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IL LUOGO E LA VITA

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Ticinosette n° 15 15 aprile 2011

Agorà Beni culturali. Territorio: “due punti e da capo” Levante La casa mediorientale. La scelta di Fathy Vitae Federica Giovannini

Impressum

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ALESSIO LONGO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Società Eco-compatibilità. La casa che respira

Chiusura redazionale

Domus Minimal House

72.011 copie

Venerdì 8 aprile

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Direttore editoriale Peter Keller

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MARCO ALLONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

GIANCARLO FORNASIER: FOTO DI SIMONE MENGANI. . . . . . . . . .

Tiratura controllata

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FABIO MARTINI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

FRANCESCA RIGOTTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Letture Lungo il filo del colore

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MARISA GORZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tendenze Lampade. Luce in abito da sera

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GIANCARLO FORNASIER . . . . . . . . . . . .

NICOLETTA BARAZZONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reportage D’ombra e di luce Kronos Terra-albero-uomo

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GIORGIA RECLARI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri / Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

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In copertina

Illustrazione di Mimmo Mendicino

Libero pensiero in libere opinioni A seguito degli editoriali apparsi su Ticinosette n. 6 e n. 13/2011, il presidente cantonale dell’UDC, Pierre Rusconi, ha fatto pervenire le sue considerazioni ai quesiti che la nostra Redazione gli aveva sottoposto. Ecco di seguito le nostre domande e le sue osservazioni. 1. Qual è l’indotto economico creato dai 48.000 lavoratori (“frontalieri” = persone che hanno un impiego) che giungono in Ticino, considerando i pieni di benzina, le vignette autostradali, i pasti consumati fuori casa, gli eventuali acquisti, affitti di locali e di posti auto, eccetera? “L’indotto economico creato dai 48.000 frontalieri è «compensato» dai costi economici prodotti: inquinamento fonico e dell’aria a causa dei veicoli utilizzati in gran parte a uso singolo, infrastrutture stradali e parcheggi da approntare, posti di lavoro, in particolare nel terziario, occupati e non disponibili per le nuove leve ticinesi che si vedono chiusi gli accessi al mercato del lavoro con costi di disoccupazione e over 50 costretti all’AI. Nessuno contesta la necessità del frontalierato in certi settori, ma in altri è solo mera speculazione economica”. 2. A quanto corrispondono “in soldoni” i contributi versati da tutte queste persone e prelevati direttamente dalle loro buste paga? Come e da chi vengono utilizzati questi danari? “Un miliardo sono i ristorni versati in 20 anni ai comuni italiani di domicilio provenienti dal 38,5% dell’introitato. Il Canton Grigioni ristorna il 12,5% agli austriaci. Qualche cosa non quadra a causa degli accordi del ’74 con l’Italia. I tempi sono cambiati e i costi sono eccessivi per il Ticino”. 3. Se queste persone giungono in Ticino per lavorare, chi li ha assunti e perché? Oppure il 60% di loro sono “ladri e ratti” che scorrazzano tra Airolo e Chiasso saccheggiando e uccidendo? “Sono assunti per necessità in certi ambiti come quello manifatturiero o dell’edilizia e per semplice speculazione in altri ambiti. Il vostro commento «ladri» è mal posto dato che nessuno ha mai attribuito ai frontalieri l’epiteto di ladri ma esso

è chiaramente riferito alla criminalità importata grazie alla libera circolazione”. 4. A che aree partitiche fanno riferimento gli imprenditori che assumono i “frontalieri”? Esisterebbero le loro aziende senza questi ultimi? Dove pagano i contributi queste aziende? Inoltre, i frontalieri sono sottopagati oppure vengono sempre retribuiti rispettando i contratti collettivi (dove questi sono applicati)? “Le aree politiche sono le più disparate e molte aziende non esisterebbero senza i frontalieri, ma credo bisogna considerare quale reale apporto all’economia esse contribuiscono a dare. Esenti da tasse e finanziate anche dal Cantone... non è tutto oro ciò che luccica. I contratti collettivi non sono applicabili a tutti i settori e il dumping salariale esiste anche grazie a chi lo accetta”. Distinti saluti, Pierre Rusconi Alcune brevi considerazioni Nel momento in cui leggete le risposte del presidente Rusconi, le elezioni avranno già determinato il nuovo Governo cantonale. Questo ritardo non è da imputare a Ticinosette: le osservazioni del presidente sono infatti giunte in tempo non utile a una loro apparizione prima delle votazioni. Fatta questa dovuta premessa, lasciamo ai lettori (ed elettori) giudicare se quanto sostenuto dall’UDC sia pertinente o meno rispetto ai quesiti. Da parte nostra facciamo notare che: primo, associare gli stranieri/frontalieri ai “ratti mascherati” (vedi campagna UDC) non può che ricondurre all’immagine del ladro (la maschera) e non certo alla figura eroica di Zorro; secondo, anche rispetto alle considerazioni di Pierre Rusconi, una cosa appare chiara: se il frontalierato è un “problema”, questo semmai è di ordine politico e non è certo riferibile a chi giunge in Ticino per lavorare. I capri espiatori, se esistono, sono dunque da ricercare altrove. Magari proprio fra i politici eletti… o rieletti. Buona lettura, la Redazione


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elle scorse settimane ci siamo più volte soffermati su alcuni evidenti problemi che coinvolgono le architetture del passato e le modalità con le quali la nostra società oggi le percepisce. Spesso isolati, emarginati dal loro naturale contesto storico-urbanistico, a forza di abbandono, abbattimenti e speculazione edilizia, i pochi “oggetti antichi” rimasti nei nostri agglomerati paiono il più delle volte costruzioni legate a una realtà cine-televisiva, il frutto di immaginari dal “sapore disneyano sapientemente illuminati”1. Ma se di errori oggi possiamo a giusta ragione parlare, è perché una nuova cultura della conservazione ha preso piede – almeno nell’ambito dei teorici del restauro e nelle più moderne filosofie della conservazione –, una nuova prospettiva che riconosce il costruito, la materia, come portatrice di valori storico-culturali e dunque la necessità di una sua conservazione. È importante dunque “preservare il più possibile”2, un’affermazione certo categorica ma più volte ribadita in precedenza dalla nostra interlocutrice Chiara Lumia, architetto ma anche docente di Storia del restauro e Storia delle tecniche presso la SUPSI e del Laboratorio di conservazione dell’edilizia storica presso il Politecnico di Milano.

Conservazione: dalla teoria alla pratica “Preservare” dunque… nella teoria, ma nella pratica le cose vanno in modo assai diverso. Tanto che è legittimo chiederci che cosa abbiamo appreso dai nostri modi di operare nei decenni passati. Per quale ragione, insomma, architetto Lumia, compiamo il più delle volte gli stessi errori? “Io ho curato un intero volume ponendomi questa domanda e raccogliendo i pareri di alcuni dei più importanti esponenti dell’attuale cultura italiana del restauro3” ci confida la nostra interlocutrice. “Prima questione: come già ricordato, chi compiva quei restauri nei secoli passati lo faceva secondo determinati criteri estetici e storiografici, che non sono quelli attuali. Eravamo in un’epoca in cui si riteneva che il giudizio storico – se fondato su una documentazione ritenuta autentica – fosse «vero» e «definitivo», ossia di valenza assoluta e sovrastorica. Significava che un restauro di tipo selettivo – che elimina cioè delle parti e non altre – era giustificato perché cancellando le stratificazioni stori-

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Territorio: “due punti e da capo”

Agorà

Per quali ragioni alcuni edifici del passato vengono abbattuti e altri no? Qual è il profondo significato del termine “convivenza” in ambito architettonico? E, soprattutto, esiste “una qualità” in ciò che oggi viene costruito nel nostro Cantone? Con questo terzo approfondimento terminiamo il nostro breve ciclo di riflessioni sui beni culturali e l’importanza della loro tutela che valutate in modo negativo si faceva il «bene» del monumento. Questa idea di storia è stata soppiantata in seguito da un’altra per la quale il giudizio di valore è legato alla cultura vigente, cioè risulta relativo a essa e storicamente determinato. In passato anche personalità di altissimo livello culturale hanno agito restaurando secondo criteri che oggi non possiamo più condividere. Da qui alla conservazione applicata ai beni culturali che in questi ultimi decenni si va affermando il passo è breve. Oggi cerchiamo di conservare e mantenere tutto quanto è possibile; in particolare, memori della lezione del passato, dovremmo dimostrare maggiore tolleranza verso quei manufatti che non riusciamo ad apprezzare, che sfuggono alla nostra comprensione. Che sono in ultima analisi gli oggetti che oggi si trovano nelle condizioni di maggior pericolo… come la più volte citata architettura di inizio Novecento”. Dalle sue considerazioni pare di intuire che ancora oggi persiste una sorta di “conflittualità” tra il concetto di restauro e quello di conservazione. Dovrà pure esistere un dialogo tra queste due posizioni, una via di mezzo che possa comprendere anche le esigenze dello sviluppo territoriale di una regione? “Non credo che la via ecumenica sia una soluzione. In passato la cultura del restauro ha provato a percorrerla più volte: penso a Boito e alla sua «teoria intermedia» e più tardi a Giovannoni4. È chiaro che in ogni intervento di restauro si attuano dei compromessi, ma questo non deve significare livellare le idee e diluire i principi in un presunto giusto mezzo. No, secondo me non è questo il modo nel quale bisogna procedere: l’architetto e il restauratore devono agire con responsabilità, secondo un metodo rigoroso. È necessario che si operi secondo dei principi saldi e precisi; e che si cerchi di farli applicare. Questa è la battaglia che addetti alla tutela, restauratori e architetti combattono in vario modo; non contro ma a fronte di una realtà fatta di tanti altri aspetti che spesso risultano in conflitto con le esigenze della conservazione del patrimonio dei beni culturali”. Ma come già accennato, la società cambia rapidamente, con tutte le esigenze che abbiamo già sollevato. Difficile muoversi fra tutto ciò…


“Certo, il terreno si fa paludoso, ma la possibilità esiste. Si tratta di cercare modalità di coesistenza fra le parti in gioco. Di esempi negativi ve ne sono e non è necessario andare molto lontano. La situazione della collina sopra Locarno è sotto gli occhi di tutti: si abbatte e si cementifica in favore di case di vacanza. Tutto il patrimonio ambientale e il costruito legato ai primi decenni del Novecento, le case contadine, le case in legno di ispirazione alpina, ora sono quasi completamente scomparse: quegli edifici non esistono più! E il Quartiere Nuovo in prossimità del lago voluto a inizio Novecento da una classe media borghese, i suoi edifici con decorazioni liberty e neorinascimentali, dove sono ora? In pratica spariti. Il risultato è la cancellazione di un’intera porzione della storia della città, spesso nel silenzio quasi totale. E la storia di quei luoghi? La consapevolezza che i luoghi e gli edifici sono portatori della memoria collettiva e sono dunque da proteggere? Vi faccio un esempio: qualche anno fa ho avuto a che fare con una comunità che voleva abbattere una piccola chiesa per fare posto a 7-8-10 posteggi. Ma, mi chiedo, veramente non è possibile agire in nessun altro modo che abbattere un edificio il quale fa parte della storia e della cultura di quel territorio…? Non lo credo: una soluzione diversa esiste sempre. L’esempio citato fortunatamente non è la regola. Si fanno molte cose buone: come sempre, bisogna fare attenzione a non generalizzare. Ma è vero che conservare è sempre faticoso, fra tante e grandi difficoltà. Questo è un dato consegnatoci dalla realtà”. La situazione presente nel Locarnese conferma come vi sono edifici che scompaiono velocemente e nel silenzio generale, altri costantemente sulle prime pagine. Come Leonardo e il Rivellino per restare in questa regione…

“Certo, è così. Sono i retaggi culturali secondo i quali «il più antico vale di più» e lo preferiamo ai periodi più vicini a noi. E avremo bisogno di altri cent’anni per liberarcene del tutto. Questa lettura dei manufatti «per importanza storica» è diffusa in tutta la cultura, anche fra chi se ne occupa professionalmente. Che cosa non si fa per riuscire a recuperare i lacerti di un dipinto carolingio o medievale…? Si compie l’impossibile, perché la loro scoperta è sempre rara e tutti gli sforzi sono comprensibili. Giusto, ma è solo per questo motivo? Le scorse settimane abbiamo citato l’architettura barocca: ecco, ora si studia, si comprende e si apprezza questo periodo. Studiamo, capiamo, apprezziamo e finalmente conserviamo, perché tutte queste operazioni sono strettamente concatenate. E dopo il Barocco ci stiamo accorgendo che anche l’architettura dell’Ottocento e del Novecento merita di essere protetta5. Lentamente, molto lentamente… In questo senso bisogna ammettere che l’Ufficio dei beni culturali di Bellinzona è assai attivo, con un’opera meritoria volta alla sensibilizzazione collettiva verso i manufatti di questi ultimi secoli. È estremamente importante che l’UBC, punto di riferimento culturale della società ticinese intorno al tema dei monumenti, dica a tutti: «Attenzione, queste cose sono importanti!»”. Fra le molte tendenze che si stanno diffondendo, vi è la strana moda di conservare le sole facciate e, alle loro spalle, costruire altro: l’ex albergo Palace (futuro LAC) a Lugano e l’ex Scuola di commercio a Bellinzona sono due esempi. Ma accade pure che alcuni architetti abbiano rinnovato il fronte di edifici religiosi coprendo con un nuovo impaginato le facciate antiche. Perché si è arrivati a ciò? “No, tutto questo ha poco a che fare con il restauro e la conservazione. Rappresenta «un certo modo» di concepire il rapporto

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tra conservazione e nuova edificazione. Un modo, cioè, di utilizzare «oggetti» del passato in un nuovo contesto. Molti architetti contemporanei amano utilizzare parti di edifici esistenti ricontestualizzandole nel proprio progetto, ma senza di fatto rispettarne la consistenza fisica, né i dati formali, strutturali o distributivi. Nulla a che fare con il restauro: sono interventi in cui la personalità dell’architetto vuole dominare la preesistenza, piuttosto che comprenderla, rispettarla e accoglierla. In questa prospettiva il nuovo prevale sull’antico, il quale è ridotto a una sorta di «frammento» – indipendentemente dalla dimensione – che, decontestualizzato e inserito nel nuovo insieme, perde gran parte del suo portato di significanza (quando non tutto) per divenire elemento del linguaggio usato dal progettista. In questi casi non c’è un vero dialogo tra vecchio e nuovo. Fatte le dovute differenze, un po’ come in passato si faceva nella costruzione di molte chiese medievali, nelle cui mura e facciate si inserivano elementi provenienti da edifici più antichi, da singoli componenti scolpiti a colonne di spoglio. Pensiamo per esempio alla facciata di San Francesco a Locarno, che comprende pregiati pezzi probabilmente provenienti dalla demolizione del castello. In questi casi quegli elementi sono assunti nella nuova architettura singolarmente, non con la valenza che avevano nel contesto di origine ma con quella assegnatagli nel nuovo progetto. Oggi però esistono molti architetti che percorrono strade progettuali alternative, in cui l’esercizio della creatività trova il suo presupposto e il suo limite nel rispetto dell’edificio esistente. Questo non vuol dire che l’attività creativa che è propria del mestiere dell’architetto debba essere mortificata. Né che nuovo e antico non possano convivere, al contrario. Si tratta di incanalare la progettazione entro percorsi nuovi, spesso poco consueti e per questo difficoltosi; specie per chi ha poca voglia di mettersi in gioco sperimentando possibilità diverse. Il tema del rapporto tra conservazione e nuova progettazione è a mio modo di vedere uno dei più importanti, di cui infatti si discute molto. In questa prospettiva naturalmente gioca un ruolo rilevante anche la qualità di ciò che si progetta e si realizza oggi”. Professoressa Lumia, in generale e quale nota conclusiva rispetto a queste riflessioni sui beni culturali e il loro difficile rapporto con il contemporaneo, le sembra che oggi, nel nostro Cantone, vi sia “una qualità” in ciò che viene costruito? “Anche nell’edilizia più semplice vi è certamente una qualità infinitamente più elevata di quanto avvenga in altre realtà, come quella delle periferie di molte città italiane che conosco per esperienza personale. In Ticino esiste una scuola di architettura di qualità e un territorio che presenta un buon numero di edifici che possono piacere o meno, ma che sono stati «pensati». Certo, ce ne sono pure molti meno interessanti, banali e alcuni veramente deturpanti. Ma, ripeto, credo che in generale lo standard del costruito sia piuttosto elevato. Proprio questa situazione però, deve spingere a pretendere che la stessa qualità debba essere esercitata anche quando si tratta di progettare in rapporto all’esistente, realizzando un vero dialogo con esso. In questo Cantone si può fare bene, in particolare lavorando meglio nell’incontro fra il nuovo e ciò che è già presente, fra gli spazi disponibili, il numero delle persone, il passato di quel territorio e uno sviluppo sostenibile. Questi aspetti devono coesistere ma in un rapporto «non troppo» conflittuale. Bilanciare il tutto è complesso, certamente, anche perché i vari soggetti non sempre sono reciprocamente disponibili. Personalmente, sono della convinzione che sia necessario sviluppare maggiormente un’architettura in cui, lo ripeto, quando antico e nuovo si confrontano – e questo confronto deve assolutamente esserci – il presupposto chiave sia il rispetto dell’esistente. Un rispetto che passa dal suo riconoscimento, dalla difesa della sua identità, del suo ruolo e del suo valore per la società contemporanea… e per quella futura. Per non parlare del rispetto

Lugano. Il settecentesco Palazzo Riva dialoga con il contemporaneo


di chi lo ha fatto e lo ha vissuto in passato. Gli architetti possono benissimo esprimere la loro creatività anche confrontandosi con ciò che è già presente, senza per forza di cose demolire o conservando solo lacerti o frammenti. Questo significa anche percorrere strade diverse. E alcuni lo stanno già facendo: ricordo qui, a titolo esemplificativo, l’architetto francese Jean Nouvel e alcuni suoi lavori dove conservazione, stratificazione e nuovi interventi dialogano e si enfatizzano a vicenda6. Oppure si possono citare molte esperienze di riuso di edifici industriali dismessi, in cui, pur conservando, si è riusciti a creare, proprio attraverso il confronto tra antico e nuovo, spazi di qualità, suggestivi e funzionali. E, si badi bene, in questi casi spesso la nuova destinazione d’uso non coincide con quella originaria. Infatti, a mio vedere è un errore credere che mantenere quest’ultima a ogni costo sia garanzia di buona conservazione. Invece, il principio da tenere dovrebbe essere, come dicevo, quello della compatibilità e della sostenibilità: il nuovo uso dell’edificio deve essere tale da non comprometterne la materia antica, nelle forme come nella struttura. A ben vedere ciò costituisce un ulteriore margine di libertà creativa e un’occasione per gli architetti”.

Una responsabilità politica Le opportunità di apprendimento, di ricerca e di crescita che quanto fatto in passato ci garantiscono, devono necessariamente essere colte. Rinunciare a queste attraverso ingiustificate e miopi demolizioni – che sempre più spesso trovano risposte solo nel profitto di pochi, come più volte ricordato – significa non solo banalizzare il territorio ma, in particolare, impoverire la nostra esperienza di vita. Personale e collettiva. In un recente contributo7, l’architetto Tita Carloni scrive: “Considerata la strage sistematica che viene operata oggi dietro la parvenza della conservazione sono del parere di usare la massima prudenza ogni volta che si interviene nelle città, prendendo in considerazione anche entità architettoniche che forse tutti noi, qualche decennio fa, avremmo tranquillamente considerato come di scarso valore e quindi facilmente alienabili”. In questo senso, una politica del territorio prudente – cantonale e in particolare locale – non nuocerebbe a nessuno. Di certo non a quelle “identità” e “qualità di vita”8, due dei tre parametri che dovrebbero, nelle intenzioni del Cantone, definire la ricchezza del nostro prezioso territorio.

Note Si veda quanto scritto da Paul Zanker, Relitti riletti (Bollati Boringhieri, 2009) in Ticinosette n. 7/2011 del 18 febbraio. Il titolo di questo articolo è liberamente tratto dal saggio di Marco Dezzi Bardeschi, Restauro: due punti e da capo (Franco Angeli, 2004). 2 Si veda Ticinosette n. 7/2011 e n. 12/2011 del 25 marzo. 3 Chiara Lumia, A proposito del restauro e della conservazione. Colloquio con A. Bellini, S. Boscarino, G. Carbonara, B. P. Torsello (Gangemi, 2003). 4 Camillo Boito (1836–1914) e Gustavo Giovannoni (1873–1947) sono figure di primo piano della cultura del restauro italiana ed europea. 5 Sull’importanza della conservazione delle espressioni architettoniche otto e novecentesche – e i profondi legami fra territorio, sviluppo e identità storico-architettonica – merita certamente di essere citato “Note sui due primi progetti premiati nel concorso per il Tribunale penale federale a Bellinzona”, un testo dell’architetto Tita Carloni presente quale allegato a un’interrogazione inoltrata al Gran Consiglio in data 27 agosto 2009 (R. Ghisletta e altri). L’interrogazione pone alcuni quesiti sul bando di concorso e i progetti vincitori: fra le altre cose vengono sollevati alcuni interrogativi sulla “mancata conservazione delle mura esterne degli edifici del Pretorio e dell’ex Scuola di commercio” (Bellinzona). 6 Si veda, per esempio, l’intervento fatto all’Hotel St. James a Bordeaux (Francia). 7 Cfr. nota 5. 8 “Introduzione” del consigliere di Stato Marco Borradori (e ad oggi, 8 aprile, ancora direttore del Dipartimento del territorio) in L’inventario dei beni culturali del Canton Ticino. Territorio e monumenti 1909/2009, Ufficio beni culturali, 2009 (un estratto è presente in Ticinosette n. 7/2011).

Agorà

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(fotografia di Vincenzo Cammarata)

» di Giancarlo Fornasier

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La scelta di Fathy Qualche anno fa Mario Botta incontrò quello che è considerato il più grande innovatore dell’architettura egiziana contemporanea, Hassan Fathy. Anch’egli infatti, analogamente al noto architetto ticinese, ha operato all’insegna del recupero della tradizione e del riutilizzo in chiave moderna della casa vernacolare. Naturalmente con tutte le specificità arabe

Levante

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È importante segnalare il nome di Hassan Fathy all’attenzione del pubblico occidentale poiché in effetti l’Egitto – e il mondo arabo in genere – possono essere letti in chiave architettonica soltanto se ricondotti al dissidio fra passato e presente. Nell’imperversare delle tecnologie, dei materiali e soprattutto delle mode architettoniche derivanti dal fenomeno dell’urbanizzazione selvaggia, l’architetto arabo si trova infatti obbligato a porsi una domanda: come conservare stilemi e valori della cultura contadina laddove la storia sembra tendere a cancellarli? Come operare nel solco della tradizione laddove ormai tutti i grandi centri urbani e le periferie informali sono affidati ad architetti – spesso stranieri – del tutto estranei alla storia locale? Hassan Fathy ci è riuscito. E il suo modello di casa si pone ancora oggi come contraltare all’impersonale proliferare di compounds (complessi residenziali) all’americana che stanno devastando il panorama architettonico arabo ed egiziano in particolare. Una tendenza che, lungi dal modernizzare le metropoli del mondo arabo, le sta progressivamente svuotando di identità e consegnando alla banalità dell’uso consumistico e funzionale dell’abitare. Basti pensare alle città-satellite, veri e propri quartieri-dormitorio che stanno letteralmente soppiantando i centri storici e crescono come funghi a ogni angolo disponibile di deserto. Città-fantasma a cui si accede attraverso un cancello elettronico per poi dividere il proprio spazio abitativo con centinaia e centinaia di villette identiche, senz’altra caratteristica che quella di garantire privacy e silenzio. Mostruosità del moderno in cui l’ornamento e la megalomania “occidentalizzante” (con prestiti post-moderni dal romanico e dal gotico, del tutto fuori contesto) la fanno da padroni. Hassan Fathy gioca viceversa sulla semplicità e sulla rivalutazione dei materiali elementari del costruire arabo: primo fra tutti il fango e il mattone. Parte, come si diceva, dalla cam-

pagna, di cui è egli stesso originario essendo i suoi genitori nubiani, e già in giovanissima età comincia a elaborare quelle che saranno poi le sue “case contadine”. Diversamente dal moderno e dallo sperimentale d’avanguardia, il suo approccio è di tipo eminentemente etico: Hassan Fathy intende assegnare all’abitazione contadina il valore essenziale di migliorare le condizioni di vita dei poveri e di valorizzare al massimo le risorse che la terra offre loro. Gli espedienti sono fra i più diversi, sia per quanto riguarda le strutture abitative sia per quel che concerne i materiali usati e le loro modalità d’impiego. Tanto per cominciare la tradizione della casa araba torna in primo piano per quanto attiene al riutilizzo del sapere contadino. Fathy recupera, e sviluppa, quello che era il vecchio uso del mattone in fango, materiale semplice ed economico che la moderna architettura aveva ormai stupidamente bandito. Ed è con queste parole che egli motiva la sua scelta: “Per secoli il contadino aveva saggiamente utilizzato questo ovvio materiale da costruzione mentre noi, con le nostre moderne e scolastiche idee, non ci siamo mai sognati di fare uso di una materia così elementare come il fango per una costruzione così seria come una casa”. Insomma, Hassan Fathy non disdegna di recuperare dalla tradizione l’architettura dei poveri e di riportarla al centro del costruire contemporaneo. In questo restituendo armonia fra le abitazioni di campagna e levando al paesaggio l’anonimato delle case tutte identiche proposte dal funzionalismo asettico del moderno. L’ispirazione Durante un suo viaggio in Nubia individua nelle vecchie case contadine il suo spunto di riferimento, e comincia a elaborare quelli che diverranno i suoi modelli abitativi. In primo luogo case dai soffitti molto alti, costruite in mattoni,


piano superiore, collegate tra loro da una corte interna che favorisce l’aerazione. Il principio della ka’a permette di far passare l’aria all’interno dell’abitazione attraverso finestrelle poste molto in alto lungo soffitti formati generalmente da cupole, in modo che l’aria calda venga progressivamente risucchiata verso l’alto e le persone in basso non ne avvertano la presenza. Infine c’è il principio del malkaf, un’apertura sotto la cupola esposta al vento, e l’uso della mashrabia, la finestra di legno intarsiato che permette di osservare all’esterno senza essere visti all’interno, un’ottima alternativa al vetro e una perfetta protezione dalla luce solare. I pavimenti, da parte loro, sono anch’essi in legno per favorire una maggiore abitabilità degli ambienti. La modernità trova dunque in Hassan Fathy il suo perfetto ancoraggio alla tradizione. E la semplicità sposa finalmente l’economicità, l’armonia l’ambiente, la bellezza il rispetto della cultura. Il resto, per contro, è vittima dell’imbarbarimento delle città e delle campagne comune a tutto il mondo arabo. Il quale, seppure trovi generalmente negli interni un riscatto dalle brutture esterne, resta tuttavia in balia, da diversi decenni, dell’informe, del meramente funzionale, del moderno senza radici e senza identità.

» di Marco Alloni; immagini tratte da www.pushpullbar.com

decorate in maniera completamente diversa l’una dall’altra, che si pongono in perfetta continuità estetica con il paesaggio circostante. Poi l’uso di stratagemmi per renderle consone non solo al luogo ma anche alle particolari condizioni climatiche, aride e roventi, del Medioriente. Ne viene una serie di abitazioni semplici, orientate sempre in corrispondenza del sole e delle correnti d’aria per favorire l’aerazione degli spazi. Condizioni che egli non trascura di perseguire in stretto contatto con i futuri abitanti delle sue case, a cui chiede di volta in volta di quali caratteristiche interne ed esterne vorrebbero fossero costituite. Così sorgono edifici a due soli piani in cui il modello indigeno è perfettamente integrato alla funzionalità del moderno e alle condizioni fisiche dell’ambiente. A Qurna, per esempio, nell’alto Egitto, un formidabile progetto poi rimasto incompiuto ci mostra, nella stretta collaborazione fra architetto e artigiani della zona, i caratteri peculiari di queste “case contadine”. Le porte, vista la scarsità di legno nella regione, sono create con pannelli disomogenei assemblati, secondo l’estro dell’artigiano, per formare unità resistenti al caldo e alle intemperie. I piani sono separati in una zonagiorno, generalmente al pianterreno, e in una zona-notte, al

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» testimonianza raccolta da Nicoletta Barazzoni; fotografia di Igor Ponti

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che si crea tra le due realtà: lavorativa e familiare. Il fatto di andare in ufficio e avere la mente occupata nei progetti e nell’attività creativa mi consente di rigenerarmi perché un mondo alimenta l’altro. Si creano molti incastri tra queste due vite parallele. Devo anche confrontarmi con la realtà piuttosto maschile dei cantieri che non sono di facile accesso alla donna architetto, che viene vissuta inizialmente con scarsa considerazione. Vivo con mio marito e i miei figli in un loft a Chiasso, che è una costruzione aperta, senza delimitazioni fisiche. In termini spaziali e esistenLa sua scelta professionale ha molte ana- ziali questa scelta per me logie con i luoghi in cui è nata, e dove ha rappresenta “aria”, che può sviluppato la creatività e il ragionamento arrivare a occupare grandi superfici. In un primo mologico. Paziente e riflessiva non si arren- mento può sembrare che il de facilmente, alternandosi tra il ruolo di loft simboleggi grande libertà; in realtà è l’opposto, nel mamma e quello di architetto senso che l’ordine insegna, un duplice scambio. Il modo impone e stabilisce delle regole. L’approccio con cui la casa si apre, con i nell’occupare lo spazio richiede una capacità suoi continui scambi, mi fa di organizzazione sia mentale sia fisica, con pensare a una cellula e a un inclusa anche la capacità di fare astrazione. organismo. Non è solo una Nella simultaneità di molte attività che un finestra e quindi un’inqualoft richiede, bisogna esercitare continuadratura di quanto sta al di mente un grande rispetto reciproco. È un fuori, o un modo per catturamodo originale per vivere ma è anche un re la luce, e dunque inglobare riutilizzo di uno spazio preesistente, che qualche cosa. parte dal concetto di adattabilità e trasforLa casa non è una dimensiomazione, a dipendenza del tempo e delle ne chiusa perché dipende da esigenze che cambiano. come si lavora con lo spazio, Il progetto che più mi coinvolge e che è che è una sintesi. Si cerca semancora in corso, riguarda la ristrutturazione pre di definire i movimenti e di un appartamento in Piazza Farnese a Rocapire come ci si muove al ma. Il progetto, che era in concorrenza con suo interno. Restando nella architetti di fama internazionale, parte da metafora della costruzione, il una committenza interessante di persone tipo di mattone che prediligo attive nel mondo dell’arte. Stiamo lavoranè la progettualità. Penso che do sull’idea del labirinto che ci coinvolge il primo mattone fondamenmolto, perché non si tratta tanto di perdersi tale nella mia vita è innanzima di ritrovarsi. Con mio marito riesco a tutto la grande passione per completarmi ma anche a distinguermi. Mi la mia professione. Oltre a interessa il percorso piuttosto che la definiquesto ci vuole un’infinita zione del presente o del futuro. Credo molto pazienza che sto mettendo a nella fortuna ma sono convinta che non sia dura prova anche con i miei essa a trovarci ma siamo noi a doverla cercadue figli, Nicola di 3 anni ed re. Lo definirei uno scambio di energia che Eva di un anno. Questo per ci lega e in seguito ritorna. Bisogna essere me è un periodo che richiede capaci di trasformarla, catturarla e percepirmolta energia, perché devo la. Se penso ai miei figli mi torna in mente suddividermi fra i miei baml’immagine dell’uovo e del piccolo racchiuso bini e il lavoro nello studio, in esso. Pur essendo premurosa e protettiva insieme a mio marito Aldo. nei loro confronti vorrei che affrontassero Traggo energia dallo scambio il viaggio con le loro forze.

Federica Giovannini

Vitae

l mio richiamo ha in sé qualche cosa di molto primordiale, perché rappresenta la mia memoria, soprattutto a livello sensuale. Le mie origini toscane mi riportano alle emozioni tattili, legate ai materiali, alle luci, ai colori e ai profumi della campagna. Varese mi ha ospitata, dentro un percorso di amicizie e di studi. Iniziando a studiare architettura all’Accademia di Mendrisio, il Ticino mi ospita da nove anni. La mia scelta professionale è cresciuta ascoltando il mio intuito. Sono stata attratta dalla molteplicità di discipline che compongono l’architettura, sia da un punto di vista creativo sia razionale. Ero indecisa tra architettura e biologia, che sono ambiti diversi ma che racchiudono il desiderio di arrivare all’essenza delle cose. La casa simboleggia e delimita molti significati; fra questi lo spazio sia interiore sia esteriore delle persone. Essa soddisfa il nostro bisogno primario che è quello di ripararci, ma raffigura anche quello che noi siamo. Rappresenta il nostro sogno da realizzare e concretizzare. Per un architetto è un atto di grande responsabilità non solo verso una famiglia, una persona o un individuo. È anche una enorme responsabilità rispetto al territorio. Questo è un aspetto che l’Accademia mi ha trasmesso, e quindi prima di tutto siamo architetti territoriali, con una visione che deve contemplare dall’alto un terreno, nella sua totalità ma anche nella sua specificità. Si deve considerare il modo con cui un edificio viene inserito nel territorio, come si posa o si appoggia, come vince la gravità, perché l’architettura è anche una sfida alle leggi della natura, con un grande impatto sul costruito e sul sociale. La mia idea di casa è un punto di riferimento e di protezione ma può anche essere un incontro e un contatto con molte realtà sconosciute, che ci collegano con l’esterno, in

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I


La casa

d’ombra e di luce

testo a cura di Giancarlo Fornasier fotografie di Simone Mengani


Castel San Pietro. Casa monofamiliare, veduta esterna del prospetto est: “La maggior parte del nostro lavoro è stato creare una facciata che dia l’impressione di austerità, con all’interno una costellazione di luce filtrata dalla lamiera” (Aldo Celoria, studio Celoria Architects, Balerna)


in apertura: vista esterna in notturna


Veduta interna dello spazio comune al primo piano

Vista della cucina con il banco di lavoro: “All’interno della casa una luce disegnata e ricamata crea effetti sempre particolari e mutevoli� (A. Celoria)


Scorcio interno della camera padronale al primo piano e, all’esterno, la grande terrazza

P

osizionata in una zona residenziale sul colle di Castel San Pietro, questa casa d’abitazione progettata dallo studio Celoria Architects di Balerna (www.celoria.ch) è caratterizzata da un rivestimento esterno metallico. Un elemento di per sé non del tutto originale – ricordiamo qui, per rimanere in Ticino, lo stabile commerciale/amministrativo “La Ferriera” a Locarno (2000–’03) dell’architetto Livio Vacchini –, ma certamente particolare sia per la destinazione d’uso (un’abitazione) sia per le maglie particolarmente fini della sua tessitura. L’edificio “si sviluppa in un solo volume fluido e metallico” ci conferma l’architetto Aldo Celoria. “Apparentemente simile a una scultura/oggetto esposta nel suo giardino, il progetto si relaziona in maniera discreta con il contesto e parla lo stesso linguaggio delle tre case vicine; stessa dimensione e stesso impianto”. La geometria della pianta di questa affascinante costruzione introduce il tema della diagonale “che dirige lo sguardo al piano terreno verso il panorama circostante, e al primo piano verso la collina. La continuità e il movimento hanno dato un’impronta significativa a questo edificio, da subito immaginato come un flusso senza fine…”. Al rivestimento esterno caratterizzato da una cromia scura e apparentemente fredda, fanno da contraltare gli ambienti interni, bianchi ed essenziali. “Pavimento, pareti e soffitto creano una fluidità emotivamente rassicurante” ci dice ancora l’architetto Celoria. In questo modo “i percorsi e gli sguardi sono liberi da ogni ostacolo per ottenere una continua relazione visiva tra interno ed esterno. Gli unici punti di sosta momentanea sono le due terrazze, da cui poter gustare la vista della collina e il panorama”. Una libertà di “movimento” che caratterizza anche la stessa facciata, forata e dunque ventilata, pensata come un nastro continuo modulare disegnato appositamente per questo progetto. Un elemento che però ne nasconde un secondo e meno visibile: “La facciata è in effetti composta da una lamiera esterna di colore blu scuro a maglia quadrata e da una interna con un motivo decorativo, di colore alluminio naturale. Per creare effetti di luce diversi, alcune finestre sono completamente aperte, mentre altre risultano nascoste dietro la lamiera forata creando una sorta di diaframma tra interno ed esterno”. Un sistema “vivo” e dall’indubbia versatilità che comprende inoltre delle persiane scorrevoli che scompaiono nell’intercapedine della facciata: “Questa sovrapposizione produce effetti ottici inaspettati, giocando con il sole e con il movimento. La facciata in lamiera è un doppio filtro che crea particolari effetti di luce, trasparenze e riflessi che fanno vibrare la casa nel contesto”. Terminato nel marzo del 2008, questo edificio abitativo dimostra come anche in Ticino è possibile operare seguendo percorsi assai originali; progetti “pensati” e contrassegnati da un’indubbia qualità costruttiva.

Simone Mengani Nato a Perugia, classe 1978, si trasferisce all’età di cinque anni a Vacallo, dove inizia a coltivare la passione per il territorio. Dopo gli studi liceali si iscrive all’Accademia di Architettura di Mendrisio, dove si diploma nel 2004. Dopo alcune esperienze di lavoro, nel 2006 inizia l’attività come fotografo indipendente, prediligendo la fotografia di architettura. Collabora con diverse riviste e settimanali, operando anche nell’ambito della fotografia panoramica. Per ulteriori informazioni: www.fotomengani.ch


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Terra-albero-uomo La materia nasce da un seme. Il seme incontra la terra e in questa feconda realtà cresce, si sviluppa, sino a diventare albero. Ma l’uomo di tutto ciò pare non più accorgersi

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Vita e morte nella natura In questa stretta relazione l’uomo uccide l’albero e si nutre delle sue “carni”; ma compiendo quest’atto l’uomo idealmente entra in relazione con il tutto, conosce l’albero e la terra che lo ha generato. Ma non solo: egli entra in relazione con il cielo e le stelle, ne trae la vita. L’uomo non è in grado di utilizzare l’energia del Sole per lavorare la materia; l’albero invece è legato al Sole, da cui trae l’energia, la trasforma e in parte la conserva nel legno. Ma il legno è generato anche grazie alla Luna, che nel suo ciclo movimenta i flussi della linfa che dalle radici sale alle gemme, alle foglie, ai fiori. Un tempo la scelta del “momento giusto” per il taglio del legname era una prassi consolidata: la consapevolezza delle fasi lunari permetteva di conoscere meglio l’albero, di sintonizzarsi con il suo ritmo. In questo modo anche nel gesto del taglio, nel compimento del sacrificio, veniva rispettato quanto di meglio la terra è in grado di offrirci. Il legno rimane testimone silenzioso e materia tangibile di questo evento. L’uomo usa il legno per una serie quasi infinita di bisogni e attività, dalla costruzione dell’abitazione a quella di una sedia, nella produzione di supporti cartacei dedicati alla lettera scritta alla produzione di calore, per nutrirsi e per morire. Forse non è casuale che spesso l’involucro dell’eterno riposo sia di legno e venga adagiato nella terra, un atto che nuovamente suggella questa unione.

Conoscere/disconoscere la materia Nel passato chi si occupava della legna la tagliava, la lavorava, la decorava: la “usava”, conosceva le peculiarità delle piante, rispettava le loro debolezze e ne esaltava le qualità celate. Legni diversi per destini diversi: per la costruzione di un rastrello ne servivano ben tre tipi differenti (pino giovane, faggio, carpino o corniolo). Chi conosce (chi sa riconoscere) il legno, lo osserva e lo legge come un antico testo. Ne osserva le vene e lo giudica per qualità: abete, faggio, noce, quercia, olmo, nocciolo, tiglio, acero e via di questo passo. Ma oggi tutto questo è quasi un lontano ricordo; la sacra materia lignea non viene più rispettata, e l’uomo non si dedica più alla sua lettura. Di pari passo con il rispetto che l’uomo non ha più di sé, il legno viene triturato, mescolato con colla e reso uniforme: conformato come l’uomo, piatto e senza venature né difetti… ma ora mai irriconoscibile. In questo modo è possibile creare assi “perfette” per mobili “perfetti”, adatti a persone “perfette”. Il truciolo del legno viene, come da un velo pietoso, coperto di un sottile strato di lamina bianca o nera. Oppure nella schizofrenia più totale, a imitazione del legno stesso, quasi a ricordare che una volta il legno valeva la pena di essere letto e l’uomo ne era il suo lettore.

» di Alessio Longo; fotografia di Daniela Brandino

Kronos

L’albero, questa incredibile forma di vita, è un essere stupefacente e magico. In esso si fondono la straordinaria forza del legno del tronco e l’eterea e impercettibile rete di connessioni che dalle profonde radici si innalza sino alla sommità con leggere foglie. Ed è nel perpetuarsi della propria esistenza, anno dopo anno, decennio dopo decennio, che l’albero produce il legno. La storia del legno e del rapporto che l’uomo ha con questa materia si perde, come sempre, nella notte dei tempi. Nella storia come nella religione l’albero è legato all’uomo da un rapporto di simbiosi (o di generoso sfruttamento) come mai è accaduto con un altro essere vivente o materia inanimata, se non con la terra stessa. Potremmo quasi affermare che il trinomio terra-albero-uomo sia un unico ininterrotto seme che continuamente germoglia.

Legami indissolubili Che fine ha fatto quella venatura che tanto raccontava della vita, quel difetto che suggeriva il senso, quel nodo dal quale partiva il ramo e che ora è l’occhio nella tavola? L’occhio della conifera che ci guarda era per Collodi quello del pino – del giovane occhio di pino o Pinocchio, che dir si voglia – che è sempre lì, in attesa che noi fuggiamo dal paese dei balocchi per ritornare a dialogare con gli alberi. Fortunatamente a questo servono i giochi di squadra: fra noi, l’albero e la terra, è quest’ultima la nostra fata turchina, l’essenza che ci redime. Su tutto, anche sui mobili in truciolato rivestiti di legno plastificato, anche sulle persone “perfette e uniformi”, anche sulla sveglia che ogni mattina scandisce il nostro tempo, su tutto si posa la terra. La terra la quale altro non è che polvere, manifestazione del continuo divenire. Dalla terra alla terra, l’uomo e l’albero sono parte di un sacro legame. Questo ci narra il legno.


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La casa che respira Casa tradizionale o casa ecologica prefabbricata? Le nuove tendenze costruttive sono contrassegnate dall’idea di compatibilità ambientale. E i vantaggi non sono pochi…

Certo, per molti di noi si tratta di un vero e proprio sconvolgimento. Soprattutto se si considera che nel nostro cantone il cemento come materiale costruttivo è molto apprezzato, non solo negli edifici pubblici e privati di grandi dimensioni ma anche nella realizzazione di ville e case d’autore di un certo livello. Tutto ciò si connette all’idea – in realtà non veritiera – di una casa che “resta” nel tempo, di un oggetto capace di radicarsi stabilmente nel contesto territoriale e il cui valore e utilizzo può essere trasmesso alle generazioni successive. A questo primo fattore si aggiunge il binomio spesa-investimento, certamente più oneroso nel caso di una casa “pesante” e in apparenza in grado di assicurare un maggiore rientro economico nel tempo. Insomma, da una parte mattone e cemento e dall’altro il legno e i materiali eco-compatibili; da un lato tempi di realizzazione piuttosto lunghi dall’altro la possibilità di vedere edificata la casa dei propri sogni nell’arco di qualche settimana.

Società

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» di Fabio Martini

edifici realizzati). E in particolare quelle aziende che, per tradizione, know how e collocazione geografica hanno una radicata esperienza con l’utilizzo del legno come materiale costruttivo. Proprio nell’area alpina, nel nostro paese, in Italia, in Austria, nella Germania meridionale, in Slovenia, sono presenti alcune delle aziende leader nella realizzazione di case prefabbricate in legno. L’utilizzo del legno, per l’eccezionale isolamento termico offerto, per l’ottima resistenza statica anche in zone a elevato rischio sismico, per il basso impatto ambientale legato alla sua lavorazione e per le caratteristiche di materia prima rinnovabile – soprattutto se associata a materiali “puliti” come cellulose, sughero, fibre di legno, canapa, ecc. –, consente di costruire case ad altissima efficienza termica e di grande fascino estetico. Le aziende più note impegnate su questo fronte – ricordiamo fra queste Rubner e Wolf (Italia), Schafferer e Griffner (Austria), Rensch (Germania), Marles (Slovenia) –, non solo realizzano edifici personalizzati ma Un modello di casa in legno di linea moderna su progetto degli architetti De Martin e Gasparotto (www.rubner.it) Una rivoluzione dal basso offrono una vastissima gamma di Che la situazione climatica e amproposte “pronta consegna” per ogni bientale del pianeta sia giunta da tempo al livello di guardia è esigenza: dalla casa tradizionale alle più avveniristiche abitazioni cosa nota. Altrettanto nota – e sconcertante – è la risposta della di design, progettate da architetti di fama internazionale (il conpolitica che, a parte alcuni casi di paesi particolarmente illumi- nubio fra Matteo Thun e Rubner ne è forse l’esempio più celebre). nati (Germania docet, lo abbiamo già scritto…), appare lentissima. Nel corso del 2012, catastrofismi a parte, si terrà in Brasile Impiantistica ed efficienza energetica la quarta Conferenza mondiale sull’ambiente a cui parteciperà In tutte queste proposte costruttive l’aspetto concernente la proanche la Svizzera. Al centro del dibattito due principali temi: duzione di energia rappresenta un fattore centrale. È necessario l’ “economia verde” e le strategie istituzionali per l’attuazione ricordare che nella realizzazione delle case eco-compatibili (ricodi uno sviluppo sostenibile. Per l’ennesima volta, gli stati e le noscibili per il marchio CasaClima – KlimaHaus ®) gli impianti loro strutture dovranno tentare di superare le minacce globali elettrici e idraulici sono parte delle strutture modulari e vengono attraverso un’azione comune e coordinata. Ma lo abbiamo visto installati via via che si procede con l’innalzamento dell’edificio. recentemente anche a Copenaghen: la politica è lenta mentre Resta la scelta dell’impianto di riscaldamento che può variare l’economia vola. Il fatto che a livello globale si stia affermando dalle caldaie tradizionali alle più moderne pompe di calore o a una diversa consapevolezza riguardo alle risorse e all’energia rap- forme ancora più “pulite” con l’applicazione di pannelli solari presenta infatti un’opportunità sensazionale per lo sviluppo di e fotovoltaici. Una volta in possesso di un terreno edificabile e quelle aziende capaci di riconoscere i vantaggi “concorrenziali” dei necessari permessi il gioco è quindi fatto, senza dimenticare, offerti dalle “tecnologie verdi”. Del resto sempre più persone dulcis in fundo, che il costo al metro quadro risulta decisamente esigono di vivere in ambienti sani e aspirano a ridurre l’impatto inferiore rispetto a una casa in muratura. Alla politica il comche le attività di ogni giorno determinano sull’ambiente. pito di sostenere e incentivare questi progetti. Un esempio? La L’edilizia è certamente il settore che con maggior prontezza ha Giunta provinciale di Bolzano ha istituito nel 2009 un bonus saputo riconoscere le richieste che giungevano dal pubblico di cubatura per coloro che intendono realizzare o risanare un (in Svizzera, per esempio, nell’arco degli ultimi 15 anni sono edificio (purché con permesso o costruzione anteriore al 2005) raddoppiate le costruzioni in legno in rapporto alla totalità degli secondo lo standard CasaClima C.


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Minimal House Sottrarre, eliminare, ridurre… questo il “diktat” del moderno abitare. Una tendenza certamente ecologica, visto che porterebbe a ridurre i rifiuti, ma anche segno dell’ingresso nelle case di tutti noi di quei simulacri in grado di mediare, nel bene e nel male, il nostro rapporto con la realtà

Domus

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Sono gli slogan del nuovo minimalismo che viene, tanto per cambiare, dagli Stati Uniti. Una filosofia di vita i cui seguaci si autodefiniscono “generazione zero”: zero come il numero di cose, oggetti, bagagli, di cui intendono circondarsi nel corso della propria esistenza. Essa incoraggia a disfarsi di quanto più è possibile: meno abiti, meno mobili, meno suppellettili, libri, cd, dvd, meno di tutto. L’obiettivo è quello di vivere in una casa minima, di infilare quello che si possiede in una valigia, eliminando tutto il superfluo per concentrarsi sull’essenziale. Non in nome di una scelta ascetica, tantomeno ideologica o religiosa, bensì per scoprire che in quella sottrazione si cela la chiave della felicità. Qualche tempo fa ho pubblicato un saggio dal bizzarro titolo La decosificazione del mondo. Vi sostengo che la decosificazione è un processo ambivalente, come tanta parte della nostra realtà di oggi e di sempre. Da una parte non siamo mai stati circondati da così tanti oggetti e cose come oggi, in una società che ci ha trasformati da cittadini in consumatori e clienti; dall’altra assistiamo alla scomparsa delle cose dal mondo (la “decosificazione” appunto) in virtù della loro sostituzione con l’immagine, il segno, il simulacro. Nuovi simulacri Da quando i media, a partire dalla macchina fotografica alla metà dell’Ottocento, si sono frapposti tra l’occhio umano e il mondo, la modernità rifugge sempre più dalle cose per volgere alle loro mediazioni, verso ciò che sta in mezzo, come scrive il filosofo dei media Vilém Flusser. Tra l’uomo e il mondo si frappongono sempre più apparati che rendono la realtà mediatizzata, mentre la realtà immediata in forma di materia,

materialità e resistenza, diventa sempre più inesperibile. Persino il nostro desiderio si è spostato dalla durezza delle cose all’impalpabilità delle relazioni e delle informazioni. Questo si riflette nelle case in cui viviamo, nei regali che riceviamo e facciamo: sempre meno oggetti e sempre più viaggi, corsi di lingue, sedute in palestra… Pensiamo a quanti pochi oggetti acquistiamo “per la casa”, un po’ perché le case sono piccole e non si sa più dove mettere la “roba”; un po’ perché la roba ci interessa di meno. Ci interessa invece il laptop nelle varie forme piccole e grandi con le quali lo teniamo sul tavolo, in grembo o tra le mani: è quello la lampada di Aladino, il gonnellino di Eta Beta, la Wunderkammer della nostra vita. L’oggetto unico davvero indispensabile, in cui stanno dentro tutti i libri, i cd, i dvd, le informazioni, l’agenda e i giornali, il telefono e l’elenco del telefono, la televisione e la radio, la macchina fotografica, l’orologio, l’agenda, il calendario, il goniometro, la calcolatrice, il tasso di cambio, lo sportello bancario, l’ufficio postale e persino gli amici! È questo che ci tiene occupati le mani, gli occhi e la testa, il cuore e la mente. Poi è ovvio che serva poco altro. Forse una sedia ergonomica per evitare il mal di schiena delle lunghe sedute davanti allo schermo, ma ci sono ragazzi che compulsano i tasti sdraiati con la pancia sul cuscino o accoccolati sulla spiaggia e non hanno bisogno nemmeno della sedia. Uno dei vantaggi di questa tendenza è che probabilmente diminuirà la quantità di immondizia da smaltire, o forse si trasformerà e basta: aumenteranno per esempio i cumuli di capsule prodotti dai nuovi apparecchi di cui invece arrediamo sì le stanze, le nuove macchinette del caffè altamente inquinanti: un caffè una capsula, ma siamo matti? Ma chi smaltirà tutte quelle capsulette, George Clooney?

» di Francesca Rigotti; illustrazione di Mimmo Mendicino

Meno è più. Sottrarre per aggiungere. Alleggerirsi per liberarsi.


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Lungo il filo del colore

Lo si legge tutto d’un fiato come una storia avventurosa ricca

» illustrazione di Adriano Crivelli

» di Marisa Gorza

fondato su uno stile inimitabile, Tai si racconta sgranando i fatti di colpi di scena: è la storia di un eterno ragazzo (o meglio di un della storia, insieme alle vicende vissute con una disarmante e “bocia”) che ha attraversato il Novecento collezionando vittorie convincente naturalezza e con il sorriso ironico con cui ha semnello sport, successi planetari nella moda, pre affrontato le sfide dell’esistenza. Merito grandi soddisfazioni in famiglia. Si tratta di forse di una natura indipendente – ereditata un saggio autobiografico che contiene tutti dall’antenato pirata e dal padre “omo de mar”? gli elementi di un romanzo, talvolta pica– che alla rigidità della scuola ha sempre preferesco, certamente colorato ma soprattutto rito gli insegnamenti liberi dell’esperienza. Per dissacrante. questo lasciò Zara giovanissimo sospinto dalla Al centro, la vita di Ottavio Missoni, detto “falcata” inimitabile. Quando poi la Seconda Tai, che in occasione dei novant’anni (nasce guerra mondiale interruppe la carriera agonil’11 febbraio 1921 a Ragusa, oggi Dubrovnik) stica, si ritrovò in Africa e nella confusione del narra le sue memorie in un libro il cui titolo la fronte di El Alamein fu consegnato agli inglesi dice lunga: il filo di lana (che premonizione!) come “ospite di sua maestà”, presso cui restò che nel ’37, appena sedicenne, marcava il suo prigioniero per ben quattro anni. primo traguardo vincente come campione Al rientro in Italia lo aspettava il dramma italiano dei quattrocento metri. Nessuno dell’esilio forzato, condiviso con 360.000 dopo di lui ha più indossato così giovane la istriani e dalmati, costretti a lasciare le loro maglia della nazionale azzurra! Oppure il filo case, i luoghi del cuore e a ripartire da zero in Ottavio Missoni Paolo Scandaletti di lana, tanti fili, tanti gomitoli dai quali naun’altra città d’Italia, o in giro per il mondo. Una vita sul filo di lana scono le famose maglie e i tessuti che hanno Ed è a questi, senza un’ombra di retorica, che Rizzoli, 2011 scombussolato le regole dell’eleganza con Ottavio Missoni dedica il suo primo libro, i loro fantasmagorici e caleidoscopi giochi di forme e colori. a chi ha perso la vita nelle foibe, nelle deportazioni e nelle Grande atleta dai vari primati (defilatosi dagli stadi, ma non deprecate pulizie etniche. Senza mai abbandonare la bonaria e dallo sport), marito felice (taglia pure il traguardo dei 57 anni di nobile arte di non prendersi mai troppo sul serio e continuare matrimonio), creatore insieme alla moglie Rosita di un impero a essere Tai, per sempre e per tutti.


Mentre attorno si sgretolava il passato pezzo dopo pezzo, lui non si è mosso, è rimasto saldamente al suo posto, ultimo simbolo di un mondo ormai lontano. Forse si è un po’ emozionato e i suoi bracci, per un attimo, hanno tremato. Ma, anche se qualcuno avesse udito tintinnare le gocce di cristallo, avrebbe pensato soltanto a una corrente d’aria…

Luce in abito da sera Tendenze p. 46 | di Giorgia Reclari

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sontuoso ed enorme lampadario in vetro di Murano ha assistito qualche settimana fa alla svendita di tutti gli oggetti d’arredamento del Grand Hotel di Muralto. Un’epoca si è chiusa e un’altra si aprirà, con l’albergo completamente rinnovato. Ma lui, il lampadario, probabilmente farà ancora bella mostra di sé nell’atrio, intramontabile. Decorativo e imponente, un lampadario non passa mai inosservato, nemmeno quando è spento. Sta sospeso in posizione centrale e riempie lo spazio con la sua forte personalità. Simbolo di sfarzo ed eleganza, va esibito nei locali di rappresentanza, dove pubblico e privato si fondono: un atrio, un soggiorno, una sala da pranzo. Per secoli, dal Medioevo in poi, ha rappresentato un oggetto immancabile nelle dimore aristocratiche e alto borghesi, illuminando balli, assemblee e banchetti. Se il tradizionale chandelier è oggi ormai decisamente improponibile, esso non cessa però di ispirare designer e artisti, che ne hanno reinterpretato forma e funzione adattandolo alle nuove esigenze abitative.

Ne è un esempio l’ormai classico Artichoke, disegnato nel 1958 dal danese Paul Henningsen e prodotto da Louis Poulsen. A forma di carciofo, è composto da 72 “foglie” sovrapposte che in parte schermano in parte riflettono la luce, diffondendola in modo uniforme e armonioso. Sempre ispirato a forme organiche è Taraxacum (dal nome della pianta comunemente nota come “dente di leone”), creato nel 1988 da Achille Castiglioni per Flos. Con le sue 60 lampadine a incandescenza applicate intorno a un nucleo centrale, è una fonte di luce di forte impatto visivo, adatta a spazi di grandi dimensioni. Per chi invece ama le forme classiche, ma declinate in chiave moderna c’è Flûte, novità 2010 di Hangar Design Group per De Majo, realizzato in vetro soffiato, in uno stile veneziano rivisitato. Il fascino delle onnipresenti gocce di cristallo ha invece ispirato la creazione di Hope, di Luceplan, una sospensione progettata da Francisco Gomez Paz e Paolo Rizzatto e premiata nel 2010 con il prestigioso

“Red dot design Award”. Il lampadario classico, però, con la sovrabbondanza delle fonti di luce, rappresenta un po’ l’icona dello spreco energetico, in contrasto con le ultime tendenze che mirano al risparmio. Anche in questo campo c’è chi ha saputo conciliare le caratteristiche tradizionali con le nuove esigenze, come per Double C-Future, di Ingo Maurer: un lampadario hi-tech in vetro e alluminio che sfrutta l’innovativa tecnologia OLED. Composto di nove pannelli abbinati a quattro faretti led, è ancora in fase sperimentale e per ora è disponibile solo in edizione limitata. Vero simbolo di un cambio epocale – tutte le lampadine a incandescenza saranno sostituite con quelle a basso consumo nell’UE (Svizzera compresa) entro il 2012 – è invece What Watt?, suggestivo lampadario-scultura ideato da Tim Fischlock. Si tratta di una sfera dal diametro di un metro, composta da 1.243 lampadine ad incandescenza (spente) che circondano una fonte di luce LED.


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Astri gemelli

cancro

A partire dal 22 aprile gran movimento di pianeti in transito. Questa configurazione vi spingerà sempre di più ad agire in aiuto del prossimo. Sentimenti di abnegazione nei confronti della persona amata.

A partire dal 17 aprile la quadratura di Venere interesserà soprattutto i nati nella terza decade. Generalmente questo è un transito che non presenta particolari difficoltà. Mancanza di autodisciplina.

Grazie a Venere favorevole potrete condurre piacevolmente ogni attività grazie anche al clima di simpatia di cui vi sentirete circondati. Potranno sorgere problemi legali riconducibili al patrimonio familiare.

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Colpi di fulmine a partire dal 21 aprile. Grazie ai trigoni con Urano e Venere potrete aprire all’incredibile anche le porte del cuore. Attrazione verso una persona dalle caratteristiche assai particolari.

Scarso interesse per il lavoro tra il 17 e il 21 aprile. Mancanza di autodisciplina. Al momento siete troppo pigri per darvi da fare e portare a termine qualcosa di impegnativo. Siate più indulgenti in casa.

Marte, Mercurio e Giove in opposizione. Vi sentite molto infastiditi da tutto quello che potrebbe costituire un limite alla vostra libertà d’azione. Prudenza con le parole: possibili imprevisti sul lavoro.

Grazie a Venere di transito nella vostra quinta casa solare possibilità d’incontri. Rapporti tesi con collaboratori e soprattutto con i subalterni in ordine ai transiti in Ariete. Possibili vertenze legali.

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acquario

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Amori e colpi di fulmine per i nati nella prima decade. Attrazioni imperiose e improvviso aumento della libido. Cambiamenti professionali per i nati nella seconda decade. Opportunità da cogliere al volo.

Momento magico per la vita affettiva. Almeno fino al 21 aprile potrete infatti godere dei favori di Venere. Tesi invece i rapporti dei nati nella seconda decade in relazione ai forti transiti in Ariete e Bilancia.

Incontri e relazioni sociali al di fuori della routine. Anche nei divertimenti e nei passatempi cercate forme nuove di espressione. Novità per i nati nella seconda decade. Nuove opportunità professionali.

Sentimenti di concordia verso gli altri. Pigrizia e autoindulgenza di fronte al cibo. Spese voluttuarie e impegni finanziari per quanto riguarda la riorganizzazione della vostra casa. Bene la sessualità di coppia.

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Orizzontali 1. Un piccolo regnante • 10. La cerca il poeta • 11. Città francese • 12. Il mitico aviatore • 14. Associazione Sportiva • 15. Negazione • 16. Trionfare • 18. L’ultimo della nidiata • 20. Dittongo in Coira • 21. Consonanti in casa • 22. Feticcio • 23. La fine di Athos • 24. È complice dei ladri • 25. Capo etiope • 27. Epoca • 28. Quelle bianche son di pollame • 30. Lo era Catone • 32. Malta e Romania • 34. Consegnare • 35. L’associazione di Besomi • 36. Era in voga la pop • 37. La dea della speranza • 38. Mezza sala • 40. Svegliato • 42. Gola centrale • 43. Specialisti del settore • 44. Radiosi, esultanti • 45. Il Ticino sulle targhe • 46. Il Sodio del chimico • 47. Il figlio di Vespasiano • 49. Nome di donna • 50. Pittore francese.

8. L’ammiraglio di Alessandro Magno • 9. Indemoniata • 13. Ossigeno e Iodio • 17. NordOvest • 19. La figlia del Corsaro Nero • 25. Quasi uniche • 26. Società Nuoto • 28. Gentilezza, garbo • 29. Eretto, inamidato • 31. L’isola con Oristano • 33. Hanno lame taglienti • 35. Divider • 37. Patimento, fatica • 39. Il bel Delon • 41. Città termale belga • 48. La fine della Turandot.

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Verticali 1. Lo è Filippo d’Edimburgo • 2. Rimembrare • 3. Profonda, intima • 4. Un cetaceo • 5. I confini di Intragna • 6. Specificare, puntualizzare • 7. Articolo determinativo •

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» a cura di Elisabetta

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 17

ariete Facile irritabilità, o stati di rabbia fredda celati sotto la cenere. Se riuscirete a canalizzare correttamente ogni energia potrete eliminare qualunque avversario senza difficoltà. Tenete a freno l’orgoglio.

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6.4.2011 11:48 Uhr

Esposizioni a Basel, Biel/Bienne, Carouge, Chur, Contone, Crissier, Develier, Jona, KĂśniz, Kriens, Lugano, Olten, Sierre, St. Gallen, Thun, Winterthur e ZĂźrich. www.sanitastroesch.ch

Chiarezza fin dalla prima ora: cucine e bagni Sanitas Troesch.

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Ruf Lanz


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