№3
del 20 gennaio 2012
con Teleradio 22 – 28 gennaio
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Ticinosette n° 3 20 gennaio 2012
Agorà Olocausto. Memoria e Shoah Letture La scelta di vivere
di
Tiratura controllata 70’634 copie
Kronos Cronopolitica
di
Media Pixar. Meraviglie animate
Editore
Reportage It’s only rock’n’roll
Direttore editoriale Peter Keller
MaRco alloni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di
valentina geRig . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Società Simboli e consumo. Le ragazze di Vuitton Vitae Andrea Pinto
Teleradio 7 SA Muzzano
di
FRancesca Rigotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Chiusura redazionale Venerdì 13 gennaio
di
Fiabe Il ferro di cavallo
di
nicoletta baRazzoni . . . . . . . . . . . . . . .
MaRco JeitzineR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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giancaRlo FoRnasieR; Foto di igoR Ponti . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fabio MaRtini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tendenze Sport invernali. Volando con gli sci
di
MaRisa goRza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Redattore responsabile Fabio Martini
Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Coredattore
Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Giancarlo Fornasier
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RobeRto Roveda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fabio MaRtini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Levante La questione del burka
Impressum
di
Photo editor Reza Khatir
Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55
Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch
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In copertina
Senza titolo Elaborazione grafica di Antonio Bertossi
Per non dimenticare Il prossimo 27 gennaio ricorre, come ogni anno, la Giornata della memoria in cui il mondo intero commemora e ricorda le vittime dell’olocausto . A logica, qualcuno potrà osservare che in realtà ne avremmo dovuto trattare nel prossimo numero che esce proprio in quel giorno . La scelta di anticipare il tema di una settimana è dovuta sostanzialmente a due ragioni: la programmazione editoriale – che da tempo prevede l’uscita in quella data di un numero interamente dedicato alla famiglia – e d’altro lato il desiderio di preparare i lettori a questo importante momento di riflessione . A riguardo ci pare interessante segnalare l’intervista di Roberto Roveda alla professoressa Valentina Pisanty, autrice di un recente saggio sul tema della Shoah . Con argomentazioni acute e anche spiazzanti rispetto all’idea un po’ irrigidita e sacralizzata che media e istituzioni hanno contribuito a formare nell’opinione pubblica, Pisanty tratta non solo dei rischi e degli abusi di cui la Shoah è stata oggetto nel corso degli ultimi decenni, ma anche della necessità di una costante rilettura del fenomeno alla luce delle modificazioni storiche e sociali che avvengono del mondo . Crediamo che la giornata della Shoah – pur nel totale e profondo rispetto di quella che fu la tragedia del popolo ebraico – debba in verità essere dedicata a tutte le vittime dello sterminio, senza esclusioni: dagli ebrei agli zingari, dagli oppositori politici agli omosessuali, dai disabili alle persone comuni . In un momento di grande sfiducia nelle istituzioni politiche e di evidente crisi del sistema democratico, è indispensabile dunque innalzare ulteriormente i livelli di vigilanza civile perché, come
ebbe a dire Primo Levi: “Il lager è il prodotto di una concezione del mondo portata alle estreme conseguenze: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano” . Una doverosa precisazione relativamente al Reportage fotografico che trovate in questo numero di Ticinosette, dedicato alla giovane (e meno giovane) scena musicale ticinese . Per questioni di spazio i musicisti e i gruppi presenti rappresentano naturalmente solo una selezione delle centinaia di persone che suonano, provano, formano e sciolgono formazioni e attivano progetti musicali . E la necessità di una manifestazione come la recente MusicNet di Lugano ne è la dimostrazione più lampante . Il fotografo Igor Ponti e la Redazione propongono dunque nove ritratti che in nessun modo vogliono essere la rappresentazione del “Ticino musicale” . La nostra intenzione è piuttosto quella di catturare un momento della vita artistica cantonale, senza protagonisti e protagonismi, bravi e meno bravi, proposte più o meno “impegnate” o destinate all’olimpo della scena internazionale . E in questo senso è da leggere anche il testo che accompagna le immagini . Si è scelto in questo caso di dare voce a due soli dei musicisti presenti nel Reportage – un gruppo che rientra nell’ambito della ricerca pop/rock e un solista che invece lavora con laptop e tastiere – e questo sia per ragioni di spazio sia per permettere agli interessati di sviluppare il loro pensiero nel modo più completo e articolato possibile . Buona lettura, Fabio Martini e Giancarlo Fornasier
Olocausto. Memoria e Shoah
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di Roberto Roveda
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Agorà
Il genocidio del popolo ebraico occupa un ruolo centrale nella memoria collettiva, tanto da essere percepito come l’evento spartiacque nella storia del Ventesimo secolo e una pietra miliare della coscienza contemporanea. Una considerazione che la Shoah ha conquistato dopo decenni di rimozioni e di amnesie e che non è acquisita per sempre. Perché anche la memoria di questa tragedia non è esente da abusi e manipolazioni
el 1946 nel suo celebre Se questo è un uomo, Primo Levi scriveva: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Nell’immediatezza della tragedia lo scrittore torinese ritornato da poco da Auschwitz sembra cogliere l’esigenza di un invito a non abbassare la guardia, a non dimenticare cosa è accaduto, a conservarne la memoria, conscio della fragilità del lascito di chi dall’universo concentrazionario è uscito vivo e ha potuto narrare ciò che ha vissuto.
A distanza di più di mezzo secolo da queste parole, ci rendiamo conto probabilmente in maniera più concreta di quanto fossero profetiche. Oggi che i testimoni dell’epoca stanno pian piano scomparendo a uno a uno per motivi anagrafici, oggi che la Shoah è solidamente parte del patrimonio culturale e storico dell’uomo, si deve prendere atto del fatto che la memoria di quanto accaduto non è preservata per sempre e non è al riparo da pericoli come la sovraesposizione mediatica, la negazione, la banalizzazione. Per converso, si corre il rischio di elevare la Shoah a totem totalmente avulso dalla realtà in seguito a un processo che potremmo dire di sacralizzazione. Siamo così arrivati non a caso a parafrasare il titolo di un recentissimo saggio, Abusi di memoria. Negare, banalizzare e sacralizzare la Shoah (Bruno Mondadori, 2012) scritto da Valentina Pisanty, semiologa che insegna presso il dipartimento di Scienze dei linguaggi, della comunicazione e degli studi culturali dell’Università di Bergamo.
zionale agli interessi, alle sensibilità e ai progetti di chi la gestisce, e i filtri culturali che selezionano gli episodi ritenuti memorabili dipendono dalle preoccupazioni e dai «pensieri dominanti» delle società cui fanno capo. Non a caso ci sono voluti diversi decenni prima che il genocidio ebraico venisse riconosciuto come un evento di per sé memorabile della storia della Seconda guerra mondiale, decenni di rimozione e di amnesia, nonostante la (o proprio a causa della) vicinanza temporale degli eventi. Fu solo nel corso degli anni Sessanta, dopo il processo Eichmann e la Guerra dei Sei Giorni, e sempre di più negli anni Settanta – con l’enorme impatto mediatico del telefilm Olocausto –, che la Shoah cominciò a ritagliarsi un ruolo centrale nella memoria collettiva, sino a essere percepita, oggi, come l’evento spartiacque della storia del Novecento e come la pietra miliare della coscienza contemporanea”.
“L’espressione «preservare la memoria della Shoah» presuppone che tale memoria sia un oggetto culturale già formato, un monumento che gli storici, con la collaborazione dei media, hanno il dovere di conservare così come la teca di un museo protegge un reperto archeologico”
La memoria del genocidio Professoressa Pisanty, che cosa rappresenta la memoria della Shoah per un ebreo moderno? “È impossibile rispondere sensatamente a questa domanda. Non esiste un unico ebreo-tipo, ma tanti ebrei diversi, ciascuno con il proprio modo di ricordare la Shoah. Chiaramente il ricordo di questo evento è particolarmente lancinante per coloro che, come Primo Levi, vissero all’epoca delle leggi razziali, delle persecuzioni e delle deportazioni, e nel dopoguerra decisero di registrare le proprie memorie a uso e monito delle generazioni successive, senza peraltro distinguere tra destinatari ebrei e non ebrei: «La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». Dunque la domanda che lei mi rivolge è doppiamente fuorviante: non solo non esiste «un ebreo moderno» in quanto tipo generale cui attribuire un atteggiamento standardizzato nei confronti della memoria della Shoah; ma non si vede neppure perché questa memoria dovrebbe interpellare in modo particolare «un ebreo», in quanto contrapposto a un «non ebreo»”.
Perché, a suo parere, è difficile preservare la memoria della Shoah? “Di nuovo, eccepisco sulla formulazione della domanda. L’espressione «preservare la memoria della Shoah» presuppone che tale memoria sia un oggetto culturale già formato, un monumento che gli storici, con la collaborazione dei media, hanno il dovere di conservare così come la teca di un museo protegge un reperto archeologico dagli agenti esterni che rischiano di deteriorarne l’autentica fattura. In effetti la cosiddetta «memoria collettiva» è perennemente in atto di farsi e di disfarsi, di costruirsi e di trasformarsi, proprio su sollecitazione di quegli stessi agenti esterni da cui – a dar retta alla domanda – la si dovrebbe proteggere. Come ha spiegato lo storico Maurice Halbwachs nel 1944, la memoria collettiva è sempre fun-
Il fenomeno del negazionismo La negazione dello sterminio degli ebrei è sempre esistita. Oggi però pare riprendere forza. Perché si sente la necessità di negare la Shoah? A suo parere esiste la possibilità di negare ciò che è successo in buona fede? “Se i negazionisti siano o meno in buona fede è una faccenda che mi interessa poco approfondire. Sono antisemiti? Penso proprio di sì, ma non è delle loro turbe che vorrei parlare. Piuttosto, mi interessano le ragioni per cui un’aberrazione storiografica di scarso seguito e di nessun peso scientifico a un certo punto sia stata lanciata nello spazio pubblico sino a diventare (o a essere percepita) come una reale minaccia culturale, addirittura in grado di condizionare la politica medio-orientale, come dimostra il recente caso Ahmadinejad. Si direbbe che i negazionisti debbano i propri reiterati quarti d’ora di celebrità alla ventura di essersi ritagliati un ruolo all’interno di un ingranaggio culturale più ampio che, respingendoli, li ha accolti”.
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Quando e in che modo i negazionisti cominciarono a conquistare spazio? “Sin dall’immediato dopoguerra vi sono stati alcuni autori isolati che hanno negato lo sterminio. Ma mentre per decenni le tesi negazioniste sono passate inosservate, verso la fine degli anni Settanta il negazionismo ha cominciato a conquistarsi un’udienza allargata. In parte la maggiore visibilità dei negazionisti è dovuta a fattori esterni, quali la crescente distanza temporale dalla guerra, l’emergere delle nuove destre in Europa, nonché un certo clima culturale di scetticismo generalizzato e di dietrologia spicciola che, con la complicità del sensazionalismo dei media, spiana la strada a chiunque voglia ribaltare una qualche verità storiografica accettata, Shoah compresa. Si osservi che il negazionismo inizia a farsi largo proprio nel periodo in cui, superata la fase di rimozione collettiva, la Shoah entra nel circuito della cultura popolare, diventando oggetto di riflessione collettiva, ma anche di banalizzazione spettacolare. In questo contesto, i negazionisti elaborano strategie comunicative più efficaci rispetto a quelle adottate dai loro predecessori”. (…)
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Su che cosa hanno fatto leva i negazionisti? “Se i primi negatori operavano in isolamento, con il risultato che i diversi scritti su questo argomento erano spesso in contraddizione reciproca, dalla fine degli anni Settanta i vari contributi si coordinano tra loro in modo coerente, e dunque più efficace dal punto di vista comunicativo. Nel frattempo i negazionisti europei prendono apparentemente le distanze dall’antisemitismo tradizionale di estrema destra, e ciò allo scopo di creare l’impressione, del tutto fittizia, che sia in corso un dibattito storiografico serio tra due scuole contrapposte: da una parte la scuola «sterminazionista», dall’altro quella «revisionista». Ma soprattutto i negazionisti hanno imparato a sfruttare a proprio vantaggio il circuito dei media, facendo leva proprio sulle reazioni di ripulsa che i loro discorsi suscitano. Ricorda, per esempio, il caso Faurisson1, e poi in seguito i casi dello storico Irving2 e di Williamson3? La sequenza «provocazione negazionista – scandalo mediatico – accorato dibattito pubblico circa i limiti della libertà di espressione» si è ripetuta più e più volte negli ultimi trent’anni, consentendo ai negazionisti di accaparrarsi il ruolo (immeritatissimo) di eretici oppressi da un’ortodossia storiografica gelosa dei propri assiomi. L’ultima cosa che si deve fare per combattere il negazionismo è assecondarne il vittimismo”.
L’aggettivo “sacro” immediatamente rende l’idea di qualcosa di altamente degno di rispetto, importante. Allo stesso tempo sacralizzare significa porre un evento o un fenomeno su un piano a-temporale e a-spaziale. Cristallizzarlo in un universo che lo rende estraneo all’uomo e alla sua esperienza. La Shoah corre questo rischio? “Il rischio c’è. La sacralizzazione sottrae la Shoah dalla serie degli eventi storici per proiettarla in una dimensione «altra», metafisica e metastorica, in cui la memoria viene isolata, riverita e protetta dalle incursioni indesiderabili, eventualmente allo scopo di rivendicare un monopolio sulla scelta degli usi a cui essa può legittimamente dare adito. Un esempio, tra i tanti possibili. Nel gennaio del 1998 i responsabili del Museo dell’Olocausto a Washington si rifiutano di ricevere Yasser Arafat in visita ufficiale con la motivazione che il capo palestinese è un’«incarnazione di Hitler». Caso esemplare di come talvolta la banalizzazione si accompagni ad atteggiamenti sacralizzanti (e viceversa), il divieto di varcare la soglia del museo – onde evitare inammissibili profanazioni – incorpora un’equiparazione indebita. E, di converso, l’assimilazione di Arafat a Hitler ingloba il conflitto israelo-palestinese nello schema (meta-storico, dunque mitico e sacralizzante) dell’eterna lotta tra gli ebrei e i loro nemici di sempre. Citando questo incidente diplomatico, Tzvetan Todorov ha osservato che «la sacralizzazione, o isolamento radicale del ricordo, e la banalizzazione, o assimilazione abusiva del presente al passato» sono due dispositivi complementari che «a volte, paradossalmente, marciano di concerto». Concordo con la sua diagnosi, e aggiungo che gli abusi di memoria di cui più spesso si discute – la negazione, la banalizzazione e la sacralizzazione della Shoah – sono tre pezzi di uno stesso ingranaggio. Tre dispositivi retorici che, pur contrapponendosi polemicamente, si legittimano a vicenda, spogliando la Shoah dei suoi contenuti storici per trasformarla in oggetto di devozione, collante ideologico, categoria di pensiero, prodotto di marketing e, all’occorrenza, strumento contundente”.
“La sacralizzazione sottrae la Shoah dalla serie degli eventi storici per proiettarla in una dimensione metafisica e metastorica, in cui la memoria viene isolata, riverita e protetta dalle incursioni indesiderabili, eventualmente allo scopo di rivendicare un monopolio sulla scelta degli usi a cui essa può legittimamente dare adito”
Banalizzare e sacralizzare la Shoah Professoressa Pisanty, in che modo si banalizza la Shoah? “Quando si parla di «banalizzazione della Shoah» di solito ci si riferisce a due ordini di usi ritenuti impropri della storia del genocidio. Da una parte, alcuni prodotti culturali di massa che sfrutterebbero l’impatto emotivo suscitato dalla memoria della Shoah per autopromuoversi commercialmente, ambientando vicende più o meno inverosimili in contesti concentrazionari che poco o nulla hanno a che fare con la realtà dello sterminio così come ci è stata restituita dai testimoni e dagli storici. Dall’altra, un numero imprecisato di equiparazioni indebite tra la Shoah e altri eventi storici (altri genocidi o eccidi, ma anche episodi violenti di diversa natura), finiscono per minimizzare o per relativizzare la tragedia ebraica, trattando la Shoah alla stregua di «un massacro come un altro». Nel secondo caso, ai banalizzatori è spesso attribuito un movente politico ulteriore, e lo scandalo di simili operazioni riduzionistiche consiste nella strumentalizzazione delle vittime ai fini degli obiettivi ideologici di volta in volta perseguiti. Ma c’è da chiedersi se un principio di banalizzazione non sia già contenuto proprio in ciò che sembra essere il suo opposto speculare, e cioè la sacralizzazione della Shoah da parte di chi, partendo dall’innegabile enormità di questo evento storico, attribuisce a esso un’oscura grandezza mistica che lo renderebbe «unicamente unico» rispetto al flusso della storia umana”.
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Robert Faurisson è un saggista francese, fra i più celebri sostenitori del negazionismo. Faurisson ha concentrato il suo interesse prevalentemente sulle camere a gas e la sua tesi principale è conosciuta come “impossibilità tecnica dell’esistenza delle camere a gas naziste”. Una tesi che è stata più volte smentita da tecnici ed esperti, oltre che dagli storici. David Irving, storico britannico. È autore del controverso Hitler’s war (1977; trad. it. 2001), prima sistematizzazione delle tesi giustificazioniste del nazismo e di ridimensionamento della portata politica e drammatica della Shoah, attraverso le quali ha sostenuto la tesi secondo cui i campi di concentramento sarebbero stati realtà indipendenti dal controllo di Hitler. Per queste teorie nel 2005 è stato arrestato in Austria con l’accusa di negazionismo; condannato a tre anni di carcere, è stato rilasciato nel 2006. Roger Williamson è un vescovo appartenente alla Fraternità sacerdotale San Pio X, fondata da monsignor Marcel Lefebvre. Williamson è noto per le sue posizioni negazioniste della Shoah.
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La scelta di vivere
Fra le migliaia di titoli che compongono la storiografia e la let-
» di Fabio Martini
rigorosa del Gründlichkeit da parte degli aguzzini, la fine di teratura sullo sterminio nazista il volume pubblicato nel 1946 ogni appetito sessuale, la memoria di ciò che si era e la presa da Viktor Frankl, medico e psicologo austriaco (1905–1997), d’atto di ciò che si è divenuti, l’incessante confronto giornaricopre una posizione singolare e di grande liero con la morte, l’impulso al suicidio, sono interesse. Rifuggendo da ogni tentazione tutti aspetti della deportazione che vengono anedottica, Frankl avvertì fin da subito l’uresaminati senza imbarazzo e senza alcuna genza di trasmettere la propria vicenda di tentazione esibizionistica. In questo libro non internato nei lager (che in ordine cronologico si tratta mai di ebrei, cattolici, zingari ecc ma furono Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering solo di vittime e persecutori. III e infine Türkheim) narrata da un punto di Psicologo riconosciuto a livello mondiale nonvista singolare: quello dello psicoanalista che ché autore di numerosissimi testi scientifici, si trova a esperire una condizione estrema. Frankl ha centrato l’intera sua concezione Dettato in soli nove giorni, poco dopo essere dell’uomo e della psichiatria sulla propria tornato a Vienna e aver saputo che i suoi esperienza di internato, come rivelano le genitori, il fratello e la giovane moglie erano seguenti parole, tratte da un altro suo testo, stati assassinati nei campi di sterminio, Uno Homo patiens. Soffrire con dignità: “Che cos’è, psicologo nei lager è paradossalmente una stodunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto coria di sopravvivenza, un’analisi della capacità me forse nessun’altra generazione precedente; dell’uomo di resistere anche di fronte ai più l’abbiamo conosciuto nel campo di sterminio, Uno psicologo nei lager di Viktor E. Frankl inenarrabili orrori. Con lucidità da clinico, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si Edizioni Ares, 2011 egli scandaglia momento per momento le possedeva: denaro potere, fama, felicità; un luogo differenti fasi della vita nell’universo condove restava non ciò che l’uomo può «avere», ma centrazionario, senza nascondere fin dall’inizio al lettore un l’uomo sottratto di ogni cosa; un luogo dove restava unicamente aspetto su cui anche Primo Levi ebbe a soffermarsi, e cioè l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla che “i migliori non sono ritornati”. I rapporti con i compagni, sofferenza. Cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È la feroce lotta quotidiana per la sopravvivenza, l’applicazione un essere che decide sempre ciò che è”.
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La questione del burka Al divieto, per alcuni specifici aspetti condivisibile, di portare il velo integrale alle donne islamiche in vigore in molti paesi occidentali, sono però spesso sottese motivazioni di natura xenofoba e discriminatoria di Marco Alloni
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La proposta di legge per vietare il “velo integrale” sugli au- non ci troveremmo più a dover discutere esclusivamente di tobus, nei luoghi pubblici e negli aeroporti mi trova comple- quanto, e come, e se, la presenza di abiti “socialmente peritamente d’accordo. Non lo spirito con cui viene formulata. colosi” possa mettere a repentaglio la tranquillità della gente: Alla base del rifiuto di quello e di altri capi d’abbigliamento dovremmo bensì interrogarci, ad ampio raggio, se quella che affini non sta infatti la sola preoccupazione per la sicurezza: ci aspettiamo per il nostro futuro è una società di identici o, questa è semmai lo spauracchio per celare un sentimento di viceversa, una società del molteplice e del multietnico. Quachiara matrice xenofoba. Altrimenti detto, alla proposta di lora accettassimo la prospettiva di una società del melting pot legge non si accompagna alcuna dovremmo assicurarle in partenza concreta iniziativa per favorire, un atteggiamento etico e critico invece che limitare, l’espressione tale da rendere qualsiasi decisione della diversità e dell’alterità cultutendenzialmente discriminatoria, rale e religiosa. In essa è esplicitasubito e senza indugi, svincolamente ribadito il principio secondo ta dall’ipotesi o dal sospetto del il quale l’adattamento alle norme pregiudizio. Insomma, dovremmo della cultura e della società di illustrare chiaramente alla popolaarrivo – per qualunque forma di zione che non ci troviamo di fronte diaspora – deve produrre quella a una forma di persecuzione ma a che si potrebbe chiamare una “liun atto di accoglienza responsabile. mitazione” della propria libertà di espressione culturale. Ma qui Apertura culturale il problema si pone in tutta la sua Fra questi due ambiti il discrimine rilevanza. Cosa significa ribadire è sottile e le ambivalenze rischiano che è l’ospite a doversi adattare di essere troppe. Come agire allora? al contesto di arrivo? Cosa impliInnanzitutto, nel limite del possica, laddove contemporaneamente a bile, sottraendo alla formulazione questa esortazione non si accomdi un progetto di legge quel caratpagna una chiara dichiarazione tere perentorio di rifiuto, e ancora Illustrazione tratta da www.paper-resistance.org di accoglienza del diverso? È su peggio di decisione presa dall’alto, questo punto che il problema del che esclude sul nascere l’opportuburka – come erroneamente viene definita qualunque tipo- nità di un’adesione consapevole da parte delle persone che logia di “velo integrale”, compresi quelli mediorientali che potrebbero venirne colpite: cioè, in primis, gli immigrati della burka non sono – mostra il suo aspetto deteriore: nel non diaspora. Poi cercando di rendere partecipe la cittadinanza inquadrare eticamente la questione del velo nel più ampio di un dibattito in cui la problematica del “velo integrale” sia dibattito sulle prospettive di confronto culturale fra autoctoni esaminata in quanto questione della convivenza pacifica fra ed extracomunitari. diversità, ovvero rendendo edotti i cittadini sul fatto che la diversità è prima di tutto una ricchezza e non un pericolo. Senza Allargare il confronto questa indispensabile puntualizzazione a priori e senza la Posto in termini strettamente legali, infatti, non v’è dubbio dovuta insistenza sul carattere di apertura culturale entro le che la circolazione indiscriminata di persone irriconoscibili, dovute restrizioni di legge dei provvedimenti nei confronti deavvolte in questa o quella forma di “velo integrale”, vada gli stranieri, il rischio è che si venga a produrre l’ennesima crisi respinta come contraria a una società liberale, entro i limiti di rigetto con conseguente ripiegamento identitario: invece di dell’individuabilità. Ma posto in termini più ampi è evidente produrre cittadini consapevoli della propria funzione storica, che una legge siffatta non si presenterebbe che come discrimi- si finirebbe per subire la storia come una penalizzazione e una natoria nei confronti delle diversità e non avrebbe sulle culture ghettizzazione – con l’ovvio corollario di un’estremizzazione della diaspora che un significato persecutorio. Bisogna dunque delle differenze. In altre parole, proporre una misura di legge intervenire da subito affinché il dibattito sia allargato dalla che riduca i rischi di attentati e comportamenti lesivi della sfera della mera sicurezza a quello più ampio dell’accoglienza e collettività è del tutto comprensibile e legittimo. Farlo senza dell’integrazione delle alterità. In questo secondo caso, infatti, le adeguate precisazioni è, questo sì, davvero pericoloso.
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Cronopolitica La pressione del tempo, in costante e frenetica accelerazione, sulle modalità dei processi democratici finirà forse per sabotare i principi fondanti della democrazia? testo di Francesca Rigotti illustrazione di Antoine Déprez
Durante migliaia di anni di convivenza con l’uomo, il tempo se ne è stato lì buono buono. Scorreva uniformemente a mo’ di fiume (il “fiume del tempo”), distribuito nelle sue tre parti canoniche di presente, passato e futuro, che non erano certo equivalenti giacché il passato è immenso, il presente è un punto e il futuro ancora non esiste. Eppure il suo comportamento era tutto sommato tranquillo e rassicurante. Ma sotto la cenere il fuoco covava; il fuoco della “accelerazione” del tempo che oggi ci ha quasi completamente travolti.
Tempo, uniforme e accelerato Quando è iniziato il processo? Nel Cinquecento con le grandi esplorazioni? Nel Seicento coi traffici intercontinentali? Nel Settecento con l’affermarsi dei commerci? Non si dimentichi che fu nel corso del XVIII secolo – nel 1784 per la precisione – che Benjamin Franklin se ne uscì con il motto “il tempo è denaro”, espressione che sottolineava la mobilità oltre che la scarsità dei due elementi proponendone l’analogia. Certo è che da un certo momento in poi il tempo ha cominciato a muoversi più in fretta, ad andare più veloce o, per meglio dire, gli eventi hanno iniziato a correre all’interno del tempo (se per accelerazione si intende un aumento di velocità nell’unità di tempo). Così, se all’epoca del tempo uniforme la sensazione prevalente di coloro che lavoravano era la fatica – cui corrispondeva la noia per i nobili, che non lavorando non sapevano come riempire la giornata –, nella nostra epoca dove il lavoro fisico lo svolgono prevalentemente le macchine, la sensazione è quella dello stress, da intendersi come la tensione che nasce dal comprimere tante attività entro un lasso di tempo breve, cercando di dominarne la complessità. Il tempo come nuovo lusso Con questa metamorfosi il tempo è diventato un genere di lusso, come il silenzio e il buio: anzi, il genere di lusso più importante, e sono proprio le élite dirigenti le categorie che meno ne godono, costrette a essere continuamente disponibili e a rispettare agende di appuntamenti fissati con anni di anticipo. Il tempo è un bene, dunque, un bene prezioso che scorre ed è liquido come l’acqua e il denaro, un bene raro che non può nemmeno essere recuperato come il denaro perduto: una volta consumato non c’è più e non c’è accelerazione che possa
porre rimedio alla perdita. Persino il computer si è rivelato uno strumento ambiguo rispetto al “risparmio” di tempo, perché la promessa di un guadagno balenata ai nostri occhi con gli inizi della rete si è trasformata nel suo contrario, dal momento che spesso “perdiamo” con la raccolta di informazioni inutili, con l’esercizio di futili divertimenti o coi tentativi di rincorrere l’aggiornamento dei programmi, più tempo di quanto ne “guadagniamo” grazie alle sue applicazioni. Una nuova disciplina: la cronopolitica Passando all’aspetto politico della faccenda, quanto le democrazie – caratterizzate da decisioni lente e da lunghi tempi di riflessione – potranno resistere alla condizione di mancanza di tempo generalizzata? Pensiamo e decidiamo troppo lentamente di fronte alle realtà che stanno vorticosamente cambiando? Già alcuni leader politici europei come Tony Blair o Gerhard Schröder hanno manifestato avversione nei confronti delle procedure parlamentari che non farebbero che rallentare, secondo loro, l’attuazione di decisioni la cui giustezza, priva di alternative, è già stata decretata da molto tempo dagli esperti del governo (come scrive Lothar Baier in Non c’è tempo! Diciotto tesi sull’accelerazione, Bollati Boringhieri, 2006). La pressione del tempo sulle modalità dei processi democratici e un’eventuale modifica di questi diretta ad abbreviare le procedure, finirà per sabotare i principi della forma di governo democratica, la migliore che si sia riusciti a inventare finora? Propongo di affidare queste analisi a una nuova ipotetica disciplina che si potrebbe chiamare cronopolitica, che non dovrebbe dimenticare che la fretta nuoce al pensiero, come diceva Platone, e favorisce la comparsa di sofisti. Introduco il termine di cronopolitica in assonanza con quello di biopolitica, divenuto centrale nella filosofia a partire dal pensiero di Foucault e che indica le pratiche con le quali la rete di poteri gestisce le discipline del corpo e le regolazioni delle popolazioni. Se la biopolitica rappresenta l’area d’incontro tra potere e ambito della vita, la cronopolitica potrebbe indicare l’incontro tra potere e sfera del tempo, e invitare all’analisi delle forme di controllo, organizzazione e disciplinamento del tempo da parte del potere, con un occhio rivolto al rallentamento e alla ricchezza che esso comporta per il pensiero.
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Meraviglie animate Come nascono il pesciolino Nemo, il topo chef Remy, i giocattoli Woody e Buzz? Una mostra a Milano festeggia i venticinque anni della Pixar e svela il backstage di questo magico mondo formato cartoon di Valentina Gerig
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Da bambina passavo ore e ore a guardare le illustrazioni dei libri Disney. Io li chiamavo “i libri con il marchio” perché avevano l’inconfondibile sagoma di Topolino come logo. Quando andavo al cinema, il castello blu che appariva sempre all’inizio dei cartoni animati era per me una garanzia. Mi avrebbe immersa in un mondo magico di colori e personaggi che difficilmente avrei dimenticato. I bambini (e gli adulti) di oggi hanno imparato a conoscere un altro inconfondibile simbolo del mondo dei cartoon: una lampada da tavolo bianca particolarmente irrequieta che balza qua e là sul grande schermo. Il nome non ha bisogno di presentazioni. Basta dire Pixar e la mente corre subito al pesciolino Nemo, al cowboy giocattolo Woody, alla casa di palloncini del burbero signor Fredricksen, al topolino chef Remy, al robot romantico Wall-E. Sembra ieri, ma la casa di produzione cinematografica americana che per prima ha realizzato lungometraggi di
animazione interamente in computer grafica, ha appena compiuto 25 anni di attività. Per l’occasione a Milano – fino al 14 febbraio prossimo – è in corso al PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea, una mostra davvero interessante che celebra gli incantevoli personaggi della Pixar e il complesso processo creativo che sta dietro al rivoluzionario mondo in formato cartoon. L’esposizione è itinerante: dal MoMA di New York, passando per Hong Kong e Shanghai, è sbarcata ora per la prima volta in Europa. Ebbene, la sorpresa maggiore nel visitare la mostra, sta nello scoprire che la tecnologia in mano ai maghi del 3D e agli animatori geniali della Pixar è solo una piccola parte del successo di questa casa di produzione con base a Emeryville, in California. Il vero segreto sono le storie. Già, perché, in fondo, cosa sarebbero delle impeccabili e meravigliose immagini in sequenza, senza un avvincente intreccio, un personaggio che ti entrerà per sempre nel cuore?
Mister Pixar Il primo a esserne convinto è John Lasseter, co-fondatore e anima creativa della Pixar. In ogni intervista e fotografia appare con una camicia hawaiana di qualche colore sgargiante e ha l’aria di non rendersi proprio conto di essere il “mister Disney” del nuovo Millennio. La Pixar Animation Studios nasce proprio dalle sue idee. Lasseter inizia la carriera in Disney poi si interessa sempre di più alla computer grafica, senza abbandonare l’amore per il disegno animato. Spinge talmente sulle nuove tecnologie che alla Disney lo licenziano. Ma sarà la sua fortuna. Lasseter conosce George Lucas (uomo simbolo della nuova Hollywood, regista e produttore di saghe come Guerre Stellari e Indiana Jones) e inizia a lavorare nel team della sua Lucasfilm, nella piccola divisione grafica a cui viene dato il nome di Pixar. La svolta arriva nel 1986 quando un giovane investitore con un infallibile fiuto per gli affari, la acquisisce per dieci milioni di dollari, rendendola indipendente. Quell’uomo si chiamava Steve Jobs. La Pixar inizia una collaborazione strettissima con la Disney, con cui realizza tutti i suoi lungometraggi, a partire dal primo, rivoluzionario Toy Story, con protagonisti principali un gruppo di giocattoli che sembrano fatti in plastilina. Il sodalizio prosegue tra alti e bassi, fino a una quasi rottura nel 2004, e poi alla sorprendente acquisizione per 7,4 miliardi di dollari da parte della Disney nel 2006: l’intuito di Steve Jobs, ancora una volta, è determinante. Nelle interviste che rilascia, Lasseter spiega sempre quanto l’intreccio e la caratterizzazione del personaggio siano importanti in casa Pixar, perché “la tecnologia, da sola, non ha mai divertito nessuno”. Non è un caso che il suo film di animazione preferito, quello che l’ha ispirato nella sua carriera di disegnatore e regista agli esordi, sia un super classico come Dumbo, del 1941. “Ho imparato molto da questo cartoon, come studente e giovane animatore alla Disney. Dumbo dura solo 64 minuti, è così conciso nel racconto, è divertente, emozionante e ha una delle scene più commoventi mai realizzate” ha raccontato Lasseter, riferendosi alla sequenza in cui il piccolo elefantino con le orecchie enormi va a trovare la mamma rinchiusa in gabbia. I due non si possono vedere, ma riescono a toccarsi intrecciando le loro proboscidi. Dumbo è anche l’unico cartoon Disney in cui il personaggio principale non dice una parola in tutta la pellicola. Tanti anni dopo, nel 2008, anche la Pixar sceglierà di far pronunciare al robottino Wall-E solo pochi suoni. E anche lui, in una delle sequenze più intense, riuscirà a intrecciare la sua mano meccanica all’amata Eve.
Tra futuro e tradizione Lasseter può contare su una squadra di disegnatori, animatori e tecnici di prim’ordine, mossi soprattutto da una grande passione. Regola numero uno: mai realizzare un film che non appassiona per primi loro stessi, e poi i loro figli e nipoti. Forse anche per questo i cartoon targati Pixar piacciono tanto ai grandi (giovani e meno giovani) anche senza bambini a seguito. C’è un documentario del 2007, intitolato Pixar Story, realizzato da Leslie Iwerks, che ripercorre molto bene gli anni “folli e affamati” (per dirla alla Steve Jobs) della casa cinematografica di Emeryville. Le scelte difficili, i passi falsi e poi il successo, travolgente, di personaggi come i giocattoli Woody e Buzz. E poi ancora, la pressione di dover replicare il botto, quindi l’invenzione dell’esercito di formiche di Bug’s, seguito dalle creature mostruose di Monsters and Co. e dall’incantevole pesciolino Nemo, che supera tutti i record e diventa un classico da subito. “Ogni ufficio è una tela da riempire” spiega uno dei registi nel documentario: il lavoro di squadra, dove il contributo di ciascuno è indispensabile, è sicuramente una delle ricette del successo. Nel documentario compare anche un entusiasta Steve Jobs, orgoglioso della sua creatura che fabbrica meraviglie animate. “Tutti conoscono la Pixar per i suoi film. Ciò di cui non ci si rende conto è che insieme all’animazione al computer, per ogni film si creano migliaia di lavori di arte tradizionali: disegni, dipinti, sculture” ha dichiarato a Milano John Lasseter, che ha anche svelato quando ha deciso di scegliere questo mestiere magico, invidiato da grandi e piccoli: “Mia madre era un’insegnante di storia dell’arte. Amavo molto disegnare e a 14 anni e scoprii che chi disegnava fumetti e cartoni animati veniva anche pagato. Fu una rivelazione”. La mostra visitabile ancora per poche settimane nella capitale lombarda, ha il merito di svelare l’anima più artigianale di casa Pixar e i suoi capolavori su carta: a olio, a pennarello e matita, a pastello. Per gli amanti degli effetti speciali ci sono anche due installazioni, una giostra turbinosa e uno schermo al buio con i personaggi più celebri della casa cinematografica. L’ultima stanza è invece dedicata al prossimo lungometraggio che uscirà nei cinema statunitensi a giugno. Per la prima volta la protagonista sarà femminile: una principessa scozzese giovane e ribelle con una cascata di capelli rossi e gli occhi blu, che scatenerà il caos nel suo regno. Il titolo è Brave ovvero “coraggiosa”... una virtù che alla Pixar sicuramente non manca.
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Le ragazze di Vuitton Le fanatiche degli articoli firmati si concedono borse, valigie e accessori dai prezzi esorbitanti e proibitivi. Ma che cosa si nasconde dietro al prezzo della grande firma? di Nicoletta Barazzoni
Una volta entrati nel negozio modaiolo del prestigioso marchio della International Luxury Leather Goods insediatosi nella suite cittadina confrontiamo i prezzi dell’inconfondibile pelletteria firmata Louis Vuitton. L’addetto alla sicurezza ci lancia uno sguardo indagatore, probabilmente perché la nostra “tenuta” non appare adeguata al corredo e all’arredamento dell’elegante negozio, all’interno del quale le vetrine esibiscono le creazioni fashion. A distanza di alcuni mesi ritorniamo nel lussuosissimo punto vendita, questa volta con un abbigliamento convincente, e veniamo accolti gentilmente dalla responsabile, la quale ci riserva un trattamento ossequioso.
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soprattutto le influenze e i condizionamenti dello stile di vita e della conformità che lo stesso modo di vivere esercita su un determinato gruppo sociale. All’interno di queste tendenze si manifestano differenze collettive (o omologazioni) nei confronti di un bene di qualità superiore, rivelando un connotato distintivo di status, sfoggiato da una categoria eterogenea di donne per emulazione e senso d’appartenenza.
Segni di classe Non è nostra intenzione cercare di indagare le caratteristiche della personalità di chi veste Vuitton, abbandonandoci a giudizi infondati, innanzitutto perché smontare la scatola nera dei processi cognitivi Un viaggio improbabile sul consumo degli individui è un Le chiediamo lumi sull’ultimo moprocedimento molto complesso, e dello pubblicizzato da Angelina poi perché sarebbe riduttivo ferJolie, ritratta e mimetizzata sul flomarsi alle apparenze. Si può tutating village, la tipica imbarcazione tavia distinguere questo consumo utilizzata per risalire i laghi e i fiumi vistoso e diffuso – la cui valenza della Cambogia. Con lo slogan “un simbolica soddisfa piuttosto l’irrasolo viaggio può cambiare il corso di zionalità dell’ego – come un’icona una vita” il commercial diffonde l’imprestigiosa del riconoscimento eliplicito messaggio che, con la borsa tario e di classe, soprattutto per i Vuitton, puoi dare una sferzata al suoi rimandi alla regalità, ai grandi Il logo di Louis Vuitton (www.hhaltime.com) tuo destino. Il contrasto povertà alberghi di lusso e ai jet privati. Diecontro ricchezza potrebbe inoltre tro la creazione della borsa Vuitton voler insinuare che l’indigenza dei cambogiani non è un tuo ci sono sofisticatissime logiche di mercato. Per la marca di problema perché se hai la borsa sei forzatamente benestante e orologi Swatch, per esempio, il tempo è uguale per tutti ma viceversa. È poco probabile che gli esperti del marketing della è l’orologio a rendere unico chi lo indossa. Per la Vuitton la Vuitton si siano trasferiti in Cambogia per realizzare lo spot borsa è anche un’etichetta ostentativa, con il monogramma pubblicitario, anche perché Angelina Jolie non avrà voluto personalizzato da imprimere sul modello preferito. La Vuitton sottoporsi alla profilassi contro la malaria. A parte il fatto controlla una vasta quota di mercato nel mondo della moda, che la trovata è una mancanza di rispetto nei confronti della con borse e valigie vendute a un prezzo altissimo. Anche per miseria di un paese come la Cambogia, ancora sofferente per questo le contraffazioni Vuitton si sprecano. Una borsa falsa i segni della guerra, la location sarà stata identificata in una la si riconosce dall’inconfondibile “V” che non deve essere qualche zona paludosa del delta del Po. impressa sulle cuciture e nemmeno tagliata dai bordi perché, Proseguiamo il nostro viaggio nell’universo Vuitton, osservan- in tal caso, è “taroccata”. Una volta riconosciuto al design do le studentesse universitarie, molte delle quali si aggirano raffinatezza e ricercatezza, una volta raggiunto uno standing nel parco, accessoriate di borse e borselli. Ma perché li sogna- di vita inarrivabile alla maggioranza, una volta comperato no, li vogliono e li acquistano? La concezione dell’economista il borsellino o l’accessorio annessi (per avere il pendant con e sociologo Thorstein Bunde Veblen stabilisce che il possesso il resto della collezione), bisognerà annunciare in anticipo della ricchezza è la base della reputazione e della stima. Inol- l’acquisto dell’articolo alla compagnia assicurativa in caso tre è scientificamente provato che le preferenze dei singoli di furto. Nel frattempo i corteggiatori delle ragazze Vuitton individui si formano attraverso una serie di interdipendenze dovranno pianificare l’impegno finanziario, preparandosi sociali. Alcuni studi psicosociali hanno infatti identificato le all’investimento di un armadio capiente e contribuendo così dinamiche con cui si sviluppano le relazioni tra individui ma anche agli utili del gigante mondiale del guadagno creativo.
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Lo ŠKODA Yeti sta vivendo una vera storia di successo in Svizzera! Pur essendo stato liberato solo da poco tempo, è già entrato a far parte della cerchia dei fuoristrada compatti più amati. Sia nella versione con trazione anteriore che in quella 4x4 lo ŠKODA Yeti si è diffuso, in breve tempo, in ogni angolo del nostro Paese, mettendo in mostra i suoi lati migliori su qualsiasi terreno. Il sistema modulare VarioFlex, la vasta scelta di motorizzazioni o l’impressionante assistente di partenza in salita e in discesa sono solo alcune delle notevoli qualità che lo contraddistinguono. Venite a scoprirlo da vicino, informatevi sugli attuali bonus EURO presso il partner ŠKODA nelle vostre vicinanze e approfittate dell’offerta promozionale «Effettuare un giro di prova e vincere un’auto». www.testing-skoda.ch
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» testimonianza raccolta da Marco Jeitziner; fotografia di Igor Ponti
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Andrea Pinto
Vitae
chia caldaia delle Officine di Bellinzona, elemento per elemento. Tutto il materiale di quella centrale, che era enorme, è stato smaltito in discarica a Kloten. I sacchi di amianto si buttavano nella betoniera e venivano incementati per non far vagare nell’aria le particelle. Non c’è altra maniera per smaltire. Il nostro lavoro era ben retribuito perché è pericoloso. Ma alcuni entravano nella “zona” senza maschera, allo sbaraglio, ignari del pericolo e bisognava richiamarli. Questo lavoro l’ho fatto per otto anni ma poi ho smesso, perché c’erano problemi con la ditta, non si trovava Treni, aziende, case, scuole infestate. Ma personale. Chi trovi per fare per ridurre la propagazione di particelle un lavoro del genere? Arricancerogene, l’amianto deve essere elimi- vava gente di 50, 55 anni che non rendeva niente: ci nato del tutto. Un lavoro pericoloso che mettevano una giornata per qualcuno deve necessariamente compiere un lavoro che noi facevamo in due ore… stati all’oscuro del problema: In Ticino secondo me ci sono ancora grossi che l’amianto fosse una gran edifici non ultimati, per via dei costi elevati porcheria, lo sapeva solo chi di smaltimento: si parla di bigliettoni da lavorava in ferrovia e chi vi mille, e poi bisogna trovare dove metterlo, si avvicinava. C’era gente prima di esportarlo. Non penso che molte che lo sottovalutava semaziende spendano due milioni di franchi pre: “cosa vuoi che mi faccia per “tirare giù” il tetto perché è pieno di quella polverina blu? È inamianto. Negli anni Novanta dicevano che nocua!”, dicevano. E invece entro il 2000 il problema sarebbe stato deè pericolosissima, altamente finitivamente risolto, ma secondo me non tossica per i polmoni. Uno l’hanno risolto ancora adesso, dieci anni pneumologo me l’ha condopo. Venti anni fa se ne sono accorti, “si fermato: è proprio una “beè accesa la lampadina”, hanno deciso di stia” quest’amianto! Essendo incementare, usare le betoniere, sotterrare un minerale, hanno sempre tutto a Ponte Tresa, in territorio svizzero, pensato che fosse innocuo, e ricoprire di terra. Adesso c’è un prato ma in realtà le sue particelle verde e magari sopra ci hanno costruito non escono più dai polmoni: delle villette… è questo il problema della Oggi penso che ognuno dovrebbe assusilicosi. Entrano e si conficmersi le proprie responsabilità: se si è a cano ed è impossibile tirarle conoscenza che il proprio edificio contiene fuori: non esiste un aspiraamianto, si deve provvedere a risanare, perpolvere per i polmoni! ché è troppo pericoloso per l’essere umano. Il lavoro più duro è stato un Io mi sento ancora fortunato: c’è gente grande negozio di cinque che lavorava in ferrovia ed è morta perché piani a Zurigo, un’opera da ignorava il problema. Se ne sono accorti a sei milioni di franchi, non so distanza di venti, trent’anni che la morte nemmeno quanti operai. Si non era dovuta a cause naturali ma per la preparavano le “zone” e le si silicosi e l’asbestosi. Malgrado abbia sempre faceva una alla volta, ognuadottato le misure di precauzione, un po’ di na di cento, centocinquanta conseguenze le ho avute: lo stato dei miei metri quadrati: la si risanava, polmoni non è più quello del 1989. Ho un la si riapriva al pubblico, calo di respirazione notevole, essendo stato poi si chiudeva l’altra zona, esposto a lungo. Tornando indietro nel ecc. Avevamo anche smontempo, non lo rifarei nemmeno per venti tato completamente la vecmila franchi al mese!
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ntravamo nella “zona” indossando tute speciali di carta monouso, maschere integrali pressurizzate e poi si buttava via tutto. Ho iniziato negli anni Novanta a lavorare con l’amianto, fino a diventare responsabile e delegato in vari cantieri sparsi in Svizzera. Ci occupavamo di eliminarlo dai vagoni ferroviari, ma abbiamo lavorato anche per stabili pubblici, scuole, fabbriche, asili, garage, ecc. Benché il tema fosse già conosciuto, alle ferrovie non avevano l’attrezzatura per poter fare questo tipo di attività. Lavoravano senza maschere, senza protezione, poi hanno avuto degli operai colpiti da asbestosi e silicosi, finché hanno provveduto a ingaggiare una ditta specializzata, essendosi accorti dell’entità del pericolo. A Interlaken, per esempio, alla fine della rotaia, praticamente in mezzo ai prati, si faceva la “zona”, si entrava alle sette di mattina e si usciva alle nove, bisognava fare la doccia per “essere neutri”, si rientrava alle nove e mezza fino alle undici e quarantacinque, poi si riusciva, doccia, e via dicendo. Le scocche in ferro erano rivestite di amianto per il rumore acustico, per le sue proprietà anti-incendio, ma anche le tubature e le pareti erano piene di amianto. Quando si accorgevano che c’erano delle particelle, ci veniva dato il vagone, smontavamo la scocca internamente finché restava solo la ferraglia. Avevamo quattro giorni di tempo per finire il lavoro. Si misurava la contaminazione prima e dopo l’intervento, poi si puliva e smaltiva, a costi elevati per ogni vagone. Riconsegnare il vagone con zero percento di amianto al metro cubo è impossibile, però arrivavamo a 28 particelle rispetto alle 2.200 di quando ce lo davano. Ne abbiamo fatti tantissimi… I viaggiatori sono sempre
It’s only rock’n’roll
“Quando lo conobbi, Iggy era un ragazzo strano: viveva con una cassa di birra al giorno e una fetta di pizza. Viveva di birra ed era magro come un chiodo. La prima volta che ci incontrammo mi raccontò di come gli piacesse star sveglio tutta la notte a sentire il suono di una chitarra elettrica con le sei corde accordate alla medesima nota: era un suono feroce, come quello di un aeroplano in partenza” a cura di Giancarlo Fornasier; fotografie di Igor Ponti
sopra THOSE FURIOUS FLAMES thosefuriousflames.com; thosefuriousflames@gmail.com Quartetto di stampo “rock” nato nel 2003, assai noto nel Cantone e dall’intensa attività live. L’attuale formazione comprende Yari (voce), Yann (chitarra), G.B. (basso) e Big Boss (batteria). Ultimo lavoro: Trip to deafness (cd, 2010)
in apertura PETER KERNEL peterkernel.com; peter.kernel@me.com Atipico duo svizzero-canadese “art punk” attivo dal 2005, vivono nel Luganese. Si muovono tra musica e arti visive. Il progetto comprende Aris (chitarra e voce) e Barbara (basso e voce). Ultimo lavoro: White death black heart (cd/12" vinile, 2011)
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l panorama musicale internazionale è oggi estremamente frammentato e la proliferazione di gruppi e musicisti è impressionante: basta gettare uno sguardo ai più noti portali dedicati al pop/rock per farsi un’idea della sterminata schiera di musicisti che, con livelli di esperienza e capacità tecniche assai diverse, riempiono i siti di fotografie, monografie e infinite elencazioni di concerti e live act. Certo, un ottimo segno di vitalità artistica, anche se di fronte a questo ventaglio di proposte, stili e ricerche musicali il fruitore/consumatore è spesso più in balia di discutibili esercizi di marketing che di serie e concrete realtà musicali. E così tutti appaiono “bravi e originali”, dediti a profonde ricerche personali; le voci critiche sono assai poche, il passaparola condiviso della rete e il classico pollice alzato (“mi piace!”) tanto generalizzati da diventare inutili. Ma se ciò crea uno stato confusionale in chi è alla ricerca di novità – tra album recenti che sembrano vecchi di trent’anni e sconosciute formazioni degli anni Ottanta ormai scioltesi che, al contrario, potrebbero essere la nuova grande scoperta della stampa specializzata e dei portali online –, come vivono i musicisti questo incessante magma di nomi e suoni, dove tutti sono artisti e performer? Quali difficoltà devono affrontare coloro che cercano di proporre, far conoscere, distribuire e rendere accessibili le loro idee?
citazione Il brano presente nella copertina del Reportage è tratto da un’intervista a John Cale (polistrumentista e produttore, già membro dei Velvet Underground) raccolta nell’inverno 1984-’85. Cale racconta il suo primo incontro con Iggy Pop, istrionico front man dei seminali The Stooges di Detroit, avvenuto alla fine degli anni Sessanta (da Rockin’ USA, volume di Alberto Campo e Guido Chiesa, Arcana, 1986, p.14)
Due esempi ticinesi: Stendeck e i Peter Kernel “Quando ho iniziato a comporre mi sono reso conto che era inutile cercare di far musica con l’intento di avere successo” ci confida Alessandro Zampieri, per tutti Stendeck, demiurgo dedito all’elettronica e alla manipolazione digitale, “ma tanto valeva concentrarsi a comporre liberamente, senza seguire degli schemi o imporsi dei limiti; fare semplicemente musica per me stesso, in maniera spontanea. Questo ha dato i suoi buoni frutti… ma ogni carriera musicale nasce seguendo le strade più diverse…”. Aris Bassetti, membro fondatore dei luganesi Peter Kernel e da oltre 15 anni sui palchi con varie formazioni di stampo noise/indie rock aggiunge altro: “Credo che ogni musicista deve ammettere le proprie intenzioni. Ci sono gruppi che suonano una volta all’anno e altri quaranta volte; chi suona solo nei club della propria città e chi ovunque; c’è chi copia e chi esegue cover di altre band; gruppi che si prendono troppo sul serio e chi non lo fa abbastanza; chi suona per incontrare gli amici e gruppi che si iscrivono a tutti i concorsi musicali… E poi ci sono coloro che pagano per poter suonare. Se le intenzioni sono quelle di emergere e farsi notare serve la gavetta, e quindi è necessario sacrificare ogni ora libera per la musica e muoversi nel modo più professionale possibile. È una scelta di vita. Se poi non si vuole scendere a «nessun compromesso», proporre musica «non commerciale» e si proviene da una regione periferica... allora tutto si complica. È una sfida continua. Altrove ci sono occasioni in più, ma ci sono anche molti più concorrenti: appena metti la testa fuori dai confini sei uno dei tanti in circolazione. Per questi motivi uno dei passi fondamentali prima di investire molto tempo nella promozione è sviluppare una propria precisa identità musicale”. Come per tutte le forme d’arte, anche nel pop e nell’elettronica l’approccio personale è fondamentale. Ma la chitarra ha sei corde, le note sono dodici e il rock ha oltre sessant’anni di storia e di sperimentazioni alle spalle. Per non parlare del jazz e del blues. A volte è proprio la mancanza di personalità quella che pare non prendere forma. “Oggi è stato fatto di tutto, quindi è impossibile sentire qualcosa di veramente nuovo” ammette ancora Aris; “ma lo sforzo di cercare un proprio stile riconoscibile deve essere fatto. Bisognerebbe sempre chiedersi: «Che cosa ho io che non hanno gli altri?». Noi, per esempio, (...)
TATUM G RUSH | tatumgrush.com; giorda175@hotmail.com Giovane e talentuoso cantautore e chitarrista nato a San Diego, cresciuto in Ticino, oggi vive e studia a Ginevra. GiĂ nel progetto Meadow, collabora con vari musicisti nazionali e internazionali muovendosi tra jazz e indie. Ultimo lavoro: Tropial mystics (cd, 2011)
PIACE? | piace.ch; piace@bluewin.ch Gruppo locarnese formatosi nel 2007, comprende Josh (voce), Dodi (chitarra e voce), Stef (basso), Fux (batteria). Si definiscono come “una versione ticinese” dei tedeschi Die Toten Hosen, un “misto di punk rock e musica popolare”. Ultimo lavoro: Emm esageraat! (cd, 2010)
THE V.A.C. | myspace.com/ourbandnameisthevac; thevac@hotmail.com Originario di Brusino Arsizio, il gruppo è attivo dal 2001. L’attuale formazione comprende Matteo (batteria), Levon (chitarra e voce), Paul (basso) Gianmaria (voce e chitarra). Che musica propongono? “Garage-samba-post phunk-swingedfolk”... Ultimo lavoro: The best album cover ever (cd-EP, 2009)
FABIO BESOMI | myspace.com/tompeakap; fabiobesomi@me.com Chitarrista e compositore vive e lavora tra Lugano e Zurigo. Collabora in diversi progetti musicali (Tom Pea, Meadow, Roberto Pianca) e ha fondato l’associazione “Il Domani” che propone regolarmente eventi musicali “senza troppi vincoli artistici”. Ultimo lavoro: Meadow (cd-EP, 2009)
STENDECK | stendeck.com; info@stendeck.com Il luganese Alessandro Zampieri fonda il suo progetto nel 1999. Nome noto della scena IDM (Intelligent Dance Music), Stendeck è oggi un vero laboratorio di ricerca sonora aperto a influenze artistiche e collaborazioni assai diverse. Ultimo lavoro: Scintilla (cd, 2011)
ROBERTO PIANCA | robertopianca.wordpress.com; robertopianc@gmail.com Compositore e chitarrista jazz, ha studiato musica al Conservatorio di Amsterdam. Oltre a suonare con un suo trio, vanta diverse importanti collaborazioni in Svizzera e all’estero. È in fase di lavorazione un album con il progetto Third Reel (in uscita nel 2012)
ZENO GABAGLIO | zenogabaglio.com; info@zenogabaglio.com Musicista e critico musicale molto conosciuto in Ticino, ha studiato pedagogia musicale e filosofia. È noto per le sue ricerche sul violoncello elettro-acustico. Si muove tra concerti, performace, cinema e numerose collaborazioni. Ultimo lavoro: Gadamer (cd, 2009)
stiamo ancora lavorando molto sull’identità musicale e su quella visiva – grafica, video, foto e t-shirt –, perché siamo convinti che sia decisiva per il 50%. Il resto è fatto di professionalità quando si parla con i promoter di un locale e quando si cercano date per i concerti; attenzione ai nuovi canali di promozione gratuiti e facilmente gestibili in rete; interazione costante con chi ti segue su Facebook, Twitter, ecc.; essere sempre pronti a esibirsi e non aspettarsi che gli altri ti cerchino; mantenere i contatti maturati nei precedenti tour; dare il massimo a ogni concerto, anche se davanti a te hai una sola persona. E poi c’è il fattore fortuna... Purtroppo vedo ancora troppe persone che credono molto in attività di dubbio carattere culturale, come i concorsi musicali e personalmente sono convinto che la musica non debba essere messa in gara. Nel nostro caso, dopo anni di lavoro solo ora abbiamo una rete di persone che credono in noi e grazie a loro riusciamo a suonare spesso. Abbiamo scelto di investire sull’attività dal vivo, perché siamo certi sia la migliore promozione: i dischi non si vendono più a nessuno”. Il produttore e le case discografiche Come per la fotografia, nel corso degli ultimi due decenni anche nella musica la rivoluzione digitale ha aperto porte impensabili: registrare un brano è diventato (apparentemente) semplice per tutti, avere una casa discografica è un anacronismo e la figura del “produttore” è confinata ai nomi più noti. Ma avere una guida – e un secondo o terzo punto di vista – dovrebbe essere fondamentale proprio per evitare errori di valutazione o un eccessivo “ottimismo” sulla bontà/ qualità delle proprie idee. In questo senso Alessandro non ha dubbi: “Oggi riuscire a realizzare una produzione musicale professionale è diventato abbastanza semplice e poco costoso, soprattutto nella musica elettronica. È anche vero che oggi tutti possono pubblicare i propri brani, soprattutto mediante portali Internet specifici. Però in molti casi è sempre la casa discografica che permette agli utenti di scoprire determinati artisti all’intero di questa infinità di produzioni. Nel mio caso ho sempre avuto carta bianca sulla realizzazione dei miei album da parte dei discografici. In più posso sempre contare sul supporto critico e concreto di mio fratello Andrea, che segue attivamente la mia carriera, oltre a coloro che si occupano del mixaggio dei miei lavori”. “L’evoluzione ha cambiato radicalmente il modo di «essere» una band” afferma Aris. “Ha cambiato anche il modo di «possedere» la musica se si pensa a servizi come Spotify, iCloud, Google Music, ecc. oggi stanno scomparendo anche i già impalpabili mp3. In poco tempo chiunque può registrare e mettere in rete un brano. Fantastico, ma questo genera un sovraffollamento da cui è difficile emergere. La democratizzazione dei mezzi ha generato inizialmente un’opportunità che però è inutile senza una visione artistica e uno sforzo a lungo termine. Credo che non sia necessario cercare un’etichetta a tutti i costi, a meno che si tratti di un’etichetta indipendente con una certa esperienza e con un approccio originale al mercato musicale. Le grandi case discografiche sono da evitare se si vuole sopravvivere come gruppo. Nel nostro
caso, all’inizio del progetto Peter Kernel abbiamo creato anche un’etichetta, perché pensavamo che da soli non saremmo riusciti a varcare i confini cantonali. L’unione (d’intenti) fa la forza e infatti è capitato spesso che il «successo» di uno dei gruppi che ne fanno oggi parte abbia portato alcuni promoter a interessarsi anche agli altri. Avere un’etichetta è importante per la visibilità che può dare; la figura del produttore che ci guida invece non ci interessa. Abbiamo le idee chiare sulla musica che facciamo e vogliamo averne il totale controllo. È sicuramente importante avere una voce «altra» sul proprio lavoro e noi stessi siamo la voce più critica in questo senso. Per noi costruire un pezzo significa investire molto tempo con una meticolosa ricerca dei suoni... un lavoro a volte estenuante. Siamo così estremi che un produttore non troverebbe spazio nella nostra dimensione temporale”. Sia Stendeck sia i Peter Kernel si muovono nel mondo della musica da alcuni anni; entrambi hanno suonato in molti paesi, si sono confrontati con scene artistiche diverse e hanno diviso i palchi di festival musicali con nomi noti alla stampa e al pubblico. Due buoni presupposti che permettono di valutare con un minimo di oggettività la “qualità” della proposta musicale presente in Ticino... “Negli ultimi anni la qualità è cresciuta molto” ci confida Alessandro. “Nei più svariati generi ho sentito numerose produzioni degne di nota. Nel nostro cantone manca purtroppo una buona sala, cantonale o comunale, per concerti di piccole dimensioni, attrezzata in maniera professionale, ben organizzata e con una buona acustica”. Anche il chitarrista/cantante dei Peter Kernel è della stessa opinione: “Siamo sbalorditi dalla qualità di molti gruppi della Svizzera italiana. Sempre più musicisti si danno da fare in modo serio proponendo un prodotto ben curato. È fantastico sentire di gruppi che si propongono all’estero, oppure essere all’estero e sentir affermare che in Ticino esiste una scena interessante. Band di qualità che non sfigurerebbero in contesti internazionali. Purtroppo sono ancora molti i locali nella nostra regione che hanno un approccio provinciale e chiuso. Spesso e volentieri preferiscono ingaggiare cover band a cachet assurdi pensando di riempire il locale di gente che beve. Questa mentalità dovrebbe cambiare perché ammazza la creatività”. Ma Aris aggiunge dell’altro: “La gente, i locali, i festival, le radio, i siti e i quotidiani dovrebbero sostenere maggiormente i gruppi locali, la musica originale e chi la propone. Serve maggiore apertura; nuove musiche vuol dire nuovi stimoli, nuovi stimoli significa avere maggiori prospettive. Nutriamo sempre la speranza che un giorno il Ticino venga riconosciuto come «terra d’artisti», anche musicalmente”.
Igor Ponti Classe 1981, ha studiato all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Professionista dal 2006, vive e lavora a Lugano; collabora con diverse testate e nel 2009 ha pubblicato il volume Skate Generation (Fontanaedizioni). Per informazioni: www.igorponti.ch.
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Il ferro di cavallo
Tanto, tanto tempo fa, in un paese chiamato Pepina, viveva un uomo di nome Berto che di mestiere faceva il maniscalco. Ogni giorno nella sua bottega cavalieri e contadini conducevano cavalli e muli da ferrare mentre sua moglie Amalia si occupava della casa e dei loro tre figlioli: Primo, Secondo e Rosina. Una volta divenuti grandi, Berto disse loro: “Figlioli cari, è giunto il momento che vi troviate una moglie e te Rosina, un marito. Primo e Secondo dovranno cercarsela con una buona dote e quando l’avranno trovata affiderò loro la mia bottega di maniscalco. A Rosina darò invece in dote un ferro di cavallo d’oro. Se troverà un
testo di Fabio Martini illustrazioni di Céline Meisser
bravo giovanotto lo potrà vendere e farsi il corredo”. Dovete sapere che Primo e Secondo erano due veri mattacchioni, sempre pronti a scansar le fatiche e a farsi burla degli altri. Rosina, da par suo, era di carattere pensieroso e incline alla contemplazione. Passarono un paio di mesi e i due fratelli annunciarono al padre che si sarebbero sposati con due sorelle che abitavano nel paese vicino e il cui padre faceva il mugnaio. “Bene”, disse Berto “così avremo pane e focacce fresche ogni giorno e la carestia ci farà un baffo”. Si fece un gran matrimonio e Primo e Secondo quel giorno ebbero in consegna le chiavi della bottega del padre.
Presto però tutti si accorsero che i due fratelli non erano capaci di svolgere a dovere il lavoro: non solo i cavalli ferrati da loro si azzoppavano ma Primo e Secondo passavano più tempo all’osteria con gli amici che a lavorare. Insomma, in men che non si dica la bottega andò in rovina. Berto e Amalia, disperati, pensarono che per poter continuare a sopravvivere altro non gli restava che vendere il pezzo d’oro. La mattina dopo, Berto, messo il ferro in una sacca, si avviò verso la città. Giunto a metà strada un grosso cervo sbucò dagli alberi e con un violento colpo di corna strappò via al pover uomo la sacca con dentro la dote di Rosina. Al ritorno, il padre disperato decise di raccontare la verità alla figlia. “E io adesso che faccio… chi mi sposa senza dote”, si commiserò sconsolata Rosina che, con le lacrime agli occhi, fuggì verso il bosco.
Cammina,
cammina finì col perdersi. Proprio quando il buio iniziava a scendere, scorse fra i rami e il fogliame una lucina. Decise di andare in quella direzione e dopo un po’ arrivò a una radura al cui centro c’era una casa tutta illuminata e dal cui camino usciva del fumo. “Qui certo abita qualcuno”, pensò fra sé. “Forse mi saprà indicare la strada per tornare verso casa”. La porta era aperta e Rosina, una volta entrata, vide una tavola apparecchiata su cui era stato appena appoggiato un piatto di minestra fumante. La ragazza sedette e ne mangiò. Aveva appena finito, che sentì un gran scalpitare e sulla soglia apparve un maestoso cervo. “Che ci fate voi nella mia casa?”, chiese l’animale con voce tonante. Rosina, spaventata, gli raccontò piangendo tutta la storia. “Potete restare qui, se volete”, proseguì l’animale “ma a un patto: che vi occupiate della casa e quando di giorno io sono in giro per il bosco non apriate mai la porta ad alcuno, per nessuna ragione”. L’indomani mattina il cervo uscì per andare nel bosco e Rosina si mise subito a rigovernare. Dopo un po’ udì bussare alla porta. “Chi è?”, chiese la ragazza. “Mi chiamo Brunetto e sono un bimbetto che si è perso nel bosco. Fatemi entrare signora, ve ne prego”. Ma Rosina lo mandò via. Il giorno dopo, alla stessa ora, sentì di nuovo bussare. “Chi bussa?”, chiese. “Mi chiamo Durante e sono un brigante. Se mi fate entrare vi renderò ricca”. Ma anche quello Rosina lo cacciò via. Anche il terzo giorno qualcuno bussò alla porta. “Che volete?”, chiese la ragazza.
“Sono Valente, il figlio del re. Chi mi accoglie non se ne pente e se siete virtuosa diverrete mia sposa”. Rosina, che non si fidava per nulla, lo mandò via. Si sentì allora un gran frastuono. La porta si aprì di colpo come spinta dal vento e davanti alla casa apparve una carrozza senza cocchiere trainata da quattro cavalli neri. Rosina vi salì e il tiro a quattro partì a fulmine in mezzo al bosco condotto da mani invisibili.
Dopo una lunga corsa, giunse davanti a un palazzo di marmo. Quattro servitori in livrea l’aiutarono a scendere e l’accompagnarono, senza pronunciar parola, in una grande sala vuota. Al centro, sul pavimento, era posta una piccola scatola di legno. Dal fondo della sala entrò il cervo. Giunto di fronte a Rosina le disse: “Cosa aspettate. Non siete curiosa?”. Rosina si inchinò e aprì la scatola. All’interno luccicava il ferro di cavallo d’oro, la dote che suo padre Berto le aveva promesso. “Il mio nome è Lampo e vi aspettavo da tempo. Volevo diventare ricco e potente e accettai di bere il filtro magico della strega Scighera, la stessa che ha cercato d’ingannarvi nei giorni scorsi. Lei mi diede ciò che chiedevo ma mi trasformò in cervo. Per liberarmi dall’incantesimo dovevo trovare una ragazza disposta a sposarmi e per questo ho rubato a vostro padre il ferro d’oro, per attiravi a me. Voi avete mantenuto fede alla mia promessa di non aprire a nessuno e in questo modo avete sconfitto la strega. Ora, vi chiedo, accettate di sposarmi?”. Rosina, al colmo della gioia, rispose di sì… In quel preciso istante il cervo si tramutò in un bel giovanotto dai lunghi capelli neri. e il resto della storia voi lo conoscete già.
Fiabe
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VOLANDO CON GLI SCI Tendenze p. 48 – 49 di Marisa Gorza
■■ Hemingway, Premio Nobel per la letteratura nel 1954, raccontò l’esperienza nel suo ultimo libro Festa mobile, uscito postumo nel 1961. Egli narra quanto sciare negli anni Venti fosse rude, impegnativo e stimolante: “Da Schruns non c’erano ski-lift né funicolari ma piste e mulattiere… Salivi su pelli di foca che attaccavi al fondo degli sci… la lunga discesa sul ghiacciaio era meglio che volare...”. Per godersi la discesa bisognava guadagnarsela salendo con sforzi immani. Insomma, ciò che oggi conosciamo come l’arduo e selettivo sci-alpinismo. Strumenti del diavolo? Non è facile stabilire con precisione le origini degli sci, di certo fanno parte della storia dei popoli nordici dalla notte dei tempi. Le prime testimonianze di attrezzi simili si devono a reperti rinvenuti in Scandinavia, risalenti a più di 2500 anni a.C. Pure Erodoto, nelle sue Historiae racconta di scarpe di legno usate dalle genti dell’Asia Minore per spostarsi sulla neve. Di sicuro gli sci non nacquero per divertimento, piuttosto per evitare l’affondamento nella neve alta, per cacciare e per altre necessità vitali. Avvicinandoci ai nostri tempi, Olaus Magnus, vescovo di Uppsala nel 1565, li descrive quali “zoccoli di legno e lunghi e in punta ritorti all’insù a guisa d’arco”, cosa che diede modo a Papa Paolo III di definirli nientemeno che “strumenti del diavolo”. Nel 1888 in Europa ebbe grande eco l’avventura di Fridtjof Nansen, grande scienziato ed esploratore norvegese che attraversò la Groenlandia con gli sci percorrendo 500 chilometri. La diffusione dei suoi scritti fece scoprire l’utilità di quei curiosi pezzi di legno e contribuì a divulgarne l’uso. Due robusti legni di larice Il primo paio di sci apparso in Ticino fu approntato ad Airolo nel 1879 da Giocondo Dotta, un intraprendente giovanotto che all’età di ventinove anni partì per la California in cerca d’oro. Il suo sogno stava per avverarsi quando una nevicata, straordinaria per quei luoghi, ricoprì i pascoli dove egli viveva pacificamente tra gli indiani. Fortuna volle che nelle vicinanze abitasse un norvegese in possesso di un paio di sci il quale costruì degli esemplari anche per il nostro amico, istruendolo sia sul modo di fabbricarli, sia sul loro uso. Tornato in patria il Dotta scolpì due robusti legni di larice, lunghi poco più di due metri e larghi 15 centimetri, dotati di un ingegnoso cuneo per bloccarli in salita. Alla prima apparizione in pubblico con gli sci ai piedi, amici e compaesani lo derisero non poco e ci fu persino chi dubitò della sua salute mentale. Però in seguito a una enorme caduta di neve che non permet-
teva il tragitto dalle case alle preziose stalle, ne implorarono l’intervento e si fecero costruire i loro “aggeggi” personali. Verso la fine del secolo gli sci apparvero calzati anche dalle Guardie addette alle fortificazioni militari e alla manutenzione delle opere. Così soldati e gente di contado nel 1904 fondarono lo Sci Club Airolo. Con il passare degli anni l’attività sciistica, dapprima legata unicamente alle occorrenze, si propagò sempre più e vennero organizzate gite, escursioni, gare di coraggio e abilità. Sorsero poi altri Sci Club sparsi in tutta la Svizzera, regolamentati in Associazioni con lo scopo di promuovere l’entusiasmante sport destinato a diventare assai popolare. E mentre si perfezionavano piste e impianti di risalita, si divulgavano tecniche e stili che prevedevano l’uso dei bastoncini, gare di discesa e di slalom, si evolvevano pure i materiali, sia per gli attrezzi sia per l’abbigliamento apposito. La tuta aerodinamica di Zeno Colò Una delle prime tute intere, definite aerodinamiche, fu studiata nel 1952 da Colmar, divisione sportiva della Manifattura Mario Colombo. Con questa tenuta il mitico campione Zeno Colò vinse i mondiali di Oslo. Il marchio diventa l’icona delle attività sulla neve di tutto il pianeta e via, via veste per le gare Thoeni, Gros, Radici, Sticker, De Chiesa... La sua evoluzione continua tutt’oggi, sempre al passo con le più recenti innovazioni high tech o fashion.
ErnEst HEmingway, scrittorE amEricano amantE dEllE Emozioni forti, nElla sua vita si dEdicò a svariatE attività, incluso lo sci, uno sport cHE allora costituiva un’EccEntrica novità. ma siamo lontani dai tEmpi in cui ai piEdi si lEgavano duE assi di lEgno: nEl corso dEgli ultimi dEcEnni lo sci è stato infatti oggEtto di una straordinaria EvoluzionE tEcnica
Per la stagione in corso – con la neve che si è fatta un po’ attendere, almeno a sud delle Alpi –, la linea Signature, realizzata in un tessuto con altissimi valori di impermeabilità e alta traspirabilità, presenta capi ispirati ai mitici anni della Valanga Azzurra. Tagli ergonomici per la giacca che segue il corpo nei movimenti grazie a inserti coloratissimi ed elasticizzati, come pure per i pantaloni ben protetti al ginocchio con termo applicazioni imbottite. Ma come la mettiamo con le condizioni meteo? Ci pensa la Helly Hansen a proteggere i temerari dalle sferzate del vento con la Mission Jacket dal raffinato look minimalistico che cela una esclusiva membrana impermeabile ma traspirante e un’imbottitura termica. Caratteristiche reiterate sui pants abbondanti di tasche, cerniere e pratiche ghette rimovibili. A proposito di eleganza, chi non ha mai desiderato una giacca firmata Armani? Il successo della moda armaniana sta da sempre nel mix di semplicità e ricercatezza. Una perfezione bilanciata dal comfort che si ritrova anche nelle collezioni sportswear Emporio Armani EA7. In particolare, quella dedicata alla neve, si distingue per gli elevati standard manifatturieri. E mentre i completi da uomo uniscono colori fluo alla base scura, quelli da donna sono giocati sul binomio vincente del bianco e del nero e sui lucenti tiranti delle zip. Il team creativo di Roxy dedica alle esperte dominatrici delle piste la giacca Premium in vera piuma d’oca con interni in orsetto, da portare con pantaloni aderenti e performanti. Esplosioni di ricche tinte e color blok disposti ad arcobaleno per le appassionate di freestyle. Un bomber di ispirazione streetwear è invece adatto alle virtuose della tavola, abbinato ai calzoni super slim con divertenti stampe hawaiane fiorite di hibiscus. Per sciare, o riscaldare la passeggiata, o magari per non passare inosservate.
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Astri toro
gemelli
cancro
La Luna tra il 23 e il 24 gennaio favorirà l’attuarsi di progetti originali e creativi. Cambiamenti decisivi (positivi?) per quanto riguarda la vita a due con Saturno in opposizione e Nettuno in sestile.
Con Marte e Mercurio in trigono è da sciocchi non cimentarsi in un qualche affare. Protetti da Giove non c’è d’aver paura. Se siete della terza decade potete puntare sulle vostre capacità seduttive. Passione.
Decisioni importanti tra il 24 e il 25 gennaio. Trasformate la vostra casa in un’alcova tecnologica. Siate originali. Nervosismo per i nati nella terza decade sovrastati dagli impegni. Fidatevi dell’intuito.
Probabilmente vi sentite non compresi dal partner nella forma da voi intimamente desiderata. Miglioramenti per i nati nella seconda decade grazie all’ingresso di Venere nella nona casa solare. Viaggi.
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vergine
bilancia
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Tra il 23 e il 24 gennaio la Luna si troverà in opposizione congiunta a Nettuno, il Signore delle Illusioni. State attenti a non crearvi dei film o ingiustificati malumori. Incontri con persone originali.
Momenti d’oro tra il 22 e il 23 mattina. Sfruttate il transito lunare per indirizzare a vostro piacimento le energie procuratevi da Marte, Mercurio e Plutone. Affari per gli impresari del settore creativo.
Tra il 23 e il 24 la Luna entrerà in trigono con Saturno. Momento buono per andare a vivere insieme al partner e dare un tocco di originalità alla propria casa. Fraintendimenti per i nati nella terza decade.
Grazie al transito di Venere momenti di romanticismo per i nati nella seconda decade. Vi sentite particolarmente ispirati. Sviluppo di attività professionali riconducibili al commercio o alla comunicazione.
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acquario
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Se volete che le vostre giornate siano colorate da un incontro significativo il 23 gennaio è la data davvero giusta. I nati in dicembre devono cercare di liberarsi dallo stress. Date più spazio all’avventura.
Il 22 gennaio è il giorno ideale per fare bingo. Grazie ai transiti di Marte e Plutone e a una magica Signora della Notte, la fortuna potrebbe bussare alla porta. Determinati e decisi i nati nella terza decade.
Tra il 23 e il 25 gennaio la Luna attraversa il vostro segno per congiungersi con Nettuno. Incanalatevi verso frequenze più elevate e fate “tombola” con voi stessi. O grandi amori o grandi illusioni. Popolarità.
Ingresso della Luna nel vostro segno: osservatevi interiormente per far luce su un vostro desiderio. Grazie a Venere propizia si apre un periodo di rinnovamento esteriore per i nati nella seconda decade.
» a cura di Elisabetta
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Soluzione del n. 1
La soluzione del Concorso apparso il 7 gennaio è:
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Orizzontali 1. Bella città spagnola • 10. Guasto navale • 11. Sigla radiologica • 12. Spiagge • 13. Lo sport della Gut • 15. Piccolo cervide • 16. Privi di fede • 18. La fine della Turandot • 19. Pomata, unguento • 20. Johnny, cantante e attore • 23. Novantanove romani • 24. Il tesoro dello stato • 25. Pari in pertica • 26. Dati anagrafici • 28. Il noto Ventura • 29. Ente Turistico • 30. Comune nome russo • 33. Il bello dell’Olimpo • 35. Antica città mesopotamica • 36. Lisa nel cuore • 38. Segnale d’arresto • 39. Rettile innocuo • 42. Né tuo, né suo • 44. Il nome della Negri • 45. Cerimonie • 47. Contenitore per la birra • 49. Berna sulle targhe • 50. Fiume slavo • 51. Fiore lilla • 53. Belva striata • 54. Appeso ad asciugare. Verticali 1. Rappresentò la scuola dei commentatori • 2. Pilota d’aerei • 3. Poco fitti • 4. Chiome equine • 5. Dittongo in reità • 6. Precede Vegas • 7. La cura l’otorino • 8. Il Sodio del chimico • 9. Peste, doloranti • 14. Costosi • 17. Stazioni radiofoniche • 19. Fogna • 21. Lo usavano le lavandaie • 22. È simile alla cetra • 25. Spagna e Italia • 27. Fu tramutata in cigno • 31. Urlare • 32. In coppia con Gian • 34. Ermanno, regista • 37. Ha per capitale Damasco • 40. Stoffa lucente • 41. Fiume francese • 43. Ha problemi di linea • 46. È simile al frac • 48. Tonta senza pari • 49. Replica • 52. Pedina coronata.
Questa settimana ci sono in palio 100.- franchi in contanti!
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La soluzione verrà pubblicata sul numero 5
Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 26 gennaio e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 24 gennaio a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!
Tra coloro che hanno comunicato la soluzione corretta è stata sorteggiata: Barbara Amsler via dei Cipressi 1a 6602 Muralto Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!
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www.opel.ch *Esempio di prezzo: Opel Astra GTC Enjoy 1.4 ECOTEC® con Start/Stop da CHF 28’900.–, 74 kW/100 CV, 3 porte, manuale 5 marce, prezzo base incl. opzioni gratuite CHF 31’590.–; vantaggio cliente CHF 5’790.–, nuovo prezzo vendita CHF 25’800.–, emissioni di CO2 139 g/km, ø consumo misto 5.9 l/100 km, categoria d’efficienza energetica C (dati provvisori). La media delle emissioni di CO2 di tutte le auto nuove in Svizzera è di 159 g/km. Vantaggio cliente valido fino al 31. 03. 2012, non cumulabile con altre attività di marketing di General Motors Suisse SA. I prezzi delle offerte presentate sono intesi come prezzi consigliati. **Lu.–ve.: 0.08 CHF/min., sa./do.: 0.04 CHF/min.
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