Ticino7

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№ 41

del 14 ottobre 2011

con Teleradio 16–22 ottobre

Identità nazionali

VIcInI ma non Troppo

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Ticinosette n° 41 14 ottobre 2011

Impressum Tiratura controllata 70’634 copie Chiusura redazionale venerdì 7 ottobre Editore Teleradio 7 SA, Muzzano

Agorà Ticino e Italia. Alla ricerca della diversità Letture Etnia e colonialismo Relazioni Il fratello, la sorella

di

Fabio MaRtini

di

Gaia GRiMani

Salute Capelli. L’autunno della “testa”

di

Vitae Tiziana Soudani

Redattore responsabile Fabio Martini

Reportage Milano. Villa Clerici

Coredattore Giancarlo Fornasier

Fiabe Fantaghirò

Photo editor Reza Khatir

Tendenze Moda e tessuti. Andar sul velluto

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55 Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch Stampa (carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona Pubblicità Publicitas Publimag AG Mürtschenstrasse 39 Postfach 8010 Zürich Tel. +41 44 250 31 31 Fax +41 44 250 31 32 service.zh@publimag.ch www.publimag.ch Annunci locali Publicitas Lugano tel. 091 910 35 65 fax 091 910 35 49 lugano@publicitas.ch Publicitas Bellinzona tel. 091 821 42 00 fax 091 821 42 01 bellinzona@publicitas.ch Publicitas Chiasso tel. 091 695 11 00 fax 091 695 11 04 chiasso@publicitas.ch Publicitas Locarno tel. 091 759 67 00 fax 091 759 67 06 locarno@publicitas.ch In copertina Bocce e boccino Illustrazione di Antoine Déprez

di

di

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Redazione

FRancesca RiGotti

Direttore editoriale Peter Keller

deMis QuadRi

RobeRto Roveda

a cuRa della

Società Personalismi. Il senso della lista di

di

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RobeRto Roveda; FotoGRaFie di Reza KhatiR . . . . . . . . . . . . .

Fabio MaRtini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . di

MaRisa GoRza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

A rischio estinzione L’articolo di apertura di questo numero affronta una questione se vogliamo centrale nella riflessione sull’identità dei ticinesi e di riflesso sulla peculiarità della Svizzera come paese multietnico e plurilinguista . Le osservazioni sollevate da Renato Martinoni, professore di Letteratura italiana all’università di San Gallo intervistato da Roberto Roveda, suggeriscono la necessità di un rapporto più stretto, sotto il profilo culturale e politico, del cantone con Berna e Zurigo . Un’articolazione che deve essere attuata tenendo bene a mente innanzitutto la questione linguistica . Il destino dell’italiano come lingua nazionale di “minoranza” sembra in parte segnato, come ha scritto in un suo recente saggio Martinoni (La lingua italiana, SalvioniEdizioni, 2011): “un idioma, chissà, destinato prima o poi all’estinzione. E comunque costretto a vivere in una gabbia solidamente costruita, quella del suo territorio storicamente più consolidato: la Svizzera italiana” . Questa condizione di isolamento – nonostante gli sforzi legislativi tesi a sostenere la lingua italiana –, se da un lato può apparire inevitabile non è

d’altra parte affatto scontata . Continuare a pensare all’italiano come a un residuo linguistico, a un idioma museale un po’ esotico, non può funzionare . Il problema sta piuttosto nella scarsa propulsività che il Ticino ha avuto e continua ad avere sul piano culturale all’interno della Confederazione . Serve altro, come suggerisce Martinoni: “ci vogliono più progetti veri, e seri, e meno egoismo e disattenzioni. Più fatti e meno parole (…). La Svizzera italiana – in particolare il Cantone Ticino – sente troppo poco il bisogno di andare «oltre»: cioè di imparare finalmente a dialogare con la Svizzera alloglotta (…) portando idee e progetti, non perché vengano calettati in casa, ma perché possano entrare in una dinamica veramente nazionale”. Ma questo sarà possibile solo quando riusciremo, come ticinesi e italofoni, a lasciarci alle spalle l’autoreferenzialità, le divisioni interne, le ossessioni per le identità minime, i campanilismi, i partiti del condomino, dell’orto e dell’aiuola, che non fanno bene né al cantone né al paese nel suo complesso . Per guardare altrove . Buona lettura, la Redazione


Alla ricerca della diversità

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di Roberto Roveda

C

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Agorà

Ticinesi e italiani parlano la stessa lingua, abitano vicini, lavorano anche a stretto contatto… però, in generale, si conoscono reciprocamente poco e mantengono una generale diffidenza gli uni verso gli altri. Una situazione che ha radici culturali e storiche, ma che forse va analizzata sotto prospettive nuove, senza a tutti i costi avanzare la pretesa di essere uguali

antone Ticino e Italia hanno rapporti culturali, sociali economici che affondano nei secoli e che sono stati certamente facilitati dal fatto di appartenere alla stessa area linguistica. Ma nonostante la vicinanza geografica e idiomatica, italiani e ticinesi rappresentano realtà diverse tra loro, che spesso si sfiorano, conservando una sottile, ma sempre presente diffidenza reciproca. Un guardarsi tra “diversi”, quindi, che però ha poco a che vedere comunque con certi eccessi del mondo politico italiano che pensa di risolvere i problemi del Belpaese addebitando le colpe del disastro economico interno ai “paradisi fiscali” luganesi. Né con le prese di posizione urlate dei partiti come Lega dei Ticinesi e Udc. Per provare ad approfondire questo tema abbiamo incontrato Renato Martinoni, professore di Letteratura italiana all’Università di San Gallo e profondo conoscitore della realtà della Svizzera italiana, ma anche dei rapporti culturali e non solo che intercorrono tra Confederazione e Italia. Lo testimoniano alcune delle sue più recenti pubblicazioni come L’Italia in Svizzera. Lingua, cultura, viaggi, letteratura (Marsilio, 2010), Troppo poco pazzi. Leonardo Sciascia e la Svizzera (Olschki, 2011; volume segnalato in Ticinosette n. 25/2011) e La lingua italiana in Svizzera (SalvioniEdizioni 2011; in Ticinosette n. 34/2011). (...)


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Prima di tutto professor Martinoni le chiedo – mi sembra d’obbligo – se lei concorda con l’impressione generale che tra ticinesi e italiani, nonostante gli elementi di comunanza, rimanga una diffidenza, una distanza di fondo. “Potrei cavarmela con una battuta: «Amore di fratelli, amore di coltelli». La diffidenza non è una forma di giudizio, ma un segnale di autodifesa: magari con l’aggiunta di un pizzico di invidia. I ticinesi hanno qualche buon motivo per invidiare un poco gli italiani (pensiamo alla loro capacità di saper vivere), così come gli italiani hanno qualche buon motivo per essere un poco gelosi dei ticinesi (pensiamo alla loro capacità di essere previdenti e rispettosi). Vorrei però aggiungere che i ticinesi, e gli svizzeri in generale, conoscono assai meglio l’Italia di quanto l’Italia non conosca la Svizzera. Forse perché la Svizzera è piccola, ha meno abitanti della sola Lombardia. Ma non è solo per questo”.

Agorà

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Ci sono altri motivi? “Storicamente i popoli del nord dell’Europa hanno viaggiato più di quelli del sud. Perché nel sud trovavano la vita all’aperto, l’arte, l’amore. Ma anche perché la loro etica del lavoro imponeva loro di muoversi. Soltanto la conoscenza reciproca può indebolire la diffidenza. Ma questo non basta. Le capitali, cioè i centri politici e burocratici, giocano un ruolo fondamentale. Ecco perché il signor Rezzonico che abita a Chiasso e il signor Rezzonico che abita a Como, e che magari, insieme, giocano a bocce il sabato pomeriggio, sono spesso diversi (e diffidenti fra di loro). Se la diffidenza è un fenomeno naturale che nasce quando due civiltà si incontrano, per superarla ci vogliono tante cose: compresa naturalmente la volontà di farlo. Storicamente direi comunque che gli svizzeri si sono impegnati maggiormente nel conoscere gli italiani di quanto gli italiani non abbiano fatto con gli svizzeri. Ma la lontananza, quella, rimane…”.

ranza degli svizzeri. Dovrebbero fare tesoro di queste acquisizioni per «aprirsi» maggiormente. Senza vivere troppo di rendita o nei patriottismi di facciata. Le «colpe» degli italiani? Mi sembrerebbe scortese elencarle. Piuttosto aggiungerei comunque che la «diffidenza» reciproca non è fatta soltanto di distacco, ma anche di simpatia, di ironia (buon segno!), di affetto. Chi non ricorda gli sketch sugli svizzeri del trio comico Aldo, Giovanni & Giacomo?”. A suo parere il solco tra Ticino e Italia si è accentuato negli ultimi anni? Perché? “Viviamo in un’epoca in cui i solchi si scavano fra grandi realtà (Occidente e Oriente). Conosciamo tutti parole che sono andate molto di moda, come «globale» e «locale», sappiamo della crisi degli stati nazionali, e vediamo un po’ ovunque rigurgiti politici e sentimentali di ethnicity. I solchi sono scavati anche dalla confusione e dai malintesi che ne nascono, oltre che a volte dal pressapochismo e dall’ignoranza: soprattutto perché ad avere il potere della parola non sono più gli uomini di cultura, che almeno conoscevano il significato delle parole, ma pifferai della domenica. Certo, volendo dirla tutta, l’Italia berlusconiana ha fatto di più per allontanarsi che per avvicinarsi alla Svizzera (anche se poi molti, in privato, corrono a farsi curare nelle cliniche elvetiche). Come si fa a dire pubblicamente che si vuole mandare l’esercito (italiano) a occupare la piazza finanziaria di Lugano? Ce li immaginiamo i bersaglieri che corrono suonando la tromba in Piazza Riforma? O gli alpini appostati sulla cima del San Salvatore?”.

“Al di là degli stretti rapporti linguistici ed economici con la Lombardia, trovo che il Cantone Ticino debba impegnarsi a guardare attentamente verso Berna più che verso Roma o Milano”

Quali sono le ragioni di questa lontananza? “Storiche, antropologiche, culturali. A lungo l’Italia è stato il territorio più naturale per gli emigranti svizzeri di lingua italiana. E poi durante l’epoca delle lotte risorgimentali il Cantone Ticino è stato un punto di sostegno per l’Italia. Guardando alla storia possiamo trovare, nella differenza, momenti di grande vicinanza. Ma ci sono anche epoche che hanno scavato dei solchi mai più colmati. C’è dapprima il fatto che l’Italia viene unita politicamente sotto le bandiere della monarchia. Non piace e non piacerà agli svizzeri un’Italia governata non da un consesso di persone e da partiti diversi, ma da un re (insieme a un’élite). Poi, in maniera ancora più radicale, dopo il nazionalismo strombazzato e le minacce irredentiste – ancora nel 1921 Mussolini considerava le Alpi come un confine naturale per l’Italia – occorre ricordare l’esperienza del Ventennio. Il fascismo italiano, con le sue nefandezze e i suoi attentati alla libertà individuale, ha rappresentato un ulteriore elemento di distacco, se vogliamo definitivo, dalla Madre linguistica e culturale”. Secondo lei, quali sono le “colpe” dei ticinesi e quali quelle degli italiani e dell’Italia? “È sempre pericoloso parlare di «colpe» quando ci si occupa dei rapporti tra due nazioni. Anche se, volendo proprio cercarle, tutti hanno delle «colpe». I ticinesi godono di privilegi che non sempre sono stati costruiti da loro, ma dalla saggezza e dalla lungimi-

Quali vantaggi avrebbero i ticinesi da una maggiore coesione con i vicini italiani? “Da una vita ho rapporti con l’Italia – mia madre, fra l’altro, è italiana di origine: ho sangue veneto nelle arterie – e credo di conoscere abbastanza bene il Belpaese. Ma da tanti anni vivo nella Svizzera di lingua tedesca. Questo mi ha portato a considerare le cose un po’ diversamente da chi continua a bearsi nel teorema del Ticino «svizzero politicamente e italiano culturalmente». Voglio dire: al di là degli stretti rapporti linguistici ed economici con la Lombardia, trovo che il Cantone Ticino debba impegnarsi a guardare attentamente verso Berna più che verso Roma o Milano. E poi di quali «italiani» vogliamo parlare? Mi sembra di capire che l’Italia, se non è una «espressione geografica», come pare abbia detto von Metternich, resta comunque un paese unito soprattutto sulla carta. Una maggiore coesione fra gli italiani, e una migliore coesione fra gli svizzeri, gioverebbe probabilmente a entrambi i popoli. Detto questo vorrei però ricordare che anche la diversità è un valore aggiunto. Fortuna che, nella diversità, italiani e svizzeri riescono comunque ad andare fondamentalmente d’accordo”. Che cosa si può fare da una parte e dall’altra per favorire questo maggiore incontro? “Dimenticare la politica, troppo spesso orientata sull’oggi e basata su parole che possono essere rimangiate quando fa comodo, e chiedere a chi regge le istituzioni di rinunciare a qualche poltrona per fare posto ad altri attori, che sappiano dialogare apertamente e con coerenza. Lasciamo che a parlare siano gli uomini, con la loro quotidianità, non i politici con i loro opportunismi elettorali. Chissà che allora tutto non diventi più semplice e diretto”.


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Etnia e colonialismo

» di Fabio Martini

Il termine etnia ha vissuto una seconda, drammatica stagione determinate forme di coesione sociale. A tal riguardo Jeana partire dall’inizio degli anni Novanta, quando i processi di Loup Amselle, caporedattore dei “Cahiers d’études africaines”, trasformazione seguiti al crollo del blocco comunista hanno e Elikia M’Bokolo, storico congolese, entrambi docenti presso dato il via, soprattutto nei paesi balcanici, l’École des Hautes Études en Sciences Sociaal riaffiorare di conflitti e aspre tensioni les di Parigi pubblicarono nel 1985 questa fra comunità culturali diverse. È avvenuto serie di sei saggi di studiosi diversi e da pocosì che espressioni come conflitto etnico, chi tradotti anche in italiano. Analizzando pulizia etnica, gruppo etnico, divenute di gli scenari dell’Africa contemporanea, gli pubblico dominio, hanno inflazionato la autori da un lato confutano l’impostazione comunicazione mediatica. riduzionista ed essenzialista che ha contrasIl termine etnia è entrato quindi a far parte segnato il modello di analisi adottato fino del nostro vocabolario quotidiano e la paroa pochi decenni fa; dall’altro, rifiutano in la multietnico è forse la più idonea a definire modo netto una lettura dei conflitti afriil tipo di società nella quale ci troviamo a cani alla luce del tribalismo, una modalità vivere. In realtà, i limiti semantici di etnia che, eludendo una reale e articolata lettura sono andati definendosi proprio nell’arco storica, semplifica – a uso e consumo degli degli ultimi decenni fino a indicare il interessi occidentali –, la pesante realtà dei gruppo umano che riconosce una propria rapporti sociali, politici ed economici fra i coesione non sulla base di caratteri genetici popoli africani. Smontando la nozione di L’invenzione dell’etnia a cura di Jean-Loup Arselle o dell’aspetto fisico – elementi che afferiscoetnia in una prospettiva “dinamista”, Ame Elikia M’Bokolo no piuttosto al concetto desueto di razza –, selle, M’Bokolo e soci, riarticolano e reinMeltemi, 2008 ma relativamente alla condivisione di fattoterpretano puntualmente le trasformazioni ri culturali come la storia, la religione, la lingua, la cultura, sociali ereditate e derivate dai processi di colonizzazione. le tradizioni, ecc. Non solo: il termine in oggetto è andato Perché quest’ultima è stata certamente più determinante nella via via includendo in sé altri aspetti come il sentimento di costituzione dell’attuale situazione sociale africana di quanto identità, la dimensione emotiva e cognitiva, le attitudini a non siano state le sopravvivenze pre-coloniali.

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Il fratello, la sorella Essere fratello o sorella significa avere gli stessi genitori o almeno uno di essi. Il termine, però, non riguarda solo i casi di parentela, ma ha assunto nel tempo importanti valenze culturali testo di Gaia Grimani fotografia di Reza Khatir

Nella

Relazioni

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religione cristiana tutti gli uomini sono considerati fratelli, in quanto condividono con gli altri l’essere figli di Dio. Ma, al di là di ciò, si possono definire tali pure persone verso le quali si nutre un’amicizia molto profonda, anche se questo ovviamente non ha alcun valore a livello giuridico, ma solo affettivo. Oppure chiunque sia unito da stretti vincoli ideali o religiosi, oltre che strettamente familiari e legati alla presenza di genitori comuni, naturalmente In questa parola, che racchiude molteplici significati e sfumature, sembrano prevalere aspetti positivi e unificanti, soprattutto quando ci si riferisce al concetto di fratellanza, più che alla relazione tra fratelli nel vincolo di parentela. Non a caso nella Bibbia il primo delitto dell’umanità è compiuto da Caino e ha per vittima suo fratello Abele a cui invidiava la predilezione che Dio gli dimostrava. L’origine del malanimo che spesso nasce proprio fra chi dovrebbe sentirsi più affettivamente legato è facilmente spiegabile: nessuno sceglie di avere dei fratelli, come nessuno sceglie i genitori. La scelta non caratterizza questo tipo di relazione umana, come invece accade nel rapporto coniugale o amicale. Essere fratelli è, all’inizio, un dato di fatto, vivere da fratelli, invece, diventa successivamente una scelta. Il rapporto è quindi assai complesso e stupisce che la psicologia se ne sia occupata poco, ma, tra chi l’ha fatto, brillano i nomi di due svizzeri, Ludwig Binswanger e Charles Baudoin, studioso quest’ultimo per l’appunto dei conflitti tra fratelli travolti da sentimenti di gelosia e odio che egli classificava come veri e propri “complessi di Caino”. L’origine del conflitto Ma perché nascono questi sentimenti di gelosia? La presenza di un fratello o di una sorella che irrompe improvvisamente nella vita di un bambino viene spesso vissuta come quella di un rivale in grado di sottrarre l’affetto della mamma e del papà che prima era tutta/o per lui, e spesso si parla addirittura di sfregi o “atti di cattiveria” che vengono compiuti dal fratello maggiore sul minore per ripicca. A questo punto la soluzione

del conflitto è affidata all’abilità dei genitori che, identificando immediatamente il problema, possono far apprezzare al figlio maggiore la presenza del nuovo arrivato, come quella di un potenziale compagno di giochi, di un complice, di un confidente, di un amico insomma. Purtroppo pare che i rapporti difficili fra fratelli siano causati spesso da errori educativi degli stessi genitori che vanno dall’incoraggiare la rivalità tra i figli – per esempio, lodando molto uno a scapito degli altri – al responsabilizzare eccessivamente il fratello maggiore nei confronti dei più piccoli. Se al contrario invece essi incoraggiano la cooperazione e il senso di responsabilità di tutti, senza trattamenti preferenziali per l’uno o per l’altro, accettando le diversità di ognuno e lodandone le qualità in egual misura, questa conflittualità tende a diminuire. Il ruolo genitoriale Essere genitori, si sa, è il mestiere più difficile del mondo e ci si rende conto soprattutto di sbagliare molto spesso. Può quindi capitare che nel rapporto tra fratelli si scatenino contrasti per una mediazione errata dei genitori nei loro rapporti e le difficoltà si appianino quando finalmente essi possono intensificare i contatti reciproci senza tale mediazione. Nella storia familiare di molte persone che ho conosciuto ho potuto constatare la veridicità di questo assunto e, paradossalmente, ho visto fratelli e sorelle uniti e concordi, più nelle famiglie in cui i genitori erano parzialmente o totalmente assenti che in quelle dove la loro presenza si caratterizzava con interventi errati. Oggi questo problema appare un po’ meno importante di qualche anno fa perché sempre più spesso ci troviamo di fronte a nuclei familiari composti da padre, madre e figlio unico con la conseguente scomparsa delle risorse significative della famiglia estesa: per dirla in parole povere, un figlio unico ha una vita forse più facile, con minori contrasti, ma certamente meno ricca senza “fratelli e sorelle” che, pur mettendolo spesso alla prova, sono un contributo straordinario alla crescita e alla maturazione personale, aiutandolo a diventare qualcuno in grado di gestire armoniosamente le relazioni con gli altri. E non è poco.


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Chiome

Con la stagione autunnale anche i nostri capelli subiscono cambiamenti che si manifestano attraverso una naturale e fisiologica caduta

Caduta dei capelli … Capelli deboli … Unghie fragili …

a cura della Redazione

Da

L’autunno della “testa” Sia nell’uomo che nella donna la caduta di 50-100 capelli al giorno – per un periodo di circa un mese – è un fenomeno che, come detto, coincide con l’inizio della stagione autunnale. Ma la normale caduta può risultare più evidente a causa anche di un’incauta esposizione al sole, i cui effetti deleteri si possono manifestare dopo circa tre mesi. L’azione dei raggi ultravioletti determina infatti, tra i vari danni, anche un’accelerazione delle fasi telogen e catagen, e dunque di morte e caduta dei capelli. Nella donna questa caduta può risultare più evidente e intensa di quella maschile anche per un effetto “ottico” dovuto alla lunghezza del capello. A questo va aggiunto un altro fattore connesso sempre alla stagione estiva: le diete, in particolare quelle “fai da te” – spesso squilibrate – che imperano nelle settimane precedenti le vacanze (le classiche e massacranti “prove costume”) e che si associano a inevitabili disordini ormonali. I capelli infatti sono dei recettori estremamente sensibili del nostro stile di vita, di quello alimentare in particolare. Ecco perché comportamenti sbagliati avuti alcuni mesi prima si possono manifestare proprio tra ottobre e novembre, in concomitanza al fenomeno della caduta stagionale. A questi vanno aggiunti trattamenti cosmetici troppo aggressivi e frequenti (colorazioni, ecc.) che portano a una fragilità del cuoio capelluto e all’opacità delle chiome. Come per la pelle, anche i capelli si curano prima di tutto dall’interno: per la loro vita sono così indispensabili i cereali, le proteine vegetali – come i ceci, i fagioli, le lenticchie – la carne e il pesce (e i prodotti ittici ricchi di Omega 3, come le sardine, le aringhe e il salmone selvatico). E soprattutto i latticini: questi sono da inserire però in modo equilibrato nella propria alimentazione, evitando così di scatenare ulteriori squilibri.

... possono essere provocati dalla carenza di biotina.

aiuta ad eliminare questo stato di carenza. Lo sviluppo di capelli e unghie sani Cellule specializzate (cellule epidermiche) nella matrice dei capelli , rispettivamente delle unghie si riproducono per scissione cellulare e si spingono lentamente verso gli strati cutanei superiori . Maturando, formano la proteina filamentosa cheratina, elemento costitutivo principale di capelli e unghie. La cheratina conferisce a capelli e unghie resistenza. Così agisce la biotina La biotina agisce sulla moltiplicazione delle cellule matrici di capelli e unghie , favorisce la formazione di cheratina e ne migliora la struttura.

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sempre i capelli incarnano concetti quali forza, fertilità, seduzione ed erotismo; in altre parole sono un vero simbolo e questo in particolare nel corpo di una donna. Ma i capelli raccontano molto altro: il loro stato di salute è lo specchio della nostra “fragilità emotiva”, perché sono in grado di metabolizzare umori e pensieri. Un legame che ha basi scientifiche se consideriamo che nello stesso sviluppo del feto capelli, pelle e strutture nervose condividono il medesimo foglietto embrionale. Specchio della nostra salute e attrattore sessuale: la femminilità dunque passa per forza di cose anche dai capelli, e se vogliamo che questi siano sani dobbiamo dedicare loro del tempo. Cure e attenzioni specifiche da concentrare in particolare nei mesi autunnali, quando i cambiamenti stagionali si fanno più evidenti con una fisiologica perdita di capelli.


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Il senso della lista La mania delle liste dilaga: dai social network, di cui sono elemento peculiare, alla televisione e ai giornali. Ma a prescindere dall’urgenza di far sapere “chi si è” attraverso l’elencazione delle proprie preferenze, liste ed elenchi nascondono ben altri significati e fascinazioni di Francesca Rigotti

$* ',+/, &**& -,0(.')& # )+)1)&/," Da quando quel geniaccio di Umberto Società

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Eco pubblicò per Bompiani, nel 2009, Vertigine della lista, splendido volume illustrato, e dopo che Fabio Fazio e Roberto Saviano, nell’autunno-inverno del 2010, avendo colto il messaggio di Eco, presentarono alla televisione italiana, come forma di intrattenimento impegnato, la lettura di elenchi da parte di celebrità e di persone qualunque, ottenendo il noto travolgente successo, è stato tutto un pullulare di liste e listini, note, cataloghi ed elenchi. Il sito della trasmissione Vieni via con me contiene un elenco di quasi quattromila liste delle dieci cose per cui vale la pena vivere e di molte altre ancora. Tutto questo pone il logico di fronte all’annoso problema che chiede se la lista che contiene le liste faccia parte o meno dell’insieme delle liste. Non entriamo in merito, cerchiamo invece di sforzarci di capire qualcosa del successo delle liste. Lo scudo e le navi Nel libro di Eco vengono presentati all’inizio due modelli di raffigurazione della realtà, entrambi ispirati all’Iliade di Omero, il poema epico dell’antichità che narra della guerra di Troia; si tratta da una parte del modello dello “scudo di Achille”, narrazione di un mondo finito, di una forma chiusa, di una struttura incorniciata in cui, oltre alla terra, al cielo e al mare, al sole, alla luna e alle costellazioni, compaiono città e

campi arati, vigneti e mandrie di giovenche, pecore al pascolo, giovani che danzano, e il gran fiume Oceano che tutto chiude avvolgendosi intorno allo scudo; dall’altra, del modello dell’elenco o lista, che fa capo al “catalogo delle navi” – un elenco delle imbarcazioni e di tutti i loro comandanti e guerrieri che si sussegue per ben 383 versi! – di forma aperta, lungo e stretto per dir così, dato che lo dice il nome “lista”. La lista infatti in origine è semplicemente una striscia di tela lunga e stretta, un pezzo di stoffa smilzo assai, in comparazione alla sua lunghezza, passato poi a designare un catalogo, un indice, una nota, una numerazione ordinata. Il principio della lista Bene: se questa è la lista, qual è il suo principio? Null’altro che l’essere un lungo elenco che conferisce ordine e forma a qualcosa che non siamo in grado di controllare e denominare altrimenti; un elenco che ha, inoltre,

%&-,.- -,*),( '(* $#+" funzione fascinatoria e affabulatrice perché incanta con la sua scansione sonora (come le litanie dei santi con la sequenza ritmica dei loro nomi); un elenco, infine, con funzione mnemonica ma soprattutto dotato di effetti rassicuranti. Infatti, a differenza del labirinto che è, spiega Eco (op. cit. p. 241) “un elenco non lineare che si riavvolge


Lo scrittore e saggista Umberto Eco (immagine tratta da www.conaltrimezzi.wordpress.com)

a gomitolo su se stesso”, e che con la sua erranza mai conclusa incute spavento perché è impossibile uscirne, l’elenco va giù dritto, si stende in forma lineare, prevede una fine e un’uscita. Ci sono liste pratiche che noi tutti stiliamo ogni giorno, sulla carta, al computer o semplicemente in testa: la nota della spesa, l’elenco delle cose da fare, la lista dei numeri telefonici da chiamare o delle

$,(*)'1' .2'01& ,--,/12+)1"# mail da inviare e via così in una lista delle liste che a mia volta vengo componendo. E ci sono, scrive ancora Umberto Eco, liste poetiche, che comportano per lo più il brivido della vertigine del suono e del ritmo. Tra le liste poetiche una che mi ha sempre affascinato è quella delle Ninfe Oceanine contenuta nella Teogonia di Esiodo, poema anch’esso arcaico come quello di Omero. Tremila furono secondo Esiodo le figlie di Oceano e Teti, e via con l’elenco, che ne cita però soltanto 41, dai nomi che hanno a che fare con l’acqua, con il vento e le onde, con gli scogli, con le grotte e con le navi, oppure dai nomi enigmatici, o infine legati alla terra, come Telesto, “colei che porta la veste color zafferano”. Ai poeti e

a chi li ascolta piacevano questi nomi per il loro suono e per le immagini e i sentimenti che suscitavano, né essi temevano, a ragione, che una simile nuda enumerazione potesse stancare l’ascoltatore. Il fascino delle liste E se ci fosse, in questa fascinazione o vertigine della lista, di più o dell’altro? Butto lì un’idea. Propongo che il fascino delle liste nasca dal fatto che esse mettono in gioco un modello che abolisce la distinzione tra numerazione e narrazione, tra contare e raccontare, tra numero e parola, in breve tra letteratura e scienza. Perché dico questo? Perché lo stendere o l’ascoltare una lista è un modo di enumerare narrando e/o di narrare enumerando; la lista è la fusione del momento matematico e del momento narrativo giacché con la lista si conta e si racconta insieme. Il raccontare infatti, nel suo svolgimento nel tempo, è continuo e lineare come la linea (cordicella di lino), procede filato e senza interruzioni sulla base della storia e del suo svolgersi nel tempo, come acqua che cola da una cannella, come tempo che scorre, come una catena continua, come un filo musicale che si dipana da una composizione, come filo sgomitolato da una matassa. Il contare invece procede a balzi, salta dall’uno all’altro punto e dall’uno all’altro nodo, si disfa in granelli di sabbia, in gocce, in perle di una collana non infilata.

Contare e raccontare Nella lista l’universo fluido del raccontare si connette all’universo delle particelle da contare, nel passaggio a balzi dall’uno all’altro oggetto della lista: abbiamo liste di cose, di luoghi, di proprietà, di opere, fino alla “gran madre di tutte le liste, ragnatela e labirinto, non albero ordinato ma catalogo di informazioni senza distinzione tra verità e errore” (op. cit. p. 360). L’unione di conto e racconto, di Zählen e Erzählen (il tedesco mantiene la stessa costruzione e assonanza delle lingue neolatine) ci riporta in un universo pieno e realizzato, compiuto e appagato, dove non ha ancora avuto luogo la lacerazione tra le due forme, e lì ci lascia, in un oceano di onde listate di bianco nel quale, in compagnia delle Ninfe Oceanine, è dolce naufragare.

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Società

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» testimonianza raccolta da Demis Quadri; fotografia di Reza Khatir

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Tiziana Soudani

Vitae

e molto arricchente lavorare con autori diversi su progetti diversi, che vanno dal documentario alla fiction. In generale si pensa che i produttori guadagnino un sacco di soldi. Non è vero. È un lavoro difficile, impegnativo. Devi lottare per trovare i finanziamenti per la realizzazione delle opere degli autori in cui credi. Ogni progetto affrontato, indipendentemente dalla sua forma, è diverso, e io d’impulso seguo solo i progetti che mi toccano dentro e per i quali so che mi batterò perché possano essere realizzati. Il mio lavoro si svolge dietro le quinte, ma mi piace comunque recarmi sul set coHa prodotto gioielli cinematografici come me spettatrice e poter parlare, “Pane e tulipani”. Affronta il suo intenso discutere con tutti i tecnici. lavoro nell’ambito della settima arte con Per me non esistono gerarchie, tutti sono importanti su una buona dose di idealismo un set, dal regista allo stagista, dall’ingegnere del suono regista ivoriano, Roger Gnoan all’assistente di produzione. Una montagna M’Bala, mi ha chiesto se vodi sabbia è costruita da ogni suo granellino, e levo produrre il film che inogni granellino è importante. Mi piace avere tendeva realizzare: non avevo un bel rapporto con tutti. Quando la tua ancora abbastanza esperienza, troupe sta bene e tutti sono contenti, perché ma la passione e la sfida mi hai stabilito dei buoni rapporti con tanta hanno spinto ad accettare. passione, allora riesci veramente a creare Il risultato, è una specie di l’atmosfera giusta per lavorare bene. favola ironica ambientata in Oggi, tra le tante cose, sto producendo un un villaggio dell’Africa ocdocumentario di un giovane che ha frequencidentale, dove un porcaro tato il Cisa, Andrea Pellerani. È dedicato a un crede di essere stato scelto ticinese che è stato colto a disegnare sui muri come salvatore del suo poe dovrà essere processato. Attraverso un suo polo. Il film ha vinto il Feritratto, parla della necessità di esprimersi, di stival Panafricano di Cinema come col tempo si cambia, delle condizioni di Ouagadougou, in Burkina dei giovani di oggi. Perché hanno bisogno di Faso, prima di essere scelto da scrivere sui muri? Anch’io mi arrabbierei se Marco Müller per il Festival di venissero a spraiare sulle pareti di casa mia, Locarno, dove ha ottenuto il ma allora diamo loro degli spazi a disposiPremio dei giovani. Così, pian zione. Il disagio giovanile è un problema. piano, sono entrata nel monLo si vede anche in un altro documentario do della produzione. In Africa, che ho prodotto, di Kevin Merz, dedicato a dove peraltro non ci siamo un artista, Stefano Terranova, morto dieci mai stabiliti, abbiamo girato anni fa investito da un treno mentre stava ancora altri documentari e attraversando i binari alla stazione di Parapellicole di fiction, mentre il diso. Kevin e Stefano sono cresciuti insieme cammino è andato avanti. dall’età di 15 anni. Siccome Kevin aveva Nel 1987 abbiamo fondato la già la passione per il video, per anni ha nostra società, Amka Films. Il filmato la loro amicizia e quello che hanno nome è tratto dalle prime due vissuto. Il documentario è toccante, ma lettere dei nomi delle nostre presenta anche delle testimonianze molto due figlie: Amel e Karima. dure sul disagio giovanile. Io continuo a Abbiamo deciso che saranno dirlo: vorrei che i potenti del mondo intero loro ad aiutarci sempre ad interrompessero quello che stanno facendo andare avanti… La produzioper ascoltare la voce dei giovani. Sono sicura ne mi appassiona: è dura, ma che le proposte che ne scaturirebbero conallo stesso tempo è stimolante tribuirebbero a creare un mondo migliore.

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S

ono nata a Locarno, dove sono cresciuta e ho frequentato le scuole dell’obbligo. Dopo essermi diplomata in lingue, ho iniziato subito a lavorare, per poi formarmi in ambito commerciale solo più tardi. Come sono arrivata al cinema? Per caso. Visto che mio marito, prima di dedicarsi alla regia, era cameraman e direttore della fotografia, ho cominciato a interessarmi a quel settore. Più tardi abbiamo avuto la possibilità di lavorare su un lungometraggio in Costa d’Avorio, per una produzione francese e un regista ivoriano. Mio marito era il direttore della fotografia, mentre io ho collaborato come segretaria di produzione alle prime armi, prendendomi anche la responsabilità di coprodurre in piccola parte. Una bella esperienza, anche se dura, perché in Africa non è facile. Ma questa esperienza ha accresciuto in me la passione per questo lavoro: volevo occuparmi di produzione. All’epoca mio marito lavorava come dipendente di un’azienda, ma dopo il film abbiamo pensato: perché non percorrere questa strada assieme e indipendentemente? Nel frattempo ci siamo legati molto all’Africa, un continente che ami o non ami. Mio marito è algerino, però non conosceva ancora l’Africa nera, per cui è stata una prima esperienza per entrambi. Abbiamo amato l’Africa dal primo momento e da li è nata una collaborazione molto stretta con la televisione della Costa d’Avorio, a quel tempo paese molto stabile, ricco, con un presidente, Félix Houphouët-Boigny, visionario e molto intraprendente. Avremmo dovuto produrre una serie di nove documentari, ma alla fine ne sono stati realizzati soltanto tre. Uno di questi è arrivato a Cannes ed è stato tra i dodici migliori presentati quell’anno al MIPTV, il mercato internazionale dedicato ai contenuti audiovisivi e digitali. Più tardi un


Villa Clerici, villa di delizia Un inatteso spazio di verde e di tranquillità in una delle zone piÚ trafficate di Milano. Un complesso settecentesco sobrio ed elegante che sembra voler sfidare i dintorni, fatti di anonimi e sovrabbondanti palazzoni contemporanei. Questa è Villa Clerici, luogo di svago e riposo nel passato e oggi sede di una delle maggiori gallerie di arte sacra contemporanea esistenti

testo di Roberto Roveda; fotografie di Reza Khatir


sopra: uno dei due teatri costruiti da Dandolo Bellini riutilizzando materiali provenienti da palazzi distrutti dai bombardamenti del 1943–45


in apertura: l’atrio di ingresso dell’edificio centrale di Villa Clerici


a sinistra Particolare della Pietà di Attilio Selva (1928) a destra San Giorgio e il drago di Francesco Vessina (1952)

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iguarda è uno di quei quartieri di Milano adagiati sulla cinta esterna della città, in una zona che fino a una sessantina di anni fa era più che altro campagna. All’inizio del Novecento, era addirittura un comune autonomo, isolato fra i campi coltivati prima di essere inglobato dalla rapida espansione del capoluogo lombardo. Oggi è soprattutto conosciuto perché in epoca fascista vi è stato costruito il più grande ospedale della città, un’imponente sequela di edifici in marmo e cemento che rompe in qualche modo la monotonia dei viali che portano all’esterno, costeggiati da file di palazzi costruiti tra gli anni Cinquanta e Settanta. “Villa di delizia”… ma con una funzione precisa Ogni tanto, però, qualche edificio più antico sembra messo lì a ricordare che in questa zona, in passato, nobili e borghesi arricchiti amavano costruirsi ville e palazzotti, dove sostare un po’ tra i campi prima di proseguire per i laghi oppure per

la Brianza. Villa Clerici è una di queste testimonianza del bel tempo antico, come si usa dire, la più bella e illustre delle ville della zona, sopravvissuta a tre secoli di mutamenti, a momenti gloriosi e di decadenza e, soprattutto alla grande speculazione edilizia del dopoguerra italiano. Un’epoca in cui bastava una crepa in un muro di un edificio per far arrivare la ruspa, abbattere tutto e tirar su in quatto e quattrotto un bel palazzo a più piani. Viceversa è rimasta la sobria eleganza delle forme di un edificio pensato all’inizio del Settecento come “villa di delizia”, cioè come luogo di svago e passatempi, dall’architetto Francesco Croce per il suo committente, il marchese Antonio Giorgio Clerici, membro di uno dei casati milanesi in maggiore ascesa all’epoca. Commercianti in seta e abili collezionisti di cariche pubbliche, il Clerici e poi i suoi discendenti miravano con la loro villa a restituire l’immagine di ricchezza e potere della famiglia, ma nello stesso tempo guardavano anche alle cose pratiche e ai loro commerci. Niguarda, infatti, si trovava




Villa Clerici Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei Via G. Terruggia 14 (ingresso al n. 8) 20162 Milano apertura da martedì a sabato 9.30–12.30 e 14–16.30; i giorni festivi la galleria è chiusa per informazioni tel.: 0039 02 647 00 66 galleria@villalcerici.it www.villaclerici.it

Reza Khatir Nato a Teheran nel 1951, è fotografo dal 1978. Ha collaborato con numerose testate nazionali e internazionali. Ha vissuto a Parigi e Londra; oggi risiede a Locarno ed è, fra le altre cose, docente presso la Supsi. Per informazioni: www.khatir.com.

sopra: fontana del giardino posteriore con statua di san Giovanni Nepomuceno a sinistra: la sala degli specchi con al centro il Cristo Risorto di Libero Andreotti

lungo la strada della seta che collegava Milano con Como. Quindi luogo di villeggiatura, ma con un occhio agli affari. Quando nell’Ottocento l’industria della seta lombarda entrò in crisi, declinò anche la fortuna dei Clerici e così anche la loro residenza di villeggiatura. Vennero nuovi proprietari che spogliarono l’edificio dei ricchi arredi, i locali furono trasformati in filanda e poi, nel 1912, in fabbrica di materiali fotografici. Vita nuova nel Novecento Poteva essere la fine per Villa Clerici e invece fu un nuovo inizio perché il proprietario della fabbrica, Mario Ganzini, avviò un meticoloso restauro dell’edificio, attento a rispettare e rinnovare quello che il gusto settecentesco aveva creato: il corpo centrale su tre livelli alleggerito da un atrio aperto a tre campate su colonne binate, ai lati del corpo centrale le due cappelle, all’interno una monumentale e scenografica scalinata. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, però, la villa tornò a un nuovo splendore grazie a Dandolo Bellini, collaboratore della Casa di Redenzione Sociale, l’istituto di aiuto per adulti e minori usciti dal carcere che dal 1927 aveva la sua sede nell’edificio. Bellini s’innamorò della villa e volle vederla di nuovo inserita in una cornice degna del suo fasto. In origine, infatti, l’edificio presentava due parchi monumentali,

sul fronte anteriore e su quello posteriore. Col tempo erano caduti in abbandono o trasformati in campi agricoli. Dandolo Bellini reinterpretò in maniera libera il disegno originale dell’esterno rinnovando, nello spazio anteriore, i modelli del giardino all’italiana e inserendovi le statue originarie della villa. Nell’area posteriore vennero costruiti due scenografici teatri all’aperto, realizzati con elementi architettonici di palazzi del XVI-XVIII secolo andati distrutti durante i bombardamenti alleati che devastarono il capoluogo lombardo nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. Ciliegina sulla torta, sempre frutto dell’impegno del Bellini, nelle sale del piano rialzato venne allestita dal 1955 la Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei con 130 opere di maestri dell’arte novecentesca come Francesco Messina, Luciano Minguzzi, Aldo Carpi, Achille Funi e Giacomo Manzù. Una galleria fondamentale, una delle prime del suo genere, per comprendere come gli artisti contemporanei si sono confrontati con i temi del sacro. Tanto innovativa da servire da modello per la galleria di arte moderna dei Musei vaticani aperta anni dopo per volere di papa Paolo VI e curata proprio da Dandolo Bellini, uomo e architetto capace di sognare e a cui Milano non ha mai pensato di dedicare neppure una via, neanche nel suo quartiere o accanto alla sua creatura prediletta: Villa Clerici.


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La bella Fantaghirò trascrizione di Fabio Martini illustrazioni di Simona Meisser

Fiabe

46 C’era una volta un re… che tanto aveva desiderato un figlio maschio a cui lasciare la corona ma la sorte gli aveva donato tre figlie femmine: Carola, la prima, Amalia, la seconda e Fantaghirò, la più piccina. Quest’ultima, che era di tutte la più graziosa, aveva un carattere gioioso e intraprendente e per questo era ammirata da tutti a corte. Il re era di animo assai malinconico e viveva tutto il tempo chiuso nella sua reggia. Nella sala del consiglio aveva tre troni, uno giallo, uno rosso e uno nero. Tutti coloro che andavano al suo cospetto potevano in questo modo sapere di che umore fosse: se era seduto sul trono giallo voleva dire che era di umore gaio, se sedeva su quello rosso, che era incline alla guerra, se, infine si metteva su quello nero, era segno di disgrazia. Una bella mattina le tre principesse entrarono nella sala e lo trovarono sul trono rosso. Carola, preoccupata, gli chiese: “Padre, che accade. Diteci…” “Ah, figlie mie, il re del nord mi ha dichiarato guerra e io non so che fare. Sono malato e non posso condurre l’esercito in battaglia. Mi ci vorrebbe un prode generale, ma dove lo trovo così, su due piedi…” e sconsolato si prese la testa fra le mani. Allora Carola disse: “Se me lo lascerete fare, guiderò io l’esercito. Credete forse che non sia capace di comandar soldati?” Il re pareva perplesso ma di fronte alla decisione della figlia maggiore finì per accettare. “E va bene, ti affiderò l’esercito ma bada… alla prima scioc-

chezza tornerai a casa subito, altrimenti ti diseredo”. La sera prima della partenza il re, per prudenza, si mise d’accordo con il più fido dei suoi cavalieri, Lestomanto. “La seguirete da vicino e alla prima stranezza avete l’ordine di ricondurla immediatamente al palazzo”. Il giorno dopo l’esercito partì con Carola in testa e accanto a lei Lestomanto. Dopo qualche giorno giunsero presso un canneto. La principessa allora esclamò: “Che belle canne, se le avessimo a corte avremmo sempre rocchi per filare. Perché non ci fermiamo a raccoglierle?”. “No, no, no, principessa. La vostra guerra finisce qui. Stiamo andando a combattere mica a cercar roccoli. Si torna a casa.” Si propose allora la seconda sorella, Amalia: “Padre, lasciate che sia io a condurre l’esercito in battaglia. Non ve ne pentirete”. “D’accordo, ma alle stesse condizioni di tua sorella”. E così anche Amalia si avviò verso la guerra con accanto il fido Lestomanto. Passarono vicino al canneto e lei stette zitta. Dopo qualche giorno giunsero presso un bosco di larici, belli e dritti come mai se n’era visti. “Che begli alberi”, esclamò la principessa con la testa in su. “Perché non ne tagliamo un po’. Avremmo dei pali perfetti per costruire case e villaggi”. Lestomanto scosse la testa. “Niente da fare principessa. Mica siamo taglialegna. Si torna a casa”. E così l’esercito per la seconda volta, con cavalli, cannoni e bombarde, fanti e cavalieri, fece dietro front e tornò in città.


Il

re, disperato, non sapeva più che fare. I messaggeri lo avevano avvisato che le truppe nemiche giorno dopo giorno si stavano avvicinando ai confini e di lì a poco sarebbero entrate nel regno. Fu allora la volta di Fantaghirò. “Padre”, disse la ragazza, “affidate a me il comando”. “Sei troppo piccola e poi, se non ci sono riuscite le tue sorelle figurati te”. Ma Fantaghirò insistette a tal punto che il padre la lasciò andare. La ragazza, a differenza delle sorelle, si mise l’armatura, cinse alla vita lo spadone e due pistole e partì di gran carriera seguita a ruota da Lestomanto. Passarono accanto al canneto, ma Fantaghirò non pronunciò parola. Attraversarono il bosco di larici, e Fantaghirò se ne restò zitta, zitta. Giunti presso il confine, la fanciulla disse a Lestomanto: “Voglio fare un’ambasciata a questo re che ci minaccia. Lo voglio vedere bene in faccia”. Tutta coperta dall’armatura, Fantaghirò si presentò al re che era un giovanotto di bell’aspetto. Questi, fin dall’inizio, ebbe il sospetto che quel cavaliere nascosto dall’armatura fosse una fanciulla ma fece finta di nulla. La sera ne parlò con il suo consigliere. “Questo cavaliere che oggi è venuto in ambascia, non par per nulla un uomo. Secondo me è una ragazza”. “Mettetelo alla prova”, suggerì allora il consigliere. “Portatelo nella sala d’armi e vediamo come si comporta”. Il giorno seguente il giovane re invitò Fantaghirò a visitare la sala d’armi ma il misterioso cavaliere si mostrò così esperto di spade, pistole e archibugi che lasciò di stucco il re e tutti i suoi cavalieri.

Non ancora convinto, il giovane sovrano chiese di nuovo

consiglio: “Che posso fare adesso… con le armi ci sa fare ma per me è una donna, non c’è dubbio”. Allora il consigliere disse: “Portatela in giardino. Se è donna coglierà una rosa o una violetta e se le porrà in seno. Se invece è un uomo prenderà un fiore di gelsomino o una margherita e le metterà all’orecchio”. Il re invitò allora Fantaghirò a visitare il rigoglioso parco

che circondava il suo palazzo. Chiacchierando del più e del meno passarono di fronte a un roseto ma Fantaghirò proseguì dritta. Poi raggiunsero un’aiuola di viole e Fantaghirò fece finta di nulla. Giunti accanto alla siepe di gelsomino la ragazza, sempre vestita da cavaliere, staccò un fiore e se lo pose dietro l’orecchio. Il giovane re non sapeva più che pesci pigliare e corse dal suo consigliere. “E ora che debbo fare per smascherarla?” “Io credo, o mio sire, che voi vi siate innamorato di Fantaghirò. Ora non vi resta altro da fare che invitarla a fare un bagno nel lago. Se rifiuterà di spogliarsi, non c’è dubbio, è una ragazza”. Il re invitò allora Fantaghirò a fare una nuotata nel lago sulle cui rive si specchiava la reggia. Il re si spogliò e si tuffò subito in acqua: “Che fate Fantaghirò, non desiderate rinfrescarvi. Su spogliatevi e facciamo una gara di nuoto”. “Perdonatemi sire, ma oggi non mi sento affatto bene. E poi mio padre mi ha appena richiamato a corte urgentemente: è assai malato e mi vuole al suo capezzale” e corse via. Raccolte le sue cose, Fantaghirò lasciò sul letto della sua stanza un biglietto: Una donna è passata, una donna se ne andò. Ma il re riconoscerla non può. Il giovane sovrano, trovato il biglietto, si sentì scoppiare di gioia e per prima cosa decise di ritirare le truppe e interrompere la guerra. Poi, presa la carrozza più veloce che possedeva, attraversò a rotta di collo il confine. Giunse infine al cospetto del re nemico, il padre di Fantaghirò. “Sire” disse con ancora il fiatone “vi chiedo perdono per avervi dichiarato guerra. A dire il vero sono io che ho perso: il mio cuore è stato conquistato da vostra figlia Fantaghirò che spero vorrete concedermi in sposa”. Comparve quindi Fantaghirò in tutta la sua bellezza. Il permesso alle nozze fu accordato e di lì a poco i due giovani si sposarono. E, a quanto si narra, vissero a lungo felice e contenti…

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Andar sul velluto Tendenze p. 48 – 49 | di Marisa Gorza

Andar sul velluto. Pelle vellutata. Pugno di ferro in guanto di velluto... Quanti sono i modi di dire legati al più teatrale e carezzevole dei tessuti? Tanti, come tanti ne sono i tipi e i loro diversi utilizzi

L

a varietà delle tinte, dei disegni miniati e ricamati sugli abiti di velluto, assai di moda nel Cinquecento, va ogni oltre immaginazione. È quella infatti l’epoca in cui maturò la distinzione tra le stoffe per le vesti e le trame per l’arredo. Le origini del velluto vanno cercate nell’opulento, antico Oriente, tra i misteri della Cina e dell’India. Quella palpabile morbidezza e lucentezza incantò i mercanti-viaggiatori veneziani e genovesi così, intorno al XIII secolo, lo importarono in Italia. Ben presto la sua manifattura si sviluppò a Venezia, Firenze, Milano, Genova per raggiungere più tardi l’operosa Lione in Francia e finalmente la Svizzera e le Fiandre. Diventerà il tessuto degli abiti dei nobili, dei fasti e della pompa magna, soprattutto nel Rinascimento e in epoca barocca. Ne sono testimonianza le opere d’arte, basti ricordare i ritratti di Tiziano Vecellio che immortalano sovrani, papi, principi... abbigliati di velluti, broccati, gioielli. Per non parlare delle opere raffiguranti belle dame dai cappelli rosso... tizianesco e dalle vesti sontuose.

Solo nell’Ottocento il completo da uomo e la lunga sottana della donna, sempre in velluto scuro, si muteranno nella tenuta della festa del contado e del popolo. Ma ritorniamo con ordine al nostro excursus storico rimasto al XIV secolo, periodo che attesta una feconda elaborazione dei disegni, delle trame, dei valori tattili e cromatici del velluto di seta. Intanto nelle Fiandre e nel nord della Francia anche la lana veniva utilizzata per tesserne un tipo robusto e resistente, simile al genere d’arredo attuale. Il velluto è un tessuto che presenta, dal lato dritto, un fitto pelo rasato (tipo liscio), o una serie di minuscoli anelli (tipo riccio). Il nome deriva dal latino vellus, che indica efficacemente la peculiare natura villosa. Le caratteristiche dei vari velluti si colgono con gli occhi, ma soprattutto con le mani per appezzarne la sensuale cedevolezza, o la pur morbida ruvidezza dei velluti a coste, adottati dallo sportswear moderno.


Settimane

Giubileo approfittate della convenienza eccezionale di prezzo in queSt’anno

di Giubileo bico Prezioso, luminoso e glam Si continua ad “andar sul velluto” pure adottando il dress code, previsto per l’autunno in arrivo (arriva, arriva!). Dopo mesi di calura, le prime brezze sono una buona scusa per rimpannucciarsi con un tocco glam, magari con il tubino in velluto stampato pied de poule bianco e nero e dalle manichine in soffice pelliccia, proposto da Rocco Barocco. Può comporre un inedito twin set con il cappottino anni Sessanta, in pendant per trame e motivi. Tagliato a vestaglia in un luminoso velluto di seta dai bagliori blu notte, l’avvolgente mantello firmato Nina Ricci, è chiuso dalla cintura con nappe pompose. Dal firmamento notturno ai toni cerulei dell’alba invernale sfumati da Missoni in sezioni vellutate e altre di maglia per comporre abiti fluttuanti e vaporosi. Si accostano a giacche reversibili, sempre nella carezzevole trama, probabilmente rubate al principe azzurro. Maschile, molto femminile, con qualche richiamo alle eleganze androgine degli anni Settanta, ritorna il tailleur giacca e pantaloni slim. Massimo Rebecchi lo suggerisce in un suadente prototipo color ottanio, performante come uno smoking, si indossa però di giorno con camicia di raso arancio e stivaletti di cuoio. Si vestono di velluto profondo nero gli occhiali (Emporio Armani) per gli ammalianti sguardi di una fatale dark lady e perfino le scarpine (Giuseppe Zanotti) con tacco a stiletto e oblò in punta in un rosso piccante. Ampio spazio ai velluti creati con gli antichi telai e intessuti con fili di seta per la riedizione della borsetta Bagonghi di Roberta di Camerino. Un’icona di stile, prevista per questa stagione in un doux velour color rubino dall’effetto tartaruga che movimenta la tinta unita. E per lui? C’è il completo sartoriale in un vissuto velluto, reinventato nelle proporzioni da Dolce&Gabbana. Un po’ da principe di Salina, un po’ da eccentrico, romantico neo dandy… proprio per quella giacca cortina e il cavallo abbassato! Immancabile la coppola in testa... di velluto, naturalmente.

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Astri toro

gemelli

cancro

Con Saturno “contro” non sono ammessi i “grigi”. Possibili separazioni. Inaspettate opportunità professionali per i nati nella prima decade tra il 20 e il 21 ottobre. Fortunati e creativi i nati in marzo.

Attenti a quello che dite, soprattutto per quanto riguarda le questioni concernenti le rispettive famiglie di origine. Controllate di più la vostra gelosia e così la smania di sicurezza e/o possesso.

Tra il 16 e il 17 ottobre la Luna transiterà nel segno dei Gemelli. Il passaggio tenderà ad amplificare il vostro stato emotivo. Svolte improvvise dettate da scelte creative per i nati della prima decade.

Ottimo andamento delle relazioni sociali. Grazie a Mercurio e a Venere di transito, incontri e flirts con persone più giovani o con forte dominante mercuriale (Gemelli o Scorpione). Riscoperta di un’amicizia.

leone

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bilancia

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Mercurio e Venere in quadratura nel periodo compreso tra il 16 e il 22 ottobre. Problemi di comunicazione e di gestione delle cose comuni in famiglia. Controllate la vostra irascibilità. Affari in positivo.

Vita sentimentale arricchita e favorita da continue situazioni mondane. Grazie a Mercurio e a Venere favorevoli potrete fare numerosi incontri con persone degne del vostro interesse. Momento di crescita.

Grazie al transito di Marte riuscite ad affrontare qualunque situazione grazie a una ritrovata energia. Lucidità e determinazione. Cercate di canalizzare i vostri interessi verso degli obiettivi precisi.

Tempesta, fuoco e passione: grazie a Mercurio e a Venere buone occasioni nella vita sociale. Transito di Marte in Leone: con quest’ultimo passaggio tendono a esaltarsi egocentrismo, gelosie e possesso.

sagittario

capricorno

acquario

pesci

Grazie a Marte avrete l’opportunità di svolgere un lavoro intellettuale e creativo in cui cercherete la condivisione delle vostre esperienze con altre persone. Intense le giornate tra il 21 e il 22 ottobre.

Periodo professionalmente fortunato grazie ai buoni aspetti indotti da Giove e Plutone. Fuori fase le giornate comprese tra il 18 e il 19 ottobre a causa dell’opposizione lunare. Stati emotivi amplificati.

Realizzazione di un progetto grazie ai buoni valori tra Sole e Saturno. Aggressivi negli ambienti professionali. Forme di competizione con il partner provocate dal passaggio di Marte nella settima casa solare.

Dal 16 ottobre i transiti di Mercurio e Venere interesseranno soprattutto i nati tra la prima e la seconda decade. Incontri con persone straniere durante manifestazioni pubbliche, vernissage o viaggi all’estero.

» a cura di Elisabetta

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 43

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 20 ottobre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 18 ott. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

Orizzontali 1. Dare la propria parola • 10. Trasparenti come il vetro (f) • 11. Partita a tennis • 12. L’attraversa il Nilo • 13. Tosti senza pari • 14. Preposizione semplice - 15. Mezza riga • 16. Squadra inglese • 17. C’è chi la segue • 19. La memoria del PC • 20. Piccolo difetto • 21. Assicurazione Invalidità • 22. La via di Molnar • 24. Una delle Kessler • 26. Essi • 27. Extraterrestre • 29. Nel centro di Praga • 30. Il box dell’aereo • 31. Arti pennuti • 32. Frasca • 33. Norvegia e Malta • 35. Filamento del fungo • 36. Dittongo in reità • 37. Un combustibile • 38. Un colore • 41. Mezzo kiwi • 42. Poco fitto • 43. Anno Domini • 44. La nota Papas • 46. Nostro in breve • 48. La bevanda che si filtra • 49. Città vodese (Y=I) • 51. Giro turistico • 52. Ha una mente eccelsa. Verticali 1. Film del 1975 di Steno con Bud Spencer • 2. Ila • 3. Lubrificano • 4. Spara a raffica • 5. Istituzioni • 6. Il nome di Teocoli • 7. Improvvisata • 8. Restituita • 9. La scienza che studia l’origine delle parole • 16. I confini di Tegna • 18. Caratterizzano i terreni carsici • 19. Marina nel cuore • 21. Bagnare le piante • 23. La scienza dei blasoni • 25. Elettroencefalogramma • 28. Più che brutte • 34. In nessun tempo • 39. Appartengono al gentil sesso • 40. Dio nordico • 42. La nota Pavone • 45. Uno a Zurigo • 47. La nota degli sposi • 50. Dittongo in Coira.

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La parola chiave è:

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La soluzione corretta del concorso apparso il 30 settembre è:

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Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Iris Chiarini casa Ofima 6676 Bignasco Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

Premio in palio: abbonamento “metà-prezzo” con carta VISA offerto da FFS Un buono per l’acquisto di 1 abbonamento “metà-prezzo” con carta VISA del valore di 135.– CHF. Ulteriori informazioni su: www.ffs.ch/ meta-prezzo.

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