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N#1|ANNO1|DICEMBRE 2008|
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infoaut magazine numero1-anno 1 www.infoaut.org -Dicembre 2008tutti i materiali presenti sono sotto licenza Creative Commons, per la condivisione e la circolazione dei saperi. Gli articoli pubblicati sono presenti sul sito. chiuso in tipografia il 9/12/2008 layout: Grafiche Bandite In attesa di autorizzazione stampato in proprio a Torino, corso Regina Margherita 47 per inviare contributi mail to:news@infoaut.org
contenuti
in Movimento E’ la caratteristica principale del progetto informativo di InfoAut, ed è la nostra “sede” naturale. Il primo numero della versione Magazine rappresenta un ulteriore evoluzione di Infoaut, nato come portale nel febbraio 2007. Da luglio siamo passati alla versione 2.0, un’ulteriore evoluzione di uno strumento che non può stare fermo, che non si può accontentare di “essere” ma che continua a svilupparsi, in corsa o meglio in movimento, per dare voce, nel miglior modo possibile, alle lotte, ai punti di vista, alle analisi di quanti si oppongono allo stato di cose presenti, aspirando ad un cambiamento radicale. Il magazine è uno strumento in più che si aggiunge al sito web, che già di per se intrecciato con tutte le altre forme di comunicazione: audio, video, foto. Da ottobre di quest’anno sono nati anche i nodi locali di Bologna, Palermo, Torino, per dare maggiore visibilità alle lotte territoriali. In questo numero, centrato sulla crisi, sull’onda e sulle elezioni Usa, proviamo a mettere su carta quanto abbiamo pubblicato sul sito, stravolgendo le caratteristiche del classico “uso web”. Gli articoli pubblicati qui di seguito sono reperibili anche sul portale, e per ogni tema segnaliamo le interviste e i materiali correlati all’argomento. Questo primo numero nasce dall’esigenza di essere attrezzati politicamente di fronte alla crisi di un sistema che non può essere riformato e che dimostra sempre più chiaramente la sua vocazione al disastro e all’emergenza, che tenta di far pagare a tutti le conseguenze generate da chi ne compone il suo schieramento. Infoaut è questo e molto altro: è uno spazio sociale nella rete, uno strumento in più per il conflitto, una voce di parte in un mondo schierato.
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ANTAGONISTI CONTRO LA CRISI Documento sintetico della 2 giorni di discussione tenutasi l’8-9 novembre al csoa Askatasuna cui hanno partecipato realtà antagoniste di diverse città italiane.
Stiamo attraversando un frangente storico in cui la stessa nozione di “fase” (politica, economica) potrebbe presto perdere di senso perché incapace di comprendere e spiegare una temporalità e un orizzonte differenti per natura da quelli che li hanno preceduti. Ci troviamo di fronte ad una crisi ancora non misurabile coi parametri classici e che ci si presenta innanzi (forse per anni) come sfondo normale del nostro vivere e agire politico quotidiano. Una crisi non congiunturale quindi, ma di medio-lungo periodo, strutturale e sistemica. Una crisi formatasi in un contesto di globalizzazione capitalista compiuta, originatasi negli Stati Uniti ma propagatasi viralmente in tutto il globo, creando un sistema deficitario globale che intacca l’Asia e l’Europa, l’Africa e l’America Latina. Nessuno è al riparo dalla crisi ma non tutti pagheranno gli stessi costi, in termini assoluti e proporzionali. In alcune aree dell’ex-Terzo Mondo gli effetti della crisi sono stati pagati preventivamente con la manifestazione di una crisi alimentare che è già anticipazione di futuri disastri, laddove è la stessa possibilità di sussistenza (cereali come petrolio) ad essere quotata in borsa. Così, a differenti livelli, per quote consistenti di popolazione statunitense è l’intero sistemawelfare a essere giocato sui tavoli delle roulettes finanziarie attraverso la privatizzazione del deficit spending. In Europa, Asia e LatinoAmerica la crisi colpisce con gradi e intensità differenti ma quello che è certo è che non si sta dando alcun decoupling (sganciamento) rispetto a una crisi che è globale. Ma di cosa parliamo quando diciamo “crisi”? Marxianamente, leggiamo la crisi dentro il rapporto sociale capitalista di produzione e riproduzione. Nella sua forma ciclica il capitalismo alterna periodi di sviluppo e crescita a fasi di recessione e declino. E’ bene ricordare che nel sistema capitalista la crisi non è mai momento accidentale o frutto di singolare malagestione ma elemento interno e strutturale, momento periodicamente ritornante del suo modo di produzione. Arma strategica con cui ristabilire nuovi e più schiaccianti rapporti di forza. Addentrandoci nel lessico capitalista possiamo equiparare il termine crisi a “distruzione”, sviluppo a “creazione”. Ma costruzione e distruzione dentro e per il mantenimento di un ordine capitalista, da sempre intrecciate in quella distruzione creativa che da attribuzione del singolo capitalista sembra oggi diventata proprietà sistemica. In una fase ascendente (o di sviluppo) riproduzione sociale e riproduzione sistemica (capitalista) coincidono, il capitale
si fa “sociale”. In una fase di declino (o crisi) le loro strade divergono e si dissociano. Le capacità distruttive del capitalismo emergono oggi nello iato che intercorre tra esigenze della riproduzione sociale e costi della riproduzione sistemica. Non è solo che il Capitale si trova oggi ancora una volta a scegliere quali e quanti pezzi di società e sistema distruggere per ricreare un nuovo, più esteso e intensificato, ciclo di accumulazione di ricchezza sotto il segno della legge del profitto. Lo farà: per il Capitale si tratta oggi di ripresentare, declinato in forme nuove, un uso capitalistico della crisi all’altezza dei tempi. Ma ciò non toglie che quello iato è divenuto enorme nella forma di una crisi che è contestualmente economica ecologica sistemica: una crisi della riproduzione sociale complessiva che fa vacillare ogni misura “anticiclica” tradizionale. L’ostacolo (per noi occasione?) che il sistema capitalista si trova oggi innanzi è infatti quello di una crisi creata non per fronteggiare un insubordinazione di classe su larga scala ma come risultante (sempre di nuovo rimandata) di un lungo processo di creazione di capitale fittizio (cioè virtuale, sganciato da ogni forma sostanziale di ricchezza) che negli ultimi tre decenni ha preso la forma di pura speculazione. L‘inghippo (per tutti) è che questa economia virtualizzata è legata a doppio filo all’economia reale al punto che interi pezzi della riproduzione sociale statunitense (ma non solo, il virus intacca anche pezzi d’Europa con lo spregiudicato uso dei derivati, ecc.) sono nelle mani della finanza. In questo senso non si può più parlare oggi di una distinzione netta tra economia reale ed economia finanziaria, nel momento in cui fondi pensione, bilanci regionali, fondi-cassa di imprese fino ai conti correnti del risparmiatore minuto vengono giocati alle roulettes di un capitalismo-da-casinò. Ciò vuol dire che non si può liquidare la faccenda pensando che sia affare di brokers e banchieri. Nel momento in cui le due dimensioni sono intrecciate i ripetuti crolli delle borse internazionali bruciano con sé – ad ogni picchiata - pezzi consistenti della ricchezza (povertà) complessiva: posti di lavoro, garanzie sociali, beni comuni. E, anche e soprattutto, pongono un’ipoteca ancora più gravosa - coi famigerati “salvataggi” - sulla produzione di ricchezza e relazioni sociali future. L’orizzonte che si prepara per una parte consistente di umanità è quello di una lotta all’ultimo sangue tra espropriazione capitalista della vita e fronti di resistenza/riappropriazione/ costruzione del comune.
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Una ridefinizione dei poteri Il portato distruttivo di ogni crisi capitalista non risparmia dal suo campo d’azione – ed è per noi il nodo centrale - anche i rapporti di potere operanti nella società che, come tutto il resto, subiscono delle variazioni e delle pressioni al cambiamento. Non è arduo ipotizzare per i tempi a venire l’emergenza di nuove forme politiche il cui segno non è ancora definito ma che saranno posta in gioco e campo di battaglia delle forze in campo. Da molto tempo la forma politica dell’Occidente capitalista, la democrazia rappresentativo-parlamentare, segna il passo mostrando non poche difficoltà (specie in Europa) a riformare/innovare il sistema. Questo assunto è vero tanto per i movimenti (sociali, di classe) quanto per il comando capitalista. La perdita di legittimità del ceto politico istituzionale radicalizzatosi in questi anni e che abbiamo definito come crisi della rappresentanza altro non è stato che sintomo e primo manifestarsi di una ben più radicata crisi del sistema politico istituzionale nel suo insieme, crisi a suo modo segnalata anche dall’elezione di Obama. Dal punto di vista dei movimenti, la democrazia formale (che è anche l’unica esistente) funge da ostacolo e recupero dentro la compatibilità sistemica di istanze di rivendicazione potenzialmente più radicali; dal punto di vista del comando, è freno e resistenza ai tentativi di innovazione e ristrutturazione di parte capitalista. Anche se, va detto, i due lati non sono simmetrici per i movimenti e i nuovi soggetti potenzialmente antagonisti: che sono alla ricerca di una confusa forma di democrazia “post-politica” in cui tende a venir meno la scissione, propria del movimento operaio tradizionale, tra cooperazione sociale da ricostruire e autorganizzazione del conflitto. L’ “onda” ce ne sta dando più di una riprova… Una delle ipotesi da considerare è che, dentro questo quadro, un ruolo non minore sarà quello svolto dai ceti medi, da sempre centrali nel garantire la riproduzione sociale complessiva in termini di trasmissione del sapere tecnico-scientifico e legittimazione ideologica del qua-
dro istituzionale. In cambio di un riconoscimento di status e reddito, questo blocco sociale ha incarnato nel secondo Novecento la desiderabilità del regime democratico, sintetizzato nelle promesse dell’american dream e nelle sicurezze della socialdemocrazia europea. Oggi questa galassia sociale, tanto mutata e variegata in termini di professioni e funzioni produttive quanto omogenea dal punto vista dei valori e dei riferimenti, sta vivendo un attacco senza precedenti ai propri standard di vita (salari, garanzia di stabilità, accesso ai consumi) e relativa auto-rappresentazione. Il percepirsi come mera estensione della working class e appendice sacrificabile della riproduzione capitalista potrebbe farne venir meno il ruolo storico di cuscinetto della lotta di classe, soprattutto nella misura in cui la questione del debito e della rendita si porranno sempre più come terreni di scontro piuttosto che di consenso. L’interrogativo circa il loro comportamento è tanto più importante se consideriamo il precedente storico della crisi del’29, troppe volte citata nei commentari odierni. Nelle tre risposte, pur diverse, a quella crisi (new-deal americano, stato stato “autarchico” nazifascista europeo e socialismo sovietico stalinista) centrale fu il ruolo dei ceti medi, ovunque interpreti e propagandavivente del nuovo corso istituzionale. Alla definizione di un nuove ordine e alla relativa istituzionalizzazione di nuovi rapporti di forza politici ed economici parteciperanno tutti quei pezzi della composizione sociale che penseranno di avere qualcosa da guadagnare (o nulla da perdere) dall’ingaggio nel conflitto sociale. L’esito di questo processo non è scontato, quello che è certo è che siamo di fronte a un bivio e ci ritroveremo presto o tardi di fronte a scelte (da ambo le parti) le cui conseguenze saranno notevoli sul piano economico, sociale e politico. Dentro questo quadro, il nodo per noi politico e centrale è - come sempre - quello degli spazi di antagonismo che si apriranno.
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Le conseguenze sul quadro internazionale Globale e sistemica, la crisi non ha tardato a produrre effetti molto concreti a livello proprio di globalizzazione. Le mutazioni dei rapporti di potere prodotti dalla crisi agiscono ed agiranno ad ogni livello: internamente alle singole aree macronomiche e nazionali, tra i poli capitalistici. La vittoria di Obama negli States è pienamente da leggersi come primo effetto, sul breve periodo, della crisi capitalista globale. Se l’amministrazione Bush fosse riuscita a contenere ancora per qualche mese lo scoppio della bolla finanziaria, oggi non staremo certo a parlare del “primo presidente afroamericano della storia”. Questo non toglie nulla della spinta al “change” che ha animato il recente voto americano perché, per quanto simulato e contraffatto, lo spettro del conflitto di classe ha segnato le elezioni Usa. Il dato politico significativo dell’evento-Obama è stata la reintroduzione pesante delle tematiche e dei problemi che ruotano intorno al nodo capitale-lavoro, ricchezza e sua redistribuzione. Come è stato segnalato da più parti, l’insediamento di Obama non potrà non segnare il conflitto sociale dentro i confini americani. Essa segna uno spostamento su un altro piano, se non del conflitto, perlomeno del dibattito politico. La parentesi clintoniana ha prodotto (anche e tra gli altri – dentro un’ovvia continuità neoliberista/imperialista) la primavera di Seattle. I risultati della presidenza Obama, come già il contesto più generale, aprono in questo senso prospettive e interrogativi nuovi. Quello che è certo è che gli Usa non potranno scaricare i costi della crisi interamente sugli altri, come ancora era stato il caso delle precedenti bolle finanziarie: “tigri asiatiche”, “convenzione internet”, ecc… Questo perché non solo i mercati esteri ma l’intera riproduzione sociale Usa è in mano alla Finanza, come i casi Enron e il crollo dei mutui subprimes hanno chiaramente mostrato. Ora però l’intreccio tra potenze, stati, banche centrali e sistema della finanza è talmente profondo e inestricabile che il virus si propaga e
riproduce ad ogni latitudine, occupando ogni interstizio economico. Dentro questo quadro, la questione aperta più scottante (è più sentita dai think tank americani) è quella del destino della super-potenza Usa in termini di egemonia e comando del sistemamondo capitalista. Se la formazione di un mondo multi-polare conflittuale è il prodotto di un processo di lungo corso, lo spostamento nella leadership capitalistica mondiale potrebbe essere, sul medio periodo, l’esito più diretto di questa crisi: uno spostamento verso Est e l’asse cino-indiano quale nuovo centro mondiale di accumulazione e direzione capitalista che non smette di preoccupare le agenzie e i pensatoi statunitensi. Ambienti in cui, da qualche anno, si parla esplicitamente della possibilità di un “condominio” cino-americano (“Chimerica”) nel quadro di un G2 informale Usa-Cina (ovviamente sbilanciato verso gli Usa). Schiacciata tra questi due poli, l’Europa: politicamente subalterna al comando atlantico-statunitense (che non ha smesso di indebolirla a mezzo di guerre: dalla Jugoslavia all’Iraq) è però andata consolidandosi come area economica integrata ed in diversi contesti economico-monetari l’Euro viene ora preferito al Dollaro come moneta di riserva. Le stesse aree che un lessico eurocentrico osa ancora definire “emergenti” (quando economie come quella brasiliana hanno tassi di crescita più vicini alla Cina che all’Europa) hanno fatto presente, ben prima degli universitari nostrani, che non intendono pagare loro la crisi. L’America Latina, solo per fare un esempio, va consolidando un processo di integrazione economica continentale che si concepisce ed organizza al di fuori del controllo statunitense. A pagare i prezzi più alti di questa transizione geo-politica saranno ancora probabilmente le popolazioni di di quelle aree del globo al centro degli interessi geo-economici e geo-politici (medio-oriente e asia centrale) mentre l’Africa continuerà ad occupare l’ultimo posto nella geografia politica della globalizzazione.
IL QUADRO NAZIONALE I costi della crisi sono già evidenti sul piano nazionale, in un sistema-paese da sempre all’ultimo posto nelle classifiche europee su redditi e capacità d’acquisto dei salari, penalizzato dalle scelte politiche di esecutivi di ogni colore che hanno sacrificato – per anni – i comparti strategici dell’economia nazionale accettando di occupare gli ultimi gradini, a bassa composizione organica di capitale, nel sistema della divisone internazionale del lavoro. Il dato più interessante che ci consegna questa fase è però quello dell’estrema labilità e precarietà nella stabilizzazione del consenso per governi che vengono a malapena tollerati finché gestiscono il presente, scaricati non appena tentano di imporre misure antipopolari. Quanti già annunciavano il compiersi irreversibile di un fascismo post-moderno, si sono dovuti ricredere di fronte alla risposta massificata e capillare dei conflitti cha hanno attraversato il sistema della formazione. Ben diversamente dal proclamato decisionismo, il governo Berlusconi tentenna, come i suoi predecessori, in una mera governabilità dell’esistente. L’uso manu militari della forza pubblica è stato tanto velocemente minacciato quanto prontamente ritirato da un esecutivo paralizzato dalla tirannia del consenso mediatico. La cosa è stata vera, solo per fare alcun esempi, tanto per il movimento dell’Onda quanto per il NoTav. Probabilmente i soggetti sociali su cui sarà più facile scaricare tensioni sociali e pruriti securitari saranno ancora una volta i migranti (specie se “clandestini”). Anche qui però, a prevalere non è l’acquiescenza né l’accettazione: le spinte soggettive messesi in moto dopo l’assassinio di Abba e la semi-insurrezione di Castelvolturno sono segnali importanti. La risposta corale della scuola primaria alla provocazione delle classi ponte, la presenza massiccia delle donne migranti alle manifestazioni contro la legge Gelmini sono lo specchio rovesciato e il più sicuro antidoto alle tendenze xenofobe e populiste che covano in sacche rancorose di popolazione.
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Il movimento No Gelmini che ha acceso l’autunno sorge e si colloca lungo questo orizzonte al tempo stesso contradditorio e potenziale. La spinta iniziale alla mobilitazione è provenuta dal connubio genitori-insegnanti, dalla percezione precisa dell’impatto biopolitico della riforma, nella misura in cui questa giungerebbe a stravolgere i precari equilibri che tengono insieme tempi di vita, di cura e di lavoro nell’epoca della precarietà diffusa. Una protesta in larga parte spontanea e partita dal basso, autonoma e non di rado insofferente dei macchinosi tempi sindacali, incalzati e letteralmente spinti alla convocazione dei pochi scioperi da una base che ha mostrato di avere vedute più ampie e bisogni più alti. Da parte governativa il provvedimento è così direttamente figlio della crisi che esplicita senza pudori la necessità di “fare cassa”, la violenza ineluttabile e “normale” della razionalità economica. Lo sguardo miope del commercialista sottende però la finalità politica di una ri-articolazione gerarchica del sistemaformazione lungo le linee della classe, del genere e del colore. Una riforma classista perché nega una volta per tutte la formazione come bene comune, istituendola come merce al tempo stesso svalorizzata e cara, la cui qualità è direttamente proporzionale al prezzo che si è disposti a pagare. Sessista perché tendente a ricollocare la donna nella sfera domestica della cura, relegando il compito della riproduzione all’istituzione-famiglia, con tutto ciò che esso comporta in termini di addomesticamento delle libertà e dell’emancipazione femminile. Razzista perché dietro l’istituzione di classi separate (o ponte, fintamente “integratrici”) si cela una volontà politica di educazione alla subalternità della forza-lavoro migrante fin dalla più tenera età. Se la scuola è sempre stata un apparato ideologico di formazione/disciplinamento/controllo del corpo sociale complessivo – nessuna nostalgia quindi per un “pubblico” declinato innanzitutto come “statale” – la riforma Gelmini segna il definitivo completamento di un progetto di lungo corso del comando capitalista, volto allo svuotamento delle potenzialità di soggettivazione politica
di massa, sganciata dal ciclo della valorizzazione capitalista, che la scuola da sempre riveste. Sollevatasi dopo la scuola primaria, l’Onda universitaria ha qualificato soggettivamente e politicamente l’opposizione sociale alla legge, intuendo nello slogan “noi la crisi non la paghiamo” il nesso profondo che lega politica nazionale dei tagli e crisi internazionale di sistema; la popolarità e velocità di propagazione e riproduzione del messaggio sono segnali precisi di una indisponibilità popolare diffusa a pagare i costi sociali della crisi. La mobilitazione, dentro e oltre l’università, ha attivato energie sociali inedite, salutando la nascita di una nuova generazione politica che assume - ma non per questo accetta - la precarietà come orizzonte esistenziale di un futuro incerto già prefigurato nel presente. Un movimento che ha messo le mani avanti e precisato, a partititi e sindacati, il suo carattere orgogliosamente irrappresentabile, determinato e unito nel respingere ogni tentazione di autonomia del politico quanto molteplice nella composizione e variegato nelle forme espressive. Un movimento compiutamente “post-ideologico” si è detto, già tutto proiettato in avanti nel percepirsi come pura forza-lavoro intellettuale senza futuro. Una ricchezza che può trasformarsi in limite se il disconoscimento radicale della delega si trasforma in rifiuto della relazione politica in astratto, del momento politico tout court. I limiti e le difficoltà dell’Onda sono però quelli connaturati ad ogni movimento nuovo e spontaneo. Il paradosso che li attraversa è quello di abitare lo spazio deserto, incerto e potenziale della crisi restando ancora ostaggio delle sovrastrutture ideologiche del discorso
pubblico “democratico” e “legalitario”. Un campo popolato da intellettuali di corte che additano nella corruzione la causa degenerativa di un sistema altrimenti equo e riformisticamente perfettibile. Retoriche che naturalizzano il carattere invece politico e storico del comando di classe, veicolando una interpretazione astorica e immutabile dell’organizzazione sociale, come se le leggi non fossero il prodotto di rapporti di forza sempre precari ma tavole bibliche scolpite nella roccia. Proprio quando la legittimità del sistema vacilla, aprendo scenari di radicalizzazione dello scontro e possibilità reali di trasformazione, questi professionisti dell’addomesticamento (che occupano il campo vasto e ambiguo della “società civile” e dell’“opinione pubblica”) confondono gli obiettivi, riducendo l’ampiezza della questione sociale a banalità di cronaca penale. Smascherarne il ruolo di difensori dello status-quo, ricentrando il dibattito politico sulle cause strutturali e sistemiche della sperequazione sociale, deve allora diventare compito non secondario delle soggettività antagoniste. Nella parzialità metodologica del nostro punto di vista antagonista, non si tratta tanto di confrontare le forme dei movimenti sorgenti con le nostre aspettative, quanto di pensare per movimenti futuri, cogliendo nell’involucro del presente i nodi centrali del conflitti di domani. Il movimento dell’Onda e quelli raccoltisi negli ultimi anni intor-
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no alla difesa di territori e beni comuni, hanno iniziato a fornire gli spunti di una tendenza più generale che mette al centro dell’azione politica una miscela inedita di antagonismo e (contro)cooperazione, in cui il momento del conflitto è sempre accompagnato da pratiche costituenti di alternativa, al di furori però di una qualunque mediazione istituzionale risolutiva. Diventa allora perdente e contro-producente ritentare percorsi già provati nel passato e rivelatisi fallimentari, smaniando di trovare una sponda politica costi quel che costi, magari nelle porosità eretiche del PD di oggi in sostituzione di quelle verdi, rosse e arcobaleno di ieri. Necessario diventa invece scommettere a tutto campo sui percorsi di mobilitazione sociale sprovvisti di rappresentanza politica che la macchina della crisi continuerà a tracimare. Agirne le ambivalenze, potenziarne la conflittualità in direzione anti-capitalistica e anti-sistemica, è l’unica strada percorribile per un antagonismo all’altezza dei tempi, affinché “noi la crisi non la paghiamo” non resti solo uno slogan ma la coordinata di partenza di un necessario programma di riappropriazione della ricchezza sociale. Novembre 2008
la prima crisi veramente globale? *4 ottobre 2008 L’articolo che segue – apparso su Infoaut a ottobre – ruota intorno all’ipotesi che la crisi in atto sia effettivamente globale non solo come estensione, cosa oramai evidente a tutti, ma soprattutto perché mette a nudo la fragilità dei nodi cruciali del modello di accumulazione degli ultimi decenni. A partire dall’asse Usa-Cina e dalla creazione di “circuiti finanziari deficitari” a scala mondiale come modalità determinata che ha rotto l’insorgenzadel “lungo ’68”. Ne derivano difficoltà e contraddizioni intrinseche a qualsiasi intervento di bail out – al di là e oltre il piano Paulson da cui l’articolo prende spunto – come confermato dagli sviluppi dell’ultimo mese e mezzo. Negli Usa e altrove, la crisi tende ad avvitarsi e aggredisce oramai con decisione la dimensione produttiva globale. Ogni sua lettura riduzionistica nei termini di contrapposizioni quali crisi Usa/effetti globali o speculazione finanziaria/”economia reale” lasciano il tempo che trovano. La vittoria di Obama è l’unica variabile nuova rilevante (che analizziamo in un articolo a parte). Ma anche la sua presidenza non potrà fare a meno di confrontarsi con la dimensione immediatamente globale - dentro la riunificazione effettiva del mercato mondiale - del capitalismo oggi, e dunque con quei nodi che l’articolo con cautela propone alla discussione. Ogni riflessione seria su ripresa dell’interventismo statale, nuovo new Deal, ecc. non può prescinderne - questa la nostra ipotesi - pena il suo girare a vuoto e/o l’assoluta indeterminatezza. Il “keynesismo nella sussunzione reale”, se ancora di keynesismo ha senso parlare, non può non darsi in termini sostanzialmente differenti da quelli classici, a partire dal nesso sviluppo-lotte-crisi. Vale per il capitale (plausibilmente non a suo vantaggio), vale per la prospettiva antagonista (e qui sarebbe bene iniziare una discussione approfondita). La crisi, ancora una volta, lavora con metodo…
La crisi finanziaria con epicentro negli States procede per ondate successive che ne approfondiscono e ampliano la portata. Crisi dei subprime, poi restrizione del credito tra banche, a seguire caduta generalizzata dei prezzi immobiliari (prima volta dalla II guerra mondiale) con forti perdite nei bilanci delle istituzioni finanziarie e… probabilmente recessione reale. Mozzafiato gli interventi statali diretti e i salvataggi sponsorizzati nella patria del “liberismo”: dopo la statalizzazione di Fannie e Freddie, il salvataggio della Merryl Linch da parte di Bank of America e quello della Aig da parte della Federal Reserve, infine il fallimento di Washington Mutual, la più grande cassa di risparmio statunitense, acquisita poi da JP Morgan e l’assorbimento di Wachovia da parte di Citigroup. Ma la carta straccia è anche, e pesantemente, nei bilanci delle banche europee: di qui la prima tranche, in questi giorni, di nazionalizzazioni e salvataggi dall’Inghilterra alla Germania passando per Bruxelles. “E’ solo l’inizio - afferma un analista londinese - vedremo banche nazionalizzate, assorbite da altri gruppi e per qualcuna ci sarà anche il default”. Le misure una tantum fin qui usate per
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correre in soccorso degli istituti finanziari però non bastano più. Così, il Tesoro Usa ha tentato il colpaccio con un piano complessivo da 700 miliardi di dollari (pari più o meno al Pnl di Taiwan, ventunesima economia mondiale). Ma nonostante l’allarme rosso delle borse, le rassicurazioni dei leader del Congresso nonostante i forti malumori dei peones, l’intervento diretto di Bush con un appello alla nazione, l’avallo dei due candidati presidenziali - il piano per ora non è passato! A dimostrazione che la crisi inizia ad avere ripercussioni anche politiche. Il Piano Paulson_ Si tratterebbe (condizionale d’obbligo) di un maxi-fondo pubblico che assorbendo i crediti “tossici” inesigibili degli istituti di credito, punta a stoppare la discesa dei prezzi e a sbloccare l’arresto del credito (credit crunch) che si sta trasferendo all’economia reale. E’ un piano che salverebbe, sistematicamente, le società responsabili del disastro finanziario senza offrire nulla alla gente comune oberata di debiti (dai mutui alle carte di credito). I lobbisti finanziari, aiutati dalle manovre dei repubblicani, avevano ottenuto che il
salvagente pubblico valesse per ogni tipo di credito compresi quelli detenuti dai fondi pensione e speculativi, i derivati, ecc.! L’intenzione è di nazionalizzare carta straccia a spese del “contribuente” senza neanche uno straccio di interventismo a favore di Mean Street (l’uomo della strada). Non era infatti passata la richiesta democratica di misure legali minime a favore delle famiglie espropriate della prima casa (inoltre i repubblicani avevano ottenuto di eliminare ogni riferimento a fondi per l’edilizia popolare) mentre i vincoli posti agli stipendi dei manager erano cosmetici. Del resto Paulson, che aveva preparato un piano di tre paginette con ancora più discrezionalità per il Tesoro, era stato chiaro: “La protezione fondamentale del contribuente la darà la stabilità del mercato che si garantisce in questo modo”. Il pubblico però aveva da subito reagito male al ricatto posto da Bush su un piano che salva solo i ricchi. Così, nonostante l’assegno in bianco iniziale fosse divenuto un corposo progetto di legge, alla Camera hanno per ora votato contro un buon numero sia di democratici che di repubblicani. “Per i primi, il piano era troppo sbilanciato verso le “major ” di Wall Street. Per i secondi, il piano, basato sulle finanze pubbliche, era in odore di “socialismo”, commenta rainews24. Wall Street risponde in caduta libera. Basterebbe?_ Il Piano risulta per ora congelato. Ma fin da subito si era posta una domanda: è sufficiente? E quali le conseguenze? Un primo problema è trovare tutti quei soldi: il debito pubblico complessivo salirebbe ulteriormente anche rispetto all’ancora corposo Pil statunitense (il deficit statale federale sarà quest’anno, con tutti i salvataggi operati, al 10% del Pil a un livello visto solo con la II guerra mondiale) mentre quello complessivo è già a cifre stratosferiche. Sarà necessario finanziarlo con crediti da fuori (nessun poli-
tico per ora parla di aumentare le tasse) appesantendo il debito estero. “Qualcuno pensa anche che l’onere di riparazione di un sistema finanziario disastrato potrebbe mettere a serio rischio lo status del dollaro come moneta di riserva mondiale”, scrive l’Economist. Inoltre, i settori a rischio non sono oramai solo più quelli legati ai mutui subprime ma - ancora l’Economist l’insieme dell’industria finanziaria: “lo stesso fenomeno che osserviamo con le case lo stiamo vedendo nei prestiti per l’acquisto auto, le carte di credito e le borse di studio”. In effetti, è oramai in moto una dinamica che conduce tutti gli istituti finanziari a vendere per ridurre l’indebitamento (deleveraging: ridurre il rapporto pazzesco tra titoli e assets reali) spingendo così ancor più in basso il valore dei beni in una spirale difficilmente arrestabile. Potrebbe quindi già essere troppo tardi per evitare conseguenze più pesanti. Il quesito di fondo_ E’ quello che inizia a farsi strada: questo piano o uno simile potrà essere all’immediato necessario, ma sarà davvero efficace? Su questo liberisti del Financial Times (come il guru Martin Wolf ) e dell’Economist così come liberal democratici del New York Times (come Paul Krugman) sono in fondo d’accordo nelle critiche: il Tesoro e la Fed stanno affrontando la crisi come se si trattasse di un problema di liquidità da immettere nel circuito per arrestare la spirale al ribasso dei prezzi, ricreare fiducia e poi rivendere i titoli acquistati in un mercato stabilizzato. Ma il problema è a questo punto sempre più di insolvenza di quel “sistema bancario ombra” fatto di prodotti finanziari derivati figlio della deregulation e delle bolle speculative degli ultimi decenni (si parla di cifre astronomiche pari o superiori al prodotto lordo mondiale). “Quando lo stock di debito lordo è enorme e le condizioni economiche
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difficili, c’è alta probabilità di numerose bancarotte. La gente teme l’insolvenza di massa, i prestatori smettono di dare in prestito e gli indebitati di spendere. Il risultato può essere la deflazione da debito”. Il mercato interbancario già lo segnala col rialzo dei tassi, il mercato monetario è sotto tensione. Tutto ciò non si risolve con iniezioni continue di liquidità ma ricapitalizzando il sistema, come propone anche il direttore del Fmi Strauss-Kahn: “Al cuore del problema c’è il fatto che il sistema finanziario ha troppo poco capitale” per reimmetterlo nel circuito reale traendone profitto. Già ma ricapitalizzare significa innanzitutto raccogliere quote enormi: da chi, a quali condizioni (si accetteranno i cinesi nei consigli di amministrazione?), con quale prospettiva? Significa comunque operare un trasferimento colossale di ricchezza che il Fmi e Wall Street hanno potuto imporre nei decenni passati nel Sud del mondo ma difficilmente ora hanno il potere di riproporre in quelle forme alla popolazione in Occidente e all’Asia. Significa, inoltre, ripristinare le basi complessive del ciclo del valore e creare nuove condizioni della domanda globale per rimettere in moto l’accumulazione. Insomma, l’impressione che si trae dal dibattito negli States, al momento, è che non si coglie la profondità della crisi di un intero modello di crescita drogata dal debito quasi si potesse, dopo la tempesta, riprendere tutto tranquillamente come prima. Mentre il modello americano ha sempre meno appeal, mancano idee propulsive come anche il confronto Obama-McCain sta evidenziando. Chi può permettersi di parlare esplicitamente di declino della potenza statunitense senza essere punito dagli elettori? L’obbligo tutto americano del “pensare positivo” - fa notare lucidamente la vetero-cons Barbara Spinelli impedisce di guardare con coraggio nel baratro che si sta aprendo.
L’equazione globale di potenza_ La crisi in corso è dunque strutturale non solo perché ha colpito il centro del sistema mondiale ma anche perché sta investendo, con conseguenze ancora incerte, il ciclo mondiale di riproduzione del valore degli ultimi trent’anni e dunque l’equilibrio globale di potenza che su di esso si è costruito. In questo siamo veramente all’(inizio della) fine di un’era. La fuoriuscita dalla crisi economica degli anni Settanta e la risposta capitalistica al formidabile ciclo di lotte dell’operaio massa e dei popoli coloured si erano concretizzati dagli anni Ottanta in poi in una ristrutturazione del mercato mondiale: Dal rapprochement tra Usa e Cina, al corso denghista del “socialismo di mercato”, fino alla globalizzazione neoliberista, era sembrato che gli Usa potessero svolgere il ruolo di egemone fornitore della stabilità sistemica, a maggior ragione dopo il crollo dell’Urss e lo stabilirsi del “momento unipolare”. In realtà, questo corso ha via via mostrato la sua fragilità dimostrandosi incapace di replicare i successi del ciclo fordista precedente. Da un lato ha infatti accentuato la finanziarizzazione rapace dell’economia Usa e gli squilibri globali sintetizzati nel doppio deficit commerciale e dei pagamenti; dall’altro ha permesso il decollo e l’affermazione della Cina come nuovo “opificio del mondo” ma legandola a doppio filo al mercato interno e al finanziamento, con i propri surplus commerciali, dell’indebitamento crescente degli Stati Uniti. I nodi di quella che fin qui è stata la tenuta di Chimerica (come la chiama lo storico di Harvard Niall Ferguson ) e del mercato mondiale iniziano però a venire al pettine. Sia sul versante del contratto sociale tra finanza e cittadino-consumatore negli Usa (ma sempre più in tutto l’Occidente) che ha sostituito con la privatizzazione individualistica del welfare il vecchio compromesso keynesiano-fordista facendo della domanda da indebitamento crescente della gente comune (debt peonage) la base sempre più ristretta della piramide finanziaria (e che ora rischia di frantumarsi). Sia per il rischio di trascinare, o comunque influenzare pesantemente, l’intero sviluppo asiatico nei vortici della crisi alla faccia dei teorici del decoupling crescita asiatica/crisi Usa. Sia, infine, per la crisi irreversibile del Washington Consensus e della forma neoliberista della globalizzazione (che non vuol dire affatto possibilità, dato l’intreccio globale della produzione e della finanza, di tornare indietro a uno sviluppo incentrato e diretto dallo stato-nazione!). Novità e continuità_ La novità sta dunque nell’incrinarsi evidente del controllo Usa sul ciclo di riproduzione del capitale globale, in particolare di fronte all’emergere dell’Asia. La capacità di Washington di risucchiare -via predominio del dollaro e della finanza oltreché via guerra- il valore accumulato dai centri capitalistici emergenti nelle ex-periferie, principalmente in Asia Orientale, garantendo al contempo la stabilità del sistema è palesemente in difficoltà. L’esperienza della crisi asiatica del 1997-8 ha rappresentato per quei paesi una soglia cruciale palesando l’arroganza di Usa e Fmi a fronte dell’incapacità di porre ordine negli squilibri globali, anzi usandoli per accaparrarsi i pezzi migliori delle
economie asiatiche. A dieci anni dalla crisi gli effetti della reazione asiatica sono evidentissimi: fine dell’indebitamento col Fmi (ridotto oramai a istituzione fantasma), ripresa economica incentrata sulla crescita cinese, rapporti inter-asiatici meno asimmetrici di quelli con l’Occidente, e su tutto primi passi verso la costruzione di un mercato asiatico più integrato facente perno sulla Cina. E’ su questo complesso emergente, oltreché su un America Latina che cerca di integrarsi e su una Russia in ripresa (ma addirittura le petrolmonarchie palesano qualche velleità autonoma), che gli States non riescono più a scaricare la crisi come prima. Al tempo stesso, la continuità nell’attuale fase sta in una struttura della divisione internazionale del lavoro che resta incentrata sullo stretto legame Usa-Cina. Un’equazione destinata nel (medio)-lungo periodo a dissolversi, ma che a breve resta una necessità anche per la dirigenza cinese. Il paradosso dell’attuale situazione sta nel fatto che il rafforzamento cinese nei confronti di Washington è condizionato dalla prosecuzione della cooperazione economica con gli Stati Uniti. Una cooperazione a cui è costretto ancor più l’establishment statunitense con la crisi in corso e il bisogno urgente di fondi (due miliardi di $ al giorno; la Cina da sola sta prestando agli Usa per il 2008 l’equivalente di due volte e mezzo il Piano Marshall per l’Europa del 1947). In questo quadro, tendenzialmente sempre più incerto - c’è chi su Foreign Affairs parla oramai di fase a-polare - gli altri attori di media potenza della politica globale si fanno avanti giocando, come la Russia, sulle debolezze statunitensi senza al momento potere né volere intraprendere un corso di piena e dispiegata rottura. La loro azione, di per sé non centrale, potrebbe però precipitare situazioni di crisi (v. Georgia) proprio in relazione alla fragilità crescente degli equilibri globali. Nuova regolazione?_ Mentre le teste d’uovo del Council on Foreign Relations statunitense iniziano (ora!) a ragionare a voce alta sulla vulnerabilità strategica dovuta alla dipendenza dai finanziamenti di paesi “non alleati” e dei fondi sovrani e consigliano di ridurla (ma come?) - il dibattito è acceso nei circoli economici sulle modalità di una nuova regolazione finanziaria. Su un piano tecnico questa è già iniziata con le misure della Fed e del Tesoro americani (maggiori controlli, fine della banca d’investimento, ecc.) e verrà quasi sicuramente confermata se non ampliata alla prossima riunione del G-7, al di là dei malumori europei. Ma la questione è più generale e verte sia sulla governance globale ventura sia sulle condizioni di un nuovo ciclo economico. 1. Sul primo punto, finora erano andate per la maggiore le tesi, Greenspan in testa, di chi negava che il doppio deficit fosse un problema per gli States: “i deficit non contano” (Dick Cheney)! Questo sia perché non sarebbe in vista un sostituto globale del dollaro sia per la forza militare Usa che sembrava impareggiabile. Oggi invece prendono forza i “preoccupati”: la debolezza finanziaria è un problema serio cui ovviare mettendo ordine in casa (sacrifici!) e approntando una nuova architettura internazionale che renda conto delle
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nuove realtà emergenti. Sempre sulle pagine di Foreign Affairs, la rivista ufficiale del Dipartimento di Stato, Fred Bergsten del Peterson Institute propone un G-2 informale con la Cina affiancato a un accordo (un “Asian Plaza”) di rivalutazione delle monete asiatiche. Attenzione a non equivocare sulle intenzioni. L’obiettivo è qui, preso atto dell’inevitabilità oggi di un asse economico con Pechino, di stringere ancor più Pechino in una rete di vincoli e ricatti atti a evitare che l’economia cinese possa puntare autonomamente sul proprio mercato interno e quella asiatica possa centralizzarsi intorno ad essa distruggendo l’“indispensabilità” statunitense. Il punto però è che una Cina forte dei suoi successi continuerà a cooperare ma ha già iniziato a riscrivere a suo modo le regole del gioco del sistema! 2. Ma il problema di una possibile nuova regolazione rimanda al nodo ben più complesso di se e come è possibile rilanciare il capitalismo, a scala Usa e globale, riequilibrando il rapporto finanza/ produzione, dove la prima sta fagocitando la seconda in un intreccio indistinguibile di profitto e rendita (attenzione: nessuna litania qui sulla speculazione “cattiva” contro la produzione “buona”!). Questo intreccio spreme il lavoro ai limiti dell’immaginabile ma in quantità pur sempre insufficiente a valorizzare la pletora di capitale “fittizio” che circola sui mercati. I margini ampliabili non a piacere della giornata lavorativa globale -come tempo di vita e come resistenza del lavoro vivo- restano infatti il limite (storicamente) assoluto per il capitale. Un suo “ringiovanimento” via distruzione del capitale fittizio - non surrogabile dalla mera svalutazione dei corsi finanziari oggi in atto - è stato possibile nel passato solo grazie alle guerre mondiali distruttrici di lavoro vivo e morto e comunque in una fase in cui ancora non tutto il lavoro e la vita erano sussunte al capitale. Oggi la guerra generale non sembra una “soluzione” a portata di mano per il sistema, mentre la tendenziale mercificazione della totalità delle relazioni sociali rende paradossalmente più difficile, ma per ciò stesso più imperiosa, la “recinzione” di nuovi terreni di caccia per il valore. C’è chi come Arrighi - pensa o propone che la Cina possa rappresentare una via d’uscita all’impasse grazie a un modello differente di accumulazione, meno sperequato all’interno e meno asimmetrico (cioè non imperialista) nei rapporti con l’estero. La questione è complessa e, si sia d’accordo o meno, va discussa per le implicazioni possibili di una inedita “socialdemocrazia in salsa cinese” sulla dinamica degli antagonismi di classe (a partire dal proletariato di lì). Per intanto sta di fatto che l’establishment cinese finora non si è contrapposto affatto al modello “anglo-sassone” a misura che se anche i profitti sono essenzialmente industriali e non (ancora) finanziari, però gran parte di essi viene messa a disposizione del finanziamento del debito statunitense ad alimentare un circuito globale da cui la borghesia cinese trae valore e legittimazione. Sembra proprio che sia definitivamente esaurita la fase storica in cui “dall’alto” poteva venire una risposta, anche solo socialdemocratica o real-socialista, alla questione di un modello economico alternativo.
E’ altrove che è più opportuno guardare per abbozzare una risposta a cosa possa oggi significare un’economia altra possibile, come produzione e riproduzione dei commons a scala finalmente globale. Il movimento no global, nella sua dinamica profonda, ha iniziato a porre la questione senza poterla però radicare nel profondo della società (e, rispetto all’Asia, dovendosi fermare a Bombay) . La crisi finanziaria, se dovesse approfondirsi, dislocherà quella domanda immettendola di forza nella vita pratica di tutti e preparando il dispiegarsi di conflitti sul terreno del debito, della rendita nelle sue molteplici forme, della finanziarizzazione come sintesi capitalistica dell’espropriazione della vita nella sussunzione reale.
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[audio sulla crisi] *Il petrolio sfonda quota 117 $, onda lunga della crisi sub-prime: chi ne paga le conseguenze? 22 aprile 2008
intervista con Andrea Fumagalli *Food crisis: l’altra faccia della crisi finanziaria 1 maggio 2008
intervista con Andrea Fumagalli *Usa: Bush prega il Congresso di approvare il piano di salvataggio 25 settembre 2008
intervista con Riccardo Bellofiore *La prima crisi veramente globale? 4 ottobre 2008 intervista con Andrea Fumagalli intervista con Riccardo Bellofiore *La crisi continua: borse di nuovo a picco - 15 ottobre 2008
intervista con Andrea Fumagalli
interviste
crisi e grandi opere
Da quando la crisi è ufficialmente presa in considerazione dai governi, assistiamo ad una molteplicità di analisi e rimedi del più svariato credo economico-politico. Dagli Usa all’Europa l’unico vero rimedio che c’è in campo è il salvataggio degli establishment che di questa crisi sono causa, con l’immissione di denaro contante nelle casse degli istituti di credito (debito?), nelle compagnie finanziarie, nelle aziende di automobili e via discorrendo. E’ chiaro come il sistema-crisi tenti di salvare la sua esistenza, dotandosi di tamponi statali, visto che è in crisi nella sua completezza. Sarebbe ignobile ormai non ammetterlo, e lo sarebbe ancora di più se non conoscessimo orami chiaramente come questo vive, si arricchisce e si riproduce. Mai come in questo momento storico l’aiuto di stato viene a galla come unico rimedio al baratro, e sono in tanti a chiederlo, gli stessi che si sono affannati e si affanneranno a chiedere più privato e meno stato, in uno slogan che conosciamo ormai molto bene ogni qualvolta proviamo a curarci, a calcolarci la pensione o semplicemente a bere dell’acqua dal rubinetto. Benché la privatizzazione di tutto sia un dato acquisto nella nostra quotidianità, lo dovrebbe essere altrettanto per il malloppo che questi signori dell’industria si spartiscono e reclamano, che è fatto da soldi pubblici, soldi che vengono elargiti dallo stato, incassati dalle tasse, sottraendoli ad altri campi. Il pubblico diviene privato con enorme facilità, e l’ideologia dominante risiede proprio in questa transazione che ha tenuto a galla industrie come la Fiat, o parti del sistema creditizio. Non vi è campo del vivere che non sia a pagamento, che non sia messo a valutazione, e non vi è campo “privato” che non viva di spazi e soldi pubblici, nella ormai consolidata formula costi allo stato, guadagni alle imprese. Il rapporto tra i due settori è così indistinto che la scuola, la sanità, le risorse sono divenute ormai luoghi dello scambio tra i due istituti, che a seconda della crisi invertono i ruoli in maniera speculare. Ci sarebbe da riflettere a lungo sui perché, ma visto che il tempo, mai come in questo momento è denaro, compete a tutti noi, mettere in campo resistenze e progetti per provare a evadere, da soggetti attivi, dalla crisi e dai suoi rimedi, provando, una volta almeno, a metter da parte il quieto vivere che accomuna i tempi di crisi, avendo ben presente chi è che la determina, la governa e la sposta. Perché solo spostandola è superabile una crisi di queste dimensioni, o meglio più che spostandola, scaricandola su qualcuno, perché sia chiaro, il peso non è “uguale per tutti”, proprio come non lo è la legge. La crisi non incide sui manager, sui politici e sugli industriali di alto rango, incide altrove, tra il popolo, nel sociale, e nell’indotto del potere così come in quello della produzione. Il governo Berlusconi si dimostra attento a non perdere il consenso di cui gode, e oltre a varare social card e altri palliativi del genere, si dice disposto a investire da subito miliardi nelle grandi opere, per far ripartire il paese e per creare posti
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di lavoro. Si dota, per esserne sicuro, di super commissari che garantiscono aziende e contratti, rimanendo al di sopra di tribunali e consigli comunali. E’ lo stesso discorso che abbiamo sentito fare dal sindaco di Torino Chiamparino, che ha prospettato di combattere la crisi con i posti di lavoro e le opportunità offerte dal prossimo inceneritore e dalla costruzione del grattacielo Intesa-San Paolo. Che dire, a fronte della crisi sociale che sta investendo la ex Detroit italiana il futuro attore del “Pd/lega” del nord guarda lontano… Ma tornando alle grandi opere, il governo investe (o sblocca come si usa dire) 16 miliardi di euro per riaprire e completare cantieri e lavori vari. Opere necessarie per continuare quella strada intrapresa da tempo che dimostra come sia a finale cieco. E’ un po’ come scavare buche per poi ricoprirle, ma tant’è che la fantasia e la creatività del trio Berlusconi-Tremonti-Brunetta porta qui. Mose, ponte sullo stretto, pedemontane, Tav sono i progetti da far partire per l’utilità del paese. Ma se questo è uno scaccia crisi, proviamo un attimo a pensare per chi lo è. Sappiamo bene come il sistema dei lavori pubblici faraonici come questi sia ben oliato, e dando per scontato l’inutilità della maggioranza delle opere in questione, sappiamo bene che tipo di sistema va ad alimentare la gettata di denaro fresco. Il sistema dei lavori pubblici oggi è il più grande luogo di finanziamento pubblico ai partiti dei nostri tempi, e non c’è bisogno di scomodare nessun tribunale o di tirare in ballo nessuna organizzazione mafiosa. Il luogo dello scambio di denaro è pubblico, alla luce del sole e avviene secondo norme e bandi regolarmente osservati. Non c’è più bisogno di tangenti o altri sistemi di corruzione per arrivare al fine ultimo, oggi la politica è nell’economia direttamente attraverso aziende e cooperative che equamente si spartiscono progettazione e realizzazione dei grandi appalti, stornando automaticamente nelle casse dei rispettivi appartenenti. Non è un caso del resto che i famosi “general contractors”, siano sempre gli stessi, che la CMC (cooperativa muratori e cementisti) sia la ditta che deve realizzare la maggioranza dei lavori pubblici, e che la progettazione degli stessi avvenga dalla Rocksoil di Lunardi. Cosa significa quindi in un momento come questo investire in maniera significativa in questo settore se non alimentare questo sistema che ha bisogno di uscire dalla crisi, garantendosi un continuo futuro? Qualcuno vorrebbe forse far credere che lavorare nei cantieri delle Grandi Opere sia sintomo di un lavoro, giusto, sicuro, ben retribuito e continuativo? O forse è un altro di quei tasselli che rende precari e a rischio della propria vita i lavoratori. E che questo sia il luogo politico dove entrano in scena mafie e giudici è assodato. E poi dove vanno a finire le giustificazioni che ci hanno sempre dato sulle previsioni di trasporto delle merci per i prossimi vent’anni, quando sembra che da trasportare non ci sarà un gran che visto la discesa continua della domanda? Quello che deve essere chiaro è che se il governo
investe miliardi nelle grandi opere significa che li toglie a qualcos’altro, e questo avviene sempre non solo in tempo di crisi; significa che quei soldi pubblici saranno sottratti a qualche altro servizio pubblico, e contando che parliamo di opere inutili significa che saranno sottratti a qualcos’altro di sicuramente utile, non è in discussione. Ad esempio dopo i tragici fatti di Rivoli, dove un ragazzo di 17 anni è morto per il crollo del tetto della sua scuola, molti conti sono stati fatti, e nonostante il presidente del consiglio la giudichi “una tragica fatalità”, l’episodio è avvenuto per l’incuranza di quella scuola, alla pari di molti altri edifici pubblici, tant’è che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Guido Bertolaso ha calcolato che per mettere in sicurezza le circa 57.000 scuole italiane occorrerebbero 13 miliardi di euro. Sedici contro tredici, opere già in atto da metter in sicurezza perché popolate da studenti contro opere da costruire di cui valutarne ancora l’utilità. Probabilmente a mettere in sicurezza le scuole si creerebbe un rilancio economico nazionale e locale, con l’impiego di migliaia di lavoratori, e senza l’agonia di sapere il proprio figlio o la propria figlia a scuola, ma non è questo il campo che interessa, la scuola va “tagliata” perché spende troppo e la colpa è degli insegnanti e dei baroni…Come sui posti di lavoro dove si muore quotidianamente è giusto deregolamentare i diritti dei lavoratori, erodergli garanzie e favorire le imprese. Quale occasione migliore di una crisi economica, per avviare ad esempio spese pubbliche volte a rimettere in sicurezza le scuole, sistemare gli acquedotti che perdono il 30% dell’acqua, bonificare le aree notoriamente inquinate, sovvenzionare le energie alternative? Con l’effetto sul medio periodo non solo di garantire l’impiego a fette consistenti di cittadini, ma con il risultato di ritrovarci al termine del ciclo, in un Paese eccellente dal punto di vista del pubblico, per tutti. Invece, no. Si asfalta e si continua ad investire sulla mobilità privata, l’automobile, proprio mentre i cittadini smettono di comprare auto e benzina e le industrie relative finiscono sul lastrico; non si pensa ad incentivare nuove produzioni e convertirne altre adeguandole ai tempi. Certo che no, “bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla” è il motto. E’ per questo che manifesteremo il 6 dicembre a Susa*, per dire altro e dimostrare altro. Perché oggi bisogna decidere o una cosa o l’altra: o una linea ferroviaria inutile, costosa o dannosa, o rimettere in sicurezza e a nuovo scuole, ospedali e servizi pubblici. Noi lo abbiamo già deciso e difenderemo quest’idea insieme al futuro di tutti e tutte. [*L’articolo è stato redatto alla fine di novembre 2008, il 6 dicembre in 30.000 hanno manifestato a Susa, nella Valle che Resiste. Due giorni prima l’Ue ha finanziato con più di 600 milioni di euro la progettazione dell’opera,il 3%.]
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ONDA ANOMALA e prospettive dell’antagonismo studentesco |collettivo universitario autonomo - Torino|
Negli ultimi mesi in Italia si è sviluppato un movimento con caratteristiche in gran parte inedite, e la situazione politica del nostro paese ne è stata significativamente toccata. Milioni di persone – soprattutto studenti, ma anche genitori, insegnanti e lavoratori precari – sono scesi in piazza e hanno reclamato a gran voce il ritiro delle leggi 133 (che in alcuni articoli prevede pesantissimi tagli all’università, la possibilità per queste di trasformarsi in fondazioni e il blocco delle assunzioni al 20%) e 137 (una vera e propria riforma della scuola che reintroduce il maestro unico, abolisce il tempo pieno e reintroduce il grembiule nelle scuole e il voto in condotta). Accanto a queste due leggi, anche altri provvedimenti – come quello che prevede la separazione dei bambini migranti da quelli italiani nelle scuole – sono stati oggetto di una contestazione intensa e diffusa. La protesta, partita dalle scuole elementari, con in testa le famiglie, ha visto aggiungersi quasi subito le università. Il movimento degli universitari ha immediatamente legato la battaglia sull’istruzione e la ricerca al livello politico generale, con lo slogan – che ha invaso tutte le piazze d’Italia – “Noi non pagheremo la vostra crisi”. In occasione degli scioperi e dei cortei più grandi, infine, un soggetto multiforme ha invaso le strade, procedendo anche, in diverse città, a una quantità di occupazioni: gli studenti medi. Nelle sue tre componenti – scuola primaria, scuole superiori, università – il movimento ha saputo estendersi e consolidarsi nel giro delle ultime sei settimane, portando per la prima volta il governo Berlusconi ad ammettere delle difficoltà. Onda anomala Si potrebbe scrivere e riflettere a lungo sulle ragioni e sul significato dell’attacco che questo governo sta portando alla scuola e all’università pubbliche. Tuttavia, non crediamo si questa l’urgenza: urgente è sviluppare quel tipo di riflessione nelle assemblee universitarie e tra gli studenti, mentre le realtà politiche autorganizzate devono mettere al primo punto dell’ordine del giorno la questione della soggettività che in questo movimento va esprimendosi. Come spesso accade, chi riesce a interpretare precocemente il dna sociale e politico di un nuovo fenomeno di massa è anche in grado di contribuire con più efficacia alla sua maturazione politica e al suo sviluppo in senso antagonista. Se il movimento attuale è un’onda, lo è anche e soprattutto a causa della difficoltà che sta incontrando la politica rappresentativa a governarlo – men che meno a dirigerlo. Ed è un’onda anomala per il suo procedere diverso, differenziato e
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disordinato, imprevedibile e, in fin dei conti, irrappresentabile. Ogni forma di politica organizzata, da quella dei grandi partiti mediatici alla sinistra partitica extraparlamentare, dal sindacato fino ad arrivare agli stessi centri sociali, trovano un terreno accidentato ogni qual volta provino a parlare “a nome” o ad agire “per conto” del movimento. Le ragazze e i ragazzi che compongono le assemblee non sono più, per la prima volta, le minoranze politicizzate, rispetto alle quali la massa teneva una distanza più o meno disinteressata, o più o meno ostile: oggi un fiume di soggetti privi di esperienza e formazione politica, spinti talvolta all’intolleranza verso ogni discorso politico, animano collettivi e assemblee rendendo necessario confrontarsi con una dimensione inedita. Questo atteggiamento diffuso fa da pendant a una composizione sociale in trasformazione. L’orizzonte precario dell’esistenza, che trova nella precarietà lavorativa il suo perno regolatore, non è più soltanto un affare che riguardi una parte degli studenti universitari. Sono ormai gran parte delle stesse famiglie che vedono in un futuro senza il tempo pieno nella scuola primaria l’impossibilità di piegarsi alle flessibili esigenze del mercato; e l’ormai totalità degli universitari percepisce, nell’università del 3+2, la vita da studente come associata necessariamente a forme di lavoro dipendente precario, nero e sottopagato. I ricercatori precari non possono che rassegnarsi a una condizione permanente di ricatto e umiliazione, mentre gli studenti medi osservano tutto questo con lucidità troppo spesso scambiata per cinismo, e percepiscono il buio che li attende dopo la scuola, in un mondo dove nessun diritto è ormai più garantito. Autonomia passiva L’espressione politica della paura del futuro e dell’assenza di punti di riferimento economici stabili è il rifiuto della politica. Un rifiuto reale, netto, diffuso, che sarebbe un errore confondere con un mero rifiuto dei partiti tradizionali. Sia pur attraverso un linguaggio confuso e ambiguo, ciò contro cui si orienta la caotica composizione sociale del movimento – soprattutto nelle sue fasce più giovani, quelle studentesche e universitarie – è il discorso politico in quanto tale. In questo senso il paragone con la Pantera rischia di essere azzardato, come qualsiasi altro paragone. In fondo, la stagione a cavallo degli anni Novanta vedeva un protagonismo politico giovanile esteso, e non soltanto in Italia: pro-
prio l’epoca rivoluzionaria a livello globale del 1989-1991 ha instillato una volta ancora la passione politica in molti che diventavano allora adolescenti – anche come reazione, o come portato delle trasformazioni importanti che i soggetti sociali avevano subito negli anni Ottanta. Oggi, diversamente da allora, e diversamente dalla contestazione del nuovo ordine mondiale del 1999-2001, l’onda è formata da un soggetto che alza la testa improvvisamente e spontaneamente, senza riconoscersi nelle rappresentazioni della realtà che hanno avuto un peso nel Novecento, sia di destra che di sinistra, sia in favore sia contro il capitalismo. In primo luogo, la delega politica è rifiutata: tanto l’atteggiamento di Veltroni quanto quello di Epifani, tanto il ruolo dei sindacatini studenteschi quanto quello dei collettivi organizzati sono visti con sospetto da gran parte degli studenti, con minore o maggior foga a seconda dei contesti e delle circostanze. In secondo luogo, incontra scarso consenso ogni discorso che non abbia presa sul concreto, almeno nella comprensione del reale che primeggi in quella specifica occasione assembleare. In terzo luogo, questa soggettività si percepisce come estremamente legata al resto della società, interna ad essa, e suppone di interpretarne in questi modi le sensibilità e le esigenze: frequenti sono i richiami a un legame positivo – fino all’acritico – con l’”opinione pubblica” o, come si sente dire ancora più rozzamente, “la gente”, molto spesso semplicemente identificata con il punto di vista che i mass media stanno ad un certo momento diffondendo. In questo rifiuto radicale del politico – che naturalmente si presenta come differenziato e stratificato, non come un moloch – si apre un deserto che per ora pochi concetti vaghi e confusi tentano di popolare, espressione proprio di un soggetto che è espressione di una “opinione pubblica” potentemente forgiata dai media. Spuntano così i riferimenti alla difesa del pubblico, soprattutto nella scuola e nell’università, della ricerca in sé e per sé, ai diritti riconosciuti dalla Costituzione. L’esistente, sovente identificato con la presunta neutralità dell’elemento giuridico, viene contrapposto tout-court alla politica e alla casta politica, come se tra essi non vi fosse relazione, ma semmai, contraddizione; le stesse Università e scuole sono in alcuni casi difese acriticamente, e in particolare la ricerca. Si tratta, secondo molti studenti e ricercatori precari, di resistere allo smantellamento del pubblico unendo tutti gli interessi presenti nei
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mondi della formazione – anche dove questo risulta chiaramente impossibile. Nel complesso, si rileva l’influenza che alcuni momenti dello spettacolo politico degli ultimi anni hanno avuto sui giovani, soprattutto sugli universitari: grillismo e travagliamo in primis. Proprio l’assenza in questi discorsi di un’analisi politica, di un’indagine degli assetti di potere e delle loro relazioni (se non scarnamente cronachistica, senza il respiro ampio di un’analisi delle cause sociali profonde dei fenomeni), di un qualsivoglia approccio critico verso l’esistente della società, e così anche della formazione e della ricerca (e, in fin dei conti, della politica stessa) li rende strumenti di una discussione dozzinale, dove ogni tentativo di produrre critica articolata, viene delegato – paradossalmente – proprio agli studenti già organizzati, alle soggettività politiche che amano il complesso delle mobilitazioni. E’ l’instaurazione di questo legame ambiguo tra soggetto studentesco e soggettività politica che sembra rappresentare la sfida del movimento nel dopo 30 ottobre. Autonomia attiva L’onda, quindi, nella sua effervescenza e vivacità, nel caos della sua proposta multiforme e variopinta, sembra nascondere un che di desertico al suo interno. Il primo errore da evitare è senz’altro quello dell’atteggiamento elitario verso questa forma di deserticità: nella sua ambivalenza, essa si fa espressione di una potente carica emancipativa. Il rifiuto della politica è – per forza di cose – rifiuto della politica passata; e se tale rifiuto sfocia nel rifiuto del politico stesso – cioè non della politica costituita, ma di qualsiasi relazione politica in astratto, anche a venire – questo gesto impossibile e logicamente paradossale rende evidente l’assenza, nell’attuale panorama storico, delle future forme della politica – tanto di quelle che vorranno governare la crisi, quanto di quelle che a partire da essa vorranno costruire una società diversa. I miti che attraversano il movimento – dalla ricerca disinteressata alla possibile alleanza con i rettori, dalle figure di Grillo e Travaglio a quella di Obama – sono, come tutti i miti degli anni 2000, poco duraturi. Non si tratta di ideologie coerenti o di rappresentazione del mondo più o meno progressive o più o meno reazionarie, ma di icone ‘usa e getta’ che riempiono precariamente il vuoto della vecchia politica: la politica del dopo-guerra fredda. Oggi le polarizzazioni sociali, le crisi economiche costanti e sempre più gravi, i venti di guerra e le crisi internazionali preparano nuove fasi dello scontro sociale.
L’onda italiana è il primo movimento europeo che interpreta la nuova fase, in questo producendo una discontinuità anche con quello greco e con quello francese. La sfida delle soggettività antagoniste è quella di interpretare la politicità del rifiuto della politicità passata, l’elemento critico che esiste in nuce nella rivendicazione di un’autonomia che non è soltanto generazionale, ma anche sociale. Occorre difendere con tenacia il movimento dai tentativi di strumentalizzazione partitica, nel contempo diffondendo elementi di proposta politica che siano privi di qualsiasi autoreferenzialità. L’autonomia del movimento è illusoria fin quando esso resta preda dell’influenza dei media manovrati dal solito timoniere, dei contenuti dei talk-show, dei luoghi comuni dell’intangibilità e neutralità della ricerca, della cultura e del sapere. Ogni cultura nuoce gravamente al potere, tranne la cultura del potere. Autonomia e indipendenza da quella cultura, da quel potere: solo così questo movimento potrà declinare fino in fondo la sua anomalia, recidere fino in fondo i legami con il passato.
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Nuovi individui sociali lottano: NoGelmini e beni comuni
E’ stata una sorpresa, di quelle che fanno sentire di nuovo la vita scorrere. Non solo il corteo a Roma di venerdì 17, ma il clima e la mobilitazione diffusa delle ultime settimane che hanno preceduto e reso possibile quella giornata spingendola ben oltre il pur riuscito sciopero dei sindacati autorganizzati e facendone il primo momento generale di opposizione sociale al governo. Un’opposizione dalle caratteristiche in gran parte ancora da esplorare. La presenza in piazza venerdì non a caso eccedeva in più sensi la composizione tradizionale del corteo sindacale alternativo. Per la presenza delle famiglie coi bambini toccate dalla controriforma Gelmini, innanzitutto, mescolati a precari di ogni età. Per lo spezzone numerosissimo e vivo degli studenti medi e universitari. Per quel senso, al di là dei numeri, di embrionale costruzione di un collante, di uno spazio comune che non si limita al confluire di categorie di lavoratori e vertenze diverse, ma contiene una potenzialità, difficile da definire a tutt’oggi, che ruota intorno alla percezione che la vita quotidiana, la riproduzione sociale va difesa da uno tsunami che si avvicina. E’ qualcosa di più allora di una semplice trasversalità di soggetti. Per questo -senza sminuire il successo dell’iniziativa, al contrario- si sbaglierebbe a pensare che il surplus di presenza sia interpretabile in termini di “adesione” tradizionale allo sciopero dei sindacati di base. A maggior ragione questo vale per quanti, soprattutto nella scuola, venerdì in piazza non c’erano ma hanno fatto lo sciopero o c’erano ma con altre tessere in tasca, ma soprattutto per quanti si sono mobilitati in questi giorni per la prima volta, anche tra i giovani, soggettività nuove molto distanti
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dalla politica ufficiale e dal sindacato, da ogni sindacato, sgomente di fronte a un futuro buio pesto. Soggetti che si sanno privi, a ragione, di ogni sponda istituzionale, e per questo difficilmente catturabili dal dispositivo di una pseudo alternativa di governo, oscillanti in continuazione nell’ambivalenza di passività individualizzata e scatti di dignità che iniziano a tracciare traiettorie di lotta molto differenti dal passato. Rimettendo in campo sentimenti, temi, dinamiche che abbiano intravisto nel no war e poi nelle lotte a difesa del territorio, e che ora stanno entrando di forza nella vita di tutti sull’onda della crisi del debito e della precarizzazione senza ritorno dell’esistenza quotidiana. E’ qui, forse, il filo comune di questo strano autunno “caldo”. A partire dalla lotta Alitalia che pur non vincendo ha messo in pratica un inedito “rifiuto” del lavoro sussunto alla finanza segnando in qualche modo una svolta nel clima sociale . E ora con la mobilitazione spontanea e autorganizzata di genitori e insegnati delle scuole elementari che sta trainando il resto della scuola fino all’università - la reazione è di individui sociali eterogenei e potenzialmente ricchi, nella normalità sussunti a vie di fuga individuali o corporative, a volte però e quasi inaspettatamente capaci di ribaltarle costruendo come dal nulla una cooperazione di lotta. Su quale percezione? Quella di un’esistenza tendenzialmente fagocitata dal mercato e dalla rendita finanziaria cui si è costretti a devolvere parti sempre maggiori del proprio reddito e soprattutto delle condizioni della riproduzione sociale, del welfare, del futuro proprio e dei figli. Chiamati a piegarsi al Post-Washington Consensus che suona: la bad company a voi, la good company ai profittatori… E’ presto per dire come questo filo
verrà intessuto dalle lotte. Ma è quasi certo che siamo davanti ai segnali di una cesura nel tessuto sociale e nella soggettività. Per intanto si delinea un possibile passaggio politico della mobilitazione NoGelmini che sarà cruciale dopo l’approvazione parlamentare del decreto. Il no secco ai tagli è e si farà tanto più forte e diffuso quanto più saprà intrecciarsi alla consapevolezza che la formazione, come ogni bene comune, è innanzitutto un rapporto sociale di cui riappropriarci. E’ una relazione tra soggetti che possono insieme cooperare e arricchire il bene comune della riproduzione sociale, al di là di ogni difesa dell’esistente, piuttosto che farsi invischiare nella logica della competizione e del controllo come sempre più accade nell’istituzione scolastica (in special modo nella oramai tristissima università dei crediti). E’ quanto già emerge dal senso profondo della mobilitazione: Gelmini e Tremonti distruggono la scuola, noi non solo la difendiamo ma la costruiamo! Lo si chiami come si vuole, in gioco è un agire cooperativo realmente “pubblico”, discusso partecipato e organizzato in prima persona da chi la formazione la fa veramente: le notti bianche che aprono le scuole al territorio, i cortei autorganizzati che costruiscono un sentire e un consenso diffusi, la produzione e circolazione di informazione autonoma e altro ancora. Il no senza mediazioni ai tagli è l’altra faccia del riprendersi spazi che lo stato chiude o privatizza, attivare in proprio processi di formazione, organizzare autonomamente le condizioni per sottrarli alla mercificazione. Lotta e produzione di relazioni sociali altre: le forme concrete emergeranno, già emergono dalle mobilitazioni. E non sarà certo la farsa parlamentare dell’approvazione di un decreto a fermarle.
[alcuni audio sull’onda] *Sciopero della scuola e dell’università-30 ottobre 2008 -Roma, assediato il ministero dell’istruzione-intervista con Luca della Rete per l’Autoformazione -Bologna, scontri sotto la sede di Confindustria-intervista con Francesco di InfoAut Bologna -Milano, bloccata piazza Affari-intervista con Teo della Statale -Torino, invasa la stazione di porta Nuova-intervista con Chiara di InfoAut Torino -Palermo, 50mila in piazza-intervista con Giorgio dell’Assemblea No Gelmini *Sciopero generale dell’università 14 novembre 2008 La presentazione della giornata -intervista con Simone di InfoAut La diretta da piazza dei Cinquecento-intervista con Simone di InfoAut L’assedio di Montecitorio-intervista con Simone di InfoAut Torino, irruzione dell’Onda al Torino Film Festival!23 novembre 2008 intervista con Gianluca di InfoAut *Pisa: assediato il rettorato, tafferugli con la digos 25 novembre 2008 intervista con Simone del Polo Carmignani Occupato *Bologna, irruzione al dibattito del Cire!27 novembre 2008 intervista con Michele dell’Assemblea No Gelmini *Padova, bloccato un convegno d’ateneo! -27 novembre 2008 intervista con Bruna dell’Assemblea per l’Autoriforma *Torino, l’Onda contro i “produttori di crisi”: cariche della polizia, irruzione al convegno di Torino Incontra 28 novembre 2008 intervista con Simone dell’Assemblea No Gelmini
interviste
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Obama, la squadra e il movement
La squadra dunque è pronta. Obama ha presentato sia il team economico che quello di politica estera. Se la corte fa il sovrano… siamo all’insegna della continuità assai più che del cambiamento e comunque di quel centrismo che del resto ha segnato l’ultima fase della sua campagna presidenziale. Al Tesoro tornano i fautori della rubinomics e della deregulation degli anni clintoniani - Larry Summers in testa, Geithner corresponsabile alla Fed di New York della creazione della bolla finanziaria, oltre alla monetarista Christina Romerpezzi da novanta del mondo economico ben visti a Wall Street. Una scelta che uno come Karl Rove, eminenza grigia delle campagne elettorali di Bush, ha definito “rassicurante”. Ancora più netta, quasi eclatante, la nomina del repubblicano Gates confermato al Pentagono e della Clinton come segretario di stato. Non proprio delle colombe, notoriamente, entrambi convinti sostenitori dell’invasione dell’Iraq. Il New York Times del primo dicembre non a caso ha titolato Continuity we can believe in a proposito dell’agenda di politica estera della prossima amministrazione: continuità con la svolta
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impressa due anni fa dalla Condy Rice che accantonando la strategia neo-cons ha iniziato a puntare sull’uso integrato dello strumento diplomatico, civile e militare per la pacificazione degli stati “falliti” (vedi Iraq). Pur con toni diversi, non è molto distante dalla linea che Obama propugna di combinazione di hard e soft power a partire dall’impegno per “vincere la guerra” in Afghanistan (ma, oramai, anche in Pakistan) passando per il negoziato “duro” con l’Iran. Gates in un articolo che uscirà a gennaio per Foreign Affairs parla più esplicitamente della classica strategia di contro-insorgenza e di operazioni ad ampio spettro da supportare con risorse consistenti (più dei 7-800 miliardi di dollari annui attuali?!) evitando di “essere cosi’ concentrati su futuri conflitti convenzionali e strategici (nucleari, n.) da dimenticarci di garantirci oggi tutti gli strumenti necessari a combattere e vincere quei conflitti in cui gli Stati Uniti sono gia’ coinvolti”. Alla neo-ambasciatrice all’Onu Susan Rice il compito di condire questa strategia “pragmatica” con i classici richiami universalistici-imperiali ai diritti umani e ai rischi di genocidio. Come interpretare una scelta così
continuista da parte di Obama, imprevista ai più per lo meno in questa misura? In prima battuta si può pensare ad una mossa per imbarcare gli avversari interni del partito democratico ed evitare così colpi bassi di fronte alle scelte difficili da assumere, alla volontà di crearsi un’immagine “equilibrata” e bipartisan per una risposta popolare-nazionale alla crisi, alla necessità di un team “forte” in grado di spendere il credito del change all’estero. Sono tutte motivazioni con un riscontro reale. Il partito e ancor più un Congresso pur a maggioranza democratica, adusi al peggior trasformismo e lobbying, saranno tutt’altro che uno strumento docile nelle mani di Obama che non a caso deve continuare a contare sulla propria base organizzata anche solo per fare da ago della bilancia nelle scelte dell’amministrazione (“O il partito democratico distrugge Obama o lui distrugge il partito democratico”, The Nation del sette novembre). Queste scelte se vorranno essere incisive dovranno ulteriormente scompaginare allineamenti politici e blocchi sociali già “scongelati” dalla crisi. All’esterno, poi, Obama ha bisogno di ricostruire quell’autorevolezza persa con Bush jr. essenziale per far passare ad alleati e avversari ricette indigeste e sacrifici. Resta comunque, al momento, il tentativo di non contrapporsi ai poteri forti. Col rischio di venirne fagocitato o comunque paralizzato deludendo e disperdendo così la base degli attivisti che qualcuno ha già ribattezzato il partito di Obama. Con questo, però, restiamo ancora alla superficie delle cose. Oscillando, di conseguenza, fra il credito alla presunta carica radicale del change e la sua liquidazione come mero slogan, fra la delusione per il ”tradimento” e la sicumera del ”lo avevamo detto”. In realtà la partita è appena iniziata, e l’esito è tutt’altro che chiuso. La vittoria di Obama segna un’effettiva discontinuità per il sistema politico statunitense, impensabile senza una percezione nella massa profonda della crisi gravissima in corso e, nelle alte sfere, del pericolo serio e imminente del declino della potenza americana. Dal basso e dall’alto -sì, anche l’establishment aveva, ha bisogno di una exit strategy nel disastro incombente che sfrutti la sicura apertura di credito iniziale da parte del mondo al primo presidente di colore degli States - si è dovuto correre ai ripari, o almeno si tenta di farlo prima che sia troppo tardi. L’urgenza di questo passaggio è ciò che ha reso possibile l’impensabile. Ma il segno diverso se non opposto delle richieste a Obama, o anche solo delle speranze riposte nella sua presidenza, e il modo in cui verranno a confliggere è ciò che ne segnerà il percorso e l’esito niente affatto scontati. Obama dà voce dunque a un’esigenza evidente che del resto ha più volte esplicitamente ribadito nella sua campagna: rilanciare l’America, l’american dream all’interno e la leadership fuori. La coesistenza di moderatismo post-partisan e appello al cambiamento rimanda a questa doppia necessità: lottare contro il declino della nazione e, per far questo, tentare un rilancio che non può riproporsi negli stessi termini, economici sociali e militari, dell’ultimo trentennio ma deve basarsi su
un diverso modello economico, su una diversa base sociale e prospettiva politica. Il paradosso della presidenza “postideologica” sta tutto qui. La porta da varcare è piuttosto stretta e potrebbe anche richiudersi molto velocemente se le ricette saranno scontate e le decisioni lente e poco radicali rispetto all’obiettivo di risollevare le sorti della “middle class” -leggi: il lavoro salariato e autonomo gettato sul mercato senza reti di protezione- dal peso di un debito finanziario che copre oramai tutto lo spettro della vita (sono quaranta milioni gli statunitensi oramai sotto il livello ufficiale di povertà). Finora gli States avevano potuto rinviare l’aggiustamento interno, e dunque il conflitto redistribuivo di classe, solo grazie al finanziamento estero del debito e al signoraggio del dollaro garantiti dalla forza militare. Ora questo insieme di fattori traballa pericolosamente. I paesi creditori, soprattutto quelli asiatici, paiono meno disponibili a sovvenzionare gli States senza ricevere in cambio voce in capitolo nella riorganizzazione di un ordine mondiale che scricchiola. D’altra parte gli insuccessi militari statunitensi sono sotto gli occhi di tutti e se sei una “tigre di carta” sul piano militare, rischi sempre più di svelarti tale anche sul piano finanziario-economico. Le due cose stanno, come è ovvio, strettamente insieme (la vicenda georgiana quasi sicuramente ha contribuito ad alimentare la crisi di sfiducia verso gli Usa e si sa quanto conti la “fiducia” nel determinare la stabilità dei mercati e anche solo il contenimento della loro crisi). Così come, sul versante interno, la potenza militare si dimostra impotenza in assenza del supporto di una società coesa e motivata, disciplinata e disposta al sacrificio. E’ quasi certo che Obama sia consapevole che per tutta questa serie di motivi un ulteriore rinvio del riaggiustamento interno e internazionale è improponibile. L’alternativa, che non si può escludere a priori, sarebbe la non scelta, il lento trascinarsi di una potenza in declino nell’avvitamento caotico dei rapporti internazionali. Il progetto di rilancio di Obama sembra farsi forte, invece, proprio dell’urgenza del momento (più di un milione di posti di lavoro persi negli ultimi due-tre mesi). Puntando, all’interno, a far convergere la spinta dal basso di cui indubitabilmente la sua elezione è espressione verso una rinnovata interlocuzione con lo stato (vedi la mobilitazione della sua base a metà dicembre con l’obiettivo di discutere su come portare il cambiamento a Washington). E giocando, verso l’esterno, la carta del rischio sistemico che travolgerebbe tutti nel caso gli Stati Uniti dovessero crollare, e dunque sulla necessità per tutti di fare sacrifici pro Washington e Wall Street. Su entrambi i fronti il tempo comunque stringe, i margini sono ristretti a causa della profondità della crisi globale (vedi articoli) che potrebbe costringere i paesi più riottosi o quelli più in difficoltà a negarsi al salvataggio degli Usa o anche i disponibili (Cina) a non averne più le capacità. L’indebolimento statunitense, per la prima volta forse dall’ascesa secolare di questa potenza, è effettivo e sempre meno permette di garantire al mondo il “bene globale” dell’ordine, mentre gli attori minori sfuggono
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di mano (Georgia) o cadono nel caos (Pakistan). La navigazione di Obama si prospetta dunque in un mare in tempesta e tra passaggi assai stretti. L’equazione diventa sempre più complessa: risollevare la condizione socio-economica interna, scaricare per quanto possibile la crisi o comunque suddividerne il peso all’esterno, evitare al contempo che i mutamenti innegabili della geopolitica globale rovescino il predominio Usa (come chiarisce sul Newsweek Faared Zakaria, teorico del mondo “post-americano”). Il nodo di fondo è che nel quadro dei global imbalances strutturali l’aggiustamento economico interno ha immediatamente un risvolto internazionale e geopolitico. Si può anche promettere un nuovo New Deal (e Obama, cautamente, lo fa), ma bisogna anche trovare le risorse per finanziarlo. Il ricorso al deficit spending è problematico, perché i bilanci pubblici e privati americani sono già oberati di debiti straordinari e l’irrinunciabile (per il sistema nel suo complesso) piano di salvataggio dell’apparato finanziario comporterà ulteriore debito pubblico. Lungo questa strada il dollaro rischia di perdere il suo appeal ancora più di quanto non lo abbia già perso. Quanti dei “vecchi amici” potranno continuare ad investire in una partita con l’assoluta certezza di continuare a perdere? Torneranno le periferie del mondo ad assoggettarsi totalmente alla rapina di Wall Street o continueranno nel percorso di affrancamento e di creazione di nuovi “centri”, magari regionali, ma, in ogni caso, meno rapaci della finanza a stelle e strisce? Certo, si potesse mettere in conto un bel salasso fiscale ai danni degli strati sociali che hanno accumulato ingenti ricchezze… Questa seconda soluzione non è, in effetti, da scartare. Ma per metterla in atto non è sufficiente una decisione dall’alto. Sarà inevitabile un duro scontro sociale interno. Ecco il punto: il movimento che ha prodotto Obama ne avrà la capacità e la forza? In teoria sì, in pratica le condizioni per lanciare una mobilitazione sociale non sono determinabili a tavolino. È da vedere se il movimento, nato su esigenze molteplici e incanalatosi verso lo strumento elettorale sarà in grado di andare oltre, di strutturarsi e darsi una propria soggettività su un terreno di antagonismo sociale. Così come sarà da vedere se l’apparato politico raccolto intorno ad Obama sarà in grado di cavalcarlo e contenerlo all’interno di un quadro di rilancio essenzialmente nazionalistico.
Qui entra in campo il fattore soggettivo di una composizione sociale che più che essere riconducibile a una caratterizzazione laborista specifica manifesta i tratti multiformi e multietnici dell’ “individuo sociale”: una rete di soggetti diversi ma tutti coinvolti in una rete di produzione e riproduzione sempre più socializzata (e globalizzata). Una composizione che rende non più rieditabili le ricette newdealiste, laboriste e familiste insieme, che un tempo erano servite a contenere e governare, oltreché a indirizzare verso la guerra, il vecchio movimento operaio e sindacale. Il nuovo laboratorio inizia, cautamente, a suggerire concretamente un terreno più avanzato di scontro la cui posta in palio è come e per che cosa riconquistare l’eguaglianza reale tra soggetti differenti ma tutti, pur a diverso titolo, gettati nel vortice del mercato. Questo protagonismo apre la possibilità di uno scenario nuovo, in cui la lotta rivendicativa per la redistribuzione, pur senza cessare di esistere e di giocare un ruolo politico fondamentale, deve lasciare sempre più il terreno all’impegno di ricostruire da sé le proprie reti sociali di riproduzione. L’autonomia di classe può dislocarsi in avanti. Il che non si potrà dare senza affrontare anche, in termini nuovi, la questione del “potere” in un quadro di sgretolamento della capacità di rappresentanza della democrazia e della trasformazione dello stato sempre più in mero apparato di potere e coercizione (ciò che rende sempre più palese la differenza tra “bene pubblico” e “bene comune”). Il concentrarsi violento degli effetti devastanti della crisi negli Usa apre dunque la possibilità dell’emergere di un composito movimento socialepolitico. La partita sarà durissima, ma non riguarda solo gli States. Nel resto del mondo si pongono le stesse esigenze di resistere a tutto campo alle politiche di salvataggio della finanza e a quelle di “rilancio della crescita” che non possono che basarsi sull’aumento dello sfruttamento del lavoro e sull’approfondimento della sussunzione reale che trasforma in profitto ogni aspetto della riproduzione sociale e della natura. La globalizzazione della resistenza, la costituzione e il consolidamento delle reti sociali e politiche internazionali aiuteranno il movimento statunitense a rifiutare le sirene del nazionalismo e a rafforzare una tendenza mondiale a farla finita con il sistema del profitto e della concorrenza?
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[la squadra di obama] Robert Gale (Difesa) Uomo della Cia e di altre agenzie di intelligence fino al 1993. Dal 1991 al 1993 ne è stato direttore. Nel novembre 2006 George W.Bush lo ha nominato segretario alla Difesa, dopo Donald Rumsfeld. E’ un repubblicano ma per la sua affiliazione con il governo Bush, è in verità è considerato come indipendente. A lui, Barack Obama affiderà la missione di “concludere la guerra in Iraq in maniera responsabile”. Eric Holder (Giustizia) Avvocato. Ministro dell’amministrazione Clinton. Afroamericano nato nel Bronx. Ha lavorato come pubblico ministero dal 1976 al 1988. Iscritto al partito democratico, nel 1993 viene nominato da Clinton procuratore generale della città di Washington. Dal 1997 al 2001, sempre Clinton lo nomina numero due del ministero della giustizia, guidato allora da Janet Reno. Dal 2001 ha lavorato nella sfera privata per lo studio Covington & Burling di Washington, rappresentando clienti come la casa farmaceutica Merck e la National Football League. Janet Napolitano (Sicurezza Nazionale). Avvocato, ha lavorato nell’amministrazione di Bill Clinton negli anni 90, ed è stata nominata procuratore generale per lo stato dell’Arizona nel 1993. Dal 2002 è governatore dell’Arizona. E’di religione protestante metodista. Il suo motto è “la nostra sfida è prevenire gli attacchi terroristici e garantire la sicurezza all’interno degli Stati Uniti”, ha detto oggi accettando l’incarico conferitole da Obama. Susan Rice, scelta per il ruolo di ambasciatrice americana alle Nazioni Unite. Ha lavorato con il team di politica estera del candidato democratico alla presidenza Michael Dukakis nel 1988. All’inizio degli anni ‘90 ha lavorato per
la società di consulenza globale Mc Kinsey e ha partecipato all’amministrazione di Bill Clinton in diversi ruoli. E’ figliapolitica di Madeleine Albright. James L. Jones (Consigliere alla Sicurezza Nazionale). Generale dei Marine. Ha combattuto in Vietnam e ha svolto tutta la sua carriera all’interno delle istituzioni militari. Nel giugno del 2007 è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Boeing e dal maggio di quest’anno siede anche in quello del colosso petrolifero Chevron. E’stato comandante della Nato in Europa ed è apprezzato soprattutto per le sue doti politiche che lo portarono a ricoprire un incarico anche nell’amministrazione Clinton, in qualità di assistente militare dell’allora Segretario alla Difesa, William Cohen. Il segretario di Stato del governo di George W.Bush, Condoleezza Rice, gli ha proposto due volte l’incarico di vice segretario di Stato, ma Jones ha rifiutato Timothy Geithner (Segretario del Tesoro) è considerato una specie di ‘Golden Boy’ dell’economia Usa e piace a Wall Street. A poco più di 20 anni, nel 1988, Geithner è entrato al dipartimento al Tesoro e, dal 1998 al 2001, ha ricoperto l’incarico di vice segretario al Tesoro nell’amministrazione Clinton, prima sotto Robert Rubin e poi sotto Summers. Non è un economista, ma un esperto di politica internazionale. È lui a consigliare Rubin e Summers sulla crisi asiatica, avendo seguito in prima persona lo scoppio della bolla speculativa immobiliare e della deflazione in Giappone. Durante questo periodo autorizza misure speculative ai danni delle economie asiatiche. Viene reintegrato nel Fondo monetario internazionale. Nel 2003 è nominato presidente della Federal Reserve
[materiali sulle elezioni usa]
gli interventi principali di infoaut sulla campagna presidenziale in questi mesi: - 1/10, l’appello di Michael Moore contro il salvataggio di Wall Street: http://www.infoaut.org/articolo/la-grande-rapina-di-michael-moore - 10/9, sul salvataggio dei due colossi dei mutui Fannie e Freddie: http://www.infoaut.org/articolo/fannie-e-freddie-un-salvataggio-global - 2/9, sulla convention repubblicana: http://www.infoaut.org/articolo/scontri-alla-convention-repubblicana-diecimila-in-corteo/ - 1/9, articolo di Raffaele Sciortino sulla convention democratica: http://www.infoaut.org/articolo/da-denver-a-washington ripreso in inglese in: http://redpepperobamablog.blogspot.com/2008/10/what-interests-us-about-obama.html - 27/8, sulla nomina di Biden: http://www.infoaut.org/articolo/joseph-biden-chi-era-costui - 6/8, un articolo di Andrea Fumagalli sulla crisi: http://www.infoaut.org/articolo/una-crisi-senza-possibilita-di-regulation - giugno 08, intervista sulla nomination di Obama: http://win.infoaut.org/news.php?id=1695 - marzo 08, intervista con e articolo di Raffaele Sciortino su primarie e politica estera Usa: http://win.infoaut.org/news.php?id=1235 http://win.infoaut.org/news.php?id=1287
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InfoAut si fa Local! Aperti tre nodi locali a Bologna, Torino e Palermo. nodi locali: Torino www.infoaut.org/torino Torino@infoaut.org Bologna www.infoaut.org/bologna bologna@infoaut.org Palermo www.infoaut.org/palermo palermo@infoaut.org
Finalmente Infoaut si moltiplica e apre nuove redazioni locali. Tre nuovi nodi come abbiamo voluto chiamarli. Nodi appunto, per indicare lo specifico legame che viene stretto con i territori di Bologna, Torino e Palermo. Tre città che da oggi avranno una voce in più. Una voce indipendente che non risponde a nessun interesse. Una voce capace di riportare notizie, umori, e visioni delle lotte e dei movimenti. Infoaut è questo filo che da 2 anni ha percorso tutte le lotte e proprio a questo filo i nuovi nodi locali si vogliono unire, per aprire uno sguardo più ampio focalizzato dentro le metropoli. Ma nodi significano anche intoppi, questioni, ed è anche questo che le nuove redazioni vogliono portare. Interruzioni nelle narrazioni che il mainstream fa degli eventi che ogni giorno accadono nelle città. Interruzioni che spezzano la linearità dell’informazione omologata. Momenti di riflessione, intrecci di pensieri per elaborare nuove visioni e per legare a se nuove direzioni filose. Come avevamo annunciato con il lancio estivo della nuova versione 2.0 da un portale nazionale ne nascono (per ora) tre territoriali : Bologna, Palermo, Torino: tre nuove ancore per spingere dall’interno le lotte metropolitane, le trasformazioni dei territori, le resistenze e l’informazione di parte che non solo non troverebbe posto nei media cittadini, ma che vogliono anche essere una voce dal di dentro, dal basso, di quei soggetti e istanze che le lotte le portano avanti in prima persona, oltre e contro la delega. Infoaut è questo e molto altro, è uno spazio sociale nella rete, uno strumento in più per il conflitto, una voce di parte in un mondo schierato.
la voce delle lotte