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I COSTI E GLI APPALTI

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Il cacciatore

l Commissario Volpe, in piedi nel bel mezzo dell’idilliaco prato fiorito, aspirò la fresca aria di montagna. Davanti a lui, attorniato dalle margherite, c’era il corpo senza vita di un cacciatore. Distante appena 100 metri era stato rinvenuto un camoscio morto. L’esperto commissario comprese subito che il cacciatore era morto già da tempo, tuttavia non riscontrò alcuna ferita sul corpo. Niente faceva pensare a un omicidio o a un suicidio. Volpe fece scorrere lo sguardo sulla cima rocciosa e improvvisamente ebbe un’ispirazione: «Ora mi è chiaro come è morto il cacciatore» pensò «a causa di »

Il potere esclusivo dell’inserzione.

L’interattività è solo uno dei molti vantaggi delle inserzioni presentate da Manuel Rohrer e Patrick Ryffel dell’agenzia pubblicitaria Contexta. Un’iniziativa di Stampa svizzera in collaborazione con i giovani talenti creativi delle agenzie pubblicitarie svizzere.


Ticinosette n° 28 15 luglio 2011

Agorà Sicurezza pubblica: un affare privato? Società Narcisismo. Malati di sé

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PATRIZIA MEZZANZANICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Opinioni Mario Dondero. Fotografare narrando

Impressum

Relazioni La nonna (e il nonno)

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72’011 copie

Vitae Pierre Tami

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VALENTINA GERIG . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reportage Lago di Como. Villa del Balbianello

Editore

Sguardi Cecità. Tutti i colori del buio

Teleradio 7 SA Muzzano

Direttore editoriale Peter Keller

Redattore responsabile Fabio Martini

NICOLETTA BARAZZONI . . . . . . . . . . . . . . . . .

FABIO MARTINI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Chiusura redazionale Venerdì 8 luglio

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GAIA GRIMANI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Letture Corrispondenza di un codardo Tiratura controllata

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R. ROVEDA; FOTO DI R. KHATIR. . . . . . . . .

ROBERTO ROVEDA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tendenze Moda estate. Un caftano da charme Visioni Le radici del mistero

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ROBERTO ROVEDA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

DI

MARISA GORZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

NICOLETTA BARAZZONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri / Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

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In copertina

Un taglio ai costi (dello Stato) Illustrazione di Davide Frizzo

Dalla parte di Socrate “La conoscenza non è una garanzia di buona condotta, ma l’ignoranza garantisce una condotta cattiva”. Queste parole della filosofa americana Martha C. Nussbaum, docente presso l’università di Chicago, tratte dal suo ultimo libro Non per profitto (Il Mulino, 2011), ci paiono un buon punto di partenza per sviluppare una riflessione sui temi della democrazia, dell’autonomia di pensiero e, a monte, dei cambiamenti che negli ultimi decenni sono intervenuti a livello globale nel mondo della scuola e dell’istruzione. La tendenza a pensare alle società e alle strutture produttive che esse esprimono come a organismi ineluttabilmente destinati alla crescita ha determinato un effetto pericoloso sulla forma e i contenuti attraverso i quali si veicola l’istruzione delle generazioni più giovani. Un atteggiamento tutto sommato comune che tutti i genitori si trovano prima o poi ad affrontare nel momento in cui discutono con i propri figli del loro futuro. Ragionamenti del tipo “Certo, quella facoltà è sicuramente interessante, ma devi anche pensare a scegliere qualcosa che ti dia un’occupazione sicura e ben retribuita…” sono all’ordine del giorno e come spesso accade, nel raffronto fra discipline umanistiche da un lato e scientifico-economiche o tecnico-pratiche dall’altro, sono le ultime ad avere la meglio. Si tratta di considerazioni che esprimono la paura e la preoccupazione (totalmente false) che i propri figli non siano in grado di affermarsi in quegli ambiti che paiono offrire un grado di concretezza economica minore, come per esempio, le arti o le discipline umanistiche e sociali. Nel corso degli ultimi tempi, a rafforzare questi timori, sono subentrate le crisi economiche e i flussi migratori, con l’aumento della disoccupazione e con l’ingresso di professionalità non di rado di alto livello. Di fronte a tutto ciò i governi e le istituzioni scolastiche di molti stati occidentali hanno

avviato una politica di smobilitazione nei confronti delle discipline umanistiche. I sistemi scolastici inglese, svizzero e tedesco tendono da tempo a privilegiare un approccio tecnicopratico in cui, fra l’altro, allo studente è richiesto di definire precocemente quale sarà il suo orientamento professionale. In Italia le materie umanistiche per fortuna resistono ma le recenti riforme scolastiche e universitarie sembrano allinearsi sulle medesime tendenze. I rischi di questo processo involutivo sono posti in chiara evidenza da Martha Nussbaum nel suo libro (vedi sopra): “Stiamo inseguendo i beni materiali che ci piacciono, e ci danno sicurezza e conforto […]. Ma sembriamo aver dimenticato le capacità di pensiero e immaginazione che ci rendono umani, e che ci permettono di avere relazioni umanamente ricche in luogo di semplici rapporti utilitaristici. Se non siamo educati a vedere noi stessi e gli altri in questo modo, immaginando le reciproche capacità di pensiero ed emozione, la democrazia è destinata a entrare in crisi perché si basa sul rispetto e sull’attenzione per gli altri”. Vivere democraticamente implica infatti capacità immaginative e uno sforzo per comprendere le posizioni (e le condizioni) dell’altro ma anche la facoltà di pensare autonomamente, potremmo dire “socraticamente”. Un sistema scolastico finalizzato al profitto e alla produzione di beni tende al contrario a escludere questo tipo di approccio sottomettendosi all’idea di una società di omologhi consumatori, facilmente convogliabili verso forme di consenso univoco. E allora, ragazzi, ben vengano la letteratura, la filosofia, la musica, la danza, la pittura, ecc., discipline in grado di sviluppare e favorire quelle capacità immaginative e di autonomia di pensiero che sono gli ingredienti indispensabili di ogni società sana e democraticamente organizzata. Cordialmente, la Redazione


Sicurezza pubblica: un affare privato?

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Agorà

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a questione della sicurezza dei cittadini è diventata negli ultimi tempi un tema scottante nel Canton Ticino e in tutta la Svizzera, un paese che per molto tempo si è sentito quasi un’isola felice sul fronte della criminalità. Questa nuova “emergenza” è dovuta a diversi fattori: in parte deriva da una mutata sensibilità della popolazione riguardo all’incolumità personale e dei propri beni, in parte dalla risonanza che certi fatti di cronaca trovano sui mezzi di informazione, e infine, dall’uso strumentale che ne hanno saputo fare certi politici.

Tagli pubblici, fondi privati A fronte di questa richiesta di maggiore tutela espressa dai cittadini, sono diminuite però le risorse pubbliche destinate alla sicurezza (così come agli altri settori pubblici). Inoltre, in tutta la confederazione, sono intervenuti importanti cambiamenti nella gestione dell’ordine pubblico e del traffico, via via appaltati a forze di sicurezza private. Una scelta che deve sollevare alcuni interrogativi sui motivi che portano a determinate politiche di taglio nel settore pubblico, per poi dirottare le risorse verso i privati, che in questa situazione prosperano. Allo stesso tempo chi sono queste persone a cui è affidata la nostra sicurezza, come vengono addestrate? E se sbagliano, chi risponde dei danni al cittadino? Non è un tema da poco perché si tratta di delicate azioni di prevenzione, controllo e tutela che da sempre sono state mantenute nelle mani pubbliche a garanzia di tutti. Ne parliamo con Max Hofmann, segretario generale della Federazione svizzera dei funzionari di polizia (FSFP). Signor Hofmann, la prima domanda è d’obbligo: le forze di polizia dispongono oggi delle risorse adeguate per far fronte al servizio che a loro compete? “Direi proprio di no. Sappiamo che per poter svolgere in maniera efficace il lavoro quotidiano, manca il 10% del personale, ovvero 1.500 unità circa. Oltre a ciò, se i cantoni dovessero riprendersi le molte competenze ormai svolte da organi di sicurezza della Confederazione (come le Guardie di confine) sarebbero necessari almeno altri 750/800 agenti. Se a questi aggiungiamo il personale che attualmente manca per gestire al meglio le diverse manifestazioni sportive o politiche, dove la presenza della polizia è sempre più necessaria, mancano all’appello altri 750/800 agenti. Siamo quindi sotto organico di 3.000 unità. Per non parlare del futuro, dove il bisogno di personale continuerà ad aumentare, visto che in ogni legge, ordinanza, o altro, sono sempre previste nuove disposizioni legali che vanno applicate. E chi può controllare che siano applicate? Che piaccia o meno, questo controllo spetta alla polizia. E maggiori competenze, significa ulteriore mancanza


Negli ultimi anni la sensazione di insicurezza della popolazione, insieme all’attenzione al tema, sono progressivamente aumentate un po’ ovunque in Svizzera, spesso anche in maniera indipendente dall’effettiva crescita della criminalità. A fronte di questa richiesta di sicurezza, però, diminuiscono i fondi destinati alla polizia, mentre cresce l’impiego di istituti di vigilanza privati. Cosa implica tutto ciò per i citadini?

di personale… Un secondo aspetto che poi deve far riflettere in relazione alla mancanza di personale è il nuovo codice di procedura penale”. Quali problemi comporta, a suo parere? “In poche parole le posso dire che il rischio è di creare un «mostro» dal punto di vista della gestione amministrativa”. Un eccesso di burocrazia, quindi? “Il risultato è sotto gli occhi di tutti: gli agenti di polizia sono sempre meno sulla strada, a contatto con la gente, a fare prevenzione, e sempre più legati al lavoro amministrativo che è praticamente raddoppiato con il nuovo codice. E se il poco personale di polizia che abbiamo lo chiudiamo negli uffici, facendone dei segretari, c’è qualcosa che non funziona…”. Che cosa comporta per voi e per la cittadinanza questa situazione di sotto organico? “In primo luogo si fa fronte alle situazioni facendo più straordinari, ma in ogni caso alcune cose non sono più fattibili e ne soffre soprattutto la prevenzione, cioè si rinuncia a qualche pattuglia sulla strada. Se poi succede qualcosa si accorre. Questo però, col tempo ci fa perdere il contatto col territorio, con la cittadinanza, ma anche non ci permette di capire al meglio l’evoluzione della criminalità. E questo è assai pericoloso. Oggi si parla molto di «polizia di prossimità», come se fosse chissà quale scoperta. Ma era quello che già si faceva quando c’erano ancora i posti di polizia anche in centri più piccoli come Ascona, Brissago, Vira Gambarogno prima di riunire i posti di polizia nei centri maggiori. Se non stai sul territorio vieni rapidamente tagliato fuori dalla comunità che nel frattempo cambia. Molti non ti conoscono e ottenere informazioni, che per la polizia sono vitali, diviene molto più difficile…”.

Come vivono i cittadini questi cambiamenti? “Siamo nella pacata Svizzera, ma le proteste ci sono, soprattutto quando il posto di polizia chiude e viene sostituito da un citofono. Le persone si sentono meno protette. Altra lamentela è dovuta alla mancanza di pattuglie sulle strade. Fino a qualche tempo fa c’era una forte presenza di polizia anche sull’autostrada. Poi, per motivi contingenti, come la mancanza di fondi, abbiamo rinunciato ai controlli, quasi non si tenesse conto del traffico aumentato né dell’importanza dell’asse del San Gottardo, arteria portante del traffico europeo, che, mi permetto di dirlo, è utilizzata anche dai criminali per i loro spostamenti”.

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Perché questa disattenzione per il tema della sicurezza? “Pochi fondi, principalmente. Si punta molto su politiche fiscali che favoriscono la diminuzione delle tasse, però questo ha come conseguenza meno risorse a livello pubblico. Quello che non si riesce a capire è che la sicurezza è un investimento che va a vantaggio di tutti. Un imprenditore preferisce aprire la sua attività in un luogo sicuro piuttosto che in una «repubblica delle banane»”. Secondo lei la sicurezza interessa poco ai politici? “È così, finora nessun politico ha posto la sicurezza al centro della sua campagna. Ci sono altri temi che tirano come il lavoro, l’immigrazione. Eppure uno stato democratico senza una polizia efficiente non può esistere, sarebbe l’anarchia”. Però, intanto, si risolve la situazione affidando compiti di polizia ad agenti privati. Ma di quali compiti si tratta? “Ecco, qui vorrei correggerla: non c’è «polizia pubblica» e «polizia privata». Dire polizia privata è un nonsense. Detto questo le faccio un esempio. Quando è stato deciso di istituire una nuova polizia ferroviaria, le ferrovie federali hanno pensato di dare vita a (...)


una joint venture con una grossa azienda, la Securitas, la quale è riuscita subito ad assicurarsi il 49% del pacchetto azionario del nuovo corpo di polizia. Solo dopo una lunga opposizione come FSFP, siamo riusciti a ottenere che la polizia ferroviaria restasse di competenza delle ferrovie federali e alla fine è nata una società anonima, ma di diritto federale speciale. Un organismo della confederazione dunque, che a tutti gli effetti si può ritenere ancora statale, anche se è controllato da una società per azioni. Ma se non avessimo lottato, adesso ci sarebbe il 49% di una ditta privata che controlla una polizia che agisce a livello nazionale, che effettua quindi controlli, perquisizioni… In certi piccoli comuni, specie nella Svizzera tedesca, questo accade già. Sempre la Securitas, un’azienda che sa come muoversi evidentemente, organizza pattuglie e controlla anche l’identità delle persone. Può farsi dare i documenti, capisce, e io trovo che sia una cosa aberrante. Perché tu, ditta privata, puoi chiedere i documenti a me su suolo pubblico? Se io cittadino mi sento danneggiato dall’azione della polizia so qual è la via di servizio, so come reclamare, posso arrivare fino in cima. Ma con una ditta privata dove vado? Arrivo al consiglio di amministrazione? E poi?”.

Chi controlla l’operato di queste aziende private? “Questo è un tema interessante. Lo Stato demanda alcuni compiti a una ditta privata però non può non controllarne l’operato. Allora viene istituito un organismo di controllo, con la conseguenza di spendere soldi per farlo funzionare e impiegare uomini della polizia che servirebbero altrove. Vi è poi il rischio che la ditta privata fallisca e che determinati compiti rimangano improvvisamente scoperti. A questo punto sempre la polizia deve intervenire distogliendo uomini dai servizi quotidiani”. Perché, secondo lei, allora scelgono le ditte private? “Perché a livello politico si insegue il miraggio di abbattere i costi. Dicono: a noi costa meno. Poi il lavoro di controllo di queste ditte finisce nelle prestazioni generali della polizia. Va nel calderone, e nessuno se ne accorge. Però è un risparmio solo illusorio”. Però questa “illusione” ha successo… “Veda lei… abbiamo 16mila agenti di polizia e 14mila addetti alla sicurezza privata. Non so se rendo l’idea. Si tratta di un grande giro di affari…”.


Signor Moro, è vero che in questi ultimi anni sempre più compiti svolti abitualmente ed esclusivamente dalla polizia sono stati affidati a istituti privati? “Sinceramente non direi. Determinati compiti, quelli più basilari, penso alle ronde di controllo degli stabili comunali, delle scuole o dei parchi pubblici sono svolti da decenni da addetti di ditte private, così come i pattugliamenti. Forse ultimamente ci vengono affidati anche compiti più delicati; per esempio, il trasporto intercantonale dei detenuti che noi facciamo a livello svizzero; ma sono già 10 anni che viene svolto questo servizio, non è dunque che si possa dire che il cambiamento riguarda questi ultimi anni. Forse c’è un po’ più di attenzione per la qualità del lavoro che svolgiamo e alcuni comuni, che prima gestivano internamente determinati compiti, li affidano più facilmente all’esterno. Sicuramente il volume delle attività svolte è aumentato in quantità, ma non vi è stato un cambiamento drastico”. In che cosa differiscono i vostri compiti da quelli della polizia? “Primariamente noi operiamo in ambito privato e solo secondariamente in ambito pubblico. Nel settore pubblico il nostro campo di azione rimane circoscritto ai medesimi compiti che offriamo ai privati e a compiti sussidiari e di appoggio alla polizia; non prendiamo in carico i principali compiti della polizia comunale o cantonale, non ci sarebbe nemmeno la base legale per farlo. In questo ambito interveniamo in quei casi in cui l’impiego di un agente di polizia risulterebbe sproporzionato sia dal punto di vista della sua competenza specifica, diversa dalla nostra, sia per i relativi costi, evitando di distogliere gli agenti di polizia da compiti più importanti. Faccio un esempio di separazione di compiti tra polizia e istituto privato: il controllo dei divieti di stazionamento può sicuramente essere affidato a dei privati, e questo avviene in molti paesi del mondo, non è una particolarità svizzera. Viceversa le indagini a favore della magistratura, la constatazione degli incidenti e delle infrazioni al traffico in movimento sono compiti che spettano esclusivamente ad agenti di polizia. Secondo il mio modo di vedere già oggi, quindi, le competenze fra gli istituti privati e la polizia sono ben definite”. Un’amministrazione pubblica che affida a voi compiti di polizia che vantaggi offre alla cittadinanza? “In primo luogo noi offriamo un servizio di alta qualità basato sull’efficienza. L’ampiezza della nostra struttura, abituata a lavorare in ambito privato è in grado di offrire una notevole flessibilità. Ma la cosa più importante è che ricorrendo a un istituto privato un ente pubblico riesce a ottimizzare i servizi concentrandosi sui suoi compiti peculiari e contenendo i costi. Come istituto privato prestiamo particolare attenzione alla razionalizzazione del lavoro pianificando costantemente in modo ottimale i vari servizi che svolgiamo, affinché siano efficienti per il cliente e interessanti per il collaboratore. L’assunzione e la formazione specifica dei collaboratori avviene, infatti, in modo mirato, basandosi sulla tipologia di servizi e compiti che queste persone dovranno andare a eseguire”.

I cantoni e le autorità comunali quali verifiche svolgono sui vostri servizi? Esiste un ente di controllo? “Esiste una legge cantonale, che risale al 1976, che regola l’esercizio delle attività di sorveglianza e di investigazione in Ticino, anche se noi della Securitas non svolgiamo attività di investigazione. Il controllo è esercitato dal servizio autorizzazioni della Polizia Cantonale, che verifica lo stato di ogni singolo collaboratore e, se sussistono i necessari presupposti, gli rilascia un permesso per svolgere questo tipo di attività. Questo controllo viene rinnovato ogni tre anni. Oltre al singolo collaboratore, anche l’azienda di sicurezza deve ottenere un’autorizzazione simile per potere operare in Ticino. Il controllo dell’applicazione del contratto collettivo di lavoro, di obbligatorietà generale a livello svizzero, viene invece svolto dalla Commissione paritetica dell’Associazione svizzera delle imprese di sicurezza (VSSU). Come le aziende di altri rami economici sottostiamo inoltre a dei controlli inerenti il rispetto della legge sul lavoro da parte dell’Ispettorato del lavoro (SECO). Per quanto riguarda i compiti che ci vengono affidati da singoli enti pubblici, tocca a poi all’ente affidatario – Comune, Cantone, Confederazione – valutare la qualità e l’efficacia del relativo operato”. Esiste una concorrenza, tra voi e la polizia, oppure è un rapporto complementare? “Assolutamente nessuna concorrenza. La Securitas, per esempio, è nata nel 1907. In Ticino siamo presenti da cento anni e non abbiamo mai avuto problemi, perché sappiamo esattamente fino a che punto arrivano i nostri compiti e le nostre possibilità, e dove invece il compito diventa di polizia. Non c’è nessuna concorrenza, anzi c’è grande collaborazione da entrambe le parti”. Però la Federazione svizzera dei funzionari di polizia ritiene che vi sia un eccessivo affidamento a istituti privati dei compiti della polizia. Max Hofmann, segretario generale del FSFP, per esempio, ritiene che alcuni compiti debbano rimanere di competenza dello Stato ed essere esercitati solo a livello pubblico. Lei cosa pensa di questa affermazione? “A mio parere ci deve essere una reciprocità in questa affermazione. È giusto che certi compiti rimangano di competenza dello Stato, così come altri compiti possono essere tranquillamente dati in mandato alle imprese private. In un sistema federalista come è la Svizzera risulta a volte difficile tracciare un confine univoco tra pubblico e privato a livello nazionale”.

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» di Roberto Roveda; illustrazione di Davide Frizzo

Il punto di vista “privato” Questo il punto di vista evidentemente assai critico del sindacato dei funzionari di polizia. Diventa a questo punto interessante sentire l’altra “campana”, cioè che cosa ne pensa chi opera all’interno di un istituto di vigilanza privato. Come Stefano Moro, direttore regionale di Securitas SA nella Svizzera italiana, società più volte citata.

Quali compiti sono di competenza privata? “Tutto quanto riguarda la sicurezza delle persone e delle aziende nell’ambito delle loro esigenze private. Per contro la polizia si occupa tipicamente del mantenimento dell’ordine pubblico, del primo intervento e tutto ciò che concerne l’attività investigativa”.

A suo parere da cosa deriva l’ostilità della Federazione svizzera dei funzionari di polizia? “Probabilmente sussiste un certo timore che l’amministrazione pubblica non investa sugli effettivi di polizia e si facciano scelte diverse. La Federazione, non a caso, sostiene che la polizia non abbia il giusto numero di agenti per operare. Ma non siamo noi il problema, anzi gli agenti degli istituti privati svolgono quei compiti secondari per cui un agente di polizia sarebbe sprecato. Noi, e questo è importante, agiamo nel settore della prevenzione, siamo presenti sul territorio e segnaliamo eventi particolari. L’intervento effettivo è lasciato alla polizia. Dunque permettiamo spesso con il nostro lavoro alla polizia di agire in modo più mirato”.


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Malati di sé Cambia la società e i nostri comportamenti, cambiano i valori e la medicina si adegua. Nel frattempo, il narcisismo patologico rischia di sparire dai manuali di psichiatria. Fino a che punto questo è giusto e moralmente corretto?

Il termine narcisista, così come lo intendiamo oggi, nasce alla

fine dell’Ottocento e deriva dal greco narkè, cioè “stupore”, da cui proviene anche narcosi. La mitologia vuole che, ammaliato dalla propria immagine, Narciso muoia contemplandosi nel lago e i fiori che vi nasceranno dopo la sua morte avranno un profumo intenso e inebriante. Secondo la leggenda, questi venivano offerti alle Furie che si credeva stordissero la mente degli uomini per condurli alla sventura, e ammaliarono la ninfa Persefone rapita da Ade, il dio degli inferi, proprio mentre li stava cogliendo. Allo stesso modo, il moderno Narciso è così inebriato e compiaciuto dalla propria immagine e dalla propria personalità da poter perdere la ragione.

Società

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alto perché si tratta di una fase di passaggio, ma è evidente a chiunque che il discorso cambia se, a trascorrere ore davanti allo specchio, o a voler primeggiare a tutti i costi, è un uomo di quarant’anni, piuttosto che un ragazzo. Possiamo invece parlare di patologia quando ci troviamo davanti a individui arroganti e invadenti, totalmente incapaci di empatia, insensibili alle critiche, inabili a instaurare legami affettivi profondi e significativi e sostanzialmente incuranti dei sentimenti delle persone che li circondano, dalle quali tuttavia pretendono favori, agevolazioni e ammirazione incondizionata. Caratteristiche spesso accompagnate da disturbi d’ansia e dell’umore, paure, tensioni, eccessiva irritabilità, preoccupazioni riguardo al loro corpo, disperazione, vergogna, difficoltà a frenare gli impulsi, e quindi soggetti ad abuso di sostanze stupefacenti e alcol o altre dipendenze. Dati recenti sostengono inoltre che nei maschi con inclinazioni narcisistiche – e parliamo al maschile perché il fenomeno riguarda più gli uomini che le donne – tendono ad aumentare gli ormoni legati allo stress, come l’adrenalina, che a lungo andare possono essere dannosi alla salute.

Un atteggiamento “strisciante” Atteggiamenti narcisistici si riscontrano un po’ ovunque nella nostra società e sono particolarmente evidenti nei settori della vita pubblica, dalla politica al mondo dello spettacolo, considerati terreni particolarmente favorevoli allo sviluppo del disagio. La cultura dell’apparire nella quale siamo immersi celebrata e divulgata da tutti i media, e dalla televisione in particolare, amplifica il fenomeno con il risultato che l’aggressività dilaga, la suCaravaggio, Narciso alla fonte (1599 ca.), Galleria Barberini, Roma perficialità incontra più conLa parola all’esperto senso della profondità, e sono Per fare maggiore chiarezza sul i prepotenti (invece dei saggi) ad avere spesso la meglio. Un tema abbiamo rivolto qualche domanda al professore Giampafenomeno globale che, proprio per la sua diffusione, potrebbe olo Lai, medico psicoanalista, membro ordinario della Società portare all’abolizione di alcuni disturbi della personalità, fra svizzera di psicoanalisi (www.psicoanalisi.ch) e dell’Internatiocui appunto il narcisismo, dal prossimo Manuale diagnostico nal Psychoanalytical Association (www.ipa.org.uk). e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) stilato dall’American Psychiatric Association e in uscita nel 2013. Professor Lai, qual è il suo pensiero riguardo alla possibile esclusione del narcisismo patologico dal DSM-5? Narcisismo e patologia “Dal punto di vista diagnostico mi sembra la negazione di una Una sana dose di narcisismo espresso come cura di se stessi, realtà sempre più diffusa. È un peccato, ma fotografa una real– ambizione professionale, privilegio delle proprie esigenze tà. D’altronde non è la prima volta che accade: dal DSM-4 era rispetto a quelle altrui, ricerca di vantaggi personali o desiderio stata eliminata l’isteria e prima ancora era toccato ai disturbi di di essere ammirati –, è normale e necessaria in ogni persona. omosessualità, entrambe espulsioni suggerite principalmente da Nell’adolescenza tutto questo può manifestarsi a un livello più considerazioni di correttezza politica”.


Molti sostengono che sia il frutto di interessi economici più che scientifici… “Sicuramente è una conseguenza della riforma sanitaria, per altro giustissima, voluta da Barack Obama. Alleggerire il campo delle patologie vuol dire diminuire i rimborsi delle assicurazioni. Non credo invece che abbia a che fare con le case farmaceutiche. Per loro più patologie esistono, meglio è”.

E gli effetti sui più giovani? “È più preoccupante. Esiste, nella nostra società, un trend di normalizzazione di tratti che un tempo erano considerati devianti, patologici o disturbanti. Valori sociali come l’altruismo e il rispetto degli anziani, solo per citarne alcuni, non esistono più, non vengono più insegnati ai giovani. Oggi la società è centrata sui diritti invece che sui doveri, sull’affermazione di sé invece che sulla solidarietà. E questo è anche un tratto tipico del narcisismo, che manca totalmente di empatia, cioè della capacità di mettersi nei panni degli altri”. In televisione come nella vita reale, assistiamo spesso a scene d’intemperanza verbale. Si può insegnare il dialogo? “Nei talk show si nota spesso il fenomeno dell’incontinenza, cioè parlare senza ascoltare, addirittura negare all’altro il diritto di

John W. Waterhouse, Eco e Narciso (1903); Walker Art Gallery, Liverpool

esprimersi. Una personalità narcisistica è molto difficile da educare in questo senso perché è simile a una dipendenza, dalla quale ricava piacere, e che quindi difficilmente tende ad abbandonare. Il narcisista sta bene con il suo disagio, come l’alcolista. Il narcisismo trova soddisfazione nella sua affermazione e quindi si autoalimenta. Se può consolare, si attenua con l’avanzare degli anni, anche se questa affermazione non sempre vale per i politici”. Professor Lai, morale e narcisismo sono inconciliabili? “Sì. Se parliamo di disturbo narcisistico di personalità, direi senz’altro di sì. La società è sostenuta da un contratto sociale: io conto ma conta anche l’altro. È questo contratto che ci fa essere morali, cittadini, e il narcisista è incapace di sottoscriverlo. Considera solo se stesso, gli altri non esistono. Strauss-Kahn ne è l’esempio più recente e immediato: il suo è definito come un narcisismo maligno, perché alle proprietà tipiche della patologia narcisistica si abbina la dimensione sadica e anti sociale, che ritroviamo spesso anche nella pedofilia clericale”.

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» di Patrizia Mezzanzanica

E gli effetti di questa esclusione sulla società? “Nelle cause civili, di divorzio o affidamento dei figli, senza dubbio la presenza di un disturbo di personalità narcisistico può giocare un ruolo fondamentale. Se non esiste più, né il perito, né il giudice, possono tenerne conto. Dal punto di vista penale ha meno importanza. Per dimostrare che una persona è, per esempio, capace di intendere ma non di volere, tipico del narcisista, si può ricorrere ad altre diagnosi che contemplino una dipendenza”.


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Fotografare narrando Gli scatti del fotoreporter Mario Dondero hanno reso visibile l’esistenza e la comunanza di volti e personaggi noti e meno noti della storia del Novecento

» di Nicoletta Barazzoni Mario Dondero si definisce uno strenuo e accanito ricercatore

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della verità. Questo “aspirante narratore”, nel raccogliere la testimonianza di personaggi e volti di tutto il mondo, ha raccontato gli avvenimenti storici della nostra epoca. Dove c’era la Storia, con i suoi eventi, lui era presente a immobilizzare l’attimo, ad afferrare il reale. Dondero, nel suo narrare, ha mantenuto sempre intatte le proprie convinzioni. Se è vero che tempus fugit è altrettanto vero che la fotografia di Dondero ci riporta nel tempo. La sua foto più celebre, quella che ritrae il gruppo degli scrittori del Nouveau Roman (movimento letterario di rinnovamento e rottura del romanzo tradizionale) è stata scattata a Parigi, nell’ottobre del 1959, davanti alla sede delle Editions de Minuit. Avendo vissuto per molti anni nella capitale francese egli ha avuto modo di conoscere e frequentare i grandi della letteratura e dell’arte. Ma per fotografare bisogna amare i propri soggetti, li si deve accarezzare anche nella realtà peggiore, anche quando si fissano le atrocità umane. Se si fotografa con sentimento, come ha fatto Mario Dondero, tutto finisce per coincidere, come in un’opera d’arte, anche se lui non si ritiene affatto un artista. Ha infatti sempre nutrito una certa avversione per l’eccessivo estetismo in fotografia, un aspetto che ha sempre evitato di privilegiare proprio per non penalizzare il contenuto delle sue immagini, rigorosamente in bianco e nero. Attraverso le sue fotografie – sfumate, come a voler lasciare, inconsciamente, un’idea di non compiuto, di non definitivo – ed evitando di divenire schiavo della tecnica, ha impresso al suo percorso iconografico il senso primario di una ricostruzione del mondo. La fotografia di Dondero è vasta e realista, ma è soprattutto inscindibile dai concetti di verità e giustizia. Quali sono le immagini che pensa ancora di scattare? “Ce ne sono moltissime. Per esempio, vorrei andare all’ospedale di Emergency, in Sudan, perché lavoro molto per la loro organizzazione. Mi interessa anche la situazione greca. Infatti ho seguito per anni le loro vicende politiche, e la Grecia mi affascina molto. Come mi interessa la storia del respingimento degli immigrati. Questo fatto tragico e scandaloso, di persone che vengono lasciate morire in mare, senza assistenza, mentre si discute burocraticamente e in modo cinico tra paesi (intanto, sui barconi, muoiono donne in attesa di partorire), deve essere testimoniato. A Crotone c’è un medico che si cala dall’elicottero in piena tempesta per soccorrere gli immigrati che si perdono in mare. Un’altra immagine che vorrei cogliere è quella dello scandalo di chi è contro l’assistenza alle carovane dei Rom. Queste persone sono morte a centinaia di migliaia nei lager nazisti e nessuno sembra ricordarsi di questa storia”. Walter Benjamin sosteneva che la fotografia lascia libertà d’interpretazione molto più della parola scritta… “Questo è assolutamente vero ed è la ragione primordiale per cui ho

fatto più il fotografo che il giornalista. Certo sono convinto, come dice Benjamin, che una fotografia può valere più di mille parole. In certi casi racconta veramente una verità che non si può contraddire anche se le novità tecnologiche, per esempio l’avvento del digitale e le manipolazioni che può subire la fotografia, sono oggi infinitamente più gravi del bianchetto di una volta. Come quando si diceva che Stalin modificava i ritratti togliendo i personaggi con degli interventi artigianali di basso livello. Oggi in modo sofisticato, si possono cancellare le persone, inventarne delle altre, facendo credere nell’esistenza di situazioni fittizie. Il dovere del fotografo è quello di essere reale e raccontare le cose vere”. Benjamin scrisse anche che la riproducibilità dell’arte rompe l’unicità. Secondo lei, lo stesso principio vale anche per la fotografia? “La nozione di arte mi sembra abbastanza vacua. Ho sempre aspirato a essere un giornalista e non un artista, e dunque l’arte è qualche cosa che non mi pongo come unico anelito quando eleva ai fini della celebrità. Passo per artista e mi definiscono tale perché, mondanamente, fare l’artista è più elegante che fare il giornalista, che è un funzionario dell’informazione. Mi considero un accanito e strenuo ricercatore di verità. La fotografia di un volto e di un personaggio hanno un valore irripetibile. Sono unici come la vita”. Quale valore attribuisce all’etica, pensando per esempio alla fotografia di fronte al dolore? “È il termine filosofico che racchiude in sé le più grandi qualità dell’animo umano. Fra queste figurano, in buona posizione, il rispetto degli altri, un tratto che dovrebbe essere comune a tutti, ma, per chi fa di mestiere il fotogiornalista, è la più necessaria delle qualità. Un dovere assoluto di cui parla Kapuscinskyi, quando scrive che il reporter deve mantenere, in qualche modo, puro il suo animo, soprattutto non diventare cinico. Viviamo al tempo dello scoop, che è di per sé un’infrazione, un’intrusione nella vita degli altri. L’idea di violare l’esistenza altrui mi urta profondamente. Niente, tuttavia, racconta meglio la nostra storia quanto la faccia degli uomini. Walter Benjamin ha riflettuto come pochi su questo mistero del fotografare. Io mi fermo, di fronte alla pietà. Non scatto”. Viviamo nell’epoca dell’ottica e del visuale. Ha mai subito dei condizionamenti? “In fin dei conti ho sempre lavorato per il giornale del cuore che mi ha lasciato ampia libertà di fotografare. Sono un fotografo estremamente schierato, nel senso che antepongo la giustizia e la verità a qualsiasi condizionamento. Sono per la verità assoluta. Robert Capa diceva che la miglior propaganda è la verità e che bisogna raccontare le cose vere. Questo è il principio a cui si è ispirata tutta la mia vita professionale”.


la mostra: Presso la galleria “Il Rivellino” di Locarno è visitabile la mostra Mario Dondero e le Noveau roman. Une saison à Paris a cura di Arminio Sciolli e Jean Olaniszyn (apertura il venerdì e il sabato dalle 15 alle 18, e tutti i giorni durante le manifestazioni Moon & Stars e il Film Festival 2011 dalle 17 alle 23). Frutto della ricerca di due anni nell’archivio del fotografo milanese, l’esposizione è arricchita da una sezione letteraria con prime edizioni, lettere e documenti originali (www.ilrivellino.ch) a sinistra: Mario Dondero in un’immagine tratta dal sito www.cinetecadibologna.it

In sociologia si sostiene che la realtà è una costruzione sociale. Lo è anche la verità? “La verità esiste, integra e assoluta. Può essere modificata e manipolata ma secondo me è legata all’onestà di chi la registra. Questo è un fatto deontologico che impone a tutti i giornalisti e ai fotoreporter di raccontare la verità, rispettando le persone e il loro vissuto”. Il fotografo è veramente libero di fotografare? “Siamo giunti a una situazione che è iniziata dopo la sconfitta americana in Vietnam. Durante la guerra del Vietnam in realtà i fotografi erano agevolati nel loro lavoro. Oggi bisogna essere embedded, bisogna garantire non la verità ma il falso. Siamo in una fase in cui le guerre iniziano all’ora del telegiornale. Mi sono accorto, in modo molto palese, che le televisioni propinano la cronaca come se fosse una fiction. Hanno dei battitori liberi che organizzano e procurano loro le situazioni perché hanno hanno un bisogno continuo di fornire immagini. Mi ricordo di un episodio: alla porta di Brandeburgo c’erano 60 televisioni, mentre stava cadendo il muro di Berlino. Si stava tenendo una festa straordinaria e ambigua con la presenza anche di nazisti che si compiacevano del crollo del comunismo. E dall’altro c’era anche il sentimento di tristezza di chi vedeva sfiorire un ideale. Era quasi sera e, in una stradina, avevano portato un camion pieno di fiori. Un tizio consegnava dei mazzi ad alcune ragazze bionde molto carine che poi li donavano ai soldati della Repubblica democratica. Sembrava un quadretto idilliaco: in realtà, erano immagini costruite e provocate ad arte per essere poi mandate in onda dalle televisioni. Tutto era fittizio e incerto”. Cosa ha fatto in quel frangente l’occhio del fotografo? “Proprio in quella situazione contingente avevo una pellicola debole e non ho potuto registrare questo episodio, come se la storia mi stesse «giocando contro»”. (Mario Dondero ha immortalato l’abbattimento del muro scattando la fotografia dalla guglia del Reichstag, sulla quale mezzo

secolo prima un soldato dell’Armata Rossa aveva innalzato la bandiera delle truppe vittoriose sul nazifascismo, ndr). Esiste una perdita dell’oggetto guardato oppure quando lo si immortala l’oggetto diventa immortale? “Non so se esista l’immortalità. Certo che, a mio avviso, la fotografia consegna il passato con maggiore accessibilità rispetto a qualsiasi altra arte. Ritengo che fare le foto lasci un marchio più indelebile di altre espressioni. La fotografia cattura la vita per poi restituirla più tardi”. La fotografia coglie un dettaglio nella vastità. In che modo sa cogliere una trama? “Anche la semplice faccia di una persona è come una carta geografica e dunque può raccontare, in sintesi, con grande profondità, quello che accade. Basta anche una sola foto per raccontare. L’importante è che ci sia grande sincerità in chi la scatta. In fin dei conti non esiste nemmeno la fotogenia. Secondo me tutti gli esseri umani sono interessanti. Le facce sono molto significative. Una volta ero sul molo di Rodi Garganico, in Puglia. Due fratelli si incontrano, uno era emigrato in America e l’altro era un pescatore. Il pescatore era scarnificato, secco, forte e con gli occhi ardenti. Il fratello invece aveva un viso liscio, rotondo, benestante, quasi grasso. Ed erano fratelli. La vita li aveva modificati. E queste sono trame di storie che offrono affinità esistenziali molto significative da fotografare”. In questo suo orchestrare di sguardi c’è mai stato un “bemolle” che le abbia dato fastidio? “I miei fallimenti nel realizzare le foto. Mi è capitato di stare di fronte a persone straordinarie come Pablo Neruda, per dirne uno, e di non riuscire a scattare delle immagini di grande intensità anche per mie carenze tecniche di quel preciso momento e di quel giorno. Sono sempre stato un fotografo imperfetto. Non sono il re della tecnica. Non è l’aspetto artigiano che mi interessa. A me interessa il racconto. Il cercare di raccontare in profondità in modo fervido, eloquente e intenso, leggibile e comprensibile le situazioni”.

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I nonni sono un elemento essenziale nella vita di un bambino. Fonte di affetto e preziosi maestri di vita, riescono a trasmettere tutto un mondo di valori e di tradizioni che, nonostante la loro presenza, tende purtroppo a scomparire

nonna è la mamma della mamma o del papà, per cui è mamma due volte. Questo mi diceva la mia nonna per quantificare verso l’alto la somma di bene che mi voleva, ma la cosa è ancora più complessa. Essere mamma due volte significa anche esserlo, allo stesso tempo, in maniera più consapevole e distaccata. Più consapevole perché l’esperienza è più vasta, si è fatto tesoro dei propri errori e si è imparato perfettamente come gestire l’universo complicato del bambino. I giovani genitori, infatti, troppo coinvolti emotivamente con il loro ruolo risultano, spesso in buona fede, o troppo severi o troppo permissivi. La nonna, invece, si sente libera nei confronti dell’estenuante compito educativo e può lasciarsi andare, più della mamma, nella concessione di tenerezze e vizi. Libera e distaccata, ma non assente, è per i nipoti un inesauribile pozzo di sapienza. La mamma e il papà lavorano: spesso il bimbo viene affidato alla nonna con la quale trascorre gran parte della giornata; è inevitabile che le prime domande siano rivolte a lei e da lei si ricevano le prime risposte.

i miei compiti, e ci divertivamo molto; durante la convalescenza imposta dalla varicella scoprii, invece, con il suo aiuto Dickens. Oliver Twist fu il primo di tanti amori letterari che fanno parte ancor oggi della mia esistenza. Alla nonna sono anche legati, proustianamente, alcuni profumi e sapori della nostra infanzia, quando cucinava deliziosi pranzetti e preparava per le nostre merende torte e biscotti da far invidia a un pasticciere. Il loro profumo si spandeva dappertutto e lo riconoscevamo, con gioia, tornando stanchi da scuola.

L’anziano senza ruolo La vita di oggi, purtroppo, ha messo un po’ da parte i nonni, relegandoli nelle case per anziani, perché non si ha più tempo per loro che ne hanno dato tanto. Il risultato di ciò è una duplice sofferenza: essi invecchiano precocemente, si sentono inutili, s’intristiscono, e spesso si ammalano fino a morirne. I bambini, d’altra parte, conoscono le baby sitter o il nido e l’asilo, persone e rifugi anonimi dove estranei obbligano al sonnellino (anche se non si ha voglia) e dove si ha La calma e l’impazienza tanta nostalgia, perfino degli odori e Il tempo della nonna è pacato a dei sapori di casa, al punto da rifiutare differenza di quello normalmente il cibo che viene offerto. In questi luoturbinoso dei genitori: si può parlare, ghi senz’anima s’inizia ad assaporare Immagine tratta da www.picasdaweb.google.com ma soprattutto farsi ascoltare. È a lei presto la lotta per la sopravvivenza che si confidano le prime pene, le prime soddisfazioni, le e la concorrenza degli altri e la maestra, a differenza della prime difficoltà a trattare con gli altri ed è sempre lei che nonna, deve dividersi tra tanti bimbi, non può dare ascolto trova le parole giuste per consolarci e per insegnarci qual- a uno in particolare e, se si è tristi, si finisce con l’appartarsi cosa in questo perenne processo di apprendimento che è la con la lacrima facile e un gran senso di solitudine. vita. Spesso è anche la tenera narratrice di fiabe scritte da Gli Stati Uniti, che solitamente sono più proiettati di noi scrittori famosi o che inventa lei lì per lì. Le racconta sempre verso “il futuro”, si sono accorti da tempo del terribile errore in maniera diversa e il bimbo che ascolta con un’attenzione di eliminare i nonni e, rimasti senza, hanno lanciato qualche puntigliosa, la corregge, se dimentica qualcosa. È inoltre anno fa una campagna per affittarli. Le persone anziane, ricapace di rievocare, in maniera affascinante, i tempi passati, pristinata la loro funzione (anche per un nipotino in affitto) di quando era bambina, i periodi storici importanti che ci si sono di nuovo sentiti utili e i giovani a loro volta, hanno vengono trasmessi da lei molto meglio che dai libri di storia, approfittato del rinnovato e prezioso contatto. spesso noiosi, con il loro groviglio di date da ricordare. È la La nostra società, che sembra così progredita, è stata miope memoria storica della famiglia e dei tempi che furono. a eliminare questa parte importante di sé e dovrà tornare sui Dai discorsi con la nonna possono esserci trasmesse le pas- suoi passi. Perché, come dicono alcune popolazioni africane, sioni che ci accompagneranno sempre: la mia, per esempio, quando un anziano muore, è come se bruciasse un’intera mi donò l’amore per il cinema e per la letteratura. Quando biblioteca dell’umanità (si veda “Don Valentino Tafou” in ero bambina andavamo al cinema quasi tutti i giorni, finiti Ticinosette n. 27/2011).

» di Gaia Grimani

Relazioni

La nonna (e il nonno)


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Letture

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Chris Ayres Corrispondenza di guerra per codardi Gabriele Capelli Editore, 2010

» di Fabio Martini

Abbiamo ricevuto il libro in redazione parecchi mesi fa e subito, ho iniziato a leggerlo. Con indiscutibile piacere, devo ammettere. Perché la vicenda di Chris Ayres – di cui sin dall’inizio si dichiara la natura: “ciò che segue è una confessione” –, giornalista inglese trapiantato negli Stati Uniti e collaboratore di testate importanti come “The London Times”, “Rolling Stone”, “The Los Angeles Times”, “Forbes”, ecc., non solo è avvincente, ma è soprattutto narrata con sottile humour anche quando riflette sui temi, assai seri, del giornalismo di guerra e sulle modalità attraverso le quali si svolge la comunicazione contemporanea. Giunto a metà del libro, e non certo per noia, ma per la necessità di leggere altro, lo abbandonai sul comodino. Ma la curiosità restava. Qualche settimana fa, in procinto di partire per una breve vacanza, l’ho messo in borsa e rapidamente concluso. Il titolo rivela in parte il senso della vicenda di Ayres, inviato prima a New York dove assiste in prima persona agli eventi dell’11 settembre 2001, quindi a Los Angeles come acuto testimone dei vizi e delle stramberie dello star system hollywoodiano. Una vita tutto sommato piacevole, condotta da un ragazzo normale anche se un po’ ansioso e con qualche problemuccio riguardo all’autostima. Nulla dunque farebbe pensare al classico reporter di guerra, indurito dagli eventi a cui ha assistito e avvezzo a mettere a rischio la sua stessa esistenza pur di ottenere la “notizia”, pur di inviare il “servizio”. Ma, come si sa, le strade del destino sono davvero imperscrutabili, e così il giovane Ayres forse per curiosità, forse per la paura di perdere il posto di lavoro, accetta, alla vigilia dell’attacco anglo-americano, l’incarico di inviato di guerra al seguito delle truppe che dovranno invadere l’Iraq. Una vigilia in cui a dominare è il sentimento di paura e non solo perché egli si trova ad affrontare un’esperienza obiettivamente rischiosa ma soprattutto perché, pur essendo un giornalista e persona quindi in grado di valutare le informazioni, non è immune dall’ondata di panico e dalle falsità riguardo l’esistenza delle supposte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. E così, alla vigilia dell’attacco, il giovane e impacciato Ayres si ritroverà a Camp Grizzly, avamposto anglo-americano nel deserto del Kuwait a un tiro di schioppo dal confine iraqeno. Assegnato a una pattuglia di marines con il compito di individuare i siti per l’artiglieria, egli entra in contatto con persone che hanno scelto la guerra come professione e che, nonostante la loro durezza, lo accolgono e lo proteggono riconoscendo forse in lui quelle paure e quelle incertezze che il ruolo non consente loro di ammettere. Fino all’escamotage finale, una sorta di piccolo inganno, orchestrato dal capo pattuglia, che consentirà al giornalista britannico di sfuggire da una realtà che di giorno in giorno si fa più inquietante e pericolosa. Un bel libro, su ciò che la guerra è oggi e soprattutto sui paradossi legati all’informazione.

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» testimonianza raccolta da Valentina Gerig; fotografia di Igor Ponti

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tratto da un passo biblico e legato alla storia della serva di Abramo cacciata nel deserto con figlio Ismael. Oggi ci lavorano 500 persone. Diamo quello che chiedono i poveri: non compassione, ma una chance. Lavoriamo con donne e bambini fortemente traumatizzati, le cui abilità emotive e psicologiche sono alterate. Non tutti ce la fanno allo stesso modo. È come camminare sulle montagne svizzere: quando pensi di essere arrivato in cima, bisogna scendere e poi risalire di nuovo. Così è anche il cammino di reintegrazione nella società per queste persone: dall’essere come un “pezzo di carne” Imprenditore sociale e console onorario in un bordello, all’avere un svizzero in Cambogia. La decisione di la- lavoro, un’attività umana. I sciare un lavoro sicuro e una bella casa per bambini devono superare il trauma psicologico e spirituatrasferirsi in Asia ad aiutare il prossimo le dell’esperienza agghiacciante vissuta, per questo abbiamo là nel 1993 insieme a mia avviato anche un programma per i piccoli moglie e alle mie bambine, che dai 4 ai 10 anni. Purtroppo uno dei problemi nel frattempo erano diventate maggiori è anche culturale: se una ragazza tre e avevano sette, sei e tre viene venduta dalla sua famiglia, in seguito anni. Siamo arrivati quando non riesce più a reinserirsi nella società perla Cambogia era un paese in ché viene rifiutata, come se la colpa fosse guerra. Avevamo due ore di sua. È un paradosso: nelle relazioni sociali elettricità alla settimana, c’era c’è una grande formalità e allo stesso tempo il coprifuoco, i bombardamenun’assoluta mancanza di dignità della donna. ti e l’artiglieria. Durante lo Il nostro lavoro è quello di immagazzinare scontro militare del ’97 la nopiù competenze possibili per batterci a stra abitazione era circondata favore della giustizia sociale. Per questo è da carri armati. Ci è capitato importante collaborare con il settore privato di dover stare rinchiusi due e i governi. Abbiamo fatto partire da poco giorni interi in bagno, l’uniuna nuova organizzazione, SHIFT360. Tra i ca stanza senza finestre della progetti in programma entro la fine dell’annostra casa. La guerra non no: un’Accademia culinaria a Phnom Penh. perdona, non guarda in faccia È un’iniziativa di rilievo perché il turismo è a nessuno, fa uscire il peggio la colonna portante dell’economia del paese dall’essere umano. e sta registrando una forte crescita. I valori scompaiono e vige La fede cristiana nella nostra missione ha la legge del più forte: è pura soprattutto un valore di guida, di ispiraziosopravvivenza. Ho ritrovato ne e di motivazione nell’esaltare il valore la stessa atmosfera in Afghadell’essere umano, la sua dignità. Spesso ci nistan, a Kabul. A parole è si chiede: cosa mi accadrà se aiuto questa difficile da spiegare, ma la persona in difficoltà? Ecco, bisognerebbe guerra si sente: l’odore di polinvece rovesciare il punto di vista: se io non vere da sparo, un forte senso la aiuto, che cosa le succederà? di “tenebra” che scende sulla Le mie figlie ora sono grandi: una di loro città. Quando siamo arrivati ha già due bambini e noi siamo dei nonni in Cambogia, abbiamo inimolto fieri. Sì, hanno ancora qualche proziato da zero: dapprima con blema di identità essendo nate in Asia e un centro per le mamme e i cresciute in diversi paesi. Se chiedi loro da bambini della strada, vittime dove vengono, ci mettono venti minuti a di violenza e abbandonati. spiegarlo. Io, dopo ventinove anni in Asia, Abbiamo chiamato l’orgaa volte mi sento qui in Svizzera. La nostra nizzazione Hagar, un nome casa è la Cambogia.

Pierre Tami

Vitae

i è sempre piaciuto lavorare con le persone, parlare le lingue straniere e usare i propri talenti per aiutare il prossimo e chi è nel bisogno. Da ragazzo, dopo le scuole, ho iniziato a lavorare per la Swissair. Viaggiare mi ha aperto gli occhi, ho scoperto cosa offriva il mondo oltre al paese in cui ero nato e cresciuto. I primi anni ho girato il mondo con mia moglie Simonetta. Avevo un buon lavoro, l’auto nuova. Ma sentivo che non era quello che cercavo. La nostra decisione principale è stata quella di essere coerenti con il pensiero di fede cristiana, che mi ha sempre impressionato molto. Abbiamo deciso di partire per il Giappone e ci siamo rimasti sette anni. Due delle nostre figlie sono nate lì, a Osaka. Abbiamo iniziato aiutando le persone respinte dalla società, che avevano problemi esistenziali, spesso per debiti o per la perdita del lavoro. In Giappone è molto forte il problema della vergogna personale di fronte alla società. Chi non si suicida va ad abitare in una parte della città, nel downtown, dove si abbandona al deperimento, all’alcol, alla violenza. In un certo senso aspetta di morire. Proprio a Osaka ho avviato un programma di recupero in collaborazione con le chiese locali e ho fatto le mie prime esperienze nell’ambito dell’imprenditoria sociale. Dopo il Giappone ci siamo spostati a Singapore, perché sentivamo l’esigenza di avvicinarci di più ai problemi del sud-est asiatico. In Cambogia ci sono andato per la prima volta nel 1990, per un viaggio di studio. Sono rimasto scioccato dalla povertà e da un’immagine che mi ha frastornato e non sono riuscito a togliermi dalla testa per molto tempo: un bambino morto di malaria tra le braccia della mamma. La malaria l’ho contratta anch’io, al ritorno a casa. La Cambogia ormai era entrata nella mia vita e ho deciso di fare qualcosa per questo paese abbandonato a se stesso. Mi sono trasferito

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La bellezza fuori dal tempo testo di Roberto Roveda; fotografie di Reza Khatir

Forse vi è capitato di vederla in qualche scena di uno degli ultimi film dell’agente segreto “007” oppure in un episodio di “Star Wars”, ma la Villa del Balbianello a Lenno, sul lago di Como, non è un set cinematografico, né appartiene a qualche noto volto hollywoodiano. È invece un gioiello del Settecento a disposizione di tutti, affidato da una ventina di anni alle cure del Fai, il Fondo per l’Ambiente Italiano



in questa pagina: il versante sud della villa con l’attracco dell’imbarcadero e il giardino a terrazzi in apertura: il Dosso di Lavedo, sulla cui estremità sorge la Villa del Balbianello, vista dal lago


Il complesso della villa con, in primo piano, il porticciolo e la chiesetta affiancata dai due snelli campanili, unica vestigia rimasta dell’antica chiesa francescana presente sul dosso fin dal XIII secolo


I terrazzi del giardino, con l’imponente e fastosa balaustra in pietra realizzata nel XIX secolo

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sistono luoghi dove l’incanto della natura e il privilegio di una posizione geografica unica si sposano con il gusto dell’uomo raffinato e d’ingegno e con scelte estetiche capaci di sfidare il tempo e le mode, rimanendo sempre attuali. Villa del Balbianello, a Lenno, sulla sponda occidentale del Lago di Como, è uno di questi luoghi un poco magici e un pò fuori dal tempo di cui è ricco – magari senza darci eccessiva importanza e dimenticandosene in fretta – il vicino Belpaese. Chi invece si è accorto dell’unicità di questo luogo sono gli americani, quelli di Hollywood, che hanno utilizzato l’edificio come set ideale per uno degli ultimi film della serie 007 e per un episodio della saga di Star Wars1. La villa, comunque, non corre il rischio, come altri storici edifici del Lago di Como, di diventare residenza di un ricco attore d’Oltreoceano. Dal 1988, infatti, appartiene al Fai grazie a un lascito dell’ultimo proprietario del Balbianello, il conte Guido Monzino, grande alpinista

ed esploratore a cui è dedicato il Museo delle spedizioni alpinistiche e polari ospitato nella villa. Insomma Villa del Balbianello è oggi a disposizione di tutti, basta prendere una piccolo battello da Lenno e in pochi minuti appare il Dosso di Lavedo, un promontorio boscoso che si allunga come una piccola penisola nella acque del Lario e sulla cui estrema punta sorge il complesso della villa. La posizione è splendida, con di fronte l’abitato di Bellagio e ai fianchi due degli squarci lacustri più belli del Lario: a sud il selvaggio golfo di Diana, a nord il golfo di Venere, affacciato sulla celebre Tremezzina, lo specchio d’acqua tra Tramezzo e Bellagio. Chi ne rimase sicuramente affascinato fu l’uomo che diede il via ai lavori di costruzione della villa alla fine del Settecento, il cardinale milanese Angelo Maria Durini. L’alto prelato, uomo colto e protettore di artisti, individuò in questo lembo di terra dove fin dal Duecento esisteva l’edificio – ormai in rovina – di un convento francescano, il luogo adatto a dar


Le tre arcate della Loggia, costruita sul punto più alto del Dosso di Lavedo; sullo sfondo il panorama del lago di Como

rifugio alla sua voglia di pace, di ozio letterario e cultura. Siamo nel 1787 e in Europa sta per scatenarsi il ciclone della Rivoluzione francese, ma qui al Balbianello il clima era ancora quello arcadico e bucolico degli intellettuali del bel tempo antico, un mondo a sé stante il cui fascino è reso ancora più evidente dalla fusione con il paesaggio circostante. In breve tempo i ruderi dell’antico convento vennero trasformati in una casa padronale, mentre la facciata con due snelli campanili della vecchia chiesa francescana venne conservata e divenne parte integrante della nuova chiesetta. Un invito alla bellezza Il promontorio divenne, invece, lo scenario naturale in cui ambientare i desideri di bellezza, eleganza e armonia del cardinale. Si dovette, per esempio, pensare al giardino, dato che la piccola penisola rocciosa su cui sorge la villa offre ben poco spazio e poca terra per inserire nuove piante. Non fu quindi possibile creare un giardino all’italiana, anche se numerosi siepi di lauro e di bosso delimitano con geometrica precisione zone e tappeti erbosi, ma non fu nemmeno possibile creare un giardino all’inglese. Il giardino si adattò alla conformazione naturale dell’area su cui veniva alla luce e questa scelta fa sì che ancora oggi questo spazio aperto restituisca un senso di ordine e di compattezza con il paesaggio circostante. A dominare tutto il complesso, il Durini volle un Loggia, che si scelse di costruire leggermente sopra la casa padronale, nel punto centrale della piccola penisola protesa nel lago. È questa la vera invenzione architettonica della villa, una struttura aperta ad arcate posta parallelamente alla penisola

e da cui è possibile ammirare i due panorami del Lago di Como divisi dal dosso su cui sorge il complesso del Balbianello. La loggia è poi affiancata da due ambienti simmetrici, la biblioteca e la stanza della musica, i luoghi ideali dove si riuniva il cenacolo letterario del cardinal Durini. Qui i maggiori uomini di cultura della zona – tra cui Giuseppe Parini – trascorrevano ore liete e tranquille a base di poesia, letteratura, filosofia e storia al motto di “Fay ce que voudras” (Fa ciò che vuoi). Un invito che ancora oggi campeggia sul pavimento del portico aperto sul porticciolo e che accoglie i visitatori odierni come quelli di più di due secoli fa. Un invito alla libertà e all’abbandono al bello e l’armonia, a godere pienamente del luogo e dei suoi splendori, ad assaporare il fascino di un angolo incantato, così insolito e tanto fuori dal tempo nella sua bellezza raccolta e mai ostentata. note 1 Si tratta per la precisione di Agente 007- Casinò Royale (2006) e di Star Wars. Episodio II - L’attacco dei cloni (2002). per informazioni: Villa del Balbianello, Lenno (Como) tel.: 0039 0344 56 110 e-mail: faibalbianello@fondoambiente.it Apertura dal 14 marzo al 14 novembre: ore 10 –18, tutti i giorni tranne i lunedì e i mercoledì non festivi. Si accede alla Villa via lago con imbarco da Lenno. per saperne di più: Dina Lucia Borromeo (a cura di) Il libro del Fai 272 p., 330 ill. a colori e b/n; Skira (2005)


Reza Khatir Nato a Teheran nel 1951, è fotografo dal 1978. Ha collaborato con numerose testate nazionali e internazionali. Ha vissuto a Parigi e Londra; oggi risiede a Locarno ed è, fra le altre cose, docente presso la SUPSI. Per informazioni: www.khatir.com

in alto: nella casa padronale si trova il Museo delle spedizioni che raccoglie cimeli e ricordi delle spedizioni di Guido Monzino, ultimo proprietario della villa al centro e in basso: alcuni ambienti interni arricchiti da Guido Monzino con una ricca collezione d’arte cinese, africana e precolombiana e preziosi mobili del Settecento inglese e francese


Cecità. Tutti i colori del buio testo di Roberto Roveda; illustrazioni di Flavia Leuenberger

conto, forse per la prima volta concretamente, quanto noi tutti siamo schiavi della vista, della luce. Quanto questo senso abbia col tempo preso il sopravvento sugli altri, li abbia, in qualche modo limitati, resi secondari. Non sto usando al meglio tutte le mie risorse, ora lo so, ma il problema è che non so come fronteggiare la situazione.

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Il buio che mi circonda è assoluto, ben diverso dalla tenue penombra a cui sono abituato nelle notti cittadine, punteggiate da mille luci e riflessi. Anche se sollevo le mani a un palmo dal naso non intravedo nulla, né mi è possibile accendere una luce per ritornare al mondo solito e alle sue regole. Immediatamente ho un senso di disorientamento e mi rendo conto di essere precipitato in un universo regolato da criteri diversi da quelli per me abituali. I primi passi che muovo sono incerti, con le mani protese in avanti e i piedi che inciampano e si ostacolano tra di loro. Poi arriva la mia guida, che si muove in questo mondo per me ostile con totale disinvoltura, mi chiama per nome e mi prende per mano, costringendomi a procedere nel mio percorso e a penetrare senza paura nell’oscurità. A spasso nel buio Inizia in questo modo “Dialogo nel Buio”, la mostra/percorso allestito da dicembre 2005 all’Istituto dei ciechi di Milano (www.istciechimilano.it), un modo concreto per far conoscere a tutti coloro che posseggono il dono della vista le difficoltà quotidiane che devono affrontare le persone non vedenti. Per scoprire che anche la cecità offre possibilità inaspettate, permette di scoprire sensazioni ed emozioni dimenticate oppure mai provate in precedenza. Consente di condurre una vita normale, basata però su regole differenti. A guidarmi nel mio dialogo nel buio è un ragazzo cieco dalla nascita. È lui che mi aiuta e mi conduce attraverso gli ambienti, le situazioni, gli odori, i rumori che caratterizzano il percorso, tutto rigorosamente nel buio più totale. Passo dagli spazi tipici di una casa, come una cucina con le sue attrezzature, alla riproduzione di uno spazio aperto, dove cammino sull’erba soffice, circondato da piante e sullo sfondo del suono di un ruscello. Poi mi immergo nel frastuono del traffico, veramente assordante quando non c’è la vista che aiuta a comprendere quello che sta accadendo attorno a noi: clacson, sferragliamenti, voci urlate. Il senso di terrore è molto grande non potendo guardarsi attorno. Improvvisamente mi sento indifeso in questo universo in cui non riesco a ritrovarmi e a orientarmi. Mi rendo rendo

La privazione dell’abitudine Sono un pesce fuor d’acqua, che annaspa tutto il tempo e se non ci fosse la mia guida – che sembra capace di riconoscere me e gli altri sette del mio gruppo solo toccando un braccio oppure dal suono della voce – mi sentirei perduto. È lui che mi dice come fare, che continua a ripetere di fare affidamento sui sensi rimasti, sull’udito, sul tatto, l’olfatto, anche sul gusto. Ripete di ascoltare, toccare, annusare e anche assaggiare, per cominciare ad apprendere le regole che caratterizzano il mondo dell’oscurità. Non è facile, si tratta di sensi un poco intorpiditi, sovrastati quotidianamente dalla vista, sensi che i nostri antenati utilizzavano per la caccia o per la navigazione, per cogliere il mutamento di direzione del vento, oppure i passi e l’odore di una preda. Da figlio dell’epoca ipertecnologica attuale mi trovo a rimpiangere i nostri antenati e le loro capacità di entrare in contatto con la natura. Devo tornare primitivo. L’odore dello smarrimento Ci vuole una buona mezz’ora, poi comincio ad assaporare meglio l’esperienza che sto vivendo, mi rilasso e provo ad ascoltare, a toccare, a odorare. Mi rendo veramente conto di quanto vedere faciliti le cose, quanto la vista sia un dono prezioso e straordinario, tanto da far dimenticare, da rendere secondari gli altri sensi, poco moderni e quasi sconvenienti. Pensiamo solo a quanto è considerato poco educato toccare una persona. A nessuno verrebbe in mente, poi, di annusarla. Eppure per un non vedente, toccarla, odorarla e ascoltare la voce è l’unico modo per conoscerla. Parametri e regole diverse per poter vedere anche al buio, insomma. All’uscita mi aspetta il “Cafénoir”, un locale dove gustare un caffè, ancora nella più completa oscurità. L’aroma del caffè mi pare più inteso e il palato restituisce sensazioni inaspettate. Forse solo un poco di suggestione o magari sono riuscito a fare almeno in parte mie le parole scritte all’inizio della mostra: “Non occorre guardare per vedere lontano”. per saperne di più: www.dialogonelbuio.org Tutte le informazioni per passare poco più di un’ora nel buio assoluto, affidandosi solo al tatto, all’udito, all’olfatto e al gusto. invito alla visione: Rosso come il cielo regia di Cristiano Bortone Italia, 2005 Pellicola con Luca Capriotti e Paolo Sassanelli, è la storia vera di Mirco Mencacci, cieco fin da bambino a causa di un incidente e capace di creare favole solo con i rumori. Col tempo Mirco sviluppa un udito eccezionale fino a diventare un montatore del suono tra i più richiesti nel cinema italiano.



Tendenze p. 48 – 49 | di Marisa Gorza

Capo importante, ma estremamente sciolto e versatile, il caftano o khaft˘an possiede un allure d’arcana eleganza. Misteriose sono le sue origini, pare radicate nella Persia del Seicento a.C. con susseguente diffusione in tutto il mondo arabo

l caftano, tunica lunga fino ai piedi, ebbe il suo splendore durante l’Impero Ottomano, quando ogni modello si arricchiva di trame e ricami sontuosi a indicare lo status di chi li indossava. A partire dal XVIII secolo i preziosi caftani diventano patrimonio delle donne più facoltose del Marocco che pur celando il corpo lo lusingano con colori e decori magici. Ed è stata Diana Vreeland, storica direttrice di “Vogue America” a scoprirlo durante un viaggio a Marrakech e a sdoganarlo in Occidente. Dopo di lei conquisterà donne del calibro di Marella Agnelli e Jackie Kennedy, mentre la maliarda (e miliardaria) Barbara Hutton ne possedeva una collezione da museo. Insomma, il caftano in breve diventerà un’icona-passepartout del moderno fashion. Dalle infinite anime e varianti, oltre che come copricostume, è adatto per serate mondane o per ricevere in casa, per l’aperitivo al bar sulla spiaggia, nonché per le giornate sul litorale o in barca. L’estate 2011 gli dà il benvenuto insieme alle signore che ne subiscono e ne elargiscono lo charme.

Restiamo in Medio Oriente per parlare degli uomini del luogo che, oltre al djellaba con cappuccio, indossano spesso il kamis, un lungo e fresco camicione

con collo a listino, di un taglio lineare e alquanto maschile. Tuttavia, la tunica (parente stretto del khaft˘an), anche se ben accetta sulle spiagge, portata da un europeo in ambito urbano può risultare inopportuna. Ve lo immaginate un fascinoso Tuareg paludato con doppiopetto in Tasmania? L’effetto è ugualmente anacronistico, a meno che il kamis non venga scelto per la festa di Ferragosto in villa, a Pantelleria o a Porto Cervo (dove fanno testo rispettivamente Giorgio Armani e Roberto Cavalli). Senza dimenticare che questa disinvolta tenuta esige dall’uomo piedi tassativamente nudi (e presentabili, mi raccomando).

Arabeggiante e misteriosa la lunga versione Missoni è tramata a effetti di luce e ombra e stilemi zig-zag in rilievo. Passa dalla spiaggia alla festa al chiaro di luna con l’aggiunta di sandali dal fun heel alto e stondato e una caterva di bracciali multicolore.

La creatura raffinata e avventurosa di Pierre Mantoux sceglie l’ampio caftano in crêpe de chine con ricami a virgole paisley disegnate da scintillanti paillette e preziosi Swarovski. Sotto occhieggia

il costume da bagno couture anch’esso illuminato da bagliori etnici.

Sono in strati di aerei e trasparenti chiffon le irriverenti interpretazioni di Philipp Plein. Decisamente corte e da portare con gamba a vista o sugli skinny jeans, sempre decorate con motivi gioiello riproducenti... un teschio. Perfette con le peep toe “tacco 15” tempestate di cristalli.

I colori intensi come il rosso tramonto, sono l’esaltazione degli svelti caftani dal taglio a fazzoletto di Impronte Parah. Adatti sia a un pomeriggio in barca o in piscina, sia a un giro in città. C’è pure il prototipo con stampa animalier dai toni cipriati dal rosa al fuxia, coordinato al bikini a fascia.

Svolazzante forma a farfalla, profonda scollatura ovale e ramages di fiori ricamati e dipinti tanto fitti da ricordare gli antichi giardini segreti (i famosi jarda) celati all’interno delle case nelle medine. Si tratta di un accattivante e iperfemminile modello di Yamamay.



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» di Nicoletta Barazzoni

Dopo la recente proiezione al Festival di Cannes di The Tree La ricostruzione delle ipocrisie puritane di una famiglia degli of life i critici si sono posti agli antipodi, smontando od osan- anni Cinquanta fatta da Malick è tanto visionaria quanto reanando il regista. Al di là delle letture “ufficiali” resta sovrana listica. Le voci angeliche fuori campo della madre o del figlio l’opinione intima dello spettatore e tra le Jack che sussurra “ci dicono di non fare delle innumerevoli sensazioni che il film trasmetcose ma poi loro le fanno” sono flussi continui te, la più attanagliante è stata l’incapacità di di coscienza. Il film si sviluppa a più livelli: capire se il regista crede in Dio oppure se è un uno definisce la maestosità e la dura condanagnostico. Insomma, la formazione filosofica na della Natura, ben distinta dalla Grazia; di Malick ha influenzato la costruzione della un altro sviscera l’educazione autoritaria ma sua opera? E questo perché da un lato egli molto cattolica del padre repressivo verso esprime una lucida accusa nei confronti del i figli e la moglie (Jessica Chastain è una comportamento contraddittorio dei cattolici donna amorevole e devota); un altro ancora bigotti; Malick mette a fuoco l’educazione di ci fa vedere come la durezza paterna segni un padre praticante (Brad Pitt), il quale nel per sempre l’esistenza di un uomo (imparegprivato insegna ai figli a fare a pugni, mescogiabile Sean Penn nella parte del figlio Jack lando l’amor proprio con la sua incapacità ad adulto). A un certo punto sembra addirittura amarli. Una mancanza affettiva piuttosto tardi “rivivere” la crocifissione (digitalizzata) di diva, sfociata nella classica autoassoluzione Gesù, seguita dallo scatenarsi violento della L’albero della vita del suo “sincero pentimento” dopo la morte Natura, tra magma incandescenti, galassie e regia di Terrence Malick del primogenito. Dall’altro lato, però, il film paesaggi lunari. E mentre gli effetti speciali Stati Uniti, 2011 sembra assegnare nelle mani del Padre Eterperfettamente compenetrati nella realtà dino la sopravvivenza dell’umanità, determinata dalle reazioni panano forme di vita primitive e le scene scorrono su riprese di dell’Universo con le sue forze misteriose. Un’idea rafforzata vulcani in eruzione, alberi giganteschi e crepacci (rigorosamente anche dall’immagine/emblema del film (vedi sopra) che pare filmati dal basso verso l’alto), si avverte la volontà del regista di rievocare la figura biblica di Giacobbe il quale, al momento del aprire il varco a una corrente di luce ascensionale: l’impressione parto, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello, nato sensoriale è la presenza di un canale divino, solcato dalla forza per primo (e quindi destinatario del diritto di primogenitura). cosmica di un mistero indicibile.

» illustrazione di Adriano Crivelli

Visioni

Le radici del mistero


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Astri gemelli

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Iperattività rivolta alla promozione della propria immagine. Facilità di parola. Forti e convincenti in tutte le situazioni. Aiuti da parte di persone influenti. Fase spirituale per i nati nella prima decade

Opportunità finanziare grazie al trigono tra i valori della seconda casa e quelli dell’ottava. Potrete così sviluppare un’attività commerciale in linea con i vostri interessi. Aiuti da parte del partner.

Saturno entra definitivamente nella vostra quarta casa solare. Traslochi. Ristrutturazioni familiari. Riorganizzazione e rielaborazione di tutte le relazioni più antiche. Sbalzi umorali e cambiamenti in vista.

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A partire dal 17 il transito di Mercurio nel vostro segno vi indurrà ad analizzare ogni situazione per quella che effettivamente è senza farvi fuorviare dal vostro orgoglio. Positivi il 21 e il 22 luglio.

Primi effetti della quadratura di Marte: frenetici e ipertesi. Cercate di canalizzarvi verso pochi obiettivi senza disperdervi in mille fugaci interessi. Opportunità professionali per i nati nella prima decade.

In pochissimo tempo sarà spazzata via ogni precedente sovrastruttura. Lasciate perdere le vestigia del passato e iniziate a occuparvi solamente del nuovo. Piuttosto iperattivi i nati nella terza decade.

Fase di bilanci: è il momento di vagliare la validità delle vostre scelte effettuate nel corso degli ultimi anni. Siete ancora in regola con i vostri obiettivi o avete fatto il passo più lungo della gamba?

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Momento vivace per la vita di coppia. Siate meno critici con il partner. Evitate di dare troppo clamore pubblico a una vostra avventura amorosa. Riposatevi di più. Ottime giornate il 21 e il 22 luglio.

Tra il 17 e il 23 luglio Venere interesserà soprattutto i nati nella terza decade. Atmosfere romantiche in compagnia del partner. Opportunità da prendere assolutamente al volo per i nati nella prima decade.

Grazie a Marte riuscite ad arrivare dove volete. Questo è un ottimo periodo per dedicarsi a un'attività fisica. Siete in grado di valutare chiaramente i vostri obiettivi e cosa dovete fare per raggiungerli.

Grazie al trigono di Giove con Plutone potrete iniziare a spassarvela senza troppe complicazioni di ordine mentale. Cercate di canalizzare le energie prodotte dalla quadratura di Marte ma senza false euforie.

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Orizzontali 1. Angosciata, assillata • 10. Rinnegare • 11. Sei romani • 12. Noia, uggia • 14. La cura l’otorino • 17. Reginetta di bellezza • 18. Il nome di una Goggi • 20. La fine della Turandot • 21. Epoche • 22. Sbagliati • 23. Precettore antico • 24. Donne colpevoli • 25. Thailandia e Norvegia • 26. La dea della speranza • 28. In nessun tempo • 29. Cuor di cane • 31. Più che agiato • 33. Offesi, feriti • 35. Woody, regista e attore • 37. Cloache • 39. Il regista de’ “L’albero degli zoccoli” • 40. Ignavie • 42. Malattie ereditarie • 44. I confini di Roveredo • 45. Iniziali di Muti • 47. Gambo centrale • 48. Il casato della principessa Mafalda • 50. Fa sbadigliare • 52. Coprono le case • 53. Articolo romanesco • 54. Comodità • 55. La fine di Aramis.

• 8. Cantori epici • 9. Lo sono anche gli Eremitani • 13. Ama Tristano • 15. Giaggiolo • 16. Celestiali • 19. Intrigo amoroso • 27. Principe francese • 28. Morbidi, cedevoli • 30. Piccolo difetto • 32. Fu re dei Franchi • 34. Vittorio, critico • 36. Esimi, illustri • 38. Pari in secco • 41. Arrabbiati • 43. La solita rima per cor • 46. Granturco • 49. Otto senza pari • 51. Vocali in cassa.

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Verticali 1. Il più antico codice marittimo mediterraneo • 2. Camere mortuarie • 3. Mezza riga • 4. Ammende • 5. Spagna e Romania • 6. Il nome di King Cole • 7. Rabbrividire, fremere

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» a cura di Elisabetta

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Incontri d’affari, e non solo, favoriti dall’ingresso di Mercurio negli ultimi gradi del Leone. Attenti a non farvi manipolare. Scelte e soluzioni definitive da porsi in relazione all’opposizione con Saturno.

La soluzione verrà pubblicata sul numero 30

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DOVE C’È ACQUA, I BAMBINI CRESCONO BENE. Nei paesi del Sud del mondo, un bambino su quattro è denutrito. L’acqua può fare molto, perché dove c’è acqua, la terra è generosa, la fame sparisce e i bambini crescono bene. Il vostro contributo è come l’acqua che irriga i campi.

Donate 10 franchi con un SMS: Acqua 10 al 488.


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