che garantiscano protezione lungo l’intero ciclo di vita della minaccia (quindi dalla circolazione sul Web, al tentativo di ingresso sulle reti, all’infezione del dispositivo). Ma ecco un primo ostacolo: i budget. A detta di uno studio di Kaspersky Lab, sette aziende europee su dieci prevedono di aumentare entro i prossimi tre anni la spesa destinata alla sicurezza It, di qualche punto percentuale o anche a doppia cifra. Le intenzioni sono buone ma le premesse un po’ meno, dato che un buon 39% di intervistati si è lamentato di disporre di risorse insufficienti. Nel Vecchio Continente, inoltre, la maggior parte (80%) delle realtà impiega per il potenziamento della propria sicurezza informatica meno di un quinto del budget It complessivo. E vale il detto “chi meno spende, più spende”, se pensiamo che nel mondo (il dato è ancora una volta di Kaspersky) un incidente di cybersecurity costa in media 861mila dollari alle grandi aziende e 86.500 dollari a quelle di medie e piccole dimensioni. La buona notizia è che nei prossimi anni i pianificati aumenti di budget saranno orientati al reclutamento di nuovi professionisti, ad attività di

formazione e all’acquisto di tecnologie, servizi di intelligence e di forensic. Minacce in aumento, dalle Alpi al tacco

In fatto di sicurezza informatica, le aziende e cittadini dello Stivale hanno conosciuto tempi migliori. Per la prima metà di quest’anno il Clusit segnala un incremento del 9% nel numero degli attacchi rispetto al semestre precedente, con particolari picchi di incremento nel settore della Sanità (+144%) e per particolari tipi di attività cybercriminale, ovvero quelli più banali. Il numero di ransomware osservati, in particolare, è più che raddoppiato (+129%) fra un semestre e l’altro, mentre è addirittua a quattro cifre, +1500%, l’ascesa del phishing (messaggi email truffaldini che inducono a cedere dati personali) e del social engineering (personalizzati in base al comportamento online e agli interessi dell’utente). “Registriamo un incremento della superficie di attacco esposta dalla nostra società digitale, oggi iper-connessa, anche in conseguenza della massiccia adozione di nuove tecnologie facili e a basso costo, che sono intrinsecamente poco o per nulla sicure se confrontate con le capacità di nuocere degli avversari”, ha commentato Andrea Zapparoli Manzoni, membro del consiglio direttivo del Clusit. “Tutto questo, a fronte di un ampliamento del divario tra percezione dei rischi cyber e realtà”. Valentina Bernocco mancati aggiornamenti software, se è vero che alla fine del decennio ben il 99% delle vulnerabilità sfruttate dai criminali corrisponderanno a problemi vecchi, già noti. Un altro pronostico di medio periodo di Gartner iguarda l’Internet delle cose: a fine decennio, oltre un quarto degli attacchi ricevuti e rilevati dalle aziende implicherà i dispositivi IoT. Eppure, incautamente, a questo tema sarà destinato appena un decimo dei budget di sicurezza aziendali. DICEMBRE 2016 |


SPECIALE | Sicurezza

Integrare e semplificare: le promesse dei vendor La dissoluzione del “perimetro”, l’avanzata delle minacce sofisticate e la complessità degli ambienti It obbligano le aziende a dotarsi di strumenti di difesa nuovi. Più capillari, ma anche più facili da gestire.

I

l rischio di un incidente informatico, causato da incompetenze, doli o difetti della tecnologia, pende sulle aziende come una spada di Damocle. Oggi più che in passato: non solo perché gli strumenti di attacco diventano sempre più sofisticati e abbordabili (si pensi agli exploit kit in vendita in Rete a buon mercato) o perché all’azione individuale si affianca una vera e propria industria cybercriminale. Ma anche perché, come i vendor vanno ripetendo da tempo, non esiste più un “perimetro” tecnologico netto. “È ormai noto che il perimetro dell’It non è più confinato a quello fisico del real estate, ma si è prepotentemente spostato verso il cloud, diventando elastico”, esordisce Alessandro Salesi, senior systems engineering manager di Juniper Networks Italia. “Le aziende stanno attraversando una profonda trasformazione dell’architettura di rete, sempre più spostata verso piattaforme di public o private cloud. In particolare, si richiede alle soluzioni di sicurezza agilità, flessibilità e aumento delle performance senza incidere negativamente su aspetti quali la gestione e la configurazione”. Oggi, dunque, strumenti di difesa clas-

sici quali i firewall e gli antivirus vanno inseriti in dinamiche più ampie o, per usare ancora una volta le parole dei vendor, in “piattaforme integrate”. Oltre a rilevare e bloccare le minacce, queste soluzioni (le più evolute) eseguono anche analitiche, sfruttano informazioni provenienti dal cloud e in qualche caso anche l’intelligenza artificiale. Juniper Networs, per esempio, è nella lista di chi promuove un’idea di sicurezza pervasiva e distribuita. Che cosa significa? “Una volta che un firewall identifica una minaccia”, spiega Salesi, “questa viene isolata nel punto più vi-

cino possibile all’origine, per mezzo di regole create e gestite centralmente e dinamicamente distribuite e applicate alla rete stessa”. Tra le novità proposte dall’azienda c’è Software Defined Secure Networks, una soluzione mirata a semplificare la gestione della sicurezza in ambienti eterogenei. Al suo centro opera un “motore di policy” il quale rileva gli eventi che si verificano sulla rete e poi in modo automatico e dinamico applica azioni correttive sui sistemi di sicurezza, siano essi di Juniper Networks o della concorrenza. A questa soluzione basata su un approcDICEMBRE 2016 |

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cio “architetturale”, il vendor affianca il sistema antimalware Sky Atp (l’acronimo sta per Advanced Persistent Threat, gli attacchi mirati a singoli individui o gruppi, portati avanti nel tempo con lo scopo di sottrarre o manomettere dati). Sky Atp sa rilevare minacce come i malware zero-day, quelli che sfruttano vulnerabilità non pubblicamente note: grazie all’analisi effettuata da un algoritmo proprietario di machine learning, il pericolo viene identificato e poi neutralizzato da contomisure che agiscono come una sorta di “vaccino” creato in risposta a un nuovo virus. Nuovi nemici e regole da conoscere

“Oggi le aziende affrontano una serie di continue sfide di sicurezza, fra cui i ransomware, gli attacchi zero-day e i malware”, commenta Florian Malecki, international product marketing director di SonicWall, storico brand da pochissimo tempo tornato indipendente dopo lo scorporo da Dell Technologies. “Lo studio annuale sulle minacce realizzato da SonicWall evidenzia come principali rischi di security del 2016 l’aumento dei malware per Android, l’evoluzione degli exploit kit, che mirano a stare sempre un passo avanti rispetto ai sistemi di sicurezza, e infine la continua ascesa dell’utilizzo della crittografia Ssl/Tls da parte dei cybercriminali per nascondere le infezioni agli occhi dei firewall. In aggiunta a tutto questo, una nostra recente indagine sul tema del nuovo General Data Protection Regulation, creato dall’Unione Europea per rafforzare e uniformare la protezione 28

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FLORIAN MALECKI - SONICWALL

STEFANO VOLPI - CISCO

ALESSANDRO SALESI - JUNIPER NETWORKS

SPECIALE | Sicurezza

dei dati personali ed effettivo entro il 2018, ha scoperto che la maggioranza delle organizzazioni è preoccupata dall’esigenza di compliance al Gdpr ma non ha consapevolezza dei requisiti”. A detta di SonicWall, dunque, per le aziende dovrebbe essere una priorità comprendere quali siano esattamente i criteri da rispettare e i metodi cui attenersi in pratiche quotidiane, quali l’archiviazione, il backup, la gestione della posta elettronica, l’autenticazione degli utenti. “Senza la sicurezza”, aggiunge Malecki, “non possono crescere, andare avanti, innovare. Senza una sicurezza forte, troppo spesso per paura si abbandonano all’inerzia. Dicono no all’innovazione”. La proposta di SonicWall include soluzioni per la sicurezza di rete cablata e wireless (Next Generation Firewall e Network Access Control), per la protezione della posta elettronica, per la gestione dei dispositivi mobili (Mobile Device Management e Mobile Application Management) e per la compliance. Problemi di cultura e di risorse

“L’idea di una architettura It stabile, con location e ruoli definiti, è ormai superata”, così come “il tempo degli hacker etici e solitari è ormai tramontato”. Le parole di Stefano Pinato, country manager per l’Italia di Barracuda Networks, sintetizzano un pensiero diffuso tra i professionisti della sicurezza informatica. “Forse il vero grande problema attuale”, riflette Pinato, “sta nella contrapposizione fra una criminalità sempre più digitale e

il tempismo è tutto In media, alle aziende sono necessari cento giorni per accorgersi di aver subito una violazione. Come chiudere questa “finestra di opportunità” oggi spalancata a beneficio degli aggressori? “Le tecnologie focalizzate sulla sola prevenzione rimangono un pilastro della sicurezza degli endpoint, pur essendo insufficienti contro gli attacchi più sofisticati”, commenta Stefano Volpi, security practice leader per l’Italia di Cisco. “Per superare questo gap, il settore della sicurezza ha letteralmente sommerso le organizzazioni con nuove tecnologie per gli endpoint, molto allettanti. Ma le aziende? Dovrebbero tenere l’antivirus che hanno sempre avuto? Aggiungere un nuovo agente per avere maggiore visibilità? E un altro per un migliore rilevamento e risposta? Non ci possiamo permettere di aggiungere complessità a complessità”. La proposta di Cisco è diversa. Quest’anno l’azienda ha annunciato i firewall Firepower, il servizio di accesso sicuro alla rete Umbrella Roaming e la soluzione di gestione delle policy Defense Orchestrator. A novembre ha lanciato la soluzione di protezione degli endpoint Cisco Amp (Advanced Malware Protection), comprensiva di tecnologie di prevenzione, rilevamento e risposta. “Oltre a bloccare la maggior parte del malware”, sottolinea Volpi, “permette di rilevare le minacce avanzate molto più velocemente, riducendo l’attuale finestra di cento giorni a tredici ore o anche meno”.

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Alla ricerca di una visione d’insieme

cesso remoto sicuro (Ssl Von) e la protezione dagli attacchi zero-day. L’offerta si applica alla difesa di ambienti It tradizionali, ma anche inclusivi di cloud, mobile e Internet of Things. Sull’esistenza di un “problema culturale” all’interno delle aziende concorda Check Point Software. “La più grande sfida è la formazione degli utenti”, dichiara il channel sales manager Massimiliano Bossi. “La maggior percentuale di attacchi riusciti dipende dalla superficialità o inconsapevolezza di chi usa i supporti elettronici. In secondo luogo, si sottovalutano i rischi connessi all’utilizzo dei dispositivi mobili, che ormai per il 70% dei casi sostituiscono un Pc, senza però alcuna protezione”. Osservazione peraltro confermata,

STEFANO PINATO - BARRACUDA

ANTONIO MADOGLIO - FORTINET

professionale e una cultura della sicurezza informatica ancora troppo debole. Questa è, a nostro parere, una sfida ancora irrisolta: sono le aziende a dover ancora lavorare molto in questo senso”. Cultura della sicurezza significa anche comprendere quale sia l’approccio corretto da adottare. Ovvero un approccio che sia “veramente integrato”, prosegue il county manager. “Ciò significa, per esempio, avere soluzioni che vadano al di là dello specifico firewall o della soluzione appliance di protezione della posta elettronica on-premise”. Barracuda propone, dunque, una piattaforma in cui le classiche funzionalità del firewall si combinano con altre più innovative, quali il bilanciamento di più linee, l’ottimizzazione del traffico, l’ac-

nager di Fortinet, “è quello di avere dei sistemi che diano visibilità su quello che sta avvenendo in rete, anche nei meandri più remoti, in termini di chi fa che cosa, di applicazioni utilizzate, di abitudini comportamentali: solo se si conosce ciò che accade è possibile decidere in modo oggettivo come e cosa filtrare a livello di security”. Per conciliare la complessità degli ambiti eterogenei con l’esigenza di controllo, Fortinet propone l’offerta integrata del Security Fabric: una piattaforma in cui i diversi componenti di sicurezza dialogano

MASSMILIANO BOSSI - CHECK POINT

Analizzare ogni dettaglio, monitorare tutti gli eventi che si verificano su una rete, gli accessi alle applicazioni, i percorsi dei dati. Ma anche, allo stesso tempo, non perdere mai di vista la visione d’insieme. Non è una sintesi facile quella richiesta oggi alle aziende. Le più recenti proposte dei vendor aiutano, però, a trasformare questo approccio teorico – allo stesso tempo analitico e sintetico – in una pratica quotidiana. “Il punto chiave, che potrebbe sembrare banale”, illustra Antonio Madoglio, system engineering ma-

fra di loro, lavorando in modo coordinato e condividendo informazioni. “Un firewall FortiGate”, esemplifica Madoglio, “può colloquiare con una FortiSandbox, la quale scoprendo uno zero-day può proteggere anche il traffico di posta gestito da un FortiMail o le proprie applicazioni Web, interagendo con un FortiWeb, o addirittura mettere in quarantena i file infetti di un Pc, su cui è installato un FortiClient. Alla fine, si viene a creare una vera e propria intelligence locale che collabora con quella globale dei FortiGuard Labs”.

benché parzialmente, da una recente indagine di Kaspersky Lab: in Europa e Stati Uniti, solo il 53% dei proprietari di smartphone ha installato sul dispositivo una soluzione di sicurezza, mentre sui Pc la percentuale sale all’88%. Se certamente la questione delle competenze va affrontata, è altrettanto vero che rivolgendosi agli esperti si possono in parte colmare le lacune. “Oggi”, prosegue Bossi, “prendono sempre più piede i servizi di sicurezza gestita, in grado di proteggere aziende e privati, le cui informazioni e identità vengono disperse nel Web e nel dark Web. Check Point ha lanciato sul mercato un servizio che è in grado di soddisfare proprio queste esigenze”. Intsights, questo il nome, aiuta a ripulire il Web da informazioni private e sensibili che siano sfuggite al controllo dei sistemi tradizionali. Un cavallo di battaglia della società israeliana è Sandblast, una tecnologia (disponibile come appliance o come servizio cloud) capace di bloccare i malware ancora prima che infettino un dispositivo: con la funzione di threat extraction si ha la garanzia che nelle caselle di posta elettronica arrivino solo messaggi innocui o “ripuliti” dalle minacce. V.B. 29


TECHNOPOLIS PER FORTINET

CONDIVIDERE LA CONOSCENZA PER DIFENDERE LE AZIENDE Il Security Fabric è un’architettura scalabile che può proteggere risorse fisiche, ambienti ibridi e cloud. Assicura protezione end-to-end, gestione centralizzata e threat intelligence, integrando più fonti di dati. Regole universali, scalabilità, visibilità massima, intelligence, reattività in tempo reale: su questi principi si basa la sicurezza targata Fortinet. Principi riassunti nel concetto di “Security Fabric”, ovvero in un’offerta coerente, aperta integrata e completa di tutti gli elementi necessari alle aziende per proteggere i propri endpoint, reti, applicazioni e dati, sia in ambienti tradizionali on-premise sia nel cloud. I principali componenti di questa architettura sono i next generation firewall FortiGate, la console unificata di gestione e orchestrazione FortiManager, i servizi di risposta per incidenti critici FortiCare, le soluzioni per la protezione della nuvola (FortiCloud, FortiGuard Labs, FortiSandbox in Cloud) e le versioni virtualizzate delle soluzioni di sicurezza Fortinet. L’Advanced Threat Protection Framework, inoltre, effettua un’ispezione approfondita del traffico e genera indicazioni di intelligence locali, trasmettendole ai FortiGuard Labs; da qui, gli aggiornamenti di sicurezza vengono diramati all’intero sistema. Sui dati raccolti, la tecnologia di Fortinet esegue poi delle analitiche che progressivamente potenziano la capacità di rilevamento e mitigazione delle minacce. Il Security Fabric si integra completamente con tutte le principali architetture di software-defined networking e piattaforme cloud, oltre a includere interfacce di programmazione delle applicazioni (Api) che permettono di integrare soluzioni terze. “Adottando questa architettura le aziende possono ottenere una protezione completa”, sottolinea Filippo Monticelli, country manager per l’Italia di Fortinet. “Si può scegliere di implementarla gradualmente e anche di sfruttare le possibilità di combinazione con soluzioni di altri vendor, attualmente una decina”. L’integrazione fra i diversi componenti non è una semplice condivisione di log, bensì riguarda anche la possibilità di gestione centralizzata, l’utilizzo di policy uniformi e la creazione di una “intelligence” comune. I dati e i log raccolti da fonti diverse – Pc, server, access point, dispositivi mobili, oggetti dell’Internet of Things, risorse cloud – vengono messi a fattore comune per realizzare strategie di difesa basate sulla conoscenza (ovvero sulla visibilità) e sulla coerenza (policy e gestione centralizzate). All’interno delle attuali reti aziendali “borderless”, prive ormai di un perimetro definito, i dati possono essere monitorati e gestiti in modo coordinato. “Oggi sempre più si parla di sicurezza senza confini”, illustra Monticelli, “perché nelle aziende l’apertura al cloud, ai dispositivi mobili, al ricorso 30

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all’outsourcing ha di fatto sgretolato il vecchio concetto di perimetro. Per questo motivo abbiamo sviluppato una soluzione che garantisce il controllo granulare ma anche la centralizzazione dell’intelligence e delle operazioni gestionali”. A detta del country manager, la peculiarità dell’offerta di Fortinet è duplice: risiede sia nella visione d’insieme, cioè nella “ricetta” del Security Fabric, sia nei singoli “ingredienti”. “Crediamo di differenziarci da altri vendor per la nostra visione end-to-end e per il vantaggio tecnologico e di rapporto prezzo/prestazioni riconosciuto ai nostri prodotti”, rimarca Monticelli. “Sviluppiamo internamente i nostri circuiti integrati FortiAsic e questo ci permette di ottenere soluzioni scalabili, adatte alle piccole aziende così come alle realtà enterprise e agli operatori di telecomunicazione, senza mai compromettere le prestazioni”.

Filippo Monticelli, country manager per l’Italia di Fortinet


SPECIALE | Sicurezza

Non chiamateli antivirus Le piattaforme di protezione degli endpoint racchiudono ormai molteplici funzioni, fra cui l’intelligenza artificiale e strumenti di difesa dalle minacce ancora sconosciute.

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irus per Pc e dispositivi mobili, ransomware che prendono in “ostaggio” un sistema, ma anche messaggi di phishing e azioni di ingegneria sociale mirati a rubare informazioni e denaro. Lo scorso anno Symantec ha identificato oltre 430 milioni di nuovi malware, cifra che quest’anno è destinata a salire ancora. Trend Micro ha osservato all’opera una singola variante di ransomware capace di infettare centomila computer al giorno. Secondo un’indagine commissionata da MarkMonitor a Opium, negli Stati Uniti e in otto Paesi europei (Italia inclusa) il 45% degli internauti è rimasto vittima di almeno una frode online. Sono solo alcuni numeri pescati nel mare molto più ampio dello scenario cybercriminale. Non stupiscono,

allora, stime come quella tracciata da MarketsandMarkets: il mercato delle soluzioni di cybersicurezza crescerà dai 122,45 miliardi di dollari di quest’anno fin oltre i 202 miliardi nel 2021. Opportunamente, negli ultimi anni le soluzioni di protezione degli endpoint si sono evolute dal vecchio concetto di antivirus a quello di piattaforme polifunzionali e capaci di proteggere Pc, server e appliance, ma anche smartphone, tablet e risorse cloud. Senza dimenticare gli “oggetti connessi” che sempre più popolano uffici e abitazioni: webcam, apparati di videosorveglianza e di videoconferenza, stampanti WiFi. “I trend tecnologici che imperverseranno nei prossimi cinque anni”, commenta Gastone Nencini, country manager per l’Italia di Trend Micro, “sono quelli

dell’Internet of Things, il cloud, gli sviluppi nel settore Scada/Ics con l’avvento dell’Industry 4.0. L’ascesa esponenziale di dispositivi connessi determinerà anche la crescita delle minacce, che avranno una superficie maggiore per colpire”. Tutto ciò che è dotato di indirizzo Ip, insomma, diventa potenziale bersaglio. Come si adatteranno le aziende a tutto questo? A detta di Trend Micro, si affideranno sempre di più a soluzioni basate su cloud, con il duplice vantaggio di tagliare i costi e di poter contare su un supporto esterno qualificato. E cambierà anche il concetto della protezione endpoint. “I sistemi di pattern matching”, spiega Nencini, “dovranno essere integrati con altre soluzioni di application control e white listing, che permettono di incrementare i livelli di produzione”. La più DICEMBRE 2016 |

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SPECIALE | Sicurezza

Intelligenza e intelligence

MARCO D’ELIA - SOPHOS

Anche Symantec ha fatto il grande passo nel campo dell’intelligenza artificiale con Sep14 (Symantec Endpoint Protection 14). “Non si tratta solo di un aggiornamento della precedente versione, ma di nuovo approccio alla sicurezza dell’endpoint”, spiega Vittorio Bitteleri, head of sales enterprise security Italia. “Possiamo continuare a chiamarlo antivirus, ma è una completa piattaforma che include funzionalità di diverso tipo. Fra le novità, sono state inserite nuove tecniche di machine learning. E va detto che l’intelligenza artificiale di per sé è una scatola vuota, mentre la vera efficacia sta nella base di dati su cui gli algortimi vengono eseguiti”. Symantec può affidarsi ai dati raccolti da 175 milioni di antivirus, da 163 milioni di sistemi di antispam, da 80 milioni di Web proxy e da otto miliardi di richieste di sicurezza quotidiane, nonché alla telemetria di Blue Coat Sy-

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LUCA SAMBUCCI - ESET

GASTONE NENCINI - TREND MICRO

stems. Sep14 riunisce in un unico agente le principali tecnologie di protezione dei dispositivi – exploit prevention, endpoint detection and response, antimalware – e le funzionalità di intelligenza artificiale, risultando molto leggera in termini di consumo di banda e di memoria. In tema non di intelligenza artificiale bensì di intelligence, cioè di analisi dei dati mirata a fornire indicazioni in tempo reale, in prima linea c’è Intel Security. “Il nostro servizio di informazioni sulle minacce, basato sul cloud e sempre attivo, rende possibile una protezione accurata contro le minacce note e in rapida emersione, grazie a parametri che tengono conto della determinazione di una minaccia e della reputazione”, illustra Ferdinando Torazzi, regional director per l’Italia e la Grecia. “Inoltre, la condivisione della threat intelligence permette ai nostri prodotti di funzionare in concerto, in base alle stesse solide informazioni che giungono pressoché in tempo reale”. L’offerta di Intel Security consente di gestire centralmente più attività, dalla prevenzione della perdita dei dati, del Web e degli accessi al cloud, fino alla crittografia.

VITTORIO BITTELERI - SYMANTEC

recente proposta di Trend Micro si chiama XGen ed è anche la prima a sfruttare algoritmi di apprendimento automatico per identificare più velocemente e accuratamente le minacce sconosciute.

MORTEN LEHN - KASPERSKY

FERDINANDO TORAZZI - INTEL SECURITY

Sicurezza senza confini

In ottica di integrazione e abbattimento dei confini ragiona anche Eset. Le sue soluzioni destinate a sistemi desktop e server basati su Windows, Mac o Linux, ma anche ai dispositivi mobili, sono “semplici da installare, configurare e gestire da una singola console centralizzata”, come assicura Luca Sambucci, operations manager di Eset Italia. “Hanno un impatto ridotto sul sistema, il che le rende utilizzabili anche su hardware di non ultima generazione. Inoltre Eset, con il suo programma Technology Alliance, punta all’obiettivo di riunire in un’unica famiglia i migliori prodotti di security e integrare così la vasta gamma delle proprie soluzioni, con la garanzia di una perfetta interoperabilità”. La filosofia di Sophos è invece riassunta nell’espressione “sicurezza sincronizzata”: da un’unica console di gestione basata su cloud si controllano la difesa degli endpoint e quella dei dispositivi mobili. “Sophos Security Heartbeat”, illustra il country manager Marco D’Elia, “abilita la comunicazione tra endpoint e firewall aziendali: un’idea semplice ma efficace, che si traduce in un maggior livello di protezione contro le minacce avanzate”. Fra le novità spicca Sophos Intercept X, soluzione antimalware che include una tecnologia capace di opporsi ai ransomware crittografici nei loro tentativi di cifratura dei dati. “La rapida e profonda evoluzione del panorama delle cyberminacce ha obbligato le aziende ad affrontare nuove sfide”, sintetizza Morten Lehn, general manager Italy di Kaspersky Lab. “La nostra offerta permette di soddisfare le esigenze di protezione delle aziende di ogni dimensione, così come di settori verticali specifici, per esempio quello bancario o industriale. Un elemento fondamentale alla base di tutte le nostre soluzioni è l’intelligence del Kaspersky Security Network, che fornisce informazioni utili per monitorare e comprendere quello che sta succedendo all’interno della rete”. V.B. DICEMBRE 2016 |

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TECHNOPOLIS PER ESET

AZIENDE IN REGOLA GRAZIE ALLA CRITTOGRAFIA

Il software DESlock+ aiuta le imprese di tutti i settori e dimensioni a crittografare i dati in maniera semplice e sicura, conformandosi ai requisiti di sicurezza previsti dal nuovo Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati. La protezione dei dati rappresenta un aspetto fondamentale per aziende e organizzazioni di qualsiasi dimensione e di tutti i settori di mercato, poiché riguarda le informazioni relative alla sfera personale di un individuo, che devono quindi essere tutelate dai rischi di distruzione o perdita, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità di raccolta. La messa in sicurezza dei dati è disciplinata a livello europeo dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (Gdpr), approvato nell’aprile di quest’anno in sostituzione di una direttiva europea del 1995 (95/46/EC). Il Regolamento obbliga le aziende di qualsiasi dimensione ad adottare un nuovo insieme di politiche e processi, volti a dare alle persone un maggiore controllo sui propri dati personali, imponendo pesanti sanzioni amministrative in caso di trasgressione: fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato totale a livello mondiale. Ciò comporterà la scrittura di nuovi processi e manuali, l’aggiornamento del personale e l’adeguamento di sistemi informatici per attuare queste nuove procedure. Nello specifico, l’articolo 5 del Gdpr sancisce la necessità

di assicurare un’appropriata sicurezza dei dati personali, mentre l’articolo 32 dello stesso Regolamento indica le modalità per la messa in sicurezza dei dati, assegnando alla tecnologia un ruolo fondamentale per proteggere le informazioni che possono essere oggetto di furti o smarrimenti. L’articolo 32 stabilisce anche l’esigenza di avere degli efficaci piani per il ripristino dei dati, delle password e dei sistemi di gestione delle chiavi, citando la crittografia come misura tecnica appropriata per raggiungere la sicurezza nel trattamento dei dati. La crittografia gioca, in effetti, un ruolo importante nella costruzione di un valido sistema di sicurezza e rappresenta un punto nodale nella tutela delle informazioni sensibili. Questa tecnica protegge i dati archiviati o trasferiti attraverso server, computer portatili, dischi e supporti rimovibili, consentendo inoltre una sicura collaborazione e condivisione di contenuti tra gruppi di lavoro. Una buona soluzione per la crittografia deve essere semplice da implementare, facile da utilizzare quotidianamente e scalabile, in modo che possano essere aggiunte funzionalità avanzate in caso di necessità. Infine, è opportuno scegliere una soluzione che non richieda la reinstallazione per gli aggiornamenti o i rinnovi e che preveda una licenza d’uso perenne con manutenzione e supporto annuali oppure sottoscrizione della licenza, per consentire di gestire i costi e salvaguardare quindi gli investimenti It aziendali. Il software DESlock+ di Eset aiuta le imprese di tutti i settori e dimensioni a crittografare i dati in maniera semplice e sicura, rispondendo alla necessità di protezione dei dati richiesta dall’Articolo 32 del Gdpr. Dotato di architettura di cloud ibrido brevettata, DESlock+, garantisce la cifratura dei dati aziendali nel rispetto dello standard Fips 140-2 di livello 1, quello adottato dal Governo degli Stati Uniti, e utilizza algoritmi di cifratura quali Aes, Sha, Rsa, Triple Des e Blowfish. Il software può cifrare singoli file e cartelle, messaggi email, oppure interi dischi e drive rimovibili, compresi i dispositivi Usb portatili. DESlock+ include la gestione remota sicura basata su browser Web, un’edizione mobile per iOS e un client portatile, DESlock+ Go, che consente l’accesso sicuro ai dati sui computer in cui non è installato il software. La soluzione di Eset rispetta gli standard per il salvataggio e la gestione dei dati sensibili e privati, ma consente anche di condividere i dati tra gli utenti autorizzati come ad esempio medici e personale infermieristico. 33


ECCELLENZE.IT |

Panini

La fantasia e la creatività si custodiscono nella nuvola L'azienda modenese, sinonimo di figurine ma anche editrice italiana dei fumetti Marvel e di Topolino, usa i servizi di connettività e cloud storage di Retelit. Risparmiando su costi e guadagnando produttività.

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l suo nome fa subito pensare ai mitici album di figurine dei calciatori, ma Panini è molto di più: la società modenese fondata nel 1961 oggi è un gruppo editoriale da oltre mille dipendenti e da oltre mezzo miliardo di euro di fatturato. Un gruppo che può vantare la leadership nel mercato mondiale delle figurine adesive e da collezione, nonché un quarto posto in Europa nel campo delle pubblicazioni a fumetti destinate ai ragazzi e nei manga. Nel nostro Paese a Panini fanno capo le strisce della Marvel Comics e, dal 2013, anche i periodici acquisiti da The Walt Disney Company Italia, Topolino in primis. Facile intuire come a tutto questo patrimonio di creatività, immagini e testi corrisponda un’imponente mole di dati: circa 25 TB all’anno, prodotti dalla sede di Modena (dove opera la divisione editoriale) e dai due uffici di Milano (uno legato alle figurine da collezione, l’altro a Topolino). Sui due data center modenesi, popolati da server fisici e virtuali, fino a ieri l’azienda poggiava sia l’esecuzione delle applicazioni “core” sia l’archiviazione e il backup, ma nel tempo era sorta un’esigenza di rinnovamento. “Il più piccolo dei due data center, caratterizzato da una certa dispersione, aveva bisogno di essere potenziato”, racconta Enrico Garuti, group Ict manager di Panini. “Ci siamo però chiesti se valesse la pena di investire in un ampliamento o se valutare l’opzione cloud”. Anche uno dei due uffici milanesi, dotato di una sala macchine poco strutturata, presentava analoghe 34

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LA SOLUZIONE Panini ha conservato on premise le applicazioni “core”, come l’Erp e la posta elettronica, mentre archiviazione (circa 25 TB di dati all’anno) e backup poggiano sul data center di Castenasio (Bo) di Retelit. Una soluzione Vpls (Virtual Private Lan Services) layer 2 multi gigabit su interfacce 100 Gbps collega fra di loro la sede di Modena e i due uffici di Milano, oltre a garantire connettività Internet a 100 megabit. L’azienda sta ora valutando l’eventuale adozione di un piano di disaster recovery geografico, che faccia affidamento sull’infrastruttura di Retelit.

esigenze di potenziamento. Oltre a voler disporre di maggiore capacità di archiviazione, l’azienda desiderava anche poter contare su una connettività Internet migliore. Sono state dunque confrontate le offerte di diversi service provider, fra cui Retelit, “l’unico con cui non avevamo mai lavorato prima”, sottolinea Garuti, e che pure è risultato più convincente della concorrenza. “Accanto alla valutazione economica”, prosegue il manager, “ha pesato il fatto che siano stati gli unici a farci un’offerta di connettività Vpls layer 2 in gigabit, integrata con un data center di proprietà. Inoltre ha giocato a favore anche il fatto che condividessimo con loro il medesimo fornitore di storage e il medesimo sistema di backup”. Il progetto di implementazione, partito nel 2015 e durato poco più di quattro mesi, ha portato a creare un’architettura It ibrida: le applicazioni vengono ancora eseguite on-premise, mentre l’archiviazione è affidata al cloud. La connettività gigabit fra le diverse sedi di Modena e Milano, inoltre, è assicurata dall’infrastruttura di Retelit. “Abbiamo evitato di sostenere delle spese per l’ammodernamento dei nostri data center”, sottolinea Garuti. “Inoltre abbiamo velocizzato enormemente la trasmissione di file di grandi dimensione, che quotidianamente i colleghi di Milano scambiano con quelli di Modena e viceversa, e questo ha incrementato la produttività. Infine abbiamo reso più flessibile la gestione dello storage, che può ora essere esteso a seconda della necessità modificando il contratto con Retelit”.


ECCELLENZE.IT |

Gruppo Feltrinelli

la seconda vita dei dati e dell'erp è nel cloud La società titolare della più grande catena di librerie dello Stivale ha adottato i sistemi Huawei ottimizzati per Sap Hana e gestiti da Erptech.

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al 1954, il nome Feltrinelli è caro a tutti gli amanti della lettura. Oggi questo gruppo editoriale da 350 milioni di euro di fatturato e da duemila dipendenti non solo possiede la più grande catena di librerie in Italia (circa 120 negozi), ma anche una catena di ristoranti, un canale televisivo e una società immobiliare. Insieme al business, negli anni è cresciuta anche la mole dei dati da gestire, al punto da rendere chiara e imminente l’esigenza di un rinnovamento delle tecnologie utilizzate per archiviare e gestire le informazioni. In particolare in un ambito: l’Erp (Enterprise Resource Planning). “In alcune aree utilizzavamo ancora sistemi che erano stati implementati prima del nuovo millennio”, racconta Raffaele Gamberini, chief information office di Gruppo Feltrinelli, “ed era chiaro che continuare a usarli poteva compromettere l’efficiente svolgimento delle nostre attività. Avevamo bisogno di una soluzione che ci permettesse di rivedere completamente il nostro modo di lavorare”. Nel 2014 l’azienda ha deciso di affrontare una sfida non da poco: sostituire completamente l’hardware fino ad allora impiegato per

eseguire i software gestionali. L’opera di ricerca e selezione ha considerato l’affidabilità del vendor, ma non solo. “Eravamo anche alla ricerca di una soluzione che fosse economicamente conveniente e che ci fornisse le prestazioni dinamiche di cui avevamo bisogno per ottenere il massimo dalla nuova piattaforma Sap Hana”, aggiunge Gamberini. A detta di Feltrinelli, il giudizio degli operatori di canale contattati nel corso della selezione è stato unanime, identificando i server di Huawei come la proposta dal miglior LA SOLUZIONE La soluzione implementata e gestita da Erptech per Feltrinelli comprende due appliance Sap Hana dotate di 3 TB di Ram DDR4 e basate su server Huawei RH5885 V3, con configurazioni a quattro e a due socket e con processori Intel Xeon (E7-8880 v3 ed E5-2667v4). È stata così migliorata la gestione dei dati relativi ai punti vendita, potendo contare su un sistema flessibile e scalabile.

rapporto qualità/prezzo e come quella più facilmente scalabile. Con la collaborazione del system integrator Erptech (un partner di Sap, posseduto al 100% da Bt Italia), si è poi scelto lo specifico modello da adottare, ovvero il server RH5885H V3. “Grazie alla tecnologia ad alte prestazioni ed elevata scalabilità di Huawei siamo stati in grado, quest’anno, di progettare e lanciare un servizio Sap Hana Managed Cloud altamente competitivo, con una tariffa basata su abbonamento mensile”, specifica Andrea Maggioni, account manager di Erptech. L’implementazione della nuova infrastruttura è stata completata, permettendo a Feltrinelli di ottenere una maggiore flessibilità nella gestione dei propri dati, ma anche buoni livelli di ridondanza che rappresentano una garanzia per il disaster recovery. Resta da ultimare l’implementazione del sistema Erp nel cloud basato su tecnologia Huawei: grazie al calcolo in-memory, l’aspettativa è sia quella di ridurre i tempi di preparazione di report (da qualche ora a pochi minuti), sia di migliorare alcune attività critiche come l’eleborazione delle previsioni di vendita. DICEMBRE 2016 |

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ITALIA DIGITALE

Dopo lo sblocco dei fondi strutturali per la crescita digitale da parte della Commissione Europea, rimane la necessità di dare attuazione ai progetti portanti previsti dall’Agenda. Spid, PagoPa e Anagrafe procedono, ma lo “status” della Penisola in Europa rimane negativo. E c’è chi ipotizza una nuova soluzione al problema.

LA DIGITALIZZAZIONE VA, MA l’ITALIA resta INDIETRO

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fine ottobre era arrivata la buona notizia dello sblocco, ufficializzato dalla Commissione Europea, degli 1,2 miliardi di euro relativi ai fondi strutturali del ciclo di programmazione 2014-2020. Fondi, bene ricordarlo, che si aggiungono a ulteriori 3,4 miliardi di risorse regionali e nazionali, destinati al piano di Crescita Digitale dell’Italia che è stato approvato per la prima volta a marzo 2015 in Consiglio dei Ministri e via via aggiornato e integrato nei mesi successivi. Il documento programmatico per la digitalizzazione del Paese ha, quindi, avuto il semaforo verde da Bruxelles 36

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e questo comporta la possibilità di inviare ad amministrazioni centrali e Regioni i denari necessari al raggiungimento dell’obiettivo “Agenda Digitale”. Una volta recepito il via libera della Ue, molti addetti ai lavori, soprattutto della comunità tecnologica, si sono subito interrogati sulle intenzioni del commissario straordinario per il Digitale, Diego Piacentini (che è anche vice presidente di Amazon, con carica temporaneamente sospesa): come renderà concreti i progetti portanti della strategia di Palazzo Chigi? Il suo ruolo, come sancito per decreto, è di tipo strategico, di indirizzo e di stimolo al digitale in tutte le sue

forme. Tra le funzioni di Piacentini c’è anche quella di poter “disporre e coordinare, con proprio provvedimento, l’utilizzo delle risorse finanziarie, umane e strumentali già disponibili presso i soggetti competenti per la realizzazione dei progetti strategici del piano di Crescita Digitale”. E l’Agid, l’Agenzia per l’Italia Digitale? L’organismo guidato da Antonio Samaritani mantiene l’autonomia sulle gare e va considerato scontato l’accordo fra i due soggetti per l’allocazione delle risorse, soprattutto quelle relative ai progetti ancora in corso, come Italia Login, alla cui realizzazione contribuiscono il sistema di Anagrafe nazionale e Spid (il


nuovo Sistema pubblico di identità digitale). In attesa di novità in materia, che non conosciamo mentre il giornale va in stampa, è certo che i tempi per centrare gli obiettivi fissati dall’Agenda Digitale Europea sono stringenti. Il punto sull’Agenda

Nel 2015 la spesa in tecnologie digitali della Pubblica Amministrazione è tornata a crescere dello 0,5%, arrivando a 5,6 miliardi di euro (lo dicono le ultime rilevazioni di Assinform) e l’inversione di tendenza rispetto al passato si specchia nel fatto che praticamente tutte le Regioni abbiano definito una strategia di attuazione della propria Agenda Digitale. Guardando ai tre progetti di infrastruttura sui quali sta lavorando da tempo l’Agid, il bilancio aggiornato parla di passi in avanti. A sette mesi dall’avvio di Spid sono state erogate oltre 130mila identità digitali, che entro il 2018 potrebbero diventare nove milioni; il nuovo sistema dei pagamenti elettronici (PagoPa) interessa circa 9.500 enti pubblici, 90 prestatori di servizi e quasi 600mila transazioni effettuate; l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente è stata infine sperimentata in 26 comuni pilota con circa 6,5 milioni di cittadini coinvolti. In parallelo è finalmente partito il piano sulla banda ultra larga, fronte che

vede la Penisola tra gli ultimi Paesi in Europa per copertura di rete fissa ad alta velocità, con solo il 44% delle abitazioni raggiunte da connessioni ad almeno 30 Mbps (dato aggiornato a fine 2015). Gli obiettivi prefissati dal Governo sono ancora molto lontani, ma fa ben sperare il tasso di crescita del 115% nella copertura a 30 Mbps dal 2014 a oggi. La fotografia scattata dall’Ossevatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano lascia quindi spazio all’ottimismo, inducendo a pensare che il “tempo del fare” è forse arrivato dopo anni di inutili ricamature. Il problema, come hanno giustamente sottolineato gli autori del rapporto, è che l’Italia è ancora in 25esima posizione nella classifica dei 29 Paesi censiti dall’ultima edizione del Digital Economy and Society Index (Desi), l’indicatore che misura lo stato di attuazione dell’Agenda Digitale in Europa. I passi in avanti e gli sforzi compiuti sono risultati vani? No, perché siamo ancora in un “work in progress” di trasformazione in chiave digitale, che fa inevitabilmente da traino al processo di sviluppo economico e industriale del Paese. Dopo anni di attendismo, gli investimenti delle imprese e del settore pubblico in competenze e innovazione sono però il punto di svolta necessario, perché il ritardo da recupera-

re è grande. Il piano Industria 4.0, insieme alla politica di incentivi che lo contraddistingue, va per l’appunto in questa direzione. Per il momento è un piano perfetto sulla carta, ma sta alle imprese scaricarne a terra i vantaggi in termini di spesa in nuove tecnologie. C’è però una ricetta, mutuabile dall’esperienza di altri Paesi, che potrebbe consolidare i passi in avanti finora compiuti e che secondo Alessandro Perego, direttore scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico, si chiama “collaborazione tra pubblico e privato”. Le due parti, a detta di Perego, “devono prendere consapevolezza dell’importanza di un’azione congiunta, perché il piano triennale per l’informatica nella Pa, che sarà rilasciato entro la fine dell’anno, porta avanti un modello che valorizza i contributi della macchina pubblica e delle imprese”. L’idea su cui ragionare – e l’invito va rivolto ovviamente anche a Piacentini e Samaritani – è quella di un “Patto per l’Italia Digitale”, finalizzato a proteggere il modello di collaborazione previsto dal piano e a darne attuazione con regole comuni, progetti condivisi e logiche sistemiche. L’ennesimo tentativo di accelerare un processo (quello della digitalizzazione) che parte da molto, troppo, lontano? Piero Aprile

DA INDUSTRIA 4.0 UNA SPINTA ALL’ECONOMIA CIRCOLARE Secondo Accenture, da qui al 2030, la cosiddetta “economia circolare” potrebbe generare un giro d’affari globale di 4.500 miliardi di dollari. L’idea di un sistema economico in grado di rigenerarsi da solo, sfruttando le nuove tecnologie già disponibili per ottenere energia pulita e rimettere in circolo prodotti usati trova spazio anche nella Legge di Stabilità 2017. Il pacchetto di provvedimenti inseriti nel piano Industria 4.0, in particolare, è quello che più

risponde ai dettami del riciclo e del risparmio energetico e lo ha ricordato di recente anche il Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, Gian Luca Galletti. Gli investimenti tesi in direzione di un ambiente più sostenibile e al contempo motore di crescita godranno, infatti, dell’iper ammortamento dal 140% al 250 % per gli investimenti innovativi, della proroga all’ammortamento con aliquota al 140%, del credito di imposta sulla ricerca interna dal 25% al

50%, della detrazione al 30% relativa agli investimenti fino a un milione di euro in Pmi innovative. La strategia “smart green” delineata dall’esecutivo si articola quindi attraverso più interventi: l’impiego di tecnologie per ottimizzare le risorse naturali, il riuso e il riciclo dei prodotti, lo sviluppo di prodotti intelligenti in un’ottica di ecodesign, il risparmio energetico in ambito produttivo con il recupero e lo smaltimento di sostanze di scarto e dannose per l’ambiente.

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ITALIA DIGITALE | Innovazione

Startup e Pmi innovative: è ora di crederci L'ecosistema delle imprese neonate è stato messo nelle condizioni di crescere e potenziarsi. Ne parliamo con Mattia Corbetta, della Direzione Generale per la politica industriale, la competitività e le Pmi del Ministero dello Sviluppo Economico.

L‘

ecosistema imprenditoriale innovativo della Penisola deve darsi una connotazione internazionale. È una necessita reale. Così come lo è l’esigenza di un’azione più incisiva e diffusa dei venture capital, di una maggiore cooperazione fra i vari soggetti attivi su scala nazionale, di una cultura digitale capace di essere il filo rosso che lega imprese esistenti e startup, acceleratori e mondo accademico. In questo scenario, il lavoro del Ministero dello Sviluppo Economico spazia su diversi fronti, dai database resi accessibili online alle iniziative supportate finanziariamente. Ne è esempio InnovAzione, un progetto di assistenza allo sviluppo in38

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ternazionale di startup tecnologiche, promosso dalle Camere di Commercio Italiane all’Estero presenti in 54 Paesi e Ice-Agenzia. Lo sono programmi come Italia Startup Visa (a tutto il 31 agosto sono pervenute al Mise 132 domande di candidatura, di cui il 70% ha avuto esito positivo) e Startup Hub, volti a semplificare la concessione del visto o del permesso di soggiorno per lavoro autonomo ai cittadini non-Ue che vogliano avviare una nuova impresa nel nostro Paese. E l’elenco degli esempi potrebbe continuare ancora. Dello stato dell’arte dei vari progetti in ambito innovazione abbiamo discusso con Mattia Corbetta, della Direzione Generale per la politica industriale, la competitività e le Pmi del Mise.

Parlando di open innovation, dobbiamo considerare positivo il dato che registra 1.900 startup innovative con almeno un socio corporate?

Basta guardare al recente passato per rendersi conto che stiamo conoscendo una fase di espansione senza precedenti. La policy sulle startup, che ha rappresentato un vero e proprio spartiacque per il processo di crescita in corso, risale solo alla fine del 2012. Con quel provvedimento, adottato peraltro in un momento storico molto particolare – la fine del Governo Monti, poco prima dell’inizio dell’attuale legislatura –, è stato lanciato il messaggio, prima largamente ignorato e ora ormai sempre più diffuso e consolidato, che una strategia di sviluppo economico non può fare a


ECCO QUANTO FATTURANO LE GIOVANI IMPRESE TECH Dai dati di bilancio relativi all’esercizio 2015, resi disponibili per la prima volta all’interno del consueto report trimestrale redatto dal Ministero dello Sviluppo Economico in collaborazione con InfoCamere e UnionCamere, si scopre che il valore della produzione lordo sviluppato da 3.853 startup innovative (il 61% circa del totale delle nuove

imprese iscritte all’apposito registro a tutto il 30 settembre 2016) ha superato i 585 milioni di euro. Il dato in sé non è particolarmente rilevante, mentre lo è il salto in avanti rispetto al fatturato registrato con la precedente rilevazione, eseguita nel 2014, che era pari a 325 milioni di euro. Se a far lievitare questa cifra ha ovviamente influito il maggior

meno di un sano ecosistema di imprenditoria innovativa.

numero delle imprese su cui è stato possibile effettuare il calcolo (in aumento del 34,7%), non è certo trascurabile la crescita, pari al 33,4%, del valore medio della produzione delle startup che hanno reso pubblici i propri conti. Le società in utile, altro indice sicuramente positivo, sono il 43% e sviluppano ricavi per 384 milioni.

Mattia Corbetta

I numeri rimangono, però, ancora limitati rispetto agli altri Paesi…

L’ecosistema, a partire dal passaggio cruciale di cui sopra, ha trovato progressivamente consapevolezza di sé ed è stato messo nelle condizioni di potenziarsi. Basti osservare come oggi la sezione speciale del Registro delle Imprese conti oltre 6.500 startup innovative e come a fine 2014 fossero solo la metà. I soci persone fisiche e i dipendenti a titolo subordinato coinvolti a fine settembre erano 32mila, il 50% in più di quanti se ne contassero un anno prima. E corretto però affermare che questo ecosistema sia ancora molto piccolo rispetto alle sue vere potenzialità?

Il trend di crescita, ripeto, è oggettivo. Ma è vero anche che forti lacune informative fanno sì che molte imprese innovative non si concepiscano come startup e non fruiscano della disciplina correlata. A marzo, con l’aiuto di InfoCamere, abbiamo contato nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese seimila società di capitali, titolari di un brevetto, che non hanno acceduto allo status speciale. E questo numero, pari a quello delle startup destinatarie della policy, è un chiaro indicatore di innovatività. Ancora più marcati, inoltre, sono i risultati di questa ricerca per

quanto riguarda le Pmi innovative, che sono 23mila contro le 200 iscritte. C’è chi nutre ancora dubbi sul concetto di Pmi innovative e sull’opportunità di assimilarle alle startup per l’accesso alle agevolazioni previste per legge.

C’è una differenza fondamentale tra i due regimi. Le startup rappresentano un archetipo concettuale ben determinato e ormai acclarato, le Pmi innovative no. Quando diciamo startup pensiamo a una nuova impresa, spesso digitale, che cerca di alimentare con il capitale di rischio la propria ambizione a crescere rapidamente rivolgendosi a un mercato globale. Una nozione altrettanto sedimentata non vale per le Pmi innovative. Le imprese che hanno avu-

to accesso a questo regime hanno alle spalle molti anni di attività, in alcune casi decenni, e nel corso della loro storia hanno sempre innovato o comunque ammodernato i loro asset senza che ciò inducesse il legislatore a sostenerle o anche solo a favorirne la riconoscibilità: soltanto con l’Investment Compact di inizio 2015 Governo e Parlamento hanno erto questa tipologia a modello, attribuendovi buona parte degli incentivi già precedentemente assegnati alle startup. Credo che il ridotto numero di Pmi innovative attualmente rilevabile dipenda essenzialmente da tale scarsa consapevolezza, oltre che dal fatto che gli aspetti di dettaglio di questa disciplina sono ancora largamente ignorati. Gianni Rusconi 39


ITALIA DIGITALE | Innovazione

Nel capitale delle circa 6.500 startup iscritte nel registro delle imprese innovative figurano 40mila investitori. I soci aziendali sono più di 5.100: oltre il 60% sono grandi aziende, 400 le Pmi. La testimonianza di Zucchetti.

OPEN INNOVATION in salsa tricolore

L‘

innovazione aperta in Italia? È un dato di fatto. Una dinamica diffusa soprattutto nelle grandi aziende, ma che registra un interesse sempre maggiore di Pmi e microimprese. È una delle tante chiavi di lettura emerse dal primo Osservatorio sui modelli italiani di corporate venture capital, studio promosso da Assolombarda, Italia Startup e Smau in collaborazione con Ambrosetti e Cerved. L’iniziativa nasce con il duplice obiettivo di quantificare la natura degli investitori “corporate” della Penisola e di individuare modelli di utilizzo concreti e replicabili, partendo dalle esigenze di rinnovamento (in termini di ricerca e sviluppo) delle aziende italiane. La fotografia del fenomeno ha come fonte primaria i dati del Cerved sulle partecipazioni (dirette e indirette, di persone fisiche e persone giuridiche fino al terzo livello) che interessano le circa 6.500 startup iscritte al 40

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Registro delle imprese innovative. I soci individuati sono oltre 40mila; di questi, poco meno di 35mila sono persone fisiche mentre gli investitori corporate sono invece 5.149, la maggior parte dei quali sotto la veste di società di capitale. Volendo delimitare i confini del corporate venture capital, ecco che le startup oggetto di partecipazioni sono meno di un terzo del totale, e precisamente 1.901; delle società presenti nel capitale delle imprese innovative iscritte al Registro, oltre il 60% sono realtà con un giro d’affari superiore ai 50 milioni di euro. Le Pmi che investono sono invece 400, mentre una trentina sono le microimprese. È anche interessante osservare il ruolo primario del settore dei servizi finanziari e assicurativi: oltre un terzo (il 34,1%) delle aziende che hanno scommesso sulle startup tecnologiche opera in quest’ambito. Quanto alla destinazione delle risorse, dominano le imprese impegnate

nella ricerca e sviluppo o nel campo dei software e dei servizi informatici, le quali hanno attratto la maggior porzione di investitori corporate. A livello geografico, infine, il rapporto ci dice che oltre due terzi dei soci corporate (il 69%) hanno sede nel Nord della Penisola e che il 59% ha puntato su startup residenti fuori dalla propria Regione, per quanto la vicinanza territoriale sia in genere un driver dell’investimento più importante rispetto alla specializzazione settoriale. Un hub di talenti

C’è una realtà italiana che solo nell’ultimo anno ha completato più di una dozzina di acquisizioni di imprese innovative (corredate da 200 nuove assunzioni, che portano il totale dell’organico a 3.200 dipendenti): Zucchetti. Il suo presidente del comitato diretto, Antonio Grioli, a Smau, in sede di presentazione dell’Osservatorio, ha esposto


SOCI CORPORATE DI STARTUP INNOVATIVE PER DIMENSIONE

fonte: Osservatorio Open Innovation e Corporate Venture Capital

la propria ricetta in fatto di open innovation: “Investire il 100% degli utili in piccole aziende, come Factotum per la stampa 3D, una società nata come spin-off del Politecnico di Milano, ma soprattutto in aziende che hanno già trovato uno sbocco sul mercato. Vogliamo arricchire il palinsesto della nostra offerta e cerchiamo per questo imprese con know-how, cervelli e prodotti, con cui sottoscriviamo un accordo per tenerli in società almeno cinque anni”. Una sorta di fidelizzazione formalizzata, insomma, il cui fine è quello di valorizzare il patrimonio di conoscenze acquisite. “Quando acquisiamo una startup”, spiega ancora Grioli, “la lasciamo lavorare e la supportiamo, difendendone la cultura aziendale e le best practice. Un nostro integration manager lavora per evitare che l’impresa acquisita venga troppo ‘zucchettizzata’… Siamo un grande hub di talenti, crediamo nella rivoluzione 4.0 e sviluppiamo a modo nostro il modello dell’open innovation”. Applicata per un decennio, questa filosofia ha prodotto risultati che non passano inosservati: per circa due terzi il business di Zucchetti è oggi generato da aziende acquisite, totalmente o parzialmente. Gianni Rusconi

MILANO CULLA DI IMPRESE NEONATE Più di 250 startup associate, di cui oltre il 90% iscritte nel Registro speciale delle imprese innovative, e più di sessanta partner aderenti al network. A due anni e mezzo dal lancio, il progetto “Startup Town” di Assolombarda, nato nell’ambito del Piano Strategico “Far volare Milano”, è diventato grande e rafforza l’idea di fare del capoluogo lombardo un hub molto importante, anche su scala internazionale, dell’ecosistema dell’innovazione. L’iniziativa resta fedele all’obiettivo di stimolare la nascita e la crescita di startup, favorendo l’interazione con le piccole e grandi realtà del territorio. Alle nuove imprese, con un fatturato inferiore a 500mila euro, che si associano ad Assolombarda spetta la possibilità di usufruire di tutti i servizi di consulenza e supporto, in modo gratuito per i primi quattro anni.

PMI INNOVATIVE E PIÙ RICCHE Le piccole e medie aziende italiane hanno fatto meglio di quelle spagnole (30 iniziative finanziate) e britanniche (18) nell’aggiudicarsi i fondi europei messi a disposizione dal bando “Strumento Pmi”, lanciato dalla Ue nell’ambito del programma europeo Horizon 2020 per la ricerca e l’innovazione. L’Italia per una volta ha messo in fila tutti piazzando 34 imprese (di cui 13 lombarde e 11 emiliano-romagnole) fra le 189 che hanno beneficiato di un round di finanziamento da complessivi 9,1 milioni di euro. Al bando hanno partecipato oltre 1.900 i progetti provenienti da 40 Paesi e ciascuno dei selezionati riceverà 50mila euro per coprire studi di fattibilità relativi a nuovi prodotti innovativi che a breve potrebbero arrivare sul mercato. Il settore più finanziato è stato quello dell’Ict con 29 progetti (il 16% del totale), seguito da trasporti ed energie verdi (con 24 iniziative ciascuno). Sono invece 1.240, a tutto il 30 settembre 2016, le startup innovative italiane che hanno attivato finanziamenti bancari facilitati dall’intervento del Fondo di Garanzia per le Pmi istituito dal Mise. L’importo totale autorizzato supera i 490 milioni di euro, con una media di circa 247mila euro a prestito, per un totale di 1.987 operazioni (alcune startup hanno ricevuto più di un prestito) ovvero 334 in più rispetto al consuntivo di fine giugno. Il credito ricevuto dalle startup al 30 settembre è complessivamente pari a circa 306 milioni di euro.

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OBBIETTIVO SU | Pwc

LA PERSONA AL CENTRO DELL’ESPERIENZA DIGITALE Pwc ha da poco inaugurato a Roma un centro in cui si possono toccare con mano le nuove tecnologie. Dalla realtà virtuale agli smart device, fino alla stampa 3D: un mondo di “fantascienza” molto reale che parte dall’utente e guarda ai processi aziendali.

Q

ui si osservano all’opera le avanguardie dell’intelligenza artificiale e della robotica, si toccano con mano applicazioni di Internet delle cose e del blockchain, si sperimentano future modalità di lavoro e di interazione. Non è fantascienza ma uno spazio reale, uno spazio di co-progettazione, inaugurato lo scorso ottobre a Roma da Pwc. Il nuovo Experience Centre vuol essere di supporto alle aziende nel loro processo di cambiamento operativo e di adattamento ai nuovi strumenti tecnologici, con il preciso intento di trovare in tempi rapidi – settimane e non mesi – la soluzione più adeguata. Il progetto, realizzato in collaborazione con Google, si propone come fucina di idee e luogo di ispirazione concreta per un’innovazione digitale ad ampio spettro. Un centro in cui le (nuove) tecnologie sono le vere protagoniste e in cui la (nuova) conoscenza nasce dalla contaminazione di competenze diverse, dall’analisi delle abitudini di consumo e di comportamento e dalla progettazione di percorsi 42

| DICEMBRE 2016

d’esperienza basati su indagini etnografiche. Un laboratorio interattivo, in altre parole, che si propone come guida per affrontare il cambiamento in atto dell’esperienza quotidiana delle persone, siano essi semplici consumatori e cittadini, imprenditori o professionisti. La filosofia di fondo è una sorta di “umanesimo della tecnologia”, ovvero l’idea che il cambiamento debba ruotare intorno all’esperienza del singolo individuo ed essere finalizzata al miglioramento della vita quotidiana, nel priva-

to e in azienda. Nell’Experience Center trovano quindi spazio applicazioni di realtà virtuale accanto a stampanti 3D per la prototipazione rapida, pannelli e lavagne mobili che permettono di creare ovunque spazi interattivi, soluzioni che offrono la possibilità di spostare con le mani immagini da uno schermo all’altro (replicando in toto le scene di “Minority report”) e, ancora, braccialetti in grado di comunicare a uno sportello bancomat o alla cassa del cinema l’identità di chi li indossa. G.R.


Le interazioni con i consumatori sono sempre piĂš digitali, perchĂŠ i prodotti fisici incorporano sempre piĂš software. Le attese di customer experience dei clienti diventano il motore della trasformazione tecnologica delle aziende.

La persona, in quanto soggetto di esperienze consapevoli e inconsapevoli, è il centro di tutto. 43


OBBIETTIVO SU | Pwc

“Oggi la capacità di innovare e rivedere dinamicamente i modelli di business è alla base non solo del successo, ma anche della sopravvivenza delle imprese. Il percorso di innovazione, digitale e non, deve essere sostenibile e in grado di migliorare sensibilmente e costantemente i risultati”, spiega Ezio Bassi, territory senior partner di Pwc in Italia.

Il metodo di lavoro nell’Experience Centre è basato sulla co-progettazione e sul confronto delle proposte.

Realtà virtuale e realtà aumentata sono fra le soluzioni avanguardistiche che offrono alle aziende la possibilità di stare al passo con i tempi.

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| DICEMBRE 2016


L’innovazione tende a spostarsi dall'oggetto fisico all’integrazione di prodotto, software e servizi.

DALL’IDEA AL risultato FINALE La prototipazione è una delle metodologie utilizzate nel centro: così si velocizza la realizzazione di innovazioni corrispondenti alle aspettative degli utenti.

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TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX & ACCOUNTING ITALIA

LA COLLABORAZIONE DIGITALE, FACILE ED EFFICIENTE La nuova soluzione cloud per i commercialisti è figlia di un lavoro di progettazione durato cinque anni. Pierfrancesco Angeleri ci spiega perché è davvero innovativa. Genya rappresenta un progetto epocale per Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia. Un impegno davvero importante in termini di risorse e di tempo destiati a realizzare un software completamente nuovo, che risponde alle esigenze di trasformazione della professione dei commercialisti italiani. Ce ne parla Pierfrancesco Angeleri, managing director di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia. Come nasce l’idea di Genya? Abbiamo iniziato a lavorare sul progetto Genya già cinque anni fa, perché fin da allora avevamo percepito la necessità di cambiamento della professione dei commercialisti in Italia. La figura del professionista stava mutando e Wolters Kluwer Tax and Accounting Italia ha colto i segnali del cambiamento, oggi evidenti a tutti. Ci siamo posti il problema di anticipare una necessità, cioè di concepire il professionista come impegnato nello sviluppo e nella crescita della sua clientela più che nell’assolvere gli adempimenti in sua vece. Abbiamo dunque pensato a un supporto digitale che non fosse tanto finalizzato all’automatizzazione, ma alla valorizzazione. Con quali forze e con quali concetti Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia ha sviluppato questo nuovo software? Non mi limiterei a chiamarlo software, è più un progetto digitale. Abbiamo impegnato la software factory dell’azienda, composta da oltre trecento sviluppatori, e abbiamo realizzato del tutto internamente una suite composta da vari elementi. Oggi iniziamo la commercializzazione di Genya Bilancio.

Pierfrancesco Angeleri, managing director di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia 46

Il concetto base è quello del trasferimento di valore al cliente finale del professionista. Quello che ci ha guidato è stata la volontà di semplificare e di trasformare il prodotto digitale in uno strumento di consulenza. Ci può descrivere qualche dettaglio di Genya Bilancio? Uno degli elementi fondamentali è sicuramente l’interfaccia utente, che definirei “user friendly”. Fin dal primo impatto, chi la usa percepisce il cambiamento. Non sono necessari corsi di apprendimento, tanto è vero che Genya non ha un manuale, bensì il supporto è composto da video di introduzione ai vari passaggi. Un altro aspetto molto importante di Genya Bilancio è l’architettura del prodotto, non più basata sull’adempimento ma “customer centric”. Permette al professionista, attraverso un cruscotto, di capire a quale livello di fornitura di servizi è arrivato e che cosa serve ancora alla soddisfazione del cliente. Dunque un aspetto che permetterà anche il più agevole controllo delle attività dello studio. Non da ultimo, Genya consente di accedere a tutti i dati interessanti e necessari alla valutazione delle performance aziendali del cliente del commercialista. Soprattutto nel mondo delle Pmi, il commercialista è spesso il vero chief financial officer del proprio cliente. Attraverso Genya avrà a disposizione con un “clic” tutti i dati che gli servono per contribuire a orientare le scelte strategiche di una piccola o media impresa manifatturiera, dei servizi, del terzo settore”. Come verrà distribuita Genya? Genya è una soluzione cloud. È stata disegnata esclusivamente per l’utilizzo nella nuvola e offrirà al commercialista opportunità di maggiore flessibilità consentendogli un aumento di produttività e di efficacia. Il mondo, e non solo quello dei professionisti, si muove rapidamente verso le soluzioni in cloud.


VETRINA HI-TECH

I NOTEBOOK “TOP” SI METTONO IN MOSTRA Per resistere all’avanzata del mobile i produttori di Pc portatili puntano su design raffinato e specifiche di alto livello. L’obiettivo è duplice: ingolosire gli utenti e conservare i margini.

I

l 2016 come il 2011. Quest’anno il mercato dei computer ha raggiunto uno dei punti più bassi di sempre, segnando il record negativo già durante il primo trimestre. Secondo Canalys, tra gennaio e marzo sono stati consegnati 101 milioni di unità: un calo del 13% anno su anno, che ha portato il segmento agli stessi livelli del secondo trimestre del 2011. Eppure la torta è ancora ghiotta: fino ad oggi nel 2016, secondo Idc, sono stati consegnati 200 milioni di Pc ed è difficile pensare che smartphone e tablet, pur essendo in molti casi compagni inseparabili, riescano a sostituire del tutto il caro vec-

chio computer. Ci sono poi alcune fasce di prodotto, come quelle top di gamma, che sembrano piacere molto ad aziende e utenti finali. Perché uniscono caratteristiche di portabilità, efficienza e sicurezza. E i vendor, su queste categorie di dispositivi, riescono anche a trarre profitti maggiori. È il caso di Apple, che ha di recente aggiornato la propria linea di Macbook Pro con due nuovi modelli da 13 e da 15 pollici. Oltre a lievi riduzioni di peso e spessore rispetto alle versioni del 2015 e a più o meno sensibili migliorie hardware, gli ultimi computer della Mela hanno fatto notizia per l’introduzione del Touch Id e della Touch

Bar. Mentre la prima è una tecnologia già conosciuta agli appassionati dei prodotti di Cupertino, la seconda ha rappresentato un’assoluta novità. Almeno per Apple. È una striscia multi-tocco in vetro integrata nella tastiera, in grado di sostituire i tasti funzione con comandi che cambiano automaticamente a seconda delle applicazioni aperte. I maligni non hanno perso tempo per evidenziare come strumenti analoghi fossero già stati proposti in passato da altri vendor. Uno su tutti Lenovo per i ThinkPad X1 Carbon del 2014. Microsoft avrebbe addirittura lavorato a una tecnologia simile per dieci anni. DICEMBRE 2016 |

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VETRINA HI-TECH

Si vedrà. Nel frattempo le opinioni divergono tra quelle dei fieri sostenitori della Touch Bar e degli scettici sulla sua reale utilità, a conferma che Apple rimane forse la società più divisiva presente sul mercato. A proposito di Lenovo. L’azienda cinese ha scelto di puntare molto su dispositivi che provino ad andare oltre il classico portatile, ma senza sconfinare per forza nel form factor del tablet. Ecco quindi che gli Yoga 910, con i loro schermi da 13,9 pollici e risoluzione 4K rappresentano una valida alternativa per chi cerca flessibilità ma non si sente ancora pronto ad abbandonare completamente il laptop. La particolarità dello Yoga 910 è data dalla cerniera, che permette di ruotare il display di 360 gradi e di utilizzare il dispositivo anche in modalità tablet, a cui si aggiunge il pratico lettore di impronte digitali. Una delle tre porte Usb presenti (due 3.0 e una 2.0) consente di ricaricare altri dispositivi collegati anche quando il notebook di Lenovo è chiuso. Ha puntato molto sulla qualità dell’immagine e sul fatto-

re display anche Dell. Nel proporre la versione 2016 di questo ultraportatile da 13,3 pollici (per 1,2 chili e nove millimetri minimi di spessore), il produttore texano ha rimarcato la presenza del design “Infinity Edge”, che riduce la cornice intorno al pannello (con vetro Corning Glass) fino a farla quasi scomparire. La versione base dello schermo prevede una risoluzione Full Hd, ma si può arrivare anche all’Ultrasharp Qhd+ (3.200x1.800 pixel). La dotazione hardware include processori Intel Core di settima generazione, 4 o 8 GB di Ram e fino a 256 GB di storage con unità di memoria a stato solido. La palma di notebook più leggero di questa rassegna se l’è aggiudicata però il freschissimo Zenbook 3 di Asus: un computer da 910 grammi, peso giustificato in parte anche dalle dimensioni più contenute del display (12,5 pollici Full Hd). Ma il lavoro di ingegnerizzazione svolto dal vendor taiwanese è stato notevole, così come le sue ambizioni, tanto che i media hanno da subito messo in competizione lo Zenbook 3 con il

L’ALL-IN-ONE PER I CREATIVI Un dispositivo desktop all-in-one pensato per designer, grafici, architetti e creativi in generale. L’Apple iMac? Sbagliato. È il Surface Studio di Microsoft, vera (e forse unica) grande novità nel mercato dei computer in questo 2016 che volge ormai al termine. Presentata a ottobre, la soluzione del colosso di Redmond è un Pc con schermo touch da 28 pollici, risoluzione 4,5K e tecnologia Pixelsense, che conferisce al pannello ben 13,5 milioni di pixel (4.500 x 3.000). Il display, spesso 12,5 millimetri, ha dieci punti di contatto per l’utiliz-

Macbook Air di Apple. Il design minimale ha portato però a ridurre all’osso le interfacce: sono presenti infatti solo l’ingresso minijack e una porta Usb 3.1

APPLE MACBOOK PRO 2016 (15,4”)

ASUS ZENBOOK 3

DELL XPS 13

Schermo: 15,4” (2.880x1.800)

Schermo: 12,5” Fhd (1.920x1.080)

Schermo: 13,3” InfinityEdge Fhd

Retina

Cpu: Intel Core i5 o i7

(1.920x1.080)

Cpu: Intel Core i7 quad-core

Memoria/Storage: fino a 16 GB

Cpu: Intel Core i5 o i7

Memoria/Storage: 16 GB Lpddr3,

Lpddr3, 512 GB Ssd

Memoria/Storage: 8 GB Lpddr3,

fino a 2 TB Ssd

Peso: 0,91 Kg

fino a 256 GB Ssd

Peso: 1,83 Kg

Prezzo: DA 2.799 EURO

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| DICEMBRE 2016

Peso: 1,20 Kg

Prezzo: 1.999 EURO

Prezzo: DA 1.249 EURO


zo in simultanea. La nuova cerniera Zero Gravity permette inoltre di inclinare lo schermo fino a 20 gradi per “immergersi” nel computer. Per-

ché il Surface Studio è pensato per facilitare al massimo un processo di creazione collaborativo, basato ovviamente su applicazioni molto esigenti. Microsoft ha puntato su processori Intel Core di sesta generazione (niente Kaby Lake quindi, perché uscita troppo tardi), fino a 32 GB di memoria e 2 TB di storage ibrido. La grafica è sostenuta da una scheda Nvidia Geforce Gtx 980m con 4 GB di memoria Gddr5. Completa il quadro una serie di accessori per interagire con il display, come lo stylus, a cui si affianca il Surface Dial: un cilindro che, una volta appoggiato sullo schermo, attiva diverse funzioni aggiuntive compatibili con l’applicazione in uso. Touch Bar, dicevate?

Type-C. Ma, internamente, il dispositivo di Asus mostra i muscoli grazie a processori Intel Core i5 o i7 di settima generazione, 16 GB massimi di memo-

ria e 512 GB di spazio di archiviazione. Chiudono la carrellata due soluzioni che provengono da produttori storici di Pc in ambito aziendale: Hp e Fujitsu.

Entrambe hanno provato a svecchiare il concetto di notebook business, rispettivamente, con l’Envy 15 e con il terzetto di computer della nuovissima famiglia Lifebook U7x7. Nel primo caso si ha di fronte un colosso da 15,6 pollici con display Full Hd, audio Bang & Olufsen e una cerniera innovativa che, a schermo aperto, solleva la parte inferiore dello chassis per favorire la digitazione sulla tastiera (retroilluminata). Fujitsu propone invece modelli con schermo da 12,5, 14 e 15,6 pollici sostanzialmente simili e che differiscono solo per le dimensioni. L’obiettivo della casa giapponese è favorire il più possibile l’inserimento dei dispositivi nel contesto aziendale, facilitando il lavoro del personale It. Tutti i nuovi notebook sono dotati infatti degli stessi driver Bios, così come della scheda madre e dei componenti interni. La sicurezza dei dati è garantita da un lettore di smart card, dal Tpm 2.0 e da un lettore opzionale del palmo della mano. Le consegne partiranno a gennaio 2017. Alessandro Andriolo

FUJITSU LIFEBOOK U7x7

HP ENVY 15

LENOVO YOGA 910

Schermo: 12,5/14/15,6” Hd

Schermo: 15,6” Fhd Brightview

Schermo: 13,9 “ 4K (3.840x2.160)

(Fhd opzionale)

(1.920x1.080)

Cpu: Intel Core i3, i5 o i7

Cpu: da definire

Cpu: Intel Core i7

Memoria/Storage: fino a 16 GB Ddr4,

Memoria/Storage: da definire

Memoria/Storage: fino a 16 GB Ddr4,

fino a 1 TB Ssd

Peso: 1,30 Kg

fino a 1 TB Hdd

Peso: 1,38 Kg

Peso: 2,17 Kg

Prezzo: NON DISPONIBILE

Prezzo: 999 EURO

DA 1.499 EURO

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VETRINA HI-TECH

POTENTE E PRATICO, MA CON STILE Il DS716+II di Synology è un Nas “bifronte”: perfetto come server multimediale domestico, utile anche per le aziende molto piccole e per gli studi professionali.

Y LOG O N I SY S716+I D

PRO: • File system Btrfs • Doppia porta Ethernet • Supporto risoluzione 4K CONTRO: • Solo due bay

Flessibili, multimediali e abbastanza potenti da erogare funzionalità avanzate per il business. Sono i Nas di nuova generazione, che sempre più spesso si inseriscono a cavallo tra l’utilizzo domestico (prevalentemente come server multimediale) e quello aziendale. Ne è l’ennesima conferma il Synology DiskStation DS716+II, dispositivo tower a due bay realizzato dalla casa taiwanese, che lo pone tra i propri top di gamma in questo settore. La dotazione hardware prevede un processore Intel Celeron N3160 a quattro core (1,6 GHz con burst fino a 2,24 GHz) e crittografia Aes-Ni integrata, 2 GB di memoria Ddr3 espandibile fino a 8 GB e 20 TB massimi di archiviazione. Caratteristiche che, già da sole, sono in grado di garantire sia la transcodifica sia la riproduzione in 4K: un particolare da non trascurare. Il DS716+II può ospitare hard disk da 2,5 o 3,5 pollici e unità a stato solido da 2,5 pollici in formato Sata III. Tre i livelli Raid supportati: Raid 0, 1 e Jbod, a cui si aggiunge per la prima volta il potente file system Btrfs. La migrazione verso questo file system copy-on-write va a tutto vantaggio dell’utilizzo aziendale, in quanto offre tra le altre cose mirroring dei metadati, rilevamento e

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riparazione automatica dei danni tramite somma di controllo (checksum) e snapshot immediati. L’installazione dei dischi (anche in hot swap) è rapida, mentre le slitte sembrano un po’ fragili. Ma la scocca appare solida e ben disegnata. Sulla parte frontale del DS716+II sono presenti le classiche spie Led, il pulsante di accensione, un ingresso Usb 3.0 e il pratico tasto Usb Copy, che permette di trasferire al volo i contenuti di un drive esterno in una cartella specifica presente sul Nas. Il retro del dispositivo, in aggiunta ad altri due ingressi Usb 3.0 e a un eSata, riserva invece un’apprezzata caratteristica: le due porte Ethernet con supporto per failover e link aggregation, fondamentali per garantire continuità e massima velocità di trasmissione. Completa il quadro una ventola generosa, da 92 millimetri, più che sufficiente per raffreddare il sistema senza far rumore. Il sistema operativo proprietario, il Dsm 6.0, è ben progettato e molto semplice da utilizzare. Consente l’installazione in un clic di applicazioni specifiche per vari ambiti: dall’intrattenimento alla gestione di file e backup, passando per servizi più evoluti come la virtualizzazione e la containerizzazio-

ne. Senza dimenticare la possibilità di creare un piccolo cloud privato, caratteristica ormai comune a molti Nas. L’accesso al difuori della Lan è risultato a volte un po’ difficile, ma questo non è detto dipenda dal dispositivo di storage. Il servizio QuickConnect consente di accedere al DS716+II da Internet senza dover impostare regole di invio porta o altro, comportamenti che potrebbero ridurre la sicurezza complessiva. La pecca principale della soluzione di Synology? Forse è nella sua stessa natura: due vani possono essere pochi per un contesto aziendale, ma l’ostacolo si può aggirare collegando un’unità di espansione e arrivare così fino a 70 TB massimi. A.A. LE CARATTERISTICHE A COLPO D’OCCHIO Vani: due Cpu: Intel Celeron N3160 quad-core Memoria: 2 GB Ddr3 Storage: 20 TB max (Hdd e Sdd) Connettività: 3 Usb 3.0; 1 eSata; 2 Lan Consumi: 19,14 W (acceso) Dimensioni: 157x103.5x232 mm Garanzia: tre anni

Prezzo: da 430 EURO


HAI MAI VISTO UNA LAVAGNA, UN MULTIFUNZIONE E UN VIDEOPROIETTORE CHE SI PARLANO?

WORKSTYLE INNOVATION TECHNOLOGY Change the way you work Tecnologie e servizi in grado di trasformare il modo di lavorare, integrando cloud e mobility: questo per noi significa Workstyle Innovation Technology. È un ambiente innovativo in cui i dispositivi “intelligenti” - stampanti, multifunzione, pc, lavagne interattive e videoproiettori - dialogano tra loro per rendere più semplice il lavoro in ufficio.

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