Ticino7

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numero

L’appuntamento del venerdì

Corriere del Ticino

laRegioneTicino

Tessiner Zeitung

CHF 3.–

con Teleradio dal 31 ottobre al 6 novembre

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Reportage Archivio di Stato

Agorà Relazioni e lavoro Società Arte e occupazione Mundus Spettatori fasulli


Gusto svizzero che incanta.

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numero 44 29 ottobre 2010

NICOLETTA BARAZZONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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DANIELA BRANDINO . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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DUCCIO CANESTRINI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Agorà Relazioni. Quando Cupido entra in ufficio

DI

Società Arte e occupazione. Le nostre città sospese

Impressum

Mundus The rest of the show

Tiratura controllata

Vitae Zlatko Hodzic

Chiusura redazionale

Reportage Bellinzona. Archivio di Stato

DI

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CHIARA PICCALUGA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

72’011 copie (dal 1. ottobre 2010) Venerdì 22 ottobre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

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GIANCARLO FORNASIER; FOTO DI PETER KELLER . .

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Astri / Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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DI

Direttore editoriale Peter Keller

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria CH - 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Negativo su lastra fotografica con ritocchi. Fondo Monotti, Archivio di Stato (Bellinzona) Fotografia di Peter Keller

Il collaudato balletto dei colpevoli In democrazia esprimere il proprio punto di vista è, fortunatamente, un libero esercizio. Anche se la buona creanza e una certa educazione contribuiscono in modo decisivo a rendere un paese generalmente più civile e rispettoso delle opinioni altrui. Esistono poi i limiti dettati dal buon gusto... ma su questo aspetto, più legato a una sensibilità soggettiva che a reali esigenze, nessuno certo intende in questa sede impartire lezione alcuna. L’argomento “ratti e affini” avrà certamente stancato qualche lettore e i contributi del pubblico apparsi sui periodici e sui quotidiani di questo Cantone mostrano troppo spesso una visione parziale dell’argomento “frontalieri”, facendo emergere puntuali risentimenti (evidentemente mai sopiti) che sfondano in alcuni casi nell’intolleranza verso gli italiani. Tanto che i lavoratori assunti regolarmente da imprenditori locali per qualche oscura ragione pare siano i responsabili di buona parte dei mali locali. Ci auguriamo sia noto a tutti che coloro che giungono in Ticino quotidianamente non lo fanno per delinquere ma per lavorare, rendendo fra le altre cose più competitive (e ricche) le nostre aziende. Naturalmente queste persone sono stipendiate e la loro scelta di lavorare in Ticino è certamente dettata anche da evidenti ragioni economiche: che sia questo forse un atto da condannare? Non crediamo: chi di noi non ha ma ricercato un impiego valutando, fra le alte cose, la bontà della retribuzione... Esiste poi una corrente di pensiero sotterranea secondo la quale chi giunge in Ticino alla ricerca di un posto di lavoro non solo “ruba” il pane ai ticinesi e ai loro figli, ma “intasa” anche le nostre amatissime e costosissime autostrade, rendendo invivibili le soleggiate giornate a sud delle Alpi. Se sulla prima ipotesi – quella del furto dei posti di lavoro – vi invitiamo a rileggere quanto scritto da Fabio Pontiggia alcuni giorni or sono (“CdT” del 20 ottobre), sull’esplosione del traffico veicolare e le puntuali colonne che si formano su strade e autostrade, credere che la

colpa sia dei frontalieri è forse il segno di una grave e preoccupante miopia. Se è appurato che la forza lavoro proveniente dall’estero è necessaria e vitale per il Cantone (e per l’economia dell’intera Svizzera), il problema di garantire una mobilità utilizzando i mezzi di trasporto pubblici e privati a chi si reca sul proprio posto di lavoro è prima di tutto una responsabilità della Politica. Strade, autostrade e ferrovie sono delle “infrastrutture”, vocabolo non a caso spesso citato quando il sistema economico di un paese langue; perché solo con il rinnovo e l’ammodernamento delle vie di comunicazione, del trasporto pubblico, dell’accesso all’energia e una diffusione capillare delle “autostrade informatiche” (espressione tanto in voga pochi anni or sono) è possibile rilanciare un territorio e un’intera nazione. E dunque il suo sviluppo e la sua attrattività. Ora, se il nostro sistema stradale mostra i segni di un “affanno” ormai endemico, e se chi è preposto alla gestione e all’adeguamento di queste infrastrutture non è stato in grado di prevedere, pianificare e agire tempestivamente all’aumento del traffico – sul gioco dello “scarica barile” Governo-USTRA rimandiamo al lucido intervento di Giovanni Galli, “CdT” del 21 ottobre) –, qualcuno ci dovrebbe spiegare per quale ragione dovremmo incolpare i lavoratori che giungono d’oltre confine? Sono forse loro i responsabili di un sistema viario cantonale che da almeno 30 anni pare essere sempre in perenne rincorsa rispetto alle reali esigenze del territorio? Che non sia il caso di chiedere alcuni “chiarimenti” direttamente a chi gestisce i nostri contributi e dunque alle autorità e ai Dipartimenti competenti? Scriveva Giovanni Galli alla fine del suo editoriale: “A questo punto non si pretendono soluzioni miracolose. Il minimo che si può pretendere è che la si smetta di comportarsi da burocrati e ci si adoperi per risolvere concretamente i problemi”. Appunto: i problemi non i frontalieri. Buona lettura, Giancarlo Fornasier


G

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Quando Cupido entra in ufficio

Agorà

La relazione sentimentale sul posto di lavoro può apparire, se considerata superficialmente, un argomento leggero, tra il gossip e il faceto. Al contrario, i flirt tra colleghi d’ufficio possono avere serie ripercussioni sul piano umano e professionale. Analizziamo il fenomeno tenendo conto dei diversi approcci che alcune aziende hanno adottato a riguardo li amori che fioriscono fra le scrivanie possono intaccare negativamente la qualità del lavoro o, al contrario, contribuire ad aumentare positivamente la redditività? Chi si concede una banale scappatella o chi, invece, è seriamente coinvolto nella love story può trovarsi imprigionato tra la clandestinità e il desiderio di vivere tranquillamente il suo romanzo d’amore. Bisogna però fare attenzione, perché le manifestazioni d’affetto, per il collega o la collega, possono trasformarsi in una palude infestata dai coccodrilli.

Malgrado il fenomeno sia in crescita, nella politica del personale il problema non sussiste, o se sussiste, viene preso in considerazione principalmente in relazione al comportamento lavorativo e non a quello della relazione amorosa. È interessante notare come alcuni uffici preposti alle risorse umane affrontano – o non affrontano – queste realtà, che sono endogene e inevitabili in un’organizzazione in cui la forza lavoro non è composta da macchine bensì da esseri umani. Uno studio effettuato dalla Società del management delle risorse umane (SHRM)1 su un campione di 617 aziende ha stabilito che il 72% non dispone di direttive formali per affrontare l’argomento, il 14% afferma di avere delle regole non scritte ma conosciute dai collaboratori, mentre il 13% ha delle direttive definite. Anche se Cupido in ufficio è sempre esistito e non è più un tabù, esso continua a creare parecchi grattacapi perché i rapporti di lavoro hanno già tante zone grigie, figuriamoci quando si tratta di una liaison d’amour tra dipendenti. Il regolamento organico contrattuale di un grande ospedale, per esempio, non contempla misure disciplinari nei confronti di chi si frequenta in corsia. Tenere nascosto il legame sentimentale rappresenta allora il miglior modo per conciliare lavoro e vita privata?

cenziamenti ufficiali ma se necessario, i superiori trovano delle soluzioni ufficiose per evitare circostanze fastidiose, allontanando o trasferendo, per esempio, uno dei due spasimanti lontano dal “luogo del delitto”. In effetti, anche se uno dei consigli è quello di tenere il più nascosto possibile l’attrazione affettiva, un recente studio scientifico (con tanto di procedimento metodologico), realizzato a Chicago, nel febbraio del 2010 dal CareerBuilder2 su un campione di 5.231 impiegati, ha evidenziato come il 67% degli intervistati non tengono segreto il loro amore e le loro affinità emotive perché credono nella loro storia, difendendola da minacce esterne; così come il 40% ha dichiarato di avere attualmente incontri galanti sul posto di lavoro. Ma perché ai boss non piacciono queste frequentazioni? I superiori hanno il dovere di dirimere le controversie, creando un clima di lavoro in cui capeggi il diritto all’imparzialità. A questo punto ci chiediamo quanto sia giustificata l’interferenza dei superiori. Al riguardo, una ricerca di Nina Cole3, pubblicata sul Journal of Business and Psychology, ha rilevato che ci sono circostanze in cui i manager dovrebbero intervenire: quando le prestazioni, la creatività e la produttività dei dipendenti sono minacciate, quando l’ambiente sul posto di lavoro è corrotto, e quando vi è un rapporto intimo, a fini di carrierismo, tra un manager e un impiegato/a dello stesso dipartimento. La maggior parte degli intervistati, però, concorda nel dire che i manager non dovrebbero intervenire perché irrompono nella privacy delle persone. Infatti, dagli studi citati risulta che l‘office romance non è da sottovalutare in termini negativi: nella sua ricerca, Nina Cole individua una durata media di 20 mesi, mentre gli altri due studi stabiliscono che il 12% e il 32% dei legami affettivi, nati in ufficio, si ufficializzano con un brindisi tra colleghi e sono coronati dal matrimonio.

Colpevoli d’amare o di essere amati

Capo padrone?

Se è vero che l’amore richiede coraggio, perché vergognarsi dunque di amare o essere amati sul posto di lavoro? Generalmente non ci sono li-

Recentemente le grandi aziende hanno implementato delle misure volte a tutelare i collaboratori non soltanto dal mobbing o dalle molestie

Le aziende non si allarmano


sessuali ma anche quando i responsabili assumono atteggiamenti scorretti e sproporzionati, intervenendo arbitrariamente nei confronti di chi si è preso una cotta per il collega o la collega d’ufficio. E questo malgrado ci sia una buona percentuale (12% e 32%) di unioni durature con tanto di happy end. Gabriela Cotti Musio è la portavoce Credit Suisse, istituto bancario che conta più di 47 mila collaboratori a livello mondiale, di cui circa 21 mila operano in Svizzera. “Mi sembra importante dire che qualora un collaboratore si sente discriminato, esistono diverse possibilità per risolvere la situazione, sia tramite il proprio superiore di linea, sia tramite il servizio Legal & Compliance, sia attraverso la Integrity Hotline, come previsto dal nostro codice di condotta. Inoltre, la segnalazione può essere fatta in modo anonimo e riservato. Vietiamo qualsiasi misura di ritorsione nei confronti di collaboratori che hanno effettuato una segnalazione in buona fede“. Sara Bruhin, responsabile delle Risorse umane dell’UBS Regione Ticino, ci conferma che: “Non ci sono stati licenziamenti né sospensioni a seguito di relazioni sentimentali fra dipendenti. Queste devono venire segnalate e in caso di controversie, i responsabili di linea, insieme con HR, valutano attentamente la possibilità di spostamenti interni o cambiamenti organizzativi affinché i conflitti possano essere risolti positivamente. Esiste una direttiva interna che regola le relazioni tra dipendenti della banca sia di tipo sentimentale sia familiare, tra collaboratori, con clienti e con fornitori di servizi. Le relazioni sentimentali fra collaboratori, dunque non sono vietate; tuttavia, qualora esse conducano a conflitti di interesse – per esempio fra capo e collaboratore all’interno della medesima linea gerarchica – vanno risolte, cercando una soluzione all’interno della banca”.

Qualche consiglio

» di Nicoletta Barazzoni

Sul sito internet www.spicezee.zeenews.com/articles/story62039.htm sono disponibili alcune linee guida su come conciliare l’amore in ufficio. Consigli semplici che, nell’eventualità, vale la pena di tenere bene a mente. Nel caso abbiate alcuni amici sul posto di lavoro con cui volete condividere i dettagli della vostra relazione segreta, evitate comunque di farlo perché potrebbero usare le vostre debolezze, rivelandosi dei confidenti insidiosi. Il miglior modo per tutelare la relazione è infatti quello di costruirvi intorno una conchiglia protettiva. Nulla deve cambiare perché i colleghi pettegoli e invidiosi sono subito pronti a notare i cambiamenti significativi. Proteggetevi dalle loro reazioni di gelosia che potrebbero mettervi in serio pericolo. Evitate poi di inviare e-mail dall’indirizzo di posta elettronica del vostro ufficio. La maggior parte delle aziende ha dei server interni che possono tracciare tutte le e-mail inviate. Limitatevi unicamente a inviare sms sul cellulare del vostro amato/a. Non lasciate dunque che la relazione influisca sul vostro lavoro. Siete arrivati dove siete, non sottraendovi ai vostri compiti o ai vostri obblighi professionali, ma potreste rischiare il vostro futuro all’interno della vostra azienda semplicemente per il fatto che frequentate e amate qualcuno che lavora vicino a voi. Note 1 www.medicinenet.com/script/main/art.asp?articlekey=113312 2 www.careerbuilder.com/share/aboutus/pressreleasesdetail.aspx?id=pr553 &sd=2/9/2010&ed=12/31/2010 3 www.humanresources.about.com/cs/workrelationships/a/workromance.htm

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il Blocco A del Dipartimento ambiente, costruzione e design della SUPSI, è sospesa una città composta di piccole abitazioni... quasi fosse sorta dal nulla: per quale ragione? Scriveva Calvino: “Tre ipotesi si danno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto da evitare ogni contatto; che la amino come era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza”. Le persone che hanno prodotto la ventina di piccole case esposte (frequentatori della CLIC, Cooperativa Laboratorio per l’Impresa Comunitaria di Lugano) hanno condiviso, per un periodo transitorio, la ricerca di un nuovo impiego. Un periodo che rappresenta una fase importante e delicata della propria esistenza: qualcuno sostiene sia “come andare nel deserto, bisogna viaggiar leggeri…”. Ma il viaggio non

La casa come intimo rifugio, la città per non essere soli. L’esempio di come un lavoro comune contribuisca a vedersi meglio, diventando lo spunto per una stimolante esposizione permette di portare con sé la propria abitazione; da qui l’idea di “portarsela dentro”, una sorta di “abitarsi”. Molte delle attività lavorative legate alla nostra economia hanno un senso proprio perché le-

Italo Calvino Le città invisibili Mondadori, 1996 Opera letteraria ricca di riflessioni (dal senso dell’essere “straniero” al concetto di “doppio”), è un romanzo metanarrativo, che porta cioè il lettore a riflettere sui meccanismi stessi della scrittura.

Mostre

Le città invisibili SUPSI, Canobbio Sino al 16 novembre In collaborazione con il DACD della Scuola Universitaria Professionale, la mostra propone anche opere di Colleen Corradi Brannigan, artista che ha operato seguendo la medesima traccia letteraria.

gate a un preciso contesto socio-culturale. Nel lavoro strettamente artigianale questa dinamica sfuma. Perché c’è la persona e il suo lavoro, frutto delle sue abilità e nato dalle sue mani. L’individuo si riconosce in ciò che ha prodotto; gli è subito chiaro se e dove ha agito correttamente, oppure dove ha sbagliato e ha operato in modo approssimativo. Nel progettare e realizzare le proprie abitazioni, i partecipanti si sono confrontati con un universo tangibile e con la propria iniziativa. Ma anche con quei pregiudizi che limitano la capacità personale di concretizzare un’idea, un pensiero. Essi hanno assaporato il gusto dell’intuizione e della fantasia, spesso etichettate quali competenze trascurabili e buone solo “per giocare”. La scuola come contesto espositivo appare quanto mai indovinato. Perché è la dimora del futuro, dove è piantato – come nella città di Bauci – uno dei trampoli che reggono il domani. Tempo che è possibile solo intuire oltre quel deserto fatto di dubbi e nubi...

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ginate da Italo Calvino, per esempio, sono luoghi particolari, personali. E i cittadini che le abitano svolgono mille attività, a volte mostrando attitudini molto simili. Nella mostra visibile presso

Libri

» testo di Daniela Brandino; fotografia di Alessio Longo

Società

Le città invisibili di Italo Calvino, un sensibile Marco Polo racconta al grande re Kublai Khan di luoghi lontani, incredibili e straordinari. Come, per esempio, della città di Bauci, sospesa nel cielo da “sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città”. Ogni città ha la sua storia, fatta di case abitate da persone. Per questo immaginare il proprio “luogo dell’abitare” è un esercizio fondamentale, perché permette di dare forma al luogo che “ci piace”, ci fa “star bene” e che ci riflette. Vivere all’interno di un tessuto urbano (la città) significa vivere in piccoli agglomerati, quartieri, che a volte sono interi paesi, intrecciati li uni agli altri. Ma la città nella quale viviamo non è rappresentata solo da un lungo elenco di nomi; la città può essere anche la nostra piccola agenda telefonica oppure un nostro ideale spazio dell’abitare. Le città imma-

Le nostre città sospese

Ne


Visioni

Sofia Coppola prosegue con Somewhere, film premiato con il Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia, il proprio discorso personale sulla solitudine umana e su personaggi in movimento in mondi estranei dalla quotidianità. E se in Lost in Translation (2003) il protagonista era un maturo attore catapultato in un hotel di una metropoli aliena come Tokio e in Marie Antoniette (2006) lo sguardo si focalizzava sulla regina di Francia e sulla sua gabbia dorata di Versailles, ora la regista gioca in un certo senso in casa e pone al centro del film la vita annoiata e passiva di una star del cinema americano, Johnny Marco (Stephen Dorff). Tra noia, pasticche, sesso fugace e esibizioni private di lap dance le giornate di John-

ny trascorrono lentamente nel famoso hotel delle star, lo Chateau Marmont (dove morì per overdose John Belushi). Completamente estraniato da ogni realtà e sballottato dai suoi impegni pubblici di stella del cinema, Marco si ritrova però, all’improvviso a passare del tempo con la figlia undicenne Cleo (Elle Fanning). Quasi in silenzio riemergono sentimenti, emozioni, paure: flash di una vita reale che pareva aver dimenticato del tutto. Opera spiccatamente di fattura europea per i tempi narrativi – volutamente frammentati, lenti, quasi sospesi, come in tanto cinema francese – e per la scelta dei colori e delle luci – realistici e “piatti”, per nulla hollywoodiani – Somewhere ha un inizio lento, quasi son-

nacchioso e ripetitivo nel proporre episodi di sapore molto simile, senza un vero filo conduttore. Poi però lo scorrere delle immagini riesce a catturare l’attenzione. Quasi impercettibilmente, i personaggi acquistano spessore e così le loro vicende. La frammentarietà iniziale lascia il posto alla consapevolezza di assistere alla composizione dei tanti tasselli di un unico puzzle. E si comincia a “partecipare” alle storia raccontata da Sofia Coppola e a sentire vicini i suoi protagonisti, anche nel loro perdersi e buttarsi via. Una lezione di compassione, intesa nel senso letterale di “provare le stesse emozioni insieme”, quella della regista. Una lezione offerta senza esprimere giudizi netti, ma lasciando che le immagini parlino da

Somewhere di Sofia Coppola Stati Uniti, 2010

» di Roberto Roveda

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sole e che i protagonisti vivano la loro vita, trovando alla fine “da qualche parte”, dentro di loro, una via di uscita dall’apatia, dalla noia e dalla solitudine.

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The rest of the show Il mondo dello spettacolo non ha né confini né limiti. E quando questi improvvisamente si manifestano, e lo show ne risente, ecco pronta la soluzione: come le risate e gli applausi registrati… o i finti spettatori

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alto valore educativo fa sì che fiduciosi genitori perseverino nel mandare i ragazzini a imparare come si fa gioco di squadra nella vita. Contenti loro. Dall’altra il discorso inevitabilmente si amplia. Penso per esempio a un fenomeno per certi aspetti analogo, cioè alle commedie televisive d’importazione americana, contrappuntate da finte risate. L’invenzione risale al 1950, quando il produttore Charley Douglass inserì per la prima volta una traccia audio ilare (laugh track, detta anche risata in scatola) in una sitcom popolare. False risate e falsi spettatori. Se mancano i supporters, si possono simulare, costruire, garantire. Siamo fatti così. Se siamo pochi, ci inventiamo tanti, ogni manifestazione di piazza gonfia il numero dei presenti. Siamo una specie conformista e gregaria. Il numero delle persone coinvolte ci legittima e ci conforta, quale che sia l’impresa. Ecco perché la trovata degli spettatori finti, di per sé innocua, mi sembra emblematica di un mondo dello spettacolo – e del relativo business – che si autoalimenta, e che non ha più il senso della realtà. La messa in scena, la performance spettacolare, l’entertainment, duemila anni fa si chiamavano circenses ed erano considerati il “companatico“ più adatto a sedare occasionali sprazzi di pensiero critico. In questa logica, che pare intramontabile, i giochi e le distrazioni sono funzionali e dunque assistiti. Prosperano i consumi voluttuari ed esistono mutui bancari elargiti per aiutare le persone ad andarsene periodicamente in vacanza. Non sempre ufficialmente, certo, ma lo svago è incentivato, truccato al punto da tributargli un successo fittizio, che non avrebbe se non fosse promosso. Quanta salutare sovversione sta, o starebbe, nelle attività più semplici. Divertirsi con poco. Camminare gratis. Guardare le nuvole. Incuriosirsi. Osservare da spettatori veri.

» di Duccio Canestrini; elaborazione grafica Tecnica T7

Mundus

Li abbiamo visti alle Olimpiadi di Pechino, dove parte del pubblico era ingaggiato dagli organizzatori per riempire le prime file dello stadio, a scanso di brutte figure. Per quel “trucchetto” gli inviati di tutto il mondo sbeffeggiarono la Cina. Ma quello che è accaduto a Trieste è più clamoroso, e i giornali non ci hanno fatto caso. Falsi spettatori, sì, ancora. Ma non nel senso di persone assoldate che vanno a occupare spalti altrimenti deserti. No, manichini. O meglio immagini di uomini e donne stampate su giganteschi teloni, stesi sulle tribune, a simulare la folla. Lo so che è difficile crederlo, ma è successo davvero. Precisamente allo stadio Rocco di Trieste, sulla tribuna Colaussi, il 5 settembre 2010. In campo la Triestina contro il Pescara. Quel telone antropomorfo è un prodotto di “architettura tessile”, una maximembrana ignifuga chiamata Super Mesh. Pare si tratti di un innovativo progetto di marketing. Sempre meno appassionati, infatti, vanno allo stadio ad assistere dal vivo alle partite di calcio, preferendo guardarle da casa, seduti davanti alla tivù. Una diserzione causata anche dal prezzo elevato dei biglietti. Se i presupposti della società dello spettacolo non stanno più in piedi, vuoi perché lo spettacolo è floscio, vuoi perché costa troppo, ecco le protesi di audience, a beneficio di sponsor e telecamere. L’escamotage è insomma quello della tifoseria virtuale; non urla ma c’è, o perlomeno dà l’impressione di esserci. Un pochino tutto questo fa pensare. Da una parte c’è il dilemma di uno sport che resiste a qualsiasi scandalo: mafia, scommesse clandestine, accordi illeciti, prostituzione. Resiste in nome dello spettacolo che proverbialmente must go on, deve continuare, e non si ridimensiona neppure di fronte a un sacrosanto disinteresse. Ma questo, si sa, è il calcio: il suo


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tutto il Ticino e alla centoventiquattresima, le porte si sono aperte. Era una fabbrica di ferri da stiro di Bioggio, in cui ho lavorato nove ore al giorno su una postazione fissa dal ’92 al ’96. Ho fatto anche carriera perché sono diventato controllore della produzione e penso di essere l’unico rifugiato, insieme alla mia famiglia, che non ha mai percepito né l’assistenza sociale, né lo statuto di asilo politico. Dopo cinque anni di lavoro in Svizzera e il pagamento di tutti i contributi non volevano concederci il permesso di soggiorno, poiché rifugiati non riconosciuti, nonostante le persecuzioni Una vita caratterizzata da duri cambia- subite. Così nel 1996, appementi forzati, ma anche testimonianza di na finita la guerra in Bosnia, un processo di integrazione di successo. sono andato a richiedere i passaporti per tornarcene a E oggi un volto noto, grazie in particolare casa; dopo una settimana ci alla conduzione del programma televisi- è arrivato il “Permesso B”. Comunque ciò che ho vissuvo multiculturale “Il Ponte” to lo ritengo indispensabile metri all’ora in strade tortuose perché ho conosciuto tante persone, di tanti e pericolosissime, ma tutto è paesi diversi: ho acquisito i primi rudimenti andato per il meglio. sull’integrazione, ho capito cosa vuol dire Vista la situazione e consideessere straniero in Svizzera. In quel periodo rando la presenza di alcuni mi è nata l’idea di sviluppare un progetto per miei parenti in Svizzera, nel un servizio di integrazione e l’ho presentato 1992, a 40 anni con una moa Teleticino. La proposta ha trovato immeglie e un figlio dodicenne, mi diatamente consenso e a ottobre del 2003 ho sono presentato al centro di iniziato il programma “Il Ponte”, una metaregistrazione dei richiedenti fora che indica il reciproco riconoscimento, d’asilo di Chiasso. In Jugoslauna volontà di dialogo, una finestra aperta via avevo un ottimo livello di al confronto, uno spazio per le voci straniere vita, ero responsabile dell’ine per la conoscenza tra svizzeri e stranieri. formazione della tv locale, Presento la storia di molte persone che, come avevo due auto, un appartanel mio caso, hanno vissuto direttamente mento duplex, la casa al mare l’esperienza della migrazione e dell’intee un nome conosciuto. Poi, in grazione, condizione indispensabile per la un attimo tutto è finito, mi conduzione di una trasmissione di questo sono trovato in un altro paese, tipo e con questo orientamento. che non conoscevo e di cui Oggi “Il Ponte” è prodotta dalla RSI, un non comprendevo nemmeno successo in crescendo quindi, ma per me è la lingua. La determinazione anche la prova che la determinazione, il due la consapevolezza nelle mie ro lavoro e la lealtà sono valori fondamentali potenzialità mi hanno portato nel percorso di ogni uomo. L’integrazione è a rifiutare l’assistenza sociale e un percorso individuale, che dipende dalla a prendere da subito la strada propria cultura, dal proprio passato, dalla della ricerca di lavoro. Con propria storia personale. In Svizzera mi trovo l’aiuto di mio cognato, ho benissimo, la gente è aperta e ospitale, per studiato su un vocabolario questo torno a Mostar solo per trovare mia la lingua italiana e mi sono mamma e per le vacanze, ma la mia terra informato su come si poteva non è più quella di prima, molti parenti e trovare lavoro. Infatti la prima amici sono morti o vivono altrove. Un pafrase che ho imparato è stata ese che, nonostante la recente ripresa, non “Buongiorno, cerco lavoro”. Mi potrà mai più essere, se non nei miei ricordi, sono rivolto alle aziende di quello di un tempo.

Zlatko Hodzic

Vitae

ono nato a Mostar, capoluogo dell’ErzegovinaNeretva in Bosnia, antico crocevia di popoli e civiltà, che ha vissuto la drammatica esperienza della guerra. Mi considero una persona che ha avuto due vite; quella prima della guerra e quella attuale. Mai mi sarei aspettato di chiudere il sipario sul passato e dover ripartire da zero. Ma così è stato: una granata è entrata nel mio appartamento e io, uomo nel pieno della carriera lavorativa, giornalista e scrittore di spicco nel panorama culturale jugoslavo, membro della presidenza collegiale della Federazione dei giornalisti a Belgrado, mi sono ritrovato senza nulla. Fare il giornalista in un paese monopartitico presentava dei lati a volte difficili in special modo se si trattava di dover approfondire le dinamiche sociali. Ma il mio impegno restava un obiettivo sentito che portavo avanti con determinazione e così mi ritrovai inserito nell’ordine del giorno del partito comunista del mio paese. Nonostante tutto, in generale, ai tempi del socialismo in Jugoslavia, c’era un buon standard di vita; era un paese multiculturale dove non c’erano conflitti sulle rispettive appartenenze. Questa ricchezza sociale e culturale è però diventata arma di divisione e annientamento dopo la morte di Tito. Tra i numerosi ricordi di questo periodo di guerra, prima di arrivare in Svizzera, vi sono quattro viaggi in auto, in un certo senso una vera e propria spola, da Mostar alla Croazia per portare in salvo decine di bambini di famiglie di conoscenti. Una volta, nella mia auto ne ho portati undici: le famiglie, mosse dalla disperazione, vedevano nella fuga l’unica via di salvezza per i loro bambini. Per me era una missione di grande responsabilità, la loro vita dipendeva da me. Sono uscito da Mostar passando dalle montagne circostanti, i cecchini sparavano e io correvo fino a 120 chilo-

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Bellinzona Archivio di Stato Storie di luminose proiezioni

Il labirinto di corridoi, scale, ascensori a doppia uscita, piccoli e grandi locali che compongono l’Archivio di Stato di Bellinzona è una perfetta rappresentazione della sua funzione: un organismo che cela al suo interno la complessa vita amministrativa, politica, sociale ed economica del Cantone. Il Ticino: un territorio aperto ma allo stesso tempo periferico, crocevia di genti e commerci, politicamente giovane ma sempre pronto a raccontare e aggiornare il suo vissuto, le sue “storie”. Depositate nei testi cartacei ma anche in importanti e rari documenti fotografici…

testo di Giancarlo Fornasier fotografie di Peter Keller


V

iale Stefano Franscini, Bellinzona. Sopra la Biblioteca cantonale, al pian terreno l’Archivio di Stato. Scrigno mnemonico dal valore inestimabile, esso rappresenta il nostro passato e allo stesso tempo le solide fondamenta necessarie sia a comprendere il nostro presente sia a tracciare la via di un futuro che auspichiamo migliore e più sostenibile: socialmente, economicamente e dal punto di vista ambientale. In un recente contributo il direttore dell’Archivio di Stato, Andrea Ghiringhelli, sosteneva come gli istituti archivistici “non possono essere ridotti a semplici contenitori di brandelli del

passato, a muti e passivi custodi di una parte, più o meno cospicua, del patrimonio culturale di un territorio. Certo, sono anche questo, ma la loro missione è soprattutto un’altra: ordinare, catalogare, studiare e far parlare il passato”1. Il progetto di conservazione e valorizzazione del materiale fotografico presente presso l’Archivio si inserisce in questo contesto. Dal 2007 un gruppo di lavoro ad hoc coordinato dall’archivista Gianmarco Talamona, provvede alla digitalizzazione dei materiali fotografici presenti nei fondi e al successivo inserimento in una banca dati online di pubblico accesso. Già oggi sono


in queste pagine: Felice Pinana, bibliotecario documentarista presso l'Archivio di Stato di Bellinzona e “memoria storica“ dell'istituto. Alle sue spalle parte del materiale fotografico appartenente al Fondo Ernesto e Max Büchi, fotografi attivi a Locarno tra il 1895 e il 1941 in apertura: alcune delle decine di scatole originali contenenti materiale fotografico proveniente dall'archivio della Tipografia Salvioni di Bellinzona

consultabili migliaia di immagini (www.ti.ch/archivio, “Fondi fotografici”). E nel corso di quest’anno l’importante istituto bellinzonese ha ricevuto un contributo da Memoriav (www. memoriav.ch; Associazione per la salvaguardia del patrimonio audiovisivo della Svizzera): lo scopo è il trattamento dei documenti fotografici di Angelo Monotti (1835–1915), pioniere della fotografia nel Ticino, e di suo figlio Valentino (1871–1953). Una complessa operazione condotta in collaborazione con il Laboratorio Cultura Visiva della Scuola Universitaria della Svizzera Italiana (SUPSI).

Il “progetto fotografico” Fra le diverse tipologie di documenti che compongono il patrimonio dell’Archivio di Stato, i materiali fotografici occupano un posto particolare. La fotografia è stata sin dalla sua invenzione (attorno agli anni Trenta dell’Ottocento) una forma di comunicazione secondaria, spesso complementare a quella scritta, da sempre ritenuta più “autorevole” e fonte storica privilegiata. “Il trattamento delle fotografie è parte del lavoro svolto dall’Archivio, e rientra dunque nelle attività di questa istituzione. Non possiamo affermare che esiste una vera «sezione


sopra: Gianmarco Talamona, archivista, dal 2007 coordinatore del Gruppo di lavoro che provvede alla catalogazione dei materiali fotografici sotto: Lorenza Mossi, responsabile del Laboratorio di restauro e legatura dell'Archivio di Stato di Bellinzona

fotografica» a se stante. In fondo, la sensibilità verso i documenti fotografici è relativamente recente e per quanto ci riguarda si è consolidata a partire dalla metà degli anni Novanta con l’arrivo e l’analisi di alcuni importanti fondi” ci spiega Felice Pinana, bibliotecario documentarista, una delle “memorie storiche” dell’attività dell’Archivio 2. “Da qui è nata la necessità della loro archiviazione sistematica”. Il corpus fotografico presente a Bellinzona non rappresenta una raccolta “a sé”, ma ha tre diverse collocazioni. La prima è da ricondurre ai fondi fotografici veri e propri: per esempio, quello dei fratelli Ernesto e Max Büchi (materiale relativo al periodo 1895–1941), dei locarnesi Angelo e Valentino Monotti (1860–1950 circa), di Christian Schiefer (1932–1956; fotografo noto in particolare per gli scatti di Piazzale Loreto a Milano) e della fotoreporter Liliana Holländer (attiva nel periodo 1960–1980). La seconda è parte integrante di fondi documentari cartacei, nei quali le fotografie fanno da complemento ai documenti scritti. La terza comprende invece il materiale appartenente alla Fototeca dell’Archivio, che riunisce documenti fotografici diversi (stampe, album e cartoline), raccolti nel tempo, spesso tramite acquisti o donazioni, e che non sono riconducibili a un “produttore” specifico. La gamma e la tipologia di materiali conservati è molto ampia e legata all’evoluzione tecnica della stessa fotografia: dai pochi dagherrotipi e ambrotipi presenti (da far risalire agli albori dell’arte fotografica), alle lastre su vetro realizzate con le tecniche più diverse, ai positivi e negativi su pellicola, alle stampe su supporti cartacei. Un insieme di materiale in fase di archiviazione, come dicevamo; un modo per “mettere ordine” certo, ma soprattutto un impegno che permette già oggi anche al pubblico di consultare, scoprire e apprezzare attraverso Internet questa enorme ricchezza storica.


Un impegno costante Ci introducono alla scoperta di questo universo di immagini gli stessi Felice Pinana e Gianmarco Talamona: “Ci piace considerare i materiali fotografici come veri e propri documenti storici” ci dice quest’ultimo “quindi suscettibili di essere sottoposti ad analisi e capaci di fornire importanti dati sul nostro passato. Attraverso il processo di digitalizzazione e di catalogazione li rendiamo accessibili al pubblico. Il nostro scopo è proprio questo: elaborare degli strumenti che aiutino i ricercatori e gli studiosi a reperire le fonti. Ma il progetto mira anche a far conoscere il nostro lavoro e a sensibilizzare il cittadino di fronte all’importanza del documento in generale… e di quello fotografico in particolare”. Il progetto è attuato a stretto contatto con l’Istituto svizzero per la conservazione della fotografia di Neuchâtel diretto da Christophe Brandt; un aiuto indispensabile, soprattutto agli inizi, al fine di procedere in modo corretto nel complesso processo di archiviazione. Fra i fondi di particolare interesse, segnaliamo una serie di immagini del luganese Grato Brunel (1840–1920), frutto di una commissione ricevuta dal Dipartimento della Pubblica Educazione dell’epoca: “La raccolta è una serie di scatti che riproducono gli esterni degli edifici scolastici cantonali. Operazione che non sfugge a una certa autocelebrazione…” suggerisce Gianmarco Talamona. Alcuni di questi scatti rappresentano momenti di attività didattiche: una fotografia, in particolare, mostra una serie di allievi in fila indiana all’interno di un’enorme aula. Brunel, assieme ad Antonio Rossi (1824–1898) e Angelo Monotti, è da considerare fra i precursori della fotografia in Ticino. E proprio al Fondo Monotti appartiene l’oggetto di maggior pregio presente all’Archivio: è un dagherrotipo del 1853 che riproduce quasi certamente il professore e pioniere della fotografia francese Alphonse Bernoud (1820–1889), “colui che fece conoscere la fotografia in Italia” aggiunge ancora Talamona. “La storia dello stesso Monotti è affascinante. Formatosi come ebanista, egli partì da Cavigliano nel 1853 alla volta di Livorno, entrando in contatto con i fotografi del luogo per ragioni probabilmente da ricondurre alla costruzione di apparecchi fotografici. Appassionatosi, intraprese egli stesso la professione di fotografo. Il caso vuole che proprio in quegli anni Bernoud operasse anche nella città toscana… da qui, con ogni probabilità, l’origine del ritratto oggi in nostro possesso”. Una rivoluzione: tra storia e difesa identitaria Per noi è certamente difficile comprendere che cosa doveva significare per l’epoca catturare immagini e ritratti reali (e non elaborati dipinti su tela). Una rivoluzione culturale sconvolgente: “Come avvenuto per la nascita del telegrafo e del telefono, il modo di comunicare mutava radicalmente” afferma Gianmarco Talamona; “la produzione di queste fotografie richiedeva tempi di esposizione molto lunghi… Con la creazione di un’immagine si congelava un luogo o una persona «per sempre»…” modificando fortemente anche i concetti di morte e di scomparsa. In questo senso fa riflettere la presenza nel retro dell'autoritratto di Bernoud della data esatta nella quale è stato prodotto. Sul tavolo del laboratorio di restauro, aperto, un classificatore di colore blu: al suo interno una collezione di piccole fotografie in bianco e nero, copie a contatto di una impressionante serie di scatti con soggetti naturalistici e architettonici. “È un lavoro svolto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento da Friedrich Maurer, uno zurighese che ha percorso e ripercorso le valli del Sopraceneri ritraendo innumerevoli edifici rurali anche negli angoli meno noti; un’opera di grande valore proprio per la sua metodicità” precisa Felice Pinana. Il bibliotecario ci mostra un incarto del 1935 proveniente dal Fondo dell’Ufficio cantonale delle insegne. Al suo interno la prova di quanto una fotografia possa raccontare: un’immagine incollata su un modulo ufficiale mostra

sopra: gli originali cassetti con, all'interno, le lastre provenienti dallo storico Ufficio cantonale per le proiezioni luminose. Istituito nel 1920 a Mendrisio, l'Ufficio era l'antesignano dell'attuale Centro didattico cantonale e forniva materiale fotografico a istituzioni pubbliche e private sotto: la responsabile del Laboratorio di restauro dell'Archivio mentre analizza al microscopio lo stato di conservazione di una stampa fotografia d'epoca (Fototeca/2.5)

infatti la facciata dell’edificio che ospitava lo studio locarnese dei Büchi – un palazzo ancora oggi visibile dietro la stazione di Locarno-Muralto – con le sue insegne prevalentemente in lingua tedesca. Ci spiega Talamona: “La campagna per la difesa dell’italianità del Ticino, in atto in quel periodo, era sfociata fra le altre cose anche in una legge che obbligava gli esercizi ad adottare insegne in cui la lingua italiana prevalesse sulle altre. I Büchi furono invitati a mettersi in regola. È un perfetto esempio di come il documento fotografico possa interagire con quello cartaceo e concorrere a svelare alcuni aspetti di un fenomeno…”. I pionieri di un’arte sperimentale “I primi fotografi a ritrarre il Ticino erano ticinesi emigrati all’estero e in seguito ritornati nel Cantone, come Rossi e Monotti” ci racconta Gianmarco Talamona; “la seconda generazione, quella dal 1900 in avanti è invece caratterizzata da fotografi di origine svizzero-tedesca…”. “A parte forse pochi casi, come Roberto Donetta


in questa pagina: il retro (a lato) e il verso (sotto) di un autoritratto di Alphonse Bernoud (1820–1889), pioniere francese della fotografia. Questo dagherrotipo, in buono stato di conservazione, risale al 1853 ed è da considerarsi fra i documenti fotografici più preziosi presenti all'Archivio di Stato di Bellinzona

(1865–1932, ndr.), che operava negli anni dei fratelli Büchi…” aggiunge il collega Pinana. Pochi pionieri ma in rapporto fra loro, contatti personali documentati in alcuni fondi: come quello di Ferdinando Gianella (1837–1917), ingegnere e uomo politico – nonché fotografo dilettante –, il quale era entrato in contatto con Angelo Monotti nel 1891, all’epoca della costruzione della strada delle Centovalli. Da qui le testimonianze di scambi, anche sulle tecniche e i prodotti da utilizzare per la produzione fotografica. “Questo tipo di scambio era molto frequente e il livello di sperimentazione elevato” ci racconta Lorenza Mossi, responsabile del Laboratorio di restauro e legatura dell’Archivio. “Anche per questo, a volte, ci si trova di fronte a problemi di conservazione inediti; è necessario quindi raccogliere il maggior numero di informazioni prima di intervenire sulle tecniche e sui materiali e le loro caratteristiche… C’è sempre qualcosa da imparare”. La signora Mossi ci mostra uno dei pochi ambrotipi di Angelo Monotti: “Queste lastre venivano sempre incorniciate: quella che abbiamo tra le mani è dunque una cornice d’epoca, necessaria in particolare per proteggere l’emulsione, che è delicata, fragile” ci spiega, e aggiunge: “I negativi su lastra invece non hanno cornice e generalmente si puliscono nella parte dove non c’è l’emulsione utilizzata per la creazione dell’immagine. È solo necessario procedere con molta attenzione rispetto ai ritocchi originali effettuati dal fotografo sulla lastra; riconoscerli non è sempre semplice, spesso sono minimi… Ieri come oggi, il ritocco fotografico era molto diffuso per aggiungere o togliere dettagli. I documenti cartacei e fotografici raccontano

parecchio anche delle tecniche utilizzate, spesso improvvisate e artigianali, letteralmente inventate al momento e in funzione di ciò che i fotografi avevano a disposizione...”. Lo stesso Monotti, ritrattista e paesaggista, era uno sperimentatore: è infatti appurato che da bravo artigiano si costruiva alcune parti degli apparecchi fotografici, oggi visibili presso il Museo etnografico di Intragna (www.museocentovalli.ch). Fra i tanti incredibili documenti depositati all’Archivio di Stato, fa capolino quella che è ritenuta la più antica veduta fotografica della città di Lugano, il cui autore è però ignoto: “Questa immagine risale alla seconda metà dell’Ottocento ed è antecedente il 1865: lo si deduce per l’assenza della passeggiata del Lungolago, oltre alla presenza della spiaggia a ridosso dello storico Palazzo Riva e del Parco Ciani” annota Felice Pinana. “Nella veduta non è visibile nemmeno la stazione ferroviaria, costruita tra il 1874 e il 1877. Si intravedono invece l’attuale Piazza Riforma e gli alberghi a ridosso del Ceresio. Poco altro... se non la Torre del Parco del Tassino…” annota Gianmarco Talamona. Cassetti di “storia anonima” Ci inoltriamo negli archivi climatizzati: “Qui è possibile ricostruire la storia dell’archivio fotografico guardando l’evoluzione dei materiali usati per riporre le immagini: dalle vecchie scatole in tela nera, al cartone grigio, alle scatole di colore chiaro, ai cofanetti verdi e blu scuro per i negativi, alle scatolette di cartone duro per le lastre. In parallelo con il lavoro di ricatalogazione e digitalizzazione delle fotografie si procede a sostituire i contenitori che non sono adatti


per una conservazione ottimale a lungo termine” ci spiega il signor Pinana. I fondi possono essere acquistati dal Cantone o donati all’istituzione; ma sempre più spesso il materiale viene depositato da privati, “che si rendono conto di non essere assolutamente in grado di prendersi cura e di conservare questa ricchezza… ma allo stesso tempo vi sono molto legati affettivamente e preferiscono non cederlo” osserva invece Talamona. In questo senso l’Archivio svolge un ruolo importante ed è un punto di riferimento per chi ritiene di possedere materiali e collezioni fotografiche storicamente rilevanti. Sulla nostra sinistra, in un corridoio, dei vecchi armadi a piccoli cassetti nei quale erano conservate in passato le diapositive: “Oggi non è più ammissibile conservare i materiali fotografici in strutture di legno – fa notare la restauratrice Lorenza Mossi –, questo perché è un materiale che emana esalazioni incompatibili con la stessa conservazione dei materiali fotografici. Esalazioni che possono venire dal legno stesso, oppure da colle e vernici con le quali è stato trattato…”. Parte dell’enorme quantità dei documenti fotografici presente all’Archivio di Stato non ha una precisa attribuzione, in particolare i ritratti e le riprese paesaggistiche: “In questo senso coloro che si rivolgono a noi nel corso delle loro ricerche a volte si rivelano delle preziose fonti di informazione, fornendoci dati ai quali difficilmente avremmo potuto avere accesso: date, nomi di persone o di luoghi, avvenimenti locali…” afferma Gianmarco Talamona. “Sapete, a una lastra ottocentesca che mostra un rigagnolo d’acqua difficilmente sarà possibile dare un’indicazione di luogo precisa. Sempre che qualcuno del luogo non riveda nell’immagine «qualcosa» di familiare. È avvenuto anche di recente…” aggiunge il collega Pinana “e in questo senso l’archiviazione e la consultazione online da parte del pubblico di immagini di cui conosciamo poco o nulla può permettere agli utenti

di fornire indicazioni utili al riconoscimento, per esempio, del luogo immortalato o dell’anonima persona a cui è stato fatto il ritratto”. Un’altra lunga serie di scaffalature riempite di cassetti cattura la nostra attenzione. Sono le lastre in vetro provenienti dall’Ufficio cantonale per le proiezioni luminose, istituito nel 1920 a Mendrisio, poi trasferito a Lugano e infine a Locarno. “Era l’antesignano dell’attuale Centro didattico: un ufficio pubblico che forniva materiale fotografico alle scuole, in seguito anche ai privati per ammortizzare i costi rilevanti della produzione di queste diapositive. I soggetti erano i più diversi: geografia, storia, architettura... Migliaia e migliaia di immagini, spesso con il nome dell’autore della fotografia originale; ad oggi abbiamo proceduto alla digitalizzazione di ciò che fa riferimento al nostro Cantone, un migliaio di documenti su un totale di oltre ottomila... Anche in questo caso, i tempi e i costi impongono delle priorità” fa notare Gianmarco Talamona. Come spesso avviene, i limiti di un importante progetto culturale sono il più delle volte di natura economica, piuttosto che legati alle capacità e alla buona volontà di chi opera. Risaliamo uno stretto corridoio. A destra altri scaffali e scatole, dietro di noi i fantasmi di persone e luoghi caduti nell’oblio. Ora abitano tutti qui e siamo certi ci stanno osservando. Sappiamo quanto i luoghi fisici siano in grado di raccontare di ciò che sono stati: come non pensare lo stesso delle persone catturate in ritratti perdutisi nel tempo. E che ora qui riposano, nelle scatole e nei cassetti di queste mura. Note 1 Carlo Agliati (a cura di), Maestri d'arte del lago di Lugano alla corte dei Borboni. Il fondo dei Rabaglio di Gandria, sec. XVIII, Ed. Stato del Canton Ticino, 2010 2 Felice Pinana, I fondi fotografici all'Archivio di Stato di Bellinzona, “Bollettino Storico della Svizzera Italiana”, Serie ottava, Volume CIV, Fascicolo 1, 2001

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Astri gemelli

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Calo di energie provocato, oltre che dai transiti stagionali (del Sole), anche dal transito di Venere. Indulgenza e pigrizia. Sfera matrimoniale caratterizzata dall’aumento delle atmosfere sensuali.

Inizio mese segnato dall’opposizione di Marte. Possibili ripercussioni sui rapporti di coppia consolidati, della serie: “non mi guardare che mordo”. Date una struttura progettuale alla vostra creatività.

Cambiamenti familiari riconducibili al passaggio di Saturno. Scelte definitive. Traslochi. Ristrutturazioni. La solidità dei rapporti familiari con la famiglia d’origine potrà esser messa a dura prova.

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Grazie al trigono con Marte vi scoprirete intraprendenti. Giochi di seduzione durante un viaggio, o con una persona straniera. Gelosie per i nati nella terza decade provocati dalle quadrature con Venere e Nettuno.

Saturno non c'è più. Per trent'anni si è liberato di voi. Attenzione agli effetti del transito di Urano: se avete una relazione di vecchia data, e ci tenete, dovete aprirvi al vostro potere creativo. Altrimenti, rotture.

Momento giusto per fare un’analisi interiore di quanto siete in linea, nella vita di tutti i giorni, con il vostro “Se superiore”. Nuova energia per i nati in settembre. Impegnativi i giorni tra il 4 e il 5.

Momento fantastico per la vita sentimentale. Grazie anche alla fase retrograda di Venere possibili ritorni di fiamma, colpi di fulmine, viaggi in compagnia del partner, vita mondana in continua crescita.

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Saturno spinge a privilegiare i legami di amicizia più antichi. Amori per i nati nella terza decade. Novembre inizia con un'iniezione di “sprint” per i nati nella prima decade, animati da un accentuato dinamismo.

Avete paura di rimanere da soli e questo fatto contribuisce a rendervi ansiosi. Ritorno di una collaborazione professionale. Ambizioni in crescita. Nuovi interessi e occasioni culturali per i nati a fine segno.

Con gli ingressi di Marte e di Saturno vi sarà un rafforzamento della vostra natura contemplativa. Successo in ambito legale. Scelte animate dal profondo. Rinascita di antiche trasgressioni per i nati in gennaio.

Il mistero, il lontano si rende eccitante. Attrazione verso le altre culture. Favoriti i rapporti con le persone straniere. Vita professionale ricca di occasioni inaspettate per i nati nella terza decade. Puntate in alto.

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Orizzontali 1. L’Indro dei “Ritratti” • 9. Il vil metallo • 10. Virna, nota attrice • 11. Nome di donna • 13. Un colpo all’uscio • 14. Il nome di Montesano • 16. Il cartone di Disney • 17. Lisa nel cuore • 18. Il nome di Mantegazza • 19. Fuoriesce dal tronco • 21. Precede Vegas • 23. Nome russo d’uomo • 24. Illustre • 27. Gracida • 28. Stella cinematografica • 31. Incarico, impegno • 33. Agnese a Madrid • 35. Compact Disc • 36. Titubate • 38. Corsa senza pari • 40. Né mia, né tua • 41. La sigla del telegiornale • 42. Sfortuna nera • 43. Gas luminoso • 45. Colto senza limiti • 46. Proprio così! • 47. Abitano Bratislava • 51. Dittongo in reità • 52. Li gode il ricco • 53. Furon fatali a Cesare.

Chicco d’uva • 15. Ardire • 20. Grossa lucertola • 22. Adorare • 25. Una Stefania dello schermo • 26. Rosa nel cuore • 29. La nave di Di Caprio • 30. Un angolo • 32. Ella • 34. Cenno • 37. Dittongo in piuma • 39. Elevato • 44. Risonanze • 46. Lo sport della Gut • 48. Mezzo vaso • 49. Argovia sulle targhe • 50. In mezzo al nido.

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Verticali 1. Una catena degli USA • 2. Fu ucciso da Artemide • 3. Spagnolette salate • 4. Unirsi, coalizzarsi • 5. Nulla • 6. Originali, strambi • 7. Diverbi • 8. Il pronome dell’egoista • 12.

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Con l’ingresso di Saturno inizia un periodo di verifiche. Imparate a scartare tutte le scelte non compatibili con la vostra reale essenza. Vita a due, e rapporti associativi, a stretto collaudo. Erotismo in crescendo.

La soluzione verrà pubblicata sul numero 46

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