Technopolis 34

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NUMERO 34 | GIUGNO - LUGLIO 2018

STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

GLI ARCHITETTI DELL’IMPRESA 4.0

I passi da compiere per la trasformazione digitale? Li spiegano i fondatori di Bip, Fabio Troiani, Nino Lo Bianco e Carlo Capè.

STARTUP

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L'ecosistema italiano delle imprese innovative continua a crescere. Ma difetta ancora di nanismo. Nonostante le scaleup.

BLOCKCHAIN

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Anche le banche italiane stanno valutando con attenzione la tecnologia alla base delle criptovalute. Ecco come.

SMART WORKING

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La nuova ricerca di Technopolis fa il punto sulla trasformazione dei luoghi di lavoro. Bacchettando le aziende.


RICOH ITALIA


SOMMARIO STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

N° 34 - GIUGNO - LUGLIO 2018 Periodico bimestrale registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012

4 STORIE DI COPERTINA

Ecco gli “architetti” per creare l’impresa 4.0

9 IN EVIDENZA

Italia digitale quart’ultima nella UE. Gli “obblighi” del nuovo governo

Connettività e data center per fare concorrenza a Marsiglia

La scommessa già vinta di Amd sui processori per il business

Aruba è pronta per lo smart workspace

Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Valentina Bernocco, Roberto Bonino, Carlo Fontana

5G, una questione di ecosistema

Il futuro? È data-driven

Progetto grafico: Inventium Srl

Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock Images, Shutterstock, Martina Santimone

18 INNOVAZIONE

Direttore responsabile: Emilio Mango

Editore, redazione, pubblicità: Indigo Communication Srl Via Correggio, 48 - 20149 Milano tel: 02 36505844 info@indigocom.it www.indigocom.it Stampa: Imprimart s.r.l. Desio (MB) © Copyright 2018 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto.

16 DATA JOURNALISM Il Dragone hi-tech sfida la Silicon Valley

DigItalia è rimandata

Industria 4.0: robot e sensoristica spingono la spesa

Sicurezza: email sempreverde, anche per i criminali

Startup, l’ecosistema cresce ma produce poco

Le scaleup italiane vanno di corsa

Da che parte stanno droni e algoritmi di AI?

Intelligenza artificiale: un vecchio sogno diventato realtà

La blockchain piace al mondo finanziario

Registri distribuiti, solo i progetti migliori sopravvivranno

26 EXECUTIVE ANALYSIS

Il lavoro diventa smart, le aziende non troppo

Fra vecchio e nuovo

44 ECCELLENZE.IT Gruppo Montenegro - Sgbox

Lumsa - Fujitsu

Teatro Carignano - Enerbrain

Veritas - Trend Micro

48 VETRINA HI-TECH Estate outdoor e Tv “mondiali”

Pubblicazione ceduta gratuitamente.


STORIA DI COPERTINA | Bip Perpiciatis - Business Integration Partners

ECCO GLI “ARCHITETTI” PER CREARE L’IMPRESA 4.0

Fabio Troiani e Carlo Capé, Ad di Bip, spiegano i passi da compiere sulla strada della trasformazione digitale. Le priorità per le aziende? Collaborazione e competenze.

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ella corsa alla digitalizzazione l’Italia arranca. Lo dice il “Digital Economy and Society Index” (Desi) edizione 2018, diffuso nelle scorse settimane dalla Commissione Ue, secondo il quale il nostro Paese si piazza al 25° posto sui 28 Stati membri dell’Unione. La nostra economia non fa dunque passi avanti sulla strada dell’innovazione tecnologica e a pesare maggiormente sono, in particolare, la carenza di competenze digitali e lo scarso utilizzo dei servizi online.

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Se si vuole parlare di impresa 4.0, a detta di Fabio Troiani, co-amministratore delegato di Bip – Business Integration Partners, è necessario superare “un gap che si riflette in modo assai diversificato anche sulle aziende e che si spiega con i limitati investimenti nel digitale operati fino a oggi”. È un compito difficile, insomma, quello a cui è chiamato il sistema Paese per invertire la tendenza evidenziata dall’indice Ue. “Le tecnologie”, riassume Troiani, “sono un coacervo molto ampio, che abbraccia soluzioni avanzate nel campo dell’in-


Leggi il Qr code per scoprire le soluzioni per la trasformazione digitale di Bip.

telligenza artificiale, dell’Internet of Things, della blockchain e della realtà aumentata. Le potenzialità di sviluppo sono enormi, ma il livello di conoscenza è ancora basso. Elevare la consapevolezza delle imprese in tema di innovazione digitale, educarle a utilizzare i nuovi strumenti tecnologici in modo concreto e superare lo scetticismo di fondo è il primo passo: il nostro ruolo diventa quello di coach al fianco di imprenditori e manager, che possano aiutarli a capire gli impatti della trasformazione”. L’imprinting arriva dai vertici

Ma quanto è radicata in azienda, oggi, la consapevolezza di poter vincere la sfida della trasformazione digitale? E

CONSULENZA MADE IN ITALY Tutto ha inizio nel 2003, quando Nino Lo Bianco, Carlo Capè e Fabio Troiani, fondano Bip – Business Integration Partners puntando su un modello di consulenza basato su tre pilastri: totale assenza di conflitto d’interessi, supporto mirato all’evoluzione tecnologica e un’organizzazione che punta da subito sulla condivisione, rinunciando alla struttura gerarchica. Un approccio innovativo, i cui risultati non si fanno attendere: il primo anno si conclude (in utile) con tre milioni di euro di fatturato. Nel 2007 il giro d’affari supera i 40 milioni e in organico si contano 400 dipendenti. Dopo una necessaria riorganizzazione dell’azienda e l’introduzione di modelli più strutturati, si arriva al 2011, anno che segna l’avvio della terza fase societaria e del processo di internazionalizzazione con l’apertura delle prime cinque sedi in Brasile, Argentina, Tunisia, Regno Unito e Malesia. Dal 2014 in poi si ha il vero salto in avanti nelle attività all’estero, con l’ingresso nel capi-

come si sta muovendo il management per gestire il necessario cambiamento che interessa tutti i processi e tutti i livelli dell’organizzazione? Da dove occorre partire, infine, per affrontare questo percorso di evoluzione? L’esigenza di cambiare pelle all’impresa, portandola a “pensare” e a muoversi secondo il modello 4.0, genera nuove complessità ma è anche una grande occasione, soprattutto per i chief information officer e per i direttori delle risorse umane. Ne è convinto Carlo Capè, co-amministratore delegato di Bip, che inquadra la trasformazione “come una sommatoria fra persone e tecnologie. Non c’è una formula standard, dipende dall’azienda e dipende ovviamente dal management

tale del fondo italo-franco-svizzero Argos-Soditic. La storia recente di Bip è caratterizzata dalla focalizzazione sul tema della digital transformation, anche attraverso l’acquisizione di realtà innovative quali Ars et Inventio, OpenKnowledge, Sketchin e Artax Consulting. Lo scorso marzo l’ultimo tassello, per ora, dell’evoluzione dell’azienda: contestualmente all’uscita di Argos, il fondo di private equity Apax Partners acquisisce la maggioranza del pacchetto azionario. I tre fondatori di Bip rimangono alla guida del Gruppo al fianco di altri partner fissando un nuovo obiettivo, quello di entrare nel club delle più grandi società di consulenza direzionale al mondo. La base di partenza per raggiungere l’ambizioso traguardo è in questi numeri: oltre 1.900 persone in organico a livello globale (e una previsione di ulteriori 700 assunzioni in Italia, entro la fine del 2018), un fatturato di oltre 160 milioni di euro e la presenza diretta in una dozzina di Paesi.

aziendale. Al momento osserviamo un doppio problema: i responsabili Hr che hanno compreso e capito la problematica sono pochi e non tutti i Cio si stanno facendo carico del cambiamento”. Persiste dunque una situazione di stallo, che chiama spesso e volentieri il Ceo o il direttore generale a imporre all’area It una virata “forzata” e non programmata degli investimenti (i quali spaziano dalle classiche soluzioni informatiche ai nuovi strumenti digitali). “Il ruolo di una società di consulenza come la nostra”, aggiunge Capè, “diventa importante e decisivo solo se esistono un forte impegno da parte dei vertici dell’azienda, e quindi una partecipazione attiva del top management, 5


STORIA DI COPERTINA | Bip - Business Integration Partners

la disponibilità di budget adeguati, una grande attenzione alla componente organizzativa e la presenza di figure dedicate all’innovazione, come il chief digital officer o il chief transformation officer. Figure che solo in pochissimi casi hanno raccolto le funzioni del classico Cio. Oggi accompagniamo le aziende nel definire e portare avanti il processo di trasformazione digitale, ma per farlo è necessario il totale coinvolgimento di tutti i manager di linea operanti al fianco del Ceo, in una logica di cablatura perfetta che sappia rispondere a processi drasticamente mutati. La priorità dev’essere per tutti quella di definire in modo chiaro la mappa della digitalizzazione”. L’impresa 4.0 non può quindi prescindere da un team trasversale alle varie funzioni, che possa aprire l’orizzonte alla ricerca di risorse esterne

(le startup, per esempio) in grado di offrire la soluzione tecnologica ad hoc e allineata alle esigenze del business. L’obiettivo comune dell’innovazione

Le opportunità a cui fanno riferimento i due amministratori delegati di Bip dipendono dalla velocità con la quale le imprese provano a reagire al cambiamento in atto. Ma vanno anche di pari passo con la necessità di intervenire sul fronte delle competenze e della formazione: cambiare mentalità, insomma, deve diventare un mantra. I progetti digitali, come suggerisce Troiani, andrebbero affrontati con l’approccio “trial & error” proprio delle startup, “ma il manager italiano non è mediamente portato a seguire questo modello, anche perché non ha esempi a cui fare riferimento. Occorre fare propria una men-

talità agile e creare fra i silos aziendali quella collaborazione che oggi non esiste o quasi”. Nell’impresa 4.0, insomma, il cambiamento va affrontato con preparazione e chi lo gestisce deve avere un “potere” non legato alle persone alle sue dipendenze, bensì strutturato da un punto di vista funzionale e operativo. “Chi guida l’azienda”, fa notare nello specifico Capè, “dovrebbe essere il primo motore della trasformazione. E invece riscontriamo, in alcuni casi, Ceo che si rivolgono a fornitori di tecnologie senza consultare le persone interne, rimanendo ancorati a vecchi e superati modelli”. Lo scoglio contro il quale molte organizzazioni vanno ancora a sbattere è l’incapacità di focalizzare l’attenzione sui punti chiave che rendono vincente la strategia aziendale. La difficoltà di determinare un preciso ritorno

RIVOLUZIONE DIGITALE IN CINQUE MOSSE Se c’è un filo logico che lega tutti i professionisti di Bip, è il fatto di seguire i clienti nei processi di ricerca, selezione e adozione di soluzioni tecnologiche “disruptive” puntando all’eccellenza dei servizi. Anche per questo è nata xScience, business unit da 24 milioni di euro di ricavi (esercizio 2017) e con circa 350 esperti in organico che aiuta le aziende a gestire le implicazioni di Industry 4.0 e della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. xScience opera come una “arena digitale” in cui confluiscono tutte le professionalità del Gruppo per affiancare il nel processo di adattamento a questa trasformazione. Cinque elementi, quindi, costituiscono il mantra di Bip. Innovazione “L’approccio di Bip a questo tema è sempre stato contraddistinto dalla ricerca di concretezza, focalizzando l’attenzione su tre punti: lo

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sviluppo, all’interno delle aziende, di competenze dedicate alla gestione dell’innovazione; la diffusione di metodologie e strumenti con i quali poter condurre iniziative strutturate di innovazione aperta; contribuire a interpretare futuri scenari tecnologici e competitivi attraverso una nuova figura professionale, il chief innovation evangelist, che individua e disegna l’evoluzione dei modelli di business digitali e tradizionali”. Ivan Ortenzi, chief innovation evangelist di Bip Customer experience “Siamo nell’era del consumatore, in cui il dispiegarsi delle opportunità offerte dalla tecnologia si traduce in una grande libertà di scelta per le persone. Per questo per le aziende diventa così importante fare in modo che le loro esperienze superino le aspettative iniziali. Per lo stesso motivo, la customer experience sta scalando la

lista delle priorità nelle agende del business. Non è possibile determinare le esperienze, ma è possibile progettare i servizi, i sistemi e i processi con cui le persone interagiscono. La tecnologia sfuma la differenza tra prodotti e servizi, aumentando per gli utenti la percezione del valore, e il design riveste in questa evoluzione un ruolo cruciale di mediatore tra strumenti digitali, obiettivi di business e qualità del servizio”. Luca Mascaro, Ceo & head of design di Sketchin


degli investimenti in chiave digitale, un ritorno misurabile sul processo e sull’efficienza operativa, complica ulteriormente il compito delle imprese. “In alcuni casi”, spiega Troiani, “i benefici correlati all’adozione delle nuove tecnologie sono immediati, e penso ad alcune specifiche implementazioni dell’intelligenza artificiale. In altri, legati per esempio a soluzioni complesse di Big Data analytics, invece lo sono meno e si concretizzano solo nel lungo termine. In ogni caso, ciò che va assolutamente evitato sono i conflitti di interesse fra le varie competenze in campo. L’assenza di una “best practice” tecnologica di riferimento, dovuta all’estrema velocità dell’evoluzione della tecnologia stessa, rende inoltre più difficoltoso il processo di scelta. Da qui l’esigenza di una visione aperta della problematica, che trova

sponda nel nuovo ruolo delle società di consulenza”. Le competenze sono un must

“Stiamo vivendo”, rimarca Capè, “un cambio di pelle importantissimo per indossare gli abiti dell’architetto e smettere quelli del meccanico. Anche per le aziende c’è una grande opportunità di immettere valore aggiunto nell’ambito del processo di trasformazione digitale”. L’imperativo del cambiamento è il punto di partenza e la sfida, per i Ceo in primis, è quella di anticiparne le linee guida, razionalizzandone i possibili impatti sull’organizzazione e acquisendo sul mercato le competenze (digitali) non disponibili in azienda. Il viaggio verso l’impresa 4.0 è dunque iniziato, ma come facilmente immaginabile corre a due velocità perché vi sono vincoli modernizzati nella prospettiva del business redesign. La componente tecnologia, quindi, che implica una sfida continua sul piano delle soluzioni da adottare. L’ecosystem design, infine, perché il valore che l’azienda scambia con i suoi partner va attentamente ripensato. Al cuore di queste quattro dimensioni agiscono due fattori, essenziali per dar vita a una trasformazione digitale di successo, e cioè l’eccellenza nell’uso dei dati e la sicurezza di questi dati”. Rosario Sica, Ceo di OpenKnowledge

Digital Transformation “È un processo di cambiamento radicale che riguarda tutti gli ambiti e le funzioni di un’impresa e che richiede di intervenire con un approccio olistico su quattro dimensioni fondamentali. La prima è la cosiddetta people strategy: con il digitale tutti i dipendenti vanno coinvolti in modalità nuove e maggiormente motivazionali. Abbiamo poi la corporate organization e quindi processi aziendali che non possono più rimanere quelli del passato ma vanno

Cybersicurezza “Pochi oggi sanno che esiste un vero e proprio mercato legato al cybercrime, in cui si scambiano prodotti e servizi attraverso strumenti di pagamento ormai maturi come i bitcoin. Con la diffusione dell’Internet delle cose e la pervasività degli oggetti connessi, le opportunità del cybercrime sono ulteriormente aumentate. Affrontare la trasformazione digitale senza solide competenze in questo

di risorse evidenti. Le medie e mediograndi organizzazioni (da 300 milioni a un miliardo di euro di fatturato), secondo Bip, sono più indietro e mostrano un atteggiamento maggiormente riflessivo: molti progetti pilota sul tavolo e tanti piccoli investimenti nel digitale, ma senza una strategia definita. Le grandi e grandissime imprese invece si sono mosse rapidamente perché hanno ricevuto sollecitazioni forti: chi più chi meno, tutte si sono svegliate e hanno intrapreso un percorso di innovazione. Fatto il piano per affrontare la trasformazione, concludono i due Ad, “è però necessario attuarlo, e per questo servono figure di livello in grado di portare avanti operativamente i progetti”. Altrimenti il rischio di rimanere indietro aumenta, molto rapidamente. Gianni Rusconi ambito può trasformare un’opportunità in un fallimento certo”. Claudio De Paoli, equity partner head of cyberSec di Bip Intelligenza artificiale “È uno dei pilastri della quarta rivoluzione industriale. Le prestazioni dell’elettronica migliorano costantemente, a beneficio di sistemi digitali sempre più capaci di percepire il mondo circostante. Le tecnologie di machine learning e deep learning contribuiranno ad aumentare le capacità di comprensione della realtà fattuale e di previsione tempestiva di eventi. Già oggi i bot possono sostituire e superare gli umani per velocità e precisione in processi ripetitivi e basati su regole, ma l’ibridazione con l’AI li renderà anche capaci di apprendere da qualsiasi tipologia di dato e di prendere decisioni basate sulle esperienze pregresse di soggetti umani”. Martino De Marco, partner, head of Bip xTech

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IN EVIDENZA

l’analisi ITALIA DIGITALE QUART’ULTIMA NELLA UE. GLI “OBBLIGHI” DEL NUOVO GOVERNO L’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (il noto Desi), contenuto nella relazione annuale dell’Unione Europea posiziona l’Italia in 25esima posizione su 28. Il piccolo miglioramento registrato rispetto all’edizione precedente non ha inciso sulla classifica, che lascia impietosamente la Penisola quart’ultima per diffusione e utilizzo delle nuove tecnologie. Connettività, capitale umano e competenze digitali, servizi Internet, digitalizzazione delle imprese ed e-commerce/e-government sono i cinque temi analizzati, e solo quest’ultimo ci vede nella lista dei primi venti Paesi per disponibilità di servizi pubblici offerti sul Web. Altre buone notizie arrivano dalla copertura delle reti di nuova generazione (dalla 23esima posizione del 2016 siamo passati alla 13esima) e dagli Open Data, ambito nel quale l’Italia ha fatto un balzo di undici posti verso la parte alta del ranking, elevandosi sopra la media Ue. Ci sono altri indicatori che fanno ben sperare, come l’incremento della percentuale di Pmi dedite ad attività di vendita online, e altri che confermano un arretramento culturale assolutamente ingiustificabile. Siamo, per esempio, all’ultimo posto per quanto riguarda l’utilizzo da parte dei cittadini dei servizi digitali messi a disposizione dalla Pa. Per non parlare della carenza generalizzata di competenze digitali. In estrema sintesi, il Paese è ancora lontano dal ridurre il gap nei confronti degli altri Stati europei, e veleggia in compagnia di nazioni non propria-

L'indice Desi ci piazza al 25esimo posto per diffusione e utilizzo delle nuove tecnologie. Ora la palla è in mano a Di Maio. mente virtuose in fatto di progresso tecnologico come Romania, Grecia, Bulgaria, Polonia, Ungheria, Croazia, Cipro e Slovacchia. E questo succede perché le nazioni migliori corrono più veloci di noi. Affermare che nulla sia stato fatto è sbagliato e il Piano Industria/Impresa 4.0 (ne parliamo a pag. 20) ne è una conferma. Ma è evidente che le promesse più volte ribadite dal governo Renzi sono state mantenute solo parzialmente e non ci si può consolare con il fatto che l’intera Europa presenti sistemiche difficoltà di crescita sui temi del digitale, tali da indurre il vicepresidente responsabile per il Mercato Unico Digitale, Andrus Ansip, ad

ammettere che “nel complesso l’Ue sta facendo progressi, ma non in misura sufficiente rispetto a regioni al mondo che avanzano in maniera più spedita”. La responsabilità di invertire la tendenza è passata ora nelle mani del nuovo esecutivo “giallo-verde” e in primo luogo in quelle di Luigi Di Maio, neo ministro dello Sviluppo Economico. Alcuni critici osservatori degli affari del Palazzo fanno (giustamente) notare come la questione digitale non fosse inserita nel programma di governo degli attuali inquilini di Palazzo Chigi. Dimenticanza preoccupante? Forse. L’Italia, questo è certo, è pericolosamente indietro in un quadro di sviluppo complessivo sostanzialmente immobile, ed è per questo motivo che ora risulta ancora più indispensabile una decisa presa di consapevolezza politica. Serve una scossa, sia a livello di macchina pubblica sia a livello di imprese, e il nuovo governo è chiamato a fare la propria parte. Gli investimenti in ricerca e innovazione sono il punto di partenza ma lo erano anche per i precedenti esecutivi. Se torniamo indietro di cinque anni, al varo dell’Agenda Digitale quando a Palazzo Chigi sedeva Mario Monti, notiamo che allora si dicevano più o meno le stesse cose di oggi. Il Commissario Straordinario Diego Piacentini, il cui mandato scade in agosto, auspica una squadra digitale in ogni ministero. Altri, come il presidente di Confindustria Digitale, Elio Catania, chiedono a gran voce un ministro ad hoc per il digitale. L’estate, nel frattempo, è già iniziata. Gianni Rusconi

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IN EVIDENZA

CONNETTIVITÀ E DATA CENTER PER FARE CONCORRENZA A MARSIGLIA

LENOVO CRESCE E L’ITALIA DI PIÙ

L'Italia ha perso un'occasione d'oro nel mercato dell'elaborazione dei dati, ma non è ancora tutto perduto. Joy Marino spiega il ruolo di Mix nel futuro della connettività italiana ed europea.

Lenovo ha chiuso il quarto trimestre fiscale con un incremento dell’11% del fatturato rispetto all’analogo periodo del 2017. Si tratta della prima crescita a due cifre degli ultimi dieci trimestri, segno che la strategia delle “tre ondate” (mantenere la leadership nelle attività core, crescere nei segmenti chiave e investire nelle tecnologie emergenti) non solo funziona, ma conferma e consolida la sua validità. Su base annua, Lenovo ha registrato un giro d’affari di 45,3 miliardi di dollari, crescendo del 5% rispetto ai 12 mesi precedenti. Nel dettaglio, non tutte le divisioni della multinazionale contribuiscono allo stesso modo alla crescita: il Data Center Group mostra un elevato tasso (44% nel trimestre che però scende a 8% su base annua) ma, essendo un business relativamente giovane, ha un impatto inferiore sul fatturato (4,4 miliardi di dollari nell’anno fiscale). Molto positivo il comportamento di Pc e Smart Device, gruppo che da solo pesa per 32,4 miliardi di dollari e cresce dell’8% su base annua. Qualche preoccupazione arriva dal Mobile Business Group, che tarda a imporre i suoi prodotti in tutto il mondo e che, forse proprio per questo, è stato recentemente fuso con la divisione Pc. “Continuiamo a crescere ben oltre il nostro mercato di riferimento”, ha detto Emanuele Baldi, amministratore delegato di Lenovo Italia, “e nel nostro Paese abbiamo fatto registrare risultati migliori rispetto alla maggior parte delle altre country, in particolare nel segmento del Data Center Group, dove siamo il mercato a crescita più forte di tutta la regione Emea. Sul fronte degli smartphone la situazione non desta preoccupazioni, siamo entrati nel mercato da poco, iniziando ora a siglare le partnership strategiche con le telco; i risultati non tarderanno ad arrivare”.

“La piazza del mercato, dove domanda e offerta, nel caso specifico di connettività Internet, si incontrano”. Questa è la metafora utilizzata da Joy Marino, presidente di Mix, per descrivere quello che tecnicamente viene chiamato Internet Exchange Point (Ixp). Mix è il principale Ixp italiano e sta cercando di ricavarsi il suo spazio in Europa, a colpi di investimenti e accordi strategici. “Mix è nato nel 1996 in casa iNet con l’obiettivo di migliorare l’infrastruttura di Internet in Italia”, racconta Marino, “nel 2000 ha assunto la forma attuale, una società a responsabilità limitata con una compagine che vede la partecipazione di una ventina di aziende (che per regola statutaria non possono superare il 15% di quota capitale)”. Anche in virtù del fatto che la necessità di peering (scambio di traffico Internet) è cambiata ma non è mai scemata, negli ultimi anni Mix è cresciuto con un tasso del 10% in termini di fatturato e del 30% in termini di traffico gestito, traffico che oggi raggiunge i 600 Gigabit al secondo. Benché l’operatore abbia dimensioni contenute rispetto ai suoi maggiori competitor europei, cresce più velocemente di loro. “Abbiamo purtroppo perso una grande opportunità di diventare un punto di

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Joy Marino

riferimento per tutto il vecchio continente”, prosegue Marino, “lasciando la strada aperta allo snodo di Marsiglia, dove arrivano oggi molti cavi sottomarini (la cosiddetta connettività bagnata). Quel traffico sarebbe potuto arrivare in Sicilia, regione anche favorita geograficamente, ma la mancanza di una strategia nazionale, i soliti problemi infrastrutturali e il mancato appoggio dell’incumbent hanno impedito all’Italia di giocare un ruolo da protagonista della connettività”. Con la costituzione nel 2015 del consorzio Open Hub Med (di cui Mix è cofondatore e di cui Valeria Rossi, direttore di Mix, è presidente) si sono riaperte però le speranze di poter tornare tra i maggiori attori del mercato della connettività che, in vista dell’imminente sviluppo di Internet of Things, crescerà ancora nei prossimi anni in quantità e qualità. “I grandi investimenti che abbiamo sostenuto per Open Hub Med saranno sicuramente ripagati”, conclude Marino. Già a partire da oggi, la disponibilità di un hub in Sicilia ci permette di risolvere forse il nostro più grande problema: quello di essere stati, fino a ieri, Milanocentrici”. Emilio Mango


VERTIV STUDIA IL FREDDO C’è un centro di ricerca a Tognana, in provincia di Padova, dove si studiano le più innovative tecnologie per la gestione del calore. È all’interno del Customer Experience Center di Thermal Management di Vertiv, la multinazionale che opera nel settore delle infrastrutture per i data center e le reti di telecomunicazioni. Vertiv, ex Emerson Network Power, negli ultimi anni ha investito nel distretto industriale veneto notevoli risorse sia economiche sia umane per creare un centro di eccellenza nell’ambito delle tecnologie di Thermal Management. Oggi Tognana è un luogo unico perché permette di mostrare dal vivo ai clienti l’intera gamma di offerta della multinazionale, ma anche perché racchiude laboratori avanzati per la ricerca e sviluppo. “Il nuovo Adiabatic Freecooling Chiller Lab”, racconta Stefano Mozzato, country manager di Vertiv in Italia, “è stato concepito per riprodurre le condizioni reali di utilizzo degli apparati It all’interno di un data center, arrivando a ottenere una gamma di condizioni di lavoro comprese tra i 10 gradi sottozero e i 55 gradi, con una capacità di raffreddamento di 1,5 megawatt e con una potenza installata totale di 5 megawatt, tra le più alte in Europa”. A Tognana, Vertiv sperimenta i dispositivi più innovativi ma anche i software più moderni che fanno girare le macchine per la gestione del calore. Un gruppo di 15 ingegneri sviluppa e testa programmi che analizzano fino a 800 variabili per ciascuna macchina di condizionamento, riuscendo a creare le condizioni ideali per il funzionamento degli apparati all’interno dei data center e allo stesso tempo minimizzando i consumi elettrici, la voce di costo più importante per chi gestisce questo tipo di infrastrutture.

Con la gamma Pro dei chip Ryzen, Amd rientra prepotentemente nel segmento business, mettendo sotto pressione Intel.

LA SCOMMESSA GIÀ VINTA DI AMD SUI PROCESSORI PER IL BUSINESS Le tecnologie come il machine learning porteranno il mercato dell’high performance computing a superare i 75 miliardi di dollari entro il 2020. Su questo e su altri fronti è tornata a impegnarsi senza risparmiare investimenti e risorse Amd, che negli ultimi anni aveva sofferto soprattutto sul fronte dei processori “business”. “Nel 2017 abbiamo fatto tre salti quantici”, ha dichiarato Jim Anderson, senior vice president della multinazionale, “introducendo il processore Epyc per il segmento dei server, l’architettura Radeon Vega per la grafica ad alte prestazioni e la famiglia Ryzen per desktop e laptop business. Si tratta di soluzioni accomunate dall’etichetta high-performance, che d’altronde è sempre stata nel nostro Dna”. Il 2017 è stato un anno di svolta per Amd, che oltre a rafforzare l’offerta business (negli anni immediatamente precedenti era rimasta un punto di riferimento per alcuni settori di nicchia se pur ad alta redditività come quello del gaming) è tornata alla profittabilità incrementando nel contempo il fatturato da 4,3 a 5,3 miliardi di dollari. Nel 2018 la spinta sull’architettura Ryzen non cessa, anzi, l’annuncio più recente è quello relativo alla famiglia di Cpu Ryzen Pro che si arricchisce

della grafica Radeon Vega, un binomio vincente secondo il management della multinazionale ma anche secondo i principali vendor del settore dei personal computer, che hanno già annunciato diversi modelli equipaggiati con i nuovi processori Amd. La famiglia è composta da sette diverse varianti, tre per il segmento dei notebook e quattro per quello dei desktop. Trattandosi di una linea studiata per il business, in primo piano, oltre alle prestazioni, ci sono la sicurezza, l’affidabilità e la facilità di gestione. Sul primo fronte, Amd ha integrato le funzioni di protezione Amd Guardmi a livello del silicio, oltre a supportare direttamente la crittografia Aes e le funzioni di sicurezza di Windows 10. Per quanto riguarda le funzioni più gradite all’It aziendale, i processori Ryzen evidenziano, secondo il management della multinazionale, una produttività superiore del 22% ai processori della concorrenza diretta ma un tempo di deployment inferiore, a parità di passaggi necessari per la configurazione. Amd torna, in questo modo, a mettere sotto pressione Intel, che negli ultimi anni, a detta di molti analisti, si era seduta sugli allori anche per mancanza di competitor diretti. E.M.

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IN EVIDENZA

ARUBA È PRONTA PER LO SMART WORKSPACE Le reti intelligenti della multinazionale posseduta da Hpe puntano a offrire la miglior customer experience possibile I dati e la capacità di analizzarli per rendere le reti sempre più autonome, intelligenti e performanti. È stato questo uno dei temi portanti di “Aruba Atmosphere 2018”, l’evento che la multinazionale dell’orbita Hpe, specializzata nel settore della connettività Wifi, ha organizzato a giugno in Croazia per condividere con partner e clienti le ultime novità di prodotto e le tendenze del settore. “Experience versus Risk” è il titolo scelto dai manager di Aruba per rappresentare uno dei concetti più gettonati: la necessità di realizzare infrastrutture sicure e intelligenti per implementare scenari aziendali di smart workspace o più in generale di customer experience attraverso la connettività senza fili. “Bisogna riuscire a dare ai dipendenti la stessa esperienza d’uso di cui godono normalmente come consumatori nella vita di tutti i giorni”, ha spiegato Keerti Melkote, cofondatore e presidente di Aruba, “ma con i livelli di sicurezza e le regole tipiche del mondo aziendale”. Secondo Melkote, il modello vincente per erogare questo tipo di offerta è quello

“cloud-first”, in cui i clienti pagano un servizio di tipo “network as a platform”. “Aruba realizza progetti di qualsiasi dimensione”, ha detto Melkote, “che integrano tecnologie Wan e Wifi ma che, soprattutto, hanno la capacità di raccogliere i dati sul comportamento degli utenti e sulle prestazioni della rete per elaborarli con motori di machine learning per offrire servizi e prestazioni sempre più in linea con le aspettative sia dell’It sia degli utenti finali. Non solo negli ambienti di smart workplace ma anche nell’hospitality, nel retail, nel manifatturiero”. “Una tecnologia chiave per lo sviluppo delle reti di nuova generazione”, ha aggiunto Partha Narasimhan, Cto di Aruba, “è l’intelligenza artificiale, che però ha un peso variabile sul successo dei progetti a seconda di come si usa. Nel nostro caso, la sfruttiamo per analizzare i dati al fine di migliorare la customer experience, con strumenti come Netinsight che ci forniscono, a colpo d’occhio, una panoramica in tempo reale di come le reti stiano operando”. Intervistato da Technopolis, Melkote ha

Keerti Melkote

dichiarato che “con un fatturato di 2,5 miliardi di dollari, Aruba cresce più velocemente dei competitor, puntando sulle funzionalità di sicurezza e gestione. Questo vantaggio competitivo è il risultato di pesanti investimenti in ricerca e sviluppo ma anche di nuovi modelli di go-to-market implementati localmente”. A questo proposito, Melkote ha rivelato che l’Italia sta crescendo molto rapidamente (sul nostro territorio il brand non aveva, prima dell’acquisizione da parte di Hpe, una presenza paragonabile a quella di altre country) soprattutto nei settori della Pubblica Amministrazione, dell’education, dell’hospitality e del retail. Emilio Mango

RETELIT PREVEDE GLI ATTACCHI INFORMATICI Retelit, uno dei principali operatori italiani di servizi di dati e infrastrutture in ambito Tlc, investe nella cybersecurity. Lo fa allestendo, a Bologna, una “control room”, un servizio che negli ultimi mesi ha preso decisamente piede nel segmento delle medie e grandi aziende. La centrale di controllo di Bologna, operativa 24 ore su 24, può essere utilizzata dalle aziende clienti per monitorare e prevenire gli attacchi informatici sulla base dell’analisi predittiva dei dai

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provenienti dalla rete. “Il nostro valore aggiunto”, racconta Federico Protto, amministratore delegato e direttore generale di Retelit, “consiste nell’utilizzo di tecniche di cyberthreat intelligence, unite al monitoraggio continuo delle vulnerabilità che i nostri clienti hanno sulla rete. I sistemi automatici, da una parte, e il nostro team di professionisti, dall’altra, affiancano le aziende nella sempre più strategica e delicata attività di control-

lo e difesa delle proprie infrastrutture e dei propri dati”. La Retelit Control Room da mesi opera a pieno regime e serve già, tra gli altri, alcuni dei più importanti gruppi bancari italiani. Mediamente ogni giorno rileva, grazie alle tecniche di difesa proattiva, almeno cinque “eventi” degni di essere seguiti e risolti (in modo autonomo da Retelit o in collaborazione con il personale di cybersecurity delle aziende clienti).


l’intervista

5G, UNA QUESTIONE DI ECOSISTEMA Le reti di nuova generazione sono quasi pronte, ma che impatto potranno avere sul mercato? L'opinione di Qualcomm.

Con l’approvazione, da parte dell’Agcom, delle procedure e delle regole per l’assegnazione agli operatori delle frequenze per il 5G, è entrata definitivamente nel vivo la partita delle reti mobili di nuova generazione. Entro settembre si terrà l’asta per l’aggiudicazione delle bande sotto i 6 GHz e sopra i 26 GHz (mmWave), da cui lo Stato italiano si aspetta di ricavare almeno 2,5 miliardi di euro. L’anno prossimo, invece, le società di telecomunicazioni dovrebbero completare la copertura dei principali centri urbani e sul mercato arriveranno i primi smartphone compatibili con il 5G. Con Dino Flore, vice president of technology di Qualcomm, abbiamo parlato della prossima rivoluzione che attende le reti mobili. Quali saranno i principali benefici per aziende e consumatori?

Nascerà una società realmente connessa ed emergeranno vantaggi di diverso tipo: maggiori velocità di download sui cellulari; automatizzazione industriale senza cavi; nuove applicazioni ancora difficili da immaginare e, più in generale, si ridurranno le frizioni che ancora oggi esistono fra dispositivi e rete facilitando le configurazioni con un semplice clic. Parlando di casi d’uso, quali saranno i principali?

Mai come oggi, è molto difficile prevedere quali strade potrà imboccare il 5G, perché si rischia di ripetere

fusione delle nuove tecnologie sarà per forza di cose molto più graduale, per evitare improvvisi decadimenti prestazionali. Come si sta comportando il nostro Paese?

Dino Flore

errori commessi già in passato sulle precedenti generazioni (basti pensare al flop dello streaming televisivo sugli smartphone Umts di un decina di anni fa, ndr). È anche vero però che alcuni ambiti, come l’automotive, si prestano sicuramente molto bene all’evoluzione tecnologica. E non parlo solo di sistemi di infotainment all’avanguardia, ma soprattutto dei veicoli sempre connessi del futuro, che garantiranno affidabilità e sicurezza sensibilmente superiori rispetto al livello raggiungibile oggi. Che ruolo gioca il 4G nel passaggio alle reti di quinta generazione?

Il 4G sarà sicuramente complementare, perché l’Lte è parte integrante della vision 5G e ne costituirà il pilastro fondante. Le nuove reti aumenteranno la banda disponibile e le prestazioni, portando la latenza da dieci a un millisecondo, ma non si potrà uscire dalla piattaforma sottostante creata dal 4G. Inoltre, se confrontata con il passaggio dal 3G al 4G, la dif-

I primi passi dell’Italia sono stati ottimi (l’intervista è antecedente all’approvazione del regolamento da parte dell’Agcom, ndr). Il governo ha cercato di stimolare fortemente il passaggio al 5G, anche grazie ai molti trial sul campo. Si tratta di un approccio positivo che sinceramente non ho visto in altri Paesi. Certo, dallo stato attuale delle cose alla veicolazione commerciale prevista per l’anno prossimo manca ancora del tempo. Spero che nei mesi che abbiamo davanti l’Italia non si perda per strada. Come si sta muovendo Qualcomm nell’ecosistema che gravita attorno al 5G?

Abbiamo stretto rapporti proficui con i nostri partner tecnologici, in particolare per lavorare a livello di interoperabilità e garantire così soluzioni adottabili da tutti. La nostra vision è ampiamente riconosciuta dall’industria e ci posizioniamo all’avanguardia non solo a livello di produzione di chipset, ma anche nella definizione degli scenari e nei rapporti che abbiamo con gli altri attori: parlo soprattutto degli operatori e delle authority che stanno definendo il quadro normativo del 5G. Alessandro Andriolo

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IN EVIDENZA

L’OMNICANALITÀ VISTA DA EPIPOLI

EQUINIX E COLT

L’intelligenza artificiale è stata protagonista della tredicesima edizione di “Sas Forum” a Milano. I temi del machine learning, con particolare riferimento al mondo della customer experience omnicanale, sono stati sviscerati da esperti e uomini di impresa. Tra questi, Gaetano Giannetto, chief operating officer di Epipoli, gruppo che nel 2017 ha acquisito il 100% di Groupalia. “Il nostro gruppo ha iniziato a operare diciotto anni fa in un mondo decisamente fisico, quello delle gift card e dei programmi di fidelizzazione. Già da subito, però, avevamo capito che l’analisi dei comportamenti d’acquisto, cioè di milioni di transazioni, era fondamentale per migliorare il servizio ai retailer e per arricchire l’esperienza del cliente”. L’acquisizione del 100% di Groupalia ha permesso di recente al gruppo di unire il know how accumulato sui consumatori “tradizionali” a quel-

La rete on demand per accedere al cloud è il paradigma scelto da Colt ed Equinix per presentare la partnership strategica che permetterà alla telco di connettere, in modo intelligente, oltre 26mila edifici in 29 Paesi, 207 città e 51 aree metropolitane nel mondo. La rete Colt Iq, unita all’ecosistema e ai data center Equinix, consentirà alle imprese un accesso più veloce ai servizi in cloud dei maggiori operatori (Google e Oracle in primis) ma soprattutto si autoregolerà per offrire in sicurezza le prestazioni che ciascun cliente necessita in ogni momento. “La nostra rete connette in fibra ottica oltre 800 cloud e data center in tutto il mondo” ha dichiarato Mimmo Zappi, amministratore delegato di Colt in Italia, “il che ci consente di posizionarci al primo posto in termini di data center serviti. Ma la nostra mission ha più a che fare con la soddisfazione del cliente, che noi misuriamo con l’indice Net Promoter Score. Oggi il nostro Nps è già alto, 37 (in Europa la media è 15), ma vogliamo farlo arrivare a 60 entro il 2020.”

Gaetano Giannetto

lo relativo al consumatore digitale, unendo i due mondi. “Con Sas abbiamo realizzato un progetto di customer intelligence a 360 gradi, integrando i database di Epipoli e Groupalia e creando un’unica strategia di go-to-market. L’obiettivo è ricostruire, anche grazie all’intelligenza artificiale, un vero e proprio genoma dei consumatori, analizzandone passioni e aspirazioni per creare profili e cluster sempre più efficaci”.

PR.ES. SI RINNOVA E CAMBIA NOME: NOVANEXT SARÀ IL FUTURO Con 30 anni di storia, tre sedi (Roma, Rivoli e Milano) e oltre 120 dipendenti, Pr.Es. era un riferimento nel settore dei servizi It in Italia. L’imperfetto è d’obbligo, non perché l’azienda abbia cessato di esistere ma perché, al contrario, perché ha recentemente cambiato pelle e nome, scommettendo su nuovi segmenti di mercato emergenti come quelli della iperconvergenza, della collaboration e della security. La nuova Pr.Es. si chiama Novanext e, naturalmente, eredita il patrimonio di competenze e clienti del system integrator. “La vecchia denominazione”, racconta

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| GIUGNO 2018

Giovanni De Giovanni, Ceo di Novanext, “risaliva a 30 anni fa, quando il mercato dell’informatica e le esigenze delle aziende erano completamente diversi rispetto a oggi. Ora il nostro compito è quello di accompagnare le imprese nel percorso della trasformazione digitale e la nostra ferma volontà è quella di unire passato e futuro per offrire servizi ad alto valore aggiunto. Come quelli relativi alla collaborazione e alla sicurezza It, per cui tra l’altro abbiamo allestito ed eroghiamo ora servizi di tipo Noc (Network Operations Center) ed entro settembre anche Soc (Security

Giovanni De Giovanni

Operations Center). Per questo motivo continueremo a investire sulla formazione e su partnership solide come quella con Cisco, di cui siamo Gold Partner e Learning Specialized Partner, e quelle con Microsoft, Oracle e Ibm”.


WORKDAY HA UN PIANO ITALIANO

IL FUTURO? È DATA-DRIVEN Hortonworks è ormai inserita di diritto tra i vendor più quotati per accompagnare le aziende nel processo di trasformazione digitale. “Tutto ormai è data driven: parliamo di smart farming, smart manufacturing, smart city. Le strategie delle aziende sul fronte dei dati coincidono con quelle sul cloud, a loro volta ormai sovrapponibili a quelle di business”. Così ha esordito Scott Gnau, Cto di Hortonworks al Data Works Summit 2018, per dire che ormai i dati (anche e soprattutto quelli in cloud) sono parte integrante e inseparabile della vita e del business delle imprese. Sarà anche per questo che l’attività di Hortonworks (che, ricordiamo, supporta community open source come Apache Hadoop, NiFi e Spark offrendo alle aziende versioni commerciali di questi software) continua a crescere. Nel 2017 il fatturato ha superato i 275 milioni di dollari, con un aumento del 48% rispetto all’anno precedente. “Tra i nostri clienti ci sono il 70% delle prime cento aziende mondia-

li del settore finanziario”, ribadisce Alan Fudge, chief revenue officer della multinazionale,”il 70% delle telco e l’80% delle imprese del mercato automobilistico”. Il fulcro della strategia di Hortonworks sono i servizi Dataplane, che fanno da cappello alle soluzioni Hortonworks Data Platform (basata su Hadoop) e Hortonworks Data Flow, per lo streaming in tempo reale di dati provenienti da fonti diverse. “Molti dei dati che arrivano alle aziende oggi”, spiega James Grehan, vicepresidente della multinazionale, “non sono generati da interazioni umane ma da macchine, da sensori. Molti di questi devono essere intercettati e analizzati in tempo reale da software dotati di intelligenza. La scelta delle soluzioni Hortonworks permette alle aziende di costruire sistemi di analisi dei dati flessibili, scalabili e a costi sostenibili, grazie all’utilizzo di strumenti open source”. Tra gli strumenti più recenti messi a disposizione dalla multinazionale in quest’ottica c’è Data Stewart Studio, un servizio che consente alle aziende di portare i dati sul cloud mantenendo però la sicurezza e il controllo tipico delle informazioni on-premise. Emilio Mango

L’espansione di Workday in Europa prosegue con l’apertura della filiale italiana. Specializzata nelle applicazioni aziendali in cloud per la gestione finanziaria e delle risorse umane, la multinazionale eroga servizi a oltre 25 milioni di utenti, un business che per l’80% passa dai partner di canale (alcuni molto specializzati, altri generalisti come Accenture, Ibm e Deloitte). Con l’apertura della sede italiana, Workday ora è presente in 15 Paesi della zona Emea e si avvale della collaborazione di oltre 1.400 dipendenti. “Già 450 aziende stanno utilizzando Workday in Italia”, ha detto Javier Moreira, vicepresidente e responsabile delle vendite Emea, “quindi la filiale italiana parte con una ottima base di clienti”.

RIVOLUZIONE BUZZOOLE Cambia il posizionamento e cambia la corporate identity di Buzzoole, il fornitore di soluzioni che opera nel segmento dell’influencer marketing. In realtà la società, che oggi impiega oltre 70 persone tra Milano, Napoli, Roma, Londra e New York, è passata dallo status di startup a quello di scaleup, ponendosi obiettivi ambiziosi di crescita internazionale. L’attività di Buzzoole si basa essenzialmente sullo sfruttamento di Gaia, motore di intelligenza artificiale che riesce ad analizzare le interazioni sui social network per ricavare indicazioni utili per realizzare campagne di influencer marketing. Il primo segno tangibile di rinnovamento della società è proprio il suo marchio, realizzato dallo studio di communication design Bellissimo e ispirato, tra le altre cose, al concetto di crescita.

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DATA JOURNALISM

IL DRAGONE HI-TECH SFIDA LA SILICON VALLEY EBITDA EBITDA%%2017 2017

TREND TRENDFATTURATO FATTURATO2013 2013- -2017 2017 CAGR CAGR%% 2013 2013-2017 -2017

CINA CINA USA USA GIAPPONE, GIAPPONE,SUD SUDCOREA COREAE ETAIWAN TAIWAN

250 250

24 24 %%

20 20

200 200

7,7 7,7 %% INDICE 2013 = 100 INDICE 2013 = 100

150 150

0,1 0,1 %%

2017 2017

2016 2016

2015 2015

2014 2014

2013 2013

Il mercato cinese cresce a tassi di oltre tre volte rispetto a quello Usa e quest’ultimo (grafico a dx) registra un calo della marginalità (∆ EBITDA %) nel periodo 2013-2017.

L’interesse mediatico e social per le aziende cinesi in Occidente è in costante crescita: è l’inizio della fine del predominio statunitense?

L

a competizione commerciale fra Stati Uniti e Cina ha subìto di recente un’accelerazione importante, a causa di veti e dazi incrociati istituiti dai due colossi allo scopo di difendere le proprie industrie. In particolare, l’attivismo di Donald Trump su questo fronte non sembra avere uguali nella storia recente degli Usa. Osservando alcuni dati, però, i “timori orientali” dell’inquilino della Casa Bianca potreb16

15 15 10 10

100 100 50 50

25 25

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bero anche essere giustificati: è ormai dal 2007 che Washington ha ceduto a Pechino lo scettro di principale esportatore al mondo, mentre nel 2011 gli Stati Uniti si sono fatti superare dal Dragone nella produzione manifatturiera. Infine, secondo le stime più accreditate, nel prossimo decennio la Cina supererà lo Zio Sam a livello di prodotto interno lordo. Eppure, c’è un settore dove si pensa che la leadership degli Usa sia destinata a durare per sempre: la tecnologia. I dati, almeno per ora, danno ragione al patriottismo a stelle e strisce. Le aziende hi-tech cinesi valgono, infatti, circa un terzo dei competitor statunitensi e generano la maggior parte del loro fatturato in madrepatria. Inoltre, Pechino investe il 2% in ricerca e sviluppo contro il 2,8% di Washington. Ma siamo certi che la situazio-

55 00 %% ∆ ∆EBITDA EBITDA%% 2013 2013-2017 -2017

33 %% -2 -2 %% 44 %%

ne attuale non sia destinata a cambiare? Utilizzando gli strumenti di analisi sviluppati dalla startup Socialbeat, abbiamo elaborato una serie di dati economici delle prime quaranta realtà tecnologiche Fortune 500 di Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, focalizzandoci sui primi due Paesi. Come secondo passo, abbiamo raggruppato per affinità di mercato alcune aziende e le abbiamo confrontate testa a testa, incrociando la copertura mediatica sulle principali testate giornalistiche occidentali (riferita al numero medio di articoli pubblicati) e l’interesse social generato (numero di “beats”, indice che è la somma di “like”, commenti e condivisioni ottenuti sui principali social network). Nonostante nel 2017 le società americane abbiano pesato in termini di fatturato


N° medio di beats per articolo

Interesse mediatico

100 80 60 40 20 0

Silicon Valley non conoscono crisi, con un evidente (e ovvio) squilibrio rispetto alle controparti asiatiche. Ma non si può dire lo stesso dell’interesse social generato da queste notizie. Più articoli, meno “like”

Prendiamo ad esempio Amazon e Alibaba, i due pilastri dell’e-commerce mondiale. Fatto 100 la copertura mediatica della compagnia fondata da Jeff Bezos, si nota come da gennaio a maggio 2018 il numero medio di articoli pubblicati sul player cinese sia 27 volte inferiore. Invece, le interazioni degli utenti sui principali social network sono soltanto sei volte di meno. Discorso analogo per Facebook (dal conteggio è stato escluso il caso Cambridge Analytica) e Tencent: la copertura mediatica della creatura di Mark Zuckerberg è 48 volte superiore rispetto al com-

petitor asiatico, ma a livello di viralità il gap si riduce del 275%. Inoltre, l’analisi del sentiment degli articoli rivela un altro elemento importante: nell’89% delle notizie pubblicate sulle organizzazioni cinesi, il tono è positivo, contro il 39% di quelle americane. Le parole più frequenti nel primo caso sono “crescita”, “espansione”, “acquisizione” e così via. Tutte conferme dell’attrattività che i brand cinesi stanno già oggi esercitando in Occidente. La domanda da porsi, quindi, è: considerando che al momento queste realtà sono perlopiù confinate in madrepatria (fanno eccezione i marchi dell’elettronica di consumo, come Huawei e Lenovo) e che non hanno ancora iniziato a investire in modo massiccio in occidente, che cosa succederà quando Pechino deciderà di aprire le dighe? Alessandro Andriolo

Leader = 100

N° medio articoli Gen-Mag 2018

Copertura mediatica

quasi quattro volte rispetto alle competitor cinesi, queste ultime hanno registrato una crescita più che tripla nel quinquennio 2013-2017 (Cagr 24%, contro 7%). Ancora: analizzando la marginalità (Ebitda %) dell’ultimo anno, si scopre come le vincitrici siano le organizzazioni a stelle e strisce (22% contro il 15%), ma nel periodo 2013-2017 le cinesi hanno aumentato sensibilmente la loro marginalità media (dal 2 al 3%). Quella statunitense è risultata addirittura in calo. “I motivi sono sostanzialmente due”, spiegano gli analisti di Socialbeat. “Agli occhi dei consumatori i prodotti cinesi stanno acquisendo sempre maggior valore, mentre nel tempo le aziende del Paese del Dragone sono riuscite a raggiungere una maggiore ottimizzazione su scala”. Dal punto di vista della copertura mediatica in Occidente, invece, i giganti della

Differenza tra Amazon e Alibaba: 27x

Differenza tra Facebook e Tencent: 48x

Differenza tra Apple e Huawei: 8x

Differenza tra Amazon e Alibaba: 6x

Differenza tra Facebook e Tencent: 15x

Differenza tra Apple e Huawei:Fonte: 2x Idc

100 80 60 40 20 0

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INNOVAZIONE | Digital transformation

DIGITALIA È RIMANDATA

Per competere sullo scenario internazionale, il nostro Paese deve essere all’avanguardia in ricerca e sviluppo. I dati emersi dal Technology Forum 2018 di The European House – Ambrosetti dicono, invece, che siamo ancora indietro nella corsa per il digitale.

Q

uanto è ancora lontana l’Italia dal raggiungere i livelli di sviluppo tecnologico degli altri Paesi europei? La risposta è complessa, ma parlano da soli alcuni numeri contenuti nel rapporto “Le nuove frontiere dell’innovazione” presentato in occasione della settima edizione del Technology Forum di The European House – Ambrosetti. Gli investimenti in ricerca e sviluppo nella Penisola, questo il dato di partenza, sono ancora troppo bassi rispetto al Pil: siamo all’1,29% (in calo rispetto all’1,34% del 2015), per un totale di 21,6 miliardi di euro. Meno di quanto investa la sola regione tedesca del Baden-Württemberg. Anche il set18

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tore privato, destinatario del 58% degli investimenti in R&D complessivi, è sette punti percentuali sotto alla media europea. Lo scenario, peraltro più che noto, presenta sicuramente molto ombre ma anche alcuni innegabili punti di luce da cui, secondo gli esperti, la corsa dell’innovazione italiana potrebbe ripartire. Il sistema della ricerca, per esempio, è uno di questi e si specchia nel numero di pubblicazioni scientifiche: il nostro Paese è fra i primi dieci al mondo. La base manifatturiera di riferimento della Penisola è un secondo, e assai importante, asset: l’Italia è la quinta nazione del pianeta per bilancia commerciale manifatturiera, superiore ai 100 miliardi di

dollari, ed è la seconda (dopo la Germania) fra le cosiddette “big five” dell’Unione Europea per export pro-capite. Dove intervenire, quindi, per ribaltare la tendenza? Innanzitutto concentrando l’azione su alcuni ambiti strategici, a cominciare dall’aumento degli investimenti in innovazione sia pubblici sia privati, oggi ancora troppo limitati rispetto ai competitori europei nonostante aree virtuose come la Lombardia (che da sola rappresenta il 21% della spesa italiana in ricerca e sviluppo). Il secondo passo da compiere, come dice il rapporto, è quello di incentivare l’attività di open innovation, partendo dal dato che vede al momento solo il 6,7% delle piccole e medie imprese italiane


CLOUD, IOT E MACHINE LEARNING: LE TRE VIE DELLE PMI Il percorso di digitalizzazione del business delle medie imprese italiane percorre tre strade parallele, tre filoni tecnologici: cloud computing, Internet of Things e intelligenza artificiale (computing cognitivo e machine learning). La pensa così circa un terzo delle 500 Pmi (con un fatturato non superiore ai 50 milioni di euro) oggetto di indagine nella ricerca realizzata dalla Scuola dell’Innovazione di Talent Garden in collaborazione con Cisco Italia, Enel e Intesa Sanpaolo. Un dato appare per certi aspetti sorprendente: un’impresa su quattro ha citato anche la blockchain fra le tecnologie innovative ritenute più efficaci per lo sviluppo strategico del business e sulle quali investirà nei prossimi tre anni. Lo scenario emerso dallo studio è quindi positivo e lo conferma il dato secondo cui l’86% delle aziende nel

impegnate su questo fronte, contro una media europea dell’11,2%. Altra priorità in agenda, infine, è l’azione di stimolo verso i venture capital: i 151 milioni di euro di investimenti distribuiti in Italia nel 2017 (in 194 operazioni) valgono lo 0,002% del totale dei finanziamenti globali in capitali di rischio e lo 0,005% del Pil, rispetto allo 0,04% della Francia e della Spagna e allo 0,03% della Germania. Lo spazio per recuperare, in ogni caso, esiste e lo conferma il fatto che, secondo una classifica stilata dall’Università di Mannheim, l’Italia sia in seconda posizione sulle 33 economie sviluppate in fatto di misure fiscali favorevoli all’innovazione, grazie soprattutto al sostegno offerto al processo di digitalizzazione dal Piano Nazionale Industria 4.0. Lo Stivale, sottolinea Valerio De Molli, managing partner e Ceo di The European House Ambrosetti, “ha tut-

2017 ha investito una parte del proprio fatturato in progetti di trasformazione digitale: il 38% del campione ha destinato tra l’1% e il 10% dei ricavi; il 18% tra il 10% e il 20%; l’11% tra il 20% e il 30% e solo il 6% si è spinta a spendere tra il 30% e il 40%. Spicca, in proposito, il fatto che siano le aziende più giovani (sul mercato da meno di 25 anni, corrispondeti al 53% del campione d’indagine) a investire una percentuale più alta del loro giro d’affari in tecnologie funzionali alla trasformazione digitale. La survey, in generale, fotografa una situazione di crescente consapevolezza sui potenziali effetti positivi della digitalizzazione, che possono esprimersi sia sotto forma di maggiore vantaggio competitivo (lo dice il 67% del campione) sia di aumento della produttività e miglioramento della qualità percepita dai clienti (per

te le carte in regola per competere ad armi pari con gli altri Paesi europei nella corsa verso le nuove tecnologie. Ma si brevetta ancora troppo poco, e la dimensione delle imprese e la scarsità di capitale finanziario dedicato sono due tra le cause principali alla base di questa attitudine”. Ripartire dalla ricerca

Se tutti gli stakeholder dell’innovazione concordano sul fatto che il ruolo futuro dell’Italia nel panorama competitivo globale sia strettamente correlato alla sua capacità di creare un ecosistema in grado di promuovere lo sviluppo di nuove idee, la realtà ci dice che, allo stato attuale, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono i più bassi tra i Paesi del G7. E sono, oltretutto, in flessione rispetto agli scorsi anni (il calo rispetto al 2015 è del 4%). La mancanza di finanziamenti pubblici e

quasi un’impresa su due). Sono ben più della metà del totale, inoltre, coloro che hanno interpretato correttamente questo nuovo paradigma che influenza, trasversalmente all’organizzazione, la progettazione dei modelli di business e lo sviluppo di una strategia digitale. Il problema risiede quindi nelle modalità con cui il cambiamento viene portato avanti: ad oggi è di fatto limitato all’ambito della comunicazione e affidato ai professionisti del marketing (succede nel 63% dei casi) e non a figure specifiche come il digital officer o il data analyst. E non va molto meglio sul fronte della formazione del personale; nonostante il 54% degli intervistati riconosca l’alto valore delle competenze digitali, per il 43% è proprio la mancanza di tali competenze a rappresentare il maggiore ostacolo all’evoluzione digitale.

privati e l’elevata frammentazione delle agenzie preposte a regolare lo sviluppo di questo ecosistema sono solo alcuni dei fattori alla base dell’incapacità, per altro reiterata, di far crescere un modello economico e di finanziamento circolare di successo. Proprio per questi motivi, fanno notare da Ambrosetti, risultano essenziali per definire un impegno forte in questi settori i piani in materia di ricerca e innovazione: il Programma Operativo Nazionale “Ricerca e Innovazione” 2014-2020 e il Programma Nazionale per la Ricerca 2015-2020, per esempio. Al primo, rivolto esclusivamente alle Regioni maggiormente bisognose di sostegno (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Abruzzo, Molise e Sardegna), sono destinate risorse complessive per 1,2 miliardi di euro, provenienti per lo più da fondi europei. Piero Aprile 19


INNOVAZIONE | Industria 4.0

Nel 2017 gli investimenti per la manifattura “smart” sono arrivati a 80 miliardi di euro. Raddoppiate le imprese che hanno beneficiato del credito di imposta per la ricerca.

ROBOT E SENSORISTICA SPINGONO LA SPESA FABBRICHE 4.0, MANCANO I TECNICI Sono circa 280mila le figure professionali specializzate, al netto tra pensionamenti e neodiplomati dagli istituti tecnici, che le imprese manifatturiere italiane non riusciranno a trovare sul mercato per soddisfare le esigenze di competenza per i progetti di industria 4.0. Un numero decisamente importante e destinato a crescere ulteriormente, visto e considerato che rispecchia la domanda di soli cinque settori produttivi (meccanica, agroalimentare, chimica, moda

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e Ict) ed è riferito solo ai prossimi cinque anni. L’allarme lanciato qualche settimana fa da Giovanni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria con delega al capitale umano, citando un’indagine condotta dalla sua associazione, è più esplicito. Il comparto industriale italiano ha urgente bisogno di manodopera altamente qualificata, predisposta al cambiamento e soprattutto nativa digitale, che possa lavorare nelle fabbriche intelligenti del futuro.

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l piano Industria 4.0 almeno un effetto, positivo, l’ha generato ed è, come ampiamente prevedibile, di natura economica. Gli investimenti delle imprese in macchinari, impianti e tecnologie, a circa un anno e mezzo dall’entrata in vigore del provvedimento varato dal governo di Matteo Renzi, sono cresciuti nel 2017 dell’11%, arrivando a 80 miliardi di euro. In parallelo, è più che raddoppiato il numero di imprese che ha beneficiato del credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo. Dati indiscutibilmente molto buoni quelli emersi da un recente studio di The European House Ambrosetti. Dati che rispecchiano il generalizzato apprezzamento per il piano fortemente sostenuto dall’ex mi-


nistro Carlo Calenda a supporto della digitalizzazione del manifatturiero, ma che non dipanano i dubbi di chi ritiene ancora inadeguata la preparazione delle imprese (a livello organizzativo e infrastrutturale) per massimizzare i vantaggi legati all’adozione delle nuove tecnologie all’interno dei processi di fabbrica. Se guardiamo allo studio in questione, in ogni caso, la sensazione che la macchina del cambiamento si sia finalmente messa in moto è realistica. Nel corso del 2017, infatti, oltre la metà delle imprese ha avviato o si è detta pronta ad avviare progetti di industria 4.0 e il 6% li ha ampiamente introdotti, mentre soltanto il 40% deve ancora iniziare questo percorso. Tra le misure previste dal Piano, in cima al gradimento delle imprese ci sono l’iper e super ammortamento (citati dal 74% delle aziende campionate), mentre ancora da sviluppare pienamente risultano sia il credito d’imposta in ambito R&D sia la nuova Sabatini (circa 20% delle risposte). L’ambito applicativo che più raccoglie investimenti è la produzione (lo ha confermato l’87% degli intervistati), cui segue la logistica (18%). Quanto alle tecnologie abilitanti dalle quali si attendono i maggiori cambiamenti, i robot collaborativi e interconnessi sono di gran lunga la voce più gettonata (nel 53% dei casi), precedendo le soluzioni dell’Internet of Things (21%) e, a distanza, la manifattura additiva e le applicazioni di realtà aumentata (introdotte rispettivamente dal 4% e dal 2% delle imprese). Tra i risultati raggiunti grazie alla digitalizzazione dei processi, la diminuzione dei costi di produzione e consegna è decisamente il beneficio maggiormente diffuso (lo indica l’80% del campione) e subito dietro viene il miglioramento della qualità dei servizi offerti (71%). La priorità per i prossimi anni, espressa all’unanimità o quasi delle aziende interessate, è nota e riguarda la formazione specializzata: se il 2017 ha fatto da volano all’accelerata degli investimenti, il 2018 dovrà essere l’anno dello sviluppo delle competenze, asset indispensabile per accompagnare la

spesa in hardware, software e sensoristica. Perché, come ormai siamo abituati a sentir dire, Industria 4.0 è soprattutto una rivoluzione culturale e organizzativa. Molti progetti, poco core business

A evidenziare la dicotomia fra gli investimenti in progetti Industry 4.0 e la reale trasformazione dei modelli di business è una recente ricerca di Oracle condotta a livello mondiale, che svela come i budget di spesa finora stanziati abbiano soprattutto migliorato i processi interni, più che sfruttare appieno le opportunità operative delle tecnologie per stabilire una migliore connessione e collaborazione con clienti, fornitori e distributori. Solo il 17% delle aziende campione, infatti, conferma una diretta correlazione fra questi due elementi e solo poco più di un terzo ha utilizzato tecnologie digitali per rimuovere le barriere che impedivano la condivisione dei dati nella catena del valore. E ancora: solo il 40% ha attivato uno scambio aperto di dati con clienti e distributori, meno della metà ha iniziato a portare le informazioni relative ai clienti nei processi decisionali e solo il 45% ha integrato dati provenienti da fornitori e partner commerciali. Gli effetti negativi di questa parziale apertura dei sistemi informativi verso il proprio ecosistema sono così sintetizzabili: appena un quarto delle aziende ha ottenuto più visibilità sulle modalità di acquisto e utilizzo dei propri prodotti, mentre appena metà delle imprese sta usando i dati ottenuti dalle interazioni con i clienti per orientare la creazione di nuovi prodotti. L’invito emerso dalla ricerca è quindi abbastanza definito. Le aziende manifatturiere che hanno saputo creare un “filo conduttore” digitale internamente alla loro organizzazione, integrando i diversi dati disponibili, ne hanno ottenuto un vantaggio. A livello complessivo le aziende hanno messo al primo posto, tra gli elementi cruciali su cui agire entro i prossimi tre anni, la trasformazione dell’operatività rivolta al cliente. Piero Aprile

COMPETENZE DA NORD A SUD Otto competence center ammessi e due esclusi. L’ultimo atto del Ministero dello Sviluppo Economico guidato da Carlo Calenda è stata la comunicazione della lista di atenei ammessi alla fase negoziale per accedere ai finanziamenti pubblici previsti dal piano Industria 4.0. L’elenco vede al primo posto il Politecnico di Torino (il centro si chiama Manufacturing 4.0), seguito dal Politecnico di Milano (Made in Italy 4.0), Alma Mater Studiorum Università di Bologna (Bi-rex), Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (Artes 4.0), Università di Padova (Smact), Federico II di Napoli (Industry 4.0), Consiglio nazionale delle ricerche (Start 4.0) e La Sapienza di Roma (Cyber 4.0). Rimangono invece fuori dai giochi il Centro Siciliano di Fisica Nucleare, per mancanza di requisiti, e l’Università di Catania, che ha ottenuto un punteggio insufficiente. A questi centri di competenza, lo ricordiamo, spetta il compito di operare da poli di trasferimento tecnologico sul territorio, al servizio innanzitutto delle piccole e medie imprese. Lavoreranno al fianco di partner pubblici e privati: circa 400 le imprese affiliate, una settantina le università e gli organismi di ricerca pubblici coinvolti. A disposizione dei competence center ci sono risorse per 73 milioni di euro, di cui il 35% (circa 25 milioni) servirà a finanziare i progetti di innovazione presentati dalle imprese in misura del 50% e con tetto massimo di 200mila euro.

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INNOVAZIONE | Cybersecurity

EMAIL SEMPREVERDE, ANCHE PER I CRIMINALI Quattro aziende su cinque subiscono attacchi informatici veicolati dalla posta elettronica. Si punta spesso al furto di credenziali e, come obiettivo finale, di soldi.

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È

immarcescibile, nonostante il continuo sbocciare di nuove tendenze fra app, social network e servizi cloud. La posta elettronica non smette di essere il primo strumento di comunicazione sul lavoro, tant’è che ogni giorno (secondo una stima di The Radicati Group riferita al 2018) nel mondo vengono scambiati 281 miliardi di messaggi email. Ma è anche sempreverde in un altro senso: continua a essere un bersaglio molto amato da criminali informatici, truffatori e ladri di dati. Stando a un sondaggio condotto da Barracuda Networks su dirigenti e responsabili It di 145 piccole, medie e grandi aziende della

regione Emea, appartenenti a diversi settori, ben quattro società su cinque hanno subìto almeno un attacco tramite email nel corso dell’ultimo anno. E il quadro è aggravato dall’impressione che aumentino sia la frequenza (per il 73% degli intervistati) sia la gravità di questi episodi, da cui derivano sempre maggiori danni (per il 72%) in termini di interruzione delle attività, calo di produttività dei dipendenti, impatti sulla reputazione dell’azienda, spese di ripristino dei sistemi informatici o di recupero dei dati persi. Per il 79% degli intervistati l’anello debole nella catena della sicurezza è rappresentato da comportamenti imprudenti delle persone,


come quelli di chi non presta sufficiente attenzione ai mittenti, scarica allegati e clicca su link senza verificare da chi provengano. Infezioni per tutti i gusti

Uno studio di Proofpoint fornisce una conferma sull’ascesa generale delle frodi via email: nel primo trimestre di quest’anno il 40% delle aziende colpite ha ricevuto tra i dieci e i cinquanta attacchi su questo vettore, ed è anche in crescita (del 20% rispetto alla fine del 2017) il numero di coloro che hanno subito più di cinquanta tentativi di infezione. I trojan bancari sono l’insidia più frequentemente racchiusa nei messaggi, tant’è che per la prima volta dal 2016 nel primo trimestre di quest’anno hanno superato numericamente i ransomware in quanto a minaccia veicolata via email. Ma i criminali non smettono di divertirsi con altre forme di infezione già note, come gli stealer di credenziali che intercettano nomi utente e password (era di questo tipo quasi un malware via email su cinque, il 19%, fra quelli del primo trimestre) e come i downloader (18%), che scaricano o installano altri programmi nocivi sui computer o smartphone delle vittime. Desta particolari preoccupazioni anche l’impennata del social engineering, l’insieme delle tecniche tese a carpire informazioni personali sulla vittima, così da confezionare inganni più efficaci e mirati. Truffe sempre più elaborate

Se la truffa epistolare è particolarmente sofisticata, allora rientra di diritto nella categoria delle attività di business email compromise (gli addetti ai lavori le indicano con l’acronimo Bec). L’espressione non implica che ci sia stato un hackeraggio del sistema di posta elettronica aziendale, ma sta semplicemente a indicare che si impiegano indirizzi “business” di dipendenti e collaboratori di un’azienda per raggiungere diversi scopi di guadagno illecito o di interferenza

con le attività dell’organizzazione bersaglio. Rispetto alle semplici frodi via email, in questi casi gli autori si prendono del tempo per capire quali siano i talloni d’Achille dell’azienda, cioè quali gli individui da colpire, e preparano attacchi strutturati in più fasi. Un report pubblicato lo scorso maggio dall’Fbi stima che nel 2017 questo fenomeno abbia causato non meno di 676 milioni di dollari di danni alle sole aziende statunitensi, e peraltro la cifra reale è presumibilmente più alta, considerato il fatto che molti episodi non vengono nemmeno denunciati. Le aziende spes-

so tacciono, vuoi perché non si accorgono di nulla, vuoi perché per ragioni di reputazione è meglio non sventolare ai quattro venti la notizia (mentre in Europa, con il Gdpr, nel caso di violazioni con associato furto di dati è diventato obbligatorio dare notifica entro 72 ore dalla scoperta). Una tipica tattica di raggiro è quella per cui il mittente finge di essere un collega oppure un fornitore, usando una motivazione plausibile per chiedere al destinatario di effettuare un pagamento o di fornire informazioni finanziarie. Valentina Bernocco

NUOVI TRAVESTIMENTI PER ZEUS PANDA Richieste, conferme, fatture inserite all’interno di messaggi di posta elettronica contenenti un allegato: tutto falso e fraudolento, naturalmente, perché le email contengono l’ennesima variante di un malware della famiglia del già noto trojan bancario Zeus Panda. Di questa minaccia si era parlato parecchio a fine 2017, con tanto di allerta dell’Agenzia delle Entrate e della Polizia Postale, che mettevano in guardia contro un’ondata di email contenenti allegati infetti, spacciati per un modello F24 di cui si chiedeva la compilazione. Lo stesso gruppo di cybercriminali ci ha riprovato con una nuova campagna, molto

attiva nel mese di giugno e segnalata da diverse società di sicurezza informatica, fra cui Yoroi. I messaggi presentano nell’oggetto le parole “fattura”, “invio fattura” o “conferma fattura”, seguite da presunti numeri d’ordine, e usano indirizzi mittente confezionati in modo da poter passare per quelli di banche e istituti finanziari. Con la scusa di dover recapitare o chiedere conferma di una fattura, alla vittima viene richiesto di aprire un documento Excel (il cui nome è un finto codice Iban) che infetta il computer con un malware capace di intercettare informazioni varie, credianziali, token o cookie tratti da sessioni Web.

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TECHNOPOLIS PER F-SECURE

NUOVE STRATEGIE CONTRO IL CYBERCRIMINE MIRATO I partner di canale hanno nuove opportunità di proteggere i propri clienti dal numero crescente di attacchi personalizzati e fileless.

Di fronte agli sviluppi del cybercrimine c’è bisogno di nuovi strumenti di difesa. I “cattivi” impiegano in misura crescente metodi capaci di evadere le tecnologie tradizionali di protezione degli endpoint, tant’è che il Ponemon Institute prevede che quest’anno più di un attacco su tre (il 35%, dato in crescita del 6% sul 2017) sia di tipo fileless e dunque abbia una probabilità di successo quasi dieci volte maggiore rispetto a quella delle offensive basate su file. Da un report del Sans Institute, invece, risulta che il 32% delle organizzazioni ha riscontrato attacchi fileless che coinvolgono metodi come l’escalation dei privilegi, il furto di credenziali amministrative, attacchi script Powershell e movimento laterale (cioè che migrano fra sistemi appartenenti alla stessa rete). Un più esteso 72%, inoltre, ha avuto a che fare con il phishing, in assoluto la minaccia dal maggior impatto sulle aziende colpite. Uno scenario simile emerge dalle investigazioni dei servizi di incident response di F-Secure: il 55% degli incidenti è causato da attacchi mirati a singoli utenti o aziende, mentre solo il 45% è opportunistico (ovvero sfrutta vulnerabilità all’interno di un sistema non selezionato a priori). Una risposta a questo scenario può essere l’Endpoint Detection 24

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and Response (EDR), ovvero l’insieme delle tecnologie focalizzate sulla scoperta e investigazione di attività sospette e di altri problemi di sicurezza riguardanti i dipositivi, siano essi computer, server o altri nodi di rete. Secondo le previsioni di Gartner, questa è l’area a più rapida crescita nel mercato della cybersicurezza, per cui si ipotizza un tasso di crescita annuale composto del 45,3% fra 2015 e 2020. Una delle ultime novità in quest’ambito è F-Secure Rapid Detection & Response (RDR), un servizio gestito per la rilevazione e risposta agli attacchi mirati e fileless rivolti agli endpoint. Adottandolo diventa possibile scovare minacce avanzate, come appunto gli attacchi mirati, monitorando il comportamento dei dispositivi e avendo completa visibilità anche sulle applicazioni. Si tratta di un’offerta veicolata dai partner di canale di F-Secure, per i quali è previsto uno specifico programma per i servizi gestiti EDR, inclusivo di formazione, certificazioni e possibilità di appoggiarsi a un team di analisti per risolvere i casi dei clienti più problematici.“Gli attacchi furtivi e sofisticati di oggi richiedono approcci altrettanto sofisticati, poiché la semplice protezione degli endpoint non è più sufficiente”, sottolinea Jyrki Tulokas, executive vice president, Cyber Security Products and Services di F-Secure. “Allo stesso tempo, la carenza di specialisti di cyber security pone le aziende del midmarket in svantaggio quando si tratta di assumere risorse. La risposta è usare intelligenza artificiale unitamente agli analisti di F-Secure per rilevare minacce avanzate che sono penetrate nella rete, e fornire una guida ai nostri partner su come rispondere. Con la nostra unica combinazione di uomo e macchina, le organizzazioni del midmarket possono avere accesso alla cyber ecurity di grado enterprise con competenze locali qualificate attraverso i nostri partner”. Le capacità di protezione, rilevazione e risposta offerte da F-Secure e dai suoi partner proteggono le aziende e i loro dati sensibili identificando violazioni velocemente. Dallo scorso maggio, con l’entrata in vigore del Gdpr, le organizzazioni devono aver adeguato le proprie capacità di rilevazione e devono notificare le eventuali violazioni riguardanti i dati entro 72 ore dalla scoperta.


TECHNOPOLIS PER OVH

BENVENUTO GDPR: E ADESSO? OVH FA IL PUNTO Dopo una lunga attesa, il countdown è terminato e il Gdpr ha fatto finalmente il suo “temuto” ingresso in Europa. Ma qual è lo stato attuale delle cose? E che cosa succederà adesso? In base alle indagini dei principali analisti, la situazione in Italia appare complessa: molte aziende stanno ancora rincorrendo la conformità e altre sono nel panico da sanzione. L’interrogativo ricorrente è se i dati saranno adeguatamente gestiti e protetti. Un primo risvolto positivo c’è, ed è rappresentato proprio dalla crescita degli investimenti in sicurezza, che continuerà anche nel 2019 e oltre. Uno dei punti cardine del Gdpr è il principio secondo cui i dati appartengono alle persone e non alle imprese, le quali sono responsabili solo di raccoglierli e trattarli correttamente. Il regolamento europeo è nato ed è stato delineato quindi come un’ulteriore forte garanzia di rispetto della privacy, un beneficio per soggetti interessati e aziende, che va a stimolare lo sviluppo in Europa e tra i Paesi membri. E non, dunque, come un ostacolo che rallenta e complica il mercato. Una corretta gestione e protezione dei dati è ancor più critica per le organizzazioni che si affidino a tecnologie distribuite, in cui i dati stessi sono accessibili dall’interno e dall’esterno tramite una molteplicità di strumenti, come per esempio il cloud. Non è un caso che proprio gli utilizzatori e i fornitori del cloud siano tra le realtà maggiormente preoccupate della conformità a questa nuova normativa europea, anche perché diverse sono le declinazioni della “nuvola” e di conseguenza diversi sono gli approcci con cui affrontare questa problematica di protezione. Primo cloud provider in Europa, OVH è stato tra i pionieri della protezione dei dati, avendo partecipato già nel 2016 alla creazione di Cispe (Cloud Infrastructure Services Providers in Europe), una coalizione formata da oltre venti provider di Infrastructure as-a-Service (IaaS) attivi nel Vecchio Continente. Cispe ha presentato il primo Codice di Condotta per la protezione dei dati, un testo che ha anticipato il Gdpr per offrire ai clienti la possibilità di gestire e salvare i propri dati esclusivamente in Europa (UE/EEE). OVH opera in 18 Paesi attraverso una rete di 28 data center proprietari, dotati di tutte le tecnologie più avanzate a garanzia della massima protezione fisica e copertura

Florent Gastaud, data protection officer di OVH energetica. In azienda tutti gli aspetti dell’applicazione del Gdpr sono stati subito affidati al Data Protection Officer, Florent Gastaud, che ha la responsabilità di verificare la conformità di tutte le attività svolte dal Gruppo OVH in materia di elaborazione e gestione dei dati. All’interno della società spetta a lui il compito di suggerire a manager e dipendenti le best practice per implementare, sensibilizzare e formare le risorse, ed è lui il punto di contatto per i clienti desiderosi di ricevere informazioni aggiuntive sulle misure da implementate per ottenere conformità alle normative. Sul tema delle garanzie che un cloud provider deve assicurare, Florent Gastaud sottolinea: “Il fornitore deve censire in forma scritta tutte le informazioni del proprio cliente in merito al trattamento dei dati, in modo da poter presentare una prova che le azioni volontarie siano state realizzate ‘su richiesta scritta del responsabile del trattamento’. Inoltre, il fornitore deve comprovare ai propri clienti di rispettare i propri obblighi in termini di protezione dei dati, ivi compresi i report di audit”. Ora, per valutare quale sia la reale conformità ed efficacia del Gdpr, non resta che attendere di vedere come reagiranno le aziende europee al nuovo regolamento e come si evolverà la sicurezza al loro interno. 25


EXECUTIVE ANALYSIS | La ricerca sul campo di Technopolis

IL LAVORO DIVENTA SMART, LE AZIENDE NON TROPPO La diffusione dei dispositivi mobili e le crescenti necessità di collaborare a distanza in tempo reale sono ormai una realtà. Ma l'evoluzione è frenata da timori e da legami vincolanti alla vecchia cultura aziendale.

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a vecchia idea di “ambiente di lavoro”, fatta di una postazione definita in ufficio, con tanto di scrivania, computer e telefono fisso, sta cambiando progressivamente a causa della consumerizzazione dell’It e del tendenziale aumento dell’automazione in azienda. Secondo uno studio di Brookings Institution, nel 2025 la cosiddetta “generazione Y,” quella dei nativi digitali, peserà per il 75% sul totale degli occupati. Per soddisfare le esigenze di queste persone, le imprese devono ripensare l’organizzazione dei tempi e degli spazi, allargando le aree collaborative e fornendo adeguati strumenti di collaborazione. In sintesi, dovranno consentire lo smart working, un modello fondato sul concetto di digital workplace: un ambiente connesso, libero e collettivo, non più ancorato a una scrivania materiale e immobile.

ha sperimentato una logica di maggior flessibilità. Il 6% dei potenziali interessati ha dato una svolta concreta al proprio modo di lavorare, ma va detto che la media europea si attesta al 17%. Ci servono delle rivoluzioni? Mettere in atto una strategia di trasformazione e pensare a uno spazio di lavoro digitale efficace non implica necessariamente una svolta da compiere in breve tempo, ma richiede semmai un percorso graduale, basato sul modo in cui i dipendenti organizzano le proprie attività e hanno accesso ad applicazioni, informazioni e servizi. Il cambiamento deve avvenire a livello culturale e organizzativo, partendo dagli obiettivi che possono ispirarlo. Primo fra tutti la produttività, che po-

trebbe migliorare anche del 15% per dipendente, secondo il Politecnico di Milano, se però la diffusione arrivasse ad almeno al 70% dei potenziali interessati. La premessa è d’obbligo per introdurre la ricerca qualitativa che abbiamo realizzato, cercando di capire quanto e come nelle aziende italiane si vada in direzione di una maggior flessibilità di orari, di utilizzo di dispositivi, di modalità di collaborazione (anche in remoto) e di integrazione di clienti, partner e fornitori nella rete delle comunicazioni. Il campione da noi selezionato include realtà appartenenti ai settori della moda, della logistica, dell’hi-tech, dell’industria e dell’automotive. Volutamente è stato scelto un insieme di aziende diverse per

Seppur lentamente, l’Italia si adatta

Il più recente studio del Politecnico di Milano sul tema dello smart working fotografa un’Italia in lento, ma costante movimento. Nell’ultimo anno è cresciuto del 60% il numero dei lavoratori che 26

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segmento merceologico di appartenenza, dimensione e caratteristiche operative, allo scopo di far emergere le differenze di approccio al tema dello smart working e di mettere a confronto l’esperienza di chi ha sviluppato progetti in questa direzione con chi, invece, non ha nemmeno i presupposti sufficienti per evolvere verso la nuova logica. Un’anima divisa in due

All’interno del panel di aziende analizzate, alcune hanno già fatto passi considerevoli in direzione dello smart working, anche se appare rara una traslazione verso la virtualizzazione completa delle postazioni di lavoro. Chi ha preso una decisione in questo senso è passato attraverso una sperimentazione parziale, spesso riferita a una divisione o a un gruppo omogeneo di soggetti. L’utilizzo di dispositivi mobili come terminali, la scomparsa dei telefoni fissi e delle scrivanie personali, così come l’acquisizione di strumenti necessari alla comunicazione e alla condivisione remota sono i segnali

più tangibili del cambio di paradigma. In tutti questi casi si è reso necessario intervenire sull’infrastruttura tecnologica aziendale, per assicurare nuovi e più elevati livelli di disponibilità dei servizi, sicurezza allargata all’esterno del perimetro tradizionale e un controllo accurato dei livelli di utilizzo delle risorse, spesso arricchite da una crescente componente cloud. Queste sono anche le realtà che hanno esteso lo smart working al complesso dell’organizzazione, senza particolari distinzioni di ruoli o mansioni, privilegiando un’evoluzione della natura stessa del lavoro e non di chi lo deve compiere. In posizione intermedia si pongono le imprese che hanno avviato il cambiamento solo in modo parziale o delimitato. Si tratta di realtà in cui esiste una forte componente di progettazione in cui prevalgono necessità di interazione con sedi o partner remoti. In alcuni di questi casi, l’It si è fatta promotrice dell’evoluzione prima di tutto applicandola al proprio interno, nella speranza di portare risultati spendibili per un’estensione al complesso dell’azienda. In altri casi, invece, una quota del personale occupato svolge un lavoro per sua natura di movimento e questo ha portato ad adottare soluzioni e logiche legate al supporto di una mobility molto spinta. Infine, un terzo abbondante delle aziende intervistate ha ammesso di non aver alcun progetto di smart working e di non disporre nemmeno di un piano di adozione di medio o lungo termine. I motivi? In qualche caso si vuole preservare l’importanza del luogo di lavoro “fisico”, un ambiente in cui si scambiano idee e si incrociano attività. Ma più spesso la mancata evoluzione è attribuita alla natura stessa del business (importante presenza di impianti produttivi, peso della logistica, tipologia di attività primaria) oppure a difficoltà culturali, che fanno prevalere l’associazione fra scrivania e dipendente, la percezione di un maggior controllo, ma anche la convinzione di non ottenere dallo smart wor-

king vantaggi tali da giustificare revisioni organizzative importanti e relativi investimenti. Certamente il supporto di chi in azienda prende decisioni conta, e non poco. Nelle realtà in cui il modello flessibile ha già assunto una valenza operativa, l’endorsement dei dirigenti si è sempre rivelato determinante, soprattutto in fase iniziale, ma altrettanto essenziale appare il coinvolgimento dei manager di linea, chiamati a compiti di controllo e organizzazione diversi rispetto al passato. In questi contesti la divisione It ha rivestito il ruolo di abilitazione e responsabilità sul costante funzionamento del processo, mentre più raramente si è allargata a vero e proprio motore dell’innovazione. Lavorare meglio o lavorare di più?

Fra le aziende che possono vantare un’esperienza meglio definita nello smart working, raramente è stata indicata una motivazione economica come primo fattore. Assai più rilevante appare il tema dell’aumento di produttività atteso da una modalità lavorativa disgiunta dal luogo fisico e dal rispetto di un orario. C’è da chiedersi, a questo punto, se non si rischi di far aumentare il tempo dedicato al lavoro, nel complesso della giornata o settimana del dipendente: la risposta sembra negativa, perché gli intervistati hanno parlato invece di maggior coinvolgimento del personale, di un maggior equilibrio “work-life” e di una più spiccata tendenza alla collaborazione. Solo sullo sfondo sono stati citati elementi collegati ai costi, quali l’eliminazione della telefonia e la riduzione delle trasferte. Sul versante opposto dei fattori di freno giocano un ruolo fondamentale la complessità delle relazioni sindacali, gli investimenti infrastrutturali da effettuare, un certo timore di perdita di controllo e la difficoltà di misurare i possibili incrementi di produttività. Poco citato, invece, è il tema della sicurezza, probabilmente perché inquadrato in un contesto più esteso rispetto a quello specifico da noi esaminato. Roberto Bonino 27


EXECUTIVE ANALYSIS | Il commento dei partecipanti

FRA VECCHIO E NUOVO

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a ricerca qualitativa condotta da Technopolis sul tema dello smart working ha fatto emergete molte peculiarità, ma anche tratti in comune, primo fra tutti la convinzione che per i progetti di vero smart working serva la sponsorizzazione di figure di prima linea del business. Tante aziende, inoltre, concordano sul fatto che si debbano considerare con attenzione gli impatti sui modelli organizzativi e sulla cultura dell’azienda e dei suoi dipendenti e collaboratori. Dal panel delle realtà coinvolte nella nostra indagine sullo smart working abbiamo estratto alcune considerazioni proposte da quelle che hanno acconsentito a essere citate. I concetti evidenziati riflettono la diversità delle situazioni esistenti ma, come dicevamo, emergono tratti comuni fra chi ha già realizzato esperienze e chi si trova ancora nella fase della preanalisi. La sperimentazione di nuovi strumenti e abitudini di lavoro, in tutti i casi, ha riguardato o riguarderà inizialmente specifiche aree a maggior tasso di mobilità, dinamismo o presenza di processi innovativi, per poi estendersi al complesso dell’azienda o almeno ai dipartimenti che possano trarre un reale vantaggio dal cambiamento. “In una società armatoriale come la nostra, il supporto al lavoro in mobilità è un tema antico e legato alla natura stessa del lavoro di molte delle nostre persone. Diverso però è parlare di riduzione delle scrivanie, cosa di cui stiamo iniziando solo ora a ragionare”. Pietro Amorusi, Cio di d’Amico Società di Navigazione “Certamente da noi è l’It a fare da leva e spinta per il cambiamento. Il nostro dipartimento utilizza strumenti di smart 28

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working già da diverso tempo e il guadagno in termini di risparmio sui costi e incremento della produttività è facilmente misurabile. Dalla nostra esperienza può partire un’evoluzione estesa a tutta l’azienda”. Claudio Umana, Cio di Fracarro Radioindustrie “Ci possono essere fattori legati alla produttività di team o persone, così come al risparmio di costi in alcune aree, che potrebbero agevolare un’evoluzione più

rapida verso lo smart working. Quando i tempi saranno maturi, il passaggio sarà soprattutto di natura culturale e partirà dalla direzione generale”. Massimo Venturini, responsabile sistemi informativi di Mignini & Petrini “La leva che più spesso consente a un progetto di essere correttamente sponsorizzato riguarda soprattutto l’aspetto economico e abbiamo toccato con mano come lo sviluppo di questo tipo di progetti porti grandi benefici di auGIUGNO 2018 |

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MEGLIO PARTIRE DA ESPERIENZE PILOTA E DA ESIGENZE CONCRETE Per diverso tempo le aziende hanno confuso il concetto di smart working con quello di telelavoro, ma ormai si sta rapidamente diffondendo la consapevolezza che si tratti di due cose diverse. Coinvolgere il dipendente o collaboratore lavorando davvero per obiettivi, a prescindere da dove o come egli organizzi il suo tempo per l’attività professionale, implica un cambiamento del modello organizzativo. E non molte realtà sono già oggi pronte ad affrontarlo nella sua completezza. Il consiglio è quindi di partire sempre da requisiti di business, identificando le aree specifiche che meglio si prestano a evolvere in direzione dello smart working. Ogni processo ha le proprie peculiarità e non esiste un modello standard specie in un Paese come il nostro, caratterizzato da una forte presenza di piccole e medie imprese. Una volta definito il proprio modello di smart working, un ambiente pilota consente alle aziende di costruire una corretta governance, di comprendere quali componenti tecnologiche adottare e di modellare al meglio la user experience. Certamente in Italia occorre superare qualche limite ancora presen-

mento delle performance produttive”. Daniele Ferrari, responsabile engineering department di Parmalat “Lo smart working è ormai una realtà consolidata in Philips Italia: fuori dalle mura dell’ufficio, si sposta l’attenzione su flessibilità e responsabilizzazione del singolo, che contribuisce al business sulla base degli obiettivi e non del tempo speso in azienda. Lo smart working consente anche un miglior bilanciamento tra lavoro e vita privata grazie,

te in termini di cultura aziendale, cercando di oltrepassare il concetto di “controllo” stretto del dipendente basato, per esempio, su tornelli e ore lavorate, per dare ancora più spazio a responsabilità e fiducia. Il rapporto va costruito sulla definizione di obiettivi misurabili e scadenze da rispettare, rendendo più flessibile l’idea di presenza fisica, magari senza eliminarla del tutto, ma finalizzandola a momenti di confronto e condivisione in strutture che, anziché uffici, siano spazi polifunzionali multidisciplinari. La tecnologia, in questo contesto, assume un ruolo di abilitatore grazie alla disponibilità di strumenti sempre più evoluti di collaboration, ma anche di gestione sicura degli accessi ai sistemi e ai dati sulla base di ruoli definiti e relativi privilegi. Nei sistemi e nelle implementazioni, infatti, si sta dando sempre più spazio al concetto di resilienza, in base al quale la tecnologia è in grado di adattarsi al mutamento delle condizioni geografiche, di connettività o del luogo in cui ciascuno si trova. Certamente, l’ownership di questo processo compete in modo prevalente a figure di business, a partire da un top management consapevole e pronto a

ad esempio, alla riduzione dei tempi di trasferimento tra casa e lavoro e una conseguente ottimizzazione del tempo”. Gianrico Sirocchi, head of It Italy, Israel & Greece di Philips “Il passaggio allo smart working sta avvenendo in modo graduale, a partire dai principali servizi interni e abbracciando la logica del cloud. Il supporto del top management, in particolare della direzione finanziaria, si è rivelato fondamentale”.

supportare il cambiamento, per arrivare a coinvolgere necessariamente le risorse umane o i responsabili di specifiche aree. Se permangono internamente ed esternamente alle aziende fattori che possono rallentare il processo evolutivo in direzione dello smart working (basti pensare a una legislazione che da noi solo di recente ha fatto qualche passo avanti), ci sono per contro aspetti che potrebbero fungere da acceleratori. Le startup e le Pmi con maggior orientamento all’innovazione, per esempio, possono trarre vantaggio dall’adozione di un modello flessibile per poter reperire e ingaggiare talenti che vivono in luoghi diversi e che da lì possono fornire il loro apporto. Per le realtà più complesse, al di là del supporto al lavoro in mobilità o alla virtualizzazione delle riunioni, occorre pensare ad aspetti strategici quali la riduzione del time-to-market, dovuta anche alla minor pressione sul provisioning di strutture fisiche o al ripristino di sistemi compromessi. In quest’ottica il cloud offre la flessibilità necessaria a costi spesso decisamente sostenibili. Gianluigi Citterio, head of presales di Lutech-Sinergy

Diego Busca, It solution specialist di Takeda Italia “Il nostro core business riguarda la movimentazione di container e quindi il personale lavora prevalentemente in modalità tradizionale. Tuttavia, sono stati portati avanti processi innovativi soprattutto per rendere più efficiente la comunicazione fra i vari terminal con strumenti di videoconferenza”. Francesca Marchelli, It supervisor di Voltri Terminal Europa 29


TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX & ACCOUNTING ITALIA

PROCESSI AZIENDALI SOTTO CONTROLLO, ANCHE IN MOBILITÀ Arca GP (Gestione Processi) permette di controllare le attività aziendali di carattere commerciale, amministrativo e di assistenza clienti. Una soluzione accessibile via Web, con qualsiasi browser e anche da dispositivo mobile. La gestione di un’azienda o di un business oggi non può evitare di passare attraverso la digitalizzazione. I principali processi aziendali sono stati informatizzati da tempo e, grazie a uno o più sistemi Erp (Enterprise Resource Planning) hanno raggiunto una certa efficacia ed efficienza. Ma innumerevoli altri processi chiave ancora non si avvalgono di soluzioni digitali. Il gap è però stato superato da Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia, che ha ingegnerizzato e introdotto Arca GP (Gestione Processi). Portare avanti un’impresa comporta il controllo di ogni aspetto operativo, contabile e non. La gestione dei contatti, dei clienti o potenziali tali o fornitori, le campagne marketing, l’intero ciclo postvendita fatto di assistenza, gestione dei reclami, di recupero crediti: tutte queste sono attività tra le più importanti per la vita e lo sviluppo di un’impresa. Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia ha sviluppato il concetto di digitalizzazione delle informazioni provenienti dalle attività di contatto e relazione, sistematizzandole e rendendole fruibili in ambito Erp. L’efficienza e la solidità rappresentate dal gestionale Arca EVOLUTION vengono quindi completate ed arricchite da Arca GP. Uno dei grandi vantaggi di questa soluzione è la possibilità di accedere tramite interfaccia Web, da qualsiasi browser e con qualunque dispositivo, ai processi definiti. Si consente così agli operatori aziendali la gestione delle attività assegnate in completa mobilità. Ogni processo fornisce una Web dashboard con accurati e dettagliati indici di performance. Arca GP è declinato anche in versione applicazione mobile, scaricabile dai principali app store. Come sottolineato da Pierfrancesco Angeleri, managing director di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia, “il nostro nuovo applicativo permette di strutturare, organizzare e monitorare tutti i processi aziendali che ruotano intorno ai clienti e ai business partner, consentendo all’azienda di ottenere maggiore efficienza, controllo delle performance, efficacia di vendita, soddisfazione dei clienti, qualità del prodotto e del servizio, solo per citare i maggiori vantaggi ottenibili grazie alla digitalizzazione e soprattutto alla fruizione del servizio in mobilità”. Arca GP consente il completo controllo dei processi interni dell’azienda. Grazie alle sue principali funzionalità è possibile creare processi strutturati, potendo scegliere tra modelli predefiniti (come, per citarne alcuni, il telemarketing, la gestione del credito e tanti altri) oppure 30

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crearne con semplicità altri del tutto nuovi. Il nuovo software consente l’assegnazione delle attività dei processi agli operatori, i quali avranno quindi una pianificazione precisa dei lavori da svolgere e saranno agevolati da relativi promemoria automatici. Si otterrà il monitoraggio dell’avanzamento delle attività e dei processi, per avere ogni dettaglio sotto controllo e per poter apportare azioni correttive. Il software si integra perfettamente con Arca EVOLUTION in modo che i risultati delle attività di processo determinino immediatamente aggiornamenti nei documenti, nella contabilità, nel magazzino. ARCA GP è una soluzione particolarmente dedicata alle Pmi di qualsiasi settore industriale e commerciale, e consente di organizzare i processi interni extra contabili dell’azienda.


TECHNOPOLIS PER BROTHER

LA SICUREZZA NEL PRINTING Garantire la riservatezza dei dati al tempo del Gdpr è una sfida difficile, ma non impossibile. Il punto di vista di Lorenzo Matteoni, senior manager marketing di Brother Italia. Qual è, secondo Brother, lo stato dei lavori delle imprese italiane nell’adeguamento al Gdpr? L’arrivo del Gdpr rivela l’impatto di una corretta gestione del dato anche nel printing. Molte aziende, però, non considerano che il nuovo regolamento norma anche le modalità di gestione dei documenti stampati e scannerizzati. Ad oggi, le imprese sembrano non avere i requisiti necessari per adempiere alla normativa o spesso ne sono inconsapevoli. Tra le misure richieste dal Gdpr vi è infatti la necessità di proteggere i dati contro elaborazione non autorizzata, perdite e furti. Per essere conformi è opportuno ricorrere ad alcune misure: proteggere dati sensibili presenti nelle infrastrutture di stampa e nei documenti, prevenire la condivisione inavvertita di informazioni, adottare modalità veloci di rilevamento delle violazioni e integrare processi documentati e tracciati. È proprio per aiutare le aziende a proteggersi dalle vulnerabilità legate al printing che Brother ha realizzato con Idc il whitepaper “Garantire la riservatezza dei dati: una crescente sfida per la gestione della stampa e dei documenti”: un programma di dieci punti per rendere il business sicuro e conforme alle nuove normative. Che ruolo giocano gli endpoint e in particolare le stampanti/multifunzione nella strategia di protezione dei dati? Anche i dispositivi che compongono il parco stampanti devono far parte di una strategia di sicurezza a livello di hardware, documento e utente. È consigliabile quindi rivolgersi a fornitori che comprendano i rischi interni ed esterni, ottimizzando i flussi. I fornitori di servizi di stampa gestita (Mps) come Brother dovrebbero essere il primo interlocutore, perché in grado di fornire consulenza ai più alti livelli. L’emergere di servizi avanzati di sicurezza di stampa gestita mira ad aumentare la resilienza contro i tentativi di violazione, a rilevare tempestivamente minacce a monitorare continuamente l’infrastruttura e migliorare le politiche di sicurezza e consapevolezza degli utenti. Quali sono le attività più importanti da implementare per mettere in sicurezza i dati sui diversi fronti? Brother adotta una strategia globale per garantire l’accesso sicuro a rete e dispositivi, assicurando anche monitoraggio e gestione del flusso documentale. Questo grazie a soluzioni di security printing, crittografia, pull printing ed Mps. Brother tutela le stampe in uscita con Secure Function Lock, che assegna a ogni utente funzioni differenziate attivabili con schede di identificazione Nfc o Pin. Buona parte dei dispositivi,

inoltre, non necessita di dischi fissi per l’esecuzione delle operazioni, mentre per impedire fughe di informazioni le macchine laser di fascia alta sono tutte dotate delle funzionalità Tls/Ssl. Alcune serie di stampanti, infine, sono in grado di bloccare a distanza chiunque acceda al dispositivo tramite la rete, filtrando gli indirizzi IP e sfruttando il controllo protocolli. Su quali elementi differenzianti in termini di sicurezza punta la vostra azienda? Le offerte Mps non sono tutte uguali: affidarsi a un partner qualificato come Brother è il primo passo per definire politiche fattibili e olistiche. Grazie alla sua consulenza strategica, Brother è in grado di migliorare la sicurezza, abbattere i costi e aumentare la produttività con soluzioni personalizzate a partire dalle esigenze del cliente. Si comincia da una valutazione completa della sicurezza dell’infrastruttura per identificare eventuali lacune. Sulla base dei dati raccolti viene poi sviluppato il progetto implementativo, che viene eseguito minimizzando l’impatto sull’operatività. Il mantenimento dei livelli di servizio viene garantito da attività di reportistica e monitoraggio, che permettono un controllo costante dei dispositivi. Questa fase prevede una consulenza periodica che prenda in riesame le soluzioni e i servizi proposti, riformulandoli in funzione di tutto ciò che può modificare i flussi documentali di un’azienda. Per avere processi conformi al Gdpr è possibile affidarsi al team di esperti Brother Special Solutions Team (SST), che unisce figure di Software Engineer a quelle di Business Analyst per costruire la soluzione adatta a tutte le esigenze. 31


SCENARI | | Startup INNOVAZIONE

L’ECOSISTEMA CRESCE MA PRODUCE POCO Sono più di novemila le startup innovative iscritte nel registro del Mise. Il giro d'affari nel 2016 ha superato i 741 milioni di euro, ma più della metà ha chiuso in perdita.

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i dice molto sullo stato di salute del fenomeno delle startup in Italia la 15esima edizione del rapporto trimestrale realizzato dal Ministero dello Sviluppo Economico e da InfoCamere, in collaborazione con Unioncamere, ricco di numeri sulle nuove imprese innovative italiane. Ci dice innanzitutto che l’ecosistema, pur nei limiti che lo caratterizzano, cresce. E in modo sostenuto e 32

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costante, nonostante qualche ombra di troppo in termini economici. Al 31 marzo 2018, le imprese iscritte nello speciale Registro erano 8.897, in aumento del 6% (506 unità) rispetto a fine 2017. Tra le 337mila società di capitali con meno di cinque anni e cinque milioni di fatturato annuo, il 2,6% risultava registratocome startup innovativa alla data della rilevazione (nella ricerca e sviluppo l’incidenza aumenta al 65%).

In forte crescita, ed è un buon segnale, è anche l’indicatore relativo alla forza lavoro, in virtù dei 45.861 addetti coinvolti: considerando che un anno prima erano 35.672, l’incremento è quindi superiore al 28%. Se guardiamo nello specifico alla componente dei soci notiamo che ogni startup innovativa, in media, ne annovera più di quattro (contro i due riscontrati tra le altre società di capitali comparabili) e che il numero in un anno è cresciuto del 5,6% arrivando a quota 36.226. Per contro, le imprese a prevalenza femminile, in cui le quote di possesso e le cariche amministrative sono detenute in maggioranza da donne, sono solo 1.192 ovvero il 13,4% del totale. Ottimi anche i parametri inerenti il capitale sottoscritto, che in tre mesi registra un salto in avanti del 18%, passando dai circa 423 milioni di euro di fine dicembre ai 499 milioni di fine marzo (la media per impresa è di 56.097 euro, in salita dell’11%). Per quanto riguarda la distribuzione per settori di attività, oltre il 71% delle startup innovative fornisce servizi alle imprese e, in particolare, prevalgono specializzazioni quali la produzione di software e la consulenza informatica (sono il 32,2%) e l’attività manifatturiera, filone che abbraccia poco meno di una nuova startup su cinque. Analizzando la distribuzione geografica del fenomeno, invece, la Lombardia si conferma la Regione locomotiva dell’ecosistema con oltre 2.100 startup iscritte nel Registro, il 24% del totale nazionale. Seguono il Lazio con 911 (10,2%), regione che per la prima volta supera l’Emilia-Romagna, ferma invece a 884


(9,9%). Al quarto posto rimane il Veneto con 822 realtà (9,2%) e al quinto la Campania, prima area del Mezzogiorno con 658 (7,4%). La Regione con la più elevata quota di startup innovative in rapporto al totale delle società di capitali è sempre il Trentino-Alto Adige, con un’incidenza del 5%. Sugli indicatori economici e finanziari, infine, veniamo alle dolenti note. Stando ai dati di bilancio attualmente disponibili, relativi al 2016 e riguardanti solo il 55,6% delle startup iscritte, il valore della produzione medio per impresa è di circa 150mila euro, cifra in calo del 2,9% rispetto a quella rilevata nel trimestre precedente. L’attivo medio è pari a poco più di 263mila euro, anch’esso in diminuzione (dell’1,6%) rispetto alla precedente rilevazione. Possiamo poi guardare al fatturato 2016 complessivo delle attività che al 31 marzo scorso risultavano iscritte al registro delle imprese innovative (nella valutazione pesa la fuoriuscita dall’elenco delle aziende con oltre cinque anni di anzianità): il valore supera i 741 milioni di euro, ma risulta inferiore del 2,6% rispetto alla produzione espressa dalle startup iscritte a fine 2017 e si accompagna a un reddito operativo in rosso di 88 milioni. Nel 2016 le società che hanno chiuso in perdita sono state il 56,6% del totale. Gianni Rusconi

IL VENTURE CAPITAL NATO DALLE BANCHE Ci sono Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo fra i sottoscrittori del nuovo fondo indirizzato alle startup “late stage”.

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i chiama Indaco Ventures I, è stato varato a inizio maggio e tra i sottoscrittori (oltre a Indaco Venture Partners, Sgr nata contestualmente all’avvio del fondo e di cui gestirà il capitale), ci sono due importanti nomi dell’universo bancario italiano: Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo. Il fondo nasce per affiancare le startup italiane “late stage”, cioè già arrivate alla fase matura del proprio percorso di sviluppo e crescita, e parte con una dote di 130 milioni di euro, già sottoscritti. Gli obiettivi sono ambiziosi, perché nelle intenzioni degli investitori non c’è solo una raccolta di capitali sul mercato che dovrà superare i 200 milioni, cifra che per il nostro ecosistema dell’innovazione, affetto da nanismo cronico, è sicuramente significativa. Tra i compiti del team

che sarà alla guida di Indaco Ventures I (diversi noti manager del mondo del venture capital italiano, capitanati da Davide Turco) è inclusa infatti anche la scalata a livello europeo, in diretta competizione con i venture capital che si muovono su scala internazionale. Il piano strategico, in ogni caso, prevede investimenti in 20-30 società, principalmente startup attive nel campo del digitale, dell’elettronica e della robotica, delle tecnologie per la medicina e dei nuovi materiali. Più nel dettaglio, le operazioni di finanziamento si concentreranno su realtà i cui modelli di business derivano da tecnologie proprietarie d’avanguardia, con personale e soluzioni “Made in Italy” o comunque sviluppate in Italia e con l’idea di favorire la creazione di posti di lavoro qualificati sul territorio nazionale. Una piccola parte dei capitali, invece, verrà indirizzata a investimenti in startup “early stage” autrici di progetti effettivamente scalabili dal punto di vista economico e dotati di ambizioni internazionali.

UN ANNO DI LENDIX IN ITALIA: TRENTA LE PMI FINANZIATE L’obiettivo dichiarato per il breve termine è esplicito: operare in cinque mercati entro la fine del 2018, aggiungendo Paesi Bassi e Germania a Francia, Spagna e Italia, per poi espandersi in ulteriori sette Paesi entro la fine del 2019. Guardando ancora più avanti, c’è invece il traguardo di diventare la principale piattaforma digitale europea per i prestiti alle Pmi. Il piano di sviluppo di Lendix, così come ribadito da

Olivier Goy e Patrick de Nonneville, rispettivamente Fondatore e Coo della scaleup francese, è quindi ancora più ambizioso all’indomani di un nuovo round di finanziamento che ha portato nelle casse societarie, a inizio giugno, 32 milioni di euro. A sottoscriverlo hanno contribuito Idinvest Partners (una delle principali private equity europee), Allianz France, Cir Spa (la holding quotata in Borsa della famiglia De Benedetti) e tutti gli azio-

nisti storici (Partech, Cnp Assurances, Decaux Frères Investissements e altri). I numeri maturati fin qui dicono molto del ruolo giocato da Lendix nel settore del crowd-lending: sono oltre 350 le piccole e medie imprese finanziate, per un volume di prestiti erogati pari a 180 milioni di euro. I progetti italiani, dopo un anno di attività, sono 36, destinatari di quasi 18 milioni di euro, e i prestatori privati attivi circa 500.

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INNOVAZIONE | Startup

LE SCALEUP ITALIANE VANNO DI CORSA Le imprese tech più mature hanno raccolto oltre 90 milioni di euro di investimenti fra gennaio e maggio. Dall'e-commerce alle biotecnologie, ecco chi sono e che cosa fanno.

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l round da 46 milioni ufficializzato a fine maggio da Moneyfarm è solo l’ultimo di una promettente serie di operazioni di finanziamento che ha interessato le scaleup della Penisola. Complessivamente, hanno incassato dall’inizio dell’anno circa 90 milioni di euro e cinque di loro (oltre alla fintech milanese) hanno chiuso round di finanziamento a sei zeri. BrumBrum, portale di e-commerce dedicato alle auto, ha ricevuto a inizio anno un investi-

mento di 10 milioni da UV2, il nuovo fondo di United Ventures. In gennaio è arrivato anche l’aumento di capitale da 20 milioni di dollari, sottoscritto da Octopus Ventures e da altri fondi

EQUITY CROWDFUNDING AVANTI TUTTA È decisamente un traguardo importante quello raggiunto dalla piattaforma Mamacrowd, attiva dal 2016 e parte del network SiamoSoci. Per la prima volta, infatti, un portale italiano di equity crowdfunding oltrepassa la quota simbolica dei 10 milioni di euro, confermando lo stato di ottima salute di questo canale di finanziamento per le startup, che annovera realtà come Crowdfundme, Starsup e 200 Crowd. Non siamo certo al livello di altri Paesi, ma è indubbio che si tratti di un fenomeno

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che sta funzionando anche in Italia. Secondo le stime di CrowdFundingBuzz, l’equity crowdfunding nei primi cinque mesi del 2018 aveva già raggiunto la cifra dell’intero 2017, vale a dire circa 11,5 milioni di euro. E nel complesso, da quando questa disciplina è stata regolamentata, gli investimenti hanno sfiorato i 30 milioni. Tornando a Mamacrowd, i suoi numeri dicono che sono stati 2.700 gli investimenti e 26 le campagne chiuse fino a oggi, con un tasso di successo dell’89%.

già azionisti, per Depop, altra startup dell’ecommerce (moda e accessori) nata in pancia all’incubatore trevigiano HFarm. Molto rumore, poi, a maggio ha fatto il finanziamento di Freeda Media, autrice di un progetto editoriale dedicato alle donne tra i 18 e i 34 anni: a metterci 10 milioni di dollari, con un round serie A, sono stati il fondo francese Alven Capital e diversi investitori privati, tra cui vari family office italiani. Gli altri botti del 2018 sono stati quelli delle biotech EryDel e Medical Microinstruments. Alla prima, che ha sviluppato un dispositivo per il trattamento delle malattie neurodegenerative rare, sono andati 26,5 milioni di euro dal VC Sofinnova Partners, Genextra e Innogest Sgr. La seconda ha invece completato un finanziamento Series A da 20 milioni, guidato da Andera Partners, per accelerare lo sviluppo della propria piattaforma robotica per la microchirurgia. G.R.


MONEYFARM, IL FINTECH ITALIANO CHE FA SCUOLA IN EUROPA La scaleup milanese ha chiuso a fine maggio un nuovo finanziamento da 46 milioni di euro e punta al pareggio di bilancio nel 2019. In rampa di lancio nuovi prodotti di tipo pensionistico.

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apita molto raramente di poter annoverare un nome italiano fra le startup più finanziate di sempre, su scala europea, in un determinato settore. Nel caso di Moneyfarm, da sei anni attiva nel campo del risparmio gestito attraverso canali digitali, possiamo farlo in virtù del nuovo round di investimento, 46 milioni di euro, che la fintech fondata e guidata da Paolo Galvani e Giovanni Daprà ha annunciato a fine maggio. L’operazione ha visto fra i sottoscrittori Allianz Asset Management (che sale in qualità di lead investor a una quota qualificata di minoranza nel capitale), i fondi United Ventures e Cabot Square Capital (già precedenti investitori), Endeavor Catalyst e Fondazione di Sardegna. Il totale dei finanziamenti raccolti dalla startup è salito a 70 milioni di euro: cifra da record, appunto, fra le nuove imprese innovative della Penisola. Per Moneyfarm è quindi tempo di fissare nuovi obiettivi. “Vogliamo continuare a crescere sia in termini di clienti serviti sia in fatto di masse gestite”, ha confermato Galvani a Technopolis. “Il nuovo round sarà funzionale a portare l’azienda al break even operativo entro la fine del 2019”. La base su cui sarà costruito questo traguardo sono i numeri che la società ha svi-

Giovanni Daprà e Paolo Galvani

luppato dal 2012 a oggi fra Italia e Regno Unito: una base clienti triplicata nel corso del 2017 e che conta ora 27mila risparmiatori, un team di 90 professionisti in organico (fra le sedi di Londra, Milano e Cagliari) e asset gestiti in crescita del 225% negli ultimi dodici mesi. Moneyfarm è dunque pronta a un nuovo salto in avanti e l’aumento di capitale servirà, fra le altre cose, a supportare il progetto di espansione su scala internazionale. “Non abbiamo ancora identificato i nuovi mercati in cui operare in Europa”, spiegano a tal proposito i fondatori della società, “ma crediamo che la nostra piattaforma possa essere appetibile universalmente da utenti alla ricerca di un servizio di consulenza per i loro investimenti che sia trasparente, innovativo, indipendente, facile da usare e a basso costo”. Il primo passo per ampliare ulteriormente l’offerta sarà il lancio in Italia di un prodotto pensionistico (già disponibile

sul mercato britannico da un paio di mesi) che sarà aggiunto alla piattaforma entro fine anno o al più tardi a inizio 2019. Unicorno? No grazie

Per diventare un unicorno del fintech, emulando aziende come le statunitensi Betterment e Wealthfront (le stelle europee sono invece l’inglese Nutmeg e la tedesca Scalable Capital), la strada è ancora lunga. Ma Galvani assicura, convinto, che non è questo l’obiettivo in cima alle priorità, anche se l’idea di poter portare Moneyfarm a valere diverse centinaia di milioni di dollari, soprattutto agli occhi degli investitori, lo stuzzica parecchio. C’è un equilibrio fra crescita e stabilità economica da raggiungere e c’è, soprattutto, un’idea che si è già imposta come standard nel mercato del digital wealth management ma che è da consolidare e sviluppare ulteriormente. Gianni Rusconi

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SCENARI | | Intelligenza artificiale INNOVAZIONE

DA CHE PARTE STANNO DRONI E ALGORITMI? L’OCCHIO VOLANTE SMASCHERA I VIOLENTI La violenza ha vita breve se il drone osserva e ragiona con “intelligenza”. Un sistema sperimentale sviluppato a sei mani da tre ricercatori dell’Università di Cambridge, del National Institute of Technology di Warangal, India, e dell’Indian Institute of Science di Bangalore utilizza i velivoli automatici, il cloud e un software basato sul deep learning (una declinazione dell’intelligenza artificiale che usa schemi di ragionamento gerarchici). L’algoritmo è stato “allenato” con migliaia di immagini raffiguranti persone

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intente a compiere o subire atti di violenza, e ha così imparato a riconoscere azioni come calci, pugni, pugnalate e l’atto di sparare. Analizzando i filmati nel cloud, il programma riconosce i comportamenti violenti in tempo reale e li segnala a chi guarda il video attraverso i colori (con linee rosse applicate sulle persone sospette). Il sistema ha raggiunto un’accuratezza del 94% nel distinguere i gesti di violenza dagli altri, percentuale che scende al 79% se la scena è occupata da più di dieci soggetti.

Ha suscitato polemiche la collaborazione fra Google e il Pentagono per l'utilizzo del machine learning applicato ai velivoli militari. E sbocciano anche preoccupazioni in merito al riconoscimento facciale di Amazon usato dalle forze dell'ordine.


IL ROBOT DAGLI OCCHI DOLCI POTREBBE FARCI DEL MALE? Dietro gli occhioni del robot umanoide Pepper, creazione della francese Aldebaran Robotics (oggi posseduta da Softbank), si nasconde un’intelligenza artificiale che permette a questo dispositivo alto un metro e venti centimetri di osservare, scattare foto, recepire comandi vocali e comprendere le emozioni, distinguendo i toni di voce. Ma questo “robot di compagnia”, perfetto ospite di ambienti domestici, negozi, hotel e aeroporti, è facile da hackerare. Un gruppo informatici dell’Università Tecnica di Örebro, Svezia, ha scoperto un “preoccupante numero

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l timore che l’intelligenza artificiale possa diventare uno strumento di morte esiste, inutile negarlo. A quella che un tempo era la corsa agli armamenti si è in parte sostituita, nelle strategie militari degli Stati, una corsa all’algoritmo, al robot-soldato, al drone equipaggiato con capacità di analytics video che gli permettono di riconoscere un oggetto a distanza e, potenzialmente, di colpire con precisione. Google ha scelto di uscire dall’ambiguità prima che fosse tardi e non ha rinnovato oltre la scadenza del contratto (nel 2019) l’impegno in Project Maven, il progetto che la lega al Pentangono per la fornitura di tecnologie di machine learning. Nella sperimentazione in corso, gli algoritmi creati con TensorFlow, la libreria software della società di Mountain View, permettono di classificare oggetti o persone all’interno delle immagini filmate dai droni del Dipartimento della Difesa: questo coinvogimento non era piaciuto a migliaia di dipendenti, firmatari di una petizione in cui si chiedeva all’amministratore delegato di fare un passo indietro. E

così Sundar Pichai ha fatto, optando per l’uscita dal progetto ma anche ribadendo che “continueremo a lavorare con enti governativi e militari in molte altre aree. Fra queste, la cybersicurezza, l’addestramento, il reclutamento di militari, la salute dei veterani, la ricerca e il soccorso”. Google non è l’unico colosso tecnologico investito da polemiche. Lo scorso maggio Amazon è finita nel mirino di un’associazione di difesa del cittadino nordamericana, la American Civil Liberties Union, per via della propria tecnologia di riconoscimento facciale: Rekognition, un servizio basato su cloud che permette di individuare volti e oggetti all’interno di fotografie o video. Può, per esempio, comprendere lo stato d’animo di un individuo oppure la razza di un cane o la presenza di elementi quali occhiali, baffi, accessori – e fin qui tutto bene – ma anche catalogare l’appartenenza etnica dei soggetti. Il problema sta nel modo in cui le forze dell’ordine stanno usando o potrebbero usare questa tecnologia, che fra i clienti della prima ora annovera la polizia di

di gravi difetti di sicurezza”, relativi alla programmazione delle interfacce di connettività, allo storage, al trasferimento dei dati. In particolare, è allarmante il fatto che il dispositivo comunichi con una pagina Web realizzata in Http e non in Https. Le vulnerabilità permettono potenzialmente di intercettare credenziali, di rubare dati archiviati nella memoria interna, di hackerare altri dispositivi connessi con cui Pepper interagisce, di spiare le persone registrando di nascosto conversazioni e video e addirittura, scrivono i ricercatori, di “fare del male fisico a esseri umani”.

Orlando e l’ufficio dello sceriffo della contea di Washington. La American Civil Liberties Union ha protestato, tirandosi dietro una ventina di altre associazioni watchdog, dopo aver letto uno scambio di email tra ufficiali di polizia e dipendenti di Amazon: si discuteva di possibili usi del servizio Rekognition per analizzare filmati registrati da videocamere di sorveglianza, da microvideocamere nascoste sul corpo dei poliziotti e da droni. L’immagine di società (futura, ma neanche tanto) che emerge da tutto questo è un po’ inquietante e, se non da vero Grande Fratello, certamente sempre più vicina a scenari orwelliani. E tuttavia è difficile contestare l’argomentazione giunta da Amazon in risposta a queste polemiche: “La qualità della nostra vita sarebbe molto peggiore oggi se avessimo messo fuori legge le tecnologie nuove solo perché qualcuno potrebbe decidere di abusarne”, ha detto un portavoce, ricordando come il servizio Rekognition venga usato per scopi utili quali la ricerca di bambini smarriti. Valentina Bernocco 37


SCENARI | | Intelligenza artificiale INNOVAZIONE

UN VECCHIO SOGNO DIVENTATO REALTÀ Di intelligenza artificiale si parla da decenni. Oggi il concetto trova incarnazioni varie, dai sistemi antifrode alle app per la ricerca dell'anima gemella. portare, alla luce degli incidenti causati dai sistemi di Tesla e Uber). Alla base di tutto ci sono loro, gli algoritmi di apprendimento automatico: insiemi di istruzioni, strutturati su modelli matematici, che vengono “nutriti” di dati, “allenati” e lasciati liberi di impare e di perfezionarsi con la pratica. Su queste fondamenta, le applicazioni di intelligenza artificiale possono assumere innumerevoli aspetti e altrettante destinazioni d’uso. Le frodi hanno breve vita

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he ci crediate o no, di intelligenza artificiale si è cominciato a parlare ben prima dello sbarco sulla Luna e dell’invenzione dei personal computer. L’espressione e le basi teoriche della disciplina furono definite nel 1956 da un gruppo di scienziati e informatici statunitensi secondo i quali era possibile simulare attraverso le macchine “ogni aspetto dell’apprendimento o qualsiasi altra caratteristica dell’intelligenza” (vi faceva parte anche John McCarthy, che avrebbe poi vinto il Premio Turing proprio in virtù del suo contributo nel campo dell’AI). La tecnologia come la conosciamo oggi, nelle sue mille declinazioni, sembra però essere diventata qualcosa di diverso da una semplice replica del ragionamento umano. È 38

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piuttosto un’amplificazione del cervello, che può tradurre simultaneamente da una lingua all’altra, intavolare conversazioni su un’app per smartphone o con un chatbot, averla vinta su un campione in una partita di scacchi, riconoscere un volto tra la folla (se è vero che in Cina un ladro ricercato da anni è stato individuato da una videocamera mentre usciva da uno stadio), imparare i gusti e prevedere le scelte d’acquisto di un cliente, ottimizzare i consumi energetici di un data center o di un’abitazione, correggere in automatico uno scatto fotografico mal riuscito, e ancora dare voce, orecchie e capacità di ragionamento a un robot, o permettere a un’automobile di fare a meno di due mani sul volante (con qualche perfezionamento ancora da ap-

Dalla sua nascita, cinque anni fa, la piattaforma Fraud.net ha permesso di smascherare più di 432mila truffatori che tentavano di ottenere guadagni illeciti attraverso siti di e-commerce. Con il machine learning (quello di Amazon Web Services, nella fattispecie) servizi come questo analizzano i comportamenti fraudolenti per derivarne una serie di “indizi” sospetti e poi dei veri e propri modelli predittivi. Alla ricerca dell’anima gemella

Per i suoi 50 milioni di iscitti alla ricerca dell’anima gemella o anche di un semplice appuntamento, Tinder elabora milioni di richieste al minuto, di uomini e donne che segnalano con il gesto dello “swipe” sulla foto di altri utenti il proprio interesse per la persona in questione. L’applicazione si serve di un servizio cloud di Amazon Web Services, Sagemaker, per costruire modelli predittivi e scoprire connessioni tra i profili. Valentina Bernocco


TUTTI A MANGIARE NEL PIATTO DELL'AI Amazon, Apple, Google e Microsoft si rincorrono nel lancio di nuove tecnologie e servizi, per Pc, smartphone e mondo del lavoro, in un mercato che si avvia a valere oltre 19 miliardi di dollari.

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iamo appena all’inizio di una trasformazione che ci porterà chissà dove. Secondo le stime di Idc, quest’anno la spesa mondiale in tecnologie di computing cognitivo e intelligenza artificiale aumenterà del 54% sul 2017, raggiungendo un valore di 19,1 miliardi di dollari. Un piatto ricco, da cui tanto i colossi dell’Ict quanto le startup intendono mangiare: limitandoci ai primi, gli annunci recenti nel campo dell’AI ben mostrano quanto il settore sia in fermento. Senza pretese di completezza, ecco alcuni dei progetti e novità più interessanti.

Microsoft

La società di Redmond sta studiando come impiegare l’assistente virtuale di Windows, Cortana, nelle applicazioni di videoconferenza. Nelle dimostrazioni andate in scena all’evento Build 2018 si è visto il software agire da “segretaria” (che pianifica le riunioni, prenota le sale conferenza, invia notifiche e produce trascrizioni testuali) e da “interprete” che traduce in simultanea le conversazioni. Nell’aggiornamento di aprile di Windows, invece, ha debuttato un’interfaccia di programmazione per applicazioni (Api) che permette agli sviluppatori di usare modelli di apprendimento automatico preallenati per creare soluzioni di vario tipo (per esempio, per l’analisi di immagini e video e per il miglioramento dell’indicizzazione dei file). Microsoft

sta anche collaborando con Dji, il principale produttore mondiale di droni, per realizzare un nuovo kit di sviluppo software: con le future applicazioni che ne deriveranno, si potrà usare un Pc o un tablet per pilotare i velivoli. Google

L’assistente virtuale dei telefoni Android sta imparando a conversare in modo sempre più naturale. Google Assistant ha fatto bella figura sul palco di una recente convention nella quale ha saputo fare una telefonata e prenotare un appuntamento dal parrucchiere, spacciandosi per una interlocutrice in carne e ossa (per l’occasione, era stata scelta una voce femminile) con tanto di pause e interiezioni davvero realistiche. Nella prossima versione di Android (Android P), inoltre, attraverso uno specifico kit di sviluppo si potranno facilmente integrare nelle app funzioni come il riconoscimento automatico delle immagini, l’acquisizione di testi e la lettura di codici a barre. Amazon

Secondo indiscrezioni circolate lo scorso febbraio, il colosso di Seattle starebbe cercando di mettere a punto un chip specifico per le attività di intelligenza artificiale degli smart speaker Echo, all’interno dei quali opera il programma di assistenza vocale Alexa. Ha fatto parlare di sé recentemente anche il servizio

Rekognition (vedi articolo a pag. 37), che attraverso il cloud di Aws permette di attribuire un’identità a un volto fotografato o ripreso da ua videocamera, così come di scovare automaticamente un elemento in un’immagine. Gli impieghi spaziano dalla videosorveglianza al marketing. Rekognition è stato usato anche per identificare i volti famosi nelle riprese del matrimonio reale fra il principe Harry e Meghan Markle. Apple

L’intelligenza artificiale creata a Cupertino lavorerà anche al servizio degli spostamenti su quattro ruote, ma di questo ancora si sa poco: da anni si chiacchiera di una futura “Apple Car”, o “iCar”, una vettura a guida autonoma o semiautonoma di cui l’azienda di Tim Cook curerà la parte software. Per ora, i frutti dell’AI di Apple si raccolgono soprattutto sull’iPhone. Con iOS 12 l’assistente Siri ha guadagnato nuove abilità, potendo eseguire catene di azioni complesse e personalizzate. Se, per esempio, l’utente si sta avvicinando a casa dopo una giornata di lavoro, pronunciando una frase preimpostata può chiedere a Siri di impostare il termostato smart su una data temperatura, riprodurre una playlist musicale sull’autoradio, mandare un Sms o avviare la navigazione Gps verso l’indirizzo di destinazione.

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INNOVAZIONE | Blockchain

AL MONDO FINANZIARIO PIACE LA CATENA Su scala globale crescono in modo sostanziale gli investimenti dei VC nelle startup della blockchain. E le banche, anche quelle italiane, si stanno organizzando per integrare la tecnologia nelle procedure più complesse. Che cosa manca? Uno standard condiviso.

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l mondo della finanza è sempre più vicino alla blockchain. Nei primi cinque mesi del 2018 i grandi fondi di venture capital hanno investito 1,3 miliardi di dollari in startup legate alla catena di blocchi, contro i 900 milioni messi sul piatto lungo tutto il 2017. Un’impennata da record, sottolineata dai numeri elaborati da Crunchbase, che tra l’altro non tiene conto delle Ico: si tratta delle offerte iniziali di valuta effettuate dalle giovani aziende impegnate sul fronte della blockchain per sostenere le proprie attività. Secondo dati di Icorating, soltanto nel primo trimestre dell’anno le startup hanno raccolto 3,3 miliardi di dollari “forgiando” le proprie monete digitali, che vengono scambiate con

valuta fiat. E anche nel panorama della catena di blocchi spuntano i primi unicorni: l’exchange online Coinbase e l’applicazione per il trading da mobile Robinhood hanno già superato il miliardo di dollari di valutazione. Un’attrazione fatale

Ma non sono soltanto i grandi fondi di capitale di rischio a essere interessati ai registri distribuiti. Anche le banche si stanno muovendo da tempo su questo fronte, allo scopo di rendere alcuni processi più efficienti. Come, ad esempio, la spunta interbancaria: è questo l’obiettivo di una serie di test condotti in Italia da Abi Lab con 14 istituti di credito, avviati per valutare la possibilità di integrare soluzioni blockchain in una procedura da


sempre complessa e farraginosa. La spunta consiste infatti nella verifica e nella riconciliazione della corrispondenza delle attività che interessano due istituti di credito differenti: una serie di operazioni che possono provocare discrepanze complesse da gestire per le banche. In questo scenario giocano un ruolo fondamentale i cosiddetti contratti intelligenti, capaci di attivarsi in automatico al verificarsi di determinate condizioni. Ricorrendo agli smart contract veicolati dai registri distribuiti Corda sviluppati da R3, gli istituti potranno effettuare il riscontro automatico delle transazioni bancarie, semplificando così tutto il processo di riconciliazione. Ma l’attrazione dei colossi finanziari verso la tecnologia “sdoganata” dai bitcoin non è, ovviamente, soltanto italiana. Pur trovandosi ancora in una prima fase di esplorazione, le principali banche del mondo stanno guardando con interesse sempre maggiore alla catena di blocchi, in particolar modo per accelerare il proprio percorso di trasformazione digitale.

SMARTPHONE A BLOCCHI Catapultato nel 2018, l’extraterrestre E.T. non direbbe più “telefono, casa”, bensì “telefono, blockchain” e gli autori di questo nuovo copione fantascientifico sarebbero gli ingegneri di Htc: l’azienda taiwanese ha infatti svelato Exodus, concept di cellulare in grado di funzionare come un nodo della catena di blocchi. I dettagli tecnici al momento scarseggiano e l’azienda si è limi-

tata a spiegare che si tratterà di un dispositivo basato su sistema operativo Android e dedicato ad applicazioni decentralizzate. Di serie sarà presente anche un wallet per criptovalute come bitcoin ed ethereum. Htc non è però la prima a ideare un progetto di questo genere: il record spetta a Sirin Labs, ideatrice di Finney, smartphone per la blockchain da 16mila euro (nella foto).

I “registri” parlano giapponese

“Il potenziale è enorme”, ha dichiarato di recente Ralph Hamers, Ceo di Ing Group, sottolineando come lo scetticismo iniziale sembri ormai essere un ricordo del passato. “Se le prime cinque o sei banche del mondo dovessero riuscire a elaborare uno standard condiviso, allora questo si imporrebbe” in tutto il pianeta, ha aggiunto Hamers, sottolineando come l’orizzonte temporale a cui guardare sia di soli cinque o sei anni. Dichiarazioni ad alto tasso di fiducia, sostenute anche dai commenti di Carlos Torres Vila, amministratore delegato della spagnola Bbva. “Crediamo che la blockchain possa mantenere le proprie promesse. Siamo ancora agli albori della tecnologia, ma pensiamo possa rendere i processi molto più efficienti. Ovviamente, dovremo verificarne gli sviluppi nei prossimi anni”. Chi ha deciso di non perdere tempo è però Mitsubishi Ufj Financial Group

(Mufg), prima banca nipponica e quinta al mondo, che ha annunciato l’intenzione di offrire una nuova rete di pagamento online basata su blockchain. L’infrastruttura è progettata per elaborare oltre un milione di transazioni al secondo, con latenze inferiori ai due secondi per operazione. Numeri impressionanti, se si considera che la rete di Visa è in grado di sostenere qualche migliaio di pagamenti al secondo. L’obiettivo del colosso finanziario del Sol Levante è quello di lanciare un nuovo sistema di pagamenti rapidi in Giappone nella seconda metà del 2020. Si tratterà di una serie completa di servizi, che includerà il supporto per l’elaborazione delle transazioni, soluzioni pay-per-use, micropagamenti e altre operazioni basate sull’Internet delle cose. Alessandro Andriolo

L’ALLEANZA DEI BIG I colossi dell’automotive si mettono al volante della blockchain. Nomi del calibro di Bmw, Ford, Renault e General Motors hanno fondato Mobi (Mobility Open Blockchain Initiative), con l’ambizioso obiettivo di rendere il mercato dei trasporti più sicuro, accessibile ed economico. Al centro del lavoro dell’alleanza, che riunisce anche fornitori tecnologici come Iota, Ibm e Hyperledger, ci saranno soprattutto i contratti intelligenti abilitati dalla catena di blocchi e la definizione di nuove tecnologie per il tracciamento dei dati e la gestione della supply chain.

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INNOVAZIONE | Blockchain

SOLO I PROGETTI MIGLIORI SOPRAVVIVRANNO Un mercato sempre più maturo porterà a una naturale selezione delle iniziative più credibili e, di conseguenza, ce la faranno solo quelle che sapranno attrarre i maggiori investimenti.

ORO DIGITALE Dalla “moneta” più antica del mondo alla nuova valuta digitale. Un accordo siglato da Confinvest, società operante nel mercato italiano dell’oro fisico da investimento, e il portafoglio mobile per bitcoin Conio consentirà ai possessori di lingotti e monete di scambiare i propri asset in criptovaluta. L’operazione richiede semplicemente la consegna fisica dell’oro a Confinvest, la quale lo valuta e invia il controvalore in bitcoin verso l’account Conio dell’utente (e viceversa).

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he futuro attende la blockchain e le initial coin offering (Ico)? Si prospetta una crescita del mercato, ma anche una selezione naturale che permetterà solo ai team e alle iniziative migliori di accedere a nuovi capitali. Basti pensare che Telegram, il sistema russo di messaggistica online, ha varato un progetto ambizioso di Ico con l’obiettivo di raccogliere 2,5 miliardi di dollari in tre round. E i primi due, da 850 milioni ciascuno, si sono chiusi con un anno di anticipo in prevendita. Con l’ultimo, atteso per fine 2018, il gruppo avrà le risorse per competere anche con Facebook e la cinese Wechat. Più vicino a noi, la prima Ico “italiana” (il team è del nostro Paese ma è realizzata

in Svizzera), lanciata il 16 gennaio, ha raccolto in novanta minuti l’equivalente di 16 milioni di dollari da tutto il mondo, con una oversubscription di altri sei milioni. Parliamo della piattaforma Charity Star, su cui esponenti dello spettacolo e dello sport possono contribuire a una causa non-profit associandole il proprio marchio. La blockchain, tecnologia resa popolare dai bitcoin, è destinata a diventare lo strumento principe del crowdfunding. E non è un caso che, appunto, i migliori team e le idee di impresa più brillanti, insieme ai progetti più promettenti, stiano valutando di andare in tale direzione per la raccolta dei capitali. Ci saranno sicuramente un processo di maturazione del mercato, regole più chiare, maggiore protezione per gli investitori, ma questo non fermerà il processo, anzi. Oggi milioni di persone nel mondo sono già coinvolte nelle criptovalute, tutte alla ricerca di nuove opportunità di investimento e di rendimenti in un periodo in cui il ritorno sicuro non esiste più e le prestazioni degli strumenti tradizionali (comunque esposti a rischi) sono fiacche. L’eccesso di liquidità, fino a ora riversatosi nelle Borse di tutto il mondo, sta cercando nuovi sbocchi e opportunità, che la blockchain e le sue applicazioni possono fornire. Nel giro di dieci anni questo fenomeno cambierà radicalmente Internet e il mondo che noi conosciamo. Fabio Pezzotti, fondatore e amministratore delegato di Iconium


VIA ALLA FILIERA DIGITALE DEL CIBO

PROVE GENERALI DI REGISTRI DISTRIBUITI Le assicurazioni fanno scuola nell’utilizzo della blockchain, grazie al cloud e alle soluzioni di data analytics.

C’

è anche lo zampino di Microsoft nel primo contratto di assicurazione nautica siglato sulla blockchain. Il gigante di Redmond ha partecipato, insieme a nomi importanti del panorama assicurativo e consulenziale mondiale come Ey, alla realizzazione di una soluzione basata sui registri distribuiti per trasformare questo mercato e i rapporti fra aziende e broker. L’obiettivo, almeno per il primo anno di attività della catena di blocchi, è quello di processare oltre 500mila transazioni contabili, gestendo il rischio per mille navi commerciali. Sfruttando il cloud di Microsoft Azure e i sistemi di analisi dati di Acord, la società di consulenza assicurativa Willis Towers Watson è riuscita quindi per la prima volta a proporre la stesura e l’attivazione di uno smart contract a un proprio cliente. L’azienda statunitense ha definito la

blockchain “una tecnologia rivoluzionaria”, suggerendo che tutti gli operatori e i broker dovrebbero adottarla “per aumentare l’efficienza delle transazioni e proporre innovazione ai clienti”. Ma, secondo Willis Towers Watson, i registri distribuiti sono ormi pronti per essere testati anche in altri settori: dall’aviazione al mondo delle utility, passando per la logistica. E quest’ultimo è forse uno degli ambiti più promettenti. Non a caso il London Bullion Market Association, il mercato di Londra dedicato a oro e argento, ha chiuso di recente una raccolta di progetti per sviluppare nuove soluzioni in grado di tracciare tutta la vita del prezioso metallo giallo: dalla miniera in cui viene estratto al prodotto finito. Una supply chain valutata in circa duecento miliardi di dollari, che potrebbe essere ottimizzata con la blockchain. Il London Bullion Market Association ha per ora raccolto 25 idee, la maggior parte delle quali basata sulla catena di blocchi, e deciderà quale progetto adottare nella prima metà dell’anno prossimo. A.A.

Non solo bitcoin e contratti intelligenti, ora anche le uova finiscono direttamente sulla blockchain. Seeds&Chips – The Global Food Innovation Summit, Ibm e Coop hanno lanciato la call for ideas “Great Eggspectations!” per sostenere progetti innovativi riguardanti la filiera di questo alimento, di cui l’Italia è uno dei principali produttori europei con 850mila tonnellate l’anno e 1,5 miliardi di euro di giro d’affari. Startup, università e centri di ricerca avranno tempo fino al 15 luglio per presentare soluzioni che sappiano sfruttare la blockchain per monitorare, ad esempio, la catena di distribuzione oppure per facilitare la tracciabilità delle uova. Il premio sarà duplice: Coop darà la possibilità ai vincitori (che saranno proclamati il 15 settembre) di sviluppare per sei mesi il proof of concept del progetto all’interno della propria filiera, mentre Ibm metterà a disposizione un credito di 120mila euro per l’utilizzo dei propri servizi cloud Watson IoT, Blockchain e Cognitive Computing.

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ECCELLENZE.IT | Gruppo Montenegro

L'AMARO DAL “SAPORE VERO” TIENE I LOG SOTTO CONTROLLO Il produttore di bevande bolognese può rispettare le richieste della normativa del Garante della Privacy grazie alla soluzione di Sgbox.

L

e origini della sua bevanda da fine pasto risalgono al 1885, mentre il riuscito slogan dell'amaro dal “sapore vero” spopolò negli anni Ottanta del secolo scorso. Il Gruppo Montenegro non pensa però solo al passato, ma anzi affronta l'attualissimo tema della gestione dei dati dotandosi di soluzioni tecnologiche capaci di garantire la massima sicurezza ai dati stessi e la massima visibilità su tutte le operazioni svolte a livello di sistema informatico. Il produttore di bevande di Zola Predosa, Bologna, aveva la necessità di garantire alcuni adempimenti richiesti dalla normativa del Garante della Privacy: doveva dotarsi di un amministratore di sistema e allo stesso tempo di strumenti di monitoraggio delle attività di questa figura. “La nostra azienda era alla ricerca di un partner affidabile che ci consentisse di assolvere facilmente e velocemente alla normativa sulla privacy”, racconta Roberto Mozzillo, responsabile security e infrastruttura di networking di Montenegro. La scelta è ricaduta su Sgbox, fornitore dell'omonima piattaforma di controllo e gestione della sicurezza informatica aziendale: più precisamente, la sua è una soluzione Siem (security information and event management) modulare per la gestione dei log, il vulnerability management, il rilevamento di attacchi informatici, la conformità e l’auditing. “Gruppo Montenegro ci ha contattato per assolvere una normativa, quella del Garante della Privacy, il cui scopo 44

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è quello di evitare che il trattamento dei dati avvenga senza il consenso dell'avente diritto, ovvero in modo da recargli pregiudizio”, aggiunge Massimo Turchetto, Ceo e fondatore di Sgbox. A convicere Montenegro sono state soprattutto “la notevole qualità e la flessibilità della soluzione”, precisa Mozzillo. È stata, quindi, adottata una soluzione che può raccogliere log di qualsiasi formato da qualunque fonte di dati, senza la necessità di dover installare alcun agente proprietario per una specifica piattaforma. “Sgbox”, sintetizza Mozzillo, “ottempera all’obbligo di acquisizione dei log di accesso degli amministratori di sistema, conservandoli per almeno sei mesi con modalità che garantiscono la completezza, l’inalterabilità e l’integrità del dato. Una volta raccolti i log, la soluzione è in grado di comprimerli, cifrarli e firmarli, ponendo dunque una marca temporale”.

LA SOLUZIONE La soluzione di Log Management di Sgbox utilizza un motore di riconoscimento e normalizzazione dei log (file che contiene la cronologia delle attività svolte da un sistema operativo, da un programma o da un database), associato a un'iterfaccia utente da cui è possibile aggregare i dati originati da tutte le piattaforme presenti in azienda. Il modulo “Garante Privacy” è stato posizionato su un ambiente virtuale, potendo così tracciare ogni log in seguito agli accessi degli amministratori di sistema sui server. È possibile eseguire analisi in tempo reale sui dati raccolti oppure sullo storico dei log, potendo poi visualizzare i risultati su grafici o su report dettagliati.


ECCELLENZE.IT | Lumsa

IT IPERCONVERGENTE E VIRTUALE AL SERVIZIO DEL SAPERE Con la tecnologia Primeflex di Fujitsu l'ateneo privato romano ha migliorato la gestione dei terminali thin client, la sicurezza dei dati e la scalabilità dell'intera infrastruttura. LA SOLUZIONE Lumsa ha adottato un'infrastruttura iperconvergente Fujitsu Primeflex for VMware vSAN, con la quale l'It può gestire da un'unica consolle centralizzata tutte le postazioni vituali, configurazioni, aggiornamenti software e policy di sicurezza. Altre tecnologie Fujitsu in uso sono il server Primergy RX2540 e una sessantina di thin client Futro L420 (in futuro si arriverà a duecento).

L'

università italiana viaggia verso una maggiore flessibilità, sicurezza dei dati e modernità tecnologica. Così accade, se non altro, per un ateneo privato romano meglio noto attraverso il suo acronimo, Lumsa. Fondata nel 1989 (l'origine del precedente istituto per religiose è del 1939, poi fu aperto l'accesso anche ai laici), la Libera Università Maria Santissima Assunta conta oggi circa trecento docenti e seimila iscritti ai propri corsi di laurea in scienze umane, economiche, poliche, giurisprudenza e lingue straniere nella sede romana e in quelle di Palermo, Taranto e Gubbio. “Da anni abbiamo intrapreso un percorso di innovazione tecnologica finalizzato all’adozione di server virtuali e thin client”, racconta il chief Information officer, Vincenzo Lezzi. “Queste tecnologie, adoperate da studenti e docenti, hanno portato grandi vantaggi in termini di efficienza, manutenibilità, sicurezza, semplicità d’uso e risparmio energetico”. In altre parole, i thin client possono essere gestiti da remoto attraverso

un’unica console centralizzata, risultando una soluzione più economica, flessibile e sicura rispetto ai classici sistemi desktop. In anni recenti Lumsa ha scelto di imboccare la strada della virtualizazione, sia per semplificare la gestione dell'infrastruttura tecnologica da parte dell'It, sia per garantire migliori servizi a docenti e studenti. Erano state attivate, dunque, un centinaio di postazioni virtualizzate e un sistema San (storage area network) dotato di dischi meccanici. Nel 2017 si è deciso di compiere un ulteriore passo: adottare un'architettura iperconvergente, ovvero un sistema hardware e software che riunisce capacità di archiviazione, calcolo e servizi di rete. Un tipo di tecnologia adatto a supportare i client virtualizzati. La gara indetta dall’ateneo è stata vinta da Fujitsu in qualità di fornitore tecnlogico e da Pcs Group in qualità di system integrator, essendo risultata la loro proposta come la più economica e facile da gestire. “Il progetto è nato per incrementare e al tempo stesso migliorare il precedente sistema di

ateneo per la virtualizzazione dei server e dei client”, aggiunge Luca Gammelli, Cto di Pcs Group, “e ha previsto una prima fornitura di sessanta postazioni Thin Client Fujitsu Futro, con il relativo software di sistema. L’architettura è stata però da subito dimensionata pensando a immediati aumenti delle postazioni, senza precludere cioè sviluppi futuri”. Consentendo di gestire tutti i terminali da un'unica console, distribuendo da qui anche aggiornamenti software e policy di sicurezza, la soluzione ha subito determinato vantaggi “in termini di rapidità di deploy, di flessibilità nelle configurazioni mutevoli in aderenza alle diverse figure professionali che gravitano attorno all’ateneo e, non ultimo, a una agilità per quanto attiene al management centralizzato del parco client”. Altri benefici ottenuti sono il miglioramento della sicurezza dei dati, la maggiore velocità di configurazione dei client e la possibilità di scalare l'infrastruttura per futuri progetti. A tal proposito, è in programma l'adozione di altri 140 thin client. GIUGNO 2018 |

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ECCELLENZE.IT | Teatro Carignano

LO SPETTACOLO PIÙ “GREEN” VA IN SCENA A TORINO

Sulla superficie di 3.800 metri quadri dell'edificio, la startup Enerbrain ha realizzato un impianto automatizzato di riscaldamento e raffreddamento basato su sensori e intelligenza artificiale.

A

teatro tutte le attenzioni sono concentrate sugli attori e sulla storia rappresentata in scena. Ma c'è un “dietro le quinte” a cui quasi mai si pensa, se non quando qualcosa non funziona perfettamente: il lavoro degli impianti che assicurano energia e il giusto livello di temperatura agli ambienti. A Torino c'è un riuscito esempio di progetto tecnologico che ha abbattutto i costi di riscaldamento e raffreddamento, nonché migliorato la qualità dell'aria in uno spazio decisamente ampio e composito. Lo storico Teatro Carignano (l'edificio ospite risale al Diciassettesimo secolo, ma è stato più volte danneggiato e ristrutturato) può vantarsi non solo di aver fatto esibire mostri sacri della recitazione come Mariangela Melato, Vittorio Gassman, Dario Fo, Eduardo De Filippo, Umberto Orsini e Toni Servillo, ma anche della sua efficienza energetica 46

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“smart”. Sotto la gestione della Fondazione Teatro Stabile di Torino è stato realizzato un progetto di riqualificazione energetica basato sulle soluzioni della startup piemontese Enerbrain. Si è partiti dall'analisi dei diversi ambienti dell’edificio, svilppati su 3.800 metri quadrati fra platea, gallerie, palcoscenico, foyer, camerini e guardaroba, ambienti caratterizzati da dimensioni e utilizzi differenti. Una volta individuate alcune “zone termiche”, simili per caratteristiche, si è poi proceduto con l'installazione del sistema di monitoraggio: dapprima sono stati applicati dei sensori e un energy meter per la contabilizzazione dei consumi elettrici, mentre in un secondo tempo è stata pianificata la fase di attuazione vera e propria. Il sistema installato comprende sensori ambientali e attuatori, che affiancano, senza sostituirli, gli impianti di climatizzazione esistente e che monitorano

regolarmente parametri come l'umidità, la temperatura, il livello di anidride carbonica e il numero di persone presenti nell'edificio. “Il teatro è un luogo perfetto per il nostro sistema per via dell'ampiezza e soprattutto per l'enorme flusso di persone”, sottolinea Giuseppe Giordano, Ceo di Enerbrain. “L'andirivieni provoca cambiamenti continui sui quali i sensori incidono perfettamente, riducendo gli eventuali sprechi di calore e modulando in maniera costante la temperatura”. I dati vengono elaborati da algoritmi di machine learning adattativi (capaci cioè di capitalizzare le informazioni per far evolvere il sistema nel tempo) e trasmessi in tempo reale agli attuatori, i quali intervengono sulla regolazione dei parametri. Risultato: condizioni di temperatura ideali per attori, spettatori e personale e qualità dell'aria migliorata, a fronte di una riduzione del 23% della spesa energetica in bolletta e di un taglio di emissioni di CO2 fra l'avvio del progetto e l'estate 2018 stimato in 15 tonnellate (la quantità assorbita da 99 alberi). Un vero e proprio “retrofit energetico” che ha reso smart un edificio con oltre 300 anni di storia, trasformandolo nel teatro più “green” d'Italia. LA SOLUZIONE Il sistema comprende 14 sensori ambientali e nove attuatori che monitorano umidità, temperature, livelli di C02 e presenza di pubblico. L'algoritmo di machine learning calcola come ottenere qualità dell’aria e temperatura ideali a fronte del minimo consumo. Una dashboard analitica, accessibile da Pc o app per smartphone, consente di monitorare i parametri.


ECCELLENZE.IT | Veritas

PC E SERVER D'ANNATA SEMPRE AGGIORNATI E PROTETTI Computer, macchine virtuali, server e reti della multiutility veneta sono protetti dalle soluzioni di Trend Micro. Il problema dei sistemi operativi non più supportati è stato risolto.

È

una tra le principali multiutilty italiane interamente di proprietà pubblica e la più grande della sua regione per dimensioni e fatturato. Veritas, acronimo di Veneziana Energia Risorse Idriche Territorio Ambiente Servizi, si occupa di gestire l’igiene ambientale, la fornitura idrica, alcuni servizi urbani collettivi e la produzione di energia da fonti rinnovabili e biomasse per un territorio di 2.650 chilometri quadrati, popolato da 930mila abitanti. Dal punto di vista informatico, fino a due anni fa la situazione non era rosea: le soluzioni usate per difendere i dispositivi e la posta elettronica lasciavano a desiderare e, come spiega il responsabile sistemi informativi, Stefano Nironi, “avevano mostrato parecchie lacune”. Gli antivirus non godevano dalla fiducia di Veritas e “inoltre trovavamo molte macchine sconnesse e non protette”, ammette l'informatico. Come se non bastasse, molti server “che non potevano essere dismessi” impiegavano sistemi operativi non più supportati, come Windows 2003, mentre nei laboratori campeggiavano computer con a bordo Windows XP, anch'essi impossibili da pensionare perché “associati a strumenti molto costosi e perfettamente funzionanti”, spiega Nironi. “Tecnicamente cambiare ogni singolo strumento ci sarebbe costato parecchie migliaia di euro”. Da qui la necessità di una miglior difesa per un'infrastruttura costituita da un data center interno (con sistemi di storage fisico NetApp e virtual farm Vmware), che gestisce circa 200 macchine virtuali ed eroga i servizi verso tutte le sedi remote, per un totale di circa duemila postazioni di lavoro. Veritas si è dunque rivolta al sistem

integrator bresciano Personal Data. “Ci è stato proposto Trend Micro”, racconta Nironi. “Abbiamo analizzato il prodotto e ci è piaciuto per come affronta e risolve le minacce, ma soprattutto per il fatto che va alla ricerca di quelle sconosciute e non solo di quelle già note”. È stata quindi adottata LA SOLUZIONE All'interno di Deep Security, OfficeScan è la tecnologia di difesa degli endpoint, comprensiva di machine learning e monitoraggio comportamentale. La protezione delle reti è affidata a Deep Discovery, che svolge sia attività di rilevamento delle minacce (con sandboxing, blocco del phishing, scoperta dei malware noti e zero-Day, monitoraggio del traffico di rete per la scoperta di attacchi mirati) sia quella di contenimento e riparazione (remediation). Tutte le soluzioni comunicano in tempo reale tra di loro e sono gestite da una console centralizzata.

Deep Security, soluzione capace di proteggere anche i server grazie a funzioni di patching virtuale e intrusion prevention. Le attività svolte riguardano sia la difesa degli endpoint sia quella delle reti: identificazione della posta elettronica malevola (phishing), scoperta di malware e della relativa origine (server di comando e controllo usati da cybercriminali), monitoraggio del traffico per accorgersi di anomalie e attacchi mirati, e altro ancora. Una delle tecnologie incluse nella soluzione, Deep Discovery Inspector, monitora tutte le porte della rete e più di un centinaio di protocolli. I risultati si sono visti: “Fino a oggi noi siamo riusciti a bloccare tutti i tentativi di attacco e non abbiamo avuto nessun caso di ransomware”, assicura il responsabile dei sistemi informativi. “Le soluzioni Trend Micro ci hanno permesso di proteggere anche i vecchi Pc”. Veritas sta ora valutando la sostituzione dell’attuale firewall con uno Trend Micro e ha già in programma l'adozione di un'altra tecnologia dello stesso vendor per proteggere i 250 dispositivi mobili usati dai dipendenti per connettersi alla rete della multiutiity. GIUGNO 2018 |

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VETRINA HI-TECH

ESTATE OUTDOOR Droni, macchine fotografiche, altoparlanti e auricolari wireless, braccialetti intelligenti, navigatori Gps: ecco una carrellata di nuovi gadget per il tempo libero. Rigorosamente all'aperto. PARROT ANAFI Più che un drone, sembra una videocamera professionale. Anafi è il primo quadricottero di Parrot a montare un dispositivo di registrazione con risoluzione 4K stabilizzato su tre assi, in grado di inclinarsi di 90 gradi verso il basso e verso l’alto. Il sensore è da 21 megapixel. Si tratta anche del primo drone pieghevole prodotto dall’azienda francese. Il range è di quattro chilometri e l’apparecchio può librarsi in volo fino a un’altezza di 150 metri, con un’autonomia di 25 minuti. Il prezzo? Circa 700 euro.

GARMIN EDGE 520 PLUS Strade e sentieri non hanno più segreti per i ciclisti con la novità di Garmin. Edge 520 Plus è un Gps bike computer che associa le funzioni di navigazione al tracciamento dell’attività, oltre che alla cartografia Garmin Cycle Map. Ideale per ciclisti su strada e per amanti dell’off-road che puntino ad avere ottime prestazioni in gara, l’Edge 520 Plus è compatibile con lo store Connect Iq e presenta le app Training Peaks e Best Bike Split, per programmare attività e allenamenti quotidiani. Il prezzo consigliato al pubblico parte da 299,90 euro.

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XIAOMI MI BAND 3

Un fitness tracker completo, di qualità e proposto a un prezzo modesto. Il Mi Band 3 di Xiaomi costa infatti poco più di 20 euro e offre un display Oled da 0,78 pollici con risoluzione 128 x 80 pixel e supporto per le gesture, Bluetooth 4.2, near field communication e una batteria da 110 mAh (per venti giorni di autonomia). Presenti anche il sensore di battito cardiaco e la certificazione Ip67, che dà la possibilità di immergersi fino a cinquanta metri.


SENNHEISER CX SPORT Leggeri, compatti, resistenti agli schizzi d’acqua e al sudore: sono gli auricolari senza fili Cx Sport di Sennheiser, pensati per i veri maniaci dello sport. Oltre al Bluetooth 4.2, fra le caratteristiche principali spiccano il sistema di amplificazione brevettato per assicurare alta qualità sonora, con particolare attenzione per la riproduzione dei bassi, e le sei ore di autonomia. Con dieci minuti di carica è possibile utilizzare gli auricolari per un’ora, mentre per la ricarica completa sono necessari novanta minuti. Disponibili in quattro misure, costano 129 euro.

SONY SRS-XB31-XB41

PANASONIC LUMIX FT7 Progettata per le attività all’aria aperta, è la compagna di viaggio ideale per chi ama fotografare e riprendere in risoluzione 4K in qualsiasi condizione, anche in piena luce. È impermeabile fino a una profondità di 30 metri e resiste alle cadute fino a un’altezza di due metri e alle basse temperature fino a -10 gradi. Il suo biglietto da visita tecnico: sensore da 20,4 megapixel e obiettivo grandangolare da 28mm con zoom ottico 4,6x.

Dotati di connettività wireless, gli speaker si possono lavare completamente grazie a un rivestimento che li protegge da liquidi (anche acqua di mare) e polvere. La tecnologia proprietaria Extra Bass ricrea le sonorità di un concerto dal vivo. La funzione Party Booster trasforma lo speaker in uno strumento da suonare mentre le app Music Center e Fiestable consentono di controllare via smartphone luci, comandi audio ed effetti DJ.

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VETRINA HI-TECH

MONDIALI IN 4K HISENSE TV ULED U9A Disponibile nelle versioni da 65 e 75 pollici, utilizza gli algoritmi Peaking e Precision Brightness Process e la tecnologia Prime Array Blacklight per assicurare colori brillanti e contrasti ultra definiti. La visione ottimale della partita e la fluidità delle azioni sono garantite dalla tecnologia Ultra Motion Plus e dalla funzione “Sport Mode”. Presente un altoparlante frontale, dotato di una griglia con oltre 10.000 fori, a cui si affiancano i sistemi Dolby Audio, Cinema Sound e Dbx-tv. Il top di gamma costa 3.999 euro.

LG UK6100 Per i Mondiali di calcio 2018 la casa coreana ha lanciato un’edizione speciale della serie UK6100 Uhd che promette un’esperienza audio “da stadio” grazie alle funzioni Football Mode e Audio Ultra Stadium Surround. Il processore quad-core non teme l’onere di elaborare immagini in risoluzione 4K Hdr, mentre l’angolo di visione Sport assicura un’ottima visione anche da una posizione laterale. Disponibile nei formati da 55 e 65 pollici, con prezzi compresi fra 579 e 949 euro.

PHILIPS OLED TV 973 La tecnologia Oled si unisce alla potenza del motore P5 Perfect Picture in questo apparecchio da 65 pollici Ultra Hd, che vanta uno spettro cromatico più ampio dei modelli precedenti e un sistema audio 6.1 da 60 watt integrato nella base. La tecnologia Ambilight assicura nella modalità “football” un’esperienza coinvolgente grazie a una resa cromatica dinamica. Installando l’app “Wave you flag” direttamente sul televisore è inoltre possibile impostare lungo i bordi dello schermo i colori della propria squadra del cuore. Il prezzo di listino è di 4.999 euro.

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GARANTIRE LA RISERVATEZZA DEI DATI: UNA CRESCENTE SFIDA PER LA GESTIONE DELLA STAMPA E DEI DOCUMENTI.

19%

40%

SAPEVATE CHE LA DIRETTIVA GDPR 8? ENTRA IN VIGORE IL 25 MAGGIO 201

51% *

Sì, ma non ero a conoscenza delle scadenze

No, non so che cosa sia il GDPR

Percentuale degli acquirenti di stampanti non consapevoli che il GDPR riguarda anche le attività di stampa

41% Sì

ENZIALI VULNERABILITÀ PROTEZIONE DEI DATI DEI CLIENTI: POT LE PRASSI AZIENDALI DEL ASSOCIATE ALLA TRASFORMAZIONE

info

TRE PRINCIPALI PUNTI DOLENTI DA AFFRONTARE RELATIVI AI WORKFLOW AZIENDALI*

CRESCITA ESPONENZIALE DELLE INFORMAZIONI: DA 16,12 ZETTABYTE NEL 2016 A 163 ZETTABYTE NEL 2025

CAMBIAMENTO DELLE MODALITÀ DI LAVORO

50% 30% 29%

Gestione dei workflow cartacei rispetto a quelli elettronici Mancata integrazione dei workflow nei vari dipartimenti Difficoltà a trovare documenti e informazioni

I DELLA SICUREZZA AUMENTA IL RISCHIO DI VIOLAZION

COME ESSERE CONFORMI CON LA NORMATIVA? AUDIT Soluzioni per la gestione e il monitoraggio della stampa

ACCESSO PROTETTO Accesso sicuro, autenticazione e autorizzazioni

SICUREZZA DEI DISPOSITIVI Eliminazione del rischio di accesso ai dati presenti sul dispositivo

PROGRAMMA 10 PUNTI BROTHER Brother ha redatto un programma di 10 punti che le aziende dovrebbero considerare come parte integrante delle iniziative per rendere il business sicuro ed essere conformi alle normative sulla riservatezza dei dati.

* Fonte "Garantire la riservatezza dei dati: una crescente sfida per la gestione della stampa e dei documenti" - IDC 2018

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