Ticino7

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№ 44

del 4 novembre 2011

con Teleradio 6–12 novembre

Autonomismo

Il cAso GIurAssIAno


SPINAS CIVIL VOICES

DOVE C’È ACQUA, I BAMBINI CRESCONO BENE. Nei paesi del Sud del mondo, un bambino su quattro è denutrito. L’acqua può fare molto, perché dove c’è acqua, la terra è generosa, la fame sparisce e i bambini crescono bene. Il vostro contributo è come l’acqua che irriga i campi.

Donate 10 franchi con un SMS: Acqua 10 al 488.


Ticinosette n° 44 4 novembre 2011

Agorà Politica e autonomismo. La doppia anima del Giura Società Marco Paolini. Il Galileo del dubbio Letture Una trappola di parole

Impressum

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Media Politica e comunicazione. Crisi e colori Visioni La fiera della cattiveria

Chiusura redazionale

Vitae Fantasios

70’634 copie

Venerdì 28 ottobre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Direttore editoriale Peter Keller

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

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Marco alloni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

di di

oreSte boSSini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

antonio bertoSSi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

roberto roveda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

deMiS Quadri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reportage Sui sentieri di ghiaccio

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Fiaba I doni di Flora

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Silvano de Pietro . . . . . . . . .

roberto roveda. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Arti Musica e letteratura. Trivium e quadrivium

Tiratura controllata

di

fabio Martini

Manlio del curto; foto di roberto buzzini . . . . . .

Tendenze Il trench: 100 anni indossati bene!

di

MariSa Gorza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Ricurice la scissione Illustrazione di Antonio Bertossi

“Al peggio non c’è limite…” L’espressione comune ed efficacemente posta in risalto da Don DeLillo in un suo romanzo “politico” di qualche anno fa (Libra, Einaudi 2002), esprime al meglio la natura dei nostri tempi . E la rissa avvenuta mercoledì 26 ottobre all’interno del parlamento italiano fra esponenti della Lega Nord e di Futuro e Libertà (entrambe formazioni di centro destra) sotto gli occhi attoniti di scolaresche condotte dai loro insegnanti a visitare il “tempio della democrazia”, ne è l’ennesima, scoraggiante riprova . Un’espressione che ben rappresenta inoltre il progressivo imbarbarimento dei rapporti politici che da un paio di decenni contraddistingue numerose istituzioni europee (politiche e parlamentari), canton Ticino incluso . Il tema viene toccato in questo numero di Ticinosette sia dall’ex senatore Dick Marty intervistato da Silvano De Pietro sul tema dell’Assemblea intergiurassiana sia da Antonio Bertossi (“Media”, p . 12), che suggerisce una lettura semantica dei messaggi politici adottati dalla destra nazionale . Intanto, anche a urne chiuse e a risultati diffusi, le sirene del populismo (e non solo a destra) continuano a cantare a viva voce nel nostro cantone . In fondo, si dice, al di là di tutto questi leader un merito ce l’hanno: mettono al centro del loro agire politico i problemi concreti e sentiti dalla gente; in fondo, “che c’è di male” a stare un po’ sopra le righe quando si ha la capacità di farsi portavoce del più sincero sentire popolare “parlando finalmente come si mangia” . Perché la politica dei professionisti, quella condotta sul piano della “normalità” del confronto oggi non soddisfa più: per attirare elettorato, serve l’eccezionalità, si deve urlare, offendere e dileggiare gli avversari; si devono instillare dubbi sulla correttezza delle votazioni e degli spogli elettorali, e dunque delle istituzioni e dei

suoi organi di informazione (vedi l’affaire del “pareggio” in casa Ppd e il polverone alzatosi dentro e fuori il partito); si sollevano problemi reali – e quello dell’occupazione e della criminalità senza dubbio lo sono – aggirando a bella posta la complessità che essi sottendono e da cui sono contrassegnati . No, non ci crediamo . Resta il fatto che questo non è un mondo semplice, come le sirene di un certo modo di fare politica tentano di far credere . Anzi, va complicandosi sempre più . E non esistono soluzioni facili a problemi complessi . Esistono soluzioni, quelle sì . Allora perché continuare a insistere sulle ragioni di “questa” politica quand’essa si fonda in realtà sull’inganno o il mezzo inganno, e la mistificazione della realtà? Perché il populismo è un vizio intrinseco alla politica, lo è sempre stato; una scorciatoia al consenso che ammalia, soprattutto nelle fasi storiche più delicate, in quanto facilmente disponibile sia a destra sia a sinistra . E a questo proposito certo non deve far rallegrare nessuno la risposta al “Mattino” e a “10 minuti” a cui un gruppo anonimo (e su questo ci sarebbe parecchio da discutere) ha dato vita, riproducendo di fatto le due testate più volte, utilizzando gli stessi noti metodi denigratori nei confronti di chi ha fatto di quei periodici uno strumento di consenso e strategia politica . Ci sarebbe da chiedersi se a questo punto non siano le idee quelle che continuano sempre a latitare . Il Ticino è un cantone litigioso: una realtà che chi opera sul territorio conosce bene . Ma anche i recenti avvenimenti legati alle elezioni mostrano una preoccupante tendenza . E non si venga a dire che “questa è la democrazia” e che “il popolo ha sempre ragione” . Le banalità giornalistiche in questi casi non aiutano . Davvero, al peggio non c’è proprio limite… Buona lettura, la Redazione


La doppia anima del Giura

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testo di Silvano De Pietro illustrazione di Antonio Bertossi

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Agorà

Con alle spalle decenni di rivendicazioni e tensioni, dal 1994 i cantoni di Berna e del Giura si sono dotati di una commissione. Uno strumento di dialogo creato a seguito della tragica morte di un giovane autonomista, ucciso dalla sua stessa bomba. Noto come Assemblea intergiurassiana, questo organismo, composto da membri di entrambi i cantoni, è da qualche mese presieduto dall’ex senatore Dick Marty. Con lui abbiamo parlato di federalismo, autonomismo e rivendicazioni di stampo populista, con uno sguardo anche al nostro cantone

conflitti politici non sorgono soltanto a causa di divergenti punti di vista, ma mettono radici anche là dove dominano le emozioni e i pregiudizi. Per questo anche il semplice confronto di interessi diversi diventa difficile, al punto da far irrigidire le posizioni invece di ammorbidirle. Da qui l’importanza di promuovere il dialogo e lo sviluppo della collaborazione a tutti i livelli. È una riflessione, questa, che si adatta bene alle inquietudini che serpeggiano nella società elvetica: dalle storiche tensioni delle comunità giurassiane divise tra autonomismo e appartenenza, ai localismi esasperati che vengono strumentalizzati dai movimenti populisti legati alle destre. Ma non mancano i tentativi che vanno in senso opposto, cioè nella direzione di un superamento di queste tensioni nel segno dell’apertura e del dialogo.


L’autonomismo e l’Assemblea integiurassiana Nel dicembre dello scorso anno, il Consiglio federale ha nominato l’ex senatore ticinese Dick Marty presidente dell’Assemblea intergiurassiana. È il primo non-romando chiamato a svolgere questo incarico delicato. L’Assemblea intergiurassiana è stata infatti creata per promuovere il dialogo sul futuro della comunità giurassiana e per formulare proposte che rafforzino la collaborazione tra il Giura bernese e il cantone del Giura. Un ruolo speciale, dunque, quello dell’ex procuratore pubblico, ex consigliere di stato e, per sedici anni, rappresentante del canton Ticino a Berna. Un ruolo di “conciliatore” che conferisce a Dick Marty – recentemente insignito di una laurea honoris causa dall’Università di Ginevra per il suo impegno civile e a difesa del diritto – autorevolezza e rispetto, ma anche la possibilità di conoscere dall’interno e di approfondire le ragioni del perdurare di un dissidio storico. E chi meglio di lui saprebbe tracciare un parallelismo tra l’autonomismo storico giurassiano, che comunque cerca il dialogo, e lo pseudoautonomismo dei partiti populisti che alimentano un localismo chiuso e arrabbiato, ostile a tutto e a tutti? “Questa Assemblea intergiurassiana”, premette Marty, “è stata istituita dopo che un giovane, nel tentativo di piazzare una bomba, era morto saltando con il suo ordigno. Si è capito allora che bisognava creare uno strumento di dialogo”. Composta da dodici membri provenienti dal canton Giura e dodici dal Giura bernese, l’assemblea è stata istituita nel 1994, sulla base di un accordo fra tre partner: il Consiglio federale e i cantoni di Berna e del Giura.

Uno è quello di creare un nuovo cantone con sei distretti del Giura bernese, con capitale Moutier. È stato prodotto anche uno studio di fattibilità, sui vantaggi economici, ecc. L’altro modello è lo «status quo»-plus, nel senso che il Giura bernese rimane a Berna, ma godrebbe di una sorta di statuto speciale, e i contatti tra Giura bernese e Giura verrebbero intensificati. Si tratterà – almeno questa è sempre stata la mia posizione – di dare la parola al popolo. Però occorre anche stabilire come votare, su che cosa, con quale successione, e questo è molto complesso e delicato. I governi di Berna e del Giura hanno deciso di intraprendere dei contatti diretti e mi hanno coinvolto in questi contatti, sui quali non si può assolutamente dichiarare nulla fino alla conclusione dei lavori. Posso solo dire che si tratta di un lavoro estremamente interessante”.

“I governi di Berna e del Giura hanno deciso di intraprendere dei contatti diretti e mi hanno coinvolto in questi contatti, sui quali non si può assolutamente dichiarare nulla fino alla conclusione dei lavori”

La scelta di Dick Marty Quale presidente è stato convenuto che fosse una persona designata dal Consiglio federale ed esterna alla realtà giurassiana, in quanto la neutralità di tale funzione continua a essere ritenuta decisiva per la riuscita dell’attività dell’Assemblea. Finora hanno ricoperto questo incarico l’ex consigliere federale René Felber e gli ex consiglieri di Stato Jean-François Leuba, vodese, e Serge Sierro, vallesano. Sempre, però, un romando. Come mai, adesso, non più? “Il fatto che sia stato scelto io”, è la spiegazione di Marty, “credo sia stato un apprezzamento per la mia indipendenza e per la mia oggettività”. Senatore Marty, quali problemi specifici deve affrontare in questo suo nuovo compito? “Adesso siamo arrivati a un momento assolutamente cruciale, perché l’Assemblea intergiurassiana ha sviluppato due modelli.

L’essere ticinese costituisce per lei in questo ruolo un vantaggio, un atout, o le crea qualche problema? “No. Credo che sia un vantaggio essere fuori da questa situazione, anche se conosco bene il Giura e fortunatamente ho potuto fugare ogni dubbio dicendo loro: «Guardate, io conosco bene il vostro cantone, ci sono venuto in vacanza». E guarda caso, sono stato in vacanza nei tre Giura, quello bernese, quello giurassiano e quello neocastellano. Dunque è una regione che conosco, che mi piace molto, ammiro anche la sua gente: ho conosciuto tanti giurassiani all’università, indipendentemente dai confini cantonali. E dunque mi trovo a mio agio in questo ruolo, a parte le esternazioni di un deputato dell’Udc…”.

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In effetti, alla prima seduta dell’Assemblea da lei presieduta nel marzo scorso, è stato duramente attaccato dal presidente dell’Udc del Giura bernese, Claude Röthlisberger, che le ha detto di non essere il benvenuto. È stato un “fuoco di paglia” dimostrativo oppure questo sbarramento politico persiste e le ostacola il compito di mediatore? “È stato interessante, perché all’Assemblea un altro deputato dell’Udc si è scusato per queste esternazioni. Dunque è qualcosa di estremamente limitato. Credo che il ruolo del presidente sia rispettato e che non ci siano sospetti di parte. Ed è molto interessante anche il fatto che sia venuta dai due governi cantonali una duplice richiesta: sia quella di affidare a me la presidenza dell’Assemblea – hanno chiesto al Consiglio federale di designare la mia persona –, sia quella di partecipare a queste trattative, adesso strettamente politiche, tra i due governi. Dunque una richiesta fatta non da un solo cantone ma da entrambi, che hanno voluto che vi partecipassi anch’io personalmente”. (...)


I conflitti politici mettono radici anche là dove dominano le emozioni e i pregiudizi Agorà

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Quanto la impolitesse di Röthlisberger può essere paragonata alla rozzezza di linguaggio adottata in Ticino dalla Lega e dal suo presidente, Giuliano Bignasca? Ci può essere una motivazione che renda scusabile o accettabile l’una più che l’altra? “C’è una differenza. Quella di Röthlisberger è stata proprio l’espressione di una sola persona in una sola occasione. Mentre in Ticino il linguaggio della Lega è diventato da tempo, sin dall’inizio, uno strumento di lotta politica. Cioè l’insulto e la denigrazione – ovvero la costruzione di un nemico – sono lo strumento politico della Lega. In questo senso, ricorda molto quanto è successo negli anni Trenta in Germania, quando si usavano le modalità dell’insulto, della denigrazione del diverso, della costruzione di un nemico”. Con la sua lunga esperienza di politico e magistrato svizzero, come spiega questa persistenza nella nostra società di movimenti e stili politici che puntano sull’aggressività e rifiutano, o quantomeno osteggiano, il dialogo? “Questi fenomeni non ci sono solo in Svizzera, ma un po’ dappertutto in Europa. C’è stata anche qualche manifestazione positiva,

per esempio in Danimarca, dove il voto recentissimo ha comunque dimostrato che la maggioranza dei danesi è stanca di questo tipo di politica fatta di avversione sistematica verso gli stranieri, ecc. Io non posso fare a meno di essere inquieto, perché la situazione mi ricorda molto – non c’ero, ma se ci si documenta, se ci si dà la pena di leggere bene… – quanto successo nella Repubblica di Weimar, nella Germania di fine anni Venti e durante gli anni Trenta. Non dico che oggi succedano le stesse cose, ma sussistono molte inquietanti analogie, come l’incertezza del futuro, la crisi economica e finanziaria. C’erano e ci sono oggi gli stessi ingredienti: una sfiducia professata nei confronti delle istituzioni; personaggi assolutamente mediocri che ne approfittano per raggiungere posizioni in ambiti politici che non avrebbero mai raggiunto nei partiti classici. A questo proposito, è abbastanza interessante vedere come l’Udc, per esempio, faccia fatica in moltissimi cantoni ad avere candidati per il governo. E a Palazzo federale, nonostante una folta presenza di deputati Udc, ce ne sono pochissimi che emergono per le loro qualità e per l’ascolto di cui godono: fanno voto, fanno massa, è vero, però non ci sono più quelle individualità che c’erano ancora nella vecchia Udc di origine agraria”.


Il dialogo e la collaborazione sono ancora valori basilari nella società elvetica? Forse si stanno deteriorando in alcune regioni del paese... “L’Assemblea intergiurassiana è un esempio secondo me molto interessante di come abbiamo trovato, malgrado tutto, in Svizzera dei meccanismi di dialogo. Devo dirle che i dodici giurassiani del canton Giura e i dodici del Giura bernese non si guardano come cani e gatti. Sono state intrecciate delle vere amicizie, si va fuori a cena assieme e c’è un dialogo estremamente costruttivo. Per questi stessi problemi in altre parti del mondo ci si fa fuori a suon di kalashnikov. E dunque questo capitale di dialogo e di rispetto è estremamente prezioso, e il Giura è un buon esempio. Ma è un rispetto che purtroppo nella vita politica ticinese viene sempre più a mancare. Io sono esterrefatto nel vedere giornali – sappiamo quali – che usano un certo linguaggio. Ci sono grandi ditte che professano valori etici, ma alle quali non disturba far pubblicità su queste pubblicazioni che vengono pure distribuiti nelle scuole. Secondo me siamo di fronte a una perdita molto pericolosa di tensione etica. E il rispetto è assolutamente fondamentale per poter affrontare i problemi del paese”.

parole vuote, perché in realtà la sovranità oggi è in gran parte condivisa. Prendiamo per esempio la forza del franco svizzero: che cosa possiamo fare? Sì, possiamo stampare tanta moneta, come facciamo adesso. Però attenzione: questo avrà un costo e può portare a derive estremamente pericolose. Dobbiamo in fondo imparare a vivere con gli altri, a negoziare con gli altri, a cercare di avere un influsso sugli altri. Rifugiarsi in un angolo e strillare «siamo autonomi, vogliamo restare autonomi» non significa nulla. La ricchezza della Svizzera è una ricchezza dovuta all’apertura sul mondo: senza la nostra industria d’esportazione e senza la nostra piazza finanziaria saremmo ancora tutti sulle montagne a fare i pastori”.

“Questo capitale di dialogo e di rispetto è estremamente prezioso, e il Giura è un buon esempio. Ma è un rispetto che purtroppo nella vita politica ticinese vien sempre più a mancare”

Il rivendicazionismo localistico della Lega dei Ticinesi – paragonabile a quello della Lega Nord italiana – viene spesso spiegato come reazione alla globalizzazione. Si può dire altrettanto dell’autonomismo giurassiano, o la globalizzazione non gli ha causato alcun cambiamento di stile e di contenuti? “No. Quello del Giura è un problema della storia. È il problema linguistico di una minoranza francofona in un cantone dominato dagli svizzero-tedeschi. E c’è stata sicuramente anche una dimensione religiosa del conflitto: il nuovo cantone del Giura è essenzialmente cattolico, mentre il Giura bernese è piuttosto riformato. Dunque, la globalizzazione nel conflitto giurassiano non c’entra assolutamente nulla, perché quest’ultimo risale a ben prima che la stessa parola venisse inventata. Penso quindi che, rispetto alla Lega dei Ticinesi, i due modi di percepire il localismo siano molto diversi. E ritengo anche che la paura della globalizzazione sia il sintomo di una incapacità di affrontare i problemi con maggiore serietà e in un senso costruttivo”.

Che cosa vuol dire? “Vuol dire che la globalizzazione non possiamo abolirla. C’è. E bisogna quindi saperla affrontare con gli strumenti adeguati. La realtà è che oggi noi viviamo in un sistema estremamente interconnesso, per cui abbiamo visto che una vicenda finanziaria negli Stati Uniti su delle ipoteche concesse a persone che non erano in grado di pagare gli interessi, ha creato un pandemonio in tutto il mondo finanziario. E dunque, quando si dice «ah, ma noi vogliamo essere sovrani», sono

In definitiva, sarà capace la Svizzera istituzionale di superare le contraddizioni e le tensioni sorte in questa epoca? Con quali strumenti? “Antonio Gramsci diceva: «La storia insegna. Il problema è che non ci sono allievi». Io sono sempre del parere che bisognerebbe chinarsi molto di più sulla storia, e vedere che siamo passati in realtà attraverso grossissime difficoltà. Quelle che stiamo affrontando non sono sicuramente le più grandi. Dunque, le nostre istituzioni, se rispettate e se lasciate funzionare, sono in grado di affrontare questi problemi. E bisogna dire che in fondo le nostre istituzioni, con tutte le debolezze e con tutte le critiche che possiamo rivolger loro, hanno fatto del nostro paese uno dei più avanzati al mondo. Se guardiamo alla durata della vita, al numero di metri quadrati d’abitazione per abitante, al reddito pro capite, ecc., vediamo che abbiamo compiuto dei progressi assolutamente formidabili. Pertanto, quelli che stanno giocando contro le nostre istituzioni, si stanno secondo me assumendo una grossissima responsabilità”.

Che cosa non va, allora? “Quello che mi fa un po’ paura è che ci sono molte persone competenti e che potrebbero dare molto, che non vogliono più far politica. Perché oggi far politica vuol dire spesso e volentieri – e ne so qualcosa – essere oggetto ogni domenica di dileggio, di insulti, e se uno ha una famiglia e bambini che vanno a scuola devo dire che non è molto simpatico. Ho vissuto tutta questa esperienza e sono grato alla mia famiglia che è sempre stata molto compatta e vicina a me. Però credo di essere stato insultato dal primo numero del «Il Mattino», quando ancora i miei figli andavano a scuola… e si sa come i compagni tra loro sono involontariamente crudeli: c’era sempre qualcuno il lunedì mattina che faceva vedere gli insulti al papà. Sono stato abituato al confronto: già da procuratore pubblico ho sempre avuto qualcuno che sosteneva un’altra tesi. E questo, il confronto, deve far parte secondo me della cultura politica. Però bisogna farlo con rispetto e seguendo certe regole”.

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Il Galileo del dubbio L’ultimo spettacolo teatrale di Marco Paolini è un omaggio al padre della scienza moderna, realizzato con rigore storico e inventiva. Una raffinata indagine sull’uomo e sul senso della modernità testo di Marco Alloni; illustrazione di Micha Dalcol

Società

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C’è ancora chi l’Italia la salva riportandola alle vette della sua “antica fama” di terra del Rinascimento e della commedia dell’arte, di patria della cultura e del pensiero. Nel caso specifico Marco Paolini, con il suo Itis Galileo, presentato nelle scorse settimane al Teatro Sociale di Bellinzona, ci restituisce non solo una grandiosa ricognizione storica sull’autore del Saggiatore (1623), ma una riflessione sul significato del termine “modernità”; sono la perpetua sfida fra oscurantismo e modernità, fra conservatorismo e slancio verso il futuro, ad animare lo spettacolo del polimorfico Paolini. Una volta assistito alla pièce è impossibile non riflettere sulla stringente attualità che continua a rendere necessario – nelle forme della commedia come in quelle della speculazione – l’appello a seguire il coraggio della ragione e a guardare con sospetto ogni forma di apriorismo. In un fitto e coinvolgente monologo, Paolini narra il disfarsi lento e progressivo del geocentrismo di matrice tolemaica e il faticoso affermarsi dell’eliocentrismo. Lo fa senza dimenticare – come insegnano ormai tutti gli storici più avveduti – gli stati d’animo che nel passato accompagnavano la ricerca scientifica. Ricordandoci che la vicenda di Galileo non può e non deve in nessun modo essere letta con il senno di poi, ma solo tenendo ferma la barra alla mentalità di allora. Così si scopre che a quel tempo non solo la Chiesa, ma la quasi totalità della popolazione si trovava coinvolta in un’inconsapevole rivoluzione epocale e antropologica, di cui si sarebbero potuti apprezzare i frutti solo molti decenni dopo. Si scopre che Galileo era un germe nel tessuto monolitico della cultura post-medievale, e che se pochi altri prima e dopo di lui – Copernico, Brahe, Shakespeare – stavano indicando la strada per una definitiva emancipazione dal Medioevo, lui quella strada la vedeva dischiusa come un’oscura minaccia al primato delle Sacre Scritture. Un percorso sofferto e perennemente insidiato dal dubbio. Ma il cui maggior prodotto fu proprio la capacità di dubitare del sacro per aprire le porte alla dimostrabilità del profano. Un conflitto che non ha mai cessato di opporre secolaristi a letteralisti fino ai giorni nostri, e che una lettura in filigrana, metaforico-allegorica, dello spettacolo di Marco Paolini rivela in tutta la sua chiarezza essere ancora presente

nella nostra contemporaneità. Con una battuta non priva di allusività Paolini a un certo punto si domanda: “Di che cosa potrebbero mai discutere oggi Margherita Hack e Joseph Ratzinger?”. L’attualità di Galileo Appunto, di che cosa? Quale margine dialettico rimane al confronto fra tradizionalismo ecclesiastico e ricerca scientifica o, per dirla nella formula più risaputa, fra fede e ragione? Basta pensare alle staminali per accorgersi che ne rimane davvero, ancora oggi, ben poco. Quel che è certo è che il monologo di Paolini non lascia scampo alle improvvisazioni del dogmatismo, qualunque esso sia: il discorso scientifico ha fatto tabula rasa dell’assolutismo dogmatico e l’accusa di eresia, che ha mietuto le vittime di ieri, appare oggi poco più che una barbarie intellettuale imperdonabile. Ma più ancora che a sollecitare una difesa dell’ovvio e dello scientifico dagli oltraggi del fideismo à tout prix, Itis Galileo sembra proporsi come un monito alle modalità di insegnamento della nostra scuola, soprattutto di quelle medie e superiori (almeno finché anche l’università non verrà ridotta a spauracchio di quella che fu). Già, perché se qualcosa salta all’occhio ascoltando quel fantasmagorico spettacolo è che, in due ore e mezza di scena ininterrotta, lo spettatore ricava tante informazioni quante le discipline scolastiche non sono state in grado – almeno ai miei tempi, ma oggi è peggio – di fornire in un intero corso annuale. Galileo acquista carattere, potenza, fascino; la sua storia si accompagna e procede nella Storia con perfetta chiarezza; la posta in gioco della sua avventura scientifica e umana, e i rischi e le difficoltà che attraversò, si presentano così vividamente che ci sembra di conoscerlo da sempre. E il problema tecnico-matematico è esposto con tale cristallina precisione che, pur fra una risata e l’altra (anzi, grazie a una risata e all’altra), noi impariamo di Galileo e del suo tempo quanto la convenzionale didattica della scuola non è mai stata in grado di insegnarci. Sia dunque Itis Galileo anche un invito a calibrare diversamente la programmazione istituzionale delle nostre scuole. Invece dei corsi di aggiornamento farebbe bene, ogni tanto, un rapido passaggio a teatro.


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Una trappola di parole

» di Roberto Roveda

Una mail inviata all’indirizzo di posta sbagliato per disdire forse temendo che anche solo gli anelli formati dalle acque l’abbonamento a una rivista. Comincia così questo romanzo di possano sconvolgere il loro equilibrio. Daniel Glattauer, Le ho mai raccontato del vento del Nord, ma Con questi ingredienti Glattauer, uno dei più famosi scrittori soprattutto è così che inizia il moderno rapporaustriaci contemporanei, costruisce un romanzo to epistolare tra Emma e Leo, i due protagonisti in cui l’azione lascia il posto alla riflessione e al della storia. Lui è un ricercatore di psicolinguiracconto in flashback, ma senza che questi elestica, molto cerebrale (e un po’ saccente nel suo menti vadano a discapito del ritmo della narraessere intellettuale); lei una giovane donna zione. Ci riesce alternando con sapienza mail emotiva e vitale, sposata a un uomo più vecchio lunghe, fatte di confessioni, racconti, puntualizdi lei. Tra di loro gli invii di circostanza lasciano zazioni, con altre brevi e brevissime, in cui lo ben presto il posto alle battute, agli scambi più scambio è fatto di frasi brevi lanciate a distanza personali, in una reciproca voglia di un rappordi pochi secondi, oppure è cadenzato da generito che faccia uscire dalla routine quotidiana. ci e apparentemente disinteressati “come è anNasce così un legame esclusivo, giocato solo sul data oggi?”. Ogni mail poi riporta quanto tempo filo della connessione internet, un legame da cui è passato dalla precedente, giorni, ore, minuti, entrambi non riescono e insieme non possono a volte solo secondi, così da sottolineare ancora più uscire. Gli invii diventano centinaia, alle ore di più gli stati d’animo dei protagonisti. più strane del giorno e della notte; cresce una Questo di Glattauer è un libro sapiente, insomLe ho mai raccontato del vento del Nord strana confidenza virtuale in cui si mescolano ma, raffinato, condotto con mano sicura da un di Daniel Glattauer desideri e curiosità con la paura che la magia, narratore che dimostra di conoscere lo strumenFeltrinelli, 2010 l’incanto svanisca nel momento in cui ci si coto – la mail – usato per intessere il racconto. nosce meglio, “realmente”. Perennemente in bilico sui loro Così semplice, così immediata, così capace di mantenere, apsentimenti Leo ed Emma non abbandonano mai il “lei” della parentemente, le distanze, così “sicura” da apparire quasi prima mail, scelgono mille occasioni di incontro per poi torna- asettica, secca e risoluta come il picchiettare dei polpastrelli re sui loro passi, giocano reciprocamente “al gatto col topo”. sulla tastiera che la produce. Ma anche capace di irretire e Nascondono la mano appena lanciato il sasso nello stagno, catturare nel suo gioco comunicativo pressoché infinito.

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Trivium e quadrivium Il rapporto tra musica e letteratura ha suscitato fin dagli albori della cultura occidentale molteplici riflessioni. La parola (λογοσ) condivide con il canto (µελοσ) la natura di suono, ma i due regni si separano subito non appena entrano nell’arena della comunicazione di Oreste Bossini

Arti

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Quella che il poeta francese Yves Bonnefoy ha definito in un suo libro l’alliance de la poésie et de la musique sembra in realtà un’incessante catena di conflitti e di armistizi, senza che nessuna delle due arti riesca a prendere il sopravvento. Nella natura della poesia e della musica si manifesta un intreccio inestricabile di fenomeni, che rimandano a forme di linguaggio perdute nel brodo primordiale dell’espressione umana. Secondo Aristotele, il primo pensatore occidentale a compiere un’analisi approfondita dei fenomeni artistici, la poesia si serve anche di mezzi che sono propri della musica, come il ritmo e la melodia. A sua volta la musica comprendeva fin dagli inizi anche forme d’espressione linguistica. Il termine greco µουσικη indicava infatti l’insieme delle attività umane governate dalle Muse. La musa della poesia amorosa Erato è raffigurata mentre imbraccia la lira e la musa della poesia lirica Euterpe ha come emblema un flauto. Malgrado le origini promiscue, il linguaggio generato dalla parola e quello generato dal canto si sono a un certo punto sviluppati in due tronchi separati. Le frammentarie conoscenze rimaste portano a ritenere che attorno al V secolo a.C. tale divisione fosse ormai compiuta in maniera definitiva. La figura di Pitagora di Samo, al quale sembra che si debba il concetto stesso di filosofia, è avvolta nel mistero e non è chiaro cosa appartenga realmente al suo pensiero, nell’insieme delle dottrine tramandate da autori posteriori. Tuttavia, il postulato della scuola pitagorica che la musica sia una forma d’espressione generata dal concetto di numero traccia un confine strutturale all’interno della cultura dell’occidente. Da questa intuizione si è sviluppata nel corso dei secoli una prospettiva della musica legata a una visione religiosa del mondo, che ha resistito in pratica fino alle soglie della rivoluzione industriale del primo Ottocento e del Romanticismo. Arte dei numeri Per molti secoli il sapere della cultura occidentale si è basato su un sistema di conoscenze formulato da un oscuro scrittore nord-africano del V secolo d.C., Martianus Capella. Il nome di Capella infatti è legato a un libro rimasto autorevole per tutto il Medioevo, De nuptiis Philologiae et Mercurii. Per mezzo di una complessa allegoria poetica di ispirazione neoplatonica – la cerimonia di nozze tra Filologia e Mercurio/ Ermete, il dio più esoterico e misterioso del mondo politeista –, Capella disegna un’architettura delle conoscenze umane retta da un canone di discipline di carattere speculativo. Si

delineava così quella divisione tra artes liberales, ossia l’insegnamento riservato agli uomini liberi, e le attività di carattere manuale, praticate dai ceti inferiori, che modellerà nei secoli successivi il potente sistema culturale dell’età carolingia. È significativo che Capella includa anche la Medicina e l’Architettura tra le ancelle del corteo nuziale, ma le lasci in silenzio, a differenza delle altre, forse perché troppo compromesse con la pratica manuale. L’ultima delle sette discipline descritte da Capella, in chiusura del lavoro, è la Musica, che accompagna gli sposi celesti alla consumazione della loro

notte d’amore. Le sette arti liberali del Medioevo, fonte della formazione intellettuale di ogni individuo colto dai tempi di Alcuino di York in poi, fino alla corte di Francesco I, sono già tutte schierate nel poetico µουσειον di Capella. La definitiva sistemazione medioevale del sapere introdusse un’ulteriore divisione, che separava in maniera definitiva le sfere della letteratura e della musica. Nella pratica scolastica, infatti, le arti della parola formavano un gruppo a sé stante, separato da quello delle arti dei numeri. Grammatica, Dialettica e Retorica costituivano il cosiddetto Trivium, mentre Geometria, Aritmetica, Astronomia/Astrologia (allora non distinte) e Musica rappresentavano le scienze del Quadrivium. Ecco allora che nella cultura del tempo di Dante la musica apparteneva al mondo dei numeri, mentre la poesia a quello


della parola. Il Quadrivium infatti si occupa del rapporto tra il numero e le varie dimensioni dell’esperienza umana. L’Aritmetica studia il numero in sé, la Geometria colloca il numero nello spazio, la Musica articola il numero nel tempo, l’Astronomia/Astrologia infine osserva il numero in relazione al tempo e allo spazio. Il legame della musica con il numero e i suoi derivati, come la proporzione, risale all’insegnamento di Pitagora e, a ritroso, a culture mesopotamiche e orientali molto più antiche, che non hanno cessato di esercitare un fascino anche nel mondo contemporaneo. Soli Deo Gloria Non vi era dunque contrasto fra Trivium e Quadrivium, ma formavano un insieme di conoscenze complementari. L’educazione dell’individuo attraverso le arti liberali trascendeva infatti i singoli aspetti di ciascuna materia per raggiungere il vero fine di ogni conoscenza, la Teologia. La parola università deriva dal latino uni – vertere, dirigersi verso un unica meta, ed esprimeva appunto la tensione di ogni sapere umano alla conoscenza di Dio, che nelle scritture era definito allo stesso tempo λογοσ e Unus. Nella stessa natura del nome sacro si manifestava quell’impasto di parola e numero che il pensiero antico percepiva nell’eco dell’espressione umana più primitiva.

Gloria. Questa fiduciosa certezza di appartenere a un universo munito di senso è durata almeno fino all’epoca di Haydn, che ha rispecchiato con infinita intelligenza le convinzioni di un mondo ormai al tramonto nel suo tardo e insuperato capolavoro, l’oratorio Die Schöpfung (1798). Con l’avvento della rivoluzione industriale e del Romanticismo il mondo ha cessato di apparire come un luogo comprensibile agli occhi dell’uomo e si è trasformato in un ammasso caotico di fenomeni governati da leggi del tutto indifferenti alla vita terrena. Giacomo Leopardi ha espresso nei suoi lavori la sconfortante scoperta della nuova visione del mondo prodotta dalla rivoluzione culturale dell’ultimo scorcio del Settecento. Un passo del Dialogo della Natura e di un Islandese tratto dalle Operette morali (1824) recita: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità”. Natura ondivaga Sullo sfondo delle nuove conoscenze tecniche e della crescente instabilità emotiva, la divaricazione dei due tronchi del sapere umano, quello della parola e quello del numero, è cresciuta fino al punto di generare due culture estranee e quasi Francesco Pesellino (1422–1457), Le arti liberali, Birmingham Museum of Art, Birmingham, Alabama (imm. tratta da www.tufts. edu.com)

Nella mente dell’uomo pre-moderno l’universo era un luogo perfettamente ordinato secondo la volontà di Dio. Ogni essere vivente sotto il sole, dall’imperatore alla più insignificante creatura, occupava un posto preordinato, che gli spettava per volere divino nel concerto della Natura. L’espressione più emblematica della visione cristiana e medievale del mondo consiste nella cosiddetta armonia delle sfere, che rappresenta la forma sonora della perfetta unità di senso del cosmo e della Natura. L’alleanza tra la poesia e la musica cresceva in maniera quasi spontanea in un terreno di natura teologica. Entrambe infatti tendevano a celebrare la gloria di Dio e a partecipare al significato più profondo del mondo, come ci ricorda la celebre formula della teologia protestante tanto spesso usata da Bach e da Haendel come sigla dei loro manoscritti, Soli Deo

contrapposte, per riprendere il titolo di una celebre lecture a Cambridge dello scienziato e scrittore C.P. Snow. La musica si è trovata in mezzo al conflitto crescente tra il pensiero umanistico e quello scientifico, occupando una posizione ambigua e ondeggiante. Le origini pitagoriche la spingono nel campo delle forme precise e razionali del metodo scientifico, ma l’abitudine immemorabile a unirsi con la parola la tiene legata però al mondo espressivo della poesia lirica e drammatica. La musica non è mai stata tanto influenzata dalla poesia come nell’epoca romantica, tuttavia i musicisti romantici non sono quasi mai riusciti a lavorare con i poeti e gli scrittori della loro epoca. Ecco un paradosso che mette bene in luce le complesse dinamiche del rapporto tra le arti nella cultura moderna.

Arti

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Crisi e colori I messaggi politici non lasciano nulla al caso e più semplici essi ci appaiono maggiore è la loro capacità di comunicare. A elezioni nazionali concluse, una riflessione sulla campagna mono-cromatica dell’Udc testo e illustrazione di Antonio Bertossi

Media

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“Crisi”, parola esasperata dai media. L’informazione delle testate giornalistiche, cartacea e non, punta tutti i riflettori sui deficit bancari, sul debito pubblico, sulle frodi e sui comportamenti “poco coerenti e irresponsabili”, degli uomini del mercato. Il mondo descrittoci dai media dell’informazione ci appare come un sistema ormai vinto dall’incertezza, in perenne bilico, pronto a cedere da un momento all’altro, trascinato da governi che crollano a loro volta o che, se non crollano, stanno in piedi quasi per miracolo. A vivere, però, in questo mondo mediaticamente impantanato è l’uomo, l’individuo formante, alla base della collettività. Ma come percepisce la crisi l’uomo e quali meccanismi si attivano in lui? Risposta difficile. L’individuo probabilmente elabora il concetto di crisi come un momento di insicurezza, di instabilità, di frustrazione, generata il più delle volte dalla mancanza di risorse finanziarie. Ma, al di fuori di sé, l’uomo è parte integrante della società e così il suo pensiero, in costante scambio con l’esterno, contribuisce in primis all’accrescimento personale, ma al contempo allo sviluppo del pensiero collettivo. I media, per quanto si sforzino ragionevolmente di evitare di considerare l’informazione come un prodotto da dare in pasto alla massa, contribuiscono in modo sostanziale alla vita del pensiero collettivo: “L’ha detto la Tv e l’ho letto anche sul giornale” sono affermazioni ancora molto diffuse. L’azione del pensiero collettivo è decisiva al punto che le nostre scelte il più delle volte non sono totalmente frutto del pensiero razionale che ci distingue, ma potrebbero essere definite come una sorta di accondiscendenza alla collettività. Molto probabilmente l’influenza che il sensazionalismo mediatico ha creato attorno al concetto di crisi agisce sui singoli in maniera molto più attiva di quanto si possa pensare. L’uomo, che in fondo rimane un animale, benché distinto dalle meravigliose prodezze del pensiero, non può far altro che reagire a questa pesante incertezza, e chiudersi nel gruppo. Sigmund Freud e la politica Freud approfondì nel suo saggio Psicologia di massa e analisi dell’io (Bollati Boringhieri, 2010) molti aspetti del comportamento collettivo. Sinteticamente, egli sosteneva che il singolo nella collettività si abbandona a questa, preferendo aderire alle

opinioni della massa, anche a scapito della propria, piuttosto che intervenire razionalmente, e questi comportamenti si esasperano quando nella collettività la paura, l’incertezza, diventano il denominatore comune. Una sorta di colla che paralizza il pensiero del singolo. Non suona peraltro strano riferirsi alla politica come a una “guida razionale” che, in un momento di incertezza come quello attuale, in grado di rassicurare la popolazione, vanificando per quanto possibile quell’azione “paralizzante”, ridimensionando dunque le paure della collettività. Il fenomeno che viviamo, appunto, collettivamente, è però differente. Sempre massicciamente finanziate, le campagne dell’Udc vestono da anni le strade della Confederazione intera con una sintesi visiva della discutibile ideologia politica che essa propone. Con l’assoluta predominanza di un contrasto cromatico vincente (bianco-rosso vs. nero) e un linguaggio molto semplice, l’influenza che i messaggi esercitano sulla collettività è indubbia. Per Freud, la collettività “pensa per immagini” e “giunge subito agli estremi”. “Chiunque voglia agire su di essa non ha bisogno di dare ai propri argomenti un carattere logico: deve presentare immagini dai colori più stridenti, esagerare, ripetere incessantemente la stessa cosa”. La costante è chiara. “Bianco e rosso” a indicare la purezza quasi passionale della Svizzera, continuamente minacciata dal “nero”, inteso come “l’estraneo”, ciò che viene da fuori, che non fa parte della collettività elvetica. A sfruttare per primo questo linguaggio fu il partito nazionalsocialista tedesco, guidato da chi aveva capito come manovrare quella che allora era definita “massa”. Ora, sarebbe assai superficiale proseguire su questa strada, e lo scopo di questo scritto non è tentare di smantellare l’ideologia politica dell’Udc, bensì evidenziare il modo poco etico attraverso il quale questa ideologia viene proposta al cittadino. L’azione di queste campagne politiche è netta. Agisce sull’incertezza che vince la collettività e la spinge a chiudersi in se stessa, contribuendo pesantemente all’indebolimento delle opinioni dei singoli, che intravvedono in questi messaggi politici una risposta alle loro paure. Ma non si tratta di risposte, bensì di una descrizione esasperata di sensazioni purtroppo naturali che nascono nella società proprio perché essa vive un momento di incertezza. Insomma, un circolo vizioso che conquista il pensiero e lo predispone all’ascolto forzato.


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La fiera della cattiveria

» di Roberto Roveda

Un’ambientazione claustrofobica, con la cinepresa che non per questo meno dura e sanguinosa. Dallo scontro di classe, si allontana praticamente mai dal salotto di un’anonima casa sommesso ma tangibile, tra alta e bassa borghesia newyorkese, newyorkese, per una dramma da camera che riesce a mante- il conflitto si estende gradualmente ai sessi, rompendo il fronte nersi vivace e dal ritmo serrato nonostante della solidarietà delle coppie (evidentemente l’impianto un pò troppo da teatro filmato. da tempo eclissato). Altri temi a questo punto Così si presenta Carnage, il film che Roman si fronteggiano nel salotto, e si tratta di temi Polanski ha tratto da’ Il Dio della carneficina, universali: sono peggiori gli individui realisti testo teatrale di Yasmina Reza. o gli idealisti? Chi si fa coinvolgere e perde A colmare la scena i coniugi Cowan, lui avla misura o chi si muove nel mondo come vocato spregiudicato e carrierista (Christoph spettatore neutrale? Cosa è meglio tra cinismo Waltz), lei una broker più attenta alle forme e buonismo? E dove si trova il limite tra la giuche alla sostanza dei rapporti umani (Kate stizia e la vendetta? Oscillazioni senza punti Winslet). Ricevono nel loro appartamento i di riferimento che, sembra volerci ricordare Longstreet, grossista di casalinghi lui (John C. il regista, segnalano il crollo dei valori nella Reilly), attivista dei diritti civili lei (Jodie Fosocietà occidentale… ster). A farli incontrare la volontà di appianare Tanta carne al fuoco, probabilmente troppa un brutto litigio fra i rispettivi figli adolescenti. perchè la cottura fosse a puntino. Inoltre, Carnage regia di Roman Polanski I buoni propositi non mancano. Ma i quatPolanski pecca forse di qualche eccesso di Germania, Francia 2011 tro, cercando senza trovarla una mediazione formalismo, sfiora l’esercizio di stile e perde tra la sofferenza subita e il giusto risarcimento, tra la colpa e un pò di vista la sua notoria “cattiveria”, la sua spietatezza nel la pena da infliggere, ripiegano progressivamente sulle loro rappresentare gli esseri umani e i loro lati oscuri. In Carnage idiosincrasie e ognuno per sé sulle proprie frustrazioni, sulle la cattiveria sembra quasi più stanca, come sbiadita attraverso loro vite insoddisfacenti (soprattutto per la parte femminile). pratiche di camuffamento, il formalismo dietro le quali gli Le personalità a confronto perdono gradatamente le iniziali adulti imparano presto a ripararsi. Fuori però la vita scorre e i inibizioni e prende forma il disprezzo reciproco. L’incontro due ragazzi, i figli delle due coppie e causa della loro reciproca diventa così un carnage, una “carneficina”, verbale, ma non conoscenza, stanno già per diventare amici…

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» testimonianza raccolta da Demis Quadri; fotografia di Reza Khatir

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Fantasios

Vitae

numero gli piaceva molto, ma dovevo ridurlo da 11 a 9 minuti senza togliere trucchi o effetti. Era il loro modo di lavorare ed è stata dura, perché naturalmente per diminuire in quel modo la durata del numero devi velocizzare i tuoi gesti, aumentando il rischio di errori. Ma ce l’ho fatta e ho imparato l’importanza del ritmo in uno spettacolo. Oggi però la tendenza purtroppo è di esagerare con la velocità e di produrre spettacoli sempre più frenetici, a spese del teatro. Se un tempo il numero della donna tagliata in tre poteva durare quattro o cinque minuti, adesso ne deve durare uno e mezzo… Dopo un periodo lontano dalle scene, è L’esperienza negli Stati Uniti tornato a farci sognare con i suoi incanti. è stata come un biglietto da Tanto che nel 2010 è stato premiato con visita. Tornato in Europa ho fatto tutti i congressi di mal’Oscar Award come il miglior mago gia. All’epoca inoltre c’erano ancora le agenzie teatrali che di Marcel Marceau a Parigi ti ingaggiavano. E poi c’era anche un’altra per i mimi. Da lì sono usciti cosa che adesso non c’è più: il cabaret, il night tutti i campioni del mondo di club. Quindi potevi essere sicuro che per sei magia. Non ti insegnavano a o sette mesi l’anno lavoravi tutte le sere. In fare i trucchi, ma ti mostravaquesto modo riuscivi a rodare bene il tuo no piuttosto come venderli: numero e a maturare artisticamente. Oggi il comportamento in scena, i per prepararti devi allenarti tutti i giorni dagesti, tutto quello che fa parte vanti allo specchio, con addosso il costume, del personaggio, che secondo perché passa troppo tempo tra una serata e me è la cosa che conta di più. l’altra. Se non fai pratica, il risultato in scena Io sono stato l’ultimo a uscire è catastrofico. Il mio numero di allora con gli da quella scuola. Per seguirla animali era molto originale e piaceva molto. ho dovuto fare grandi sacriQuando sono arrivato all’apice della carriera, fici e dormire per sei mesi in mentre stavo lavorando al circo di Budapest, una soffitta, ma ho acquisito mi hanno proposto di diventare direttore del un bagaglio enorme che mi Teatro Variété di Ascona. Io ho accettato, ha poi aiutato a diventare perché quello di avere un proprio teatro è professionista. Poi nel 1979 un desiderio di molti artisti e perché volevo sono andato al congresso di fare qualcosa per la mia gente. L’esperienza magia a Bruxelles, davanti a è stata un successo: il teatro funzionava e ho 200 maghi, dove ho vinto il portato tante novità in Ticino. Ma poi per premio che mi ha lanciato per ragioni politiche mi sono trovato da un giorandare in America. Si è trattano all’altro sulla strada. È stato uno smacco to di nuovo di un’esperienza tremendo: sono entrato in crisi in quanto difficile, ma che mi ha dato avevo messo l’anima in quell’impresa. Per moltissimo. Ci sono stato un diversi anni mi sono ritirato dalle scene. anno e mezzo e ho lavorato Finché a sessant’anni ho ritrovato la carica sia al Court Theatre di Broaper ricominciare la mia attività. Perché mi dway, uno dei maggiori teatri mancavano l’applauso e il sorriso della gente, di Manhattan, che al grande che sono la vera ricompensa per il mio lavoalbergo Caesar Palace di Las ro. Attualmente propongo delle conferenze, Vegas. Ero stato ingaggiato dove apro la porta del mio antro magico, e da due grandi manager che porto in scena “Money-Money Crazy“, un si chiamavano Bill e Irene nuovo numero di manipolazione di monete Larsen. Quando mi hanno molto complesso e originale. E intanto riscelto, mi hanno detto che mango un sognatore, ma senza dimenticare andavo molto bene e il mio la tenacia e la perseveranza…

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G

ià da bambino ero portato per il mondo del teatro. Il mercoledì pomeriggio e il sabato, quando ero libero dagli impegni scolastici, creavo dei teatri di burattini o delle scenette da circo per i miei amici. All’epoca alla Casa d’Italia di Locarno arrivava una volta all’anno un burattinaio bergamasco: io andavo sempre ad assistere ai suoi spettacoli e questo artista, vedendo quanto ero appassionato, mi ha persino domandato se lo potevo aiutare. E così ho cominciato ad avvicinarmi al mondo del teatro, da dietro le quinte: quando, per esempio, c’era bisogno un temporale, con una lamiera facevo i tuoni e con il flash i fulmini. Ogni anno vicino a casa mia arrivava anche il circo e io ci andavo soprattutto per il prestigiatore, una figura che già mi entusiasmava. All’inizio non era ancora chiaro in quale ambito, ma sapevo già di voler entrare nel mondo dello spettacolo. Finché è scattata l’idea di fare magia e mi sono messo a studiare da autodidatta. Leggevo i libri e guardavo i video, che però all’epoca non erano molti. E pian piano ho capito che per esibire bene un trucco è necessaria una parte teatrale. Del resto, come dico sempre, non è il trucco a fare il prestigiatore, ma il prestigiatore a fare il trucco… Più tardi sono stato in Olanda a un congresso di magia, dove ho vinto il primo premio come miglior straniero nella magia generale. Un po’ come nello sci ci sono lo slalom, il gigante e la discesa, anche nella magia ci sono varie discipline come le grandi illusioni, la magia generale, la manipolazione, ecc. La manipolazione, che faccio tuttora, è la più difficile, perché devi allenarti molto di più e tutto dipende solo dalle tue mani, dalla tua agilità. A metà degli anni Settanta ho frequentato in Olanda una scuola mondiale di magia, fondata nel 1946 da Henk Vermeyden. Per la magia era un po’ l’equivalente della scuola


Sui sentieri di ghiaccio L’attraversamento di alcuni ghiacciai svizzeri spinge due alpinisti a una riflessione – fotografica e scritta – sul significato e la forza di questi luoghi. Dei veri e propri “libri della terra”, oggi sempre più insidiati dai cambiamenti ambientali e dall’incapacità dell’uomo di riconoscere i propri limiti testo di Manlio Del Curto; fotografie di Roberto Buzzini


sopra e in apertura: Aletschgletscher



Roberto Buzzini Diplomatosi all’Istituto Europeo di Design (Ied) a Milano nel 1985, da oltre vent’anni è titolare di uno studio fotografico a Muralto. Opera nel campo della fotografia pubblicitaria, industriale e di reportage; la sua passione per la montagna e per la speleologia lo spinge a una continua ricerca nell’ambito della fotografia paesaggistica anche in relazione a vari progetti editoriali. Oltre a esposizioni personali e collettive ha tenuto conferenze legate alle sue esplorazioni speleologiche. Per ulteriori informazioni: www.robertobuzzini.com.


N

el paesaggio selvaggio tra ghiacciai e montagne si manifesta la straordinaria fantasia della natura in tutte le sue forme. Apparentemente a dominare è l’immobilità sparsa, tra conformazioni imponenti e montagne, frammenti e ossatura della terra, gettati verso il cielo. Nella loro nudità, nella loro estrema semplicità si cela una bellezza che stordisce. L’ampiezza dei ghiacciai e le visuali che si colgono ad alta quota rimandano fatalmente al legame tra l’umano e il divino e non possono che spingerci a momenti d’intensa riflessione. Perché proprio le montagne e i ghiacciai altro non sono che le estremità tra cielo e terra, tra azione e contemplazione. La limitatezza dell’uomo di fronte a questo severo universo e il desiderio di conoscere e di comprendere i mutamenti della natura, nei suoi aspetti più rigorosi, sono all’origine della nascita dell’esplorazione e dell’alpinismo. Salendo in altitudine si avverte il piacere, non solo di penetrare, ma di essere ammessi ai segreti che questi ambienti custodiscono. Al centro di un grande ghiacciaio, si ha l’impressione di galleggiare in un ondoso mare bianco dal quale come scogli emergono i giganteschi massi erratici. Riflessi e prospettive si trasformano immediatamente in emozioni e il senso d’isolamento che questi anfiteatri grigio azzurri trasmettono, adagiati nel grembo loro offerto dalle pareti di roccia, diviene una condizione palpabile e intensa.

L’uomo e l’ignoto Se da un lato la montagna spinge chi la frequenta a sondare i propri limiti, dall’altro l’aspetto severo delle vette svela la misura della dimensione umana, che appare insignificante di fronte all’imperturbabilità di questi luoghi. Anche se è facile abbandonarsi al rimpianto per i tanti mutamenti avvenuti e alla nostalgia per l’ignoto e l’inesplorato, l’uomo di montagna trova, anche nella pura e semplice contemplazione, quell’impulso e quella suggestione che lo inducono a inventare nuove avventure. Attraverso esperienza e consapevolezza si modella il proprio percorso e la montagna si rivela una scuola straordinaria. L’animo si affaccia ai sensi, attraverso un dialogo appassionato con le asperità dell’altitudine, lo scorrere del tempo accompagna movimenti conosciuti, ripetitivi, ma rende ogni gesto un passo verso la propria conoscenza interiore, al cospetto di un mondo ancora vero. Lungo i ghiacciai verso le altezze sono tracciate le vie che oggi appartengono alla storia dell’alpinismo; percorsi ardui o estremi da una parte, altri accessibili a tutti. Eppure narrando la montagna, spiegandola, forse è stato sottratto molto di quell’aspetto di mistero e di fascino che ha circondato le vette fin dagli albori. Aletschgletscher


Unteraargletscher


Aletschgletscher

Unteraargletscher

Un futuro incerto Queste rigide corazze glaciali donano alle Alpi un aspetto imponente; fiumi di ghiaccio in cui ogni forma assume significato tra realtà e immaginazione. Le catene montuose si sovrappongono, si separano e si ritrovano, creste e affioramenti regalano ombre. Aloni che si adagiano sulla luminosità di migliaia di cristalli assiderati. Dove la montagna sfoggia i versanti più arditi, i ghiacciai sono travagliati, rotti da spaccature profonde e infidi inghiottitoi. Ammassi di detriti scricchiolanti modellano le morene che scendono sospinte dal lento movimento del ghiaccio verso valle. Le sponde come onde allungate, sono evidenti testimonianze che parlano di tempi remoti, di ere glaciali, ponendo

al contempo grevi interrogativi sul futuro di questi luoghi. Nelle vallate dove i ghiacci avevano dominato, appaiono oggi sterili detriti. Questi resti frantumati e trascinati dal tempo descrivono la lenta agonia di questi desolati regni del gelo. Nei millenni i ghiacciai hanno scavato, levigato, modellato il loro letto di roccia, un’erosione che ha evidenziato la struttura delle stratificazioni dei monti, la stessa storia della Terra. Dalle altezze, il ghiacciaio discende verso le valli e si consuma nel suo inesorabile ciclo in un fatale e perpetuo viaggio disegnato nelle epoche. Opere che il tempo ha creato e che gradualmente modifica. Quanto per millenni è rimasto sepolto dal ghiaccio, lentamente affiora verso il calore del sole. Non c’è nulla d’immobile, tutto scorre.


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I doni di Flora trascrizione di Fabio Martini illustrazione di Rachele Masetti

Fiabe

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C’era una volta, nella lontana Scozia, un’anziana donna di nome Lily che viveva insieme alla nipote Flora coltivando un pezzo di terra arido e sassoso. La loro casa era poco più di una catapecchia e ogni giorno le due donne dovevano fare i conti con la miseria e gli stenti. Va detto però che Flora, orfana di entrambi i genitori e proprio per questo affidata alla zia, aveva un aspetto assai grazioso e, come tutte le giovani donne, desiderava avere dei bei vestiti e qualche momento libero per poter incontrare il fidanzato, un giovanotto di nome Tom che faceva il contadino per il conte di Ballater, un uomo cupo ed egoista che trattava

con durezza i suoi braccianti. La zia Lily non vedeva di buon occhio l’amicizia fra Flora e il giovanotto e coglieva ogni occasione per dirgli cose del tipo: “È solo un buono a nulla. Se lo sposi sarai costretta a lavorare tutto il santo giorno come una mula e morirai in miseria come sei nata”.

Un giorno di primavera, i prati iniziavano a inverdire, Flora si recò al torrente per lavare i panni quando le si avvicinò una vecchina, piccina piccina, tutta vestita di rosso. Flora che era di animo cortese, la invitò a sedersi e le offrì quel po’ di cibo che aveva portato


con sé. La vecchina mangiò in silenzio osservando attentamente la ragazza poi, prima di andarsene tirò fuori da una tasca una spilla e le disse: “Ti voglio donare questa spilla. È magica e ogni volta che l’indosserai tua zia correrà nell’orto a contare i cavoli e ci resterà finché tu non l’avrai tolta. In questo modo potrai incontrare il tuo innamorato quando vorrai. Ma ricordati che non sempre ciò che sembra è giusto“. Flora, che non stava più in sé dalla felicità, ringraziò la vecchina, che altro non poteva essere che una fata silvana e, una volta tornata a casa, si appuntò sulla veste la spilla: subito la zia, che stava stendendo i panni, corse di filato in mezzo ai cavoli. Flora allora sgattaiolò fuori dalla casa e andò incontro a Tom con cui aveva un appuntamento. Le cose andarono avanti così per un po’ di tempo ma poi il giovanotto cominciò a non farsi più vedere preferendo la compagnia degli amici. Triste e con il cuore pesante, Flora appariva distratta e svogliata e per questo la zia continuava a sgridarla. Tornata al ruscello per lavare i panni le si avvicinò di nuovo la piccola fata. “Che succede figliola?” le chiese la vecchina. “Il mio Tom mi trascura… se fossi più brillante e spiritosa forse preferirebbe la mia compagnia a quella dei suoi amici?”. “E questo che vuoi?” disse la fata, “allora prendi questo pettine. Quando lo porrai fra i capelli sarai la ragazza più spiritosa della contea. Ma ricordati che non sempre ciò che sembra è giusto”. E così fu e per un po’ Tom, sorpreso dal cambiamento avvenuto nella ragazza, trascorse ogni momento libero in sua compagnia. Ma la ragazza era così brillante e acuta che gli amici del giovanotto cominciarono a dirgli: “Ma sei sicuro di voler sposare una con la lingua tagliente come Flora? Diventerai uno di quei mariti costretti a dar sempre ragione alla propria moglie”. E così Tom, di punto in bianco, smise di cercarla. Flora capì di essere stata piantata in asso e dopo qualche giorno trascorso fra pianti e sospiri decise di tornare al ruscello. La fatina la stava aspettando. “Perché piangi, figliola”, le chiese.

“Tom mi ha lasciata e mi dicono che fa gli occhi dolci alla più bella del paese che ha invitato al ballo… non lo diverto più e si è stancato”. “Ahi, ahi, ahi… qui bisogna pur far qualcosa”, borbottò la fatina pensierosa e subito dopo tirò fuori dalla veste una collana. “Indossala e non ci sarà donna al mondo capace di eguagliarti in bellezza. Ma ricordati che non sempre ciò che sembra è giusto”.

La sera del giorno seguente Flora si mise in cammino per recarsi al ballo. Era lungo la strada quando fu affiancata dalla carrozza del conte di Ballater che incantato da una donna di tale bellezza subito se ne innamorò. “Chi siete bella dama, non vi ho mai visto da queste parti?”. Flora continuò a camminare senza proferir parola, spaventata dalla presenza di quell’uomo crudele. “Che fate, osate non rispondermi?” incalzò il conte irritato e fece un cenno alle sue guardie che afferrata la ragazza la caricarono a forza sulla carrozza. Il conte, sempre più innamorato, la condusse subito davanti a un prete per sposarla. Flora era disperata e non sapeva cosa fare. Ma si ricordò della spilla, il primo dono che le aveva fatto la fatina. La tirò fuori e se l‘appuntò al seno. Immediatamente, conte, prete e guardie uscirono a gambe levate urlando: “Bisogna contare i cavoli… dove sono i cavoli” e in un baleno sparirono alla sua vista. Flora corse allora al ruscello dove la fatina l’aspettava. “Vi ringrazio per i vostri doni, ma ho deciso di non tenerli più”, le disse. “Non ne voglio più sapere di esser bella e spiritosa! Avevate ragione voi, mi hanno portato solo guai e voglio tornare a essere me stessa”, e riconsegnò spilla, pettine e collana nelle mani della fata. “Hai dimostrato di essere una ragazza saggia e allora, per premiarti ho deciso di donarti questo” e tirò fuori un sacchetto colmo di perle. “Ogni lacrima che hai versato l’ho trasformata in una perla e con questo piccolo tesoro potrai sposare il tuo Tom e liberare dalla povertà la tua vecchia zia”. I due giovani in effetti si sposarono presto e tutti, zia compresa, vissero felici e contenti…

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Il Trench:1

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Tendenze p. 48 – 49 | di Marisa Gorza

Burberry

diventerà, con qualche aggiustamento, più di uso comune che di moda, per motivi di praticità e di costo: un impermeabile aveva un prezzo più abbordabile di un cappotto.

Nel segno del mistero e del complotto Il trench manterrà a lungo la sua valenza militare, quale capo utilizzato da soldati, partigiani e “tipi anticonformisti” e negli anni Quaranta, con l’avvento del cinema, otterrà la consacrazione ufficiale. Oltre che sulle spalle delle grandi star, il viaggio del trench attraversa la letteratura di colore giallo e il thriller. Sia che si tratti di un fumetto o delle sequenze filmate, l’impermeabile con la cinta veste il detective, l’agente segreto, l’uomo d’azione, pericoloso o spericolato. Dalla Pantera Rosa a Dick Tracy, dal Tenente Colombo al Tenente Sheridan a Laura Storm… Fino ad arrivare ai nostri giorni indossato da chiunque: dal manager al bo-

Allegri Ha riparato dal freddo e dalle intemperie i soldati delle due grandi guerre, ha esaltato il fascino androgino di Greta Garbo e Marlène Dietrich, ha reso misteriosi e intriganti i personaggi dei film noir, ha contribuito al mito di Humphrey Bogart e Audrey Hepburn, indossato nelle scene finali di due indimenticabili cult movie

Il

trench, ovvero l’overcoat per eccellenza, ha oltre cent’anni… e non li dimostra. Declinato in mille versioni è materia prima per gli stilisti che si divertono a stravolgerlo con materiali high tech e colori insoliti. Autentico passe-partout per uomini e donne viene scelto, sia per il giorno che per la sera, specialmente nella classica versione beige. Tuttavia la sua storia affonda le radici in un clima ben diverso dalle pagine patinate e dalle sfilate di moda. Trench in inglese significa trincea e fu proprio nelle trincee, precisamente a Verdun, che il famoso impermeabile fece la sua prima apparizione, creato da un intraprendente distributore di abbigliamento sportivo del Surrey.

Militari e comodità Nel 1901 Charles Burberry ricevette dal Ministero della guerra inglese l’ordine di produrre un cappotto funzionale, adatto alle gloriose truppe britanniche. Il modello originale era a doppiopetto, con cintura in vita, profondo sprone sul dorso, spalline, polsi chiusi da fibbie e dotato di anelli a forma di “D”, studiati per appendervi bombe a mano, binocoli, guanti e altri accessori dell’equipaggiamento militare. Il tessuto? Una fitta gabardine rivestita di una sostanza impermeabile segreta. Tale e quale verrà adottato dai British Royal Flying Corps, antesignani della Raf. Negli anni Venti, subito dopo la Grande guerra,


nni indossati bene! hémien, dalla career woman come dalla housewife… Insomma il più bellicoso e, nel contempo, il più democratico e imbelle dei capi si ripresenta in questa stagione come un irrinunciabile must.

Comptoir des Cotonniers

Dalle trincee alle sfilate L’intramontabile tinta écru lo rende perfetto da far girare sulle semplici tenute da giorno come sui capricciosi abitini da sera. Ecco la versione proposta da per i rigori invernali, in qualche modo fedele allo storico Army Style. Maschile e rigoroso sì, ma con la vita strizzata in un vezzo iperfemminile, bottoni di pelle intrecciata, impunture da valigeria e fodere nel tipico tartan beige con righe nere e rosse. Molto d’impatto il grande collo rialzato, le maniche scolpite dall’arricciatura, i polsini multistrato. Maschile, senza concessioni è la disinvolta versione per “lui” in lana cammello, assolutamente waterproof, pregio dell’abbigliamento da pioggia… di tutte

Burberry

le stagioni. A renderlo prettamente invernale c’è il colletto staccabile in cavallino maculato e il rinforzo interno della fodera trapuntata e amovibile. Che piova, che piova e che nevichi! Tanto ci pensa il colore e qualche riferimento scherzoso a rallegrare lo stillicidio. Il trench doppiopetto di smentisce l’impeccabile matrice sartoriale anni Cinquanta adottando un lucido vinile rosso fluo. Ideale per rendere girlish la tenuta da tomboy, cioè pantalone con tanto di bretelle e camicia incravattata. Ed è nel dna della griffe combinare il classico con lo sfizioso attraverso il filtro di una divertente ironia. Così anche l’overcoat impettito, corredato di mostrine e galloni, scovato nell’armadio di lui, è addolcito da morbidi tessuti e indossato con uno chemisier di seta chiuso da un bottone che è una rosa (una rosa è una rosa…). Una leggerezza che stempera il rigore dell’universo maschile. Tra il lusco e il brusco, con qualche sprazzo di eccentrico bon ton, sono pure gli esemplari di . Rinnovati in caldo shearling cammello, saettanti zip e altri

Frankie Morello

Moschino

Comptoir des Cotonniers

dettagli biker, oppure in velluto millerighe verde bottiglia e allacciature che mostrano file di bottoni in corno. Gioca con i caratteristici dettagli del trench anche la leather jacket, cioè carré sollevato, cinghiette e cuciture ribattute. Quando il freddo diventa più pungente è ora di avvolgersi nel nuovo raincoat in Double Silk di , tutto comfort e tepore. Un attento design slancia la silhouette facendo sparire imbottiture e duvet realizzati nei leggerissimi materiali tecnici. Ulteriori lusinghe alla vanità femminile sono le sofisticate tonalità cioccolato, burgundy e quarzo nero, più il morbido cappuccio contornato di volpe argentata. Una giacca trench couture è invece la risposta al maschile alla creativa equazione fra stile e ricerca, condotta dalla Maison. Ritorna pure l’impermeabile piuttosto lungo in Rain Cashmere di un marrone profondo, dotato di tutti gli optional che lo fanno assomigliare a quello indossato dal fascinoso Bogart, mentre all’aeroporto dice addio (suo malgrado) a Ingrid Bergman e tra il rombo dei motori, le sussurra “Be happy, baby…”.

Allegri


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Dal 6 al 12 novembre pronti ad affrontare ogni tipo di battaglia amorosa. Grazie al transito di Marte, reso trasgressivo dall’opposto Nettuno vi accorgerete quanto è difficile poter resistere a una tentazione.

Con Marte in quadratura la vita tende a farsi frenetica. E con voi, che avete sempre la smania di dover tener tutto sotto controllo, si rischia di andare inutilmente incontro a situazioni di sovraffaticamento.

Se avete un ideale da difendere non esitate a combattere. Evitate di parlare a sproposito delle vostre avventure sentimentali: non è segno di grandezza. Particolarmente determinati i nati dell’ultima decade.

Liberatevi delle sovrastrutture costruite negli ultimi anni. Non perdete tempo perché se non troverete in voi la forza per operare i cambiamenti saranno le circostanze a prendervi la mano. Aiuti da parte di amici.

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Momento davvero felice per gli affari di cuore. Grazie a Urano, Mercurio e Venere in trigono non solo brillate come non mai ma incontrate persone divertenti assolutamente fuori dalla vostra consueta routine.

Grazie alla Luna potrete vivere intensamente un’emozione. Incontri sentimentali ed Eros in prima linea. Grazie a Giove armonico le vostre energie interiori riescono a svilupparsi serenamente. Disturbi di stagione.

Determinati grazie agli influssi di Marte e Saturno. Scelte forti in tutti i settori. Incremento delle relazioni sociali per i nati in settembre. Aiuti da parte di persone straniere. Flirts e amori in vista.

Marte e Nettuno in quadratura con il Sole: attenti a non farvi assalire da immotivati scoraggiamenti immaginandovi al centro di battaglie irreali. Canalizzatevi al centro del vostro essere. Confronto con il partner.

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Eventi imprevisti tra il 6 e il 12 novembre. Con Mercurio e Venere di transito è quasi impossibile, che se single, non incontriate qualcuno. Se in coppia, approfittatene per fare qualcosa di nuovo con il partner.

Interesse per il mistero favorito da Mercurio. Grazie a questa configurazione potreste entrare all’interno di un gruppo di ricerca nell’ambito delle scienze alternative. Favorevoli e le giornate tra il 9 e il 10..

Fase positiva. Con Venere e Mercurio favorevoli nella vostra undicesima casa solare state per realizzare un importante progetto grazie anche all’aiuto del partner. Discussioni con i familiari tra il 9 e il 10.

Organizzatevi all’interno di un gruppo per raggiungere degli obiettivi condivisi. Attenti a non comunicare ai quattro venti i vostri stati d’animo. Le giornate tra il 9 e il 10 si rileveranno foriere di incontri.

» a cura di Elisabetta

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Orizzontali 1. Ricca zuppa di verdura • 9. Il dio egizio dei morti • 10. Andati in poesia • 11. Imbianca le vette • 12. Un tasto del PC • 14. Fu mendico a Itaca • 15. Perspicaci • 16. Lo è il leone • 18. Corroborante • 21. Le iniziali di Tofano • 22. Dittongo in cauto • 23. Si contrappone a off • 24. Vezzo nervoso • 26. Veste malese • 29. Furbi, scaltri • 31. Abrogata • 33. Il cuore di Confucio • 34. Segue alfa • 35. Il niente del croupier • 36. Cantone svizzero • 37. Ha la cruna • 39. San Gallo sulle targhe • 40. Riarsi • 42. La dea della discordia • 43. Motivetto • 44. Nel centro di Vogorno • 45. Mezzo vaso • 47. Le iniziali di Montanelli • 48. Agenzia telegrafica russa • 49. Arma bellica • 50. Paladini. Verticali 1. Noto successo di Samuele Bersani • 2. Concernenti • 3. Offuscano il cielo • 4. La coppiera degli dei • 5. La nota degli sposi • 6. Vi sale il pugile • 7. Stolti, tardi • 8. Il no del moscovita • 12. Si sacrifica per la patria • 13. Riunirsi • 15. Stretti • 17. È funesta quella di Achille • 19. Intacca i denti • 20. Preposizione semplice • 25. Disordinata, confusa • 27. Ripetuto è un dilemma - 28. Ossigeno e Iodio • 30. Dispari in sella • 32. Togliersi la sete • 33. Allegro, gioviale • 37. Lo dice il rassegnato • 38. Appunto! • 41. Lo usa il gommista • 42. La serva di Abramo • 46. Austria e Belgio • 48. Tu, in altro caso.

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Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 10 novembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 8 nov. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta abbiamo sorteggiato: Dominique Barnett centro Sportivo 14 6596 Gordola A cui facciamo i nostri complimenti!

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Lido Locarno - L’oasi in riva al Lago Maggiore Il Lido Locarno si propone come una straordinaria oasi di svago, sport e benessere per tutta la famiglia, ideata attorno al tema dell’acqua e posizionata su una splendida spiaggia lacustre. Aperto tutto l’anno, con le sue vasche termali, le piscine, gli scivoli e i giochi in riva al Lago Maggiore, il Lido Locarno rappresenta la più completa e moderna struttura balneare del Ticino dove nuotare, rilassarsi o divertirsi in piscina, ma con la sensazione di essere immersi nel lago; un’esperienza unica e particolare!

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