NUMERO 36 | DICEMBRE 2018
STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
BLOCKCHAIN SENZA CATENE
La tecnologia dei blocchi può avere applicazioni infinite. La startup italiana BitCorp la usa per inviare cartelle cliniche e proteggere le comunicazioni satellitari.
INNOVAZIONE
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Il presidente di Italia Startup spiega le proposte rivolte a Governo e Parlamento per sostenere le imprese neonate.
LAVORO E ROBOT
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I timori di un impatto dell'intelligenza artificiale sull'occupazione sono giustificati? A colloquio con un giuslavorista.
DIGITALE
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Il processo di trasformazione delle aziende italiane è in corso, anzi accelera. Ne sono convinti i vertici di Dell Emc.
RICOH ITALIA
SOMMARIO STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE
N° 36 - DICEMBRE 2018 Periodico bimestrale registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012
4 STORIE DI COPERTINA
Blockchain senza catene
9 IN EVIDENZA
Il lascito di Piacentini e i problemi dell’Italia digitale
Nuvola tricolore per Amazon
Cybersecurity da primato
La sostenibilità è uno strumento di business
Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Valentina Bernocco, Roberto Bonino, Carlo Fontana, Alice Mordonini
Ovh, il cloud alternativo made in Europe
L’Hr adesso parte dal dato
La ricchezza nascosta degli Ups intelligenti
Ad maiora, crowdfunding
Progetto grafico: Inventium Srl
Easyrain vola con 5 milioni
I nuovi brand “nativi digitali” sfidano i grandi
Direttore responsabile: Emilio Mango
Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock Images, Martina Santimone
Editore, redazione, pubblicità: Indigo Communication Srl Via Correggio, 48 - 20149 Milano tel: 02 36505844 info@indigocom.it www.indigocom.it Stampa: Rotolito - Pioltello (MI) © Copyright 2018 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati.
16 INNOVAZIONE
L’azienda agile? Cloud e virtualizzazione
Pmi in sofferenza. Governance cercasi
Trasformazione digitale: è ora di passare ai fatti
Cambio di marcia per le imprese
Focus sulle eccellenze
Quando l’innovazione parte dall’alto
Il retail è data-driven
Industria 4.0: depotenziare il piano è un autogol
Open innovation all’italiana per le startup
Accelerare la crescita dell’ecosistema
Cybercrimine fra vecchio e nuovo
L’algoritmo aiuta la medicina
I robot miglioreranno il lavoro?
Chatbot “invadenti” per molti italiani
46 ECCELLENZE.IT Gruppo Leonardo - Microsoft
Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto.
Unicredit - Datalabs
48 VETRINA HI-TECH Smartphone: ambizioni asiatiche
Pubblicazione ceduta gratuitamente.
STORIA DI COPERTINA | BitCorp Perpiciatis
BLOCKCHAIN SENZA CATENE BitCorp è una startup italiana che ha sviluppato un framework proprietario per l’applicazione della tecnologia dei "blocchi" in campo sanitario e aerospaziale.
L’
hanno fondata, pochi mesi fa a Milano, due esperti in fatto di human intelligence e terrorismo, Christian Persurich e Gianluca Tirozzi, entrambi con un passato professionale nelle forze dell’ordine (con operazioni condotte anche all’estero) e oggi attivi, rispettivamente, presso il centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica di Milano e il Dipartimento di Sociologia ed Economia dell’Università Sapienza di Roma. A loro si è unito da subito Gabriele Edmondo Pegoraro, ingegnere (laureato anche in filosofia), esperto in cybersecurity e telecomunicazioni, nonché profondo conoscitore della rete e dell’intelligenza artificiale, con all’attivo esperienze nell’industria aerospaziale. Ma la storia di BitCorp è particolare non solo per il curriculum professionale dei suoi fondatori. Suo, infatti, è il primo framework di blockchain proprietario sviluppato totalmente “in casa” in Italia e quindi non basato su alcuna piattaforma preesistente. Un progetto, come spiegano i fondatori della startup a Technopolis, nato “per sfruttare a 360 gradi il paradigma del registro distribuito anche al di là del tradizionale contesto delle criptovalute, assicurando la sicurezza e la non decifrabilità delle comunicazioni e di qualunque forma di transazione in ogni settore industriale e produttivo”. Dai pagamenti digitali alla medicina e telemedicina, dall’aerospaziale alle telecomunicazioni, il raggio 4
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d’azione di BitCorp è infatti quantomai ampio. L’offerta si concretizza nella fornitura di servizi e soluzioni su misura per aziende e realtà istituzionali, e si ispira a un approccio ben definito. Quale? Una fusione perfetta fra intelligenza umana e artificiale (fra “humint” e “techint”, come piace dire ai fondatori), basata su una tecnologia hardware e software modulabile ad hoc e il cui uso si integra con le capacità di un’analista. Il campo di azione della startup, che ha all’attivo due richieste di brevetto per altrettante tecnologie esclusive, supera dunque la semplice raccolta e analisi dei dati e, per quanto riguarda la blockchain, non si limita alla classica attività di estrazione delle criptovalute. Cartelle cliniche e satelliti
Il trasferimento protetto di dati sensibili in ambito sanitario, per esempio, è uno dei progetti a cui Persurich e soci stanno lavorando al fianco di un’azienda ospedaliera italiana. Con un preciso traguardo da raggiungere: dar vita a una soluzione in grado di gestire l’invio delle cartelle cliniche dei pazienti a medici e sale operatorie remote, consentendone l’accesso da qualsiasi dispositivo (smartphone compreso) grazie a un sistema peer-to-peer distribuito in cloud e a un algoritmo di consenso a numero chiuso che gestisce in tempi rapidissimi il trasferimento di documentazione altamente sensibile. Il tutto, confermano da BitCorp, rendendo univoci i file con marca
temporale e firma digitale e sfruttando l’affidabilità degli “smart contract”, che in questo caso diventano il protocollo di comunicazione protetto fra i vari soggetti interessati. La collaborazione con D-Orbit, giovane azienda italiana del settore aerospaziale, verte invece su una soluzione che combina algoritmi, intelligenza artificiale e tecnologia blockchain per proteggere sia
lo scambio dei dati fra un satellite e la stazione terrestre sia le informazioni che transitano in orbita direttamente sui satelliti. L’obiettivo? Evitare che hacker e cybercriminali possano attaccare e compromettere i sistemi basati su segnali Gps che controllano il traffico aereo e governano le flotte aziendali o batterie di droni. Gianni Rusconi
COME FARLA DIVENTARE UN BUSINESS La catena di blocchi è pronta per l’adozione in azienda? È la domanda di fondo presente nel rapporto “Blockchain for business” di Casaleggio Associati, che prova a rispondere al quesito analizzando le possibili applicazioni di questa tecnologia nell’impresa. Tralasciando cifre e stime di crescita, che in un campo così giovane rappresentano ancora un campo minato, i punti salienti dell’indagine riguardano tre livelli di iniziative già sviluppate e basate su altrettanti caratteristiche intrinseche della blockchain: l’immutabilità dei registri, l’impossibilità di duplicare i token e gli smart contract. Sono i pilastri su cui le aziende potranno appoggiarsi per generare valore, creando applicazioni capaci di collegare il mondo digitale a quello fisico (e in quest’ottica il rapporto assegna un ruolo da protagonista all’Internet delle cose). Il primo livello trasforma la catena di blocchi in un “notaio virtuale” che certifica i fatti e attribuisce loro una data certa, dando in questo modo alle organizzazioni la possibilità di tracciare prodotti, di gestire grandi moli di documenti e di rendere più trasparenti le transazioni. Lo studio conferisce invece tre proprietà principali ai token (oggetti digitali non duplicabili e trasferibili da una persona all’altra,
come i bitcoin): valore di scambio, titolo di proprietà e contributo per il lavoro. L’ultimo concetto è forse quello più particolare e può essere integrato con successo, per esempio, nei sistemi di fidelizzazione, premiando le attività svolte dalle persone con dei “gettoni digitali” utilizzabili per acquistare beni e servizi. Nell’ambito dei token, la killer application finora è stata proprio il bitcoin, ma secondo l’indagine “molto altro sta arrivando”. A livello di investimenti, va segnalato il fenomeno delle initial coin offering (Ico), che permettono di ricevere denaro da privati per finanziare progetti in cambio di token “emessi” dalle stesse startup. Nel 2017 sono stati raccolti nel mondo oltre sei miliardi di dollari: una cifra che quest’anno è stata eguagliata in soli tre mesi. Infine, il terzo ambito grazie al quale la blockchain potrà maturare è quello dei contratti intelligenti che, una volta definiti, verificano l’effettivo realizzarsi delle condizioni stabilite ed erogano il compenso dovuto. In questo campo, lo studio vede del potenziale soprattutto nelle microtransazioni: le assicurazioni, ad esempio, potranno tutelare eventi di minore importanza senza richiedere la supervisione umana ed erogare premi dal modesto valore economico.
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STORIA DI COPERTINA | Blockchain
È SOLTANTO UN DATABASE? Tecnologia banale o rivoluzionaria, pronta all'uso o sogno impossibile: la catena di blocchi deve ancora crescere e maturare. Ma c'è chi è ottimista.
“L
a blockchain è una delle rivoluzioni più banali della storia”. Così parlò Tom Lyons, direttore della ricerca di Consensys, società svizzera di consulenza specializzata nella catena di blocchi. All’apparenza queste parole sembrerebbero sminuire la portata di questa tecnologia, ma è vero il contrario. Lyons, intervenuto all’evento Futureland organizzato a Milano da Talent Garden, è uno dei principali “guru” della blockchain. Con l’azienda per cui lavora (fondata da Joseph Lubin, uno degli inventori di Ethereum), si propone di costruire un mondo interamente decentralizzato. Difficile, quindi, trovare sulla scena uno più entusiasta di lui. Eppure, la realtà sembra ancora cozzare con la visione di Consensys. Secondo uno studio dell’Agenzia per la trasformazione digitale del governo australiano, la blockchain è interessante ma ancora troppo acerba per generare qualche risultato concreto. I casi d’uso iniziano ad affiorare, ma al momento le aziende possono sempre 6
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sfruttare tecnologie migliori. Risultati in linea con quelli emersi anche da una ricerca di Digital Transformation Institute e Cfmt, per cui il 65% delle aziende utilizza molto poco (o non usa affatto) la catena di blocchi. “A livello teorico, non è altro che un nuovo metodo per conservare informazioni, come potrebbe esserlo un qualsiasi database”, spiega Lyons. Ma a questa “banalità” dei registri distribuiti si aggiungono elementi differenzianti che potrebbero renderli la next big thing tecnologica. “Siamo all’alba dell’economia peer-to-peer, senza autorità centrali a svolgere il ruolo di intermediari”, aggiunge Lyons. “Nei prossimi dodici mesi andranno online e verranno ampliati alcuni progetti importanti, come Komgo: una rete formata da una quindicina di banche, fra cui Bnp Paribas e Ing, per sviluppare una piattaforma di trading sulla blockchain. Segno che la tecnologia può soddisfare anche gli stringenti requisiti del mondo finanziario. La catena di blocchi è realtà ed è qui per restare”. La “rivoluzione banale” invocata da Lyons
non può esimersi dalle applicazioni nel mondo reale. Serve un diverso modello, soprattutto culturale, perché l’adattamento tecnologico rappresenta l’ostacolo minore. Il rischio è che i registri distribuiti rimangano un’eterna promessa, tanto affascinante quanto inapplicabile. Lyons è convinto del contrario, soprattutto se i regolatori decideranno di darsi una mossa, intervenendo per normare i lati più oscuri della catena (in particolar modo nelle criptovalute). L’importante è non farsi coinvolgere dalla frenesia: la blockchain, qualunque cosa ne pensi la sua comunità di sostenitori, non potrà risolvere tutti i problemi del mondo. Se dovesse, però, riuscire a integrarsi con successo anche in pochi settori cruciali, i benefici saranno enormi. La strada è lunga: un recente rapporto del World Economic Forum stima che entro il 2027 il 10% del Pil mondiale sarà conservato e generato dai registri distribuiti. Con queste cifre in gioco, diventa difficile non sposare l’ottimismo decentralizzato di Lyons. Alessandro Andriolo
DIECI CANDELINE PER L’ORO DIGITALE Da sogno anarchico a fenomeno di massa: il bitcoin è arrivato al primo giro di boa.
“B
itcoin: un sistema di moneta elettronica peer-to-peer”. Piatto, stringato, quasi anonimo: fu questo il titolo scelto dieci anni fa dal misterioso Satoshi Nakamoto per il proprio lavoro scientifico in cui, per la prima volta, veniva illustrato il funzionamento di un sistema di transazioni “completamente decentralizzato”, basato su una rete P2P e in grado di impedire il fenomeno della “doppia spesa”. Pubblicato su una mailing list di crittografia del sito Metzdowd il 31 ottobre 2008, il documento ha segnato ufficialmente la nascita del bitcoin e l’inizio dell’ascesa della blockchain, la tecnologia alla base delle criptovalute. Finite sulla bocca di tutti l’anno scorso a causa di un incremento esponenziale del loro valore economico (seguito poi da una flessione altrettanto vigorosa), le “monete digitali” sono oggi uno degli argomenti più dibattuti in Rete e nell’ambito del Fintech: grande speranza anarchica e anticapitalista o pura illusione di superare un sistema, quello delle banche, consolidato e ultracentenario? La verità si trova forse nel mezzo, perché se è vero che al momento le criptovalute rappresentano il più delle volte un mero fenomeno speculativo, è altrettanto innegabile che il potenziale inespresso della blockchain sia enorme. E le stesse banche, sfidate ogni giorno dalle startup digitali, stanno guardando con interesse a questa tecnologia. Secondo molte società di
analisi la catena di blocchi è destinata a eguagliare (o addirittura a superare) l’impatto che ebbe l’avvento del Web negli anni Novanta. I registri distribuiti sono infatti sempre più studiati dalle grandi aziende per varie applicazioni: ad esempio, come metodi alternativi per tracciare le merci e ottimizzare i costi. Si è aperta così l’era del cosiddetto Internet of value, per scambiare valore (di qualsiasi genere) aggirando il classico controllo centralizzato. Chi verifica le transazioni sono i nodi che partecipano alla rete peer-to-peer della blockchain e il codice aperto garantisce la trasparenza e l’immutabilità delle operazioni. In dieci anni il bitcoin è passato dall’essere materia per nerd e appassionati a un vero e proprio fenomeno di costume, contribuendo a creare un mercato valutato in circa 120 miliardi di dollari. Una fetta irrisoria dell’economia mondiale, se si pensa che la sola Apple vale quasi sette volte tanto. Come saranno i prossimi dieci anni dell’oro digitale? Difficile dirlo. Molti sostenitori delle criptovalute spingono per una maggiore regolamentazione, che permetterebbe di farle uscire dall’alone di illegalità e mistero che ancora le circonda, aprendo di conseguenza le porte agli investitori istituzionali. La community di appassionati e programmatori che cura il codice del bitcoin, invece, vedrebbe una maggiore popolarità della moneta come un tradimento dei sogni originali di Nakamoto, che teoricamente non aveva pensato a questo strumento come mezzo speculativo ma come un’alternativa al sistema bancario e, più in generale, al controllo di un’autorità centralizzata. A.A.
LA STORIA A TAPPE 3 gennaio 2009: viene forgiato il “genesis block” e nascono i primi 50 bitcoin. 5 ottobre 2009: con un dollaro si comprano 1.309,03 monete. 12 ottobre 2009: prima transazione. L’exchange New Liberty Standard invia 5,02 dollari via Paypal a un utente in cambio di 5.050 bitcoin. 22 maggio 2010: Laszlo Hanyecz compra due pizze per 10mila bitcoin. È il “bitcoin Pizza Day”. 28 marzo 2013: la capitalizzazione di mercato supera quota un miliardo di dollari. 29 novembre 2013: la criptovaluta raggiunge la soglia dei 1.000 dollari. Il 5 dicembre la Banca Centrale del Paese dichiara illegale qualsiasi sua compravendita. 24 febbraio 2014: Mt Gox, principale exchange, dichiara fallimento. Spariscono 750mila bitcoin e il prezzo dell’oro digitale crolla dell’80%. 17 dicembre 2017: il valore tocca il suo massimo storico, cioè 19.783 dollari. 25 novembre 2018: al via il pagamento delle tasse in bitcoin nello Stato dell’Ohio. 27 novembre 2018: una unità vale circa 3.700 dollari.
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18/09/18 17:12
IN EVIDENZA
l’analisi
IL LASCITO DI PIACENTINI E I PROBLEMI (IRRISOLTI) DELL’ITALIA DIGITALE Il nuovo Commissario Straordinario, Luca Attias, eredita una situazione non facile. E i dati sul livello dei servizi di e-governement lo confermano.
Quello che succederà nel 2019, anche in relazione agli aggiustamenti previsti in manovra di Bilancio (in discussione a Palazzo Chigi al momento in cui scriviamo), non possiamo ancora saperlo. Certo è che sulla corsa all’innovazione digitale italiana ancora gravano molte ombre, come da parecchi anni a questa parte, fra ridimensionamenti al piano di incentivi per l’industria 4.0, incertezza sulla nuova rete unica fra Tim e Open Fiber (per cui è stato approvato dal Senato l’emendamento al decreto) e possibili ricadute degli investimenti, molto sostenuti, per le frequenze delle nuove reti 5G. L’ultima “ombra” è giunta a fine novembre dall’”eGovernment Benchmark Report 2018” della Commissione Europea, secondo cui l’Italia si piazza malinconicamente all’ultimo posto in Europa per livello di utilizzo dei servizi di e-government. Solo il 22% dei cittadini della Penisola, questo il dato a cui fare riferimento, utilizza canali e strumenti digitali per interagire con la Pubblica Amministrazione, contro una media europea che arriva al 53%. Men peggio vanno le cose quanto alla capacità della Pubblica amministrazione di sfruttare le potenzialità dell’information technology, ambito nel quale occupiamo il 17esimo posto su 28 (in questo caso, con una differenza di soli cinque punti percentuali rispetto alla media Ue). L’Italia, infine, è classificata nella categoria “e-government non consolidato”, di cui fanno parte i Paesi ancora lontani dall’aver completamente digitalizzato la macchina dei servizi pubblici.
Luca Attias
Senza entrare nel merito di tutti gli altri indicatori (e sono parecchi) che ci dipingono in sofferenza rispetto al resto d’Europa, è abbastanza evidente capire che il lavoro fatto finora da chi si è occupato di digitale in chiave pubblica non abbia risolto molti dei problemi che rendono “faticosa” l’interazione fra cittadini e imprese e la Pa. Si potrebbe fare l’ennesimo confronto con i modelli di e-government adottati dagli altri Paesi o provare a misurare la reale usabilità dei servizi oggi messi a disposizione online da parte degli enti pubblici o, ancora, tornare sull’ormai inflazionato tema delle competenze digitali che mancano e che vanno formate (sia nelle stanze della Pa sia nelle case e nelle imprese italiane). Si potrebbe invece, ed è la strada che scegliamo questa volta, invitare virtualmente alla risposta chi è incaricato di occuparsi della materia da qualche settimana a questa parte. Luca Attias è il nuovo Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale: ha lasciato l’incarico di Direttore Generale Sistemi Informativi Automatizzati della Corte dei Conti e dal 31 ottobre rico-
pre il ruolo svolto per due anni, in modalità pro bono, da Diego Piacentini. “La scelta di Attias”, ha scritto l’ex manager di Amazon commentando la nomina, “dimostra che l’attuale governo è interessato a proseguire nella strada tracciata della trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione, incaricando una persona che ha dimostrato di avere forti competenze manageriali e tecnologiche”. Inutile disquisire sulla bontà della scelta, anche perché Attias, da dirigente pubblico, si è distinto per favorire la piena realizzazione del potenziale inespresso della Pa. I nodi da sciogliere rimangono, per il momento, sempre gli stessi: la paternità della governance dell’innovazione (a chi spetta, al nuovo Commissario o alla nuova presidente dell’Agid, Teresa Alvaro?), i ritardi che stanno interessando alcuni dei provvedimenti chiave contenuti nell’Agenda Digitale (anagrafe unica, Spid), le reali risorse messe a disposizione dal governo per finanziare i piani legati alla banda larga, a industria 4.0 e ai progetti in campo blockchain e intelligenza artificiale. Piacentini ha salutato l’Italia ammettendo di aver constatato che “rimane ancora molta resistenza” per cambiare la macchina pubblica. E ha esortato l’esecutivo a “pensare in grande” e a “creare una governance del digitale permanente, moderna e snella, dotata di potere decisionale, budget appropriato, capacità di investimento e di capitale umano e tecnologicamente avanzato”. Il suo auspicio non può che essere anche il nostro. Gianni Rusconi
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IN EVIDENZA
NUVOLA TRICOLORE PER AMAZON Il gigante di Seattle ha confermato la prossima apertura di un data center a Milano per servire clienti come Ferrero, Enel e Pirelli. Dal 2020 la nuvola di Amazon Web Services (Aws) parlerà anche italiano. Il colosso statunitense inaugurerà infatti la sua prima regione cloud situata nel nostro Paese, con l’apertura di un data center a Milano. Caratterizzata da tre zone di disponibilità (availability zone), con possibilità quindi per le imprese di pianificare solide strategie di disaster recovery su più aree, la regione sarà la sesta in Europa per la multinazionale. Gli altri cinque Paesi del Vecchio Continente dove Amazon Web Services è presente sono Francia, Germania, Irlanda, Regno Unito e Svezia. L’obiettivo sarà quello di fornire alle aziende italiane una latenza ancora inferiore in fase di accesso ai servizi sulla nuvola. Ma non solo. Le organizzazioni della Penisola con ferrei requisiti di sovranità dei dati potranno archiviare le informazioni sul territorio nazionale, con la garanzia di mantenere
il controllo completo sulla loro collocazione e di rispettare, dunque, tutte le normative in vigore. Milano è il crocevia del Web italiano e la stessa Aws nel 2012 inaugurò nel capoluogo lombardo il suo primo Point of Presence (Pop) sul nostro territorio, seguito da quello di Palermo. Il Pop meneghino eroga oggi diversi servizi, tra cui il content delivery di Cloudfront e il Dns Route 53. Nel nostro Paese alcuni dei principali clienti di Amazon Web Services sono Ferrero, Enel, Eataly, Pirelli e Vodafone, ma anche realtà pubbliche come la Regione Sardegna e la Corte dei Conti. A.A.
STAMPA 3D D’ECCELLENZA Un premio per aver creato valore, con spirito innovativo e una visione determinante e strategica, e soprattutto per aver contribuito ad una significativa crescita dell’economia in Italia e nel mondo. Alessio Lorusso, Ceo e founder di Roboze, è il vincitore del “Premio Startup 2018”, assegnato in occasione della XXII edizione dell’evento “L’imprenditore dell’anno 2018” organizzato da Ernst & Young. “Il mercato ci sceglie perché la nostra tecnologia è semplicemente la migliore, in quanto progettata e prodotta in base alle reali esigenze delle industrie manifatturiere”, ha sottolineato Lorusso. Alessio Lorusso
CYBERSECURITY DA PRIMATO
BIP PER MILLE
United Ventures ha investito due milioni di euro in Exein, chiudendo il finanziamento round “A” più importante di sempre nel settore cybersecurity in Italia. Fondata nel luglio 2018 da Gianni Cuozzo, la startup si occupa della sicurezza dell’Internet of Things e dei dispositivi connessi di infrastrutture critiche e industriali, avendo sviluppato una soluzione che opera come applicazione di retrofitting e che è compatibile
Fondata in Italia nel 2003, è oggi una delle principali società di consulenza in Europa e punta a rientrare tra le prime mondiali. Bip (acronimo di Business Integration Partners), multinazionale di management consulting, accelera il suo percorso di crescita con nuovi importanti traguardi. L’ultimo è il raggiungimento di mille nuove assunzioni in dodici mesi a livello globale, un incremento con sui supera la soglia dei 2.200 dipendenti.
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con la maggior parte dei firmware, per esempio quelli baremetal, quelli basati real-time e su Linux. L’ulteriore sviluppo del suo prodotto include uno strumento unico al mondo: un software middleware per la sicurezza del firmware, che può operare offline senza la necessità di cloud computing e che si integra direttamente nel firmware stesso grazie a un’ottimizzazione di codice avanzata.
l’intervista
LA SOSTENIBILITÀ È UNO STRUMENTO DI BUSINESS Conciliare le esigenze di crescita aziendale con obiettivi sociali ed etici è una scelta che in Dell Emc sta pagando. Ce ne parla Filippo Ligresti.
Dell Emc ha da tempo attivato una serie di progetti volti a diffondere al proprio interno, ma anche verso i clienti, una cultura della crescita sostenibile e i temi dell’etica. Una scelta che sta già pagando, come ci ha raccontato Filippo Ligresti, vice presidente e direttore generale commercial sales della multinazionale in Italia.
Filippo Ligresti
Che cosa fate nel concreto per aiutare i clienti sul fronte della sostenibilità?
Nel 2013 abbiamo fatto partire il programma “Dell 2020 Legacy of Good”, basato sull’idea che la tecnologia debba essere un motore del progresso umano, in senso ampio. Abbiamo obiettivi misurabili, con i quali ci confrontiamo ogni anno, tra cui la riduzione delle emissioni di gas serra dai nostri impianti produttivi, l’utilizzo razionale di acqua e la diminuzione dell’intensità energetica dei nostri prodotti (fino all’80%). E poi, abbiamo anche una motivazione che non tutti i competitor possono vantare: sui nostri prodotti c’è il cognome del fondatore, il quale ovviamente ha tutto l’interesse a non essere associato a valori negativi. Oltre a gratificarci, questi sforzi stanno portando i primi risultati: sono sempre di più, infatti, i clienti che inseriscono criteri legati alla responsabilità sociale e la sostenibilità tra quelli che danno punteggi nelle gare e sono molti i professionisti, soprattutto giovani, disposti a rinunciare ad altri valori in favore della sostenibilità e a guadagnare il 20% in meno pur di lavorare in un’azienda di cui condividono i principi di responsabilità sociale.
E come si trasmettono questi valori ai clienti?
Quando ci relazioniamo con loro sul tema della sostenibilità emergono alcuni concetti ricorrenti. La supply chain, ad esempio, è oggetto di molte attenzioni e rispondiamo a queste esigenze organizzando ispezioni a sorpresa, coinvolgendo anche i clienti. Ma molti dei messaggi passano attraverso l’azione dei dipendenti, e per questo abbiamo community interne che, su base volontaria, realizzano progetti mirati alla sostenibilità e alla solidarietà. In Italia, tra l’altro, queste attività fanno registrare un’ottima partecipazione, pari al 45%, un dato superiore all’obiettivo mondiale del 40%. In totale, dall’inizio del programma le ore investite dai di\ pendenti Dell Emc nel mondo in queste iniziative sono un numero impressionante: 3,3 milioni. Può farci qualche esempio di progetti?
Alcuni dipendenti più esperti di Excel, tanto per citarne uno, insegnano agli altri ad acquisire una competenza più avanzata, altri fanno corsi di public
speaking a coloro che faticano di più a esprimersi in pubblico. Poi ci sono numerose iniziative volte prendere coscienza di come il tema della diversità sia a volte gestito in maniera superficiale anche da persone istruite ed educate; anni fa abbiamo deciso di investire un certo numero di giornate dei top manager europei per fare workshop sulla diversità di genere, orientamento religioso e pregiudizi inconsapevoli, con risultati decisamente interessanti. Sul fronte tanto discusso dell’inquinamento, poi, è partito un progetto concreto per recuperare plastica dagli oceani. Noi abbiamo fatto da apripista ma l’iniziativa è aperta a tutti e vi abbiamo già coinvolto alcuni nostri clienti attraverso una piattaforma dedicata. Come reagiscono le imprese italiane, e in particolare le Pmi, a questo tema?
Ci sono sensibilità diverse: nella Pubblica Amministrazione, anche grazie a direttive europee, la predisposizione sta sicuramente aumentando. E anche nelle Pmi la sostenibilità sta diventando un tema sempre più importante, ma in modo più disomogeneo. Quello che vedo è come le nuove generazioni di imprenditori siano più sensibili e stiano associando alla sostenibilità la qualità della produzione, della filiera e anche delle materie prime. La qualità è un asset fondamentale, se è vero che, come dice una ricerca commissionata da Fondazione Edison, su circa mille categorie di prodotto censite l’Italia ha oltre cinquecento prodotti tra i primi tre in termini di qualità percepita. Emilio Mango
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IN EVIDENZA
IL CLOUD ALTERNATIVO MADE IN EUROPE Una bella storia quella della famiglia Klaba, una storia nota agli addetti ai lavori: Henryk e Haline, ingegneri polacchi, si trasferiscono in Francia negli anni Novanta alla ricerca di prospettive migliori. I figli Octave e Miroslaw si laureano in ingegneria a Lille, pur iniziando con il grosso handicap di non conoscere il francese. Octave, in particolare, si distingue per visione e talento informatico: inizia ad assemblare server e a ospitare dati e software di piccoli clienti quando ancora di cloud non parlava nessuno. Nel 1999, aiutato dalla famiglia ma con pochissimi soldi, Octava fonda Ovh, acronimo che sta per on vous héberge, che significa “noi vi ospitiamo”. Dopo 18 anni dall’inizio delle attività, la sua azienda è tra i primi nomi del mercato mondiale del cloud e fa concorrenza ai colossi come Amazon, Microsoft e Google, potendo contare su 28 data center in 12 Paesi e oltre 350mila server attivi. Per dirla tutta, nel 2016 sono entrati nel capitale sociale (di cui la famiglia Klaba detiene ancora la maggioranza) due fondi anglosassoni (Towerbrook Capital Partners e Kkr) e una cordata di banche capitanata da Société Générale. Ma la filosofia ispirata a “Davide contro Golia” resta la nota
La società francese sfida Amazon, Microsoft e Google con una rete di 28 data center in 12 Paesi. caratterizzante di Ovh. “Nell’ultimo anno il giro d’affari ha superato i 500 milioni di euro, con una crescita superiore al 20% rispetto all’anno precedente e un Ebitda positivo” , ha dichiarato a Technopolis, in occasione dell’ultimo “Ovh Summit” di Parigi, Michel Paulin, Ceo di fresca nomina della multinazionale. “Tutto fa presagire che raggiungeremo il traguardo del miliardo di euro entro i prossimi cinque anni”.
ARRIVANO GLI SMARTPHONE 5G Tim ed Ericsson, insieme, hanno effettuato con successo la prima connessione 5G in Italia su rete live, utilizzando il primo prototipo di smartphone basato sul chipset Qualcomm Snapdragon X50 che verrà inserito negli apparecchi compatibili con le reti di quinta generazione disponibili sul mercato nel corso del 2019. Nei laboratori torinesi dell’operatore sono stati conclusi i primi test
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di connessione Ota (Over the Air) sulla rete 5G New Radio conforme allo standard 3GPP di Release 15, che sfrutta la soluzione Massive Mimo. Anche Zte ha completato di recente una connessione con chiamata su WeChat in rete 5G e ha confermato il lancio commerciale del suo primo smartphone compatibile con la nuova tecnolgia, lancio previsto entro la metà del 2019.
In un periodo in cui l’Europa non gode esattamente di un’immagine brillante, Octave, rimasto presidente di Ovh, punta molto sull’appartenenza al vecchio continente e sull’alternativa alle grandi multinazionali statunitensi, tanto da avere come motto l’espressione “alternative cloud” e da lavorare a una strategia denominata Virtual Gafam (dalle iniziali delle big five statunitensi: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft). Il progetto coinvolgerà un migliaio di imprese e organizzazioni europee che abbiano valori comuni al gruppo francese, quali l’apertura e la reversibilità, cioè la possibilità di cambiare fornitore o tornare indietro dal cloud in modo indolore. Si farà leva sulla visione e sugli investimenti, che tra il 2016 e il 2020 saranno di circa 1,5 miliardi di euro e che potrebbero triplicare nel successivo quinquennio. “La nostra offerta è unica principalmente perché è smart, veloce e semplice da utilizzare”, ha concluso Paulin, “ma non dimentichiamo anche l’accessibilità a livello di costi e il fatto che sia multi-locale, con una già ottima copertura in rapida espansione”. I piani prevedono l’apertura di ulteriori siti in Cina, Brasile e anche in Italia. Emilio Mango
L’HR ADESSO PARTE DAL DATO Alberto Navarra
“Nella gestione delle risorse umane le aziende, tecnologicamente parlando, dovrebbero ripartire dalle basi, perché ora gli strumenti software sono maturi ma bisogna saperli impiegare al meglio”. A sostenerlo è Alberto Navarra, Hr transformation & digitalization business leader di Mercer, una multinazionale che da oltre settant’anni opera nel settore Hr e che utilizza, tra gli altri, strumenti avanzati di Human Capital Management (Hcm) in cloud. “La gestione delle risorse umane entra nel cloud dopo il marketing, la logistica e altri servizi”, prosegue Navarra, “e lo fa con modelli e tecnologie evolute ma non senza rischi. Perché se l’employee centricity è ormai in molti casi il pensiero dominante, è anche vero che senza realizzare un cambiamento culturale, organizzativo e gestionale, la tecnologia rischia di peggiorare le cose”. Una recente ricerca condotta da Mercer sulle aziende del listino Ftse Mib ha rivelato che il 70% delle aziende ha avviato negli ultimi tre anni un progetto Hcm, ma solo il 25% si è dotato di un metodo virtuoso di formalizzazione di una people strategy, creazione di programmi di trasformazione strutturati per le risorse umane e con ruoli di transformation manager ad hoc. E.M.
LA RICCHEZZA NASCOSTA DEGLI UPS INTELLIGENTI Nel Regno Unito Vertiv ha stretto alleanza con Upside Energy, una software house che opera come “aggregatore” di dispositivi che immagazzinano energia elettrica, quali sono gruppi statici di continuità, meglio noti come Ups. La quota di energia non usata dai data center (pensiamo a quella liberata e sprecata durante la manutenzione) può, per esempio, attraverso gli Ups intelligenti di Vertiv essere restituita dall’aggregatore alla rete nazionale e generare, quindi, un reddito. “È un business che al momento funziona in alcuni Paesi del Nord Europa”, dice Emiliano Cevenini, vice presidente commercial and industrial vertical di Vertiv Emea, ”ma che da noi è ancora
ostacolato dalla normativa (il partner potrebbe essere Terna). Nel modello applicato in Regno Unito Vertiv mantiene il rapporto con il cliente finale, girandogli la parte di fatturato ricevuta dall’aggregatore, che a sua volta è stato pagato dalla National Grid”. “Per poter importare questo modello in Italia ci vorranno ancora due o tre anni”, riflette Stefano Mozzato, country manager di Vertiv Italia. “Le chance di successo però sono elevate, perché anche nel nostro Paese, come avviene nel Regno Unito, la composizione dell’energia è sempre più spostata sulle risorse rinnovabili, le quali richiedono i servizi di bilanciamento che l’aggregatore è in grado di erogare”.
LE RETI AVVICINANO ASIA ED EUROPA In soli 18 mesi dall’attivazione e con due anni di anticipo sulle previsioni, il consorzio Aae-1 ha avviato l’aggiornamento del proprio cavo sottomarino a bassa latenza, portando la tecnologia di trasmissione da 100 GB a 200 GB e la capacità nominale da 40 a 80 TB. Il cavo, entrato in funzione a giugno del 2017, convoglia traffico dati tra l’Asia e l’Europa, percorrendo in totale 25mila chilometri e toccando 19 Paesi. In Italia il punto di approdo è Bari . “L’incremento della domanda di trasporto dati”, dice Giuseppe Sini, vice presidente del consorzio Aae-1 e direttore delle operazioni internazionali di Retelit, “è andato oltre le nostre previsioni, nonostante molti grandi Ott (Over-The-Top, le aziende che utilizzano Internet per distribuire servizi e contenuti, ndr) si stiano costruendo da soli le proprie reti”. Retelit,
uno dei più importanti soci del consorzio, ha confermato le previsioni di crescita del piano industriale, nonostante la diminuzione dei prezzi di trasporto dati, anche grazie all’incremento della richiesta sul cavo euroasiatico. Escludendo il traffico proprio (molti soci del consorzio sono operatori mobili), Retelit ha il 30% della quota di mercato generato da questa infrastruttura. “Al di là dei vantaggi in termini commerciali”, spiega Sini, “la nostra strategia globale è molto legata al cavo e alla Cable Landing Station di Bari, che per noi rappresenta una sfida, insieme all’Open Hub Med in Sicilia, da una parte all’Hub di Marsiglia nel convogliare il traffico in Europa, dall’altra nel coprire il futuro fabbisogno trasmissivo verso il Nord Africa, un mercato potenziale di centinaia di milioni di persone”. E.M.
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IN EVIDENZA
AD MAIORA, CROWDFUNDING La raccolta online di capitali di rischio in cambio di quote societarie sfiora i 90 milioni di euro nei primi nove mesi del 2018. Un fenomeno le cui potenzialità di sviluppo sono ancora difficilmente quantificabili, ma che ha confermato di essere in buona, anzi ottima salute. L’equity crowdfunding in Italia ha chiuso il terzo trimestre 2018 con una raccolta di 11,9 milioni di euro, superiore a quella consolidata in tutto l’anno precedente (11,8 milioni). Le iniziative finanziate sono state 34, contro le 50 dell’intero 2017, mentre il valore medio delle campagne è salito dai 236mila del 2017 ai 350mila euro del trimestre. Il numero di investimenti effettuati, invece, è passato dai 2.100 circa del primo semestre a oltre tremila del periodo di lulgio, agosto e settembre. Dall’inizio dell’anno le piattaforme digitali adibite alla raccolta di capitale di rischio in cambio di partecipazioni hanno interessato poco meno di 90 società, per oltre 26 milioni di euro. Un boom spiegabile in vari modi, e soprattutto con l’entità dei finanziamenti (oltre i 500mila euro) di alcune operazioni. Un boom che ha portato lustro ai principali attori di questo mercato, vale a dire Crowdfundme (che ha raccolto nel terzo trimestre 3,5 milioni in sei campagne), Mamacrowd, BacktoWork24, NextEquity e 200Crowd. Per Matteo Masserdotti, Ceo e cofondatore di Two Hundred, fintech italiana (nata nel 2014 col nome di Tip Ventures, gestisce il portale di equity crowdfunding 200crowd.com) il fenomeno è solo all’inizio. A suo dire, il ruolo vitale delle piattaforme è quello di fare scouting delle startup a monte (anche utilizzando, nel caso specifico, un algoritmo proprie-
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tario di valutazione di decine di parametri quantitativi e qualitativi) e di fare analisi e supporto a valle, monitorando nel tempo le realtà finanziate nella loro fase di crescita iniziale. L’idea, comune a quella di altri marketplace e sottostante al mondo del crowdfunding, è quella di democratizzare l’accesso al mercato dei capitali, riavvicinando la finanza all’economia reale. “La collaborazione a livello di filiera”, conferma infatti Masserdotti, “è necessaria per far emergere le nuove iniziative imprenditoriali e mettere a loro disposizione risorse finanziarie per crescere. Ma servono nel contempo regole del gioco precise”. Se la prima prova di maturità è stata superata (ricordiamo che l’Italia è uno dei primi Paesi a essersi dotato di un quadro regolatorio), per l’equity crowdfunding arriva ora il momento della verità perché i limiti di una platea di investitori tutt’altro che numerosa sono noti e caratterizzano tutto l’ecosistema delle startup italiano. “Se vogliamo puntare al traguardo del miliardo di euro di raccolta all’anno, coinvolgendo anche le Pmi innovative”, conclude in proposito Masserdotti, “va vinta una scommessa anche di tipo culturale, che coinvolge anche l’intervento del soggetto pubblico”. G.R.
EASYRAIN VOLA CON 5 MILIONI Indaco Ventures I, il fondo promosso dall’omonimo venture capital italiano, e Aldo Bianchi Vimercati, imprenditore che ha a lungo operato nel settore della componentistica meccatronica per auto, sono i due investitori che in tranche successive hanno sottoscritto l’aumento di capitale da cinque milioni di euro di Easyrain. Per la startup cresciuta all’interno di I3P (incubatore del Politecnico di Torino) arriva quindi la possibilità completare lo sviluppo della soluzione che previene il fenomeno dell’aquaplaning, migliorando le prestazioni dei veicoli su asfalto bagnato per abbattere il rischio di incidenti mortali.
SOISY DA RECORD La campagna di equity crowdfunding lanciata il 6 novembre scorso sul portale 200crowd.com da Soisy, startup specializzata nel marketplace lending, si è chiusa dopo soli otto giorni con 1,25 milioni di euro raccolti. Ovvero 350mila euro in più rispetto all’obiettivo iniziale. Si tratta della somma più alta mai raccolta da una azienda del fintech in una campagna di crowdfunding, nonché di una delle operazioni più rapide tra quelle realizzate in questo settore.
l’opinione
DIGITALLY NATIVE VERTICAL BRAND: LE STARTUP CHE SFIDANO AMAZON Operano su scala mondiale e stanno vincendo la sfida grazie a modelli integrati che vanno dalla produzione alla distribuzione. Ecco chi sono.
Warby Parker per comprare un paio di occhiali, Bloovery per un bouquet, Bonobos e Lanieri per l’abbigliamento maschile su misura, Daniel Wellington per acquistare un orologio o ancora Interior Define e HomePlaneur per rinnovare l’aspetto degli interni. Direct to consumer, digitally native vertical brand (Dnvb) e v-commerce sono solo alcune delle espressioni che definiscono questa nuova generazione di startup, la quale ha saputo affiancarsi con successo a operatori più tradizionali. Questi marchi “nativi digitali” emergono in un contesto caratterizzato, negli Stati Uniti così come in Europa, da un duplice fenomeno. Se da una parte l’e-commerce globale continua la propria ascesa con un incremento annuale del 20% dal 2015 (fonte eMarketer), dall’altra Amazon cresce più velocemente del mercato stesso (quasi il 23% nel 2016 e più del 69% nel 2017), accentuando il divario con i marchi tradizionali delle vendite online. Il numero dei v-brand nativi digitali, in questo scenario, continua a svilupparsi in modo esponenziale e solo negli Usa sono già diversi quelli che superano i 100 milioni di dollari di fatturato annuale. A caratterizzare queste startup è un modello totalmente integrato, che va dalla fabbricazione del prodotto alla sua vendita. La loro peculiarità è quella di eliminare il ricorso alle società intermediarie di distribuzione multimarca e di offrire ai clienti un prezzo più competitivo e commisurato alla qualità del prodotto. Unitamente alla riduzione dei costi, l’adozione di un modello basato sul
rapporto diretto e “verticale” comporta anche una diminuzione delle asimmetrie informative. In tal senso è emblematico l’esempio del marchio d’abbigliamento Everlane, in grado di praticare una politica di trasparenza che spazia dalle materie prime utilizzate fino al dettaglio dei costi di ciascun capo e del margine di guadagno applicato. Anteporre la qualità alla quantità è un altro imperativo dei Dnvb, che sono operatori specializzati e non generalisti e per questo focalizzati su una gamma limitata di articoli, progettati per rispondere alle esigenze di un target di consumatori specifico. Alcune aziende hanno fatto della completa personalizzazione il proprio cavallo di battaglia. La californiana Stance Socks è una di esse, così come lo è l’italiana Lanieri, che offre ai clienti la possibilità di creare il proprio capo su misura utilizzando avanzati strumenti digitali. Se gli operatori retail multimarchio sono in concorrenza diretta con Amazon e gli altri
giganti del settore, sia in termini di prezzi sia in termini di servizi, queste aziende sono nella condizione perfetta per potersi differenziare con approcci unici, gestendo in toto i processi di distribuzione. È il caso della casa di abbigliamento italiana Tela Blu, che garantisce la ricezione della merce entro 48 ore, o della startup francese (presente in Italia dal 2017) Tediber, che produce e vende materassi di qualità consegnando gratuitamente a casa entro 72 ore dall’ordine. Tutti i v-brand digitali vantano, infine, una grande padronanza dei social network per gestire la comunicazione, pongono estrema attenzione alla customer experience e nei casi più maturi estendono al mondo fisico l’esperienza e-commerce. Hanno seguito questa strada la francese Sézane o il calzaturificio italiano Velasca, online dal 2013 e ora attivo anche con negozi tradizionali. Mettendo il cliente al centro del modello di business. Alice Mordonini, country manager Italia di Tediber
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INNOVAZIONE | Digital transformation
Ambienti informatici eterogenei, gestiti con l'approccio softwaredefined, sono la via di accesso alla trasformazione digitale. Ce ne parla Henri Van der Vaeren, vice presidente per la regione Semea di Vmware.
L’AZIENDA AGILE? CLOUD E VIRTUALIZZAZIONE
I
n principio era la virtualizzazione dei server, una vera rivoluzione tecnologica che ha permesso alle risorse di calcolo fisiche di diventare “astratte” per mettersi al servizio delle applicazioni in modo più efficiente ed economico. Oggi questo non basta più. Ai tempi del cloud serve un’agilità ancor maggiore e, dato che il cloud nelle aziende è soprattutto ibrido, servono tecnologie capaci di fare da ponte tra nuvola e on-premise. Per questo Vmware punta su questo approccio, combinandolo alla virtualizzazione o meglio a una virtualizzazione estesa all’intero data center e non più solo ai server. La sesta software house al mondo per fatturato (7,86 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2017, 16
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un quinto dei quali reinvestiti in ricerca & sviluppo) è convinta che il mondo del cloud computing si possa conciliare con le macchine virtuali. Henri Van der Vaeren, vice presidente per la regione Semea (Europa meridionale, Medio Oriente e Africa), ci racconta la strategia di questa “nuova” Vmware. Si parla molto di trasformazione digitale, ma che cosa significa per le aziende dal vostro punto di vista?
Siamo un riferimento per le tecnologie del software-defined data center, o private cloud che dir si voglia. Ma oggi le aziende ci richiedono soluzioni di livello enterprise per il cloud ibrido, che assicurino agilità ma anche la garanzia
Henri Van der Vaeren
di rispettare gli Sla. Da un paio di anni abbiamo lanciato quella che chiamiamo strategia multi-cloud e che significa permettere ai nostri clienti di essere agili.
Che cosa intendete per “agilità”?
I nostri clienti possono scegliere su quale cloud collocare le proprie applicazioni a seconda del fatto che siano missioncritical oppure no, e possono spostare una macchina virtuale da un ambiente pubblico a un privato, e viceversa, in modo semplice. Se anche le applicazioni risiedono in ambienti differenti, la nostra tecnologia fa da raccordo. Insomma si può avere un’unica archiettura, ma con l’agilità di potersi muovere tra un cloud e l’altro. Lasciate libertà sulla scelta del fornitore?
Siamo neutrali sulle scelte del cliente, non poniamo limiti né sull’hardware né sul cloud. Abbiamo stretto accordi con i principali fornitori, a partire da Amazon Web Services e da Ibm, mentre in Cina abbiamo avviato un’alleanza analoga con Alibaba. Contiamo, inoltre, su una rete di quattromila partner che in
GIOIE E DOLORI DEGLI ANALYTICS Da qui a cinque anni gli analytics acquisteranno crescente importanza per le aziende, che vi cercheranno indicazioni su come diventare più efficienti, produttive e reattive al cambiamento: ne è convinto il 90% dei 500 professionisti di società britanniche, tedesche, statunitensi, giapponesi e brasiliane interpellate da Microstrategy in una recente indagine (“2018 global state of enterprise analytics”). Fra le realtà che attualmente li impiegano, il 78% pensa di farlo proficuamente, derivandone incrementi di efficienza e produttività (vantaggio citato dal 63% degli intervistati) e migliore capacità di prendere le giuste decisioni (57%). Nove aziende su dieci prevedono invece di aumentare da qui ai prossimi cinque anni gli investimenti in tecnologie e in nuove assunzioni di professionisti qualifi-
cati. Un dato certamente positivo, tuttavia in certi sensi obbligato: gli analytics sono ancora un problema sotto diversi punti di vista. Un professionista su due (il 49%) nutre, infatti, preoccupazioni su privacy e sicurezza delle informazioni, uno su tre (il 33%) pensa che l’accesso ai dati non sia abbastanza “democratico” all’interno dell’azienda. La questione sfiora soltanto i manager: solo il 16% non ha visibilità sui dati e sulle analitiche della propria società, mentre la quota degli “esclusi” sale al 52% fra gli addetti alle vendite, al marketing e alle attività di contatto e supporto con i clienti. Nei prossimi anni, infine, le aziende dovranno pensare a dotarsi di figure specializzate in analytics, come d’altra parte ha già fatto la maggioranza del campione (il 57%) prevedendo in organico un chief data officer.
tutto il mondo vendono le nostre tecnologie o soluzioni basate su di esse. Con le tecnologie di CloudHealth, società da noi recentemente acquisita, aiutiamo ad avere visibilità e a gestire i costi. Come si conciliano cloud e virtualizzazione?
Attraverso il software virtualizziamo qualsiasi tipo di hardware in qualsiasi tipo di architettura, on-premise e nel cloud, per incrementare l’efficienza e diminuire i costi. La virtualizzazione si applica al computing, alle reti Lan e Wan e all’archiviazione dei dati, su qualsiasi dispositivo end user, dai computer da scrivania ai telefonini. Per modernizzare le applicazioni serve un’infrastruttura informatica altrettanto moderna. Come si potrebbe raccontare, in sintesi, la Vmware di oggi?
È una società che ha vent’anni di storia alle spalle, ma è proiettata al futuro. Cresciamo non solo nei prodotti legacy ma anche nelle soluzioni più recenti, lanciate negli ultimi anni. E stiamo già pensando al futuro, quando si potrà parlare di self-driving data center: un’evoluzione del software-defined su cui stiamo investendo molto. Attraverso tecnologie che analizzano ogni secondo le richieste e il funzionamento delle applicazioni, anche con il machine learning, il data center potrà adattarsi in automatico ai carichi di lavoro. Puntiamo molto anche sull’Internet of Things, considerando che secondo le previsioni nel 2020 esisteranno 50 miliardi di oggetti connessi. Ma probabilmente saranno molti di più. Da qualche mese Raffaele Gigantino è in carica come country manager. Quanto è importante per voi l’Italia?
È un mercato in crescita, nonché uno tra i primi cinque della regione Semea. Continueremo a investire e ad assumere nuove persone per l’area marketing e vendite, sia a Milano sia a Roma. Valentina Bernocco 17
INNOVAZIONE | Digital transformation
PMI IN SOFFERENZA, GOVERNANCE CERCASI Secondo uno studio di The European House Ambrosetti, nove imprese su dieci non utilizzano tecnologie avanzate. E manca una visione strategica.
L‘
86% delle imprese italiane non utilizza tecnologie “4.0”, per la modernizzazione dell’industria, e non progetta di farlo in futuro. Le sofferenze maggiori sono nelle aziende medie e piccole o del Sud Italia: solo il 5,2% ha adottato almeno una tecnologia di questo tipo. Le difficoltà delle nostre imprese non si esauriscono però alla pura componente tecnologica: prendendo in considerazione i modelli di business, emerge come sei su dieci (59,4%) siano statiche, non impegnate in alcuno sforzo innovativo e come solo l’11,9% abia messo in opera progetti integrati di questo tipo. La seconda edizione del rapporto “Geopolitica del Digitale – Nuovi confini, crescita e sicurezza del Paese”, sviluppato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con Elettronica Group, è impietosa nel confermare tutte le difficoltà della Penisola nell’affrontare l’attuale contesto competitivo. Come intuibile, in fatto di “geopolitica del digitale” (la disciplina che studia gli impatti della tecnologia, del Web e delle piattaforme multimediali sulle interazioni tra attori di tipo sociale, istituzionale ed economico/industriale) l’Italia non ne esce bene. A livello sistemico, infatti, emerge una scarsa propensione a partecipare a network di ricerca 18
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e di innovazione, mentre l’insufficiente disponibilità di competenze (solo l’1,1% dei laureati italiani ha concluso un percorso di studi universitari in discipline Ict) si specchia in altre voci negative, quali la scarsa spesa pubblica in materie di ricerca e sviluppo e un livello di finanziamenti alle startup innovative tra i più bassi al mondo. E non è bastato a invertire la tendenza nemmeno il Piano Nazionale Industria 4.0, che pur ha fornito un contributo importante per la trasformazione digitale del sistema industriale italiano mettendo a disposizione circa 9,8 miliardi di euro di incentivi fiscali. Le sue positive ricadute, peraltro, hanno interessato prevalentemente imprese già impegnate in percorsi di svecchiamento del parco macchinari e delle dotazioni tecnologiche.
Un quadro decisamente poco incoraggiante, in cui fanno fatica ad emergere le risorse strategiche e di natura geopolitica necessarie per la progressiva digitalizzazione di economie e società: i dati. Entro il 2020 il volume di informazioni disponibili sarà dieci volte superiore a quello attuale e già oggi la cosiddetta “data economy” sviluppa in Europa un mercato da 60 miliardi di euro. Data center e infrastrutture abilitanti (cavi, connettori, sensori, satelliti, reti di telecomunicazioni) diventeranno asset indispensabili. E lo stesso dicasi per le competenze e per i nuovi talenti in grado di assicurare le abilità per governare la rivoluzione digitale: ad oggi, circa quattro imprese europee su dieci faticano a trovare figure professionali adatte a ricoprire posizioni vacanti e solo il 30% della forza lavoro
nell’area Ue è dotata di competenze tecnologiche superiori al livello base. Soggetti pubblici e tessuto industriale ed economico sono oggi più che mai chiamati a definire una strategia digitale in grado di valorizzare le dotazioni a livello macro (sistema-Paese) e micro (le aziende) creando nel contempo i presupposti affinché il l’Italia acquisisca prontamente le risorse e infrastrutture necessarie per operare con successo nel nuovo scenario competitivo. Un passaggio vitale e prioritario, quello appena descritto, che il nostro Paese ancora non riesce a fare (del tuttoproprio. La digitalizzazione della nostra industria, conclude lo studio di Ambrosetti, appare in netto ritardo, sbilanciata in fatto di dotazione tecnologica e ancora mancante di una profonda trasformazione di modelli di business e processi organizzativi. Che cosa servirebbe? La ricetta confezionata dagli esperti, sulla carta, è molto chiara: da un lato bisognerebbe stimolare l’effettivo passo in avanti dell’industria nel digitale, incentivando i settori a elevata capacità di “spillover”, i processi di generazione di nuova conoscenza; dall’altro spetterebbe ai player di portata sistemica la definizione di nuovi standard per le proprie catene di fornitura e subfornitura. Alla base di tutto è invece necessaria una governance per l’innovazione, chiara e centralizzata, che definisca le tecnologie chiave e i settori strategici nei quali investire. Piero Aprile
L’INFRASTRUTTURA IT? INADEGUATA Se è vero che la corsa delle aziende verso la trasformazione digitale sta accelerando, con un impatto specifico sugli investimenti informatici, è altresì vero che non tutte le imprese stanno viaggiando alla stessa velocità. Secondo una nuova indagine condotta da Idc a livello interna-
È ORA DI PASSARE DALLE PAROLE AI FATTI Forrester: l’ideale di trasformazione digitale nel 2019 dovrà conciliarsi con un approccio più pragmatico.
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ome sarà il nuovo anno delle aziende, per quanto riguarda i progetti incentrati su cloud, analytics, intelligenza artificiale, Internet of Things, DevOps, container e quant’altro possa tradursi in trasformazione digitale? Il 2018, scommettevano gli analisti di Forrester sul finire del 2017, avrebbe dovuto essere l’anno della svolta e del cambiamento per molte aziende. “Le aziende sognavano in grande”, si legge nel report sulle previsioni per il 2019, “per rispondere alle pressioni di una domanda evoluta e più esigente”. Dunque si puntava a ottenere maggiore efficienza nelle operations, a migliorare la customer experience, a entrare in nuovi mercati e a creare nuove fonti di ricavi. Quest’anno, invece, come sottolinea Forrester, “oltre il 50% degli sforzi di trasformazione digitale si è arenato. Sebbene molti chief information officer e chief marketing officer abbiano
zionale, circa un terzo dei Cio intervistati ammette inefficienze a livello infrastrutturale e applicativo che impediscono ai progetti di digital transformation di progredire. Un’azienda su tre, nello specifico, è ancora frenata da un’infrastruttura It inadeguata in fatto di agilità, scalabilità e sicurezza. Le pressioni esercitate da clienti e concorrenti, inoltre, hanno spinto molti chief information offi-
accelerato il cambiamento, la maggior parte ha fatto fatica a spingere l’azienda a pensare e ad agire diversamente”. Alcune realtà non erano ancora pronte, altre erano carenti di tecnologie o competenze, altre ancora semplicemente poco organizzate internamente per la trasformazione. E i sogni di realizzare progetti su larga scala si sono scontrati con complessità e costi spesso insostenibili. Siamo così arrivati alle porte del nuovo anno con molte aspettative deluse. E ora? Chiaramente nulla cambierà dall’oggi al domani, ma secondo gli esperti nel 2019 le iniziative di digital transformation diventeranno tendenzialmente “pragmatiche”. Le aziende dovranno guardare in faccia i limiti concreti e magari correggere al ribasso le aspirazioni, tenendo conto di fattori quali la preparazione organizzativa e tecnologica, la capacità di gestire i dati e la solidità della posizione di mercato. In qualche modo, questo approccio più maturo servirà a definire lo status quo e a evidenziare limiti e possibilità di cambiamento fattibili. Pragmatismo, appunto. V.B.
cer a riutilizzare applicazioni legacy per risparmiare tempo e risorse per la trasformazione digitale, finendo però per produrre un effetto contrario, aumentando costi e problemi. Rispetto a questo scenario attuale, gli analisti prevedono che entro il 2022 il 75% delle strategie digitali di successo avrà origine da un’organizzazione It completamente rivisitata e razionalizzata.
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INNOVAZIONE | Digital transformation
CAMBIO DI MARCIA All’ultimo Technologies Forum, Dell Emc ha fatto il punto sul processo di trasformazione digitale delle imprese italiane. Che finalmente sembra mostrare molte luci e poche ombre.
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ei primi nove mesi del 2018 Dell Emc ha realizzato il fatturato dell’intero anno precedente. Un risultato clamoroso, visti i tassi di crescita positivi ma non eccezionali del comparto It. Il merito, secondo Marco Fanizzi e Filippo Ligresti – vice presidente e general manager enterprise sales, il primo, vice presidente e general manager commercial sales di Dell Emc Italia il secondo – è tutto della trasformazione digitale, i cui investimenti si concentrano soprattutto nei settori della cybersicurezza e dell’Internet of Things. “In questo momento”, ha detto Fanizzi, “le aziende cercano risparmi sui data center e investono 20
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sulla customer experience e sui processi produttivi. Poiché la reputazione nel mondo digitale è tutto, i fattori di rischio relativi al brand portano le imprese a dedicare maggiori risorse alla cybersecurity”. “L’IoT è in pieno sviluppo”, gli fa eco Ligresti, “con un approccio di tipo trial and error: c’è molta sperimentazione e ci sono poche certezze. È per questo che le aziende si rivolgono spesso a un partner tecnologico che sia in grado di risolvere a priori le problematiche tecniche, per consentire al cliente di concentrarsi sulla sperimentazione. Sul fronte del settore manifatturiero abbiamo visto infatti passi molto importanti in direzione di manifattura smart e Industry 4.0,
Marco Fanizzi
anche grazie agli incentivi governativi che al momento sembrano poter continuare con la prossima finanziaria”.
L’Italia non aspetta, lo dicono i dati
UN NUOVO RINASCIMENTO I dati sono l’energia del nuovo mondo digitale, un mondo che sta attraversando un periodo di grande crescita, simile a quello che ha contraddistinto il Rinascimento. Il paragone, azzardato ma affascinante, è di Patricia Florissi, global Cto for sales di Dell Emc. La manager sposa la filosofia di Dell Technologies, che supporta fenomeni emergenti quali l’Intelligenza Artificiale e l’IoT, ma che crede in una crescita sostenibile, contraddistinta da un consolidamento delle infrastrutture e dalla collaborazione di diversi soggetti alla trasformazione digitale. “La sostenibilità è fondamentale”, racconta a Technopolis in occasione del Dell Technology Forum, “perché senza di essa rischiamo di diventare troppo dipendenti dalla tecnologia. Per questo noi partiamo sempre dal business case del singolo cliente e lo guidiamo verso lo scenario migliore, considerando non solo il digitale ma in parallelo più fenomeni, come la riduzione dei costi (insieme al Cfo dell’azienda), i nuovi modelli di business (insieme al Ceo) e la customer experience (insieme al Cmo)”. Proseguendo nella similitudine con il Rinascimento, per Florissi arriva da Leonardo
Patricia Florissi Da Vinci, che miscelava sapientemente diverse scienze e forme d’arte per costruire scenari complessi e anticipatori. “Anche se il business è interessante e affascinante”, prosegue la manager, “dovendo citare tre killer application della trasformazione digitale e in particolare di tecnologie come l’Intelligenza Artificiale e l’IoT, penso a sconfiggere la povertà, garantire salute a tutti gli abitanti del pianeta e un giusto livello di educazione a tutti. Oggi, grazie allo sviluppo delle telecomunicazioni, dell’informatica, della robotica, questi obiettivi sono traguardabili ma, ancora una volta, il più grande limite per questa sfida è rappresentato dai dati e dalla capacità di impiegarli efficacemente e correttamente”.
Il “Digital Transformation Index” di Dell Technologies, studio realizzato in collaborazione con Intel e basato su dati di Vanson Bourne, ha tracciato lo stato dell’arte della trasformazione digitale nelle medie e grandi imprese. E ha rilevato che in Italia il 52% delle aziende investirà nell’intelligenza artificiale entro i prossimi tre anni (erano il 24,5% nella rilevazione del 2016) mentre oltre il 70% svilupperà iniziative di cybersecurity per proteggersi da attacchi informatici sempre più frequenti e il 37% realizzerà progetti in ambito IoT. “Il 45% dei clienti ha paura di restare indietro tecnologicamente nei prossimi cinque anni”, ha aggiunto Fanizzi, “ma il quadro della corsa alla trasformazione digitale è incoraggiante: il 10% delle aziende è identificato dalla ricerca come digital leader (era appena il 2% nel 2016), il 23% come adopter, il 26% come evaluator e solo il 36% si trova nella situazione di laggard o follower. Per l’Italia è un vero e proprio cambio di paradigma”. “Ci sono segnali positivi sullo stato dell’arte della trasformazione digitale in Italia”, ha commentato Ligresti. “Due anni fa molte meno imprese italiane si erano classificate come leader digitali e sono raddoppiate quelle intenzionate a puntare sull’intelligenza artificiale. Adesso è necessario continuare a concentrarsi su alcuni aspetti chiave, quali le risorse per costruire le nuove infrastrutture essenziali di base: per esempio reti adeguate, neutrali, 5G, che possano supportare il traffico, infinitamente superiore, prodotto dalle macchine connesse dell’Internet delle cose. Non si può rinunciare a scommettere sui nostri giovani e sulla creazione delle competenze necessarie: serve un grande investimento che supporti l’adeguamento ‘accelerato’, un piano di re-skilling dei lavoratori attuali, che affronti il significativo divario di competenze tecnologiche della nostra forza lavoro. E lo Stato deve farsi parte attiva di questo processo”. Emilio Mango 21
TECHNOPOLIS PER BROTHER
PRINTING 3.0: LA PAROLA D’ORDINE È “DIGITALE” La trasformazione delle aziende passa dalla gestione documentale, sia su carta sia in forma dematerializzata. E dev'essere conciliata con esigenze di tutela e protezione dei dati.
La parola d’ordine del Terzo Millennio è “digitale”, ed è in questa direzione che si stanno muovendo le aziende di tutte le dimensioni, poiché consapevoli che la trasformazione digitale in atto debba passare necessariamente da una migliore gestione interna di tutti i dati a disposizione. Conseguenza di questo processo di sviluppo in ambito digital, unita all’affermazione di tecnologie come cloud, Big Data e analytics, è la progressiva dematerializzazione dei documenti: le imprese sono in grado di gestire in tempo reale una mole crescente di contenuti informativi, fondamentali per processi decisionali rapidi ed efficaci. Vengono definiti nuovi confini tra carta e digitale, soprattutto negli ambiti in cui la stampa non può essere del tutto abbandonata ma dev’essere invece profondamente ripensata. Per essere all’avanguardia è indispensabile offrire soluzioni di qualità che rispondano concretamente alle nuove esigenze dei clienti. Per questo, già da tempo la missione di Brother è quella sviluppare servizi e soluzioni di stampa e gestione documentale che si integrino con continuità nei flussi di lavoro aziendali, per migliorare produttività ed efficienza e per ridurre i costi di gestione. I clienti chiedono strumenti che portino efficienza per lasciare 22
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spazio a ciò che conta davvero: fare business. I servizi di stampa gestita sono nati proprio per garantire un maggiore controllo su periferiche e materiali di consumo, ma anche un migliore governo del ciclo di vita dei documenti, eliminando i classici confini tra carta e digitale. Benefici riconosciuti dallo stesso mercato, attento a destinare sempre più investimenti a quest’ambito. La recente introduzione del Gdpr ha portato nuove necessità in ambito printing. Le aziende devono assicurarsi che tutti i dispositivi collegati in rete siano protetti in ogni fase, dall’invio al ritiro della stampa, perché possono costituire pericolose porte di accesso alle reti aziendali. Nonostante i percorsi di Digital Transformation in atto, la carta è ancora al centro di tanti processi d’impresa: i sistemi di stampa non sono esclusi dalla normativa, perché riguardano la condivisione dei dati e pertanto sono soggetti a misure di sicurezza idonee. Conseguentemente, le aziende necessitano di un approccio proattivo per proteggere tutti i dispositivi che potrebbero rivelarsi una porta di accesso al network aziendale. Per rispondere alle sempre crescenti esigenze di business security e tutela della privacy, Brother adotta una strategia globale di protezione delle informazioni che garantisce un accesso sicuro alla rete e ai dispositivi grazie alle soluzioni di security printing, crittografia, pull printing e managed print services. Si neutralizzano così le quattro vulnerabilità dei sistemi di stampa: documenti abbandonati (e prelevabili da persone non autorizzate), esfiltrazione di dati elaborati dai dispositivi multifunzione e registrati sull’hard disk, accesso non autorizzato alle periferiche e rischi di network security. Tutte vulnerabilità che possono essere eliminate definendo, con la consulenza di Brother, una politica di sicurezza per l’intera flotta di periferiche. Il Brother Special Solutions Team è un gruppo di esperti di settore a disposizione del cliente o del partner per customizzare o creare soluzioni dedicate su specifiche richieste. L’approccio collaborativo unisce l’esperienza del team di software engineer all’esperienza di business analyst per costruire la soluzione adatta alle esigenze, le più diverse.
TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX & ACCOUNTING ITALIA
FATTURAZIONE ELETTRONICA: UN SOFTWARE RISOLUTIVO
Il nuovo obbligo contabile coinvolgerà oltre 5 milioni di partite IVA. Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia ha la soluzione giusta anche per il commercialista. Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia ha promosso lungo tutta la penisola, sin dallo scorso marzo, una lunga serie di incontri con la sua clientela, ma non solo, per spiegare la nuova normativa sulla fatturazione elettronica B2B e illustrare un software che può risolvere il problema. Il riscontro partecipativo al roadshow per Fattura SMART è stato ampiamente positivo. Sono emersi timori, preoccupazioni, ansie, sia dal mondo professionale sia da parte dell’imprenditore utilizzatore, fugate però da un applicativo come Fattura SMART. Il commercialista sta prendendo coscienza della mutazione della professione e della sua rinnovata e rafforzata centralità. Non deve esistere timore per un’automazione del processo, né un istintivo respingimento della novità perché questa può, o meglio deve, essere portatrice di un nuovo modo di fare il commercialista e rappresentare anche un ulteriore filone di attività e di ricavi. La chiave di volta è la dimostrazione pratica dell’accessi-
bilità e della semplicità della soluzione di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia. Fattura SMART può essere utilizzata anche da chi non abbia dimestichezza con il Pc, senza aiuti né istruzioni e sin dal primo momento. L’innovativo software in cloud Fattura SMART di Wolters Kluwer Tax and Accounting Italia si rivolge allo studio e al suo cliente. L’obiettivo che il professionista può centrare con Fattura SMART rendere più efficiente il proprio lavoro, semplificando creazione e consegna delle fatture da parte del cliente. Fattura SMART consente una puntuale verifica dell’avvenuta trasmissione dei dati e rappresenta un collegamento tra cliente e studio disponibile 24x7. La soluzione rappresenta un servizio moderno, innovativo, sempre accessibile per l’emissione delle fatture, e permette di ottenere dalla propria clientela un flusso dati strutturato che ne automatizza l’importazione. Con il software il commercialista acquisisce la traccia delle consegne eseguite dal cliente e del loro stato di avanzamento verso la contabilizzazione, senza doverle ricercare nelle mail e verifica direttamente nella piattaforma di condivisione il punto sulle consegne. Inoltre, risparmia tempo demandando al servizio il controllo di codice fiscale e partita Iva, fondamentali per le comunicazioni trimestrali delle fatture e automatizza la registrazione contabile delle fatture con funzioni di importazione dell’applicativo contabile Wolters Kluwer Tax and Accounting utilizzato in studio. Le funzioni apprendono autonomamente come importare e come contabilizzare, diventando quindi sempre più efficienti con l’utilizzo. Dal lato del cliente, Fattura SMART consente di utilizzare un software unico per l’emissione delle fatture che conteggia quante siano state pagate o siano da pagare, salva il documento già numerato in formato PDF, invia tutto via mail direttamente dall’applicativo, produce XML per B2B o FEPA, fornisce i plichi delle fatture mediante una semplice selezione ed elimina totalmente i costi di carta e francobolli. Fattura SMART di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia è un applicativo di immediata operatività anche per quei soggetti che non avrebbero mai immaginato di poter operare digitalmente con tanta semplicità. Fattura SMART è davvero un prodotto di massa pensato per assolvere le funzioni nel ciclo passivo e attivo con flessibilità, immediatezza, efficacia e in ubiquità. 23
INNOVAZIONE | Italia digitale
Capitale umano ed ecosistema industriale possono essere il trampolino di lancio per la crescita del sistema Paese alla voce innovazione. Questa la ricetta di Deloitte.
FOCUS SULLE ECCELLENZE
“L‘
innovazione come un motore di crescita: da dove partiamo e come possiamo estrarne valore? Il valore dei nostri asset è talmente grande, così come lo è la consapevolezza di dover cogliere le opportunità offerte dall’attuale contesto, che il settore imprenditoriale ha il dovere di rispondere a questi stimoli con un approccio pragmatico, strutturato e creativo”. Inizia con queste parole la nota di Deloitte che accompagna l’ampia panoramica tratteggiata in occasione dell’ultima edizione del suo “Innovation Summit”. Il tema è quello della trasformazione digitale, potenziale volano di sviluppo per l’Italia, e di spunti ce ne sono tanti. Uno su tutti: la tecnologia potrebbe 24
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spingere l’economia a una tasso di crescita più che doppio rispetto a quello previsto per il Pil nei prossimi quattri anni. “Come segnalato dall’Ocse”, ha spiegato Andrea Poggi, innovation leader di Deloitte in Italia, “se osserviamo l’andamento economico di alcuni Paesi negli ultimi vent’anni possiamo identificare una chiara relazione tra crescita e innovazione: le nazioni che hanno scommesso di più nella ricerca e sviluppo hanno ottenuto tassi di incremento più alti. E per il nostro Paese, per i circa quattro punti percentuali di crescita del Pil attesa nei prossimi quattro anni, si tratterebbe di più di 30 miliardi di euro”. Una grande occasione, dunque, che potrebbe tradursi in un veloce passo in avanti per l’economia se l’Italia
riuscisse ad allinearsi ai risultati attesi per Paesi a maggior tasso di digitalizzazione, fra cui Stati Uniti, Cina, Israele e Corea del Sud. L’analisi delle nazioni più virtuose, fanno notare da Deloitte, dimostra come alla base del valore generato dall’innovazione vi siano tre elementi chiave: asset naturali, politiche industriali ed ecosistema imprenditoriale. Ed è su questo piano che il nostro Paese gioca le proprie chance di riscossa. “Il valore delle risorse naturali, unitamente a efficaci politiche industriali mirate alla valorizzazione delle risorse stesse, se inserito in un ecosistema di attori e investitori privati pronti a credere nell’innovazione crea un meccanismo virtuoso di crescita”, afferma in propoLuca Rossetti sito Poggi.
Investimenti pubblici, regolamentazioni e incentivi devono quindi essere finalizzati a monetizzare doti quali il capitale umano e le eccellenze, se si vuole affrontare un percorso di innovazione virtuoso. Gli Stati Uniti (la cui spesa pubblica in ricerca e sviluppo nel 2017 ammontava a 143 miliardi di dollari), la Cina e gli altri campioni del digitale sono già attivi da tempo in questa direzione. E hanno scavato un solco enorme fra loro e il resto del mondo. Per il nostro Paese è tempo di capire che, come conclude Poggi, “è fondamentale partire dall’ecosistema imprenditoriale e umano a nostra disposizione per avviare un percorso virtuoso di crescita esponenziale. Ma affinché ciò avvenga è necessario considerare due elementi fondamentali: comprendere la natura dei cambiamenti in atto per gestire l’equilibrio tra ciò che il consumatore vuole e ciò che non sa di desiderare e adottare un approccio all’innovazione in grado di coniugare l’indisciplina delle nuove idee e il rigore delle metodologie”. Piero Aprile
MERCATO DIGITALE A QUOTA 65 MILIARDI Il giro d’affari dei servizi e delle tecnologie digitali in Italia, così come l’ha fotografato una recente ricerca realizzata da Ey in collaborazione con Iab Italia, regala buone notizie in virtù di un percorso di sviluppo che non sembra conoscere soste e “regala” evidenti ripercussioni positive sia sull’economia sia sull’occupazione. Questi i dati salienti dello studio: 285mila professionisti impiegati rispetto ai 253mila dell’anno precedente, un fatturato che raggiunge i 64,6 miliardi di euro con un incremento anno su anno dell’11,6%. La pubblicità online e l’e-commerce si confermano i comparti che viaggiano più velocemente, con rialzi rispettivamente del 13% e 15% rispetto al 2017, pesando sull’economia digitale della Penisola nell’ordine del 4% (per circa
2,6 miliardi di euro) e del 44% (oltre 28 miliardi). A ritmi meno accelerati corrono le soluzioni di digital marketing e i servizi professionali (+9% e +7% rispettivamente) e gli investimenti in tecnologia (+8%, per circa 13 miliardi). Numeri, in generale, che confermano lo stato di buona salute di questo comparto, anche se la strada da fare è parecchia. “La politica economica del Governo”, ha osservato in proposito il Presidente di Iab Italia, Carlo Noseda, “può e deve svolgere un ruolo più determinante a sostegno della digitalizzazione, per una maggiore competitività a livello di sistema, per cui l’Italia ha ancora un gap importante rispetto al resto dell’Europa, divario che va colmato per uno sviluppo dell’economia a lungo termine”. G.R.
SPESA ICT A DOPPIA VELOCITÀ Cresce più del doppio del Pil, o quasi. Il mercato dell’information & communications è di sicuro una tra le componenti più dinamiche della nostra economia, come ben illustrato dall’ultimo rapporto di Anitec-Assinform: nel 2017 il giro d’affari delle vendite di hardware, software e servizi informatici e di telecomunicazione ha superato i 68,7 miliardi di euro, salendo del 2,3% rispetto all’anno precedente. Ma aspettiamo a festeggiare. Le stime per il 2018, dall’iniziale previsione di crescita del 2,6%, sono state ribassate al 2,3% “sull’onda di un quadro economico in rallentamento”, mentre per il 2019 e 2020 si ipotizzano incrementi (vincolati a una serie di condizioni) del 2,8% e 3,1%, rispet-
tivamente. La crescita, sottolinea infatti l’associazione di Confindustria, è sempre più legata “alla continuità dei provvedimenti di incentivazione come Impresa 4.0, al rilancio della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e all’inclusione digitale delle piccole imprese”. Luci e ombre emergono anche dall’ultimo report di Assintel, realizzato insieme a Idc. Considerando la sola spesa Ict delle aziende italiane (la stima è derivata da un campione di mille piccole, medie e grandi imprese), si calcola che quest’anno gli investimenti siano cresciuti appena dello 0,7% rispetto al 2017, arrivando a 30 miliardi di euro. Nel dato complessivo, di per sé modesto, sono contenute però le impenna-
te a doppia cifra del cloud (+25%), dell’Internet of Things (+18%), di intelligenza artificiale (+31%) e Big Data e analytics (26%), mentre la spesa (ancora contenuta in valori assoluti) per dispositivi indossabili e realtà virtuale e aumentata è salita, rispettivamente, del 43% e del 72%. Le tecnologie e le soluzioni relative ai processi che spaziano dalla gestione alla valorizzazione dei dati, amplificati dalle tecnologie apprendimento automatico e basati su nuove architetture cloud-ready, sono tra i segmenti più dinamici nelle previsioni 2019. La spesa in apparati e servizi telecomunicazione continua invece a calare, del 2,2%, anche per una riduzione del costo medio dei servizi. V.B.
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INNOVAZIONE | Italia digitale
QUANDO L’INNOVAZIONE PARTE DALL’ALTO La trasformazione declinata sui prodotti e sui modelli organizzativi ha trovato terreno fertile in iGuzzini. Anche grazie all’impegno di chi guida l’azienda.
È
uno dei simboli del made in Italy più riconosciuti all’estero, benché stia per passare sotto il controllo della svedese Fagerhult. Per chi, come iGuzzini, opera nel campo dell’illuminazione architetturale, il concetto di innovazione è strettamente correlato alla tipologia di prodotti installati in ambienti spesso fortemente orientati al design. Ma non solo. L’azienda di origine marchigiana ha scelto, soprattutto negli ultimi anni, di sfruttare le evoluzioni tecnologiche del proprio settore e quelle del mondo dell’informatica per costruirsi un’immagine all’avanguardia, tanto nella progettazione quanto nelle relazioni con la propria clientela. Un percorso centrato sul mantra dell’innovazione non può che partire dall’impegno e dalla mentalità aperta al cambiamento dei vertici dirigenziali. In questo senso Andrea Sasso, amministratore delegato di iGuzzini dal 2015, rappresenta una figura ancora poco radicata nel mondo industriale italiano: “Mi porto dietro una cultura del cambiamento già maturata in precedenti esperienze professionali, ma questa è un’azienda in cui la sperimentazione e l’innesto di tecnologie anche molto recenti fanno ormai parte del nostro quotidiano modo di operare”. La rivoluzione più recente per il settore dell’illuminazione è la tecnologia Led, 26
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che ha portato l’elettronica all’interno dell’infrastruttura della luce, consentendo di poter adattare le installazioni a ogni contesto e generando risparmi sui consumi. Allo stesso tempo, l’integrazione di sensori intelligenti all’interno dei punti luce o dei sistemi di controllo ha permesso di generare dati utili per attività di monitoraggio o di miglioramento della customer experience. Opportunità che iGuzzini ha già iniziato a sfruttare non solo a livello di prodotti, ma anche in alcune installazioni di prestigio, come quella che illumina la Pietà di Michelangelo nella Basilica di San Pietro a Roma. La tecnologia è la base
Ma l’innovazione parte dalla mentalità delle persone e da un lavoro che la tecnologia aiuta a rendere più fluido e che richiede grande attenzione alla formazione. “Una soluzione come Sap S/4Hana”, spiega ancora Sasso, “ci ha portato a far sì che tutti utilizzino esattamente gli stessi dati, riducendo
notevolmente i conflitti e le logiche di potere. Cerchiamo di esportare questa impostazione anche sui nostri clienti, per convincerli a integrare i dati che i nostri dispositivi producono con quelli già presenti, in modo da aumentare il livello di conoscenza sull’utilizzo degli impianti di illuminazione”. In una realtà in cui il top management influenza l’adozione delle tecnologie più innovative, l’It svolge un ruolo comunque centrale, soprattutto da quando è stato creato un team “digitale”, in cui si integrano diverse professionalità al servizio del demand management per i progetti a maggior contenuto innovativo, in collaborazione con le aree della produzione e delle vendite. “Le fondamenta del nostro sviluppo”, conclude Sasso, “risiedono in scelte come quella fatta con Sap o verso il cloud di Google e spetta all’It distribuire il potenziale delle analisi in tempo reale o del lavoro collaborativo”. Roberto Bonino
IL RETAIL È DATA-DRIVEN App mobile e lettura dello scontrino in tempo reale sono le leve che Aspiag Service - Despar utilizza per ottenere informazioni dai clienti e orientare le azioni di marketing.
Q
uando nacque, nel 1960, Despar pose quale primo elemento di distinzione la prossimità al cliente e la capillarità della distribuzione dei punti vendita. Sono passati quasi sessant’anni e il principio fondante è rimasto inalterato, esemplificato dai 1.215 punti vendita presenti sul territorio e da una forza espressa soprattutto con i format piccoli e medi, secondo la logica del supermercato di quartiere. Soprattutto negli ultimi anni, tuttavia, anche la grande distribuzione organizzata ha dovuto adattarsi ai cambiamenti imposti dall’evoluzione delle interazioni con i consumatori, non più soltanto anonimi acquirenti che entrano in uno spazio fisico, ma persone sempre più in grado di controllare e influenzare i processi d’acquisto attraverso gli strumenti digitali. Aspiag Service-Despar ha cercato di adattarsi rapidamente a questo mutamento nel customer engagement, come ci ha raccontato il responsabile dell’area digital marketing, Marco Marchetti. Come si struttura oggi la vostra relazione con i clienti o potenziali clienti? Come interagite con loro?
Tutte le attività di coinvolgimento avvengono solo in modalità digitale, tant’è vero che non esiste una carta fedeltà fisica. Le attività di customer engagement fanno leva in modo ormai pressoché integrale sull’applicazione Despar Tribù, che oggi può vantare
Marco Marchetti
Quanto sono “data-driven”, già oggi, i vostri processi e le iniziative collegate alla clientela?
Il marketing va in questa direzione già da diverso tempo e abbiamo creato circa un anno fa un dipartimento dedicato alla lavorazione dei dati provenienti dalla nostra app. Siamo anche in grado di leggere lo scontrino in tempo reale, con l’obiettivo di creare un livello di personalizzazione più elevato, collegando per esempio promozioni dedicate alle scelte di acquisto. una rete complessiva di circa 110mila contatti. Per ingaggiare il consumatore si utilizza una logica di gamification, in modo da puntare sul divertimento per agganciare l’individuo e poi spingere verso l’obiettivo desiderato, che si tratti di una promozione, di uno sconto, di un’informazione o dell’acquisizione di dati da incrociare con quelli già a nostra disposizione. Naturalmente siamo noi a doverci preoccupare di restare “agganciati” ai nostri clienti e lo facciamo incrociando la loro esperienza quando navigano nella nostra applicazione e sui social media, spingendo l’iscrizione alle newsletter e anche attivando strumenti esperienziali, come la raccolta “digitale” dei bollini su specifiche operazioni.
Le analisi sempre più dettagliate, supportate dalle tecnologie di machine learning, sembrano essere un passo naturale per un customer engagement sempre più efficace. Come vi state attrezzando in termini di competenze?
Gli strumenti di business intelligence e il Crm sono alla base delle nostre attività, ma siamo in grado di integrare soluzioni diverse, per esempio nella data visualization, cercando di non impattare troppo sull’esistente e con la libertà di sviluppare anche in casa. Facendo crescere il team interno ricaveremo le figure di data scientist necessarie per affinare le analisi e ricavarne informazioni utili per il business. R.B.
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INNOVAZIONE | Industria 4.0
DEPOTENZIARE IL PIANO? È UN AUTOGOL Il taglio delle risorse destinate a finanziare l’acquisto di macchinari e nuove tecnologie rischia di stoppare bruscamente il processo di trasformazione digitale delle imprese.
LA FORMAZIONE 4.0 NON SI TOCCA I direttori del personale si schierano compatti contro la cancellazione dalla Legge di Bilancio 2019 di uno degli incentivi fondamentali del Piano Industria 4.0: il credito d’imposta alla formazione. Le competenze tecnologiche, come emerso a chiare lettere da una ricerca condotta a quattro mani da Aidp e LabLaw, sono la nuova tutela del lavoro nell’era dei robot e dell’intelligenza artificiale e rappresentano uno strumento utile
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per gestire l’impatto che le nuove tecnologie avranno sulle professioni meno qualificate. “La cancellazione dell’incentivo fiscale è un atto contro il futuro del lavoro”, ha sottolineato in modo esplicito Isabella Covili Faggioli, presidente di Aidp, secondo cui “l’occupabilità nel nuovo mercato del lavoro passa dalla formazione 4.0 e per questo chiediamo a gran voce che non solo la misura sia ripristinata ma anche potenziata”.
U
n mercato da circa tre miliardi di euro e una crescita stimata degli investimenti del 30% rispetto al 2017. Industria 4.0 è stato e dovrebbe ancora essere qualcosa di più di un provvedimento “stagionale”, buono per accontentare soprattutto le grandi imprese e per alleviarne le difficoltà di spesa in una fase cruciale dell’economia nazionale. Ne è convinto Elio Catania, presidente di Confindustria Digitale, che all’indomani dell’ufficializzazione della manovra di Bilancio 2019 ha preso parola in più occasioni per criticare apertamente la decisione dell’esecutivo di tagliare gli incentivi fiscali per la digitalizzazione
del comparto manifatturiero. In termini di effetti finanziari, l’anno prossimo si passerà dagli 896 milioni previsti inizialmente con la proroga degli iper-ammortamenti e dei super-ammortamenti ai 377 milioni del nuovo documento programmatico, per scendere poi da 1,7 miliardi a 779 milioni nel 2020. “L’Italia ha accumulato molto ritardo in termini di produttività e capitale tecnologico, ma negli ultimi due anni si è rimessa in moto anche grazie al Piano Industria 4.0, che ha rappresentato un importante volano. La domanda c’è, perché le aziende sono sempre più consapevoli dei vantaggi della trasformazione digitale. E l’offerta c’è, perché i vendor stanno sviluppando soluzioni sempre più accessibili. Ma occorre mettere a terra tutte queste energie e continuare ad accompagnare le aziende italiane con politiche di sostegno”. In altre parole, la presa di coscienza delle imprese manifatturiere nei confronti delle nuove tecnologie e dei benefici ottenibili è qualcosa di reale e concreto, e non solo perché il digitale può impattare sul fatturato delle Pmi per circa il 10% del valore. Senza l’intervento dello Stato, insomma, la voglia di fare innovazione difficilmente si tradurrà in investimenti e crescita sistemica, anche se c’è chi (i rappresentanti dell’Associazione delle piccole e medie imprese e di Confartigianato) benedice la sterzata operata in manovra perché più vicina agli interessi della piccola industria. “Siamo molto preoccupati”, ha detto ancora Catania, mettendo nel mirino la Legge di Bilancio. “Manca una visione organica di un Paese che cambia e cresce utilizzando l’innovazione e i processi di trasformazione digitale”. A detta dell’ex manager di Ibm, Ferrovie dello Stato e Alitalia, l’opportunità da cogliere necessariamente è lo sviluppo di nuove competenze tra le giovani e le vecchie leve, per sopperire alla carenza di lavoratori qualificati in materia digitale e all’obsolescenza professionale. Sul piatto c’è la possibilità di creare, nei prossimi tre
anni, oltre 800mila nuovi posti di lavoro legati alle nuove tecnologie e la necessità di riqualificarne altrettante e per il tessuto manifatturiero italiano (sempre e comunque il secondo in Europa dopo quello tedesco) queste risorse sarebbero un’iniezione di valore assi importante. “Quello della formazione in ambito Industria 4.0 è un elemento cruciale per il sistema delle imprese”, ha detto di recente Catania, “e credo che il nuovo governo stia comprendendo il fatto che avere trascurato nella manovra il tema dell’innovazione non è stata una buona pensata. Il credito di imposta sulla formazione è troppo importante e per questo stanno lavorando su questo così come sugli incentivi per i servizi cloud, e quindi sull’integrazione delle tecnologie”.
Quale possa essere l’impatto del digitale, anche in chiave prettamente economica, è ormai di dominio pubblico. Peccato che, come ha ricordato ancora Catania, solo il 16% delle imprese abbia intrapreso progetti di industria 4.0, su un bacino di complessive quattro milioni di piccole e medie imprese e 80mila aziende manifatturiere. L’appello a creare i presupposti per un ecosistema che faciliti l’innovazione è quindi stato espresso in modo forte e chiaro, al pari della raccomandazione a non trascurare il tema della formazione. La palla passa ora a Palazzo Chigi, fermo restando che sebbene lo stimolo alla crescita debba venire dall’alto anche l’industria e gli imprenditori dovranno fare la loro parte. Gianni Rusconi
LA MANIFATTURA LAVORA CON L’AI Le tecnologie dell’industria 4.0 come motore di competitività per le imprese manifatturiere: su questo fronte l’impegno di Microsoft è forte. Lo dimostra un ecosistema di partner che in Italia conta di oltre diecimila aziende impegnate in progetti di trasformazione digitale in diversi mercati verticali. Uno di questi partener è BeanTech, il cui campo d’azione è l’area del NordEst, la cosiddetta “advanced manufacturing valley”. Qui opera per esempio Breton, azienda trevigiana a conduzione familiare attiva nella produzione di macchine utensili per la lavorazione della pietra e dei metalli: negli anni è cresciuta fino a contare sette filiali estere, 900 dipendenti in organico e un fatturato di circa 200 milioni di euro (nel 2017), il 5% dei quali destinati alla ricerca e sviluppo. Con “Breton Innoway” l’azienda ha avviato un progetto di trasformazione con l’obiettivo di introdurre un modello di produzio-
ne lean per la gestione end-to-end dell’ordine cliente e l’acquisizione e il monitoraggio dei dati generati dalle macchine. La soluzione implementata (Sentinel, appoggiata alla piattaforma cloud Azure e a un cruscotto di analisi Power BI) garantisce il controllo in tempo reale dell’efficienza e del funzionamento della macchina, fornendo precisi indicatori del funzionamento generale dell’impianto, una migliore visibilità sulla produzione nel suo complesso e l’ottimizzazione di manutenzione ordinaria e predittiva. I prossimi passi in chiave di industria 4.0, per l’azienda, chiamano in causa funzionalità di machine learning e intelligenza artificiale che verranno integrate nella soluzione: questo permetterà di affrontare problematiche legate all’enorme variabilità delle caratteristiche fisico-chimiche della pietra, che richiede una significativa personalizzazione di ogni processo di lavorazione.
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TECHNOPOLIS PER RICOH
INNOVAZIONE: UN MIRAGGIO DA TRADURRE IN REALTÀ un miglioramento graduale dei processi aziendali. Le aree più coinvolte dalla trasformazione, attualmente, sembrano essere il dipartimento finanza (citato dal 56% dei manager), l’information technology (48%), il marketing (48%) e le vendite (47%).
Laura Venturini, product marketing manager di Ricoh Italia
Tra le piccole e medie imprese europee domina la voglia di cambiamento, ma molte non sanno da dove cominciare. Le tecnologie, però, sono un alleato. Innovazione: tutti la vogliono e tutti ne parlano, ma in pochi hanno davvero capito come realizzarla. La confusione e la vaghezza imperano nelle aziende, di fronte a un obiettivo di cui tanto si sente parlare e di cui però molti non hanno inteso il vero significato. È quanto emerso da uno studio sponsorizzato da Ricoh Europe e realizzato interpellando 3.300 manager di piccole e medie imprese sparse su tutto il Vecchio Continente. Sebbene sia certamente positivo il dato per cui il 62% degli intervistati definisce come “innovativa” la propria azienda, non si può ignorare il restante 38% di realtà. Inoltre ben il 30% dei manager ha ammesso di non sapere nemmeno da che parte cominciare per intraprendere un cammino di trasformazione. Sul termine “innovazione” non c’è totale concordanza, forse perché questa parola può assumere diversi significati tutti ugualmente validi. Per il 60% degli intervistati si concretizza soprattutto nello sviluppo di nuovi prodotti, per il 56% comporta l’introduzione di nuove tecnologie sul posto di lavoro, per il 54% significa 30
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Il cambiamento è un pilastro Tra i punti fermi, innegabili, c’è il cambiamento: che sia stato una scelta oppure un obbligo, lo hanno sperimentato tre aziende su quattro. E non si tratta di evoluzioni di poco conto. Il 78% dei manager ritiene che il settore in cui opera si sia trasformato molto negli ultimi cinque anni, il 75% pensa che debba mutare ancora, mentre un più limitato 25% è convinto di doversi aspettare un vero e proprio stravolgimento dell’offerta della propria azienda entro cinque anni. Non in pochi (47%) hanno ammesso di avere paura di cambiamenti troppo rilevanti. Quanto alle cause della trasformazione di questi anni, gli intervistati hanno citato soprattutto l’evoluzione delle aspettative dei clienti (31%), l’aumento della competizione (31%), automazione sempre maggiore delle attività (27%), nuovi requisiti normativi (27%) e l’incertezza economica (25%). Gli strumenti dell’innovazione Definiti gli obiettivi, le aziende hanno bisogno dei giusti strumenti per raggiungere l’agognata innovazione. Le tecnologie digitali sono un sicuro alleato: per il 74% degli intervistati aiutano a essere più produttivi. Ma per circa un manager su due (46%) si dovrebbe farne un uso più ampio per poter davvero essere innovativi. Tra i manager coinvolti nell’indagine, il 42% intende promuovere la realizzazione di “spazi di sperimentazione”, in cui poter testare nuove idee e valutarne le chance di successo. Insieme alla giusta apertura mentale verso le novità, le aziende avranno bisogno di tecnologie che favoriscano la gestione efficiente e sicura dei dati e la collaborazione, sia negli spazi dell’ufficio sia da remoto. Qui entrano in gioco le macchine di stampa e multifunzione, le lavagne interattive, i sistemi di videoconferenza e i videoproiettori di Ricoh, soluzioni smart che semplificano la trasformazione digitale anche per le piccole e medie imprese. “Con la digitalizzazione non scompare l’esigenza di stampare e gestire documenti cartacei”, sottolinea Laura Ven-
turini, product marketing manager di Ricoh Italia, “ma oggi con il mobile printing è possibile farlo ovunque e in qualsiasi momento. Gli uffici, inoltre, diventano sempre più digitali e interconnessi: con una lavagna interattiva, per esempio, è possibile inviare un documento in stampa o condividerlo con i partecipanti alla riunione”. Voce ai manager • Il 62% dei manager europei pensa che la propria azienda sia innovativa.
• Per il 59% l’innovazione è una priorità. • Il 30% non sa da dove cominciare per trasformarsi. • Il 91% si aspetta che la propria offerta di prodotti e servizi cambi entro cinque anni, in qualche caso (24%) in modo radicale. • Il 78% crede che proprio settore abbia attraversato notevoli cambiamenti negli ultimi cinque anni. • Il 34% teme che in assenza di evoluzione l’azienda possa fallire entro due anni. • Il 74% riconosce un ruolo importante alla tecnologia.
COMUNICARE ALLA VELOCITÀ DELLA LUCE La velocità della comunicazione è cruciale per tutte le aziende, ma lo è ancor di più per quelle strutturate su più sedi. Come Beijer Ref, gruppo multinazionale svedese che distribuisce componentistica per sistemi di refrigerazione e condizionamento, la cui società italiana ha realizzato un progetto di trasformazione grazie alle tecnologie di Ricoh. Beijer Ref Italy si compone a sua volta di 16 filiali, avendo quindi a che fare con una forza lavoro decisamente parcellizzata sul territorio. “Tra gli ingredienti per il nostro successo”, spiega Fabio Fogliani, managing director e direttore commerciale, “vi è il contatto diretto tra i produttori e le persone che operano nelle nostre filiali, anche mediante attività di formazione costante, con un programma chiamato Beijer Ref School, fondamentale per lo sviluppo di un nuovo modo di intendere la distribuzione che vada oltre la semplice vendita”. Recentemente, di fronte al lievitare dei costi delle trasferte dei dipendenti, l’azienda ha cercato un modo più efficiente per fare attività di formazione professionale senza obbligare le persone a spostarsi e a raggiungere la sede principale. “In passato il training era svolto al 100% on site, facendo spostare i produttori oppure i colleghi delle filiali”, racconta il direttore acquisti, Marco Curato. “Questo implicava costi di viaggio, allungava il time-to-market e causava perdite di tempo per gli spostamenti”. Di certo alla formazione continua non si poteva rinunciare, dato che il mercato dalla componentistica attraversa una fase di rapida evoluzione, dovuta sia alle novità tecnologiche sia a quelle normative. Le competenze tecniche del personale, dunque, per l’azienda sono fondamentali. Beijer Ref Italy ha quindi pensato alle tecnologie di Ricoh,
già suo fornitore di sistemi di stampa, per trovare una soluzione che consentisse di ridurre questi costi e allo stesso tempo di aumentare la produttività: evitare le trasferte, infatti, significa risparmiare sulle spese di viaggio e alloggio dei collaboratori ma significa anche velocizzare e ottimizzare le comunicazioni. Si è scelto dunque di installare due lavagne interattive (Ricoh Interactive Whiteboard D6510) nella sede principale di Milano, una in una sala riunioni e l’altra nella sala training, già equipaggiata con videoproiettori di Ricoh. Con questi strumenti è ora possibile svolgere attività di formazione a distanza: i dipendenti delle varie filiali si connettono tramite Pc alla lavagna interattiva per assistere alle presentazioni e interagire con il personale di Milano. “Avevamo necessità di strumenti che rendessero le modalità di erogazione della formazione più veloci ed efficaci”, sintetizza Curato. “Il digital training ha risposto a pieno a questa esigenza offrendoci la flessibilità e l’innovazione che oggi sono assolutamente necessarie per riuscire a competere”. 31
INNOVAZIONE | Startup
OPEN INNOVATION ALL’ITALIANA
Circa 7.600 le aziende che investono e 2.300 le neoimprese finanziate,a detta dell’ultima edizione dell’Osservatorio promosso da Assolombarda, Smau, Italia Startup e Confindustria. Invitalia: "Il sistema sta crescendo".
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uattro anni fa siamo partiti con un progetto che aveva il fine di far adottare le nuove imprese da parte del tessuto imprenditoriale esistente: oggi il collegamento fra mondo corporate e startup è qualcosa di reale e i dati lo confermano”. L’analisi di Alvise Biffi, delegato di Piccola Industria Confindustria per le Startup e membro del Consiglio generale di Assolombarda, è chiara e induce all’ottimismo. Giustificato? Sì, se guardiamo ai numeri emersi dal terzo “Osservatorio Open Innovation e Corporate Venture Capital” promosso da
Assolombarda, Italia Startup e Smau e realizzato in collaborazione con Cerved e Confindustria. Gli investimenti delle aziende nostrane nelle imprese neonate crescono, e crescono soprattutto quelli a firma delle piccole e medie organizzazioni, pilotando la diffusione di modelli di innovazione aperta in tutti i settori industriali. Dell’efficacia di tale opera di contaminazione è convinto anche Pierantonio Macola, presidente di Smau, secondo cui “le startup sono dei partner per le imprese e il corporate venture capital l’elemento di chiusura di questo circolo virtuoso, che ufficializza il matrimonio fra aziende nuove
ed esistenti attraverso la transazione di partecipazioni azionarie”. Tesi poco eccepibile, ma è anche vero che sul tema esistono pareri discordanti, visto che in non pochi diffidano della valenza dell’open innovation fatta in Italia, bollandola (in alcuni casi) come espressione di investimenti di natura tattica e non di strategie mirate al cambiamento di modelli e processi attraverso le nuove tecnologie e il supporto delle nuove aziende tech. Anche sulla definizione di Cvc, inoltre, occorre fare una precisazione: non vi sono in Italia, salvo rarissimi casi, aziende che operano con un proprio braccio finanziario alla stregua di una Google Venture o di una Intel Capital. L’Osservatorio, per contro, conferma come la collaborazione strutturata tra imprese nuove e consolidate si stia invece radicando. Le startup con almeno un’azienda fra i propri azionisti sono infatti 2.329 (cioè circa un quarto delle 9.285 iscritte nel registro delle imprese innovative al momento dell’analisi, composte da oltre 59mila soci), mentre sono 7.653 gli investitori complessivamente mappati dal rapporto, il 14% in più rispetto al 2017 e 2.500 in più rispetto al 2016. Tra queste le grandi aziende sono una minoranza, poco più di 400, mentre il fatto che il 62% e il 90% dei soci corporate investa, rispettivamente, in startup di regioni e settori diversi dal proprio ribadisce la natura extraregionale ed extrasettoriale del fenomeno. In altre parole, come si legge nella nota che accompagna l’Osservatorio, l’alleanza con la startup è vista dalle imprese come un elemento fondamentale per diversificarsi e completare l’offerta di soluzioni e servizi con prodotti innovativi ma già pronti per il mercato. Le attività di Cvc
Detto che sono circa un centinaio gli investitori specializzati in innovazione (e 1.070 le società partecipate, di cui 613 startup e 457 imprese mature), meritano particolare attenzione, a nostro
avviso, gli indicatori sull’impatto attribuito alle attività di corporate venture capital. Secondo elaborazioni Cerved sui dati del Mise, degli 1,2 miliardi di euro di giro di affari complessivo delle startup innovative il 41% (circa 490 milioni) riguarda realtà su cui hanno investito aziende tradizionali. E ancora: le principali voci di conto economico (quali fatturato e Roe) delle imprese che operano come Cvc sono superiori rispetto a quelle delle altre società. Al contempo, è decisamente più positivo il valore di fatturato medio di una startup partecipata in questa forma (che spesso accompagna l’azione degli investitori istituzionali, business angel e venture capital in primis), rispetto a quelle i cui soci sono persone fisiche o operatori specializzati (244mila euro contro circa 150mila). Dati da prendere con le pinze? Probabilmente sì, ma non va trascurato il fatto che poco meno della metà delle startup partecipate da un investitore Cvc presenti un margine operativo lordo positivo e solo nel 2,7% dei casi sia uscita dal mercato. Per Sergio Buonanno, amministratore delegato di Invitalia Ventures Sgr, il gestore del primo fondo di investimento italiano pubblico-privato focalizzato sull’innovazione, il quadro è sostanzialmente positivo e si riflette nei risultati ottenuti con il programma Smart&Start, che ha finanziato da settembre 2013 circa 900 imprese, con circa 270 milioni di euro di agevolazioni concesse e oltre 4.400 nuovi posti di lavoro creati, soprattutto nei settori del digitale, dell’ambiente, delle scienze della vita e dell’energia. “Il sistema sta crescendo”, ha detto Buonanno, “vari aspetti devono ancora maturare. A livello seed, per esempio, non vedo un grande divario in fatto di disponibilità di capitali, ma è importantissimo avere dei clienti e testare il mercato, e in questo le partnership con le imprese diventano fondamentali”. Gianni Rusconi
DALLA TAVOLA ALLE SCIENZE L’open innovation tricolore percorre diverse strade. Un nome noto dell’industria alimentare come Amadori, per esempio, ha dato vita con Cereal Docks e Gruppo Finiper a un acceleratore (FoodForward) per le startup italiane attive nel campo dell’agritech, del foodtech e del retail. Gianluca Giovannetti, direttore centrale innovazione e servizi business di Amadori, ha spiegato come la sua azienda cerchi innovazione “in una logica industriale, per migliorare i processi e lo sviluppo del prodotto”. L’iniziativa di accelerazione, estesa a sei continenti, va per l’appunto in tale direzione: circa 280 le richieste ricevute, la maggior parte provenienti dall’estero (specie da Regno Unito, Israele e Stati Uniti). Un altro caso da segnalare è quello di Novartis, che insieme a Fondazione Cariplo ha creato BioUpper, la prima piattaforma italiana di training e accelerazione nel campo delle scienze della vita.
SI NASCE ONLINE Al 30 settembre 2018, erano 1.815 le startup innovative avviate in modalità completamente digitale. Lo dice il rapporto trimestrale del Mise, che rileva l’andamento della misura operativa dal luglio 2016. Rispetto a dodici mesi fa, il totale delle imprese nate online è cresciuto di 960 unità. La Sardegna è la regione con il più elevato tasso di neoimprese costituite in Rete.
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INNOVAZIONE | Startup
Da Italia Startup sono arrivate per governo e parlamento tre proposte a favore di neoimprese e Pmi innovative. Le discutiamo con il nuovo presidente dell’associazione, Angelo Coletta.
ACCELERARE LA CRESCITA DELL’ECOSISTEMA
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niezione sostanziosa di fondi pubblici e privati, come già previsti dal governo, e ulteriori agevolazioni per i prestiti bancari; consolidamento degli sgravi fiscali per business angel e soggetti privati che finanziano le startup ed estensione del provvedimento alle Pmi innovative; sussidi importanti per le realtà che acquisiscono nuove imprese e investono in talenti, leva fondamentale per far decollare l’open innovation e il corporate venture capital anche nel nostro Paese. Sono queste le linee guida delle proposte che il nuovo presidente di Italia Startup, Angelo Coletta, ha inviato ufficialmente alle istituzioni italiane nel tentativo di stimolare un ecosistema che cresce, sì, ma in modo non abbastanza rapido e strutturato. 34
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Proposte, quelle indirizzate dall’Associazione a Governo e Parlamento, che guardano al panorama internazionale suggerendo di far adottare nel nostro Paese provvedimenti che già hanno funzionato o stanno funzionando in altri contesti europei. Una sorta di replica, per certi versi, del piano Industria 4.0, anch’esso “ispirato” gioco forza alle strategie di altre nazioni (la Germania) e poi adattato alle peculiarità di un sistema produttivo e industriale come il nostro, fatto di tante piccole e medie imprese e certamente di forte impatto sugli investimenti. “Le startup”, ha detto Coletta, “sono diventate un fenomeno importante, anche se di minore dimensioni rispetto ad altri ecosistemi. È tangibile il fatto che
Angelo Coletta
la percezione e la propensione delle imprese a investire in queste realtà, per trovare vie alternative alla ricerca e sviluppo interna, sia crescente. Ma in materia di open innovation serve un duplice passo
in avanti: maggiore cultura verso questo paradigma dentro le imprese e una politica continuativa di incentivi fiscali, per stimolare gli investimenti in attività di ricerca e sviluppo in modalità aperta”. Per finanziare i maggiori investimenti in startup sono però necessari “nuovi” capitali, ed è forse questo il vero crocevia davanti a cui si trova il nostro ecosistema dell’innovazione. Nonché il punto focale delle proposte rivolte alle istituzioni. C’è chi ritiene necessario uno “shock” nel sistema del risparmio per mettere grossi flussi liquidi velocemente a disposizione degli investimenti in innovazione. È d’accordo?
Sono in parte d’accordo: sicuramente è una proposta ragionevole quella di dirottare per obbligo una parte dei Pir (piani individuali di risparmio, ndr) e non oltre la misura del 3%, parallelamente al 5% dei nuovi fondi di investimento europei a lungo termine. Può aver senso obbligare, o comunque incentivare, le varie gestioni patrimoniali pubbliche a investire in fondi per le startup quote compatibili con la gestione del rischio. Ma allo stesso tempo riteniamo che siano indispensabili manovre decise sulla leva fiscale per dirottare verso l’ecosistema risorse dal settore privato, come business angel, venture capital e corporate venture. L’impulso pubblico è quindi necessario?
È fondamentale, senza dubbio, ma lo shock deve necessariamente venire anche dall’attivazione di risorse private: è la somma delle due azioni che può portare al successo. Il modello di investimento pubblico francese può essere quello da imitare?
Il modello transalpino si presta bene per trarre ispirazione nel momento in cui si ritiene che lo sforzo maggiore all’orizzonte sia il coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti. Nello strutturare la discesa in campo di questo ente, infatti, quello francese può essere sicuramente un ottimo termine di paragone.
IMPRESE INNOVATIVE OLTRE QUOTA 10MILA Al momento in cui scriviamo (metà novembre) le aziende iscritte nel registro gestito dal Mise in collaborazione con Infocamere sono più di 10.570, delle quali 9.670 sono startup e le restanti Pmi. Il consuntivo aggiornato al 30 settembre contabilizzava invece una popolazione di 9.647 imprese, il 22,6% in più di quanto registrato un anno prima. Dati ancora una volta incoraggianti dunque, almeno in termini quantitativi, per il nostro ecosistema dell’innovazione, anche in relazione alla dinamica della forza lavoro impiegata nelle startup, cresciuta negli ultimi dodici mesi in modo più che proporzionale (oltre il 33%) rispetto all’aumento del numero delle aziende: si contano ormai oltre 52.512 “teste”, fra soci operativi e addetti. Buoni anche i riscontri sul fatturato delle imprese innovative, considerando che i dati dei bilanci 2017 attualmente conteggiati dal sistema camerale coprono poco meno del 60% delle startup iscrit-
Ci sono altri esempi virtuosi più facilmente replicabili?
Esistono modelli più “liberisti”, come quello britannico, e altri altrettanto validi come quelli di Paesi Bassi e Svezia, che operano molto più sulla leva fiscale attraverso misure come la detassazione del capital gain da reinvestire o la deducibilità delle perdite sugli investimenti. Se vengono a mancare le risorse per sostenere agevolazioni fiscali si rischiano brusche e pericolose frenate. C’è un’altra strada per convincere investitori privati e imprese?
Le agevolazioni fiscali sono un potente volano in un mercato asfittico come il nostro, ma nel medio periodo esistono altri due fattori estremamente importan-
te alla data di rilevazione: i ricavi aggregati di questo 60% non sono molto lontani dal miliardo di euro, 960 milioni, e supereranno sicuramente tale soglia una volta acquisiti i dati non ancora rilevati. A sei anni dal varo del decreto dedicato, dal Mise fanno giustamente notare come oggi le startup innovative rappresentino circa il 3% del totale delle società di capitali italiane con meno di cinque anni di vita e in stato attivo. Quasi un quarto delle imprese presenti a livello nazionale (2.368 unità) è localizzato in Lombardia, regione che precede Lazio (1.027 imprese) ed Emilia-Romagna (919) nella classifica delle più popolate. A livello di province comanda sempre Milano, con 1.669 startup iscritte, seguita da Roma (916) e Napoli (330), che per la prima volta scalza Torino dal terzo posto. Trieste, Trento e Ascoli Piceno si collocano infine al vertice per numero di startup sul totale delle neoimprese.
ti di cui tenere conto. Il primo è la dimensione del mercato stesso: se non c’è una base numerica importante di startup sulle quali investire, difficilmente vedremo un arrivo in massa dei fondi di venture capital. La Francia, giusto per fare un esempio, sta investendo miliardi di euro proprio nella creazione di un ecosistema che sia il più numeroso e sfaccettato, e quindi attraente, possibile. In secondo luogo è fondamentale rendere più liquidi gli investimenti per favorire lo sviluppo di un mercato nazionale delle exit, ed è in questa direzione che va per l’appunto la nostra proposta di equiparare i costi sostenuti per l’acquisizione di startup alle spese dedicate alle attività di ricerca e sviluppo. Gianni Rusconi 35
INNOVAZIONE | Cybersecurity
L’oroscopo della sicurezza informatica per il 2019, così come tratteggiato dei vendor, è un mix di vecchie conoscenze (i ransomware, innanzitutto), e sgradite novità.
CYBERCRIMINE FRA VECCHIO E NUOVO
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classici, notoriamente, non passano di moda, e così non faranno nemmeno i metodi di attacco informatico più tradizionali e collaudati. Quelli da “minima spesa, massima resa”, per intenderci: campagne di spam, infezioni trasmesse attraverso link, allegati di posta elettronica, siti Web e applicazioni per smartphone. Possiamo ormai considerare il mobile malware tra i classici del crimine informatico, dato che se ne parla da anni e dato che i suoi numeri descrivono un fenomeno di massa: per citarne uno su tutti, sono stati 3,2 milioni le applicazioni malevole per 36
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Android contate da G Data in un solo trimestre. Ed è ormai un oggetto familiare anche il ransomware, tipologia di minaccia che infetta un dispositivo e lo blocca, solitamente con la crittografia, per chiedere un riscatto monetario. Dopo un 2016 da record, con ben 645 milioni di casi registrati, l’anno scorso e nel primo semestre del 2018 il fenomeno si è normalizzato, continuando però a rappresentare una preoccupazione specie in Italia: siamo infatti il Paese europeo più colpito. Nel 2019 il cybercrimine proseguirà in queste direzioni, ma l’ambizione e la fantasia lo
porteranno anche a battere altre strade, meno scontate. Vediamone alcune, tratteggiate nelle previsioni dei vendor di sicurezza informatica. Ransomware ancor più esigenti
I ricatti digitali spopoleranno anche nel 2019 e anche dalle nostre parti. “Le ultime indagini di mercato e i nostri stessi laboratori rilevano che l’Italia è ancora tra i paesi più colpiti dal ransomware”, spiega Fabrizio Cirillo, senior channel manager di SonicWall Italia. A livello mondiale, invece, secondo WatchGuard il numero degli episo-
di scenderà ma in compenso vedremo un’incredibile escalation dei guadagni: da una media di 300 dollari a vittima si salirà a 20.000 dollari. Il valore medio si impennerà a causa di alcune operazioni dirette su target di alto livello, quali infrastrutture di controllo industriale e utility. Crittografia, arma a doppio taglio
Oltre a essere un metodo di schermatura dei dati, la crittografia è anche un potenziale veicolo di minacce. “Stiamo rilevando un aumento significativo anche degli attacchi che sfruttano i messaggi crittografati”, racconta Cirillo, “mentre solo il 5% degli utenti sta implementando analisi del traffico utilizzando il protocollo di sicurezza Tls/Ssl. Secondo le nostre stime, gli attacchi crittografati aumenteranno fino a diventare il metodo standard per la distribuzione del malware”. Propaganda senza fine
INDUSTRIA NEL MIRINO L’Italia, benché sia “tra le eccellenze mondiali a livello di protezione in campo informatico, sarà, come lo è sempre stata, uno degli obiettivi principali nel corso del prossimo anno”, scommette Marco Riboli, vicepresidente per l’Europa meridionale di FireEye. Tra i pericoli in agguato per le imprese delle Penisola c’è, in modo particolare, il malware Triton: già responsabile di attacchi a diversi sistemi di controllo industriale in giro per il mondo, mirati a mettere fuori uso temporaneamente la produzione, questa minaccia ha tra gli obiettivi principali per il nuovo anno proprio le aziende italiane.
Nonostante il lavoro svolto da Facebook, Twitter e YouTube per combattere le bufale e la propaganda politica, anche nel 2019 i social media continueranno a essere un veicolo privilegiato di attività simili, orchestrate da governi o da soggetti filogovernativi. “L’obiettivo potrebbe essere quello di promuovere un particolare partito politico che potrebbe essere più amichevole verso specifiche politiche estere, o di guidare una narrazione politica, causando conflitti all’interno del Paese”, spiega FireEye. Chatbot canaglie
I programmi “chiacchieroni” di intelligenza artificiale stanno prendendo piede su siti Web, social network e app principalmente per automatizzare attività di supporto clienti. In futuro diventeranno sempre più sofisticati e comunicheranno non solo via chat ma anche vocalmente, come nelle telefonate che già oggi sa gestire l’avanguardistico Google Duplex. Secondo WatchGuard, nel 2019 i criminali in-
formatici creeranno chatbot malevoli per raggirare utenti con tecniche di social engineering (inganni confezionati in base all’identità o attività online delle vittima) e per spingerli a cliccare su un link, scaricare un file, effettuare un pagamento o condividere informazioni. In futuro, oltre a scrivere in una chat, i programmi malevoli impareranno a fingere di essere operatori di call center al telefono. Attenzione alla supply chain
Un canale molto sfruttato negli ultimi due anni da criminali e cyberspioni sono i punti di debolezza nella “catena di fornitura”, sia di prodotti hardware sia di software (antivirus, per esempio): dipendenti o ex dipendenti che sottraggono dati, oppure società terze che realizzano una manomissione, modificano un codice o creano backdoor. Come sottolineato da Kaspersky Lab, anche nel 2019 la supply chain continuerà a essere un vettore d’infezione efficace. Accessi biometrici ancora difettosi
Fino a qualche anno fa era possibile ingannare gli scanner d’impronta digitale di iPhone e Samsung Galaxy con calchi del polpastrello anche grezzi, realizzati in plastilina o gelatina. Le tecnologie biometriche di più recente generazione – lettura dell’impronta, ma anche dell’iride e dei tratti somatici – sono diventate precise e sofisticate ma continuano a essere imperfette perché non prevedono l’autenticazione a due fattori. Nelle procedure basate su nome utente e password la verifica in due passaggi prevede solitamente l’inserimento delle credenziali di accesso e, poi, di un token numerico “usa e getta”, normalmente inviato via Sms. Per scongiurare i rischi di accessi non autorizzati, qualcosa di simile dovrà essere previsto dai metodi biometrici ma intanto, almeno a detta di WatchGuard, nel 2019 assisteremo ad attacchi che sfrutteranno l’attuale procedura a fattore singolo. Valentina Bernocco 37
TECHNOPOLIS PER SYNOLOGY
IL TRIDENTE DI SYNOLOGY Per il 2019 l'azienda ha le idee chiare: puntare su storage, backup e connettività, per offrire soluzioni integrate e affidabili ai clienti.
Storage, backup e connettività di rete: sono queste le tre direttrici lungo cui Synology si muoverà nel corso del 2019. Il primo mercato è sicuramente un punto di riferimento per l’azienda, quello in cui può fare valere tutto il proprio peso specifico sul piano tecnologico. La prima novità nell’offerta viene dal software e si incarna nell’interfaccia utente DSM 7.0, frutto di un ripensamento complessivo dell’ambiente in direzione della semplicità d’uso e di una maggiore attenzione alla componente visuale. L’aggiornamento, ad esempio, integra una tecnologia di ricostruzione Raid (esclusiva di Synology) più rapida del 40% rispetto al passato, algoritmi di machine learning che facilitano la previsione dei guasti dei dischi e un meccanismo di sostituzione automatica con più livelli di protezione per i drive. Inoltre, la nuova versione di DS Finder permette di utilizzare anche un semplice smartphone per definire i parametri dei Nas, mentre per la connessione è sufficiente disporre di un lettore di codici QR. A livello hardware, l’attenzione dell’azienda si concentra sull’enterprise con il modello UC300 (Unified Controller): è il primo server iSCSI del costruttore e integra un controller dual-active ridondante, in grado di garantire un servizio senza interruzioni in caso di guasti e di fornire prestazioni oltre i 100.000 IOPS. In undici secondi l’UC300 sposta workflow, in ambienti tradizionali o virtualizzati, da un primo controller eventualmente guasto al secondo. Il sistema può accogliere fino a 12 hard disk da 3,5 pollici o Ssd da 2,5 pollici in modalità Sas. Il server è basato su processori Intel Xeon D-1521 con quattro core a frequenza di 2,4 GHz e 16 GB di Ram (espandibili fino a 64). 38
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Sul fronte della messa in sicurezza del dato, Synology ha rilasciato la soluzione Active Backup Suite senza licenza, e quindi gratuita, che consente agli utenti di proteggere le informazioni memorizzate in infrastrutture fisiche, virtuali e cloud su un’unica piattaforma. Tra le funzionalità migliorate spiccano la sincronizzazione fra due Nas (Drive ServerSync), un calendario dei backup e la gestione centralizzata fino a 10mila device con Central Management System 2.0. È infine dotato del recente protocollo Wi-Fi Protected Access (Wpa3) il primo router mesh domestico di Synology. Il MR2200ac è caratterizzato da un design modulare, che permette di ampliare la copertura di rete con unità aggiuntive. Basato su chip Qualcomm IPQ4019, il dispositivo sfrutta tre bande per eliminare le zone oscure e fornire connessione ultraveloce fino agli angoli più remoti della casa. La gestione del network è completamente affidata a Synology Router Manager (SRM), un sistema operativo dall’’interfaccia intuitiva e che ha reso accessibili ai consumatori molte funzioni di livello aziendale. L’ultima versione di SRM 1.2 è dotata anche di un nuovo pacchetto Safe Access, che coniuga il migliore parental control della categoria a una sicurezza automatica a livello di rete, in modo da non dover cercare una soluzione specifica per ogni singola piattaforma. “Synology conferma il suo impegno nel proporre ai propri clienti prodotti e servizi sicuri e affidabili”, ha commentato Francesco Zorzi, technical manager di Synology. “In qualità di fornitore di data storage, abbiamo ricevuto numerosi riconoscimenti in ambiti diversificati tra cui la pubblica amministrazione, la difesa, la finanza, la tecnologia e la produzione, solo per citarne alcuni. Nel prossimo futuro, Synology continuerà a esplorare mercati diversi grazie al machine learning, creando una soluzione all-inclusive incentrata su storage, backup off-site, comunicazione di rete e servizi cloud”.
Da sinistra: Jean Victor Kingue, Francesco Zorzi, Alessandro Pranzo. In primo piano: Marcos De Santiago, Alexandra Bejan
TECHNOPOLIS PER HP
LA GESTIONE DOCUMENTALE PER IL LAVORO “SMART” tredici LaserJet e che trae soprattutto vantaggio dalla nuova piattaforma proprietaria e basata sul cloud per l’ottimizzazione dei servizi: HP Smart Device Services (SDS). Una suite che assicura i massimi tempi di attività dei dispositivi, integrando funzionalità di diagnostica avanzata, risoluzione dei problemi e correzione remota con strumenti leader di settore. In questo modo l’utente ha una completa gestione del dispositivo in mobilità e può interfacciarsi con la gestione documentale ovunque si trovi e in qualunque momento, sfruttando le potenzialità offerte dalla “nuvola” e razionalizzando i propri flussi di lavoro per renderli sempre più efficienti. Giampiero Savorelli, print business group director di HP Italy La stampa e la gestione documentale hanno molto a che fare con lo smart working. Le modalità di lavoro flessibile, libere da vincoli di tempo e luogo e basate sull’uso di dispositivi personali, hanno portato molti vantaggi ma richiedono anche strumenti di controllo, a tutela dell’azienda e dei suoi dati. Ce ne parla Giampiero Savorelli, print business group director di HP Italy. In che modo fenomeni come smart working e collaboration hanno cambiato il modo di lavorare, e come si sono adeguate al cambiamento le soluzioni di gestione documentale? Opportunità come lo smart working o la collaboration offrono ai dipendenti modalità utili e strumenti innovativi per gestire gli impegni professionali con una maggiore flessibilità, con effetti positivi per il benessere dell’individuo e per una socialità lavorativa più efficace. Per rendere possibile tutto questo, però, sempre di più le aziende hanno la necessità di avere un’infrastruttura costantemente aggiornata per controllare in maniera efficace i costi e per ottimizzare le performance dei propri dispositivi. In questo contesto, implementare una strategia fondata su soluzioni di managed print services, per esempio, consente alle imprese di governare in modo più efficiente l’operatività di tutte le risorse di stampa installate e permette significativi risparmi sui costi di gestione. Le tecnologie consumer hanno avuto impatto anche sulle soluzioni business? L’aumento dell’impiego di dispositivi portatili all’interno dell’ambiente di lavoro, negli ultimi anni, ha spinto sempre di più i professionisti a voler lavorare in mobilità. La crescente richiesta di oggetti come tablet e smartphone di ultima generazione, inoltre, ha posto le aziende di fronte al grande tema dello smart working. In questo senso, un grande esempio di innovazione è rappresentato dal recente ampliamento del portafoglio di stampanti multifunzione A3 di HP, che include tre modelli PageWide e
Come è cambiata la sicurezza di dati, documenti e accessi ai dispositivi per la gestione documentale? Negli ultimi anni la protezione di dati, documenti e informazioni sensibili necessarie al business di un’azienda è diventata un’esigenza imprescindibile per ogni tipo di impresa. Nel mondo moderno, infatti, in fatto di sicurezza l’errore più banale ma anche più comune che un utente possa commettere è non pensare al fatto che ormai ogni dispositivo da lui usato sia connesso ad altri. L’Internet of Things domina sempre di più la maggior parte delle nostre attività, soprattutto a livello aziendale. Per questo, ormai, non è più possibile sottovalutare il ruolo centrale ricoperto dalle stampanti nell’ambito della sicurezza di un’infrastruttura di rete, in un contesto in cui i firewall aziendali sono minacciati da cyberattacchi sempre più sofisticati e numerosi. Questo è il motivo per cui HP ha stabilito nuovi benchmark per i servizi di stampa gestita, portando la propria esperienza in tema di sicurezza nell’intera offerta, per consentire ai clienti di rispondere alle sfide crescenti che li attendono. Con quali tecnologie in particolare HP difende sicurezza e privacy degli utenti? Parlando di sicurezza, possiamo dire che HP ha una storia importante e che da sempre l’azienda si impegna nel proteggere i propri utenti sotto ogni punto di vista. In questo senso, nell’ultimo periodo, ci siamo concentrati per trasportare tutta l’esperienza acquisita nel mondo Pc anche all’interno del segmento del printing, implementando anche il nostro nuovo portafoglio enterprise con tecnologie all’avanguardia e completamente dedicate alla security. Con funzionalità innovative come HP Connection Inspector e HP Sure Start, per esempio, oggi siamo in grado di offrire ai nostri clienti un vero e proprio sistema di rilevamento delle intrusioni in fase di esecuzione e whitelisting. Un’opportunità che ci offre la possibilità di rendere i nostri dispositivi multifunzione tra le stampanti più sicure al mondo, consentendo allo stesso tempo ai nostri clienti di far fronte a qualunque tipo di esigenza in un mondo nel quale la protezione e la gestione di dati, documenti e informazioni diventa sempre di più il reale nodo nevralgico del proprio business. 39
INNOVAZIONE | Intelligenza artificiale
L’ALGORITMO AIUTA LA MEDICINA La diagnosi precoce di malattie degenerative come l’Alzheimer è un percorso possibile e virtuoso. Lo prova la startup milanese DeepTrace Technologies.
Christian Salvatore
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alle neuroimmagini e dai test neuropsicologici alla diagnosi precoce di malattie generative come l’Alzheimer, il Parkinson o l’autismo, il passaggio può anche essere breve. E con un livello di affidabilità, velocità e accuratezza della diagnosi superiore a quello che può garantire un servizio clinico standard affidato alle sole competenze umane. Fantascienza? No, è semplicemente quanto permette l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in campo medico. Christian Salvatore, Ceo e managing director Health
Division della neonata startup milanese DeepTrace Technologies (nonché ricercatore all’Istituto di Bioimaging and Molecular Physiology del Cnr), è intervenuto all’evento “Huawei Connect” di Roma per spiegare come l’applicazione degli algoritmi ai test di risonanza magnetica possa produrre indicazioni affidabili all’85% e con due anni di anticipo rispetto alle diagnosi standard. “I risultati generati dall’intelligenza artificiale possono essere anche migliori di quelli delle valutazioni di neuroradiologi e specialisti in una fase iniziale del decor-
VERSO UN MONDO PIÙ SMART “In Europa entro i prossimi dieci anni si conteranno 50 miliardi connessioni mobili”. La predizione è di Vincent Pang, presidente per la regione Europa Occidentale di Huawei, secondo cui “tecnologie come il 5G, l’intelligenza artificiale e l’Internet of Things cambieranno drasticamente lo scenario della società nei prossimi anni” e per questo “nessuna azienda può procedere da sola nello sviluppo dell’innovazione”. Ricetta molto esplicita e che guarda oltre la sfida di costruire reti ultraveloci e intelligenti per supportare sempre più dispositivi e servizi digitali. Huawei ha infatti investito più di 63 milioni di euro in un centinaio di università europee per finanziare attività di ricerca in campi quali microprocessori, algoritmi di machine learning e sistemi di guida autonoma. Nel futuro prossimo, aggiunge Chenglu Wang, presidente della divisione Consumer Software Engineering, “tutti i dispositivi smart con cui potremo parlare e interagire saranno customer-centric grazie all’Ai”.
so della patologia, perché la tecnologia gestisce ed elabora dati in più dimensioni rispetto all’analisi umana, soggetta naturalmente all’errore”, ha spiegato l’esperto a Technopolis. “Il lavoro di testing pesante”, spiega, “si fa in fase di training, non serve particolare potenza di elaborazione in locale ed è comunque possibile utilizzarla in cloud. L’algoritmo apprende le condizioni di sviluppo della patologia rispetto alle condizioni di un soggetto sano per dar forma alla tecnologia, poi entra in gioco il modello matematico che porta alle diagnosi vere
L’AI ALLA RICERCA DI LEGITTIMITÀ “L’intelligenza artificiale, per molti, è ancora una scatola nera, soprattutto all’interno delle organizzazioni. Altri si chiedono come renderla sostenibile. Una ricerca del 2017 condotta da Accenture conferma però che la sua adozione non è in discussione: tutte o quasi le aziende la utilizzeranno per migliorare alcuni processi gestiti dalle persone”. Nelle parole di David De Cremer, professore alla Università di Cambridge, altro speaker dell’evento “Huawei Connect”, traspare un’evidenza importante: l’Ai è ancora materia di studio per la maggior parte delle organizzazioni, ma è anche certo il fatto che diventerà una sorta di commodity in molti settori. La medicina, per esempio. “I robot pilotati dagli algoritmi possono aiutare i medici nelle diagnosi e in sala operatoria”, ha osservato in proposito De Cremer. “Moltissime realtà nella sanità stanno già utilizzando l’intelligenza artificiale. Ma la tecnologia, benché garantisca maggiori capacità di elaborazione sistematica dei dati, non sostituirà i medici perché il paziente chiederà sempre e comunque il contatto umano”. Dove servirà intervenire,
e proprie”. Siamo però solo all’inizio di un percorso che nel futuro prossimo potrebbe concretizzarsi nella progressiva adozione di queste soluzioni, grazie alla maggiore consapevolezza da parte delle strutture sanitarie e dell’opinione pubblica. Allo stato attuale, di soluzioni basate sull’Ai implementate negli ospedali ce ne sono ben poche e non, secondo Salvatore, per una questione di costi o mancanza di budget quanto piuttosto di cultura. Si procederà un passo alla volta: “A breve termine”, commenta il ricercatore, “gli algoritmi verranno in-
in linea generale, per sdoganare l’impiego dell’intelligenza creata dal software in ambiti tanto critici quanto la medicina? La ricetta dell’esperto è precisa: “Occorre creare una legittimità dell’Ai e delle sue applicazioni in alcuni specifici settori. La replicazione della mente umana è possibile, ma servono grande responsabilità e competenze specifiche per metterla al servizio dell’innovazione”. Difficile, invece, che si realizzi compiutamente il paradigma degli “algoritmi-manager” (o management by algorithm), secondo cui l’intelligenza artificiale potrebbe insediarsi nei consigli di amministrazione nell’arco del prossimo decennio. La leadership umana, ha concluso De Cremer, “rimarrà un elemento centrale, ma occorre facilitare l’implementazione dell’Ai per renderla utile al processo di cambiamento. Elon Musk e Mark Zuckerberg ne parlano spesso, ma non sempre entrano nel merito delle sue possibili conseguenze. L’innovazione non può essere l’unico bias e la tecnologia deve essere basata su un obiettivo, aumentando il livello di collaborazione e integrazione fra uomini e macchine”.
trodotti in ambito clinico gradualmente e con una certa riserva, a sostegno e non in sostituzione dei medici, a quali spetta sempre l’ultima parola”. L’idea di una medicina che beneficerà dell’intelligenza artificiale in modo personalizzato per ogni paziente, per migliorare la qualità della prevenzione, non è remota. Anzi. Servirà però definire un quadro chiaro e trasparente di applicazione della stessa, perché sono in ballo la privacy delle persone, la responsabilità del paziente e la sicurezza dei dati sensibili. Gianni Rusconi 41
INNOVAZIONE | Intelligenza artificiale
I ROBOT MIGLIORERANNO IL LAVORO? Nove aziende su dieci sono convinte che l’AI non possa sostituire l’uomo, ma invece stimolerà lo sviluppo di nuove professionalità. Ecco quale scenario aspettarsi.
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l tema del possibile (ma in parte già attuale) contraccolpo dell’intelligenza artificiale sull’occupazione è uno dei più dibattuti a proposito delle trasformazioni tecnologiche in corso. Ricerche e sondaggi, spesso, offrono risposte diverse a seconda dell’interlocutore: tendenzialmente, i soggetti più preoccupati della “concorrenza” di chatbot, algoritmi e assistenti vocali - in un mercato del lavoro già difficile - sono le persone comuni, mentre chi in azienda ha un ruolo manageriale vede questi strumenti come un alleato e minimizza il danno eventuale sull’occupazione. Le conclusioni emerse dal primo rapporto Aidp-LabLaw (curato da Doxa) su robot, intelligenza artificiale e lavoro in Italia offrono una visione abbastanza precisa di quale sia lo scenario a cui stiamo andando incontro. Ci dicono, per esempio, che le attività manuali e a più basso contenuto professionale sono viste come a forte rischio di sostituzione dal 75% dei rispondenti e che le nuove competenze tecnologiche sono considerate un elemento di tutela del lavoro e un deterrente al rischio di esclusione dal mercato. Il messaggio più importante che scaturisce da questa indagine è comunque il seguente: la stragrande maggioranza delle aziende (l’89%) ritiene che uma42
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noidi e algoritmi di machine learning non potranno mai sostituire del tutto il ruolo delle persone ma avranno invece un impatto migliorativo, stimolando la creazione di funzioni e posizioni che prima non esistevano e lo sviluppo di nuove professionalità. C’è quindi “fiducia” da parte del management verso le nuove tecnologie e lo dimostra il fatto che ben il 61% delle aziende italiane è pronto a introdurre sistemi di intelligenza artificiale e robot nelle proprie organizzazioni, mentre solo l’11% si dichiara totalmente contrario. A spingerne l’adozione concorrono l’idea di poter rendere il lavoro meno faticoso e più sicuro, di aumentare l’efficienza e la produttività (lo dice rispettivamente il 93% e il 90% del campione) e di favorire la sostituzione dei compiti manuali con attività di concetto (lo affermano
otto dei dieci fra manager e imprenditori intervistati). Se guardiamo alle applicazioni esistenti, per il 56% delle aziende censite l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale e robot si è concretizzato a supporto delle persone, a riprova che tali tecnologie siano da considerarsi principalmente un’estensione delle attività umane e non una loro sostituzione. C’è èerò anche un 42% secondo cui hanno sostituito mansioni prima svolte da dipendenti. Le tecnologie, secondo un terzo del campione, hanno migliorato molti aspetti intrinseci del lavoro dipendente, favorendo una maggiore flessibilità dell’orario in entrata e in uscita, la riorganizzazione degli spazi, la promozione di servizi welfare e progetti di smart working. Per Francesco Rotondi, giuslavorista e
co-founder di LabLaw, emerge anche un tema di nuovi rapporti tra imprese e dipendenti, in cui spicca “la possibilità di un’integrazione tra processi fisici e tecnologia digitale mai vista in precedenza, che lascia presagire la nascita di un modello nel quale l’impresa tenderà a perdere la propria connotazione spazio-temporale in favore di un sistema di relazioni fatto di interconnessioni tra soggetti attivi in un ambito che va oltre la dimensione aziendale”. L’intelligenza artificiale e i robot costituiscono un valore aggiunto e non sono elemento sostitutivo del lavoratore?
Non credo che questa affermazione sia vera. Mi spiego: da una parte il robot può essere un valore se correttamente utilizzato, ma dall’altra potrà comportare una riduzione dell’occupazione umana in determinate attività o mansioni. Ciò che deve essere compreso è che, molto probabilmente, vi sarà creazione di nuove opportunità di lavoro proprio in ragione dell’introduzione di nuove tecnologie e nuovi modelli organizzativi. Chi deve guidarne l’adozione?
Credo che in queste fasi il ruolo del responsabile Hr sia di fondamentale importanza, come in tutti i momenti di transizione. Oggi al centro dell’organizzazione del lavoro sta tornando l’uomo, con le proprie capacità imprescindibili per la ricerca della reddittività d’impresa. C’è un tema di responsabilità dell’AI?
Non credo. Si è sempre detto che l’evoluzione, il progresso, fossero portatori di benessere e miglioramento della qualità della vita, ma nessuno lo ha poi puntualmente verificato. Non è nemmeno un tema giuslavoristico, bensì sociologico, riguardante la direzione che la società attuale deciderà o meno di intraprendere. I segnali non sono certo confortanti. Il tema dovrebbe essere affrontato a livello generale e coinvolge il Paese nel suo insieme, a tutti i livelli.
CHATBOT "INVADENTI" PER UN ITALIANO SU DUE Un monitoraggio dei commenti e del sentiment in Rete, svolto da Chorally, mostra che per il 44% degli italiani l’Ai è una minaccia occupazionale.
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hatbot e assistenti vocali ruberanno il lavoro alle persone? Un nuovo studio della software house Chorally evidenzia che quasi un italiano su due, il 44%, teme queste tecnologie possano diventare decisamente invadenti, sostituendosi alle persone in varie occupazioni. I dato è tratto dal monitoraggio di canali social e altre fonti Web italiane. Per quanto riguarda la generale predisposizione verso l’AI, il 52% degli italiani sembra avere un atteggiamento neutrale, anche se prevalgono i commenti portatori di un sentiment positivo. Ma il rapporto fra sentiment positivo e negativo cambia a seconda del tema specifico: come si diceva, il 44% degli intervistati teme contraccolpi occupazionali, mentre il 42% ha un atteggiamento neutrale su
Si può dire i robot e gli algoritmi favoriranno la diffusione di progetti e pratiche di smart working o sono due fenomeni che viaggiano su binari diversi?
La robotizzazione è un fenomeno ben presente nelle organizzazioni d’impresa da vari decenni e non per questo si sono sviluppate pratiche che hanno portato a cambiamenti strutturali del rapporto di lavoro. Ritengo che, molto probabilmente, parliamo di due diversi mondi che possono comunicare quando chi “gestisce” le risorse e l’organizzazione avrà la possibilità, anche giuridica, di governare il cambiamento.
questo tema e solo il 14% immagina effetti positivi sulla qualità del lavoro e sulla creazione di nuove professioni richieste. “L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando anche i flussi di lavoro tipici nei contact center”, commenta Enrico Giannotti, vicepresidente di Cedat 85, un’azienda specializzata in tecnologie di riconoscimento vocale e di conversione del parlato in testo. “Nell’immediato futuro i clienti interagiranno con soluzioni software automatiche in grado di interfacciarsi con loro in modo sempre più naturale e umano”. Assistenti vocali e chatbot, dunque, troveranno una crescente diffusione. Ma a detta di Cedat 85 la necessità di professionisti in carne e ossa non verrà azzerata. “Nei contact center”, assicura Giannotti, “l’utilizzo di applicativi basati sull’intelligenza artificiale non annullerà l’intervento di operatori umani qualificati, che diverranno anzi interpreti di una fase in cui la loro professionalità sarà richiesta per incrementare la qualità dell’esperienza dei clienti”. V.B. Ci sono “vuoti” normativi che possano condizionare l’utilizzo dell’AI in azienda?
Non ritengo esista un vuoto regolatorio, anzi credo sia inutile e deleterio pensare di governare il tutto con fattispecie nuove o altro. La verità è che bisognerebbe ripensare il vecchio contratto di lavoro e finalmente accettare che, dopo ben oltre settant’anni, forse qualcosa è cambiato. Vanno riscritte le relazioni contrattuali primarie rendendole più aderenti alla realtà e capaci di esprimere l’attuale assetto delle relazioni. Gianni Rusconi 43
TECHNOPOLIS PER OVH
CON IL CLOUD SI PUÒ PUNTARE VERAMENTE IN ALTO Il provider francese opera su scala globale attraverso 28 data center. Fra suoi i clienti c'è NetAddiction, una media company che ha ottenuto vantaggi significativi.
Dionigi Faccenda, sales manager South West Europe, Nord America e Latino America di OVH Provider globale di servizi e tecnologie cloud fondato nel 1999, OVH gestisce 28 data center situati in 12 strutture in tutto il mondo, offrendo un’infrastruttura agile e innovativa. I suoi oltre 1,4 milioni di clienti dislocati in tutto il mondo possono usufruire di una tecnologia in grado di abilitare il loro core business attraverso la realizzazione dell’infrastruttura e un’offerta di soluzioni proprietarie adeguate alle loro esigenze. I servizi personalizzati che OVH mette in campo – dal Web hosting al cloud pubblico, privato e ibrido – consentono alle aziende e ai professionisti del Web di sviluppare ed erogare servizi avanzati ai loro clienti, potendo contare su performance e affidabilità di primissimo livello. Grazie a un programma di investimenti di 1,5 miliardi di euro per il periodo 2016-2020, OVH punta a sviluppare e consolidare la propria presenza come player nel mercato mondiale del cloud, area che ha determinato la crescita verticale dell’azienda negli ultimi anni. Il cloud di OVH è “open” e, in contrapposizione a quanto fatto da molti competitor, mira a garantire all’utente finale una totale reversibilità. Altre caratteristiche che distinguono le soluzioni OVH sono interoperabilità, massima sicurezza e rispetto per la proprietà intellettuale (OVH è uno dei cofondatori della Open Cloud Foundation). La vision di OVH per la crescita del settore nei prossimi anni configura una rivoluzione cloud in pieno divenire, offrendo così importanti opportunità anche all’ecosistema di partner. Secondo le nuove stime di Gartner sul “cloud shift”, la migrazione sulla nuvola, nel 2022 a livello globale il 28% della spesa nei segmenti IT più importanti passerà su infrastrutture di questo tipo, contro il 19% di fine 2018, evidenziando un mercato in netta crescita. 44
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Tra le aziende capaci di trarre il meglio dai benefici del cloud messo a disposizione da OVH c’è NetAddiction, media company italiana che da 19 anni gestisce una piattaforma avanzata per l’erogazione di contenuti Web su siti come Multiplayer.it, HDMotori.it, Bigodino.it, iFood.it, legaNerd.com, Movieplayer.it, Dissapore.com e HdBlog.it. È una delle aziende più innovative fra quelle che hanno affidato la propria infrastruttura cloud al Web hosting di OVH in Italia. La piattaforma NetAddiction gestisce l’erogazione di contenuti Web, multimediali e di e-commerce a oltre 22 milioni di utenti. Essendo alla ricerca di una particolare elasticità nella gestione delle risorse elaborative e di storage destinate ai propri canali, esposti a grandi fluttuazioni nella domanda di contenuti, l’azienda ha scelto di adottare un’infrastruttura cloud virtualizzata con Vmware e in hosting presso OVH in modalità IaaS. “Nel 2015 abbiamo dismesso i dati in colocation e abbiamo migrato tutti i server e servizi su piattaforma vSphere”, spiega Daniele Minciaroni, responsabile dei sistemi informativi di NetAddiction. “Dopo aver provato la virtualizzazione di VMware e il cloud di OVH abbiamo capito che per noi è impossibile tornare indietro”. Oggi la società può riconfigurare dinamicamente l’erogazione dei servizi, con tempi di provisioning di pochi minuti e prestazioni nettamente migliorate, grazie a un’infrastruttura scalabile per la crescita. “Lavorare con NetAddiction è stato estremamente sfidante”, commenta Dionigi Faccenda, sales manager South West Europe, Nord America e Latino America di OVH. “Abbiamo completato una migrazione con la sostituzione del parco server in hosting con hardware nuovo, più moderno e performante. Grazie alle soluzioni fornite congiuntamente da OVH e Vmware è stato possibile trasferire in poco tempo sistemi, servizi e applicazioni di circa 180 macchine senza mai fermare l’operatività sul Web, che di fatto rappresenta il core business di NetAddiction, tramite un processo semplice, rapido e meno costoso rispetto al passato”. Daniele Minciaroni, responsabile sistemi informativi di NetAddiction
TECHNOPOLIS PER K BRAND
“NON CAMBIAMO LE COSE, LE RENDIAMO PIÙ SEMPLICI” Creare soluzioni digitali tecnologicamente avanzate ed efficienti in ottica “digital transformation” e “Impresa 4.0”. È questa la mission di K BRAND (www.kbrand.it), software house lombarda, affermatasi per le sue soluzioni sviluppate su misura e per l’alto grado di innovazione, creatività e usabilità. Oggi siamo con i tre soci della K BRAND per parlare di un mercato in continua evoluzione, come quello automobilistico Perché parliamo di automotive? Perché è un mondo che ci affascina e perché conosciamo bene le difficoltà e le potenzialità di questo mercato”, affermano Giuseppe Biocca e Simone Dell’Orto, che vantano una esperienza decennale in questo settore. “Le nostre conoscenze, unite alle capacità tecniche-organizzative del nostro socio Sayed Seliman, ci hanno permesso di realizzare un pacchetto prodotti specifico per questo mercato. La nostra proposta si prefigge di accompagnare le società verso la digital transformation sfruttando, ove possibile, gli incentivi messi a disposizione dal piano “Impresa 4.0”. Lo scopo è quello di digitalizzare e migliorare i processi aziendali con un impatto minimo sull’operatività del personale. Non a caso, il nostro claim recita “Non cambiamo le cose, le rendiamo più semplici”. Come vi approcciate a questo mercato? L’approccio al mondo automotive non si discosta molto da quelli seguiti per gli altri settori in cui lavoriamo. Cambiano però le necessità e quindi le soluzioni proposte. Sicuramente in K BRAND è venuto meno il concetto di “cliente-fornitore”: noi preferiamo parlare di partner, perché solo collaborando e solo avendo un obiettivo condiviso e comune si possono raggiungere dei buoni risultati. Si parte sempre con un incontro conoscitivo, in cui capiamo le necessità del potenziale partner. Ogni appuntamento si conclude con un’analisi e un progetto che viene discusso e affinato prima di ingranare la marcia e partire. Quali sono le principali criticità del settore? Potremmo parlarne per ore, perché ogni realtà ha necessità specifiche. Sicuramente il metodo di caricamento delle offerte auto (nuove, usate, aziendali e Km zero) sui vari marketplace (AutoScout24, CarGurus, automobile.it e così via) e la gestione dello stock interno sono due degli argomenti
Il team di K BRAND: Sayed Seliman, Giuseppe Biocca e Simone Dell’Orto che ci capita di affrontare con più frequenza. Un altro tema caldo è quello legato all’interpretazione, conservazione e gestione dei dati raccolti che a oggi sono la base su cui poi strutturare tutte le iniziative marketing, sempre nel rispetto della nuova normativa europea sulla privacy, il Gdpr. Argomento a parte è quello legato alla promozione dei servizi post-vendita: una tematica su cui sempre più player si stanno concentrando perché è qui che si gioca la fidelizzazione dei clienti. Per concludere, quali soluzioni proponete? Le nostre soluzioni toccano, tra gli altri, tutti gli argomenti sopra citati. Il vantaggio per i nostri partner è che possono essere modulate a seconda delle necessità. Si parte dalla realizzazione di un portale Web dedicato (per coordinare tutte le procedure legate alla gestione dello stock vetture, della rete dei venditori e del caricamento dei veicoli sui principali marketplace) per arrivare all’implementazione di strumenti di business intelligence per l’analisi e interpretazione di tutti i dati che provengono dai vari canali (siti, social network, campagne di comunicazione, eventi, vendite, flotte di veicoli, Crm). All’interno della proposta sono presenti moduli dedicati al marketing automation, alla lead generation e alla customer experience, quest’ultima di vitale importanza soprattutto in ambito post-vendita. Tutti i nostri prodotti includono una consulenza a 360 gradi e corsi di formazione specifici e si integrano con i sistemi già utilizzati dai nostri partner, per ridurre al minimo l’impatto delle nuove soluzioni tecnologiche all’interno dell’organizzazione aziendale.
Inquadra il codice Qr o vai su www.kbrand.it
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ECCELLENZE.IT | Gruppo Leonardo
PIÙ PRECISI NEL LAVORO DI OGNI GIORNO, GRAZIE A UN'APP Tablet, applicazioni e cloud aiutano la squadra di facility management a documentare le attività quotidiane. Automatizzando e velocizzando la verifica della checklist.
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erra, acqua e cielo, tra elicotteri, satelliti, sistemi militari aerei, terrestri e sottomarini, ma anche servizi di sicurezza, logistica, controllo delle infrastrutture, cybersicurezza e molto altro ancora. Gruppo Leonardo, eredità di Finmeccanica, è un colosso internazionale da 45mila dipendenti (di cui 29mila in Italia) e 11,5 miliardi di euro di fatturato (nel 2017). Una delle sue sette divisioni, Leonardo Global Solutions, si occupa di attività di real estate, acquisti e facility management per tutto il gruppo in Italia. Del facility management, in particolare, si prende cura una squadra di 140 persone che eseguono opere di vario genere, dalla pulizia alla ristorazione, dal facchinaggio al trasferimento delle postazioni di lavoro, dalla manutenzione delle aree verdi alla gestione della flotta veicoli. Il team eroga più di cinque milioni di pasti all'anno e si occupa della manutenzione ordinaria di oltre sette milioni di metri quadrati di immobili e uffici dislocati in una quarantina di stabilimenti. “Se non non operiamo adeguatamente, l’azienda non è in grado di andare avanti”, sottolinea Antonio Luciano, responsabile della divisione. La società inizialmente si affidava a un sistema “manuale”, assai macchinoso, di monitoraggio del lavoro quotidiano degli addetti, che ogni giorno dovevano preparare la checklist dei compiti assegnati compilando un foglio Excel. I dati venivano archiviati in locale e alla fine del mese tutti i file Excel, uno per giornata, venivano presentati ai re46
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sponsabili. “Il nostro personale”, racconta Luciano, “faceva il giro di ogni sede per verificare che il servizio di pulizia venisse erogato in conformità all’accordo sul livello di servizio. Quindi gli appunti dovevano essere trascritti nel foglio di Excel. A volte si facevano errori, ci si dimenticava di questo passaggio oppure era necessario dare priorità ad altre attività. Pertanto alla fine del mese raccoglievamo solamente dati parziali, che non ci aiutavano a validare i nostri dati strategici”. Su suggerimento del reparto It, il manager ha pensato di rivolgersi a Microsoft (già fornitore del gruppo con la suite Office 365) ed è venuto in contatto con Ntt Data, società di system integration e consulenza partner del colosso di Redmond. Una volta definita la soluzione ideale da adottare, nel giro di due mesi è stata creata e messa in campo un'applicazione che rende automatica e veloce la verifica della checklist. “L’aspettativa principale è quella di ottenere dati più precisi e personale più motivato, petendo così intervenire rapidamente, senza attendere la fine del mese per renderci conto che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe”, dichiara Luciano. Realizzata attraverso la piattaforma di sviluppo software Microsoft PowerApps, la soluzione ha permesso quindi di velo-
cizzare e semplificare il lavoro quotidiano, ma anche di ridurre l'impiego di carta: al posto dei fogli, viene utilizzato lo schermo di un tablet Surface. Usando gli strumenti di Business Intelligence di Microsoft Power BI, inoltre, è ora possibile riorganizzare i dati in base alle esigenze dei singoli gruppi di lavoro. E l'ulteriore vantaggio, sottolineato da Chiara Andreini, facility services design di Leonardo Global Solutions, è che adesso “i dati possono essere salvati nel cloud in tempo reale. In questo modo il nostro team centrale può scaricarli e redigere immediatamente un report”. LA SOLUZIONE L'applicazione di checklist creata con Microsoft PowerApps viene usata su una quarantina di dispositivi Surface per realizzare report quotidiani in formato Pdf (commentabile). Attraverso Microsoft Flow i dati vengono archiviati e sincronizzati nel cloud in automatico e possono essere condivisi e analizzati con gli strumenti di Power BI. Future versioni dell'app prevederanno notifiche push e la possibilità di scattare e caricare foto.
ECCELLENZE.IT | Unicredit
PREVENIRE È MEGLIO CHE CURARE, ANCHE PER SERVER E RETI Per aumentare il tasso di adozione delle procedure digitali in 2.600 filiali, l'istituto di credito ha individuato i problemi esistenti grazie a un software di Datalabs.
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e banche non sono solo sinonimo di risparmi e investimenti, ma anche di dati, documenti e procedure tanto delicate quanto complesse. E questo è specialmente vero per chi, con 26 milioni di clienti e una presenza diretta in una quindicina di Paesi, può affermare di essere tra i primi gruppi di credito in Italia e in Europa: Gruppo Unicredit gestisce, infatti, milioni di transazioni all'anno e, quotidianamente, una mole di milioni di documenti materiale e immateriali. L'abbandono progressivo della carta è un ingrediente importante nel processo di trasformazione digitale del gruppo bancario, ma nonostante gli evidenti vantaggi – risparmi, riduzione dell'impatto ambientale, maggiore facilità di indicizzazione, archiviazione e gestione delle informazioni – faticava a prender piede nelle filiali: gli strumenti informatici (computer, scanner per la lettura dei codici a barre e applicazioni) erano stati predisposti, ma il tasso di adozione si limitava al 20%. “Ci ritrovavamo con transazioni fatte a mano e stock di carta non processata digitalmente laddove c'era la possiblità di farlo”, racconta Paolo Marchini, vice presidente head of software factory Cio di CB Italy presso UniCredit Business Integrated Solutions. “Era palese che avessimo sbagliato qualcosa”. Per capire quali fossero effettivamente i problemi di user experience, l'azienda ha quindi cercato una soluzione che permettesse di fare luce: una tecnologia di Log Intelligence Management System (Lims) con cui poter analizzare i milioni di “eventi”, i log, quotidianamente prodotti dal personale degli sportelli. Il
LA SOLUZIONE Log Intelligence Management System (Lims) è un’estensione applicativa della piattaforma Datalabs che ha fornito a Unicredit un unico punto di “regia” per l’integrazione e l’analisi dei log provenienti da sistemi fisici o applicazioni, in una rete di 2.600 filiali. Sui dati ottenuti vengono realizzati analytics con strumenti interni a Datalabs e soluzioni terze. Oltre a identificare le correlazioni causa/ effetto, il sistema può evolversi sulla base dei risultati ottenuti.
bando di gara è stato vinto da Datalabs, società proprietaria di un sistema di Lims che può acquisire e preparare i dati in ambienti Big Data (Hadoop, nel caso di Unicredit) per poi elaborarli attraverso un modello di Anomaly Detection e di Correlazione che individua rapporti causa/effetto tra i log. Messa alla prova, dopo aver creato un modello Big Data di analisi, la soluzione ha prodotto le prime dashboard dopo qualche settimana, facendo emergere i principali problemi: Pc e scanner obsoleti o dalle caratteristiche tecniche insufficienti e scarsità di banda nelle connessioni Internet di alcune filiali. I difetti di user experience erano talvolta banali (difficoltà ad acquisire un'immagine o a inviare un Pdf), ma non lo era la loro identificazione. Con Datalabs è stato possibile analizzare ogni evento e aggregare i risultati per avere una vista macroscopica sulle 2.600 filiali osservate, con particolare riferimento alla compilazione dei moduli F24. “L'adozione delle procedure digitali è aumentata moltissimo: siamo arrivati oltre il 60%”, spiega Marchini. “Ma il vero valore è stato quello di poter individuare i problemi di user experience e le aree su cui intervenire, per esempio acquistando nuovi scanner con tecnologie di Ocr più veloci e accurate”. La tecnologia Lims, finora applicata alle procedure di compilazione dei moduli F24, potrà essere estesa ad altri tipi di documento e ad altre attività. "Abbiamo ingaggiato Datalabs per un progetto analogo sulle analisi dei pagamenti tramite carta", svela Marchini. "Quando cominci un viaggio e le cose funzionano, è naturale proseguire". DICEMBRE 2018 |
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VETRINA HI-TECH
AMBIZIONI ASIATICHE Funzionalità di intelligenza artificiale, sensori fotografici all'avanguardia, design ricercato: l'ultima ondata di telefonini in arrivo dall'Oriente, guidata da Huawei, punta alla fascia medioalta del mercato. Sfidando i nuovi iPhone.
ONEPLUS 6T Grazie al sensore d’impronta digitalie nascosto sotto lo schermo, bastano solo 340 millisecondi per sbloccare il Oneplus 6T. Non a caso, per il lancio dello smartphone l’azienda ha scelto lo slogan “unlock the speed”. Oltre alla velocità, lo smartphone si distingue per il notch a forma di goccia incastonato nello schermo da 6,41 pollici, con Gorilla Glass 6 a protezione. Completano il corredo 6 o 8 GB di Ram e fino a 256 GB di spazio di archiviazione. I costi di ingresso sono fissati a 559 euro.
OPPO RX17 PRO HUAWEI MATE 20 PRO Per molti è il miglior smartphone del 2018. E le specifiche tecniche non fanno che rafforzare la tesi: primo terminale Android con processore a 7 nanometri, due chip dedicati per l’intelligenza artificiale, tripla fotocamera posteriore (sviluppata, come ormai da tradizion,e con Leica), modem 4G Lte che per la prima volta arriva a trasmettere a 1,4 gigabit per secondo. Per sfidare Apple, Huawei non si è certo risparmiata nel confezionare questo cellulare dotandolo di schermo Amoled da 6,39 pollici a risoluzione QHd e 8 GB di Ram. Prezzo di listino: 1.099 euro.
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L’arma segreta di Rx17 Pro, secondo Oppo, è l’Ai Ultraclear Engine: il motore permette di scattare foto notturne di alta qualità e consente la ricostruzione del colore a livello di pixel. Il sistema di riconoscimento scene è in grado di identificare fino a 864 ambientazioni, restituendo così immagini più chiare e luminose, soprattutto in notturna. Il parco ottico è composto da una fotocamera frontale 25 MP con sensore Sony Imx576, dotato di supporto real-time Hdr, e tre obbiettivi posteriori dedicati a funzioni specifiche. Il prezzo? Si parte da 599 euro.
XIAOMI MI MIX 3 Il “tocco magico” del nuovo cellulare di Xiaomi è sicuramente la modalità con cui si attiva la fotocamera: un meccanismo (brevettato) a scorrimento magnetico permette, una volta che lo schermo viene spinto verso il basso, di far comparire il blocco ottico. Una soluzione innovativa, che ha consentito all’azienda di eliminare quasi del tutto i bordi e di ricorrere a un display Amoled Full Hd+ da 6,39 pollici. Altra chicca, i 10 GB di Ram. In arrivo in Italia.
SAMSUNG GALAXY A9 Nell’affollato e difficile terreno di gioco della fascia media del mercato, Samsung prova a stupire con il suo primo smartphone caratterizzato da ben quattro fotocamere posteriori. Esagerazione o utilità reale? Probabilmente la prima, ma a livello di marketing una configurazione così spinta potrebbe ripagare. Lo schermo Super Amoled del Galaxy A9 è inserito in una scocca di vetro con cornici ridotte e frontalmente si trova il quinto obbiettivo da 24 megapixel. Costa 629 euro.
LG V40 THINQ Nemmeno Lg si è risparmiata in termini fotografici, dotando il proprio V40 ThinQ di cinque obbiettivi (tre posteriori e due frontali) per attrarre un pubblico giovane e votato alla comunicazione visiva. Le specifiche del telefono sono di pregio: processore Qualcomm Snapdragon 845 (top del mercato), 6 GB di Ram e fino a 128 GB di spazio di archiviazione. Al momento lo smartphone non è ancora disponibile in Italia, ma è stato lanciato negli Usa a circa 900 dollari.
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VETRINA HI-TECH
SMART HOME PER TUTTI I nuovi tablet professionali di Apple, la stampante che riordina da sola le cartucce, lo speaker di Amazon: gli ambienti domestici sono sempre più "connessi".
HP TANGO
IPAD PRO Gli iPad Pro del 2018 si ispirano al design dell’iPhone X: le cornici si riducono ulteriormente e sparisce il tasto Home. Per sbloccare il tablet di Apple è sufficiente lo sguardo, proprio come per i melafonini. In un corpo spesso soli 5,9 millimetri trovano posto processori A12x Bionic a otto core e fino a 1 TB di capacità di archiviazione. Per la prima volta i dispositivi professionali di Cupertino accolgono la porta Usb-C, che fra le altre cose permette anche di ricaricare un iPhone. Proposti nelle versioni da 11 e 12,9 pollici, gli iPad Pro partono da 899 euro.
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Non si corre mai il rischio di rimanere senza consumabili con la nuova proposta di Hp per il mercato consumer. Tango, infatti, è dotata della funzione Instant Ink, che ordina automaticamente l’inchiostro quando sta per esaurirsi, con costi che partono da 2,99 euro. L’abbonamento al piano di “ricarica”, inoltre, include la stampa illimitata di tutte le foto (fino al formato 13 x 18 cm) inviate al dispositivo da smartphone e tablet. La procedura di installazione semplificata non ricorre né a porte Usb né a driver: è sufficiente scaricare l’applicazione Hp Smart e connettersi. Il prezzo della multifunzione è di 149 euro, che sale a 199 euro nella versione con custodia in tessuto.
AMAZON ECHO PLUS Sono arrivati da poco anche in Italia i primi dispositivi di Amazon con a bordo l’assistenza vocale Alexa. Il top di gamma è l’Echo Plus di seconda generazione, uno speaker cilindrico con un elegante rivestimento in tessuto e sette microfoni a lungo raggio per poter conversare con il “maggiordomo digitale”. L’altoparlante è anche uno smart hub per la domotica, con cui è possibile gestire altri dispositivi intelligenti eventualmente presenti in casa. Sul sito di Amazon è venduto a 150 euro.
GARANTIRE LA RISERVATEZZA DEI DATI: UNA CRESCENTE SFIDA PER LA GESTIONE DELLA STAMPA E DEI DOCUMENTI.
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SAPEVATE CHE LA DIRETTIVA GDPR 8? ENTRA IN VIGORE IL 25 MAGGIO 201
51*%
Sì, ma non ero a conoscenza delle scadenze
No, non so che cosa sia il GDPR
Percentuale degli acquirenti di stampanti non consapevoli che il GDPR riguarda anche le attività di stampa
41% Sì
ENZIALI VULNERABILITÀ PROTEZIONE DEI DATI DEI CLIENTI: POT DELLE PRASSI AZIENDALI ASSOCIATE ALLA TRASFORMAZIONE
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TRE PRINCIPALI PUNTI DOLENTI DA AFFRONTARE RELATIVI AI WORKFLOW AZIENDALI*
CRESCITA ESPONENZIALE DELLE INFORMAZIONI: DA 16,12 ZETTABYTE NEL 2016 A 163 ZETTABYTE NEL 2025
CAMBIAMENTO DELLE MODALITÀ DI LAVORO
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Gestione dei workflow cartacei rispetto a quelli elettronici Mancata integrazione dei workflow nei vari dipartimenti Difficoltà a trovare documenti e informazioni
I DELLA SICUREZZA AUMENTA IL RISCHIO DI VIOLAZION
COME ESSERE CONFORMI CON LA NORMATIVA? AUDIT Soluzioni per la gestione e il monitoraggio della stampa
ACCESSO PROTETTO Accesso sicuro, autenticazione e autorizzazioni
SICUREZZA DEI DISPOSITIVI Eliminazione del rischio di accesso ai dati presenti sul dispositivo
PROGRAMMA 10 PUNTI BROTHER Brother ha redatto un programma di 10 punti che le aziende dovrebbero considerare come parte integrante delle iniziative per rendere il business sicuro ed essere conformi alle normative sulla riservatezza dei dati.
* Fonte "Garantire la riservatezza dei dati: una crescente sfida per la gestione della stampa e dei documenti" - IDC 2018
www.brother.it
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