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Ticinosette n° 10 11 marzo 2011
Agorà Stalking: la zona grigia Arti Mostre. Milano e il ‘900 Vitae Nathalie Vigini
Impressum
DI
DI DI
ALESSANDRO TABACCHI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
KERI GONZATO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Reportage Judo. La via della cedevolezza
DI
M. JOUBERT; FOTO DI F. LEUENBERGER. . . . . . . . . .
Lessico Impegno (civile)
DI
FRANCESCA RIGOTTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tiratura controllata
Sipario I parenti terribili
DI
DEMIS QUADRI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Chiusura redazionale
Sfide Thoreau e la libertà
Editore
Visioni Il cinema come terapia
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Venerdì 4 marzo Teleradio 7 SA Muzzano
Direttore editoriale Peter Keller
DI
6 8 12 37 42 43 44 45 46 47
VALENTINA GERIG . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GIANCARLO FORNASIER. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . DI
NICOLETTA BARAZZONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tendenze Cipria e bellezza. Nuvole di seduzione
DI
MARISA GORZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Astri / Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Redattore responsabile Fabio Martini
Coredattore
Giancarlo Fornasier
Photo editor Reza Khatir
Streghe e principi
Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55
Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch
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In copertina
Fotografia di Reza Khatir
Sono tempi duri per i “principi” (da non confondere con i “valori”, che possono essere sia positivi sia negativi e offerti a uso e consumo di chi ne trarrà poi vantaggio). I “principi”, come etimologicamente suggerisce il termine, stanno invece alla base e rappresentano le fondamenta del vivere civile e democratico. Sono d’altra parte i tasselli fondamentali, i sintagmi delle Costituzioni democratiche, destinati a informare la produzione legislativa, le norme dello Stato. Ma rappresentano anche dei confini, superati i quali le società deflagrano lasciando spazio agli interessi personali, alla giustizia privata, all’illegalità e infine all’orrore. Ci sono volute tre grandi guerre nel Novecento – la terza, da non dimenticare, è stato il conflitto balcanico negli anni Novanta – perché gli Stati europei raggiungessero un grado sufficiente di coesione intorno ai “principi” e ai diritti a essi correlati. Tant’è che il 7 dicembre del 2000 l’Unione Europea emanava ufficialmente una Carta dei Diritti Fondamentali (www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf). A essa vogliamo rifarci, consapevoli del fatto che la Confederazione Elvetica non fa parte della UE ma ne condivide sostanzialmente la storia e la cultura e, anche se non nei fatti, virtualmente ne è parte. Questa Carta è suddivisa in sette capitoli principali intitolati Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia e infine Disposizioni generali. Andrebbe letta con attenzione in tutti i suoi punti perché rappresenta il momento finale di un percorso umano, sociale e filosofico che si è protratto per millenni. Noi crediamo a quanto in quelle pagine è scritto perché ne condividiamo il senso e
le finalità: la creazione e il rafforzamento di società libere, liberali e laiche in cui tutti, indipendentemente dalla loro collocazione politica, religiosa o etnica possano godere dei medesimi diritti. Ma qui sorge un problema. Sin tanto che quelle parole restano limitate alle pagine di quel documento “va tutto bene”, ma quando si comincia a interpretare quanto sta avvenendo intorno a noi alla luce di quei “principi” allora si diviene immediatamente vittime di un curioso quanto sommario giudizio. Sostenere quei “principi” – non altri, sia chiaro – significa infatti da qualche tempo essere qualificati come “sinistrorsi”. Ed ecco allora che questa sorta di neomaccartismo ci rivela che in fondo Obama è un socialista, Dick Marty un pericoloso rivoluzionario, Gianfranco Fini un bolscevico. Tre figure politiche assai diverse direte, ma certo oggi accomunate sostanzialmente da una profonda convinzione nella sostanza di quei “principi”. Sorge dunque spontanea una domanda: se quei “principi” sono il frutto di un processo e di un confronto condiviso (le firme in calce a quel documento parlano chiaro), quali sono gli altri “principi”? Quelli evidentemente non scritti, sempre che tali possano essere definiti, e sulla base dei quali si considera il tale e il talaltro come “sovversivo”? O forse, troppi “principi” fanno male al bon vivre, alla “pappetta” di una politica in cui il politically correct diviene l’alibi dietro il quale nascondere l’annichilimento e l’inconsistenza di un vero confronto e dibattito fra forze politiche...? Cordialmente, la Redazione
Stalking: la zona grigia
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Agorà
Se ne parla molto in Italia, dove esiste una legge mirata che ha appena compiuto due anni. Lo “stalking” è però un fenomeno diffuso anche nel nostro Paese. Qual è la situazione da un punto di vista legale e come possono tutelarsi le vittime di molestie assillanti e preoccupanti da parte di ex partner, corteggiatori respinti o ancora colleghi di lavoro?
T
elefonate continue, sms ossessivi, minacce, appostamenti, regali indesiderati, pedinamenti. Stalk in inglese significa “inseguire”. Come un cacciatore che si apposta lunghe ore per irretire la sua preda, lo stalker ossessiona e perseguita la vittima prescelta causandole una significativa perdita di libertà, un cambiamento obbligato delle proprie abitudini di vita, uno stato di ansia e paura perenne per la propria incolumità e per quella dei propri cari. È un crimine odioso, lo stalking, e purtroppo diffuso. Secondo un’indagine condotta in Germania e nei Paesi anglosassoni qualche anno fa, l’80% delle vittime sono donne. In tre casi su quattro la vittima conosce il suo persecutore e in circa la metà dei casi l’autore delle molestie è un ex partner che non sa accettare la fine della relazione o uno spasimante respinto. Ma non solo: lo stalking può manifestarsi nella vita professionale, una sorta di mobbing persistente che invade anche la sfera privata della vittima. C’è anche una svizzera celebre fra le vittime di stalking. Michelle Hunziker, presentatrice e showgirl che ha avuto a che fare più volte con le pesanti attenzioni di ammiratori indesiderati. Dal 2007 la conduttrice è passata all’azione e ha fondato con l’avvocato e deputato del Parlamento italiano Giulia Bongiorno Doppia Difesa. Nata dall’incontro casuale tra due donne dalla storia personale molto diversa, l’associazione attiva anche in Italia offre assistenza psicologica e legale a coloro che vivono situazioni di molestie, abusi e maltrattamenti, e spesso non hanno il coraggio di intraprendere un percorso di denuncia. In molti paesi lo stalking è un reato. Il primo ordinamento sanzionante un tipo di condotta minacciosa-ossessiva risale al
1992, nello Stato della California. In Italia è recente – ovvero del febbraio 2009 – la decisione importante di una legge anti stalking introdotta nel Codice penale con l’articolo 612-bis. L’atto persecutorio è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Qual è invece la situazione nella Confederazione?
Svizzera: la legge che non c’è... Per destreggiarci tra codici e articoli, abbiamo interpellato Micaela Vaerini Jensen, avvocato e docente all’Università di Ginevra, chiedendo a lei che cosa indica la legge nel nostro Paese. “In Svizzera non esiste una legge specifica in materia di stalking” risponde la nostra interlocutrice. “In caso di insidie, la vittima può tuttavia agire tanto sul piano penale che civile. La minaccia, la coazione, la diffamazione, l’abuso di impianti di telecomunicazione, la violazione di domicilio, il danneggiamento, le lesioni personali e la violenza carnale sono infatti comportamenti rilevanti ai sensi del diritto penale. Dal punto di vista civile, invece, la vittima può ricorrere all’articolo 28b del Codice svizzero”. Avvocato Vaerini Jensen, quali misure posso essere richieste al giudice civile dalle vittime di stalking? “Si può richiedere il divieto per lo stalker di avvicinarsi o accedere a un perimetro determinato attorno all’abitazione della vittima, di trattenersi in determinati luoghi, in particolare vie, piazze o quartieri; di mettersi in contatto con la vittima, in particolare per telefono, per scritto o per via elettronica, o importunarla in altro modo. Se la vittima e lo stalker vivono nella stessa abitazione, il giudice può inoltre fare allontanare quest’ultimo per una durata determinata. Va precisato inoltre che, se lo stalking è agito nei confronti del coniuge,
Secondo lei, il diritto vigente offre delle soluzioni soddisfacenti? “Purtroppo no. Dal punto di vista penale, il più delle volte il comportamento dello stalker non supera la soglia dell’illegalità, sebbene provochi nella vittima reazioni psichiche e fisiche gravi. Per molte infrazioni la procedura penale può essere avviata solo su querela della vittima, la quale deve agire tempestivamente da quando ha la certezza di conoscere l’identità dell’autore del reato. La procedura civile è complessa, relativamente lunga e necessita l’intervento di un avvocato. Per le vittime è spesso difficile addurre la prova di un comportamento contrario alla legge. Mi ricordo di una donna in carriera pedinata senza sosta da un suo impiegato. Quando si ritrovò faccia a faccia con il suo molestatore in un ascensore di un hotel a migliaia di chilometri da casa sua, decise di ricorrere alla legge. Il giudice civile non le credette poiché non aveva nessuna prova”. Che cosa può fare concretamente la vittima per cautelarsi dal punto di vista giuridico?
“Deve informare immediatamente la polizia e presentare querela. Se la persona è vittima di violenze fisiche, deve inoltre farsi subito visitare da un medico. Deve interrompere ogni contatto con lo stalker e, per disporre di prove, informarlo chiaramente della sua volontà in presenza di testimoni o mediante lettera raccomandata. Deve informare la famiglia e i conoscenti sulle molestie subite e interpellare un consultorio per le vittime di violenze. Inoltre: conservare le lettere, i messaggi scritti, le e-mail, gli sms e le registrazioni sulla segreteria telefonica, chiedere all’operatore di telefonia di allestire un elenco delle chiamate ricevute. Deve infine annotare ogni evento con data, ora, luogo ed eventuale presenza di testimoni. La consulenza di un avvocato può inoltre rivelarsi particolarmente utile per capire se è il momento di agire sul piano civile”.
Consultori e associazioni in Ticino I numeri e le statistiche a disposizione rivelano che il fenomeno dello stalking è ancora poco studiato in Svizzera. Una lacuna che sembra estendersi anche a livello di strutture mirate sul territorio. Una prima ricerca su Google per verificare la disponibilità, in Ticino di sportelli
Agorà
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» di Valentina Gerig; fotografia di Reza Khatir
è possibile ricorrere anche alle disposizioni relative al diritto della famiglia”.
o associazioni anti stalking non dà alcun risultato preciso. Solo un’impressione o una realtà? L’avvocato Marilena Fontaine, responsabile dell’Ufficio legislazione e pari opportunità, interpellata a questo proposto, conferma: “Non c’è un servizio apposito. Chi è vittima di stalking può far capo alla magistratura, eventualmente alla polizia, o ai consultori che si occupano di casi di violenza e molestie. Nel Sopraceneri, a Tenero, c’è la Casa Armònia, mentre a Lugano segnalerei soprattutto l’Associazione Consultorio delle Donne e il Consultorio Giuridico Donna e Lavoro”. Sull’opportunità, o meno, di una legge anti stalking l’avvocato Fontaine prosegue: “Sarebbe auspicabile, sì, per rendere la cosa più visibile, più chiara, perché a volte in queste situazioni non si sa cosa fare. Deve però avvenire a livello nazionale perché si tratta di inserire il reato di stalking nel Codice penale”. Sonny (per motivi di riservatezza non può rivelare il suo nome), operatrice del Consultorio delle Donne, spiega qual è il contributo dell’Associazione: “A noi capitano soprattutto episodi di stalking legati all’ambito familiare. Purtroppo la conquista tecnologica ha aperto nuovi spazi di invasione della privacy. Oltre al telefono fisso, c’è il cellulare, o Internet, che lo stalker consulta costantemente per incrociare i dati e risalire agli spostamenti della sua vittima. Il nostro appoggio è legato soprattutto all’esperienza: il primo passo è sempre l’ascolto, poi collaboriamo in rete, quindi convogliamo chi viene da noi verso le persone che possono essere utili in questo percorso”. Il Consultorio si avvale anche di una struttura, la Casa delle donne. Quali sono i compiti delle due organizzazioni? “Il Consultorio è diretto a uomini e donne che necessitano di informazioni legate all’ambito familiare (divorzio, separazione). La Casa delle donne è invece un luogo protetto dove le donne e i bambini che si allontanano da casa possono alloggiare temporaneamente. A livello di statistica, il problema stalking è trasversale, comune a tutte le nazionalità e le religioni”. Sull’utilità di una struttura dedicata alla lotta contro lo stalking nel Cantone, Sonny dice: “Secondo me l’urgenza in sé è soddisfatta: ci sono i nostri sportelli 24 ore al giorno, la polizia che interviene per gli allontanamenti. Al momento siamo invece ancora scoperti su tutto quello che riguarda la persona violenta. Sarebbe opportuno lavorare a livello cantonale sulla creazione di qualcosa a cui possono rivolgersi gli stalker che accettano di confrontarsi con la loro violenza e necessitano di un aiuto specialistico. Un altro capitolo, inoltre, su cui vorremmo lavorare di più è il sostegno ai bambini che vivono queste situazioni di minaccia”.
Milano e il ’900 Nella capitale lombarda è stato inaugurato il Museo del Novecento. E, bisogna dirlo, si tratta di un bel museo. Dopo anni di lavori il Palazzo dell’Arengario – una massiccia struttura razionalista che ricorda le arcate delle “Piazze d’Italia” di Giorgio de Chirico – ha da qualche mese finalmente aperto i battenti...
Una grande collezione, con oltre 400 opere visibili, permette
Arti
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al visitatore di farsi un quadro pressoché completo dell’arte italiana del Novecento, anche se – a onor di cronaca – alcune rilevanti assenze già sono state segnalate (da Alberto Martini a Ubaldo Oppi, da Alberto Savinio a Ernesto Treccani). Dopo la salita di una rampa a spirale che ricorda forse un Guggenheim in miniatura (peccato solo per i colori vagamenti “ospedalieri”), ad accogliere i visitatori in splendido isolamento troviamo il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Scelta centrata, sia dal punto di vista cronologico (il dipinto è del 1900-’01), sia da quello emozionale, in quanto questa commovente fiumana di umili lavoratori pronti a costruirsi il futuro pare davvero un compendio della storia del Ventesimo secolo, dei suoi successi e dei suoi fallimenti. Entrati nel museo vero e proprio, colpisce una stanza non particolarmente grande a lato del percorso principale in cui sono gloriosamente ammassati vari Picasso, Braque, Kandinskij, Mondrian, tutti di piccole-medie dimensioni: i quadri esposti fanno subito capire che il percorso sarà foriero di soddisfazioni. E così è… Da Boccioni all’Arte povera Splendide opere di Boccioni sono poste in gran pompa nel corridoio principale della struttura, assieme alla sua scultura Forme uniche nella continuità dello spazio (1913) una delle vere icone della modernità e del Futurismo. Poi il percorso si snoda in modo articolato su due piani alternando stanze monografiche (fra cui una dedicata a Morandi e una a De Chirico, curiosamente poste ai lati delle scale) e grandi spazi comuni. Possiamo quindi assistere alla messinscena completa del dramma dell’arte italiana del Novecento, dalla freddezza di ispirazione masacciana – l’unica sezione in cui spiccano opere di dubbio valore, seppure bilanciate da alcuni inquietanti Casorati – fino alla grande stagione dell’informale (molto ben rappresentato, con splendidi Dorazio, Burri, Vedova, Tancredi, Uncini). Una vera chicca è la sala dedicata a Fausto Melotti, con le sue meravigliose sculturine astratte poste su un piano rialzato, quasi a ricreare l’idea di un asettico studio, la sistemazione migliore per tale tipo di lavori. Non posso non citare la sezione dedicata all’arte povera, degna del Museo d’arte contemporanea del
Castello di Rivoli. Questa è la parte più divertente di tutte: è stato uno vero spasso ascoltare i commenti degli spettatori, disorientati davanti alla zebra con numeri al neon di Mario Merz, agli alambicchi chimici di Zorio, alla poetica macchina per il freddo di Calzolari! Un’osservazione: ormai sono oltre quarant’anni che l’arte povera imperversa nei musei del mondo eppure sembra non essere entrata nel cuore del pubblico, forse per l’approccio troppo elitario e concettuale (per non dire concettoso) che la anima. Ben diverso è il discorso relativo all’arte cinetica e optical. Interessanti alcuni ambienti ricostruiti, con camminamenti che sottopongono il visitatore a bombardamenti ottici vari, per i quali il Museo chiede di firmare una liberatoria. Le opere esposte, testimonianza di una temperie culturale molto dinamica e della voglia dei nostri artisti di stare al passo con le più aggiornate tendenze a cavallo degli anni Sessanta, appaiono oggi inesorabilmente datate, una sorta di curioso modernariato artistico. Tuttavia sanno ancora stupire. “Fontana” di buone promesse Il vero pezzo forte del Museo è però la spettacolare area sommitale dedicata a Lucio Fontana, illuminata da una sua struttura al neon di grandissime dimensioni, ben visibile anche dalla piazza del Duomo, capace di creare l’atmosfera adatta all’apprezzamento delle opere del grande maestro italo-argentino. Come in un cammino iniziatico, per accedere allo scrigno in cui sono custoditi vari “concetti spaziali” bisogna salire, tramite due scale spoglie e nere, in una sorta di sottotetto postmoderno di grandi dimensioni, molto suggestivo. Indubbiamente alla fine del percorso Boccioni, Morandi e Fontana saranno gli artisti che più vi saranno rimasti dentro, e forse non a caso, essendo i rispettivi campioni delle tre tendenze principali del Novecento, la rivoluzione, il ritorno all’ordine e la sfida alla materia. Un “gran bel museo”, come dicevamo, dove è possibile trovare una fetta consistente del recente passato artistico italiano, e sulla quale tentare di costruire il futuro. Sarà una delle mete da visitare in questo 2011, secondo il “New York Times”: vera boccata d’ossigeno per una Milano che fatica a ritrovare una sua identità culturale e a uscire da un diffuso grigiore.
» di Alessandro Tabacchi; fotografia di Roberto Roveda
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» testimonianza raccolta da Keri Gonzato; fotografia di Igor Ponti
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vita ma la capacità di saperla affrontare e vivere. Mi hanno dato la forza e la voglia di iniziare con il mio progetto di OnTheRoad, che tuttora porto avanti e sviluppo ogni giorno. Il viaggio si è quindi trasformato in un’esperienza di vita totale. Lavoro, spostamenti, non capire più dove è casa mia, questa oggi è la mia realtà. Viaggio per commuovermi davanti a un paesaggio, per dare e ricevere un sorriso da uno sconosciuto, viaggio per mettermi alla prova e trarre una lezione da qualsiasi cosa mi succeda, nel bene e nel male. Certo non è sempre facile, a volte mi sento davvero sola, ma mi aiuta “Ogni uomo va alla ricerca della propria il legame forte con un piccolo felicità: c’è chi la cerca nella stabilità di gruppo di amici, che stanno una casa, chi nelle soddisfazioni di un in Ticino, e con la famiglia. Il loro affetto e la capacità di lavoro, chi nella fede; c’è chi cerca la feli- credere in me mi danno e cità dentro se stesso, e chi vive per gli mi hanno dato la spinta per fare di questa passione la mia altri. E poi c’è chi viaggia” professione. il viaggio in Australia, doDa sempre mi piace poter aiutare i viaggiave ho compiuto 19 anni, ho tori, guidarli verso luoghi differenti. Le mie conosciuto molti viaggiatori esperienze lavorative in campo turistico mi con questa stessa filosofia e hanno aiutata a capire cosa veramente desil’incontro con una coppia di deravo. Alla fine ho deciso di creare un’agenquarantenni “nomadi” mi zia per promuovere viaggi nei luoghi che ha aperto gli occhi: ho capito conosco e che ho visitato a fondo. Sulla base che avrei potuto vivere della della mia esperienza riesco in questo modo mia passione, vivere viaga organizzare situazioni uniche e originali, giando. Iniziando l’università personalizzando ogni itinerario. e conoscendo così il turismo È anche un’occasione per privilegiare l’inin tutti suoi aspetti, positivi contro fra le culture e la condivisione, nel e anche negativi, sapevo che rispetto del contesto sociale e naturale della sarei andata contro corrente e comunità di destinazione. Vorrei far appasche il mio interesse era rivolto sionare la gente facendo capire che il viaggio a un turismo responsabile può trasformarsi in un’esperienza unica e con l’obiettivo di evitare ogni incomparabile, in un modo di crescere e forma di impatto negativo tornare a casa non soltanto con le fotograsul territorio e sulla cultura fie. Rendersi conto che ci sono aspetti che locale. non si riescono a raccontare agli amici una Poi è arrivato il Brasile! Partita volta rientrati. In Ticino inoltre, insieme pensando di tornare dopo sei ad alcune amiche, stiamo anche creando mesi, tra l’andata e il ritorno, un’associazione di viaggiatori responsabili sono ormai passati quattro per promuovere l’incontro e lo scambio di anni. Il Brasile mi ha incanidee. Credo che un approccio di questo tipo tata, mi sono sentita da subito sia fondamentale per lo sviluppo di una cula casa potendo essere sempre tura di pace e, insieme ai miei partner locali me stessa anche in situazioin diversi paesi del mondo, proponiamo una ni dove forse, a Lugano, mi serie di idee di viaggio che permettono ai prenderebbero per “pazza”. turisti e ai locali di incontrarsi e interagire Il Brasile e il suo caloroso poinsieme per un progetto comune. polo mi hanno dato tanto. Mi Viaggiare per me è il piacere di una vita, un hanno trasmesso la loro enerdesiderio d’adolescente divenuto mestiere, gia e la loro felicità. Mi hanno un modo di essere. Sempre la stessa eppure fatto vedere le difficoltà della sempre diversa.
Nathalie Vigini
Vitae
l mio cammino è relativamente breve ma intenso. Ventotto anni, vissuti pienamente. Sin da piccola ho iniziato senza saperlo a trovarmi in movimento… Nata a Ginevra venivo spesso in Ticino a trovare i nonni e cosi all’età di cinque anni ho preso il mio primo volo accompagnata solo da mio fratello, che allora aveva sette anni. Ricordo l’eccitazione per quel viaggio, con al collo la targhetta di identificazione e un grande sorriso stampato in faccia. Già allora l’idea di lasciare i miei genitori per andare verso qualcosa di sconosciuto non mi faceva paura, anzi mi entusiasmava. Mio padre si spostava molto per lavoro e noi spesso lo raggiungevamo per le vacanze. Mi viene in mente un soggiorno in Canada on the road. Con una macchina girammo tutto l’ovest del paese: rimasi colpita dalla bellezza di scoprire paesaggi nuovi senza avere un itinerario prestabilito. Credo che quelle innumerevoli vacanze abbiano acceso in me una scintilla e così, arrivata ai 18 anni, sono partita e non mi sono più fermata. Scozia, Canada, anno sabbatico in Australia e in Spagna, Stati Uniti. Queste prime esperienze non erano delle semplici vacanze ma dei soggiorni di minimo due mesi per avere il tempo di penetrare nella cultura locale. L’idea di seguire un itinerario in fretta e furia per poi tornare a casa ed elencare i nomi di tutte le località visitate non fa per me. Sono una fan del “viaggiare lento” e sì, devo anche dire che ho la fortuna di avere tempo, cosa che ormai tutti dicono di non avere, senza rendersi conto che ognuno ha la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita. Ciascun viaggio a modo suo mi ha cambiata, mi ha permesso di crescere e di aprirmi a nuovi mondi. Ogni mia partenza è un sentirmi bambina e lasciare che il viaggio mi porti per mano. Durante
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“Il judo è la via (道) più efficace per utilizzare la forza fisica e mentale. Allenarsi nella disciplina del judo significa raggiungere la perfetta conoscenza dello spirito attraverso l’addestramento attacco-difesa e l’assiduo sforzo per ottenere un miglioramento
La via della cedevolezza testo di Maurice Joubert fotografie di Flavia Leuenberger
fisico-spirituale. Il perfezionamento dell’io così ottenuto dovrà essere indirizzato al servizio sociale, che costituisce l’obiettivo ultimo del judo. Jū (柔) è un bellissimo concetto riguardante la logica, la virtù e lo splendore; è la realtà di ciò che è sincero, buono e bello. L’espressione del judo è attraverso il waza, che si acquisisce con l’allenamento tecnico basato sullo studio scientifico” (Jigorō Kanō, 1860–1938, fondatore del judo)
Le fotografie presenti in queste pagine sono state realizzate durante i Campionati Nazionali di Judo svoltisi nel novembre del 2010 a Chiasso
Flavia Leuenberger Classe 1985, ha frequentato il centro scolastico per le industrie artistiche (CSIA) ottenendo nel 2004 il diploma di grafica. Dopo alcuni anni di esperienza anche in ambito fotografico svolge ora entrambe le attività come indipendente
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el corso dell’adolescenza ho vissuto un episodio legato allo judo che è rimasto impresso nei miei ricordi. Avevo allora un amico e compagno di classe che fin da bambino era stato avviato dai genitori alla pratica di questa disciplina. Non più alto di me ma assai più robusto, Fabrice, questo era il suo nome, era dotato di una particolare leggerezza nei movimenti che tutti ammiravamo. Inoltre – vivendo in una cittadina di provincia immersa nella campagna – aveva sviluppato un’eccezionale abilità a salire sugli alberi e grazie a questa capacità iniziò, con il mio modesto e non sempre convinto sostegno, a costruirvi casette di legno che divennero per noi dei rifugi da cui osservare dall’alto il mondo e la natura circostante. Era inoltre riuscito, pur non essendo particolarmente loquace o intraprendente, ad attirare le attenzioni della ragazza più ammirata della scuola – una graziosa biondina di nome Christine –, conquista che aveva accresciuto il suo placido carisma su amici e compagni. Tutto il nostro tempo libero lo trascorrevamo dunque all’aria aperta, inseguendoci in bicicletta, giocando a pallone o a baseball e, come dicevo, appesi ai rami di qualche albero. Consolle, computers, tecnologie… erano parole che proprio non conoscevamo. C’erano invece le bande: i Musi gialli, la banda di Pascal, quella di Mattei e quella delle Case Rosse. Con l’arrivo della primavera spuntavano le cerbottane, gli archi costruiti con l’aiuto di qualche papà, le finte mazze di plastica colorata residuo del Carnevale e le fionde, tenute nascoste per timore che i genitori le requisissero. Fra alleanze, strategie e tradimenti si compivano ogni anno innumerevoli battaglie a volte solo simboliche, quasi delle parate per intimorire il nemico, in altri casi più cruente. Gli esiti erano sempre gli stessi: ginocchia e gomiti sbucciati, qualche occhio nero e negli scontri più accesi il Pronto Soccorso per chiudere una ferita con qualche punto. La più temuta fra le bande era quella delle Case Rosse per il semplice motivo che era composta dai ragazzi più grandi. Memorabile fu l’agguato che ci tesero mentre, riuniti in cerchio e privi delle nostre “armi”, stavamo studiando le tattiche per arginare il loro strapotere. Furono
loro a colpire per primi e duramente, distruggendo e razziando tutto il nostro “arsenale” che avevamo nascosto nel folto di una siepe. Divenuti preadolescenti abbandonammo “la guerra” e molte amicizie nacquero fra ragazzi (e ragazze) che appartenevano a bande storicamente nemiche. Ma qualcuno, pur quasi adulto, non era riuscito a sopire, per innato bullismo o a causa di frustrazioni troppo a lungo represse, l’avversione verso i nemici di un tempo. Accadde dunque che un giorno io e Fabrice, con le nostre inseparabili biciclette, procedessimo a piedi lungo un sentiero che costeggiava il muro di un borgo. Da una breccia sbucò all’improvviso una sorta di gigante il cui nome conoscevamo bene (era stato un esponente di punta delle Case Rosse ed era considerato uno dei migliori giocatori di football della zona) e che non tardò a manifestare le sue intenzioni. Spaventato, feci un passo indietro ma Fabrice, che era ormai un judoka esperto, mi trattenne stringendomi con forza il braccio. Poi appoggiò a terra la bicicletta e con espressione impassibile e una calma che non conoscevo si avvicinò al malintenzionato, consigliandogli di andarsene. Il bullo, che fino a quel momento si era limitato a insulti e minacce quasi a motivarci allo scontro, gli si avventò contro come un toro inferocito ma nell’arco di un secondo, dopo una piroetta in aria, si ritrovò a terra, immobilizzato dalla mossa di Fabrice che subito lo liberò allontanandosi. Quello, non contento, ritentò agitando i pugni ma finì per la seconda volta con la faccia nella polvere e il corpo bloccato. Fabrice stavolta attese a mollare la presa. “Possiamo continuare fino a domani se vuoi...” gli suggerì con voce ferma. Accettata la sconfitta l’assalitore se ne andò borbottando, umiliato. Io, che davvero nulla avrei potuto fare, ribollivo dalla rabbia mentre Fabrice, sollevando la bicicletta da terra si limitò a un solo commento: “Un cretino”. Nessuno si era fatto male. La forza bruta si era accartocciata su se stessa, come respinta da un alito di vento. Da allora ho sempre ammirato chi sceglie di praticare in modo serio questa disciplina il cui senso profondo è racchiuso nelle parole di Jigorō Kanō che di essa fu il principale ideatore. Grazie Jigorō e ancora grazie Fabrice.
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Impegno (civile) Un termine molto comune e che utilizziamo quotidianamente. Anche se, a partire dal suo nucleo etimologico, ci svela implicazioni e aspetti del tutto insospettati, dove lo sfuggente si fa solido e stabile
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termini: il pagus, villaggio in quanto insieme di persone che hanno stabilito di vivere assieme; la pagina e la sua sorellina, la pagella, sulle quali sono fissate le parole. La compagine e la propagine, un complesso di parti strettamente collegate la prima, la sua diramazione la seconda; l’aggettivo compatto, designante ciò che è unito saldamente nelle sue parti; la pectina, ovvero la sostanza che condensa marmellate e creme di bellezza, nonché le parole scientifiche che hanno per prefisso picno- (=denso, compatto): picnometro, picnosi, picnostilo ecc.; il petto, che è compatto perché tenuto insieme dalle costole, la pecora, animale domestico che sta in branchi uniti, e il verbo pagare, portare alla pax, perché il pagamento acquieta il creditore, ecc. (senza dimenticare il pacco, dalla solita radice pac, pak, unire, e infatti il pacco è un gruppo di più cose avvolte insieme). Guardiamo anche a un termine analogo a impegno in altre lingue: engagement. Forse avete già capito dove voglio arrivare: lì dentro ci sta la gage che equivale al pegno: ciò che si dà in mano a qualcuno come garanzia, un pegno vivo o un pegno morto, un gage vif e un gage mort o mortgage in inglese. Insomma, e per tirare un po’ le fila, un universo compatto esce dall’immagine del pegno e derivati; un complesso denso, stabile, legato, tenuto insieme. Ci troviamo in un contesto, quello dell’impegno e dell’impegno civile, solido, stabile, coagulato, congelato, dove le parole liquide e sfuggenti diventano solide trasformandosi in patti, impegni di pace, promesse stabili, legami solidi. Ha senso – ecco la questione – proiettare questo contesto compatto nel nostro mondo decretato liquido da una certa tradizione sociologica? Ha senso oggi l’impegno quando i caratteri della nostra vita sono fluidità, mobilità, adattamento, trasformazione, mutamento, flessibilità, precarietà (precario è ciò che si ottiene con la preghiera, ex prece). Quando la pagina non è più un foglio di papiro, di pergamena o di carta vergata a mano o a macchina con un segno a inchiostro difficile da grattare o cancellare, bensì un insieme di pixel sullo schermo, modificabili e trasformabili con estrema facilità? Attenzione, la mia non è una posizione moralista, un peàna di rimpianto del buon vecchio solido mondo di una volta. È giusto una sorta di constatazione sulla quale vi invito a meditare.
» di Francesca Rigotti; illustrazione di Mimmo Mendicino
Lessico
L’impegno è, secondo i dizionari, l’obbligo che si contrae nei confronti di una o più persone, in base al quale si assicura di tener fede alla parola data, di compiere qualche cosa, di fornire una prestazione. Analogo alla promessa, in senso attenuato indica un vincolo, un legame. Impegno civile, nello specifico, è l’atteggiamento dell’uomo di cultura, dell’artista o anche del semplice cittadino che prende pubblicamente posizione in merito ai problemi politici, sociali o di costume del suo tempo. Ci sono nella storia momenti in cui il tema dell’impegno civile è più forte, nei quali la presa di posizione del cittadino diventa centrale, ma non è su questi che vorrei soffermarmi. Mi interessa piuttosto l’idea di impegno, il suo senso profondo, insieme con una questione che riguarda l’adattamento del concetto alla nostra società. Impegno viene dal latino pignus, pignoris, che affonda le sue radici nell’antichissimo istituto giuridico del pignus, che consisteva nel trasferimento del possesso di una cosa, mobile o immobile, a garanzia di un’obbligazione, al creditore, restandone la proprietà al debitore. Sotto il profilo etimologico il termine pegnus risulta legato alle radicali del verbo latino pango e di quello greco pēgnymi, vale a dire a voci verbali foriere di significati quali quelli di fermare, consolidare, assicurare, confermare, ma anche rendere solido, gelare, coagulare. Allontaniamo subito da noi due false etimologie, per quanto suggestive: quella che fa derivare, pignus, pegno, da pugno, perché le cose che si danno in pegno vengono trasmesse con la mano; e quella che lo fa derivare da pingere, dove il pegno sarebbe un segno dipinto sull’oggetto del pegno. Non è quello della mano e del pennello il brodo primordiale, il nucleo semantico originario, bensì quello dei significati di pēgnymi e pango, dai quali credo si possa inferire la seguente immagine mentale: che nello stabilire con qualcuno una costituzione di garanzia – un pegno dunque –, qualcosa che era fluido e instabile viene fissato e consolidato in qualcosa di stabile e confermato. Parole fluttuanti si consolidano, si congelano come l’acqua, si coagulano come il sangue, dando luogo a una parola fissa e stabile, una parola d’onore, un pactum solido e affidabile che lega e unisce. La convenzione solida stabilita sarà dunque una pace (pax, pacis). Allo stesso analogo contesto semantico di pegno, patto e pace appartengono altri
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Sipario
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Jean Cocteau I parenti terribili Einaudi, 1981
» di Demis Quadri
Nella preziosa “Collezione di teatro” di Einaudi, fra le moltissime altre opere di valore si trova anche I parenti terribili dello scrittore e regista francese Jean Cocteau. Questo testo, messo in scena per la prima volta al Théâtre des Ambassadeurs di Parigi nel 1938, è stato riproposto in queste settimane in Ticino dalla compagnia locarnese CambusaTeatro (www. cambusateatro.com). Si tratta di una commedia che – come già La macchina infernale (1934), una libera rielaborazione dell’Edipo re – mette in scena una famiglia i cui componenti hanno rapporti reciproci piuttosto spinosi: un padre e un figlio che condividono inconsapevolmente la stessa amante, due sorelle sentimentalmente legate al medesimo uomo, una madre morbosamente attaccata al proprio figlio... Nel 1947 Samuel Beckett inizia la propria carriera di autore con una commedia, Eleutheria, che in qualche modo vuole demolire la tradizione del dramma borghese e del naturalismo facendo addirittura crollare il salotto della scena nella fossa dell’orchestra. Meno estremo, Cocteau con I parenti terribili riprende le modalità tipiche dell’intrigo amoroso da dramma borghese, ma le intorbidisce in un ambiente familiare dove nessun personaggio sembra essere libero da una certa sordidezza e dove le relazioni interpersonali hanno sempre qualcosa di malato. La commedia si trasforma così in una tragedia che è anche parodia delle trame del teatro borghese. Alla luce di tali premesse, le vicende di Yvonne, Léo, Madeleine, Michel e Georges possono prestarsi con straordinaria naturalezza a una messa in scena d’ascendenza brechtiana. Il regista e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht è un altro straordinario innovatore della tradizione teatrale: con la sua idea di straniamento propugna spettacoli in grado di consapevolizzare il pubblico del fatto che le circostanze date non per forza sono inevitabili. La società descritta dal dramma borghese, con le sue meschinità e le bassezze nascoste da una spessa cortina di falso decoro e di reale ipocrisia, non rappresenta il migliore dei mondi possibili. E in questa linea brechtiana sembra muoversi anche la produzione di CambusaTeatro, che con la sua versione de I parenti terribili immerge il pubblico in un brillante amalgama di musica, video e soprattutto di ottima recitazione grazie alle interpretazioni di Laura Rullo, Cristina Zamboni, Elisa Conte, Diego Willy Corna e Massimo Villucci.
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Thoreau e la libertà A partire dal 1851, in una serie di conferenze pubbliche, il pensatore americano spiegava la sua relazione tra “salvezza spirituale” e “vagabondare per boschi”
In mesi segnati da esplosive rivoluzioni popolari a difesa della
Sfide
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libertà e dei diritti civili, ricordiamo in questo spazio un aneddoto vecchio di oltre 160 anni. Le coste nel nostro caso non sono quelle del Mediterraneo; siamo nell’America di metà Ottocento, una Federazione di Stati in continua (e sanguinosa) espansione e in guerra con il Messico. Il conflitto, che durerà dal 1846 al 1848, fu voluto dagli americani sia per sancire in modo definitivo l’annessione della Repubblica indipendente del Texas sia per “strappare” a un paese sull’orlo della bancarotta lo Stato della California (allora territorio messicano). Gli scopi ultimi erano di natura economica, e volti dunque a migliorare il commercio con il continente asiatico. L’espansione da parte della nascente potenza americana vedeva al suo interno ben pochi oppositori. Fra questi Henry David Thoreau (1817–1862), un eccentrico idealista originario di Concord, piccolo borgo del Massachusetts noto per essere stato il campo di battaglia tra inglesi e coloni in uno dei primi scontri della Rivoluzione americana (1775–1783). Come scrive Massimo Jevolella1, Thoreau vide nel conflitto col Messico “nient’altro che una atto di aggressione ingiustificato” e per protesta si rifiutò da quel momento di pagare le tasse. Naturalmente “il governo lo fece arrestare e rinchiudere in prigione, ma lui accettò la pena con orgoglio e soddisfazione”. Un amico recatosi a trovarlo per sincerarsi delle sue condizioni e al quale “fu consentito di avvicinarsi alle sbarre della cella (...), gli chiese: «Dio mio, David, che cosa ci fai tu lì dentro?». E lui rispose: «Dimmi tu, piuttosto, caro Waldo: che cosa ci fai là fuori?»”. Thoreau e Ralph Waldo Emerson Chi in realtà sarebbe diventato questo solitario personaggio del Massachusetts si capirà più tardi, quando nel 1854 apparve Walden ovvero Vita nei boschi2. Lo scritto narra l’esperienza di volontario isolamento durato circa due anni (1845–’46) durante il quale l’autore visse a Walden Pond, una zona boschiva vicina a casa. Lì costruì una casetta in legno e per mesi si spinse alla scoperta “della natura incontaminata”, confidando a una sorta di diario riflessioni ordinate per grandi temi sulla “vita selvaggia” e i suoi odori, rumori, ritmi. Una serie di appunti che tendono però a sconfinare, inevitabilmente, verso una critica della società americana dell’epoca: dalla politica all’economia, al senso e al profondo significato del termine “democrazia”.
Ma lo scrittore di Concord non sarebbe giunto a tanta notorietà – e a una sorta di immortalità di pensiero, tanto che la sua opera viene ancora oggi definita come “attuale”3 – se non avesse avuto dei saldi riferimenti. Entrano dunque in scena il filosofo e saggista Ralph Waldo Emerson (1803–1882; l’amico che gli rende visita in prigione) e il Trascendentalismo americano. Che cosa fosse all’epoca il movimento trascendentalista lo spiega il suo stesso fondatore: “Ciò che chiamano trascendentalismo non è che l’idealismo (...) È ben noto al mio pubblico che l’idealismo odierno ha tratto il nome di «Trascendentale» dall’uso del termine fattone da Emanuele Kant (...) il quale replicava alla filosofia scettica di Locke, secondo la quale non c’era nulla nell’intelletto che non fosse prima nell’esperienza dei sensi, dimostrando che c’era una classe assai importante di idee o di forme imperative che non derivano in nessun modo dall’esperienza, ma attraverso le quali l’esperienza veniva acquisita; che queste erano intuizioni dello spirito; ed egli le chiamò forme trascendentali”4. Dalla “Natura” alla disobbedienza civile Forse più una fede che un vero pensiero filosofico, il Trascendentalismo trovò nel saggio Natura pubblicato da Emerson nel 1836 (Donzelli, 2010) il suo testo sacro. Una lettura che si diffonderà anche in Europa, tanto da diventare fra le preferite del giovane Friedrich Nietzsche. Dichiaratamente votato al presente e alla primazia dell’autosufficienza, il pensiero di Emerson vede la vita come un’estasi costituita da tanti miracoli momentanei, nei quali la natura è un “corrispettivo sensibile dello spirito”. Così come per altri poeti e scrittori americani (da Whitman a Melville), Thoreau fu profondamente colpito dal pensiero emersoniano, tanto da voler provare con mano, come un novello san Tommaso, l’esperienza formativa “del selvaggio” e dell’isolamento (Walden). A queste associerà in seguito l’arte del “vagabondare” (Walking e The Main Woods) e il valore della Disobbedienza civile (1849). Un saggio quest’ultimo di denuncia verso la guerra contro il Messico, che lo porterà da isolato attivista-rivoluzionario a precursore della “non-violenza”. Note 1 H. D. Thoreau, Camminare (Walking or the Wild), Mondadori, 2009. 2 Walden or Life in the Woods; nella traduzione di P. Sanavio, Rizzoli, 1988. 3 Si veda “Introduzione” di Wu Ming 2 in Walden, Donzelli, 2005. 4 Da The Transcendentalist, lettura di un essay tenutasi a Boston nel 1842.
» di Giancarlo Fornasier
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Il cinema come terapia
» di Nicoletta Barazzoni
La pellicola In un mondo migliore della regista danese Susanne Si susseguono e si prolungano, a tutto campo, paesaggi Bier, classe 1960, ha colpito non solo al Festival del Film di maestosi colti in natura che attenuano la crudeltà umana. Roma ma, soprattutto, il cuore di quegli spettatori che ne È come se la Bier volesse dare allo spettatore il tempo di rihanno colto le finezze e la complessità dei flettere, in modo che si sedimentino in lui contenuti (è di pochi giorni fa la notizia una miriade di sensazioni. Il finale non è della vittoria dell’Oscar come migliore film da strappalacrime, e nemmeno si compone straniero del 2011). Le storie si intrecciano, di quella visione sdolcinata da buonismo con abilità narrativa e filmica, su due assi filmico. Non ci illude perché non presenta geografici lontani e diversi tra loro ma cauna condizione sociale spettacolare ma paci di macchiarsi delle stesse atrocità. La nemmeno ingentilita da false speranze. regista fa emergere l’istinto sanguinario La poetica della Bier è suggerita da storie vedell’uomo, la più brutale delle coazioni, e re, ricostruite in una scansione narrativa in la ferocia con cui i miliziani di un paese cui la natura diventa l’unica entità capace africano (le scene sono state girate in Kedi riportarci al desiderio di riappropriarci nia) terrorizzano le donne incinta di un di un mondo migliore. Le inquadrature si accampamento di profughi, che vengono allargano su tramonti africani, su distese sventrate. ventose e su stormi di uccelli che vibrano, Immagine dopo immagine, Susanne Bier attraversando il cielo. Lo stupore delle sceIn un mondo migliore descrive utilizzando un ritmo lento e silenne persiste anche quando filma la grigia facdi Susanne Bier zioso, dal respiro profondo alla trasformaciata di un silos abbandonato, che sembra Danimarca, 2010 zione dell’intimo umano, l’ambientazione simboleggiare il fallimento del progresso. La democratica e civilizzata della Danimarca. Al centro della bellezza con cui costruisce le vicende dei suoi protagonisti, storia due ragazzini e le loro famiglie. Dalla scuola al bulli- con attori danesi che si distinguono per la loro bravura, è smo, dalla separazione dei genitori alla difficoltà di convivere mediata dal modo con cui ci rassicura, riprendendo spazi senza la vendetta che genera altra vendetta, in una spirale immensi. La Bier ha saputo imprimere, nella nostra anima, senza fine, iscritta nelle leggi della guerra. la delicatezza di un mondo possibile.
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Le origini della cipria, perenne alleata della seduzione e uno dei cosmetici più antichi, sono avvolte nella leggenda. Si narra infatti che il suo nome derivi da Cipro, l’isola mediterranea dove Venere, appena nata, venne trascinata dalle spumeggianti onde marine. È quindi una polvere la cui magia si associa ai concetti di amore e di bellezza di cui la dea era fautrice…
Nuvole di seduzione Tendenze p. 46 | di Marisa Gorza
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el corso dei secoli “la polvere per il trucco” ha riscontrato successi altalenanti dovuti ai continui mutamenti dei canoni estetici legati alla maggiore o minore importanza che via, via assumeva il candore della pelle. Già nel tardo Egitto, per esempio, le donne aristocratiche ambivano a un’epidermide perlacea per potersi distinguere dalle ancelle, la cui carnagione, non protetta dal sole, era di un colore abbronzato. Pare comunque che i natali della cipria siano orientali, come i bastoncini all’inchiostro per allungare gli occhi e parecchie fragranze. In Cina e in Giappone sono stati ritrovati vasetti, risalenti al II secolo d.C., contenenti polvere di riso e carbonato di piombo. Mentre in Grecia le donne, esteticamente emancipate, s’imbellettavano con l’argilla bianca e la lucente terra di Selinunte. Ma è nella Roma imperiale che l’arte dello sbiancamento raggiunse il suo apice. Il volto
veniva cosparso con lomentum (farina di fava) e gesso cretese. Nel Medioevo, cipria e profumazione caddero nell’oblio, ma furono riscoperte nel corso del Rinascimento, anche per l’apporto presso la raffinata corte francese della fiorentina Caterina de’ Medici. Nel Settecento, giusto prima della Révolution, il vezzo di incipriarsi viso e parrucca coinvolgeva dame, cicisbei, gaudenti, senza distinzione né di sesso né di età. L’amata polvere venne ribattezzata con il termine poudre e nella seconda metà dell’Ottocento la base della “Poudre de Riz” si arricchiva di nitrati di bismuto e ossido di zinco. Si ottenne così una maggior aderenza e omogeneità e decine di sfumature intonate agli incarnati di bionde o brune, alle varie occasione del giorno e della sera.
Preziosi “poudier” da collezione Azurea L.T. Piver
Poudre Dermophile Sterilisée T. LeClerc
Tanto evanescente ed eterea è la cipria quanto è perpetua a la sua boìte diventata la tela di eccellenti esercizi artistici, oltre che oggetto da collezionare. Il Museo delle Ciprie, situato presso l’Olfattorio di Torino, regalando una variegata emozione grafica propone una rassegna di 200 contenitori storici, cioè di affascinanti poudier studiati per racchiudere la sensuale polvere da make up. Più di un secolo di creatività sottilmente allusiva in cui si susseguono vignette, colori e decori, bianchi e neri in grafie stilizzate, suggestioni di nomi e di brand esclusivi. Preziosità che suggeriscono pure l’evoluzione dei grandi movimenti artistici a cominciare dalla boìte della Poudre Dermophile Sterilisée T. LeClerc del 1881 in alluminio sbalzato in un puro Modernismo, stile enfatizzato poi dalla ferrea Tour Eiffel. Per inciso, l’attuale confezione della cipria T. LeClerc (che continua con nuove cromie a illuminare il viso di celebrities e top models) ha conservato lo stesso inconfondibile, essenziale design. Spiccano per raffina-
La Poudre c’est moi Guerlain
tezza gli scrigni Art Nouveau del profumiere parigino L.T. Piver, cioè “Azurea” e “Floramy” (1900), una raffigurante un sole raggiante e dorato e l’altra decorata a ramages, foglie e orchidee. Ancora tocchi d’oro e richiami sia all’Oriente che all’iconografia classica sulle scatole dal lusso iperbolico di Guerlain e una scritta emblematica “La Poudre c’est moi” (1920). Il Futurismo non poteva mancare espresso con una movimentata sequenza di rombi in colori arditi sul cofanetto “Feut Follet” (1925) di Roger&Gallet. E che dire del dolce viso stilizzato, sognante e orientaleggiante che compare sul poudrier “Matité” (1930)? Che sono ben rappresentati i gusti e i vagheggi dell’epoca! Il volto di Greta Garbo, enigmatico e pieno di sfuggente mistero, si affaccia invece sull’esemplare “Come tu mi vuoi” (1934) di Casa Bertelli. E sarà per assomigliare almeno un po’ alla divina, o giusto per partecipare a questa festa di fascino e leggerezza, che mi regalo una scatoletta di Poudre T. LeClerc di un’accattivante nuance dorata... e vi assicuro che funziona!
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Astri gemelli
cancro
Il transito di Marte tende ad accelerare i vostri rapporti sociali che potranno allargarsi a nuove cerchie di persone. Cercate di restare a casa tra il 15 e il 16. Possibili malanni di stagione.
Colpi di fulmine favoriti da Venere. Possibili nuove collaborazioni professionali. Evitate inutili polemiche cercando di essere più costruttivi. La buona stagione vi risvegli dalla pigrizia invernale.
Novità e cambiamenti professionali per i nati nella terza decade. Critiche le giornate comprese tra il 16 e il 17 marzo. Cercate spazi anche al di fuori della famiglia evitando di chiudervi troppo.
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vergine
bilancia
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Evitate di infilarvi in polemiche con colleghi di lavoro: potrebbe esserci qualcosa di nascosto e poco piacevole. Nella vita di coppia siate meno soffocanti nei confronti del partner… c’è chi si stanca.
La primavera è alle porte: liberatevi delle tossine accumulate in inverno praticando sport e migliorando l’alimentazione. Fase difficile per i nati nella seconda decade. Bene tra il 14 e il 15.
Sarebbe auspicabile una maggior decisione nelle scelte: evitate di fare prima un passo avanti e poi due indietro. Puntate dritti al risultato. Possibili incontri romantici o la nascita di una relazione seria.
Ego fuori controllo. Momenti di tensione in famiglia tra il 16 e il 17. Ritornate in voi stessi e cercate di riavviare collaborazioni interrotte per ragioni futili. Tentazioni sessuali in ambito lavorativo.
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Grazie ai transiti di Giove, Urano, Venere e Mercurio, si conferma un periodo molto positivo. Approfittate dei giorni compresi tra il 19 e il 20 per fare un viaggio in compagnia del partner.
Primavera ricca di sfide e di impegni professionali per i nati nella seconda decade. Siate più sereni in compagnia dei vostri collaboratori tra il 15 e il 16. Avete tralasciato il sesso… riprendetevi.
Novità per gli Acquari della terza decade grazie ai passaggi di Venere e Nettuno. Molto romanticismo. Svolte emotive per i nati nella prima decade e cambiamenti rapidi per tutti gli altri.
Momento un po’ frenetico della vostra vita. Spirito da “crocerossina” nei confronti del partner. Un inconveniente meccanico alla vostra preziosa vettura vi darà da pensare. Bene il lavoro.
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Orizzontali 1. Rintracciabile • 10. Schiavo spartano • 11. Emirato arabo • 12. La patria di Neruda • 13. Circonda la macchia • 14. Strumenti di terracotta • 16. I confini di Tegna • 17. Diradate • 19. Il pronome dell’egoista • 20. Il più lungo fiume francese • 22. Segnale d’arresto • 24. Svezia e Francia • 25. Congiunzione inglese • 26. Pari in schiva • 27. Lo sono certi... passi • 29. In mezzo al rogo • 30. Osso della gamba • 31. Il Nichel del chimico • 32. Chiude la preghiera • 33. Consonanti in socio • 34. Dimorante, residente • 36. Uncini da pesca • 38. Navigatore olandese • 39. Mangime per cavalli • 41. Nuovo Testamento • 42. Encefali • 44. Concepire (tr) • 46. Re francese • 47. Assicurazione Invalidità • 48. Il Sodio del chimico • 49. Il noto Ramazzotti.
Il figlio di Anchise • 13. Non sa leggere né scrivere • 15. Pari in linfa • 18. Copricapo papale • 21. Contigui, vicini • 23. Solerti nel lavoro • 24. Un’arma da taglio • 28. Resuscitare • 30. Tabulatore in breve • 33. In coppia con Ollio • 34. Il Telamonio, eroe greco • 35. Le iniziali di Manfredi • 37. La terza nota • 40. Il James di “Gioventù bruciata” • 43. Cuor di balordo • 45. Preposizione semplice.
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Verticali 1. Noto dramma di Osborne • 2. Crea un vortice nell’acqua • 3. Contrasto, antitesi • 4. Celestiale • 5. Il dio egizio del sole • 6. Una varietà di fungo • 7. Profondo, intimo • 8. È magica in una fiaba • 9.
» a cura di Elisabetta
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Con Giove e Urano si apre una nuova primavera per i nati nella prima e seconda decade. Cautela in ambito professionale per i nati nella terza decade. Novità in famiglia nelle giornate del 14 e del 15.
La soluzione verrà pubblicata sul numero 12
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«È difficile esprimere a parole il mio amore per le montagne, preferisco i fatti: latte e formaggio.» Il formaggio di montagna dei Grigioni prodotto da Peter Meisser di Splügen è solo uno dei tanti prodotti genuini selezionati e provenienti dalle montagne svizzere. Per ogni prodotto acquistato, parte dell’importo viene devoluto al Padrinato Coop per le regioni di montagna che contribuisce alla conservazione del nostro paesaggio montano e al miglioramento delle condizioni di vita dei contadini di montagna. Così avete la certezza che quello che avete comprato oggi sia effettivamente un prodotto di montagna con un futuro.
Per le nostre montagne. Per i nostri contadini.