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PROFITTO TIRANNO

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Ticinosette n° 32 12 agosto 2011

Agorà Managerialismo. Un’economia senza umanesimo Arti Musica brasiliana. Jobim, o maestro

DI

Tiratura controllata 72’011 copie

Chiusura redazionale Venerdì 5 agosto

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Direttore editoriale Peter Keller

Redattore responsabile

Sguardi Culture. Il crocevia del sesso Vitae Elio Moro

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ELISABETH ALLI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

MARCO ALLONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

FABIANA TESTORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reportage Pavia. La nobile Certosa

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Luoghi Gabinetti. I templi del bisogno

ROBERTO ROVEDA; FOTOGRAFIE DI REZA KHATIR. . . . . . . DI

MARCO JEITZINER . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tendenze Automobili e tecnica. Correnti d’aria Visioni I piccoli e i grandi

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ROBERTO ROVEDA . . . . . . . . . . . . . . .

TITO MANGIALAJO RANTZER. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Società Shopping compulsivo. Spesa da matti

Impressum

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GIANCARLO FORNASIER . . . . . . . . . . . . . . . . . .

ROBERTO ROVEDA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri / Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

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In copertina

Benjamin Franklin vs il profitto Elaborazione grafica di Antonio Bertossi

Siriana e oltre Nel momento in cui stiamo scrivendo queste righe (giovedì 4 agosto) è giunta dall’agenzia di stampa ufficiale Sana la notizia secondo cui il presidente siriano Bashar al-Assad avrebbe firmato un decreto legge a effetto immediato che introdurrebbe il multipartitismo nel paese. Secondo l’agenzia di Damasco “il governo avrebbe adottato un disegno di legge che riguarda i partiti politici in Siria come parte del programma di riforma mirato ad arricchire la vita politica, la creazione di una nuova dinamica e consentendo un cambiamento nel potere politico”. Sempre secondo quanto riportato, il governo siriano fisserebbe in tal modo i principi e le modalità sulla base delle quali dovrebbero costituirsi le nuove aggregazioni politiche, escludendo peraltro che i nuovi partiti si formino sulla base di fattori religiosi, lobbistici o tribali. Una decisione tardiva? Forse sì, anche perché la forza e la vastità delle proteste di massa e la sanguinaria repressione di Assad non lasciano sperare in una rapida pacificazione. Dopo quasi cinquant’anni di dittatura il partito Baath – alla guida del paese dal lontano 1963 – potrebbe lasciare il passo a nuove formazioni, ma da quanto accaduto a partire da marzo di quest’anno in Siria viene il sospetto che si tratterà di una transizione non facile, a cui l’oligarchia siriana resisterà con ogni mezzo e ogni stratagemma. A pesare in tutta questa faccenda è anche la pessima figura dell’Occidente, incapace in questi mesi di battere i pugni sul tavolo – e sarebbe il momento giusto, questa volta – ricattato su molti piani da Russia e Cina, storici sostenitori del criminale regime di Assad. Certo, non è un momento storico tra i più facili, ma un gesto più deciso non avrebbe guastato. Ma forse la ragione di tale timidezza va ricercata nel fatto che dal punto di vista energetico il paese mediorientale non riveste l’importanza

dei suoi ben più “fortunati” vicini, dato che la metà della produzione petrolifera siriana è assorbita dal mercato interno. La Libia, per fare un esempio, ha una produzione giornaliera di petrolio quattro volte superiore ed è il quarto produttore di greggio in Africa. Insomma, il gioco evidentemente non valeva la candela. Dalla politica internazionale e i conflitti mediorientali alla finanza e all’economia globalizzata il passo è assai breve: sì, perché gli interessi economici sono da sempre la principale fonte propulsiva delle guerre. Dove è possibile trarre profitto – magari speculando sulle disgrazie e le vite altrui – le acque non sono mai troppo calme, se non in superficie certamente nelle profondità più nere e miserevoli. In questo senso vi invitiamo a leggere l’articolo di apertura di questo numero a firma di Roberto Roveda, il quale ha incontrato Giulio Sapelli, noto economista, saggista e professore universitario (www. giuliosapelli.it). Interrogato sull’inquietante deriva managerialista dell’economia e dello stato – e sul manager/politico quale concentrato di potere disumanizzato – Sapelli ha le idee sin troppo chiare: “Oggi anche la politica è diventata managerialista, dunque si può dire che non esiste più la politica, così come non ci sono più i grandi partiti… Il managerialista prima ha combattuto la politica, poi se ne è impossessato. Basti pensare a quello che hanno fatto i managerialisti in tutto il mondo sui sistemi educativi, la scuola, i sistemi pensionistici (...) Secondo il pensiero managerialista, che è – se così si può dire – anti-altruista, non è giusto aiutare un altro. In questo senso la politica non esiste più, ha vinto il managerialismo. (...) Abbiamo davanti a noi un mondo di grandi sofferenze e di grande pena perché il managerialismo ha come sua base fondamentale la perdita dell’indignazione verso l’ingiustizia”. Buona lettura, la Redazione


Un’economia senza umanesimo

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Agorà

Ogni impresa deve sottostare alle leggi di mercato e ha come obiettivo il raggiungimento dei profitti. Oggi però pare ci si sia dimenticati che dietro la parola “impresa” e alle tabelle che evidenziano i “costi-benefici” operano degli esseri umani che vivono sulla propria pelle le scelte economiche di chi governa aziende e stati. Quali le cause della disumanizzazione dei processi economici? testo di Roberto Roveda; grafica di Antonio Bertossi

I

n questi ultimi anni abbiamo assistito a forti cambiamenti nel mondo della produzione e del lavoro, al netto ridimensionamento delle politiche di sostegno al welfare e a una minore redistribuzione del reddito. Questo ha comportato la perdita delle posizioni acquisite nel corso del Novecento dalle classi medie e un loro confluire nelle classi meno agiate, con un conseguente allargamento della base della piramide sociale. In parole povere ai pochi ricchi, sempre più ricchi, corrisponde un numero sempre maggiore di persone che faticano ad arrivare alla fine del mese e la cui posizione sociale tende a slittare verso le fasce meno abbienti della società. Si tratta di trasformazioni economiche e sociali in atto da tempo, per le quali è difficile trovare una causa univoca. Inutile nascondersi, però, che il pensiero economico è mutato negli ultimi decenni e ha fatto del successo individuale a tutti i costi – e del relativo guadagno – una sorta di mantra. Non a caso gli studiosi di economia hanno cominciato a individuare modelli di pensiero e ideologici ben definiti alla base di quest’uso distorto ed egoistico del potere economico. Per esempio, Giulio Sapelli, autorità nel campo degli studi economici e professore di Storia economica all’Università di Milano, nei suoi ultimi scritti ha puntato il dito sulla “disumanizzazione” dell’economia e sull’incapacità di chi opera in ambito economico – primi fra tutti i manager – di comprendere che il mercato capitalistico ha meccanismi, regole, modelli teorici, ma è stato costruito da soggetti umani (nazioni, classi, partiti, singole persone) e a questi soggetti deve offrire beneficio. Sapelli ha parlato di una nuova ideologia, il “managerialismo” che ha certo contribuito ad alleggerire le responsabilità dell’agire economico, acuendone però l’orientamento opportunistico. Per saperne di più gli abbiamo posto alcune domande.


Professor Giulio Sapelli, cos’è il managerialismo e quali sono le sue caratteristiche? “Managerialismo è una parola nuova e indica sostanzialmente l’utopia di ordinare complesse operazioni, sia in economia, sia nei sistemi sociali, attraverso un pensiero lineare fondato sull’autorità di controllo. Il managerialismo considera il comportamento umano condizionato solo da calcoli costi-benefici sulla base di principi ispirati alla redditività economica. È un’ideologia che considera le organizzazioni non come sistemi viventi e vitali organici, ma come sistemi meccanici che possono essere controllati, così come possono essere meccanicamente controllate e indirizzate le persone”. Quali conseguenze comporta questa concezione a livello economico e sociale? “Conseguenze gravi: aumenta la sofferenza delle persone che, come sappiamo, non si muovono attraverso un costante calcolo costi-benefici. Provoca danni, dimenticando l’essenza primaria dell’uomo, unico essere vivente sulla Terra che si pone il problema del «dover essere», prima di quello dell’essere. E comporta enormi costi di controllo, perché bisogna controllare le persone, oppure enormi costi di incentivazione economica. Di fatto, nelle associazioni economiche può generare delle vertigini di comportamenti opportunistici come è accaduto, per esempio, nell’ultima crisi finanziaria, con lo stock-optionismo, la quinta essenza del managerialismo. La direzione managerialistica delle aziende – in grado di prendere decisioni solo su basi contabili – sta inoltre distruggendo le basi sociali e imprenditoriali del mondo occidentale

e ha dimostrato di essere incapace di organizzare e armonizzare le organizzazioni complesse”. Da cosa nasce una concezione come quella managerialistica? “Il managerialismo ha un nemico: l’umanità, o meglio l’umanesimo. Ritiene che i giovani debbano costruire la loro carriera solo in prospettiva del lavoro che troveranno e quindi del reddito. E questo vuol dire privare di senso qualsiasi percorso di carattere educativo, oltre a essere una stupidaggine perché con la variabilità dell’economia nulla può essere dato per scontato. L’umanesimo è seguire il proprio demone: quando i classici non diranno più nulla, la nostra civiltà sarà finita. Il managerialismo, il pensiero di McKinsey (fondatore dell’omonima e famosa multinazionale di consulenza manageriale) e dei suoi seguaci è già un anticipo della fine della civiltà, perché non comprende il pensiero complesso: ha solo il pensiero semplice, lineare, che punta al profitto costi quel che costi”. Il managerialismo vede la politica come una grande nemica oppure per essa rappresenta un’opportunità? “Oggi anche la politica è diventata managerialista, dunque si può dire che non esiste più la politica, così come non ci sono più i grandi partiti… Il managerialista prima ha combattuto la politica, poi se ne è impossessato. Basti pensare a quello che hanno fatto i managerialisti in tutto il mondo sui sistemi educativi, la scuola, i sistemi pensionistici. Il sistema di welfare è stato praticamente distrutto perché è stata distrutta la solidarietà infragenerazionale fra giovani e ricchi. Oggi in tutto il mondo paghiamo le pensioni solo (...)

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Agorà

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IN PAROLE POVERE CI SONO POCHI RICCHI, SEMPRE PIÙ RICCHI,

SEMPRE PIÙ PERSONE FATICANO AD ARRIVARE ALLA FINE

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su base contributiva, cioè tu avrai solo quello che avrai risparmiato. E perché? Perché, secondo il pensiero managerialista, che è – se così si può dire – anti-altruista, non è giusto aiutare un altro. In questo senso la politica non esiste più, ha vinto il managerialismo”.

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E SEMPRE MENO PERSONE NELLE FASCE MEDIE DELLA SOCIETÀ.

ALLA FINE DEL MESE,

Il managerialismo, a suo parere, non ha più avversari? “Io penso che abbia vinto solo ai vertici della società; la maggioranza delle persone non vive secondo questa «filosofia». Per nostra fortuna, l’umanità conserva un orientamento altruista, altrimenti non si spiegherebbe tutta questa gente che fa volontariato o che ha delle vocazioni religiose, o ancora la persistenza del sacro, che continua a non voler scomparire... anzi, in questi venti anni è rinato in tutto il mondo. Però tutte queste persone sono tagliate fuori dal potere, perché il managerialismo ha di fatto attuato un colpo di stato politico, istituzionale e culturale. A questo proposito bisognerebbe rileggere un autore come Julien Benda e il suo Tradimento dei chierici, scritto tra le due guerre mondiali. Parla del tradimento degli intellettuali, cioè di come gli intellettuali, e quanti avevano responsabilità di potere, davanti al dio denaro hanno rinunciato a tutto”. Quando è avvenuto secondo lei questo “colpo di stato”? “Fondamentalmente quando è stato smantellato il sistema educativo americano, rinunciando a formare la classe dirigente del paese. È in questo modo che si è perso il nesso tra la cultura umanistica e la cultura scientifica. Ed è così che si può pensare che l’economia sia solo una tecnica, separata dalla morale. Anche la chiesa cattolica, e le altre grandi istituzioni religiose, hanno delle responsabilità; la chiesa cattolica in particolare ha smesso di pensare a una teodicea della salvezza e per un lungo periodo ha appoggiato il modello liberista. Solo negli ultimi anni si è avvertita una certa inversione di tendenza. Poi c’è stato un peso crescente del protestantesimo che per sua natura è managerialista, perché lega la grazia alle opere… Magari non è troppo politically correct dirlo, ma mi sembra che un collegamento ci sia”. A suo parere esiste un legame tra la crisi economica attuale e la cultura managerialistica? “Se parliamo di crisi finanziaria senza dubbio c’è un legame, perché vi è un rapporto tra comportamenti personali, disorientamenti morali e crisi. Siamo di fronte a una crisi da eccesso di rischio, da eccesso di average per avere molte più stock-options”. Come si esce da questo meccanismo perverso? “Non se ne esce rapidamente perché il managerialismo ha creato una nuova grande classe sociale che non era mai esistita. C’era stata un’anticipazione nella grande banca d’affari dell’Ottocento, ma i grandi banchieri del passato erano dei galantuomini. Gran parte della nostra civiltà, come i grandi musei e le grandi biblioteche, sono stati creati dai grandi banchieri ebrei. Ora però c’è una nuova classe sociale: sono questi manager stock-optionisti che hanno preso il potere, sia nell’amministrazione pubblica sia nelle imprese private, e soprattutto hanno creato queste business schools, come l’Mba per esempio, che bisognerebbe eliminare perché hanno diffuso il pensiero semplice, questa lingua impoverita… Anche perché i managerialisti sono anti-intellettuali per principio: basti pensare a quello che leggono in inglese, una lingua molto raffinata, meravigliosa, che però oggi viene impoverita dal linguaggio manageriale. I manager non leggono certo Shakespeare o Milton – per loro il Paradiso perduto è, probabilmente, il nome di una Spa – ma questi stupidi libri manageriali. Per altro, non credo che se ne uscirà rapidamente. Abbiamo davanti a noi un mondo di grandi sofferenze e di grande pena perché il managerialismo ha come sua base fondamentale la perdita dell’indignazione verso l’ingiustizia”.

Agorà

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Jobim, o maestro Pianista, chitarrista ma soprattutto grande compositore, Antonio Carlos Jobim ha segnato un’epoca non solo nell’ambito della musica del suo paese, il Brasile, ma a livello internazionale. Un breve omaggio a un genio della canzone testo di Tito Mangialajo Rantzer

Quando si pensa alla musica brasiliana, la mente corre subi-

Arti

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to alla bossanova. E dalla bossanova il pensiero va a Rio de Janeiro, alle sue magnifiche spiagge, alle favelas, alle mille contraddizioni che attraversano questa straordinaria città. E ci viene in mente subito una canzone che ha fatto il giro del mondo e che celebra le spiaggie di Rio e le ragazze che le popolano: “Garota de Ipanema” (“La ragazza di Ipanema”), di Antonio Carlos Jobim e Vinicius de Moraes. Tom Jobim è stato un autentico genio della musica, un talento fuori dal comune capace di sfornare melodie memorabili, mantenendo elevatissimo il livello artistico del suo lavoro. Sì, perché non appena ci si appassiona un po’ alla musica brasiliana e si scende in profondità, si scopre che “Garota de Ipanema” è solo uno degli innumerevoli gioielli di Jobim. Un vero “carioca” Ma chi era Tom Jobim, “O maestro”, come lo chiamavano i brasiliani? Antonio Carlos Jobim, per tutti Tom, era un vero abitante di Rio, un puro carioca, nato nel 1927 a Tijuca, nella zona nord della città, quartiere fuori dagli itinerari turistici ma ancora oggi estremamente vivo e caotico, residenza dei veri carioca. La famiglia Jobim si trasferì quando Tom era un bambino nella zona sud, a Ipanema, famosa per la sua stupenda spiaggia – all’epoca quasi selvaggia –, in una casa immersa nel verde e vicino allo stupendo Jardim Botanico (a proposito, se andate a Rio non mancate di farci una visita: è un luogo incantevole!). Il padre morì quando Tom aveva appena otto anni, e la madre si risposò poi con un uomo che adottò e crebbe Tom e la sorella. Due zii materni, entrambi musicisti, lo avvicinarono alla musica e a 14 anni Jobim cominciò a studiare pianoforte, armonia e contrappunto, avvicinandosi ai lavori del grande Claude Debussy. Imparò in fretta e bene. Tanto che poco più che ventenne, abbandonata la facoltà di architettura e già sposato e padre, si guadagnava da vivere suonando nei locali notturni di Copacabana. Cominciò ben presto anche la carriera di arrangiatore e compositore presso la casa discografica Continental e dopo un periodo di gavetta conobbe il successo con il disco Rio de Janerio-sinfonia popular em tempo de samba. Diventato uno dei più apprezzati arrangiatori brasiliani, co-


Sopra e a sinistra: Antonio Carlos Brasileiro de Almeida Jobim (1927–1994). Immagini tratte da http://blogdoleunam.wordpress.com

nobbe il poeta Vinicius de Moraes nel 1956 e in pochi anni i due rivoluzionarono la musica brasiliana. Vinicius volle conoscere e collaborare con Tom Jobim per portare a compimento la sua piéce teatrale Orfeu da conceição, ispirata al mito virgiliano di Orfeo ed Euridice, alla quale stava lavorando da anni. Così Jobim compose le musiche per questo dramma a cui furono aggiunte poi alcune canzoni di Luiz Bonfá per la celeberrima versione cinematografica del 1959 (diventata Orfeu negro). A Tom e Vinicius si devono capolavori come “A felicidade”, “Chega de saudade”, “Garota de Ipanema”, “Samba do avião”, “Insesatez” per citare solo alcune delle canzoni composte dalla coppia. Quando poi Tom e Vinicius incontrarono João Gilberto, di cui abbiamo già parlato sulle pagine di Ticinosette, la bossanova conobbe il suo apice. Oltre i confini Jobim ha avuto un immenso successo anche all’estero e soprattutto negli Stati Uniti, dove importantissima è stata la sua collaborazione, e la sua amicizia, con Frank Sinatra. La sua musica ha ispirato un gran numero di jazzisti, primo fra tutti il sassofonista Stan Getz. Ma Jobim è anche riconosciuto come un ecologista ante litteram, avendo intrapreso fin dagli anni Settanta battaglie contro la deforestazione dell’Amazzonia e

il degrado ambientale nel suo paese. Egli stesso ammetteva che la sua maggiore fonte d’ispirazione fosse la Mata Atlantica (la grande foresta tropicale tipica della costa brasiliana e che avvolge con un verde abbraccio la città di Rio de Janeiro). Spesso andava a pensare e a comporre nel già citato Jardim Botanico, dove la Mata Atlantica sembra quasi penetrare nella città. Presso il Jardim Botanico è inoltre possibile ammirare uno stupendo albero, a lui dedicato, sotto il quale pare il maestro amasse sostare. Ma sicuramente è la musica l’aspetto più importante di questo autentico genio. Egli seppe infondere nelle canzoni l’essenza di Rio de Janeiro, della sua vita e delle sue spiagge; seppe mettere in musica il suo amore per l’“universo feminino” con canzoni celeberrime dedicate ad altrettante donne (“Lígia”, “Ana Luiza”, “Gabriela”...). E a questo proposito mi vengono in mente due cantanti favolose, se aveste voglia di ascoltare qualche brano del Maestro: il doppio cd di Gal Costa Gal Costa canta Tom Jobim ao vivo e il capolavoro del 1974 di Elis Regina Elis e Tom. Moltissimi sono comunque gli interpreti in Brasile e nel mondo che si sono cimentati con le sue canzoni, ed è stupefacente constatare quante siano le melodie immortali scritte dal maestro: una facilità di scrittura e una poesia veramente rare per la musica popolare di tutti i tempi.


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Spesa da matti L’acquisto compulsivo non è considerato una malattia vera e propria nonostante dietro a tanto “shopping” si nasconda spesso un individuo sofferente. Di fatto, la spesa senza moderazione tocca indistintamente donne e uomini, giovani e adulti, ricchi e poveri...

testo di Elisabeth Alli fotografia di Igor Ponti

Lo shopping compulsivo, ovvero il bisogno di procurarsi a più

Società

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riprese degli oggetti a volte simili tra loro, fa parte di quei comportamenti che comprendono il furto (cleptomania) e il gioco d’azzardo. Il dottor Tazio Carlevaro, psichiatra e psicoterapeuta, da anni specializzato nella cura delle dipendenze in senso lato, ci ha recentemente confermato come già gli antichi romani – amanti del gioco d’azzardo – fossero afflitti da questo tipo di patologia.

La felicità “dell’inutile” Ai giorni nostri, dove tutto e tutti sono diventati moneta di scambio, sembra impossibile non restare immuni dalla tentazione di comprarsi una fetta di felicità acquistando l’inutile e il superfluo. A questo proposito la signora Laura Regazzoni Meli, segretaria generale dell’Acsi (Associazione consumatrici e consumatori della Svizzera italiana), spiega come gli sforzi della sua associazione si siano concentrati nell’ambito della prevenzione della frangia più giovane dei consumatori che, sondaggi alla mano, è la prima della classe in materia d’indebitamento: “Questo fenomeno è in parte da attribuire alla pochezza o bassezza dei loro redditi. Dalle inchieste”, continua la segretaria generale, “emerge, infatti come lo shopping faccia ormai parte del loro tempo libero”. L’indebitamento giovanile è una tema molto sentito in tutto le società “avanzate” e di recente se ne è occupato anche il quotidiano canadese “National Post” (6 luglio 2011), pubblicando un articolo sul perché i giovani adulti si sentano leggeri e fieri dei loro debiti1. La giornalista Kate Carraway racconta in prima persona le modalità di shopping della sua fascia d’età (fine dei 20–inizio dei 30 anni): si stila una lista di ciò che non si desidera comprare, per lo più oggetti accumulati in eccesso. Dopodiché ci si lascia guidare dall’istinto del bisogno, dalla voglia morbosa del comperare e dell’avere. La giornalista ama infatti circondarsi di tutto quanto è costoso, oggetti in grado di raccontare chi è lei. Adora le scarpe care: è infatti uno dei pochi articoli, a eccezione dell’affitto, per il quale è disposta a sborsare 800 dollari canadesi al mese (un po’ meno di 800 franchi svizzeri).

Le tentazioni del denaro Gli acquisti di Kate non sono dettati dal fatto che sia ricca o povera, ma dalla cattiva abitudine di utilizzare i soldi in maniera compulsiva. Per Kate il fatto di scegliersi un prodotto costoso, comprarselo e portarlo a casa come una sorta di trofeo, sapendo di essere lei la persona che se lo è aggiudicata, la fa star bene. Secondo uno studio pubblicato lo scorso giugno nel “Journal of social sciences research” Kate Carraway, come altri giovani adulti della sua età, avverte un’accresciuta responsabilizzazione e un aumento della propria autostima quanto più accumula debiti, frutto di acquisti sconsiderati. Un paradosso che trova le sue ragioni nel fatto che l’acquisto è una maniera di esprimersi e di completare la propria personalità. In fondo, continua la giornalista, la sua fascia d’età è molto particolare: per la prima volta nella vita si ha un lavoro decente, non si hanno figli a carico e neppure ipoteche gravose sulle spalle. Intervistata da Kate, Elena Jara, coordinatrice del settore educativo presso il Credit Canada sostiene che questa popolazione spende troppo perché non è stata educata altrimenti. I genitori affrontano più apertamente l’argomento “sesso” che non quello relativo al come evitare d’indebitarsi. A questo proposito Laura Regazzoni Meli segnala l’articolo della collega Laura Villa2 sull’importanza dell’insegnare ai giovanissimi come utilizzare i soldi, una guida chiara e utile a entrambi, genitori e figli. Spendere per acquistare, e il piacere che quest’attività genera, sembrano intrinsecamente legati alla propria crescita personale; in questa modalità non si pensa più al futuro, al mettere da parte qualche quattrino: l’importante sta nell’immediatezza dell’atto d’acquisto, del riconoscersi come la persona che può permetterselo. Desiderio, adrenalina, stress: la malattia Anche i “malati” dello shopping spendono più del dovuto, ma i paralleli si fermano qui. Infatti, lo shopping compulsivo è ben più insidioso di una giornata di grosse compere. Nella spesa compulsiva non è l’entità dell’acquisto a essere sconsiderata, bensì la ripetizione del gesto di comperare che diventa fine a se stesso e che si rinnova sotto il dominio delle


Società

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emozioni. Le carte di credito e Internet non sono, per una volta, le sole responsabili di questa deriva. L’acquisto on-line permette certamente maggior libertà e anonimato, mentre nei negozi l’occhio del venditore e gli orari d’apertura limitano l’esprimersi dell’impellente bisogno d’acquistare, anche se la loro fisicità permette di disporre immediatamente dell’oggetto acquisito, tappa cruciale per il malato. “Complice l’adrenalina che fa salire la tensione, tutto ha inizio con la scelta dell’articolo; l’apice dell’eccitamento è in seguito raggiunto al pagamento e all’entrata in possesso fisica dell’oggetto; poi la tensione scende a zero. Dietro a questo tipo di comportamento compulsivo c’è uno stress non indifferente”, ci confida il dottor Carlevaro. “Si tratta di un’esperienza che lascia la persona stanca e vuota”. Sovente apprendiamo che gli individui vittime di questa patologia si specializzano facendo degli acquisti di nicchia: solo determinati capi d’abbigliamento o oggetti a esso legati (ombrelli, borsette, scarpe, ecc.) per le donne; l’uomo invece punterà sui libri, dischi, oggettistica per l’auto, articoli che verranno impilati senza essere utilizzati. Nell’esperienza del dottor Carlevaro lo shopping compulsivo si sviluppa in certe forme di depressione e può costituire uno stress cronico.

Il documentario Great Movie Ever Sold di Morgan Spurlock (2011) mostra infatti come vi siano degli stati euforici e di piacere, legati alla voglia d’acquistare, prodotti inconsapevolmente dall’amigdala (una ghiandola che ha sede nel cervello e che è implicata nei meccanismi emotivi). Spesso una persona ripetutamente stressata durante l’acquisto vive una sensazione di pace che la gratifica dalle frustrazioni quotidiane. “Tuttavia è possibile guarire!” puntualizza il dottor Carlevaro: “Il 50% delle presone riescono a prendere in mano la situazione prima che diventi drammatica. Altre, capendo come funzionano i meccanismi di auto inganno dietro al comportamento compulsivo, riescono anche a guarire completamente. Il trucco sta infatti nel gestire, elaborare e affrontare i pensieri che portano a sviluppare un comportamento compulsivo: conoscere permette di affrontare!”. note 1 Sul tema anche il nostro settimanale si è più volte soffermato, evidenziando tra l’altro l’importante ruolo giocato dagli istituti bancari (“Giovani indebitati. Per qualche capriccio in più...” di Nicoletta Barazzoni, in Ticinosette n. 35/2010, p. 4). 2

“L’importanza di imparare l’uso del denaro”, in Borsa della spesa, maggio 2009, p. 15; consultabile in www.acsi.ch.


Culture. Il crocevia del sesso testo di Marco Alloni; fotografia grande di Reza Khatir

le – alcuni aspetti macroscopici della vita sociale: primo fra tutti, i cosiddetti videoclip.

Sguardi

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Quasi tutte le guide, di qualunque paese del mondo, sono

solite deliziarci con un’espressione che se non fosse diventata inflazionata potrebbe a buon titolo farci credere che il mondo è davvero appassionante: crocevia di culture e civiltà. L’espressione è usata con la stessa disinvoltura per New York e per Berlino, per Milano e per Bogotà. Ma nessuno si sorprenda se la incontrerà, in una guida turistica, anche a proposito della Valle Verzasca, della circoscrizione di un comune alpestre o del più sperduto paesino del Tibet. “Crocevia di culture e civiltà” è il mantra universale per ricordarci – come se non lo sapessimo – che la storia muta e i popoli si incrociano.

A volte “c’azzecca”: l’esempio del Cairo Tuttavia, non di rado, la definizione ha una sua ragion d’essere. Soprattutto se si riferisce a quei luoghi del mondo che – per ragioni che esulano da questo articolo – sono più di altre soggette alla globalizzazione. E quando dico “globalizzazione” intendo – poiché di fatto di questo si tratta – l’ingombrante presenza della cultura occidentale in contesti che storicamente ne sono stati, fino a qualche decennio fa – fatto salvo il colonialismo, che è sempre un innesto poco globalizzante – estranei. Penso al mondo arabo e più specificamente alle sue grandi capitali o metropoli. Ci serva da guida, in questo crocevia di culture e civiltà, il Cairo con i suoi venti milioni di abitanti e la sua sempre più massiccia apertura alle suggestioni e seduzioni dell’Occidente. Il Cairo è notoriamente una città a forte impronta islamica: interi quartieri sono disseminati di moschee e ormai da qualche anno il velo è diventato il segno distintivo di una società che, più che affermare il proprio debito con il passato, intende stigmatizzare la propria differenza dall’Occidente. Malgrado ciò, l’impronta occidentale marca progressivamente – quasi in una sorta di contrappasso alla pruderie islamica e orienta-

L’insidia occidentale Chi si rechi al Cairo e decida di trascorrere qualche ora in una caffetteria non “per soli uomini” – cioè non di quelle disseminate sui marciapiedi, più comunemente note come aqawi – scoprirà che è ormai prassi diffondere dalle televisioni che vi sono collocate video musicali che non hanno nulla da invidiare a quelli trasmessi a Roma o Zurigo. Videoclip importati dall’Occidente? Nient’affatto: piuttosto produzioni ispirate, copiate, ripetute sul calco di quelle occidentali… ma assolutamente arabe. In questi video non ci si stupisca se si troverà – lungi dall’essere espressioni della cultura morigerata in cui si innestano – gli stessi elementi che contraddistinguono i nostri: belle donne discinte, storie d’amore contrastate, allusioni sessuali, balletti pruriginosi e via elencando. Insomma, non già cammelli o palmeti, datteri e donne velate, ma veri e propri trionfi (seppur in salsa orientale) della sensualità “alla Madonna” per intenderci… e non ci riferiamo a quella evangelica. La forma non è la sostanza Come si spiega tutto ciò? È semplice: con l’assunto – da queste parti sottaciuto quanto implicitamente invocato da tutti – che “la forma non è il contenuto”. Ovvero che, purché adeguatamente mascherato, il richiamo alla sessualità può tranquillamente trovare il proprio spazio sulla pubblica piazza. Ipocrisia, potrebbe chiamarla qualcuno. E in effetti questa mimesi della sessualità sotto una parvenza di decenza estetica non si allontana troppo dal raggiro o dalla mascherata. Ma in realtà il problema è più complesso, e riguarda, nella sua profondità, il modus stesso in cui da queste parti – come in genere in Oriente – si vive ormai la cultura religiosa. Non già soltanto per come viene presentata nei nostri media, come un’ostentazione di fanatismo oscurantista, ma piuttosto come una “parvenza” da preservare dalle contaminazioni della cultura occidentale. In altre parole, finché il richiamo al sesso non è esplicito lo si può considerare in linea con il comune sentire dei credenti e fuori da ogni accusa di degenerazione. Questa dunque è la forma più diffusa di globalizzazione da queste parti. Un Occidente che si innerva – senza perciò rompere i codici di decenza civile – nella cultura dell’Oriente. Una perfetta sintesi che, probabilmente, durerà quanto è destinata a durare la resistenza dei popoli alle seduzioni di contenuto, non solo di forma, dell’occidentalizzazione. Ai posteri sapere se il Cairo sarà un giorno, oltre che “formalmente” sensibile al sesso, pronta a riconoscersi tale anche “sostanzialmente”.



» testimonianza raccolta da Fabiana Testori; fotografia di Igor Ponti

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Elio Moro

Vitae

nella mia vita mi è sempre stato impossibile dedicarmi a un unico interesse, ma sono anche una persona abbastanza organizzata. Grazie a ciò riesco ancora a trovare il tempo per passeggiare in montagna. Un’altra mia grande passione è, come ho detto, la fitoterapia: curarsi grazie alle piante. Si tratta di una disciplina che ho avuto la possibilità di conoscere già da bambino, quando trascorrevo le vacanze estive in montagna con i nonni. Sempre a contatto con la natura, ho imparato molto su piante e fiori. La conoscenza delle erbe, capire come i nostri antenati curavano i loro malanni mi ha sempre Si è dedicato alla realizzazione di progetti interessato e un giorno ho benefici. Alla filantropia associa da anni finalmente deciso di dedicaranche altre passioni, come lo sport e l’as- mici più seriamente. Così ho cominciato a fare delle ricersidua ricerca di antiche ricette naturali che vere e proprie sull’argomento, a frequentare corsi di festazioni, fra cui la Partita per fitoterapia e a parlare con alcuni anziani che la Vita, che ha coinvolto perben conoscono ricette e rimedi. Passo dopo sonaggi del mondo dello spetpasso, all’inizio degli anni Novanta, ho ractacolo e che l’anno prossimo colto tutto quello che avevo messo da parte raggiungerà la terza edizione, in un libro. Il volume si componeva di ricette tornei di calcio, spettacoli teaantiche, risalenti a cento, duecento anni fa. trali, conferenze, e, aderito Alcune erbe per esempio erano considerate ad altrettante come Telethon, miracolose, anche se poi scientificamente Terre des Hommes, la Lega non hanno dato alcun risultato, altre invece contro il cancro, eccetera E vengono utilizzate ancora oggi per la cura di magari nel 2012 proverò a alcune patologie. realizzare qualcosa per MedjuSuccessivamente ho rieditato il libro, un togorje, in Bosnia-Erzegovina, mo abbastanza voluminoso, trasformandolo dove si recano moltissimi in un’edizione tascabile. Le ricette che ho pellegrini in seguito all’apparitrovato sono quasi tutte legate a erbe che rizione della Madonna. crescono in Ticino. Anche per questo creQuanto viene raccolto dall’Asdevo fosse importante farle conoscere, dato sociazione Girasole Benefico che rappresentano un piccolo patrimonio è devoluto a chi ha più bisoculturale-territoriale. A differenza dei primi gno, a sostegno per esempio due volumi sull’argomento, gli ultimi tre di delle popolazioni dell’Africa, cui mi sono occupato hanno seguito una dell’America Latina, ma anstrada leggermente diversa, sebbene si tratti che di associazioni impegnate sempre di proposte curative. Ho deciso infatti nella lotta contro malattie e di concentrarmi maggiormente su sciroppi, handicap. I tempi sono semliquori, vini e grappe preparati con le erbe. pre stretti, ma con l’esperienIl prossimo libro invece, che per ora è ancora za ci si fa l’abitudine e si in fase di elaborazione, rappresenterà un impara a organizzarsi fin nei ritorno alla cura delle patologie. E la ricerca minimi dettagli, promozione, continua, anche su altri fronti. Uno di questi sponsor, comunicati stampa, è quello culinario. La settimana scorsa, per senza dimenticare la docuesempio, ho recuperato una ricetta del pesce mentazione raccolta alla fine in carpione risalente all’inizio del Novecento. di ogni evento, che è davvero Ho sempre tante idee e tante proposte. È la molto utile nel momento in passione che mi spinge e l’esperienza mi cui si decide di riproporre permette di entrare in contatto con le persouna manifestazione simile. ne. In questo modo riesco a realizzare molti Sono attivo, anche perché obiettivi ma soprattutto ad aiutare gli altri.

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H

o avuto un’infanzia bellissima. Sono nato e cresciuto nel locarnese dove ho frequentato le scuole. In seguito, terminato il mio percorso formativo, ho cominciato a insegnare educazione fisica a Locarno poi anche a Lugano e infine ancora a Locarno, dove tutt’ora sono docente. La mia vita però, oltre a quello per la mia professione, è sempre stata caratterizzata da moltissimi interessi. La curiosità mi ha spinto ad avvicinarmi a mondi molto diversi fra loro, come quello della fitoterapia, da cui sono nati alcuni libri, quello della musica lirica, un hobby che coltivo appena ho un po’ di tempo, e soprattutto, quello della filantropia, da cui ha preso avvio, ormai dieci anni fa, la mia associazione. Nel 2001 infatti, ho deciso di fondare l’Associazione Girasole Benefico. Un nome ispirato al fiore e alle sue caratteristiche, cioè ai tanti semi che ha all’interno, che per me rappresentano i diversi enti a cui viene devoluto il ricavato degli eventi organizzati dal Girasole. L’idea di creare un’Associazione benefica è nata nel corso degli anni. Già in passato ho collaborato con diverse organizzazioni, ma a un certo punto ho sentito la necessità di essere più indipendente nella mia attività, così da poter scegliere autonomamente cosa, come, quando e con chi organizzare le diverse iniziative che mi venivano in mente. Sebbene gestisca tutto quanto per conto mio, per i grossi eventi, in cui la componente organizzativa è davvero fondamentale, mi avvalgo di circa sessanta, settanta collaboratori. L’associazione rappresenta una parte importante della mia vita, a cui dedico molto tempo, ma che parallelamente mi riempie di tante soddisfazioni dandomi la possibilità di aiutare gli altri e di entrare in contatto con moltissime persone. In questi dieci anni ho organizzato diverse mani-


La nobile Certosa testo di Roberto Roveda; fotografie di Reza Khatir

Voluto e impreziosito per quasi un secolo dai Visconti e dagli Sforza, signori di Milano, per celebrare le loro glorie dinastiche, il monumentale complesso della Certosa di Pavia è sicuramente uno dei capolavori dell’arte e dell’architettura quattrocentesca del Belpaese. Un luogo privilegiato dove ancora oggi si rinnova l’incontro tra lo stile tardo-gotico d’Oltralpe e il gusto raffinato del Rinascimento italiano


sopra: la ricca e articolata facciata rinascimentale della Certosa in apertura: veduta del fianco sinistro della chiesa di Santa Maria delle Grazie, con l’abside e l’alta mole del tiburio


L’interno riprende, nell’elevazione e nella struttura architettonica, elementi del gotico d’Oltralpe

L

a Certosa di Pavia è in fondo una contraddizione risolta in maniera magnifica e affascinante. Non ci può non essere contraddizione, infatti, tra ciò che una “certosa” è chiamata a rappresentare in quanto “casa” dei monaci certosini – eremiti tra i più austeri e distaccati dal mondo e dalle sue tentazioni – e quello che appare davanti ai nostri occhi visitando l’edificio monastico pavese. Eppure, passo dopo passo ci rendiamo conto che qui, a metà strada tra Milano e Pavia, si è celebrato un connubio fra aspirazione al Cielo e gioia terrena, creando un luogo dove gloriare Dio senza mai dimenticare la gloria terrena degli uomini. Questo sembrano volerci raccontare le architetture della Certosa, con il loro felice incontro tra verticalità gotiche e raffinatezze rinascimentali.

Nobili natali Non poteva essere certo tutto rivolto alla mistica e all’ascesi un luogo voluto da un uomo di guerra e potere per celebrare se stesso e la propria dinastia nel momento del trionfo. La Certosa di Pavia nasce infatti nel 1396, l’anno in cui Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, stabilizzato il suo dominio, sbaragliati tutti i nemici e avversari politici, ottiene dall’imperatore Venceslao a suon di fiorini d’oro – le

cronache dicono centomila! – il titolo di sua Altezza Serenissima ducale. Giusto da dieci anni a Milano sono cominciati i lavori di costruzione del Duomo e alle stesse maestranze il nuovo duca affida la costruzione di un complesso monastico che nello stesso tempo deve diventare il mausoleo della dinastia viscontea. La zona prescelta per l’imponente costruzione è una vasta area immersa nella campagna lombarda, tra fontanili, canali di irrigazione e pioppeti. Il Naviglio Pavese, che unisce Milano e Pavia, è a pochi passi e ai margini si estende un immenso parco, rinchiuso da una recinzione di oltre 25 chilometri di lunghezza, eretta per preservare i boschi dove i Visconti vanno a caccia con i loro falconi. Qui la Certosa, consacrata da papa Martino V nel 1418, cresce in prosperità e si impreziosisce per circa un secolo, anche quando, alla metà del Quattrocento, alla guida di Milano ai Visconti succedono gli Sforza. Oggi le due dinastie milanesi sono solo un lontano ricordo e del grande parco ducale, teatro nel 1525 della famosa battaglia di Pavia vinta dall’imperatore Carlo V su Francesco I di Francia, poco rimane e non potrebbe essere diversamente in una delle lande più popolate e percorse d’Europa. La Certosa ha mantenuto viceversa buona parte delle sue caratteristiche originarie e dei suoi tesori artistici, nonostante le


Particolare delle bifore a candelabro, opera di Giovanni Antonio Amedeo e bottega (1497 ca.) che affiancano il monumentale portale di accesso alla chiesa


Una delle statue tardo seicentesche che si trovano all’esterno delle cappelle situate lungo la navata centrale della chiesa

spoliazioni subite soprattutto in epoca napoleonica. Conserva, inoltre, le sue funzioni di monastero, anche se i certosini l’hanno definitivamente abbandonata per veri eremitaggi nel 1946 e, al loro posto, sono giunti i cistercensi. Una passeggiata nel Quattrocento italiano Il complesso non è oggi poi così diverso da come fu realizzato nel XV secolo. Si accede al grande cortile della Certosa attraverso un ingresso più adatto a una fortezza che a un luogo di preghiera. Sul cortile si affaccia il Palazzo Ducale – emblema dello stretto legame tra le dinastie milanesi e questo luogo – ma soprattutto appare la facciata della chiesa monastica, dedicata a Santa Maria delle Grazie. La facciata è un po’ simbolo e sintesi dell’intero complesso, con i suoi evidenti retaggi gotici messi a confronto con elementi tipicamente rinascimentali. Un’opera suggestiva per i contrasti cromatici dovuti ai materiali usati per costruirla: il marmo rosato di Candoglia – lo stesso del Duomo milanese – il marmo candido di Carrara, le tonalità scure del porfido e del serpentino verde, per giungere al nero del marmo di Saltrio. Il sovrapporsi di gotico e rinascimentale si ripete poi all’interno dell’edificio

ecclesiastico, dove si trovano ancora le tombe dei duchi di Milano, nella mole del tiburio, elemento architettonico che racchiude e protegge la cupola che sovrasta il transetto. Gli elementi più caratteristici della destinazione monastica del complesso fiancheggiano all’esterno la chiesa. Si tratta dei chiostri quattrocenteschi, che come in tutte le certose sono due. Al chiostro piccolo, con le sue cinquanta arcate, segue poi il chiostro grande con 123 arcate decorate da profili in terracotta. Su tre lati si appoggiano al chiostro 23 celle per la clausura dei monaci che, sempre secondo l’usanza certosina, si presentano senza decorazioni, tutte uguali tra loro ma autonome, formate come una piccola casa, con due camere, i servizi e un orticello annesso. Piccole e fondamentali nicchie di austerità e semplicità nell’orizzonte di grandiosità e magnificenza del Rinascimento italiano. per informazioni: www.comune.pv.it/certosadipavia/home.htm www.comune.certosa.pv.it/index_file/turismo.htm per saperne di più: F. M. Ricci (a cura di), Certosa di Pavia, Ricci Editore, 2006 M. Barelli, Milano e la Certosa di Pavia, Meravigli, 2003


in alto: il grande cortile prospiciente la chiesa con sulla destra il Palazzo Ducale in basso: una veduta del chiostro grande con le sue 123 arcate su cui si affacciano le 23 celle monastiche pagina accanto: il chiostro piccolo sovrastato dal tiburio della chiesa di Santa Maria delle Grazie


Reza Khatir Nato a Teheran nel 1951, è fotografo dal 1978. Ha collaborato con numerose testate nazionali e internazionali. Ha vissuto a Parigi e Londra; oggi risiede a Locarno ed è, fra le altre cose, docente presso la Supsi. Per informazioni: www.khatir.com


Gabinetti. I templi del bisogno testo di Marco Jeitziner; fotografie di Falvia Leuenberger

teoria) un “periodico risciacquo” e “un buon grado di pulizia”. Così recitava il messaggio municipale che ne chiedeva la ristrutturazione. Questioni di naso, dunque, ma anche di geometrie, nobili sederi e regali dimensioni, giacché non è raro che qualche sfortunato obeso si lamenti, come ha fatto qualcuno in un forum pubblico, scrivendo che i gabinetti pubblici son fatti “per chi ha il culo a mandolino”. Insomma, si ravvedano i progettisti comunali.

Luoghi

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imperiale Gaio Svetonio Tranquillo, l’imperatore romano acquisì fama non solo per aver fatto costruire il Colosseo, ma anche perché fu il primo a imporre una tassa per l’uso, appunto, del vespasiano, come viene popolarmente chiamato in Italia il sempre meno diffuso servizio igienico a forma di garitta o di edicola. La tassa aveva un motivo ben preciso: raccogliere l’ammoniaca contenuta nell’urina che serviva per conciare le pelli. Si narra che la cosa non piacque molto al figlio Tito, il quale in segno di sfida al padre, un giorno lanciò una moneta in una latrina, ma Vespasiano la raccolse ugualmente uscendosene con l’ormai famosa “pecunia non olet!”, ossia il denaro non puzza. Se fosse ancora vivo, oggi Vespasiano sarebbe forse il più acerrimo nemico del “Committee to End Pay Toilets” che, dagli anni Settanta e con un certo successo, negli Stati Uniti rivendica il diritto della gratuità per le oltre 50 mila latrine a pagamento stimate nel paese.

Il rischio del vivere quotidiano… Oltre che di odori e di dimensioni, trattasi ovviamente di necessità vitali che, però, a volte possono espletarsi in un luogo pericoloso, se non addirittura mortale. Lo ha sperimentato sulla propria pelle quel pover uomo che, una sera di settembre dell’anno scorso, nei pressi di Zurigo ha rimediato ferite e ustioni gravi quando è esploso il gabinetto pubblico che stava usando (pare per un corto circuito dell’asciugatore automatico per le mani). Ma morire per una ritirata è dunque possibile? Sì, stando alle cronache cinesi dell’estate scorsa, secondo le quali un funzionario pubblico è deceduto dopo essere scivolato in una latrina che, in Cina, a quanto pare sono profonde e poco sicure. Luogo svalutato, si diceva, ma che qualcuno ha pensato bene di rivalutare facendone arte e luogo chic. L’idea non poteva non essere dei francesi, inventori del bidet nel Settecento: l’artista parigino Eric Salles decora e addobba i gabinetti pubblici della capitale, e non quelli qualunque, ma sui prestigiosi Campi Elisi. Dal Belgio, poi, il dovere dell’evacuazione è anche piacere ludico: mentre si espleta, si gioca ai videogame grazie a una consolle e a uno schermo. I bagni pubblici sono anche dei confessionali, pagine (quasi) bianche per novelli poeti tormentati, scrittori dal talento nascosto, o semplicemente albi per annunci di un certo tipo.

Ah, lo sciaquone! Non meno successo ottenne invece l’inglese Joseph Bramah, padre dello sciaquone, il famoso Water Closet, come oggi lo conosciamo, da lui brevettato alla fine del Settecento. Ma nonostante la sua buona volontà, è un fatto che nemmeno i bagni pubblici a pagamento garantiscono sempre pulizia, profumi gradevoli, sapone e, soprattutto, carta igienica. Nemmeno nella ricca e, si dice, pulita Svizzera. Ci sono infatti gabinetti pubblici di “lusso”, costati ai contribuenti tanto quanto una potente vettura sportiva, che a volte lasciano a desiderare. Come in piazza Collegiata a Bellinzona: provare per credere. In certi momenti l’orinatoio pubblico del “salotto” della capitale non è molto decoroso, malgrado il “pavimento in graniglia con superficie levigata antisdrucciolevole” e apparecchi sanitari “in acciaio inox con fissaggi nascosti”, capaci di garantire (in

… e i suoi piccoli e grandi drammi Non meno importanti i significati più intimi e oscuri che celano, come il dramma della madre disperata che nel 2010 ha abbandonato il suo neonato nei bagni pubblici vodesi del Parc Vertou a Morges. Come l’eccitante vedo-non-vedo del cantante George Michael arrestato in compagnia in un gabinetto pubblico di Beverly Hills, o lo squallido caso del pensionato di Ginevra sorpreso con un ragazzo rom di 13 anni che si prostituiva. Luogo, manco a dirlo, anche di giurisprudenza per avvocati: nel 2005 il comune di Bissone si è dovuto difendere fino al Tribunale federale per poter ristrutturare i suoi servizi igienici pubblici. E di infiniti litigi come in Valle di Blenio dove, l’anno scorso, l’enigma di disporre di gabinetti pubblici a Olivone ha animato parecchio gli animi. O forse, e soprattutto, anche le viscere.

Non ce ne voglia Tito Flavio Vespasiano. Stando al biografo



Correnti d’aria Tendenze p. 48 – 49 | di Giancarlo Fornasier Il mondo delle competizioni è spesso presentato come un laboratorio dove le case costruttrici introducono soluzioni e innovazioni tecnologiche che prima o poi trovano applicazione nella produzione destinata al grande pubblico. Tra gli esempi più recenti come non ricordare il cambio della velocità al volante (i famosi “paddles”) che permette cambiate di marcia veloci, senza utilizzare il pedale della frizione e staccare le mani dal volante. O ancora la sorprendente comparsa in alcune vetture stradali dall’indole vagamente sportiva degli “scivoli estrattori”…

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ove si pone la soglia fra l’utile e l’inutile in un veicolo destinato alla normale circolazione stradale? Dipende: diciamo che tutto ciò che contribuisce alla sicurezza attiva e passiva di conducente e passeggeri (oltre che degli altri utenti della strada) non può che essere il ben accetto. Altro discorso vale per tutto quello che – visti i limiti di velocità imposti per legge su buona parte delle strade d’Europa e l’utilizzo quotidiano del veicolo nel tragitto casa-lavoro-centri commerciali – pare quantomeno fuori luogo. Le appendici aerodinamiche rientrano in quest’ambito: profili anteriori che sfiorano l’asfalto, monumentali alettoni e spoiler buoni per appenderci il bucato, minigonne laterali da far invidia alla saga cinematografica Fast & Furious. Modifiche aerodinamiche che il più delle volte vanno ricondotte al fenomeno del tuning – la personalizzazione della propria auto, meccanica ma soprattutto estetica –, tendenza definitivamente esplosa in Europa nei primi anni Ottanta, in particolare nel mercato automobilistico tedesco.

L’aerodinamica: una questione seria Se è vero che sono proprio le appendici aerodinamiche a contraddistinguere le vetture stradali da quelle “da corsa” (rally o pista che sia), applicare componenti di ispirazione corsaiola a una vettura stradale il più delle volte regala ben pochi miglioramenti alla guida, anzi. E questo perché gli eventuali vantaggi legati all’aderenza, alla stabilità di marcia e in parte al miglioramento della trazione che ne dovrebbero derivare si evidenziano a velocità molto sostenute, e in mondo sensibile solo a partire dai 200 km/h. È il caso dei già citati alettoni, noti anche come “ali”. In questo caso l’utilizzo di termini aeronautici non è casuale: essi sono né più né meno che delle ali d’aeroplano, ma applicate al contrario. In pratica gli alettoni/spoiler non permettono all’auto di sollevarsi da terra ma, al contrario, la “schiacciano” al suolo. Con alcuni effetti collaterali: la velocità massima in parte viene sacrificata (maggiore resistenza), l’usura delle gomme aumenta (per effetto dello schiacciamento), il consumo di carburante pure e in parte anche il peso totale dell’auto (più accessori=più peso). Aspetti negativi che nelle competizioni sono però compensati dai vantaggi legati all’aderenza e alla stabilità di marcia citate in precedenza, e dove ben poco è lasciato all’improvvisazione “smanettona”. Il signor Venturi e “l’effetto suolo” L’importanza della stabilità di marcia alle alte velocità e la possibilità di poter scaricare a terra tutto il potenziale del motore (gomme permettendo) sono ancora oggi ambiti di ricerca molto impegnativi e dispendiosi per chi opera nel mondo delle competizioni. È sufficiente guardare con attenzione un’attuale

vettura di Formula 1 o un prototipo della Le Mans Series per comprendere quanto sia importante avere un’auto che da un punto di vista aerodinamico ottimizzi i flussi d’aria e i vortici che si creano nell’avanzamento, riducendo al minimo l’attrito creato dall’aria e sfruttandone anzi le sue qualità fisiche. E fu proprio nella Formula 1 degli anni Settanta che lo studio dei flussi portò allo “sfruttamento dell’effetto suolo”, applicando il principio del “tubo di Venturi” (vedi schede a lato): in pratica, il restringimento e l’allargamento di una o più sezioni del fondo di un’auto creano un aumento della velocità del flusso d’aria che vi passa sotto, generando a sua volta una depressione con conseguente schiacciamento verso il basso della vettura (da qui il miglioramento della stabilità nella fase di marcia). Ma per sfruttare al meglio questo principio (e ricreare un “tubo di Venturi”) è necessario che la vettura sia “sigillata” ai lati. Un compito assolto dalle minigonne che, non potendo per forza di cose toccare terra, sono però profilate in modo da creare vortici che aiutano a mantenere costante il canale d’aria che passa sotto la macchina. L’estrattore, tanta plastica per nulla? Abolite in Formula 1 a partire dai primi anni Ottanta per questioni di sicurezza e affidabilità, nei decenni seguenti l’importanza delle minigonne è stata ridimensionata dal perfezionamento degli estrattori, apparati noti anche come diffusori o scivoli estrattori. Come suggeriscono le definizioni, l’estrattore è un elemento fisso a forma di scivolo rovesciato collocato sul fondo dell’auto: lo si riconosce osservando la parte posteriore della vettura, che appare più sollevata e a volte dotata di elementi verticali. Il compito è sempre lo stesso: generare una spinta verso il basso del veicolo attraverso la creazione di una depressione, al fine di incrementarne l’aderenza al suolo (come per gli alettoni). Se sino a pochi anni fa le auto munite di estrattori erano assai rare e indiscutibilmente sportive – Lamborghini, Pagani Zonda, Ferrari per intenderci, modelli Granturismo ad alte prestazioni dove il costruttore sfrutta la possibilità di utilizzare il fondo della scocca a fini aerodinamici, evitando così l’uso di invadenti e antiestetici orpelli –, oggi gli estrattori si sono moltiplicati. Modelli più o meno sportivi di Renault, Fiat-Abarth, Ford, Citroën, Seat, Vw e su su sino ai Suv più “esclusivi” (Range Rover, Bmw M, ecc.) sono dotati di piccoli o grandi “scivoli” al posteriore. Esempi che confermano come anche l’applicazione dell’effetto Venturi dalle piste sia finito sulle nostre strade… almeno in teoria. Peccato, infatti, che tutto ciò sia (quasi) inutile: a 50, 80 o 120 km/h è assai difficile che si possa creare una depressione tale da “incollare” al suolo una comune vettura da 180 cv e 1.400 kg di peso. Per poterlo fare dovremmo viaggiare molto molto più velocemente… con tutti i rischi del caso.


L’effetto Venturi e la deportanza L’effetto Venturi o paradosso aerodinamico è un fenomeno scoperto dal fisico italiano Giovanni Battista Venturi (1746–1822), il quale costruì un tubo in grado di misurare la velocità di scorrimento di un fluido (osservazioni poi applicate anche ai gas, come l’aria) sfruttando i rapporti fra pressione statica e velocità. Venturi giunse alla conclusione che “la pressione di una corrente fluida aumenta con il diminuire della velocità”: in pratica, più veloce scorrerà l’aria su di un corpo e minore sarà la pressione statica. Nell’automobilismo l’applicazione di questo fenomeno è noto anche come effetto suolo: è cioè quel principio che permette alle vetture, per mezzo di un restringimento del sottoscocca, di creare una depressione nella parte inferiore – causata proprio dall’aumento di velocità dell’aria in quella parte –, aspetto che migliora in modo rilevante l’aderenza al suolo. Nella fattispecie si parla di “deportanza”; è lo stesso principio che fa volare aerei ed elicotteri (dove invece si parla di “portanza”).

Fra ventole e minigonne Narra la leggenda che le prime minigonne fatte in materiale plastico trasparente e flessibile vennero introdotte da Jim Hall nella Chaparral (1970). Sarebbe dunque un falso storico la paternità della minigonna al seppur geniale Colin Chapman e agli uomini della Lotus, Peter Wright in testa. Oltre che alla presenza di paratie laterali, la Chaparral utilizzava come stratagemma per creare la depressione sotto la vettura una o più ventole, soluzione ripresa più tardi dalla Brabham BT46 spinta dal motore Alfa Romeo (1978; nella foto). La soluzione fu ben presto messa “fuori legge” dalla Federazione internazionale (Fia), perché definita “particolare aerodinamico mobile”. Ma i problemi erano anche altri: la ventola di enormi proporzioni estraeva l’aria da sotto la vettura come un vero aspirapolvere, proiettando verso il retro tutto quello che risucchiava, eventuali detriti inclusi... con grave pericolo per chi seguiva. La Fia abolì le minigonne nel 1983: per avere un effetto suolo ottimale le vetture dovevano infatti ridurre al minimo le variazioni di altezza da terra, correndo in pratica su sospensioni quasi bloccate e altezze minime. Una vittoria del buon senso.

Colin Chapman, “l’effetto suolo” e la Lotus 78 Fu nel corso di alcuni test nella galleria del vento (1976) che la “teoria delle minigonne” venne perfezionata: gli ingegneri, sigillando con delle paratie la zona fra le fiancate e il suolo, erano riusciti a creare un importante valore di deportanza. Stava nascendo la prima vettura di Formula 1 a effetto suolo, la Lotus 78 (1977–’78). Le minigonne della vettura presentata in pista (a lato in un disegno di Giorgio Piola) erano bande in materiale rigido che scorrevano nelle paratie, chiudendo lo spazio fra la fiancata e l’asfalto, e impedendo così all’aria che passava nella parte inferiore della vettura di venire espulsa ai lati. Era dunque stato ricreato un vero “tubo di Venturi” nel quale il flusso d’aria che passava sotto la macchina – grazie anche a un fondo vettura appositamente profilato – veniva accelerato nel punto di maggiore vicinanza al suolo, per poi rallentare nella zona delle ruote posteriori. La differenza di velocità e di pressione dell’aria creava un’impressionante spinta verso il basso, cioè un forte carico deportante che permetteva di ridurre notevolmente l’incidenza e la dimensione degli alettoni tradizionali (minore resistenza=maggiore velocità).

Il diffusore (o estrattore) Nelle moderne auto da corsa è l’elemento aerodinamico più importante nel generare un effetto suolo. Per la sua forma “a scivolo“ è in grado di creare un’area di bassa pressione sotto il corpo della vettura. Quando un’auto è in movimento, infatti, il flusso d’aria che passa nella parte sottostante dell’avantreno (punto più vicino all’asfalto) accelera, ma arrivando al diffusore (zona posteriore, dove l’altezza da terra è maggiore) trova un’area di bassa pressione, si espande e ritorna alla velocità iniziale: questo produce la tanto ricercata deportanza. Una vettura progettata seguendo il modello del “tubo di Venturi” (a lato una Porsche GT3 R Hybrid) è in grado di produrre un effetto suolo più efficiente rispetto all’utilizzo di elementi come alettoni e/o spoiler che, per la loro forma e posizione, diminuiscono le velocità massime possibili e aumentano il consumo di carburante. Gli alettoni che ancora oggi si osservano sulle vetture da corsa servono soprattutto per trovare un equilibrio fra la parte anteriore e quella posteriore del carico aerodinamico, prodotto come abbiamo visto principalmente nella parte sottostante della vettura, sia in rettilineo sia in curva (che può essere affrontata a velocità superiori).


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I piccoli e i grandi

Un prezioso frammento di una storia, pochi ma intensi giorni

» illustrazione di Adriano Crivelli

» di Roberto Roveda

Doinel protagonista de I quattrocento colpi di François Truffaut. estratti dalla vita di un ragazzino, Cyril (Thomas Doret), già Certo, il realismo dei Dardenne non raggiunge né gli stessi messo a dura prova dal suo destino. Abbandonato dal padre in picchi di cupezza o di poesia di Truffaut, né la sua potenza un istituto per l’infanzia, si mette alla ricerca lirica. Scelgono volutamente di mantenere del genitore e della bicicletta, l’unica cosa lo sguardo della cinepresa bene a terra, tra le che gli appartiene veramente e che sempre case e i giardinetti dove si svolgono le vicende. il padre gli ha venduto. Riavrà solo la bici Filmano e documentano gli eventi e i persosulla quale, pedalata dopo pedalata, si dovrà naggi nella quotidianità del loro vivere, con confrontare con la durezza della vita reale. una compattezza che fa dimenticare le pause, Troverà però una donna, Samantha (una ini silenzi, l’esiguità dei dialoghi, scarni, o la tensa Cécile de France), disposta a prendersi quasi totale assenza di una colonna sonora, cura di lui e che non si scoraggerà di fronte ai ridotta a pochi frammenti di Beethoven. problemi creati inevitabilmente dal rapporto Come accade nella vita reale, dove il futuro con un ragazzo “difficile”. è comunque enigmatico, Il ragazzo con la Con Il ragazzo con la bicicletta i fratelli Darbicicletta finisce senza dirci nulla di definitidenne aggiungono un altro tassello alla loro vo: una brutta caduta da un albero e Cyril a personale ricerca di un cinema quasi docuterra. Dopo un paio di minuti di immobilità, mentaristico, lontano da ogni estetismo e che lasciano lo spettatore col fiato sospeso, il Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e Luc Dardenne da ogni ricercatezza formale. Lo fanno con il ragazzo risale sulla bici e il film si interrompe. Belgio, Francia, Italia, 2011 ritratto di un dodicenne deciso a non subire I registi non ci offrono molti indizi per dedurfino in fondo le scelte degli adulti, coragre che ne sarà di questo ragazzo, quale strade gioso nel non lasciarsi vincere dalla sofferenza. Un ritratto di imboccherà: solo vivendo – anzi pedalando – si può sapere come “fanciullo” non immemore della lezione di Luigi Comencini andranno a finire le cose. Si limitano a trasmetterci l’impossi– maestro del cinema sull’infanzia e l’adolescenza vista con bilità per i più piccoli di trovare un rifugio e delle sicurezze nel gli occhi dei più piccoli –, ma che richiama soprattutto alla mondo degli adulti. Anche se una speranza rimane: è Samantha, mente un altro adolescente solo, difficile e forte, l’Antoine la grande eccezione nella sua straordinaria normalità.


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Astri gemelli

cancro

Superlativo il trigono tra Plutone e Giove. Approfittate di questo transito per circondarvi di prosperità e abbondanza. Bene in riva al mare tra il 15 e il 16 agosto grazie agli effetti benefici della Luna.

Grazie a Mercurio la vostra vita sociale tende svilupparsi in crescendo tra novità e situazioni vintage. Colpi di fulmine e ritorni di fiamma. Fase fortemente creativa in ordine al ritorno di Nettuno.

Il 15 agosto sarà segnato da Marte in opposizione a Plutone. Possibili resistenze da parte del partner. Mancata considerazione dei sentimenti personali. Occorre maggior etica nel gestire i rapporti a due.

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Grazie alla congiunzione tra Venere e Mercurio retrogrado, la seconda metà di agosto smuove i vostri sentimenti. State comunque attenti a non idealizzare nessuno oltre il ragionevole. Eros alle stelle!

Tra il 14 sera e il 16 agosto la Luna si troverà in opposizione e quindi un po’ di tranquillità non può farvi che bene. Maggiormente favoriti i nati nella prima decade. Positive le atmosfere in riva al mare.

Inaspettato exploit nella vita sociale. Atmosfere lussuose e flirt sentimentali. Vecchi incontri tornano alla ribalta. Il 14 agosto Eros e romanticismo saranno alle stelle per i nati nella terza decade.

Grazie alla Luna nei Pesci tra il 15 e il 16 agosto potrete passare delle giornate indimenticabili. Con Marte dalla vostra sprizzerete di rinnovata energia. Evitate di abbandonarvi ad atteggiamenti istrionici.

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Ferragosto molto interessante grazie all’incontro di Venere con Mercurio. Siete pronti a dichiarare il vostro amore alla vita e al partner. Sensibilità verso l’arte. Comprensione della bellezza e della sapienza.

Grandi sfide. Con Marte in opposizione, Giove e Plutone si autoalimentano a vicenda. Se avrete il coraggio di fare scelte rivoluzionare potrete cambiare in meglio ogni aspetto della vostra vita. Bene tra il 15.

Sensibili, quasi extrasensoriali, grazie a Nettuno e ai transiti lunari del 13 e 14 agosto. Esperienze particolari. Intuito. Suggestioni erotiche. Incontri inaspettati e scarsa resistenza alle tentazioni.

La Luna si trova ad attraversare il vostro segno. Il transito vi spingerà a ricercare la compagnia delle persone a voi più care. Attrazione per le attività sportive per i nati tra la prima e la seconda decade.

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Orizzontali 1. Cadde nella battaglia di Mantinea • 10. Baccano, confusione • 11. Fisso, immobile • 12. Le iniziali di Carboni • 14. L’alieno di Spielberg • 15. Un tasto del PC • 16. Cresce con gli anni • 17. Stanza... inglese • 19. La capitale del Vietnam • 20. Gracidano • 22. Fiume engadinese • 23. In mezzo al coro • 25. Tribunale da ricorso • 26. Il nome dello scultore Pomodoro • 27. Investiture • 29. Millecento romani • 30. Arma bellica • 31. Noto stilista • 33. Appunto • 34. Il club dell’alpinista • 35. Ente Turistico Ticinese • 36. Lo Scorsese regista • 38. Dittongo in reità • 40. L’antica Thailandia • 41. Udito • 44. Associazione Sportiva • 46. Relativo alla stagione del solleone • 48. Radio Svizzera Italiana • 49. Messi, banditori • 52. Spagna e Italia • 53. Bestia.

distingue i colori • 13. Uccide Abele • 16. Risolve parole crociate • 18. Pari in Zorro • 21. Son grandi... piccole donne • 24. Automa • 28. Gli indirizzi degli speditori • 31. Il noto Fo • 32. Il Cellamare • 34. Costruiscono dighe • 37. Profonda, intima • 39. Andati in poesia • 42. Loro • 43. Lo zar... Terribile • 45. Tradiscono la patria • 47. Arto pennuto • 50. Assicurazione Militare • 51. Consonanti in dalia.

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Verticali 1. Il celebre dilemma amletico • 2. Trattato, convenzione • 3. Altare pagano • 4. Aritmetica • 5. Trampoliere sacro • 6. Le suonano le ballerine spagnole • 7. La Yoko di Lennon • 8. Norvegia e Germania • 9. Non

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» a cura di Elisabetta

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Periodo ricco di opportunità, incontri, colpi di fulmine e relazioni sociali grazie ai buoni aspetti con Mercurio e Venere. Vacanze all’insegna dell’edonismo e del lusso. Faticosi i rapporti con i parenti.

La soluzione verrà pubblicata sul numero 34

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SPINAS CIVIL VOICES

DOVE C’È ACQUA, I BAMBINI CRESCONO BENE. Nei paesi del Sud del mondo, un bambino su quattro è denutrito. L’acqua può fare molto, perché dove c’è acqua, la terra è generosa, la fame sparisce e i bambini crescono bene. Il vostro contributo è come l’acqua che irriga i campi.

Donate 10 franchi con un SMS: Acqua 10 al 488.


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