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Ticinosette n° 19 13 maggio 2011
Agorà Le videocamere e la sicurezza delegata Arti Suoni brasiliani. La musica di João Letture L’arte del cantiere
DI
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Chiusura redazionale Venerdì 6 maggio
Editore
Teleradio 7 SA Muzzano
Direttore editoriale
Vitae Paolo Aureli
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4 8 9 10 12 37 44 45 46 47
STEFANO GUERRA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
TITO MANGIALAJO RANTZER . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GIANCARLO FORNASIER . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Levante Tra pacifismo e interventismo
Impressum
DI
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MARCO ALLONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
STEFANIA BRICCOLA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Reportage Zurigo. Vecchi amici
RACCONTO DI
Decalogo Non commettere atti impuri
DI
FABIO MARTINI; FOTO DI PETER KELLER . . . . . . . .
FRANCESCA RIGOTTI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendenze Smartphone. Sempre connessi
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CARLO GALBIATI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Redattore responsabile Fabio Martini
Coredattore
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Photo editor Reza Khatir
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Fotografia di Reza Khatir
“Com’è profondo il mare...” Osama Bin Laden è stato rintracciato e ucciso. Il mondo si è liberato del suo nemico numero uno e “l’età del Terrorismo” (forse) è finita. 11 settembre 2001–1. maggio 2011: dieci anni, tanti ne sono serviti per identificare, dare la caccia e uccidere l’ennesima incarnazione del Male che questo ultimo secolo di civiltà prima ha creato, poi ha nutrito e quindi fatto crescere in modo incontrollato. E infine, considerandolo (a giusta ragione, ci mancherebbe altro) un pericoloso Frankenstein fuori controllo, ha eliminato. È avvenuto alcuni anni or sono con Saddam Hussein; pochi giorni fa è giunta l’ora di Bin Laden. Prima di loro molti altri, e in un prossimo futuro toccherà al colonnello Gheddafi. Insomma, creare incarnazioni del Male è un esercizio che ci riesce assai bene. Forse dovremmo smetterla di esercitarci, rischiamo solo di migliorare ulteriormente. Ma ora è tempo di vittorie e sospiri di liberazione: siamo liberi, il volto del Male è stato segnato con una “X”, come il “Time Magazine” ha proposto in un suo recente speciale: “colpito e affondato”, nemmeno fossimo in una gigantesca e goliardica battaglia navale... Ora il mondo si è liberato di Osama Bin Laden, ora siamo tutti più liberi. E quello che qualcuno pare volerci far credere. Sarà, ma da che cosa? Intanto nell’epoca dell’immagine e della rappresentazione – elementi nutrizionali essenziali e sui quali la cultura occidentale da secoli sviluppa la propria identità – la comunità internazionale non ha fotogrammi (per ora almeno) sui quali fermarsi e riflettere. Lo stesso corpo del capo di al Qaeda è stato fatto sparire nell’oceano; “inumato”, “sepolto”, “nascosto”... il dibattito si è acceso anche su questo. È chiaro che conservarlo sarebbe stato scomodo per tutti (o quasi tutti): era come ritrovarsi in casa l’incarnazione più attuale “del nostro peggio” sulla quale meglio evitare di creare pericolosi simulacri.
“In mare” dunque: tutto ciò ricorda una pratica molto nota negli ambienti della malavita, quella secondo la quale in acqua è possibile far sparire di tutto, dai rifiuti altamente tossici ai corpi degli oppositori. L’esempio è pericoloso e fuori luogo? Lo è volutamente e la realtà – quella che ci viene raccontata – questo narra. Abbiamo fatto sparire un corpo. Lui ha terrorizzato per un decennio il nostro pianeta. Lui ha polverizzato migliaia di vittime a New York, a Londra, a Madrid, a Marrakesh. Lui non merita di avere una sepoltura. Umanamente comprensibile. Politicamente un po’ meno. Viviamo in società tecnolocizzate e abbiamo modelli comportamentali fra i più fantasiosi e disparati (anche loro “avanzati”?). Nonostante ciò, la fine di Osama Bin Laden sembra riportarci a un dimensione assai infantile e dove mancano quegli strumenti che ci dovrebbero permettere di elaborare un lutto collettivo, per mostruoso esso sia. Il presidente Obama – attenzione al lapsus “b” contro “s” dilagante – sostiene che è estremamente pericoloso mostrare le immagini del cadavere, in particolare per le risposte violente che questo scatenerebbe. Ma prima o poi i fotogrammi mancanti saranno di pubblico dominio e allora tutto assumerà una dimensione plausibile: “Ecco il corpo di un assassino. Lo abbiamo ucciso davanti alla sua famiglia. Non avevamo altra scelta” ci verrà detto e noi capiremo, da buoni adulti, che quella era “la scelta migliore”. Ma nel frattempo un altro Osama si sarà materializzato. Altre paure domineranno la scena politico-economica mondiale e giustificheremo nuove guerre accompagnate da “armi di distruzione di massa” che non hanno né nome, né dimora, né padrone. Sì, perché se il terrorista Osama Bin Laden oggi non esiste più, altrettanto non possiamo dire di ciò che lui (e non il suo corpo) incarna. “Com’è profondo il Male... com’è profondo...” Buona lettura, la Redazione
Le videocamere e la sicurezza delegata
4
I
l Ticino non è Londra, dove in una giornata vieni ripreso da centinaia di videocamere di sorveglianza. Però può capitare, per esempio, di finire nel raggio d’azione di una telecamera (vera o finta?) posta a guardia di un rustico sul sentiero che si addentra nella Valle di Cresciano. Può anche capitare che a Bellinzona un cartello ti avverta della presenza di una videocamera che vigila sugli addobbi natalizi in un giardino privato. E ancora: se entri oggi nella “vecchia Mendrisio”, puoi star certo che prima o poi incrocerai lo sguardo di almeno uno dei 36 occhi elettronici che scrutano buona parte del suo territorio. Per dire che la videosorveglianza è diventata ormai “un fenomeno urbano quotidiano, dalle grandi metropoli fino a Cimadera”1. Sì, perché anche il piccolo comune della Val Colla (poco più di 100 abitanti) ha il suo mini-impianto: una telecamera che dovrebbe dissuadere i non autorizzati dal prendersela con la barriera che regola l’accesso alla strada forestale per i monti...
I numeri Le videocamere di sorveglianza, pubbliche e private, sono spuntate come funghi anche in Svizzera. Nel 2004 il loro numero era (sotto) stimato a 40mila, cinque anni dopo si pensava che fossero circa 500mila2. Ma azzardare una stima globale è pressoché impossibile. Una statistica del genere non esiste nemmeno a livello ticinese, affermano all’ufficio dell’Incaricato cantonale della protezione dei dati. Si sa, comunque, che anche qui il numero di impianti è cresciuto negli ultimi anni. Dal febbraio 2007 al febbraio 2009, i comuni che si sono dotati di un regolamento e/o di un’ordinanza in materia sono passati da 10 a 26. Nel frattempo il loro numero è salito a 40 3. “Mister dati” Michele Albertini stima in 240 circa le videocamere attive nei comuni ticinesi, soprattutto a protezione di centri raccolta rifiuti, autosili e posteggi, edifici pubblici, piazze, strade e alcune scuole. Le videocamere di proprietà del cantone
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Agorà
La videosorveglianza va per la maggiore nei comuni. Anche in Ticino. Agile risposta al “bisogno di sicurezza” della popolazione, lo strumento è però tutt’altro che neutro: sdogana e persino alimenta un trasferimento di responsabilità dal pubblico al privato. Inoltre, genera problemi e costi spesso sottovalutati dagli enti locali recensite dai suoi collaboratori sono invece 52. A tutte queste vanno però sommati gli impianti di proprietà privata, in particolare quelli posti a sorveglianza di spazi a uso pubblico (banche, bancomat, grandi magazzini, ecc.): sono sicuramente centinaia, ma sfuggono a qualsiasi controllo statistico4. Ma i numeri, in sé, contano poco. Quel che ci interessa capire qui, invece, è che pure in una realtà piccola come la nostra, questi “oggetti banali che fanno parte del mobilio urbano e che non notiamo nemmeno più”5 sono la spia di dinamiche che di banale non hanno nulla. La videosorveglianza, infatti, è uno strumento tecnologico che sdogana e persino alimenta uno slittamento della frontiera tra pubblico e privato nel campo della sicurezza. Uno slittamento indice da un lato di un’incipiente, progressiva erosione della sfera di competenza degli enti pubblici in quest’ambito, dall’altro di un’estensione delle responsabilità delle ditte che forniscono la tecnologia e delle agenzie di sicurezza private, chiamate a volte a subentrare alla polizia nella gestione operativa degli impianti.
Dal pubblico ai privati Certo, a differenza di quanto avviene altrove, in Ticino sono (ancora) le polizie comunali a gestire – con la sempre più indispensabile consulenza specialistica delle ditte fornitrici – i principali impianti di videosorveglianza su suolo pubblico. Ma non è azzardato immaginare che presto anche a sud delle Alpi – per effetto della pressione convergente delle esigenze di bilancio degli enti pubblici, degli interessi delle aziende fornitrici e della stessa evoluzione tecnologica – la responsabilità di una sorveglianza vieppiù “tecnologicizzata” dello spazio pubblico venga a poco a poco trasferita da corpi di polizia (a corto di effettivi e non formati al riguardo), verso agenzie di sicurezza private. Agenzie non tenute a rispettare un codice etico, e che a loro volta avranno bisogno dei consigli di chi ha fornito loro videocamere,
Casi ticinesi Ma casi simili sono rari. A eccezione della pur importante questione della protezione dei dati (la cosiddetta tutela della privacy), la videosorveglianza solitamente non suscita dibattito a livello politico, e in genere è digerita senza grossi disturbi anche dalla sinistra istituzionale. In Ticino come altrove, appare un po’ a tutti come “un sistema che a costo ragionevole permette di ampliare le antenne che l’autorità ha sul territorio”8. I conti sono presto fatti: le prime 24 videocamere e la centrale operativa sono costate al comune di Mendrisio 550mila franchi, “pari al costo di circa cinque agenti di polizia per un anno, o se preferite pari al costo di circa un agente di polizia per cinque anni”, spiega il capo-dicastero sicurezza pubblica Silvio Pestelacci. Il municipale momò ricorda poi che, oltre ad “alcuni episodi di violenza isolati ma gravi” avvenuti nel centro storico, tra le altre ragioni che indussero cinque anni fa l’esecutivo di Mendrisio a sposare la soluzione della videosorveglianza, vi era anche “la prospettiva dello smantellamento del posto di gendarmeria”. Locarno si era ritrovato in una situazione simile a cavallo tra il 2003 e il 2004: di fronte a “due atti di violenza straordinari per l’epoca” e all’“esiguità degli effettivi del corpo di polizia comunale, alle prese col blocco degli effettivi”, il municipio optò per la videosorveglianza e progettò quello che a tutt’oggi è uno degli impianti pubblici più estesi in Ticino9. Ma la videosorveglianza non si limita a sdoganare una diminuzione della spesa pubblica nell’ambito della sicurezza.
L’installazione di videocamere su suolo pubblico risponde anche alle strategie di marketing territoriale promosse da alcuni enti locali, sempre piuttosto ansiosi di presentare a turisti e acquirenti luoghi dal volto pulito, ordinati e sicuri, dove consumare in tutta tranquillità. Non a caso tra i più ferventi sostenitori della videosorveglianza troviamo spesso le lobby dei commercianti. A Lugano, per esempio, quelli di via Nassa (il “salotto buono” della città, dove si concentrano i negozi di lusso) si sono fatti promotori assieme alla locale società commercianti di una rete di videocamere grazie alla quale chi è collegato può – in caso di movimenti sospetti all’interno del proprio negozio – premere un pulsante e inviare così l’allarme direttamente alla centrale operativa della Polizia comunale. A detta dei promotori, si tratterebbe di una “prima” a livello svizzero10. In un simile rapporto di forze, le aziende fornitrici di apparecchiature e sistemi informatici hanno gioco relativamente facile. Ammantato da dati e considerazioni “scientifiche”, il loro discorso gravita attorno alle ultimissime novità del mercato, ma spesso viene modulato per permettere anche a chi è rimasto fermo all’era dell’analogico (ormai un “segmento basso del mercato”) di “guardare avanti”. “Sicuramente la richiesta sarà forte. Sarà come con l’iPhone: c’era chi lo sottovalutava, adesso invece tutti lo vogliono”, affermava lo scorso novembre Eduard Lehmann, profondo conoscitore del mercato della videosorveglianza, in occasione della presentazione di una delle ultime novità in fatto di software a un folto parterre di municipali, funzionari di polizia, segretari e tecnici comunali invitati dalla Siemens a un “pomeriggio informativo” a Locarno.
Costi occulti Quello che le ditte attive sul mercato della videosorveglianza non dicono è che la posa di videocamere comporta dei costi occulti, che si protraggono ben oltre l’investimento iniziale, già di per sé ingente per enti locali quasi sempre alle prese con ristrettezze di bilancio. “Vale la pena, ma non bisogna pensare che sia una passeggiata. La videosorveglianza può avere un’influenza esorbitante dal punto di vista finanziario”, avverte Clemente Gramigna del Centro informatico del comune di Locarno. Mancanza di fondi e di personale avevano del resto già costretto il municipio della città sul Verbano a progettare un impianto che – a differenza di quello di Mendrisio – non prevedeva la visione in diretta delle immagini su schermo da
parte di un agente (e quindi per esempio nemmeno la possibilità per l’operatore di “zoomare” in tempo reale per visualizzare il numero di targa di un’auto sospetta), ma soltanto la possibilità di verificare le immagini una volta registrate. Inoltre, la gestione dell’impianto (44 videocamere in totale) si è rivelata estremamente onerosa, in particolare per quel che riguarda le riparazioni, l’ultima delle quali effettuata mesi fa, dopo che un fulmine caduto sulla Collegiata di Sant’Antonio aveva messo fuori uso due telecamere. Ma gli enti locali che si lanciano in un progetto di videosorveglianza non vanno incontro soltanto agli imprevisti della natura, a guasti o a inevitabili problemi logistici e informatici che richiedono aggiustamenti (e spese) costanti in due casi su tre11. Una delle insidie maggiori (e meno evidenti) nel ricorso alla videosorveglianza è legata alla logica stessa del progresso tecnologico: o meglio, all’evoluzione rapidissima del mercato, che obbliga gli enti pubblici – volenti o nolenti – a stare al passo, investendo a scadenze regolari nel rinnovo del proprio parco di videocamere e monitor e nell’adeguamento dei software. Come a Cologny, nel canton Ginevra, dove si calcola che entro due anni un terzo delle videocamere attualmente in funzione dovranno essere sostituite con modelli più moderni12. Note 1 Relazione di Michele Albertini, Incaricato cantonale della protezione dei dati, al pomeriggio informativo “La videosorveglianza su suolo pubblico” (Locarno, 17 novembre 2010). 2 Secondo una stima ritenuta plausibile da Eliane Schmid, portavoce dell’Incaricato federale della protezione dei dati e della trasparenza (Ifpdt), citata in “L’ingannevole sicurezza della videosorveglianza”, Swissinfo.ch, 20 luglio 2009. 3 I dati sono aggiornati a fine novembre 2010. 4 In quella che è la zona più videosorvegliata del Cantone, il centro di Lugano, a fine 2009 sono state recensite circa 180 videocamere, in buona parte private. Vedi “Carcere”, Ground Zero, #1, Lugano, dicembre 2009. 5 Frédéric Ocqueteau, sociologo del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) di Parigi, citato in “Vidéo-surveillance: 23’000 caméras équipent déjà 1’200 villes”, France-Soir, 3 giugno 2010. 6 “L’engrenage insoupçonné de la vidéosurveillance”, tsrinfo.ch, 15 settembre 2010. 7 “Plan-les-Ouates ne veut pas de vidéosurveillance”, Tribune de Genève, 26 settembre 2010. 8 Relazione di Silvio Pestelacci, capo-dicastero pubblica sicurezza del Comune di Mendrisio (v. nota 1). 9 Relazione di Clemente Gramigna, responsabile del Centro informatico del Comune di Locarno (vedi nota 1). 10 “Security Store, negozi del centro collegati con la Polizia”, “laRegioneTicino”, 27 dicembre 2010. 11 Stando a Valérie November del Politecnico federale di Losanna, specialista di videosorveglianza, citata in “L’engrenage insoupçonné de la vidéosurveillance”, cit. 12 Ibid.
» di Stefano Guerra
monitor, software e quant’altro… Nel canton Ginevra, questo scenario è già realtà. A Veyrier, l’estensione della “rete” di videocamere decisa dal municipio ha di fatto messo fuori gioco la polcomunale. Siccome i suoi agenti non possono lavorare in flusso continuo, la notte e i weekend, per visionare in tempo reale – come richiesto dalle autorità – le immagini riprese dalle telecamere poste a sorveglianza di un parcheggio di proprietà del comune, la gestione dell’impianto è stata affidata a un’agenzia privata.6 A Plan-les-Ouates, invece, una dinamica del genere la si è voluta disinnescare alla radice. A fine settembre, il suo consiglio comunale ha rinunciato (si tratta di una “prima” nel canton Ginevra) alla posa di videocamere di sorveglianza, preferendo verificare la possibilità di potenziare gli effettivi della polcomunale (due agenti in più) e di intercettare il disagio prima che si tramuti in delinquenza (assumendo un assistente sociale di strada)7.
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La musica di João Il prossimo 10 giugno il grande cantante e chitarrista brasiliano compirà ottant’anni. Ma chi è João Gilberto e perché ne vogliamo parlare?
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L’incontro con Tom Jobim La sua maestria fu notata a metà degli anni Cinquanta dal grande Tom Jobim, autore di alcune decine di canzoni memorabili. Jobim, che componeva in stile innovativo per l’epoca, stava cercando qualcuno che interpretasse al meglio le sue canzoni, che desse a quelle melodie la giusta luce. Pur stimandoli, era stanco dei cantanti allora in voga che si rifacevano per lo più ai crooner americani come Sinatra, Mel Tormè e simili. Pensava che per la sua musica ci volesse altro. E quest’altro fu proprio João, con il suo stile vocale scarno, appena sussurrato, senza vibrato, etereo ma energico al tempo stesso; con il suo modo nuovo di suonare la chitarra, diverso dalla maniera tradizionale di suonare il samba, la sua batida diferente come si dice in portoghese (a proposito: su precisa domanda di Boscoli, João
disse che aveva sviluppato il suo stile chitarristico ispirandosi al rumore/suono dei panni bagnati sbattuti dalle lavandaie al fiume sentito da bambino a Juazeiro...). Ma la cosa che impressionò più di tutte Jobim fu la totale indipendenza tra il canto e il ritmo tenuto dalla chitarra: mentre il modo di suonare di João accompagnando il canto è “roccioso”, metronomico, preciso, la voce sembra svincolata dalle mani. È come se João si sdoppiasse: una parte di lui suona e tiene il tempo in maniera impeccabile, l’altra canta anticipando o ritardando la melodia, dando così all’ascoltatore un senso di straniamento quasi ipnotico. In effetti João in concerto canta una canzone per intero due o tre volte di seguito, apparentemente senza grandi differenze tra una versione e l’altra, ma con impercettibili varianti melodiche che affascinano l’ascoltatore, sospendendo per qualche minuto lo scorrere del tempo. E si potrebbe ascoltare la stessa canzone per ore, catturati e stregati dalla sua arte. La Bossa Nova E così, quando Jobim incontra João nasce la Bossa Nova, fenomeno musicale e di costume indissolubilmente legato a Rio de Janeiro e a Ipanema in particolare, che ha illuminato il Brasile e il mondo per un decennio. Certo, Jobim e altri avrebbero comunque scritto grandi canzoni, ma il bahiano era l’uomo giusto al momento giusto, il musicista/cantante che fece scattare la scintilla. Tanto che quando negli Stati Uniti, i gringos, scoprirono la Bossa Nova, un grande del jazz come Stan Getz volle João al suo fianco per incidere l’album Desafinado, pietra miliare del jazz-bossa. Ma se volete ascoltare il vero Ipanema Sound, lasciate perdere i jazzisti americani e rivolgetevi piuttosto alle grandi incisioni di João della fine degli anni Cinquanta/primi anni Sessanta: canzoni come “Chega de Saudade”, “Desafinado”, “Outra vez”, “Rosa Morena”, “Saudade da Bahia” e tante altre, nelle classiche interpretazioni di João, sono di una bellezza travolgente e l’album João Gilberto, quello bianco del 1973, un capolavoro. Il cantante e compositore Caetano Veloso che nella sua canzone “Pra ninguém” omaggia citandoli tutti i più importanti cantanti della musica brasiliana dice: “Meglio di loro c’è solo il silenzio e meglio del silenzio c’è João”.
» di Tito Mangialajo Rantzer; imm. tratta da www.omm.de
Arti
João Gilberto Prado Pereira de Oliveira nasce a Juazeiro, cittadina dello stato di Bahia in Brasile, il 10 giugno del 1931. Fin da piccolo si dimostra interessato a una sola cosa: la musica. Intraprende così la professione di musicista, una scelta che lo porta presto a vivere e a lavorare sul finire degli anni Quaranta a Rio de Janeiro, allora capitale del Brasile. Il musicista bahiano entra nel gruppo “Garotos da Lua”, divenendone il leader e l’arrangiatore. Ma presto verrà cacciato per il suo carattere difficile. E qui si potrebbe parlare per ore e scrivere pagine di aneddoti legati al personaggio: Ronaldo Boscoli, uno dei padri della Bossa Nova, racconta nel suo libro di memorie Eles e eu che a metà anni Cinquanta condivideva un appartamento con João e altri. João aveva un ritmo di vita contrario a quello dei suoi coinquilini: dormiva di giorno, e di notte studiava e suonava la chitarra, restando anche ore e ore a provare una sequenza di accordi per eseguirla poi in maniera perfetta e automatica. Dormiva vestito su un divano, supino, con la cravatta sugli occhi e la chitarra sempre a portata di mano. Tutti contribuivano in qualche modo alla conduzione della casa, ma l’unica cosa che faceva João era comprare mandarini, frutto di cui era ghiotto. Questi e tanti altri racconti hanno contribuito a fare di lui un personaggio difficile e geniale al contempo.
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L’arte del cantiere
» di Giancarlo Fornasier
“Il contributo offerto da costoro (gli architetti e gli artefici pro- Se sulla storia dell’emigrazione artistica dalle Terre ticinesi verso venienti dalla Svizzera italiana) alla cultura architettonica e alla il resto d’Europa studi e saggi non mancano, questo volume di prassi edilizia russa non va tanto misurato, nel suo insieme, sul Nicola Navone si distingue innanzitutto per la brevità nei suoi piano dell’innovazione formale, dell’originalità capitoli e la chiarezza nel riassumere le vicende linguistica, quanto, piuttosto, su quello della storiche e personali di alcune delle maestranze perizia tecnica, della flessibilità operativa, della ticinesi che lavorarono in Russia. “Migraziocapacità di gestire cantieri di vaste dimensioni: ni qualificate” scrive l’autore, portatrici di (una) sollertia vitruviana, (una) «intelligenza un’esperienza maturata sul campo. L’esempio attiva, teoretica e pratica insieme» (...)”. di Placido Visconti, “costruttore sperimentato”, Nelle attività pratiche – in particolare quelle è sintomatico: partito nel 1784 verso il Baltico votate alla produzione di manufatti con accompagnato dal figlio Davide in seguito a precise caratteristiche funzionali – l’organizun contatto avuto attraverso un altro Visconti zazione all’interno della filiera produttiva (Santino), padre e figlio si troveranno a operare è fondamentale. Raramente vi è un buon in numerosi cantieri al servizio dell’architetto risultato senza ordine e metodo, pulizia e palladiano Giacomo Quarenghi (1744–1817). rigore, progettuale e costruttivo. In questo Quest’ultimo era molto attivo alla corte della senso il cantiere edile è un esempio fra i più Grande Caterina con decine di edifici in cormirabili: perché se in passato esso è stato so d’opera contemporaneamente. Si faceva Nicola Na Navone certamente “un laboratorio della versatilità” dunque necessaria la figura del “Capo MaeCostruire per gli zar. – si pensi ai metodi costruttivi medievali stro”, cioè di “una cerniera tra l’architetto, gli Architetti ticinesi in Russia e la loro vocazione al riuso di materiali e appaltatori, la manodopera”. I Visconti, come 1700–1850 Casagrande, 2010 tecniche –, sempre meno è diventato quelaltri, furono in grado di ricoprire questo ruolo, lo dell’improvvisazione. Solo l’esperienza, imponendosi per le loro qualità professionali infatti, permette la degna conclusione di un progetto, un e umane: “una commistione di perizia tecnica e abilità nell’organizaspetto che è cresciuto parallelamente sia alla complessità e zare il cantiere”, accompagnate da una preziosa rete di relazioni alla grandezza degli edifici sia ai tempi dettati dai committenti. familiari e professionali. Una “forza” già allora vincente.
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Tra pacifismo e interventismo Nel suo recente “La rivoluzione dei gelsomini”, Tahar Ben Jelloun ci offre un quadro della situazione generale del Medioriente. Lo scrittore marocchino traccia le linee essenziali della condizione dei popoli arabi prima e durante le rivoluzioni
Levante
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Dal Marocco allo Yemen, passando per i teatri di guerra della Libia, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria e dell’Algeria, lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun individua gli elementi cardinali che hanno motivato le sollevazioni popolari, ma non dimentica di muovere un severo appunto all’Occidente per la sua decennale disattenzione verso il mondo arabo. Soprattutto mette a nudo ossessioni e luoghi comuni del sentire europeo mostrandoci un’Europa perennemente terrorizzata dal possibile avvento di regimi islamici. Citando il sociologo Patrick Haenni in riferimento all’Egitto – ma il discorso è equivalente per tutto il Medioriente – ci ricorda che “l’organizzazione dei Fratelli musulmani non controlla la re-islamizzazione della società egiziana” e che i Fratelli musulmani sarebbero ormai superati da un “islamismo light che non è ossessionato dalla sharia né da uno sstato islamico”. Per le prossime elezioni parlamentari Haenni stima che i Fratelli musulmani raggiungeranno al massimo “una percentuale tra il 25 e il 30%” e con ogni probabilità “cambieranno e si divideranno. La grande lezione di queste due rivoluzioni, quella tunisina e quella egiziana, è l’irruzione di nuovi attori con nuovi modi di fare politica, che prendono in contropiede tutte le formazioni tradizionali, fondamentaliste e non”. Riprendendo la riflessione dell’analista egiziano Khalil Enani, Ben Jelloun precisa poi come “coloro che manifestano, la gioventù connessa con internet, hanno segnato una svolta nell’islamismo. Così come il regime, anche i Fratelli musulmani saranno toccati da questa rivoluzione. Per ora hanno prosperato grazie alla persecuzione del regime. Nel momento in cui non saranno più dei martiri, saranno meno attraenti”.1 L’influenza degli eserciti È fondamentale mettere in rilievo questo aspetto delle recenti rivoluzioni. Oltre a non poter essere assimilato allo sciismo
iraniano – che a Teheran promosse la Rivoluzione del 1979 inaugurando la teocrazia khomeinista proprio in virtù della struttura verticistica che sta alla base dello sciismo – il sunnismo e il relativo integralismo non ambiscono infatti a costruire stati religiosi ma al massimo a ritagliarsi un margine di partecipazione all’interno delle società post-rivoluzionarie. Semmai un problema più serio, rileva Ben Jelloun, è nella persistente influenza degli eserciti. E proprio questo retaggio di decenni di dittatura che dovremmo osservare con maggior attenzione – mettendo da parte l’ossessione di Al Qaeda e del fondamentalismo – se vogliamo capire fino a che punto le società mediorientali riusciranno a determinare le condizioni di una autonoma democrazia dal basso. “Se Mubarak e Ben Ali sono capitolati” annota Ben Jelloun “è perché l’esercito li ha obbligati; in Algeria, invece, è l’esercito a essere contestato e non cederà facilmente come in Egitto o in Tunisia”. Discorso che vale, tanto più, nella Siria del despota Bashar Al-Asad. La questione libica Quanto alla Libia, il problema è più complesso. Qui la questione investe, oltre alla spaccatura dell’esercito in due contrapposte fazioni – i lealisti e i rivoltosi – la questione del tribalismo. E il tribalismo rischia di riproporre scenari assimilabili a quelli dell’Afghanistan, dove le rivalità fra le diverse comunità hanno scatenato una guerra civile sulla quale ben poco ha potuto e può l’improvvido intervento militare occidentale. Ma la Libia pone anche l’annoso problema del pacifismo e dell’interventismo. Qui le posizioni sono giocoforza sfumate e difformi, pur all’interno di un condiviso sentire, ostile alla figura di Muhammar Gheddafi e alla sua quarantennale satrapia. Di recente ho avuto modo di partecipare a un di-
potenzialmente bombardiamo tutto il pianeta? Con questo ragionamento, la Spagna potrebbe decidere di bombardare la Sicilia perché c’è la mafia”. Più sfumata la posizione di Nichi Vendola, che all’intervento militare avvicenderebbe quella delle forze di interposizione Onu: “L’esperienza che abbiamo fatto in Libano dimostra che l’alternativa è possibile”. Rincara la dose Gianni Vattimo, affermando che “il Consiglio di Sicurezza è un organo non democratico e, più semplicemente, vetusto”, dunque illegittimato a intervenire in nome della protezione dei popoli oppressi. Ma proprio per queste diverse e “pacifistiche” posizioni mi piace concludere con una riflessione di Barbara Spinelli, che a mio avviso propone un’idea di realpolitik lontana tanto dall’interventismo interessato quanto dalle utopie del pacifismo: “Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda. L’Onu, nel 2005, su iniziativa di Kofi Annan, ha approvato il principio della «Reponsabilità di proteggere», le popolazioni minacciate dai propri regimi”. E conclude: “In Bosnia-Erzegovina, la no fly zone fra il ’93 e il ’95 non impedì il massacro di 8.000–10.000 musulmani di Srebrenica, città sotto tutela dell’Onu”. Il dibattito è complesso e aperto. Ed è assai arduo schierarsi senza dubbi e perplessità.
Utopia e Realpolitik In contrapposizione a posizioni come queste vanno comunque ricordate le ragioni del pacifismo. “Nessuno ha mai proposto una no fly zone in Cecenia” ricorda Massimo Fini, a cui fa eco Gino Strada con la domanda: “Che facciamo,
Note 1 Tahar Ben Jelloun, La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba, Bompiani, 2011 2 http://temi.repubblica.it/micromega-online/?s=dibattito+Libia 3 Marco Alloni, Ho vissuto la rivoluzione, Ariberti, 2011
» di Marco Alloni; fotografia di Reza Khatir
battito promosso dalla rivista “MicroMega” che ha dispiegato in tutte le sue possibili declinazioni il complesso problema della legittimità di un intervento armato in Libia 2. Le varie posizioni meritano di essere riportate poiché delineano la straordinaria difficoltà di assumere un atteggiamento unitario rispetto alla guerra in corso. Per non sottrarmi alla responsabilità di un giudizio, anticipo subito che faccio mia l’opinione di Mimmo Lombezzi, che si domanda: “Che senso ha evocare il «diritto di autodeterminazione dei popoli» di fronte a un gentiluomo che risponde alla prime dimostrazioni del suo popolo (in 40 anni) con le mitragliere?”. E ricordando il precedente del Kossovo rammenta: “Prima di scegliere la via della lotta armata gli albanesi del Kossovo lottarono per anni in modo assolutamente pacifico, ricambiati con una repressione spietata”. Avendo a mia volta ribadito questo concetto in un recente saggio3, non posso non aderire a tale assunto. Ma aggiungerei quello che afferma Daniel CohnBendit: “Ricordate Francia e Gran Bretagna del ‘36, che lasciarono sola la Repubblica spagnola contro Franco, Hitler e Mussolini?”. E aggiunge, contro il pacifismo di principio: “Gandhi vinse contro un imperialismo democratico, non contro un tiranno sanguinario pronto a sterminare il suo popolo. Spesso chi protesta nel mondo del benessere non s’immagina cosa sia vivere sotto dittatori come Gheddafi”.
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sul verde, sulla potatura e su come usare una motosega. Stare a trenta metri di altezza su un albero non è come essere fermi sulla roccia. Le piante si muovono, non sono monoliti. Quando si fanno degli abbattimenti si devono sopportare delle sollecitazioni forti. Per questo è necessario avere equilibrio e sangue freddo, conoscere il legno e le sue fibre. È fondamentale capire se una pianta è secca o è malata. Le nozioni di base sono necessarie poi ci si appoggia a dei fitopatologi. L’Armillaria Mellea è un grande nemico degli alberi che imperversa. Si tratta di una malattia letale che colpisce le piante Ogni albero è un essere vivente di cui alla radice e quando compare prendersi cura. È possibile unire l’amore è sempre troppo tardi. Il funverso la natura e la sfida dell’arrampi- go si alimenta dei tessuti del legno degenerandoli. Quando cata in una sola professione? Sì, se sei vediamo il chiodino spuntare un tree climber… dal terreno non c’è più niente da fare per la pianta. Considepicata sembra davvero manro l’albero un essere vivente a tutti gli effetti care qualcosa. Non si è più e come tale cerco di rispettarlo. Proprio per appagati dalla semplice cura questo il tree climbing utilizza delle tecniche di dell’albero, che può riguararrampicata in corda che permettono di essedare diversi aspetti, e manca re meno invasivi. Fino a vent’anni fa l’unil’emozione di lavorare a una co modo per raggiungere certe altezze sulle certa altezza. A me piace dire piante era l’utilizzo di cestelli e autogru con che quando vedo una pianta il rischio di compattare il terreno. Il tree climl’ho già potata prima ancora bing dà la possibilità di lavorare dall’interno di salire. Immagino già come verso l’esterno della pianta e di raggiungere apparirà dopo il mio lavoro e tutti i punti senza fare danni. Talvolta vado a individuo i tagli più imporscalare dei patriarchi verdi ultracentenari. Ho tanti da fare. La soddisfazione avuto la fortuna di arrampicare nel Mendrimaggiore consiste nel riporsiotto su tre sequoie tra le più longeve d’Eutare l’albero alla sua bellezza ropa nel parco di una residenza privata. Sono naturale cercando di valorizpiante di grande pregio ornamentale e storico zare il portamento che spesche si aggirano intorno ai duecentocinquanso viene rovinato dai rami ta anni. Sui tre esemplari di Sequoiadendron secchi o rotti. Per fare questo Giganteum siamo intervenuti in diversi modi lavoro non bisogna soffrire di con la potatura e la concimazione per aiutare vertigini e si deve avere granla ripresa vegetativa. Tra i lavori svolti ricorde passione per il verde che derò sempre quello sui patriarchi verdi delle porta a ragionare in modo Isole di Brissago che sono esemplari monucorretto sulla pianta. La posmentali di Eucalyptus Salicifolius, di Liquidamsibilità di muoversi in sicubar Stiraciflua e di Taxodium Disticum, quello rezza all’interno della chiocon le radici a mollo nell’acqua. Quando ci si ma dell’albero consente poi arrampica su piante simili si ha un approccio di intervenire in modo assai diverso. Sembra di restaurare un monumenpiù accurato. Vedo che molto e ci si sente responsabile di una bellezza ti ragazzi si avvicinano al tree da custodire e riconsegnare intatta. Il livelclimbing solo perché appassiolo di sicurezza raggiunto nel campo del tree nati di arrampicata. Questo climbing è buono, ma non ci si può fermare. non basta, perché quando si Da qui a vent’anni le tecniche di oggi sarantrovano a lavorare in pianta no obsolete. Ogni arrampicata è una scomdiventa tutto più difficile se messa. Ogni albero è un essere vivente di cui mancano i concetti di base prendersi cura.
Paolo Aureli
Vitae
l mio destino era già scritto nel giardino di casa, ancor prima di diventare tree climber. Mi sono avvicinato al verde proprio attraverso la potatura delle piante guardando mio padre. Lui mi ha trasmesso questa passione. Avevamo un frutteto e sin da bambino ho amato gli alberi, ho imparato a conoscerli e a tagliare i rami con cura. Da ragazzo ho capito che il verde era il mio mondo e i lavori manuali facevano per me. Non avrei mai potuto immaginare la mia vita al chiuso di un ufficio. Così mi sono diplomato in agraria alla Scuola di Minoprio specializzandomi in arboricoltura e in seguito ho frequentato un corso di taglio al Monte Ceneri. Solo da cinque anni uso le tecniche di arrampicata nella cura degli alberi. All’inizio mi ero buttato nella progettazione dei giardini lavorando come paesaggista in Ticino. A un certo punto non ero più appagato da questo lavoro e volevo cambiare indirizzo. Ho attraversato un momento di crisi profonda. Capivo che fare il paesaggista non mi dava più soddisfazione, tanto che facevo fatica ogni mattina ad affrontare il lavoro quotidiano. Tuttavia il mio mestiere non poteva che essere legato al verde perché non sapevo fare altro. Avevo già le basi del giardinaggio e anni di esperienza alle spalle, ma il concetto di potatura era dentro di me. Un bel giorno ho conosciuto dei tree climber professionisti che mi hanno insegnato le regole e i segreti di un mestiere che sento davvero mio. Cleto Bianchini e Paolo Ceschina mi hanno impartito le tecniche fondamentali, da come muoversi in pianta a come utilizzare le corde e i nodi, che poi ho perfezionato con Cesare Badila, prima mentore e oggi collega. Quando si entra in questo ambiente cresce l’attrazione per la scalata e per l’altezza da raggiungere. Si lavora sempre con grande adrenalina e appena viene meno l’arram-
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I
Vecchi amici racconto di Fabio Martini; fotografie di Peter Keller
1.
Lo chiamò a casa, una sera di febbraio. Moritz Liebman ne fu sorpreso. Stava cenando in solitudine davanti alla televisione. Non si sentivano da anni a parte un fugace incontro avvenuto tempo prima alla stazione di Zurigo. Karl Becker era in compagnia della moglie, una bella donna di origine ungherese, e per Moritz, fresco di divorzio, fu piuttosto imbarazzante. Cercò di tagliar corto evitando di dare spiegazioni, cosa non semplice visto che in passato le due coppie si erano frequentate. I Becker apparvero entrambi dispiaciuti ma evitarono di fare domande sulla sua ex moglie. Due anni prima avevano avuto un figlio, Paul, affidato in quel momento ai genitori di lui. Si stavano infatti concedendo una fuga romantica, così si erano espressi. Moritz si congedò in fretta ma compiuto qualche passo tornò a voltarsi e li osservò scomparire fra la folla. Sembravano felici. Poi più nulla fino a quella sera.
Veduta della città di Zurigo dalla Limmatquai
Dal tono quasi perentorio di quel possiamo vederci, per favore capì subito che Karl, per natura pacato, era nervoso. Moritz gli aveva proposto un incontro a pranzo per il giorno seguente ma l’amico insistette per vederlo subito. Mezz’ora dopo suonava alla porta. Pioveva a dirotto. Moritz lo fece accomodare e gli offrì un cognac. Karl rimase per un po’ in silenzio, seduto sul divano, l’impermeabile bagnato ancora addosso e gli occhi fissi sul liquore che faceva ondeggiare nel calice. “Sono in possesso di una lista… non clienti qualsiasi… leader politici, principi sauditi, industriali e personaggi di cui non so molto, e poi prestanome… sai di che parlo.” Moritz si lasciò andare sullo schienale e sorrise. “E questo che significa Karl… lavori in banca da quanto… almeno da vent’anni e ti sorprendi per un elenco. Noi tutti siamo pieni di elenchi, viviamo di elenchi, è la nostra specialità, è risaputo.” Karl si irrigidì.
Il corso della Limmat in corrispondenza del circolo canottieri. Sullo sfondo i due campanili del Grossmünster, l’antico duomo zurighese
“Non prendermi per stupido… credi che sarei venuto qui, così… come un pazzo, per raccontarti che ho una lista di evasori… per favore. Dici bene, sono ventidue anni che lavoro alla banca e questa è un’altra faccenda.” “E allora prova a spiegarmela.” Karl alzò lo sguardo e fissò brevemente Moritz negli occhi. “Sei la prima persona a cui ne parlo, non ne sa niente neanche Heléna… questi nomi non stanno da nessuna parte. È stato un caso… Koch ne ha fatto cenno con Herman Sauer… nel bagno. Pensavano non ci fosse nessuno. Hanno parlato di Icarus come si trattasse di un fondo. Sono io il responsabile dei fondi e non avevo mai sentito nulla in proposito… quindi volevo vederci chiaro. Dopo qualche settimana si è presentata l’occasione: Koch partiva per Singapore e ha lasciato che accedessi al suo computer. Ci ho messo un po’ ma alla fine l’ho trovata. Investono in tre settori, armi, minerario e farma-
ceutico… governi, persone fisiche, capi di stato, industriali… roba da non credere…” Moritz si alzò, andò in cucina e ritornò con il cestello del ghiaccio. Lasciò cadere due cubetti nel bicchiere. “E secondo te quale sarebbe la ragione di tanta segretezza? Voglio dire, la stessa cosa potevano farla in modo limpido, diciamo normale…” “I ricavi non tornano agli investitori ma sono dirottati su una società finanziaria delle Bahamas.” “E quindi?” “So solo che l’altra società che partecipa al gioco, quella che beneficia dei finanziamenti, si chiama Bioteckkna e si trova in Estonia. Non hanno un sito, non ve n’è traccia in internet… nessun indirizzo, nulla. Non so altro.” “Ma saranno cifre enormi?” “Ovvio, miliardi. La Bioteckkna ha le casse piene ma Dio solo
sa cosa fanno con tutti quei soldi. Certamente li reinvestono ma anche riguardo a questo non so nulla.” Rimasero per un po’ in silenzio lasciando che il ticchettio della pioggia riempisse la stanza. “Perché sei venuto a raccontarmi tutto questo?” “Voglio vendere la lista.” Moritz si sporse in avanti. Era allibito. Conosceva Karl come un uomo composto, preciso, dedito al lavoro, il tipico funzionario di alto livello destinato a una carriera brillante contrassegnata da passaggi ben calibrati. Una strada del tutto diversa dalla sua che si era barcamenato fino a costituire una propria finanziaria dalla quale peraltro operava all’ombra di colossi ben più imponenti. “Mi sembra un’enorme idiozia. Hai una posizione che moltissimi invidiano, uno stipendio coi fiocchi, una splendida moglie e ora un figlio… ma che ti viene in mente. Sei impazzito… E poi ti trasformerebbero in un reietto… Uno scandalo di proporzioni enormi… hai già violato tutte le norme possibili… probabilmente rischi la galera, nella migliore delle ipotesi, perché non voglio immaginare cosa potrebbe accaderti se…” “È per questo che sono qui,” lo interruppe Karl. Pronunciò queste parole con calma, rivelando un’intenzionalità che fino a quel momento a Moritz era sfuggita. Per la prima volta egli si chiese se l’amico con cui aveva condiviso parte degli studi e della gioventù fosse la stessa persona che ora gli sedeva davanti. “Stai scherzando? E dovrei essere io a compromettermi al tuo posto? È incredibile!” Moritz si alzò chiaramente irritato e restò in silenzio di fronte alla finestra. Scorgeva a mala pena la sagoma del lago che si stendeva poco più in basso. “Prova ad ascoltarmi Moritz…”, argomentò Becker, “tu sei un uomo libero, hai la tua società e casini seri non ne hai mai combinati. Sei considerato affidabile, forse un po’ strano, ma affidabile. E poi hai tante conoscenze, in tutti i settori. Quello che ne ricaviamo lo dividiamo a metà. Dobbiamo solo fare le mosse giuste… non siamo due cretini.” “Questo è tutto da dimostrare, visto che ho la pazienza di starti ad ascoltare.” Karl estrasse dalla giacca una chiavetta e l’appoggiò sul basso
tavolinetto di cristallo che divideva i due divani. Quindi si alzò, si avvicinò alla finestra e con il dito scrisse sul vetro velato dalla condensa tre parole: me lo devi. Moritz si passò una mano sugli occhi e annuì.
2.
Nelle settimane successive i contatti fra di loro furono frequenti anche se era chiaro a entrambi che la posizione di Karl non poteva essere compromessa. Per evitare di utilizzare telefoni, email e sms facevano riferimento a un loro conoscente, il vecchio Ebert, custode di un club di canottaggio lungo la sponda orientale della Limmat di cui entrambi in passato erano stati soci. Se Moritz voleva comunicare qualcosa a Karl o desiderava incontrarlo telefonava a Ebert che fungeva da tramite e viceversa. Una volta fissato il giorno e l’ora si trovavano lungo la Limmatquai o nel buio androne situato sotto il ponte di ferro che segnava il passaggio dal lago al fiume. All’inizio tutte quelle precauzioni gli erano parse un po’ esagerate anche se la situazione tutto sommato lo eccitava. Ma col passare dei giorni e con la maggiore consapevolezza del valore di Icarus, una sorda inquietudine crebbe in lui, amplificando i timori e la sua circospezione. Per strada aveva iniziato a voltarsi di colpo a controllare se qualcuno lo stesse seguendo e verificava sempre che in prossimità della sua abitazione non fossero posteggiate macchine sospette. In realtà non aveva notato nulla di anormale. Insieme a Karl avevano studiato con attenzione la lista evidenziando quali paesi, gruppi o aree geografiche risultavano maggiormente coinvolte e quali invece non comparivano del tutto. Moritz notò che Israele non era presente in alcun modo. Nessuna personalità, nessun possibile riferimento. Fu una considerazione tutto sommato naturale, forse perché sua madre era ebrea e viveva a Tel Aviv da alcuni anni o forse perché lui stesso aveva numerose conoscenze nella comunità ebraica della Svizzera tedesca. Karl trovò l’osservazione illuminante: “Ma noi qui abbiamo politici siriani, libanesi e sauditi… non può non interessargli. Secondo me andiamo a colpo sicuro.” La mattina seguente, dal proprio ufficio, Moritz chiamò David Ben Cohen, un vecchio amico di famiglia. Cohen, che viveva non lontano da Zurigo, era stato un importante uomo d’affari ora in pensione. Si diedero appuntamento in un ristorante del
Il passaggio al di sotto del primo ponte sulla Limmat nel punto di incontro con il lago di Zurigo
centro. Moritz spiegò per sommi capi la situazione parlando di sé come di un semplice intermediario ed enfatizzando la presenza nella lista di figure appartenenti al mondo mediorientale. Ben, il cui volto contrassegnato da due folte sopracciglia trasmetteva qualcosa di arcaico e patriarcale, fu come sempre affabile e premuroso e promise di interessarsi alla faccenda. Suggerì però a Moritz di muoversi con estrema cautela “perché potevano esserci delle brutte sorprese” e non doveva dare dispiaceri a sua madre. Qualche giorno dopo Moritz ricevette una telefonata in ufficio. “Mi chiamo Mosè Amit. Un comune amico mi riferisce che lei desidera incontrarmi?” “Sì, infatti. Ho una questione da proporle…” “Una questione… speravo in meglio?” “Sì, mi scusi. In realtà è una proposta d’affari.” “Bene. Allora, come lei immagina ho bisogno di verificare la validità del prodotto, un assaggio. Inoltre, la pregherei di non lesinare… è preferibile non andare troppo per le lunghe. Lei concorderà…” Moritz si aspettava una richiesta del genere e confermò.
La scalinata e una delle torri del castello di Rapperswil
Gli isolotti di Ufenau e Lützelau, ancora oggi di proprietà del convento benedettino di Einsiedeln, fotografati dalla penisola di Hurden
L’appuntamento venne fissato dal signor Amit per il primo pomeriggio del giorno seguente presso l’ingresso del castello di Rapperswil. Moritz trascorse la serata a casa, in preda al nervosismo. Controllò e ricontrollò l’estratto che lui e Karl avevano redatto nei giorni precedenti in vista dell’eventuale abboccamento. Lo rifinì ulteriormente, con l’idea di renderlo il più appetibile possibile ma al contempo cercando di trasmettere il valore che Icarus rivestiva sul piano internazionale. Ogni tanto dava un’occhiata alla strada e verso le undici uscì col cane, un piccolo terrier di nome Franz. La via era deserta e non notò né macchine con occupanti che fumavano, né furgoni con strane antenne. “Paranoie da film” pensò, sforzandosi di recuperare un po’ di tranquillità.
3.
Partì verso le dieci, con notevole anticipo e si avviò lungo la strada che da Kilchberg corre verso sud-est costeggiando il lago in direzione di Freienbach. Nonostante la fine di febbraio fosse prossima, la buona stagione tardava a farsi sentire. Da giorni incombeva un cielo plumbeo che qua e là lasciava filtrare qualche timido raggio di sole.
Un paio di volte fermò la macchina e si sedette a osservare l’acqua immobile per l’assenza di vento. Pensò a Karl e a quanto in fondo fossero simili, alla cupa insoddisfazione per la vita che entrambi condividevano e che era all’origine della situazione a cui avevano dato avvio. Cosa cercavano? Cosa avrebbero ottenuto? Probabilmente del denaro, forse molto denaro che personalmente avrebbe speso senza un preciso scopo. I viaggi non lo interessavano, soprattutto ora che Marlene se n’era andata. Forse una macchina sportiva o un appartamento nuovo… nulla comunque che potesse condividere con una donna. Era stato un divorzio senza discussioni, senza litigi. La relazione si era semplicemente interrotta, come si spegne la luce premendo un pulsante. Il senso di vuoto che da tempo li abitava era infine deflagrato e con composta cortesia si erano allontanati l’uno dall’altra. Nessun ripensamento, nessun contrasto economico, nessun tentativo di recuperare una sessualità mai realmente sentita. “Una separazione esemplare”, aveva commentato l’avvocato a cui si erano rivolti. Tutto era andato liscio, esattamente come quel giorno la superficie del lago, nelle cui acque profonde era nascosto il segreto che da decenni lo legava a Karl. Una tragica casualità, una scelta, una perdita. Si poteva davvero riassumere tutto in tre parole, proprio come aveva fatto Karl quella sera… me lo devi. Si fermò a mangiare un panino lungo la strada e subito dopo raggiunse Rapperswil, località che conosceva bene. Posteggiò vicino al convento dei Cappuccini e a piedi raggiunse il castello. Appena arrivato, un uomo magro, sulla sessantina, dall’aria nervosa, gli venne incontro. Sembrava un pensionato qualsiasi infagottato nel suo giaccone scuro e nei pantaloni di velluto grigio. Lo invitò a salire su una Golf, anch’essa grigia. Moritz notò la presenza di una coppia che armeggiava intorno a una macchina fotografica. Incrociò i loro sguardi. Lei era bella, con i capelli biondo cenere che le scendevano fino alle spalle. Una volta a bordo Amit si presentò e gli strinse energicamente la mano, dopo di che accese un piccolo portatile. “Eccoci, allora vediamo il prodotto…” Moritz gli passò una chiavetta. L’uomo iniziò a sfogliare i file. Trascorsero circa dieci minuti di assoluto silenzio. All’interno della Golf si avvertiva l’odore di sigarette francesi. La coppia era salita in cima alle scale, fin sotto alla torre dell’orologio e scattavano fotografie mettendosi in pose ridicole. Finalmente Amit estrasse la chiavetta, la mise in una tasca del giaccone e ripose il piccolo computer. “Bene, a una prima occhiata sembra un prodotto interessante. Mi dia qualche giorno e le farò avere una risposta. Se affermativa sarà accompagnata anche da un’offerta. Cosa ne pensa? Le sembra una proposta accettabile?” “Sì, certo, mi pare vada bene.” “Lei opera da solo o…” “Assolutamente no. Sarebbe imprudente, non pensa?” “Può anche darsi il contrario. È indispensabile potersi fidare…” “Che intende dire?” “Niente. Solo questo… questo è materiale pericoloso, e bisogna essere sicuri di chi si ha alle spalle. Spero ci abbia riflettuto.” Moritz avvertì qualcosa di minaccioso nelle parole dell’uomo e ne fu infastidito. “Buona sera, signor Amit.” Scese dall’auto e si avviò verso il posteggio. Sentì alle sue spalle il motore accendersi e la macchina allontanarsi. Dei due innamorati non vi era più traccia.
Una capanna di pescatori; sullo sfondo le Alpi
4.
“Sei stato magnifico, davvero… e andrà tutto per il meglio, vedrai. Ti ho portato le carte da firmare per il conto che ho aperto presso una banca di Montevideo. Li conosco e non ci sono problemi. Domani mi daranno gli estremi che ti farò avere.” Erano seduti in piena notte davanti a una stufa accesa all’interno di uno dei locali del club di canottaggio. Ebert si trovava nella stanza accanto e ascoltava musica lirica alla radio. Moritz firmò le carte. Karl era eccitato e continuava a parlare nervosamente forse per nascondere l’ansia. “Se confermano, dovrà esserci un terzo incontro. Tu andrai con un portatile. Appena io vedrò che il versamento è stato effettuato ti farai accompagnare al più vicino ufficio postale dove avrai in precedenza depositato la chiavetta. Non è complicato…” “Mi pare che tu corra un po’ troppo Karl. Potrebbero dirci che non se ne fa nulla o proporci una cifra ridicola e allora che si fa? Siamo già sputtanati, questo è un fatto.” “No. Icarus ha un valore immenso. Non possono non rendersene conto e se rifiutassero potrebbero rimetterci un bel po’.” Una volta usciti, intorno a mezzanotte, camminarono fianco a fianco lungo la Limmatquai. Karl era ora silenzioso e Moritz colse l’occasione per porgli la domanda che covava da tempo. “Perché quel giorno salvasti me e non Helga? Visto che sei stato tu a tirare fuori la faccenda, vorrei saperlo.” “Lei era agganciata al trapezio e il cavo si era attorcigliato alle sartie. Io, credo inconsapevolmente, feci la scelta più logica. Mi bastò afferrarti per le ascelle per tirarti fuori. L’acqua era fredda, davvero fredda…”
“L’immagine di lei che lotta per districarsi mi ha segnato l’esistenza. Non la dimenticherò mai” “Anche per me fu doloroso. Era bella e un po’ ti invidiavo. Sono solo fantasmi ormai. Te ne devi liberare... non esiste più nulla di quel tempo.” Certo, ma ora sono qui a saldare il mio debito, pensò Moritz fra sé. Subito dopo si separarono. Trascorse quasi una settimana prima che il signor Amit si rifacesse vivo. Lo chiamò di prima mattina. “Ho una proposta per lei. Ci vediamo oggi nel pomeriggio al Pfäffikersee. Segua le indicazioni per Aathal e da lì continui risalendo il lago in senso antiorario. La terza strada a sinistra la condurrà a un piccolo molo in legno. Ci vediamo lì, alle tre.” Moritz prese nota. Volle avvertire subito Karl e per la prima volta dalla sera in cui era venuto a trovarlo a casa chiamò direttamente sul suo cellulare ma non ricevette risposta. Telefonò allora in banca. “Il signor Becker oggi non è al lavoro. Credo sia indisposto,” rispose la segretaria. “Provi a chiamare domani mattina.” Moritz fu tentato di comporre il numero di telefono di casa ma, nonostante fosse piuttosto preoccupato – non aveva più notizie dall’incontro nella casupola di Ebert –, desistette. Dopo aver pranzato in una caffetteria del centro, ritirò la macchina dal garage e si avviò in direzione di Wetzikon. Per la prima volta ebbe la certezza di essere seguito: all’altezza dell’aeroporto militare iniziò a notare un’Audi nera che lo tallonava a distanza. Provò ad accelerare ma la macchina misteriosa non lo mollava. Pensò che fosse prassi normale,
Un piccolo pontile affacciato sulle acque del Pfäffikersee
che forse volevano solo controllare se stava seguendo le indicazioni di Amit; poi gli venne in mente Karl e fu preso dal panico. Decise di accostare: mise la freccia e si fermò sulla destra. La macchina lo superò ed egli attese qualche minuto prima di ripartire. Il viaggio fino ad Aathal proseguì senza altri intoppi. Seguì le indicazioni di Amit e trovò senza difficoltà il piccolo pontile. Era un bel luogo, adatto a un pomeriggio romantico in compagnia di una donna. Lo percorse tutto e si sedette con i piedi penzoloni che sfioravano l’acqua. Il sole aveva intiepidito l’aria e si percepiva un sentore di primavera nel vento che piegava gentilmente le canne. Si stese supino e stava quasi per appisolarsi quando avvertì il rumore di passi che percorrevano il pontile. Si alzò di scatto e riconobbe la coppia che aveva visto a Rapperswil. Procedevano verso di lui e l’uomo teneva in mano una pistola. “Signor Liebman è armato?” chiese l’uomo. “No, ma voi cosa volete? E poi è lei ad avere una pistola?” “Venga verso di noi, per favore!” Moritz mosse qualche passo. La donna si avvicinò e lo perquisì. Poteva sentire il suo profumo. “Mi segua, il signor Amit desidera parlarle,” disse l’uomo. Procedettero in fila indiana fino a un grosso fuoristrada posteggiato non lontano dalla sua automobile. L’uomo aprì la portiera posteriore e lo invitò a salire. Si trovò accanto ad Amit che stavolta indossava un’elegante giacca sportiva e una cravatta di lana. “Buonasera signor Liebman. Perdoni la brutalità del mio collega, ma la situazione è piuttosto cambiata. Innanzitutto non abbiamo più bisogno del prodotto per il semplice fatto
che ne siamo già in possesso. Devo poi darle una notizia che certamente la rattristerà. Il suo socio, il signor Karl Becker, si è suicidato questa notte nella sua auto con il monossido di carbonio. Lo hanno trovato nello Zürichberg. Non ha lasciato lettere, solo un breve messaggio di addio alla moglie.” Moritz avvertì l’impulso di uscire dalla macchina e fuggire ma le gambe erano come paralizzate. Amit avvertì la sua tensione. “Guardi che da noi non ha nulla da temere, signor Liebman. Le abbiamo salvato la vita. Lei si è cacciato in un brutto guaio che rischiava di finire male, veramente molto male. Becker aveva perso la testa e soprattutto navigava in un mare di debiti. A chi crede fosse intestato il conto aperto a Montevideo? Lei, per Becker, era soltanto una pedina, sacrificabile alla prima occasione. Per quanto ci riguarda, abbiamo ottenuto il massimo risultato con il minimo sforzo e posso solo ringraziarla. In fondo l’idea di contattarci è stata sua... o mi sbaglio? Ora si rilassi, torni alla sua vita, al suo Franz, un bel cane, per inciso… Ah, un’ultima cosa. Dia un colpo di telefono a Ben Cohen, è il suo angelo custode… lei ora ha un debito con lui. E mi raccomando, appena possibile torni a Tel Aviv a trovare sua madre. Direi che è tutto. Stia bene, signor Liebman. Mazel tov.” Rimasto solo Moritz tornò sul pontile e si stese al sole. L’aria stava raffreddando ma il calore dei raggi riusciva ancora a scaldare il suo corpo. Non pensava a nulla, ma sentiva crescere dentro di sé un moto di commozione, un misto di riconoscenza e liberazione. E poi pensò a Karl, al loro segreto e si accorse, nonostante tutto, di volergli bene.
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Non commettere atti impuri “Non commettere atti che non siano puri cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l’ami, così sarai uomo di fede: poi la voglia svanisce ed il figlio rimane e tanti ne uccide la fame. Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore, ma non ho creato dolore”
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Il caso dell’attribuzione del cognome come violazione del diritto di parità Anche oggi del resto permettiamo che soltanto sui documenti delle donne come sulle loro tombe sia scritto “coniugata Tal dei Tali” o “vedova Tizio e Sempronio”, in palese violazione delle carte dei diritti e dei principi fondamentali degli Stati che predicano la non discriminazione, la giustizia, la solidarietà e la parità tra donne e uomini. In caso di matrimonio, in Svizzera il cognome dell’uomo viene attribuito a entrambi i coniugi; in Italia la donna aggiunge il cognome del marito al proprio, l’uomo conserva il suo. Nei due paesi i figli assumono il cognome dell’uomo, privando le donne del diritto di trasmettere il proprio, e non è poca cosa. In Germania, invece, una recente disposizione richiede che al momento delle nozze i coniugi scelgano insieme, tra quello di lui e quello di lei oppure mettendoli insieme, un cognome comune a loro e ai figli. Adulterio e poliginia Nell’antico Israele, per tornare ai tempi di una volta, vigeva la struttura matrimoniale di tipo poliginico (cioè, molte donne per un uomo; dunque non poligamico, che significa genericamente “molte nozze”), nella quale l’uomo aveva diritto a ulteriori spose ma anche a rapporti con prostitute
e schiave (le quali subivano, e subiranno ancora per tutto il Medioevo, la pratica della mutilazione genitale femminile). Il comandamento indirizzato all’uomo, sposato o no, di non avere rapporti con donne maritate o legalmente fidanzate – le quali in caso di adulterio erano punite con la morte – aveva soprattutto il senso di garantire la legittimità della prole e il mantenimento della famiglia e delle sue proprietà. La masturbazione al primo posto Tutto quel che seguì fu interpretazione da parte della chiesa, che intervenne a modificare e ad ampliare il logo originario, trasformandolo nell’indicazione di valore della castità intesa come “padronanza” della persona per quanto riguarda il comportamento sessuale. Così, tra i peccati gravemente contrari alla castità vengono indicati “la masturbazione, la fornicazione, la pornografia e le pratiche omosessuali” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2396). La masturbazione al primo posto, come correttamente canta Fabrizio De André nella sua “Testamento di Tito”: “Non commettere atti che non siano puri cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l’ami, così sarai uomo di fede” (da notare che anche De André rivolge il suo precetto agli uomini, tanto per dimostrare che i pregiudizi sono duri a morire).
» di Francesca Rigotti; illustrazione di Mimmo Mendicino
Decalogo
Non commettere adulterio Ai tempi di Gesù le tavole della legge ebraica – e Gesù era ebreo – in fatto di comportamento sessuale prescrivevano esclusivamente di “non commettere adulterio”, oltre che di “non desiderare la donna d’altri”. Essendo il decalogo rivolto in origine, come sappiamo, agli uomini, il comando prescrive semplicemente a sposati e celibatari di non violare i matrimoni altrui. Proibita è dunque la relazione con una donna sposata o fidanzata, già possesso di qualcun altro. In senso stretto soltanto la donna può rompere il proprio legame matrimoniale; l’uomo solo quello altrui. E soltanto nel caso della donna è resa esplicita l’indicazione del fatto di essere sposata (o legalmente fidanzata).
E la fornicazione? Segue la fornicazione; e lì la nostra fantasia di bambini si scatenava a immaginare che cosa significasse quella parola strana con la n al posto della m, giacché le formiche e la fòrmica del tavolo di cucina la conoscevamo, ma quell’altra cosa no. Poi capimmo che veniva da fornix – termine latino per “bordello” – e che indicava quindi il peccato di lussuria che commettono tanto per cambiare gli uomini quando si accompagnano a prostitute. Pornografia e pratiche omosessuali chiudono la rassegna dei peccati che per la chiesa cattolica violano il sesto comandamento, non senza che vengano ricordate le gravi offese alla dignità del matrimonio: l’adulterio, che qui ritorna ma in posizione subordinata, il divorzio, la poligamia e la libera unione. E chi è senza peccato…
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Anche a metà mese, grazie al transito di Giove, continua la cavalcata trionfale verso la luce. Felici intuizioni per quanto riguarda gli investimenti. Acquisti in favore di amici, figli o in prodotti di bellezza.
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Dal 16 maggio, con l’ingresso di Mercurio e Venere, accompagnati da Marte la musica cambia per i nati nella prima decade. Nuove opportunità sentimentali, incontri e idee. È consigliabile farsi gli affari propri.
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Marte e Venere passionali e travolgenti per i nati nella prima decade. Sessualità ed eros alle stelle. Opportunità professionali e promozioni sul lavoro per i nati nella terza decade. Riconoscimenti pubblici.
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» a cura di Elisabetta
ariete
SMARTPHONE
SEMPRE
CONNESSI
Oggi lo smartphone non è più un costosissimo oggetto dedicato alla comunicazione d’affari ma un vero e proprio centro d’intrattenimento multimediale che ci permette la connessione a internet in mobilità a costi accessibili Tendenze p. 46 | di Carlo Galbiati
Smartphone… una parola forse ancora un po’ misteriosa ma destinata presto a svelarsi nell’uso quotidiano di ciascuno di noi. Innanzitutto, a differenziare uno smartphone da un cellulare di ultima generazione è la presenza di un sistema operativo che rende questi dispositivi dei veri e propri minicomputer su cui è possibile installare applicativi (in gergo app) in grado di accrescere le funzionalità o migliorare quelle già presenti. Rispetto a un moderno cellulare è dunque possibile navigare in internet aumentando o diminuendo l’ingrandimento della pagina web visualizzata. L’ampio schermo, che in alcuni modelli arriva fino a 4,5 pollici di dimensione, permette di scrivere mediante una tastiera Qwerty virtuale senza dimenticare che modelli come i Blackberry sono dotati anche di tastiera fisica. Altro aspetto importante che sta facendo da volano alla vendita degli smartphone è il supporto per le chat e i social network: con uno smartphone avete i client ufficiali per accedere a Facebook, Twitter, Foursquare, ecc. mentre con i normali cellulari dovete accontentarvi di client con funzioni limitate. Ogni famiglia di smartphone ha le sue applicazioni realizzate per un particolare sistema operativo: un’applicazione per iPhone ovviamente non gira su un dispositivo di altra marca anche se esistono applicazioni disponibili in versioni differenti adatte per ogni sistema operativo. È proprio il business generato dalla vendita delle applicazioni a rappresentare l’elemento interessante sul piano del mercato. Adottando un particolare modello di smartphone “si sposa” infatti un vero e proprio “ecosistema” costituito dal terminale stesso, dal suo sistema operativo e dal market delle applicazioni. Sull’App Store, il market di Apple, per esempio, sono disponibili circa 400.000 applicazioni. Per molte persone l’iPhone 4 rappresenta lo smartphone per eccellenza dato che è diventato un vero e proprio status symbol nonostante il prezzo di vendita elevato (769 franchi per il modello con 16 GB di memoria). Il sistema operativo iOS dell’iPhone è adottato anche dal tablet iPad e questo permette di utilizzare le applicazioni presenti sull’App Store su entrambi i dispositivi. Fra le numerose funzionalità dell’iPhone 4, due sono di particolare interesse: Air Play, che permette di fruire dei file musicali e dei video presenti nel vostro PC, e la possibilità di eseguire foto HDR (High Dynamic Range) con la fotocamera
integrata. Questa tecnica fotografica permette di scattare tre fotografie in rapida successione a diversa esposizione e le combina automaticamente per creare una nuova fotografia tramite un software di fotoritocco (Photoshop). L’iPhone oltre a scattare le tre fotografie necessarie le elabora direttamente e il risultato è una bella foto con dettagli in tutte le zone tonali. Android è un sistema operativo open source per dispositivi mobili acquisito da Google. Adottato da molti produttori di smartphone (HTC, Motorola, Sony Ericsson, Samsung, LG e altri) ha visto le sue vendite crescere vertiginosamente. Rispetto a un sistema chiuso come iOS è totalmente configurabile e ogni produttore sceglie la propria combinazione di comandi e di aspetto grafico. C’è da dire che non tutti i produttori di terminali seguono Google nella sua politica di aggiornamento e le applicazioni per Android devono prevedere una differenziazione per le diverse versioni di sistema operativo (Android 2.2 e 2.3 per gli smartphone e Android 3.0 per i tablet). Di base su ogni smartphone Android sono installate tre applicazioni: un browser, una rubrica e un calendario. Caratterizzati da una tastiera fisica, i BlackBerry, indirizzati soprattutto a un’utenza business, hanno notevolmente migliorato il supporto multimediale introducendo anch’essi l’uso in modalità touch. Utilizzano il sistema operativo BlackBerry OS giunto alla versione 6.0 e hanno un market per le applicazioni in forte crescita, sebbene quelle disponibili siano solo 18.000. Gli smartphone Nokia, produttore finlandese, usano il sistema operativo Symbian (in via di sostituzione con Windows Phone 7), supportano Flash e grazie all’applicazione Home Media permettono di accedere alle librerie (audio, foto, video) presenti sui PC. Molto importante è la disponibilità di Ovi Maps (le mappe di navigazione) che possono essere scaricate gratuitamente. Il fatto che le mappe siano residenti nel cellulare consente la navigazione GPS senza connessione alla rete 3G: un aspetto utile quando si è all’estero dove i costi del roaming, cioè il passaggio automatico da una rete all’altra, possono essere elevati. Il problema di Nokia è stata la perdita d’importanti quote di mercato; inoltre, molti analisti dubitano che l’azienda scandinava possa riprendersi: gli smartphone basati sui sistemi operativi Microsoft, Windows Mobile prima e Windows Phone 7 almeno per ora, non hanno infatti riscosso grande successo.
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