№ 49
del 9 dicembre 2011
con Teleradio 11–17 dicembre
Donna nella chiesa C T › RT › T Z › .–
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Ticinosette n° 49 9 dicembre 2011
Agorà Donne e Chiesa. La costola discriminata Arti Musica classica. Liszt e la trascendenza Media Cantautori. Affossati dalla noia
Impressum
Kronos Ira e indignazione Incontri L’avvocato
Chiusura redazionale
Vitae Matteo Cocchi
Venerdì 2 dicembre
Editore
Teleradio 7 SA Muzzano
Direttore editoriale Peter Keller
Redattore responsabile Fabio Martini
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RobeRto Roveda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . di
MaRiella dal FaRRa . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FRancesca Rigotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
gaia gRiMani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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RobeRto Roveda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Reportage L’albergo degli angeli
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Fabio MaRtini; FotogRaFie di Reza KhatiR . . . . . . . . . . . . .
Luoghi Fiumi. Tra due mari con Mamé Tendenze Fragranze. Profumo di me
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4 6 8 10 12 13 14 39 46 48 50 51
RobeRto Roveda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
alessandRo tabacchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Società Disturbi dell’identità. Pellicole dissociate
Tiratura controllata 70’634 copie
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gioRgio thoeni e loRella RoMiti . . . . . . . . . . . . . . . .
PatRizia Mezzanzanica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Coredattore
Giancarlo Fornasier
Photo editor Reza Khatir
Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55
Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch
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(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona
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In copertina
La donna e la croce Illustrazione di Antonio Bertossi
La sindrome del cinese Gli amanti del genere certo avranno visto almeno una volta The China Syndrome, pellicola diretta da James Bridges e presentata al pubblico pochi mesi dopo il grave incidente nucleare di Three Mile Island (28 marzo 1979) . Un film dal tema affascinante – in particolare per le dinamiche che forniva rispetto alle relazioni tra gestori di impianti nucleari, aziende fornitrici di energia, autorità governative e in particolare i mezzi di informazione –, meno forse da un punto di vista strettamente artistico-cinefilo e questo malgrado la presenza nel cast di Jane Fonda, Jack Lemmon e un giovane Michael Douglas . Il titolo, La sindrome cinese appunto, faceva riferimento a un’ipotetica teoria secondo cui “in caso di un incidente a una centrale elettrica nucleare, in cui ci sia la fusione del nocciolo del reattore, niente riuscirebbe a fermarlo, fonderebbe fino alla base della centrale e oltre, perforando la crosta terrestre, «in teoria fino alla Cina»” (brano tratto da Wikipedia) . Come dimostreranno i maggiori incidenti nucleari – americano prima, sovietici e giapponesi nei decenni a seguire –, la presunta teoria del “traforo terrestre” si rivelerà fortunatamente infondata . Ma il solo pensiero di ritrovare il nostro pianeta bucato come una perlina di legno certo non poteva che impressionare l’opinione pubblica . Perché la radioattività sarà anche una brutta bestia – invisibile, inodore, insapore; mortale come sappiamo, ma almeno inizialmente facilmente negabile alla popolazione –, altra cosa è ritrovarsi con una voragine sotto i piedi e poter osservare nelle palle degli occhi una tranquilla famigliola cinese pronta a pranzare . Una minima impressione la farebbe a chiunque . A pensarci bene, buco per buco, nel leggere le ultime notizie provenienti dal mondo economico la situazione da “sindrome cinese” po-
trebbe non essere così fantascientifica: mettete al posto della centrale nucleare citata nella pellicola la Banca Centrale Europea; ora sostituite il vocabolo “incidente” con “indebitamento” e, invece di una sperduta cittadina americana, posizionate i vostri obiettivi sul continente europeo; non vi resta che insaporire il tutto con il più terribile degli spauracchi economici, la “recessione” . La ricetta è pronta . . . e non ha un gran buon sapore . Di più: sotto la tovaglia sulla quale vi apprestate a mangiare il piatto amaro della profonda crisi che sta colpendo molti paesi occidentali non c’è un tavolo: con un po’ di attenzione scorgereste un’enorme buco finanziario che nessuno sa esattamente come colmare . Anzi, più si tenta di contenerlo più questo pare non avere fondo . E che c’entrano i cinesi, si dirà? Be’, i cinesi c’entrano . Dall’altra parte del più grande buco monetario che l’economia abbia mai conosciuto ci sono proprio loro, che oggi stanno garantendo la sopravvivenza dell’economia statunitense grazie a investimenti e acquisti di titoli di stato americani, e che con ogni probabilità saranno gli unici in grado di garantire una minima crescita dell’economia negli anni a venire . Le prospettive per il prossimo 2012 non sono, ad oggi, molto incoraggianti: perdita di posti di lavoro e debolezza delle esportazioni a parte, lo slancio del mercato immobiliare in Svizzera, per esempio, è sovente letto da più parti come un dato positivo e fondamentale per la crescita del nostro paese . In verità, potrebbe essere solo il segnale di una paura che ha contagiato anche i più ricchi: nell’attesa “dell’uragano” meglio mettersi al riparo tra quattro solide mura, e il più in alto possibile . Sperando che non si apra un’inaspettata voragine anche sotto i nostri comodi piedini . Buona lettura, la Redazione
La costola discriminata
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Agorà
Mezzo secolo fa il Concilio Vaticano II portava un vento di novità nella Chiesa cattolica favorendo l’incontro con il mondo moderno. Rimangono ancora però molti ambiti in cui, nonostante le premesse conciliari, si è fatto poco per stare al passo con i tempi e con la storia. Uno di questi riguarda sicuramente il ruolo della donna all’interno della Chiesa di Roberto Roveda
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onostante l’emancipazione femminile e le conquiste della seconda metà del Novecento, la Chiesa rimane nel concreto una società patriarcale in cui alle donne non sono concessi che ruoli subordinati a quelli maschili. La semplice esclusione delle donne dal sacerdozio lo attesta, ma si tratta solo dell’aspetto più visibile ed eclatante. Questa mancanza di prospettive di realizzazione all’interno della Chiesa con ogni probabilità sta alla base del progressivo crollo delle vocazioni al femminile negli ultimi anni.
La diminuzione delle vocazioni femminili Secondo l’Annuario Pontificio 2010 le vocazioni maschili e quelle femminili seguono tendenze diverse tra il 2000 e il 2008. I sacerdoti, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi nove anni, passando da 405.178 nel 2000 a 408.024 nel 2007 e a 409.166 nel 2008. Le religiose, che nel mondo erano 801.185 nell’anno 2000, diminuiscono progressivamente, tanto che nel 2008 se ne contavano 739.067, con un calo relativo nel periodo del 7,8%. Le contrazioni di maggior rilievo si sono manifestate in Europa (–17,6%) e in America (–12,9%), oltre che in Oceania (–14,9%), mentre in Africa e in Asia si hanno dei notevoli aumenti (+21,2% per l’Africa e +16,4% per l’Asia), che controbilanciano la diminuzione, ma non sino al punto di annullarla. Complessivamente diminuiscono le vocazioni femminili, mentre gli incrementi parziali si concentrano in quei continenti dove la donna molto spesso non ha neppure nella società gli stessi diritti degli uomini. Tutto ciò sembra dimostrare che servire la Chiesa non realizza più le aspirazioni delle donne occidentali, di fatto le più emancipate.
Per molti osservatori è difficile non parlare di una discriminazione della donna in seno alla Chiesa cattolica. Intervistato sull’argomento, il teologo Vito Mancuso ci ha detto: “La discriminazione nei confronti delle donne nella Chiesa è un doppio tradimento. Rispetto al mondo contemporaneo dove esiste parità tra uomo e donna in quasi tutto l’Occidente. Il più importante paese europeo, per esempio, è governato da una donna. Poi si tratta di un tradimento rispetto all’insegnamento di Gesù. Perché non ci sono dubbi che la prassi di Gesù verso le donne fu innovativa rispetto al contesto dell’epoca”. La donna nella Chiesa oggi Un tema importante quello della donna e del suo ruolo nella Chiesa, diremmo di capitale importanza, però fondamentalmente rimosso dalle gerarchie vaticane. Ne abbiamo discusso con Stefania Salomone1, membro di Noi siamo chiesa (www. noisiamochiesa.org)2. Signora Salomone, quale ruolo concreto ha oggi la donna nella Chiesa cattolica? “Dipende da ciò che intendiamo in questo caso quando diciamo «Chiesa cattolica». La situazione negli ambienti istituzionali e tradizionali non è delle migliori. Pur essendo le donne la maggioranza dei soggetti attivi nelle parrocchie, operano alle dirette dipendenze del parroco con pochissima autonomia decisionale e di pensiero. Alcune di queste donne, le più presenti, finiscono con l’acquisire nel tempo una grande autorità agli occhi degli altri parrocchiani. Di fatto arrivano a essere una emanazione del ruolo di potere del parroco, diventandone fedeli emissari. Nel mondo dell’associazionismo cattolico e dei grandi movimenti, alle donne è riservato grande spazio, specie a livello organizzativo e «di servizio». Se pensiamo a Rinnovamento dello Spirito, ai carismatici, a Comunione e Liberazione, all’interno di questi movimenti le donne rivestono posizioni fondamentali, ma per qualunque decisione significativa devono comunque fare riferimento al sacerdote, quindi a un maschio ordinato, leader indiscusso del gruppo. Si tratta in pratica di garantire una veloce e puntuale esecuzione delle sue direttive”. C’è poi l’annosa questione dei ruoli diversi anche tra uomini e donne che svolgono la professione religiosa… “È evidente che esiste una grande disparità di ruoli e di possibilità tra i chierici maschi e le suore. I primi hanno infinite opportunità di studio e di approfondimento intellettuale e se lo desiderano possono coltivare liberamente le proprie ambizioni. Non lo stesso vale per le seconde alle quali è consentita una formazione limitata poiché la loro attività precipua non sembra giustificarne una più approfondita. È previsto, infatti, che le suore lavorino negli ospedali, nelle scuole, nel turismo religioso, nei convitti. Ben difficilmente le troviamo a predicare o a tenere conferenze. La loro specifica posizione all’interno di una gerarchia tutta al maschile prevede poi che queste dipendano interamente dai preti per le loro esigenze sacramentali, fatto che rende i chierici maschi ancora una volta indispensabili mediatori tra terra e cielo”. Perché oggi una donna dovrebbe decidere di dedicare la propria vita alla Chiesa? “Le rispondo con molta franchezza: alla luce di quanto esposto prima è quel che mi chiedo anch’io”. Quali dunque le ragioni che portano a perpetuare questa discriminazione contro le donne? “Esiste ancora nei sacri palazzi una certa diffidenza e rigidità verso il mondo femminile, eredità forse legata al mito del peccato
originale o ad archetipi maschilisti di origine medievale. I retaggi sono però molteplici: fino a una cinquantina di anni fa, una donna dopo il parto chiedeva al prete di essere benedetta per ottenere la purificazione e potersi nuovamente accostare all’altare (e peggiore era l’impurità se aveva partorito una femmina), superstizione legata probabilmente ad alcuni passi del libro del Levitico3 che sono davvero tremendi. Questo è il rischio di un’interpretazione letterale dei testi, una lettura che non tiene conto della cultura dell’epoca in cui questi testi sono stati scritti, quando la donna era considerata meno di un asino. È curioso come, al di là degli insegnamenti profetici di Gesù anche sulle questioni di genere, si sia invece creata una élite spirituale proprietaria e depositaria della verità più vera, a cui ubbidire senza indugi o perplessità di sorta, accettando perfino di credere l’incredibile come, per esempio, che possa essere esistito un Paradiso Terrestre in cui una femmina abbia tristemente determinato il destino dell’intera umanità”. Che conseguenze ha questo atteggiamento per la Chiesa? “Se per Chiesa intendiamo l’istituzione ecclesiastica, questo atteggiamento la porta a trincerarsi dietro le sue rigide posizioni, serrando i ranghi per paura di mettere a rischio il suo potere sacro. Così di fatto si sta perdendo aderenza con la realtà e con il pensiero di un’umanità che incomincia faticosamente a ragionare. Tanto per intenderci, proseguendo di questo passo, dal punto di vista dei lefebvriani (prendendoli come rappresentanti dei cosiddetti tradizionalisti) la Chiesa sarà la fedele custode dell’ortodossia, acquisendo credibilità; dal punto di vista delle persone pensanti diventerà, invece, una istituzione elefantiaca incomprensibilmente lontana dai loro bisogni, con una conseguente perdita di credibilità”. E questa posizione quali conseguenze ha sulle donne credenti? “Intanto sarebbe bene che le donne cominciassero a farsi sentire di più. Spero, insomma, che l’universo femminile trovi o ritrovi la capacità di farsi valere. Ma opporsi alla mentalità clericale maschilista, che è ancora quella più diffusa, non è cosa facile. E comunque resta latente quella sorta di complesso di inferiorità dovuto sia al problema di genere che alla disparità di ruoli, secondo cui andare contro il prete, anche se le spara grosse, è inopportuno. Bisogna però fare dei passi avanti, cercare senza paura una realtà nella quale ci sia spazio per le idee, il confronto e la libertà di ricerca. E se non esistesse, crearla. In caso contrario il rischio è continuare a trovare schiere di pie donne devote a padre Pio che hanno a modello Bernadette di Lourdes. Stessa sorte toccherà alle suore che, a furia di considerarsi come spose di Gesù, dimenticheranno che lui, almeno stando ai Vangeli, era celibe”. Che cosa sarebbe necessario fare per cambiare le cose? “Personalmente credo che non serva fare proprio nulla. L’istituzione ecclesiastica, con le sue dottrine, i suoi dogmi, la sua misoginia e i suoi precetti, va in una direzione, e io vado in un’altra. Non pretendo che cambi perché sono certa che non sia in grado di stravolgere la sua attuale natura a meno che non accetti di perdere ogni forma di privilegio o di presunzione di somma verità. Le pare francamente possibile?”. note 1 Stefania Salomone fa parte di una comunità di base ed è coordinatrice del blog “Amore Negato”, che tratta di celibato obbligatorio e delle “donne dei preti” (http://www.ildialogo.org/phpBB302) sul sito “Il Dialogo”. 2 È la sezione italiana del movimento cattolico International Movement We Are Church (IMWAC), fondato nel novembre del 1996 con l’obiettivo di sostenere lo spirito rinnovatore del Concilio Vaticano II. 3 Uno dei testi biblici contenuti nell’Antico Testamento.
Agorà
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Liszt e la trascendenza Un demone zoppo batte col suo bastone il terreno, incespica nella sua andatura barcollante e poi si perde nel ricordo struggente di una vita migliore, alternando i ricordi alla dolorosa constatazione della sua infermità di Alessandro Tabacchi
Arti
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Immaginate sempre questo demone alzare urla disumane contro Dio e contro l’esistenza, e poi vederlo a terra, inginocchiato a implorare pietà di tanto soffrire, prima di rialzarsi e maledire la vita. Alla fine immaginate ancora questo demone, in punto di morte, aprire gli occhi febbrili e con mestizia ma anche fermezza gettare via il bastone, per terminare la vita sulle proprie gambe malferme. Quindi una caduta sorda, poi più nulla. Ecco, questo è ciò che mi figuro ogni volta che ascolto la Sonata in si minore di Liszt. In questo brano mirabile e arduo, mezz’ora di ascolto interiore irto di asprezze armoniche e grandiose aperture melodiche, penso sia racchiusa l’intera arte del musicista ungherese.
La sua unica Sonata, gli Studi Trascendentali, gli Anni di Pellegrinaggio, le Rapsodie Ungheresi, le Armonie Poetiche e Religiose, le due Leggende, assieme alle innumerevoli Trascrizioni, Reminescenze e Parafrasi da opere altrui (specialmente Wagner, Mozart, Rossini, Schubert, Verdi, senza dimenticare Beethoven, di cui trascrisse le nove sinfonie in uno spirito di titanica rivalità con la potenza sonora dell’orchestra, e Bach, nume tutelare dei suoi ultimi anni) rappresentano il punto più alto dell’evoluzione tecnica del pianoforte romantico, qualcosa di paragonabile a quello che fu il ciclone Paganini per la tecnica e l’iconografia violinistica.
Titanismo e innovazione Romanticismo trasfigurato Il pianismo trascendentale di Liszt Composta nella fase mediana della rappresenta il raggiungimento, il sua esistenza, fra il 1852 e il 1853, superamento e quindi lo smantelessa racchiude tutte le idealità di lamento progressivo dell’eredità una giovinezza felice, cui nulla fu di Chopin: una sorta di fucina precluso (talento, bellezza, successo, infernale in cui tutto il materiale amori), e tutte le amarezze di una musicale viene portato alla fusione maturità meditabonda e tormentaprima di essere colato in un’archita. In essa vibrano e cozzano viotettura formale inusitata. Liszt non lentemente la dolcezza chopiniana uccise mai la forma classica, piuttoFranz Von Lenbach, Franz Liszt, ca. 1880, particolare Städtische Galerie im Lenbachhaus, Monaco di Baviera dei passaggi aerei e volanti, tutti sto la plasmò a proprio piacimento immersi in un’atmosfera di sogno e, talvolta, a capriccio. Fu grazie malinconico, e il barbarico stridore delle note ribattute e degli alla sua inesauribile ricerca sonora ed estetica che furono staccato che sembrano preludere a Bela Bartok e alle asprezze gettate le basi sulle quali fu compiuto il grande balzo verso della musica del Novecento. Perché nella musica di Liszt non il cromatismo integrale di Wagner. Di più, Liszt fu il primo esiste equilibrio, tutto pende da una parte o dall’altra, a volte autore occidentale a smantellare il sistema di relazione tonale si scivola nel patetico, a volte la durezza dell’armonia appare e a sostituirlo con forme libere, a volte di sinistra dissonanza quasi inascoltabile e se in qualche caso la sua musica sembra atonale (si ascoltino le sue ultime composizioni per piano, la composta per accompagnare una chiacchierata fra nobildonne Lugubre Gondola e Nuages Gris su tutte), e fu il primo musicista sentimentali, altre volte invece nemmeno il diavolo in persona a proporre un sistematico utilizzo delle forme della musica saprebbe essere tanto violento e rabbioso. popolare. Perché la musica di Liszt è assolutamente viva in ogni sua Uomo dotato di grande generosità, amplificata dalla sua nota: tutto l’universo le appartiene, e tutto l’universo vuole profonda e tormentata fede religiosa, vero megafono di opere contenere. Nulla è troppo basso o grezzo per non meritare la altrui – in tempi in cui il disco ancora non esisteva, le sue sua attenzione, nessun tema è tanto banale da non poter essere trascrizioni fecero conoscere un’intera nuova generazione di innalzato alle vette del più grande virtuosismo espressivo. musicisti al pubblico –, padre del concertismo moderno, Liszt Pur avendo composto un numero sterminato di musica sinfo- appare oggi, nel duecentenario della nascita, come un prezioso nica, corale e da camera, e pur essendo l’inventore di quello esempio da seguire. Un titanico amico per ogni amante della che oggi si chiama poema sinfonico, Liszt è innanzitutto musica e delle potenzialità dell’arte, una gigantesca eredità sinonimo di pianoforte romantico. da conservare e propagare.
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Affossati dalla noia Colto, raffinato, capace di creare atmosfere rarefatte e di raccontare come pochi il labirinto dei sentimenti umani: i peana dei critici nei confronti di Ivano Fossati sono piÚ o meno questi. Viene da pensare che anche loro non abbiano finito di ascoltare le canzoni, vinti dagli sbadigli e colti da irrefrenabile torpore‌ testo di Roberto Roveda illustrazione di Micha Dalcol
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In principio furono i Delirium, gruppo rock progressive anni
Settanta, sorta di Jethro Tull in versione maccheronica in cui Ivano Fossati cantava “Jesahel” e suonava il flauto traverso circondato da un gruppo di hippy al Festival di Sanremo del 19721. Un brano pieno di forza, un inno contro il conformismo e la modernità e forse per questo Fossati abbandonò ben presto il gruppo. Troppa energia. Alcuni anni di oscuro lavoro di interprete e di autore poi il successo alla fine dei Settanta con “La mia banda suona il rock”, anche questa canzone un poco inno, un poco marcetta buona per ogni stagione. Una canzone allegra, con il suo fondo di vitalità, sfacciatamente in tonalità maggiore e probabilmente per queste ragioni Fossati ha fatto di tutto per rinnegarla, rifiutandosi per anni di eseguirla dal vivo. Forse Ivano si era accorto che una canzone così rischiava di risvegliare di colpo la platea e costringeva ad “ascoltare” anche le altre canzoni. Meglio non rischiare e mantenere l’assopimento generale, perpetuando il mito di cantautore serio, impegnato, lontano da ogni tentazione di facile lusinga nei confronti del pubblico.
Il gioco dell’artista impegnato Uno schivo, riservato, come tanti nel mondo della canzone che sono tanto schivi e riservati da fare un disco all’anno e avere un paio di libri-intervista in libreria. Quelli di Fossati sono Carte da decifrare e Di acqua e di respiro: e già i titoli ci fanno capire che il Nostro gioca a fare il misterioso e il difficile. Gioca a fare l’autore, anzi il poeta salvo che basta prendere il testo di una delle sue canzoni più famose, “Le notti di maggio” (1988) per ritrovarci il mare, l’amore, le rime realizzate con i verbi all’infinito, quelle semplici che ti facevano fare a scuola, tanto “mangiare” fa rima con “giocare” così come con “baciare”:
“Io conosco la mia vita e ho visto il mare, e ho visto l’amore da poterne parlare… e se questa è una canzone con cui davvero si può parlare in questa sera ferita da non lasciarsi andare in questa notte da soli che non ci si può vedere e non ci si può contare ma solo ricordare io conosco la mia vita e ho visto il mare e ho visto l’amore vicino da poterlo toccare…”
Rime baciate, è proprio il caso di dirlo, quasi sfacciate come far rimare “Milano” con “mano”2 dimentichi che uno dei proverbi meneghini più conosciuti è “Milan con el cor in man!”. Versi baciati dalla fortuna più sfacciata e segnati da alcune delle malattie poetiche che affliggono buona parte dei cantautori italiani: l’amore per il decadentismo, mescolato al peggiore crepuscolarismo, il tutto imbastardito da spruzzate di ermetismo, ricavate dai sempre più annacquati ricordi scolastici. Le regole sono parlare di sfighe, cercando il più possibile di non farsi capire, grazie all’accostamento random di termini. Allora sei uno bravo, come Fossati che scrive:
“L’uomo avrà quarant’anni e i capelli da ragazzo in mezzo al cortile tiene l’anima per sé. Il medico lo guarda il medico tranquillo lo ascolta gli lascia servire in tavola tutte le volte che c’è. Così parlano del tempo di questo vento che porta via e ancora del mare di questo bel mare di Lombardia che cresce attorno ai muri come seminato a grano quando d’estate canta e soffia qualche vapore lontano”3
Un nome non è una garanzia Già dalle prime righe si capisce che finirà male e si fanno gli scongiuri, ma a Fossati piacciano queste atmosfere novembrine rese ancora più “crisantemo” quando a interpretare i suoi brani è la sua cantante feticcio, Fiorella Mannoia, che pensiamo abbia esaltato il cantautore generose fin dal cognome. Lei riesce a rendere Fossati quasi insostenibile, ai limiti del socialmente pericoloso. Nei casi di sodalizio Mannoia-Fossati sulle copertine dei cd si dovrebbe scrivere “nuoce gravemente all’umore” come si fa sui pacchetti di sigarette. Perché la Mannoia è una mannaia, pronta ad abbattersi sui malcapitati mentre ascoltano la radio, magari in coda, in una giornata di pioggia. La speranza è che il 143 suoni libero in questi casi… oppure che improvvisamente partano Albano e Romina mentre cantano Felicità, brano in cui, per inciso, si dice: “felicità, è il tuo sguardo innocente in mezzo alla gente, la felicità / è aspettare l’aurora per farlo ancora, la felicità”. Rime comunque più originali di quelle di buona parte dei testi di Fossati e dove almeno non si parla all’infinito come gli indiani nei vecchi film western. E né Albano né tanto meno Romina sono mai passati per poeti, per colti, raffinati, schivi, eccetera, eccetera, eccetera.
note 1 È possibile rivedere l’interpretazione originale su YouTube all’indirizzo www.youtube.com/watch?v=1qUPABDSXHk. 2 “Delle città importanti io mi ricordo Milano / livida e sprofondata per sua stessa mano”. Dal brano “I treni a vapore”, 1992. 3 Dal brano “L’uomo coi capelli da ragazzo”, 1993.
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Pellicole dissociate Considerato per lungo tempo, a causa della sua presunta rarità ed eccezionalità, come il “santo graal” della psichiatria, il Disturbo Dissociativo dell’Identità è stato oggetto di interesse da parte di sceneggiatori e registi di Mariella Dal Farra
Sognare. Se
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uno dei momenti più terrorizzanti della storia del cinema è, a detta di molti, la famosa “scena della doccia” nel film Psycho (1960), allora uno dei più perturbanti – nel senso freudiano del termine1 – è a sua volta contenuto nel capolavoro di Hitchcock, e corrisponde alla scoperta della vera identità della signora Bates, che si rivela essere la personalità secondaria del protagonista Norman Bates. La presa d’atto che la mente di Norman ospita in sé, oltre alla propria, anche l’identità della madre morta genera infatti un’angoscia assai più sottile e destabilizzante di quella associata alla mera violenza fisica; un’angoscia che affonda le proprie radici nel mito della possessione demoniaca – ricordiamo che l’esorcismo è stata la prima forma di psicoterapia praticata in Europa2 – e che successivamente si è nutrita delle innumerevoli trasposizioni cinematografiche che hanno per oggetto i Disturbi Dissociativi: una categoria diagnostica che comprende l’Amnesia Dissociativa, la Fuga Dissociativa, il Disturbo di Depersonalizzazione e il Disturbo Dissociativo dell’Identità (DDI), precedentemente noto come Disturbo da Personalità Multipla. Considerato a lungo tempo, in virtù della sua presunta eccezionalità, come il “santo graal” della psichiatria, il DDI è stato al centro negli ultimi anni di un rinnovato interesse, proporzionale all’incremento epidemiologico dei casi riportati in primo luogo negli Stati Uniti. L’aumento delle diagnosi di DDI è stato
interpretato in modi diversi: l’affinarsi degli strumenti diagnostici e la sensibilizzazione degli operatori, favorita anche dagli studi sul Disturbo Post-Traumatico da Stress (la “sindrome dei reduci”) con la quale condivide l’eziologia traumatica e il ricorso a meccanismi di difesa di tipo dissociativo, ne ha sicuramente facilitato il riconoscimento; i suoi detrattori asseriscono invece che i dati siano inficiati da un’alta percentuale di falsi positivi, dovuti alla presenza di soggetti facilmente suggestionabili o di simulatori. Identità distinte Di fatto, il Disturbo Dissociativo dell’Identità è ufficialmente riconosciuto dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali come caratterizzato dalla “presenza di due o più distinte identità o stati di personalità (criterio A) che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento (criterio B). […] Ognuno degli stati di personalità può essere vissuto come se avesse storia personale, immagine di sé e identità distinte, compreso un nome separato”.3
Passare in filiale. Ciò è reso possibile da un meccanismo di difesa psicologico noto come “dissociazione”: in estrema sintesi, quando un essere umano viene posto in una situazione gravemente lesiva della propria incolumità fisica e/o mentale, ed è impossibilitato a reagire in altri modi, può fare ricorso alla facoltà di “staccarsi” temporaneamente da sé per evitare di
Alfred Hitchcock e Anthony Perkins sul set di Psycho (1960)
essere sopraffatto dall’impatto emotivo di quanto gli o le sta accadendo. Per intenderci, “Gli stati corporei che possono favorire la trance sono un dolore insopportabile e un’eccitazione sessuale sconcertante”4; così, “Se è possibile diventare una personalità
Acquistare. multipla in assenza di un trauma sessuale precoce e di maltrattamenti da parte delle figure genitoriali (per esempio, a causa di ripetute catastrofi nel contesto di una guerra o una persecuzione), studi empirici hanno accertato tale relazione nel 97 o 98 per cento dei casi diagnosticati”.5 Questo meccanismo dissociativo, che nell’ambito di una reazione acuta da stress prende il nome di freezing, può quindi, in caso di traumi particolarmente gravi e reiterati, divenire una modalità fissa nel comportamento della persona, che nel corso del tempo “organizza” le proprie parti dissociate in un certo numero di personalità subordinate – il range spazia da due a più di cento, ma metà della casistica riguarda soggetti con
un numero di identità inferiore a dieci6 – incaricate di contenere e gestire le diverse manifestazioni del sé. Fascinazioni cinematografiche La genesi del DDI è stata efficacemente spettacolarizzata nel film di Brian De Palma “Raising Cain” (1992), letteralmente “Allevando Caino”, che da noi è stato commercializzato con il più didascalico titolo di Doppia Personalità. Il thriller ha come protagonista un efferato psichiatra e le sue cinque identità sussidiarie, che sono state generate “sperimentalmente” dal proprio padre: uno scienziato deciso a produrre “in proprio” evidenze atte a corroborare le sue ipotesi evolutive. La fascinazione di Brian De Palma per il Disturbo Dissociativo dell’Identità è in effetti pari, se non superiore, a quella di Hitchcock, al quale dichiaratamente si ispira: il trauma “primario” del disvelamento operato dal maestro in Psycho viene infatti riproposto da De Palma non solo nel già citato “Raising Cain” ma anche nel precedente Vestito per uccidere (“Dressed to kill”, 1980), dove uno strepitoso Michael Caine dimostra come il vero sex-appeal non receda nemmeno di fronte alle forme più estreme di travestitismo. Inoltre, proprio come Hitchcock, De Palma si diverte a giocare sullo stesso tema
– quello della dissociazione – in forma traslata e cioè, in maniera proiettiva, attraverso lo sdoppiamento dell’oggetto invece che del soggetto. Questa variazione trova la sua forma più compiuta in un altro capolavoro di Hitchcock: La donna che visse due volte (“Vertigo”, 1958), “omaggiato” da De Palma in Omicidio a luci rosse (“Body Double”, 1984). Che la “duplicità” delle donne che ossessionano i protagonisti – interpretate rispettivamente da Kim Novak e Melanie Griffith – possa essere interpretata come sintomo dell’attitudine dissociativa dei personaggi maschili sembra confortato dal fatto che entrambi soffrono di disturbi fobici – fobia delle altezze, il primo; claustrofobia, il secondo – di origine traumatica, tanto da essere scelti dai loro antagonisti proprio perché giudicati facilmente manipolabili. Disturbi Dissociativi in assenza di DDI sono infine rappresentati in altri due film di Hitchcock: Marnie (1964) e il paradigmatico Io ti salverò (“Spellbound”, 1945). De Palma raccoglie il testimone nel 1973 con Le due sorelle (“Sisters”), seguito da Obsession (1976) e, in tempi più recenti, Femme fatale (2002). note 1 “[...] L’effetto perturbante del mal caduco e della follia ha la stessa origine. Il profano vede qui l’estrinsecazione di forze che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente la presenza in angoli remoti della propria personalità”. Sigmund Freud, Il perturbante (1919) in Opere - Vol.9, Bollati Boringhieri 1989, pag.104. 2 Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio Vol.1, Bollati Boringhieri, 1976. 3 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali - DSM IV TR, Masson, 2000, pag. 565. 4 Nancy McWilliams, La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio 1999, pag. 355. 5 Ibidem 6 DSM IV TR, pag. 566.
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Società
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Ira e indignazione L’ira oggi non gode di buona reputazione, non è di moda. Non possiamo più permetterci di essere irati (o irosi o iracondi) bensì, tutt’al più, offesi testo di Francesca Rigotti illustrazoine di Mimmo Mendicino
Non è di moda l’ira, vizio, peccato, affetto o passione che sia. Eppure l’ira è un sentimento importante – non si dimentichi che ira, l’ira di Achille o ménis in greco, è la prima parola della letteratura occidentale – e molto studiata soprattutto nel mondo antico e premoderno, meno in quello contemporaneo. L’ira – come spiega Remo Bodei in un volumetto a essa dedicato (Ira. La passione furente, Il Mulino, 2011) – nasce da un’offesa che si ritiene di aver immeritatamente ricevuto ed è associata al bisogno di salvaguardare reattivamente la propria immagine pubblica... Riguarda in sostanza la riaffermazione del proprio ruolo, della propria dignità e della propria autorevolezza nei rapporti interpersonali o politici. Kronos
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L’ira giusta L’ira è una passione bifronte, o meglio è bifronte la sua immagine: da una parte essa viene giudicata negativamente in quanto designa perdita di autocontrollo, di giudizio e di senno; dall’altra è però valutata positivamente in quanto nobile sentimento di rivolta contro l’ingiustizia (“ira giusta”). L’ira giusta, già teorizzata dai filosofi antichi, è l’ira degli oppressi, delle donne e di tutti i gruppi e i popoli come loro soggiogati e umiliati. Dopo aver ingoiato umiliazioni e angherie di ogni genere senza poter reagire, donne e oppressi di tutto il mondo inizieranno, a partire più o meno dalla Rivoluzione francese, a ribellarsi contro nobili e potenti, manifestando apertamente la loro ira, raccolta e incanalata dai rivoluzionari di professione. Il discorso di Bodei sull’ “ira giusta” trova un interlocutore appassionato in Peter Sloterdijk, il pensatore tedesco autore proprio di un imponente saggio sull’ira (Zorn und Zeit. Politisch-psychologischer Versuch, Suhrkamp, 2006; tr. it. Ira e tempo, Meltemi, 2007). Anche Sloterdijk nota che ira è la prima parola della nostra cultura, ma il fatto è che egli sembra anche considerarla l’ultima, o almeno la parola decisiva per la nostra storia. L’ira è un’energia primaria, una passione, anzi, la passione più terribile (unheimlich) e più umana: e forse, invece di addomesticarla, reprimerla e sopprimerla, sarebbe il caso di usarla – invita Sloterdijk – in modo collettivo e domestico, una volta trasformata nella foggia dell’antico thymos, cioè la “forma civilizzata nella polis” del furore degli dei omerici.
Di usarla in modo intelligente, nuovo, produttivo, creativo, non violento, democratico, dal momento che si tratta di una forza con un enorme potenziale di devastazione, soprattutto se privo di teoria e ricco di impulsività, affinché non diventi una variante tragica di se stessa come lo furono il fascismo e il nazismo nello scorso secolo e come rischia di diventarlo il risentimento islamico contro l’Occidente. Indignazione e restituzione di giustizia Si potrebbe per esempio, in un passaggio successivo, usare l’ira come indignazione e chiedere una “restituzione di giustizia”, come gridavano impetuosamente, all’origine del movimento, i giovani spagnoli, e come gridano oggi in tanti altri paesi, Svizzera compresa. Lo scrive pacatamente, dall’alto dei suoi novant’anni e passa, il vecchio partigiano che ha riportato in auge il termine di indignazione, Stéphane Hessel (nel suo Indignez-vous, Indigène éditions 2010; tr. it. Indignatevi!, ADD Editore 2011). Lo esclamava inascoltata la filosofa Elizabeth Anscombe nel suo appello contro la Laurea honoris causa a Truman. Nel 1953, quando l’università di Oxford, presso la quale Anscombe insegnava, propose di assegnare il riconoscimento al massacratore di Hiroshima, ella, profondamente indignata, esclamò che il presidente americano era l’autore di una terribile strage di innocenti, quelli che alla fine sempre pagano, quando invece la bomba avrebbe potuto essere sganciata sui capi di stato maggiore della marina giapponese che si trovavano nell’agosto del 1945 riuniti in un unico luogo. Invece di sonnecchiare insofferenti e impotenti di fronte alle sopraffazioni, ai ricatti e alle ingiustizie, si può provare a trasformare il risentimento in indignazione/ira e ad agire di conseguenza, in maniera pacifica – come sottolinea Hessel – ed efficace. Forse senza nemmeno aspettare, per cambiare paradigma, l’elaborazione di una “teoria dell’ira/indignazione”, ma seguendo semplicemente la pratica innescata dalle “primavere arabe”, che hanno messo in crisi la nostra idea dell’Islam, condizionata dalla sua componente radicale, animata soprattutto da senso di vendetta e dall’incapacità di cercare la strada verso la democrazia.
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L’avvocato È innegabile che l’avvocato abbia a che fare con la giustizia. Ma che cos’è la giustizia? Il dizionario specifica, come primo significato, che è “la virtù per la quale si riconoscono e si rispettano i diritti altrui” testo di Gaia Grimani illustrzione di Micha Dalcol
Una volta lessi, non so dove, una frase che mi fece una grande impressione: se il giudice fosse davvero giusto, non vi sarebbe bisogno dell’avvocato. La parola avvocato deriva dal latino ad-vocare, chiamare a sé, chiamare in soccorso e qualifica colui che assiste in giudizio qualcuno con la sua presenza. Nel Canton Ticino operano circa 800 avvocati per 317.000 abitanti e questo, se l’affermazione riportata sopra fosse vera, ci dovrebbe far riflettere. Senza dubbio il senso della giustizia si sviluppa fin dalla più tenera infanzia, attentissimi come sono i bambini a cogliere la minima disparità di trattamento tra fratelli e sorelle. I genitori devono prestare la massima cura affinché già da allora non li si deluda, inducendoli a dubitare per tutta la vita della possibilità di essere trattati equanimamente. Più avanti, negli anni delle scuole superiori, tocca agli insegnanti questa perenne sorveglianza su se stessi per non generare trattamenti diversi tra studente e studente ed è un equilibrio delicatissimo in cui, oltre all’equità del punteggio assegnato, vengono persino misurati sguardi e sorrisi che devono imparzialmente essere distribuiti a tutti. Nel lavoro, nello sport, nelle molteplici relazioni sociali d’ogni giorno, persino in famiglia ci si deve impegnare per essere giusti e per difenderci da coloro che non lo sono. Ciò premesso, quale professione può essere più nobile e gratificante di quella dell’avvocato che della giustizia dovrebbe essere il paladino? Vi sono, infatti, avvocati idealisti che combattono fino in fondo per difendere il cliente, benemeriti che assumono persino gratuitamente il patrocinio della persona con scarsi mezzi, se sono convinti della sua innocenza. Eppure molto rapidamente le esperienze della vita ci insegnano che nella dimensione umana la giustizia è spesso un’utopia, anzi l’esistenza è punteggiata dalle continue ingiustizie che dobbiamo subire. Giustizia a metà Confidando tutto ciò a un giovane avvocato qualche tempo fa, egli mi spiegò che esistono due tipi di giustizia: una assoluta, che s’incontra assai raramente e una legale che poco ha che
vedere con la prima e si basa spesso su compromessi, accordi fra avvocati, accordi fra giudici e avvocati e così via. All’avvocato che per anni e anni si è preparato a una professione che ha nelle cause il pane quotidiano, il più delle volte nulla sembra più sconsigliabile al cliente che intentar causa: dura troppo, costa troppo, l’esito è incerto, meglio mettersi d’accordo. In tale maniera chi ha subito il danno ottiene solo una mezza giustizia e chi ne è responsabile, forse per l’ennesima volta riesce a cavarsela. Eppure, nonostante queste considerazioni amare, niente appare più indispensabile dell’avvocato in questo mondo di soprusi: così le assicurazioni propongono addirittura una protezione giuridica privata, una per l’auto e gli incidenti della circolazione e una per i proprietari di immobili per regolamentare le liti con vicini e artigiani. Si pagano le assicurazioni con la speranza di non dovervi mai ricorrere, perché, quando ci si rivolge a esse, assumono la causa solo se il successo è assicurato e a questo punto ci si domanda: perché mai sarebbe necessario pagare un’assicurazione che ti tutela solo se in fondo non ne hai bisogno? L’ineffabile legge Non sempre però si può pensare di gestirsi da sé: se per le cause, cosiddette civili, si possono accarezzare soluzioni di autosufficienza e fare a meno dell’avvocato e persino della causa, in altre più gravi questioni giudiziarie, specialmente in quelle penali, questa figura professionale diventa ineludibile e preziosa, anche se la guardiamo con po’ di sospetto, consapevoli come siamo che è capace di difendere la nostra causa e parimenti quella del nostro avversario. Se egli fosse arrivato prima di noi, la stessa persona, invece di essere dalla nostra parte, sarebbe dalla sua. Ma allora dove sta la giustizia? Dove stanno i principi? D’altra parte anche i colpevoli, i delinquenti hanno il diritto alla difesa e un buon avvocato può addirittura riuscire a farli assolvere. Viene in mente la famosa considerazione di Azzeccagarbugli a Renzo nei Promessi Sposi: “A saper bene maneggiare le grida (le leggi, ndr.), nessuno è reo e nessuno è innocente”. Peccato però che sia così.
Incontri
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» testimonianza raccolta da Roberto Roveda; fotografia di Reza Khatir
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Matteo Cocchi
Vitae
a lavorare con altre persone, a delegare determinati compiti quando è necessario, fattori fondamentali anche nel mio nuovo incarico. In Polizia mi trovo a collaborare con persone di grande esperienza nei loro campi specifici e ritengo importante conferire determinate competenze allo scopo di progredire e migliorarsi. Il comandante della Polizia cantonale non può occuparsi dei molteplici dettagli legati agli svariati compiti che le attività di polizia richiedono 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno. Questo è un insegnamento che ho appreso nell’esercito, ma si tratta anche di una mia indole personale: in generale Giovane, dinamico, pronto al cambiamento, io tendo a non isolarmi, ma a socievole. Si presenta così il nuovo coman- relazionarmi con le persone dante della Polizia cantonale… cercando che mi sono vicine e a tenermi in contatto con l’esterno. di sfatare il cliché del milite autoritario Prima lo facevo con giovani cittadini in servizio militare termi in gioco. L’opportunità per un determinato periodo di tempo, oggi che mi si è posta era una di mi trovo a collaborare e a dirigere persone quelle che non si ripetono di diversa età ed esperienza. In generale mi due volte nella vita: non avepiace allargare i miei orizzonti e mantenere vo la certezza di giungere sino stretti contatti anche nell’ambito civile. in fondo e oggi vado fiero del Quando facevo l’istruttore militare ho contirisultato ottenuto, trovandonuato a praticare molto sport e a far parte di mi da subito ad affrontare una associazioni sportive, proprio in quest’ottica. nuova sfida e a confrontarmi Così, sono dal 1999 membro del comitato con un lavoro per certi versi dello Sci Club Monte Lema e dal 2009 premolto diverso da quello che sidente. Parallelamente e con l’aiuto di un ho svolto in precedenza. Per gruppo di amici siamo riusciti a trasformare accorgermi della differenze una gara regionale di Cross country, disciplitra le due attività sono bastati na della mountain bike, in gara internazionale pochi giorni; infatti, nel quoalla quale da diversi anni, in Capriasca, partetidiano agire della Polizia siacipano i migliori competitori al mondo. Tutte mo immersi nella real life e ci attività extraprofessionali in cui ho appreso troviamo ad affrontare molte qualcosa e che mi hanno consentito di accresituazioni anche di urgenza. scere le mie capacità organizzative e di piaNell’esercito per contro, ci si nificazione. In tutto questo, è fondamentale prepara minuziosamente per l’apporto della mia famiglia, di mia moglie situazioni gravi che si spera Fabienne e delle mie due figlie, Caroline di non accadano mai. Differenze due anni e mezzo e Nicole di un anno. Nella che sono in entrambi gli amprofessione che facevo e in quella che faccio biti interessanti e stimolanti oggi la famiglia è un tassello importante, è un e che richiedono un costante elemento a cui io do una grande importansviluppo a tutti i livelli. za. All’interno della famiglia sono in gioco L’esperienza acquisita in dieci molte cose, è lì che si discutono argomenti anni di attività professionale veramente importanti a livello personale. Ho nelle forze armate mi sarà sila fortuna di avere una moglie che è molto curamente molto utile e rifarei indipendente e mi permette di concentrarmi domani lo stesso percorso. La sul mio lavoro, con la consapevolezza che la carriera militare è stata per mia famiglia, anche quando sono assente, è me una scuola fondamentanelle sue ottime mani. Io comando sul lavoro le: mi ha formato dal punto ma a casa, ogni tanto, mi piace anche farmi di vista professionale, mi ha comandare. La casa è il regno di mia moglie, insegnato a dare delle priorità, quindi va benissimo così.
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a sempre ho nutrito uno spiccato interesse per la sicurezza e tenuto in forte considerazione la carriera militare e quella in polizia nei miei progetti professionali. Ad affascinarmi, è sempre stata l’opportunità di potermi mettere a disposizione del cittadino e dello Stato. Per questo, dopo la maturità a Lugano, mi sono trasferito a Basilea dal 1993 al 1999 per studiare giurisprudenza. L’idea però non era quella di diventare avvocato, bensì svolgere una professione più dinamica e sempre legata al concetto di sicurezza. Oltre a fornirmi solide basi in campo giuridico, l’ateneo di Basilea mi ha consentito di apprendere sia il tedesco che lo svizzero tedesco. Nozioni che, in seguito, mi hanno dato accesso a molte opportunità nella carriera militare, e che mi saranno utili anche nella mia nuova sfida professionale. Credo che queste conoscenze linguistiche saranno un valore aggiunto nelle relazioni con i miei omologhi degli altri cantoni. Terminati gli studi, ho intrapreso immediatamente la carriera militare. A seguito del pagamento del grado in qualità di comandante di compagnia ho iniziato la formazione per diventare ufficiale professionista, frequentando il Corso di diploma all’accademia militare presso il Politecnico federale di Zurigo, dove ho ottenuto il Diploma federale di ufficiale professionista. Dal 2001 al 2011 ho lavorato a Isone, presso il comando delle scuole e corsi granatieri ed esploratori paracadutisti. Ho iniziato in qualità di istruttore di unità terminando lo scorso settembre nella funzione di responsabile della formazione quadri, ufficiali e sottoufficiali. Devo ammettere che in me è sempre rimasta viva una forte propensione alle novità e ai cambiamenti. Quando lo scorso anno si è prospettata l’opportunità del Concorso per comandante della polizia cantonale ho deciso di met-
L’albergo degli angeli testo di Fabio Martini; fotografie di Reza Khatir
Quale rapporto abbiamo oggi con il luogo deputato al culto dei defunti? In che modo la società post-moderna affronta il tema del ricordo dei morti? Non c’è dubbio che il cimitero resta uno spazio importante per la memoria collettiva, soprattutto nei piccoli e medi centri, anche se, qualcosa sta cambiando. Questa riflessione ci ha spinto a compiere una visita al cimitero di Lugano alla ricerca di tracce e segni, ma anche delle non poche opere scultoree che ne attestano l’importanza artistica
Reza Khatir Nato a Teheran nel 1951 è fotografo dal 1978. Ha collaborato con numerose testate nazionali e internazionali. Ha vissuto a Parigi e Londra; oggi risiede a Locarno ed è, fra le altre cose, docente presso la Supsi. Per informazioni: www.khatir.com.
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e ricerche a riguardo parlano chiaro: il consumo di fiori destinati alle tombe e alle sepolture è andato via via scemando negli anni e il mercato del crisantemo è in piena crisi. La stessa frequentazione dei cimiteri registra una marcata flessione e anche quando vengono effettuate delle visite la maggior parte del tempo viene dedicata al riassetto e al decoro della sepoltura. Altri tempi quelli in cui la zia, rimasta precocemente vedova, mi trascinava, mio malgrado, al cimitero. Lì – fra pianti, rimpianti, recriminazioni e lamenti vari –, avviava la sua quotidiana conversazione, a senso univoco s‘intende, col marito.
Io appena potevo mi sottraevo a quello strazio, preferendo scorrazzare fra tombe e cappelle di famiglia, leggendo nomi e date e riflettendo sull’esistenza di questo e quello: c’era chi era morto in guerra e nella foto appariva sorridente nell’ordinata divisa da alpino; chi era stato sepolto accanto alla moglie, di solito ben più longeva; chi era stato strappato precocemente alla vita da terribili malattie o da incidenti a cui si accennava nei brevi epitaffi. E infine c’erano i bambini di fronte alle cui sepolture, spesso ingentilite con putti e angioletti, ammutolivo, bambino anch’io, incapace di comprendere il senso di quelle presenze.
La segreta vita del camposanto A quanto pare, dunque, si va affermando sempre più una rinuncia alla socializzazione del lutto, alla sua elaborazione pubblica. Si tende piuttosto a “familiarizzare” questo processo, optando per soluzioni private (e la cremazione asseconda questa tendenza) che se da una parte paiono rafforzare il senso di intimità con il defunto, escludendo la partecipazione della collettività, dall’altro, come molti antropologi e sociologi fanno notare, rallentano se non addirittura ostacolano una sana e condivisa elaborazione del lutto. La bella scena di inizio del film Volver (2006) di Pedro Almodóvar è in tal senso significa-
tiva: un folto gruppo di donne, fra cui le stesse protagoniste, è impegnato a pulire e lucidare le tombe dei propri defunti. La scena trasmette una grandissima vitalità ed evidenzia come il cimitero sia in realtà il luogo elettivo in cui si compie l’indispensabile metabolizzazione del lutto, non come processo individualizzato e personale, ma come esperienza condivisa e partecipata emotivamente insieme agli altri. L’estremo opposto, non privo di un suo sobrio fascino, è rappresentato dall’invenzione di una giovane designer italiana, Veronika Gantioler, a cui si deve l’urna eco-sostenibile, costituita da un cilindro di torba al cui interno vengono posti i
semi di una pianta. Una volta collocata nella terra, la torba si dissolve e dalle ceneri nasce la pianta. Gaia – questo è il nome commerciale del prodotto ideato come tesi di Laurea alla Libera Università di Bolzano –, è stata premiata al concorso di Design Talente 2010, organizzato dalla Camera di Commercio di Monaco di Baviera, un appuntamento annuale in cui vengono selezionati i migliori oggetti di artigianato a livello mondiale. Certo, una soluzione ecologica e naturale, che sarebbe forse piaciuta a Ugo Foscolo. Con i Sepolcri, ispirati dall’estensione all’Italia dell’editto napoleonico di Saint-Cloud (1804) che istituiva l’ordine di seppellire i morti al di fuori delle cinte murarie delle città, il poeta italiano poneva al centro della sua riflessione filosofica e morale la morte e il suo culto, sia dal punto di vista della pura razionalità sia dell’irrinunciabile componente emotiva che essa implica. Ma il problema sta forse a monte, e cioè nel modo in cui noi stessi stiamo trasmettendo l’idea della morte ai nostri figli, alle generazioni future. Certamente non è un tema facile, ma, provo a chiedermi, la rimozione della morte come fenomeno naturale e conseguentemente dei processi indispensabili alla sua elaborazione, non rischia davvero di condannarci a una rassegnazione senza fine?
Figli del proprio tempo A distanza di tanti anni in quel cimitero ritorno periodicamente perché ora vi sono sepolti i miei genitori. In realtà non accade spesso, diciamo due o tre volte l’anno, ma il richiamo – nonostante la profonda resistenza interiore a credere a una dimensione metafisica e all’idea di un “al di là” –, è sottile e insistente e non posso farne a meno. Mi sono trovato così a vagare di nuovo fra le tombe ritrovando nomi e volti un tempo familiari, una comunità solo immaginata a cui, almeno per il momento, non ho alcun desiderio di aggiungermi. I dubbi e le contraddizioni comunque restano. Come recita un antico detto arabo riportato dal grande storico francese Marc Bloch in una sua importante opera, anche io credo che in fondo “gli uomini sono più simili alla loro epoca che ai loro padri”. E forse per questo motivo che, nonostante non mi sfugga affatto il valore sociale, antropologico e terapeutico del camposanto, probabilmente mi libererò da questa dimensione optando, come nell’intenzione di altri in questi strani tempi, per il giardino di casa o per l’urna elegantemente posta sulla mensola del salotto.
Fiumi. Tra due mari con Mamé testo e fotografie di Giorgio Thoeni in collaborazione con Lorella Romiti
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“Perché non porti la tua barca a La Rochelle? C’è una «scorciatoia» per evitare il lungo giro attraverso lo stretto di Gibilterra…”. L’idea è di un amico francese al termine di una traversata oceanica. Vuoi il desiderio di cambiare ormeggio alla mia barca, un po’ il sogno di arrivare in quel porto dove era stata costruita e varata più di trent’anni prima, ecco che inizio a pensare seriamente di trasferire “Mamé” (questo è il suo nome) dal porto di Genova a La Rochelle, dal Mediterraneo all’Atlantico: due mari, un bel viaggio, accidenti! La scorciatoia è il Canal du Midi. Costruito alla fine del Seicento per il traffico commerciale, il canale che dapprima si fermava a Toulouse è proseguito nel Settecento con un altro lungo budello scavato a lato della Garonne fino al fiume stesso che conclude la sua corsa nel grande estuario atlantico a nord-ovest della Francia e a poche miglia da La Rochelle. L’intero percorso è chiamato anche “Canal des deux mers”. La barca: una declinazione al femminile Mamé (o Mamì) è l’appellativo con cui i francesi chiamano la nonna. E della mia nonna materna ho un ricordo particolare. Con lei spesso parlavo di vela. Diceva che con me in barca ci sarebbe venuta. Così, quando ho potuto comprarmi un “guscio” non è stato difficile scegliergli il nome. Il caso ha poi fatto coincidere un progetto di viaggio con una sorta di omaggio. L’attraversamento della Francia lungo quel canale mi avrebbe infatti portato sia nei luoghi d’infanzia di Mamé sia dove la barca (l’altra Mamé) era stata costruita. Un doppio pellegrinaggio realizzato con un equipaggio familiare e al femminile, dove tutto ha funzionato, anche grazie a condizioni decisamente favorevoli e quando c’è bel tempo la partita è vinta in partenza… La prima tappa l’ho compiuta in agosto, da Genova fino a Sanremo con Lorella. Da lì ho poi proseguito con mia figlia Federica e Cristina fino a Sète, quasi all’estremità occidentale del Golfo del Leone. A parte l’ingresso nel porto di Marsiglia con raffiche a 35 nodi e una notte turbolenta al largo delle
isole Porquerolles, tutto sommato conservo il ricordo di una navigazione abbastanza tranquilla: Mamé è un’imbarcazione robusta, di ridotte dimensioni e quando non è soggetta a troppi sbandamenti quel piccolo spazio si trasforma in un nido confortevole. Anche quando a bordo si è in quattro. La vera sorpresa è stata la seconda parte del viaggio. Oltre alle amiche Cristina (fino a Toulouse) e Lorella, s’è aggiunta mia mamma, forte di un invidiabile spirito giovanile e decisa ad arrivare fino in fondo. Ed è stato un idillio. L’abbiamo capito quando ci siamo lasciati alle spalle il porto di Sète e il Mediterraneo per imboccare il canale. Era metà settembre, avevamo disalberato e organizzato lo spazio della barca in vista di una percorrenza di oltre due settimane a motore: circa 500 km e 110 chiuse. Non avremmo più dovuto preoccuparci delle classiche perturbazioni marine. Ci saremmo però scontrati (e non solo metaforicamente) con un paio di imbranate comitive, poco avvezze alle manovre di ingombranti barconi-roulottes noleggiati per un turismo che in quel periodo fortunatamente è agli sgoccioli. Poco male. Di passaggi, di correnti e di maree Bézier, Carcassonne, Castelnaudary, Toulouse, Agen… ecco che la storia di Mamé si intreccia con i luoghi della Francia medioevale, terra di vini eccellenti, di cibo delizioso con uno scenario dai colori rubati alle tele degli impressionisti. Sul canale poi non ci si annoia: controlla il motore, naviga al centro, prepara le cime d’ormeggio, entra nelle chiuse (quelle che salgono e quelle che scendono) e fermati al punto giusto, scendi a dar volta alla bitta, torna a bordo, recupera le cime, riordina e riparti, poi ancora, fai la spesa, cucina, pulisci… La magia del viaggio assume una fisionomia esotica quando, a Castets-en-Dorthe lasciamo il canale per immetterci nella Garonne: si comincia a fare i conti con le maree, con le correnti e i fondali che variano sensibilmente. Un ciclo naturale che diventerà presto regola. Ho in mente la prima notte trascorsa sul fiume, ormeggiati “a pacchetto” con un’altra barca ai piloni di un’enorme gru, il risveglio con la corrente impetuosa dell’alta marea e avvolti nella nebbia: uno spettacolo suggestivo. Immersi nel silenzio del fiume che scorre veloce a malapena si scorgevano le rive con le capanne dei pescatori, delle palafitte con le reti quadrate a penzoloni: sembrava di essere in Oriente! A Bordeaux, superato il Pont de Pierre, si abbandona il regime fluviale per entrare in quello marittimo. L’acqua diventa salmastra, il ciclo delle maree scandisce le giornata, l’Atlantico è alle porte. Ancora qualche decina di miglia a motore ed è tempo di rialberare. Lo facciamo nel porticciolo di Pauillac, nel Médoc. Poi si esce dall’estuario della Gironde e si naviga in mare aperto: l’isola di Oléron con le sue ostriche, La Rochelle. Fine della crociera: oltre un migliaio di chilometri percorsi fra due mari, un po’ di terra e in poco più di un mese.
Profumo di me Tendenze p. 48 – 49 | di Patrizia Mezzanzanica
Lo si regala spesso, ma il profumo è un affare molto privato e personale. Non solo va annusato, ma vissuto sulla propria pelle. Ne può nascere un amore a “prima goccia”, o il bisogno di passare anni a cercare quello giusto. È un rito magico e profondamente simbolico che accompagna l’uomo da millenni
SEVEN VEILS A ispirare il nome della nuova fragranza di Byredo sono i sette veli dell’abito di Salomè. Un mix speziato di gusto orientale dove prevalgono il calore della vaniglia e del fiore del sandalo indiano. Una composizione dal carattere intenso e sensuale, come sensuale era la danza di Salomè. Nel bouquet sono presenti anche oleandro, orchidea tigrata e bacche di pimento.
BLOOD CONCEPT È un modo di concepire il profumo come mai era accaduto prima d’ora. Quattro fragranze che prendono il nome dai gruppi sanguigni 0, A, B e AB perché il sangue è sì fonte di vita, ma anche elemento denso di significati e leggende, pieno di fascino, mistero e timore. È, in fondo, la nostra parte più intima e segreta. Blood concept è il desiderio di affermare la propria unicità, di giocare con ciò che di selvaggio e insondabile esiste in noi, un rito pagano che celebra gli impulsi più viscerali.
REGAL È una fragranza di Boadicea the Victorious, l’esclusiva luxury perfume collection inglese. Unisex, intensa e seducente grazie alle note floreali e animali, ha un morbido cuore di rosa indiana e gelsomino del Marocco, oltre a una sorprendente varietà di erbe e spezie.
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ell’antichità si credeva che le dee oscurassero tutte le donne grazie al loro profumo. Le loro statue ne venivano abbondantemente cosparse e nelle cerimonie religiose il profumo era ampiamente utilizzato. La sua inafferrabile sottigliezza è simile a quella dell’anima, con la quale viene spesso simbolicamente posto in relazione. La sua persistenza evoca la presenza di una persona anche dopo la sua partenza, così come i luoghi e i momenti che ad essa sono legati. In questo senso si può dire che rappresenti la memoria: esalta le virtù di chi lo indossa, rapisce, seduce, trasporta il nostro pensiero nel tempo e nello spazio. Per questo la ricerca del profumo perfetto è molto più di mera vanità, ma al contrario, una questione di identità, di poesia, di amore. È come desideriamo che gli altri ci riconoscano. Il nostro profumo siamo noi, così profondamente che odora diversamente secondo le caratteristiche della nostra pelle. Incontrare quello giusto è come innamorarsi: c’è chi gli resta fedele per la vita e chi avverte il bisogno cambiarlo, perché lui stesso è cambiato. E c’è chi lo ritrova nel tempo.
ANDREA MAACK PARFUMS Create originalmente per le sue istallazioni dall’artista visuale islandese Andrea Maack insieme ai giovani talenti dei Nasi di Grasse, queste fragranze nascono e vivono in modo completamente diverso dai classici profumi. Prendono spunto dai disegni a matita delle Maack, e li trasformano in esperienze olfattive. Ogni profumo risponde a indizi visivi, come quello di un spazio bianco vuoto all’interno di una galleria. La prima impressione è di profumo leggero, ma andando in profondità si può distinguere l’aroma più cupo e lievemente erotico che si nasconde sotto la superficie.
BOND No 9 Il nome lo prende da Bond Street dove al numero 9, nel centro del quartiere di Soho, a Lower Manhattan, si trova la boutique. I loro profumi, se paragonati alle fragranze commerciali, si caratterizzano per concentrazioni assai elevate, fra il 18 e il 22% di pura eau de parfum, le stesse utilizzate negli anni Venti e Trenta dai grandi profumieri. Grande varietà ma sempre di estrema raffinatezza.
NASOMATTO “Comincio col fare qualcosa, ma a un certo punto le cose si fanno da sole. Mi piace sentire che perdo il controllo, che non sono io quello che sceglie”. Abbandono, pace, profondità, armonia, le fragranze di Alessandro Gualtieri, fondatore di Nasomatto, mirano a creare stati d’animo, a intensificare le sensazioni, a evocare un comportamento: il desiderio di seduzione, l’atteggiamento irresponsabile, un amore irraggiungibile o, ancora, la beatitudine temporale. Perché, continua Gualtieri, “il mio scopo è creare qualcosa di vivo, che sia in grado di generare nuove idee”.
SIX SCENTS PARFUMS Sei stilisti emergenti e sei nasi di fama internazionale, insieme per dare un profumo alla creatività. Ogni fragranza ha una storia: quella di un adolescente colto e raffinato desideroso di scoprire il mondo, di un bambino timido e riservato in cerca di protezione, di una giovane fanciulla dai ricordi ricchi di colore, e poi i rumori della notte, i locali, la sensazione della pelle calda, leggermente sudata. Riconoscersi in una di queste profumazioni è vivere la sua storia.
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gemelli
cancro
Malumori intorno alla metà di dicembre. Problemi sentimentali tornano a galla. Cercate di comprendervi reciprocamente. Ragione e sentimento sono frequenze non di rado inconciliabili.
Venere favorevole e Plutone e Giove armonici. Lavoro, guadagno e mondanità. Investimenti immobiliari o in opere d’arte. Espansione della personalità e di ogni vostra sfera di influenza. Interesse per il mistero.
Positiva la Luna tra il 14 e il 15 soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione di eventi sociali. Errori di comunicazione riconducibili a una non corretta comprensione. Fantastico l’incontro con il Leone.
Venere in opposizione. Nuovi rapporti professionali con i propri collaboratori favoriti dai transiti di Mercurio. I nati nella prima decade devono evitare di imboccare percorsi autodistruttivi nella vita a due.
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Eventi straordinari per chi è impegnato in una attività creativa, tecnologica, all’avanguardia con i tempi. Particolari le giornate tra il 14 e il 15. Confusione interiore. Non abbiate paura di voi stessi!
Grazie a Marte il treno non vi passa più avanti. Crescita personale favorita da Plutone e Giove. Impegnatevi però in una cosa alla volta, altrimenti piccole situazioni di stress. Sentimenti e amore a gonfie vele.
A metà mese Venere e Saturno angolari: tensioni o discordie per quanto riguarda la gestione dei familiari in ordine al rapporto con il partner. Momento di analisi e di bilanci per i nati nella terza decade.
A metà dicembre si riapre un momento favorevole per gli affari di cuore. Grazie a Plutone e a Venere favorevoli vi sentirete più disponibili verso i desideri del prossimo comprendendoli dal profondo.
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Trigono di fuoco tra il 14 e il 15 dicembre. Grazie alla Luna vi sentite coraggiosi. Nessun ostacolo vi potrà fermare. Marte di transito nella vostra decima casa solare. Non imponetevi con la forza.
A metà mese la vita dei nati in dicembre entrerà in nuova fase movimentata. Incontri karmici, con ricadute anche professionali. Trattative occulte. Strategie portate a compimento con impegno quasi ossessivo.
Grazie all’ingresso di Marte e Plutone si amplificano gli appetiti sessuali; attrazione per il mistero e la segretezza. I nati nella prima decade favoriti da Venere divengono depositari di una luce nuova.
A metà mese fase professionalmente positiva. Bene gli affari, specie in campo immobiliare. Andate dritti allo scopo senza farvi mille domande. Irascibili i nati nella seconda decade provocati da Marte.
» a cura di Elisabetta
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La soluzione verrà pubblicata sul numero 51
Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 15 dicembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 13 dic. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!
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Verticali 1. Caratterizza gli organi artificiali a prova di rigetto • 2. Si tende per tirare • 3. Cinematica • 4. Carnefice • 5. Li accoglie l’anfitrione • 6. Idrocarburi • 7. Il numero perfetto • 8. I confini di Tegna • 9. È detto anche gattopardo americano • 13. Incapaci • 15. Parametro di giudizio • 18. Esseri eterni • 22. Ironia • 23. Scoloriti • 26. Piccolo difetto • 27. Pedina coronata • 29. I confini di Arogno • 32. Combattere, duellare • 34. Uno a Londra • 35. La seconda nota • 37. Andata a male • 39. Velivoli • 40. Mezza tara • 43. Se le lavò Pilato • 44. In nessun tempo • 45. Con il tip è un ballo.
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Orizzontali 1. Un giocattolo per bambine • 10. Giaggiolo • 11. Lo teme l’oratore • 12. Osso piatto del cranio • 14. Una droga - 15. Centocinquanta romani • 16. È vicino a Gordola • 17. Uomini inglesi • 19. Andati in poesia • 20. Istituto Tecnico • 21. I pallini del sarto • 23. Svezia e Thailandia • 24. Fianco • 25. L’avversaria del Milan • 28. Copricapo papale • 30. Repubblica d’Irlanda • 31. Mezzadri • 33. Soffia a Trieste • 36. Lo zio della capanna • 38. Imprecisi, sbagliati • 41. Cuor di balena • 42. Traguardo • 43. Consonanti in marea • 44. Il frutto del rovo • 45. Sigla radiologica • 46. Preposizione semplice • 47. Opera di Verdi • 48. Delfini di fiume • 49. Devota.
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La soluzione corretta del Concorso apparso il 25 novembre è:
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Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Romana Regazzoni via Arogno 6817 Maroggia Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!
Premio in palio: buono RailAway FFS “Snow’n’Rail San Bernardino” RailAway FFS offre 1 buono del valore di 160.– CHF per 2 persone in 2a classe per l’offerta RailAway FFS “Snow’n’Rail San Bernardino” da scontare presso una stazione FFS in Svizzera. Ulteriori informazioni su www.ffs. ch/snownrail.
Snow’n’Rail San Bernardino - A sciare in treno e bus San Bernardino è la meta per gli appassionati della neve e tutti gli amanti degli sport invernali: 40 km di piste con tutti i gradi di difficoltà, il ristorante sulle piste “Confin” a 1.950 metri di altitudine con 800 posti a sedere, di cui 400 sulla terrazza solarium: oltre all’ottima cucina, anche un magnifico panorama! Per gli sciatori che preferiscono un drink veloce fra una discesa e l’altra, una sosta allo Snow Bar in alta quota non deve proprio mancare. E per i ragazzi e i principianti ci sono due scilift nel centro del paese.
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Affari di famiglia
Dal 5 al 30 dicembre la quinta serie di Affari di famiglia Dal lunedì al venerdì, alle 20.40 su LA 1 Affari di famiglia è anche su Facebook: per foto e news sulla serie, per chiacchierare con i protagonisti, e per vincere un iPod touch indovinando cosa succederà nelle puntate successive. RSI.ch/affaridifamiglia www.facebook.com/RSIaffaridifamiglia