Ticino7

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№5

del 3 febbraio 2012

con teleradio 5–11 febbraio

IdentItà e prIvacy

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A: studio e formazione. Un lusso per pochi? NICARAGUA

ginare Laddove la povertà è una costante, è possibile imma azione, una realtà migliore grazie all’accesso alla form lo. i cardini sui quali poggia la crescita di un popo i giovani ABBA lancia un programma di borse di studio per , ma che non svantaggiati delle Isletas, meritevoli e motivati aspirazioni, avrebbero nessuna chance di realizzare le proprie esinos camp interrompendo anche la “tradizione” che vuole il eternamente campesinos.

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Ticinosette n° 5 3 febbraio 2012

Agorà Libertà. Fotografia e privacy Visioni Ricordando Cesare

di

Arti Art Pepper. La vita “facile”

Impressum Tiratura controllata 70’634 copie

roberto roveda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . di

tito Mangialajo rantzer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Media Egitto e informazione. Censura di Stato Società Bansky. La parabola dell’arte Kronos La legge del naufrago

di

Metaphorae Oblio, parte seconda

Editore

Vitae Carlo Storni

Teleradio 7 SA Muzzano

Direttore editoriale Peter Keller

di

Marco alloni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Mariella dal Farra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

di

Francesca rigotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

gaia griMani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reportage Goog morning, Lugano Fiabe L’anello sepolto

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giancarlo Fornasier. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Chiusura redazionale Venerdì 27 gennaio

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testo e FotograFie di

Matteo Fieni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fabio Martini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Redattore responsabile

Tendenze Mirrorless. Rivoluzioni in corso

Coredattore

Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Photo editor

Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fabio Martini

Giancarlo Fornasier

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Fabio Martini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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luca Martini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

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In copertina Senza titolo Fotografia di Matteo Fieni

Riservatezza, diritti e libertà di stampa Sostiene un vecchio adagio che la propria libertà finisce dove comincia quella degli altri . Un’espressione banale e assai abusata, ma dall’attualità disarmante se riferita a tutti quegli strumenti di comunicazione e piattaforme di socializzazione che da almeno 15 anni si profilano come le nuove piazze d’incontro e di scambio . Negli ultimi anni sul tema della privacy e della protezione dei dati è stato scritto molto, sia sulla carta stampata sia sui mezzi d’informazione online . E in questo senso nessuno può oggi accusare “l’informazione” di non aver lanciato grida d’allarme e di non aver sollevato dubbi e perplessità, in particolare informando adolescenti e ragazzi sui rischi di mettere a disposizione, attraverso i loro profili digitali, materiali video, fotografici e scritti che dovrebbero rimanere strettamente personali . “L’Ue lancia la rivoluzione della privacy nel mondo di internet, che ci fa esporre centinaia di nostri dati, foto e informazioni sulla nostra vita privata” recitavano negli scorsi giorni le pagine dei quotidiani . “E che vive sulla pubblicità mirata, quella che arriva sul nostro computer perché da qualche parte qualcuno registra costantemente i nostri dati” . Al di là delle leggi applicate nelle singole nazioni, ecco dunque muoversi un’istituzione che rappresenta più paesi: forse la dimostrazione che sull’affaire privacy vale la pena agire in modo univoco e coordinato . Meglio tardi che mai . . . per buona pace del cancello e dei buoi che conteneva . Il problema, infatti, non è tanto quello di stabilire oggi quali dati e che cosa sia o non sia possibile raccogliere, immagazzinare, manipolare, ordinare e vendere a terzi (per fini il più delle volte riconducibili

alla promozione e alla vendita di prodotti) . L’inghippo interessa tutte quelle informazioni che già sono in possesso di autorità pubbliche e private, istituzioni, banche dati assicurative e bancarie, oltre naturalmente ai miliardi di immagini messe a disposizione di tutti (senza troppa coscienza) utilizzando le già citate piattaforme di socializzazione in rete . Anche in questo senso gli allarmi non sono mai mancati, e accusare la stampa di non aver informato a sufficienza è la solita, ritrita generalizzazione dietro alla quale nascondersi . Come in altri ambiti legati alla trasformazione dei nostri tessuti sociali, sulla protezione dei dati e dell’identità – e sul sacrosanto diritto all’anonimato e alla protezione della propria persona – è la politica a non essersi accorta di quanto stava e sta avvenendo . E ora eccola alla rincorsa; ma con grande circospezione e con entrambi gli occhi ben aperti sui diritti acquisiti, sui contratti già firmati, sulle liberatorie già concesse, sulla libertà d’impresa e di operare sui mercati mondiali (pubblicitari e commerciali), sul diritto internazionale, sulla presenza degli impianti di videosorveglianza . . . e non da ultime sulla libertà di stampa e di rappresentazione/documentazione delle nostre società . A questi ultimi aspetti Ticinosette dedica sia l’articolo di apertura sia il Reportage fotografico, che naturalmente vi invitiamo a leggere e guardare nella speranza che possano fornirvi ulteriori punti di vista, chiavi di lettura e argomenti per future personali riflessioni . Perché essere informati è certo una libertà, ma è soprattutto un diritto e non solo una moneta di scambio o di profitto per altri . Buona lettura, Giancarlo Fornasier


Fotografia e privacy

Da alcuni anni Ticinosette si dedica all’approfondimento e alla diffusione della fotografia ticinese e svizzera. In questo quadro, il tema della “privacy” ha assunto una posizione centrale, sia sul piano della tutela delle persone ritratte sia per quanto concerne l’attività editoriale. La proposta che ci è giunta da Matteo Fieni, oggetto del reportage pubblicato su questo numero, ci ha però stimolato ad approfondire l’argomento di Fabio Martini

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Agorà

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a questione della privacy è settimanalmente al centro del nostro lavoro di redazione, soprattutto riguardo al peso che da alcuni anni la fotografia riveste nel palinsesto di Ticinosette. Inevitabile dunque che il tema fosse prima o poi oggetto di un ulteriore approfondimento. L’occasione è giunta proprio da uno dei fotografi che collaborano con noi, Matteo Fieni, che nel suo lavoro sta cercando di coniugare con successo sia la ricerca artistica sia l’analisi e la documentazione sulla società contemporanea. La sua proposta ci è parsa subito interessante: serie di fotografie di persone ritratte nella stessa medesima situazione e a loro insaputa con un iPhone. Lasciamo alle parole di Matteo, autore del testo del reportage pubblicato in questo numero, il compito di spiegare ai lettori l’intento e la metodologia utilizzata. Per quanto riguarda la Redazione si è posta sin dall’inizio la questione se pubblicarle o meno. La mancanza delle liberatorie da parte delle persone ritratte, l’azione compiuta in clandestinità proprio per coglierle nella loro spontaneità, poneva inevitabilmente questioni di carattere giuridico. In accordo con Matteo si è dunque deciso di pubblicare le fotografie applicando dei bollini rossi sui volti dei soggetti in modo da renderli irriconoscibili. Una scelta dura, certamente provocatoria, che se da un lato tutela l’editore e le persone, dall’altro danneggia in modo evidente l’opera del fotografo. Una decisione presa con l’obiettivo di sollevare una questione precisa: quale futuro ha la fotografia, come strumento di documentazione storica, in una società in cui l’enfasi sulla privacy e sulla violazione della sfera personale è divenuto argomento corrente? Non si rischia in questo modo di ledere sia la libertà d’espressione dell’artista sia la funzione della fotografia come strumento d’indagine della società? Ne abbiamo discusso con Bertil Cottier, giurista ed esperto di questi temi e docente all’USI, e con Jann Jenatsch, CEO e capo redattore dell’agenzia fotografica Keystone di Zurigo, entrambi coinvolti su fronti diversi in questa complessa questione.


Professor Cottier, la legge in Svizzera pare essere su questo tema piuttosto restrittiva. Qual è la situazione attuale riguardo alla possibilità di produrre e diffondere immagini di street photography? “La giurisprudenza esiste ed è precisa. Va detto che riguardo ai temi legati alla privacy la Svizzera, con l’articolo 28 del Codice civile concernente la protezione della personalità dei cittadini e con la legge sulla protezione dei dati del 19 giugno del 1992, si è dotata di strumenti ben definiti. A partire da questa base, seppur nella sua genericità, è possibile dedurre il diritto generale relativo alla protezione della personalità incluso il divieto di diffondere pubblicamente l’immagine delle persone senza il loro consenso, tema oggetto del vostro interesse. Si tratta comunque di una cornice legislativa in piena evoluzione. Un passaggio molto importante sarà quello relativo alla decisione del Tribunale federale, che segue alla sentenza del Tribunale amministrativo federale del 30 marzo 2011, riguardo a Google Street View che violerebbe ingiustificatamente la privacy delle persone contravvenendo così al diritto svizzero”.

anche come strumento importante di testimonianza e documentazione… “Certo, la funzione storica. Nella prassi normale, il fotografo, dopo aver scattato la fotografia, deve chiedere l’autorizzazione a una eventuale pubblicazione alle persone che vi sono ritratte. Poi vi sono delle eccezioni: fotografie realizzate per scopi di tipo prettamente giornalistico a seguito di situazioni rilevanti – come disastri naturali, manifestazioni di protesta, ecc. – che possono essere pubblicate senza il consenso degli interessati perché vi è un motivo di ordine superiore. In altre parole, quando sussiste un legame con un evento, un fenomeno generale, importante e attuale che diviene esso stesso oggetto della fotografia, allora il problema non si pone”.

“La Corte Europea dei Diritti dell’uomo, almeno per quanto riguarda l’Europa, ha fissato delle disposizioni abbastanza precise a partire dal caso di Carolina di Monaco. È stato così definito uno standard europeo riguardante la protezione della privacy anche delle persone pubbliche”

Ma allora quali sono i margini entro i quali un fotografo può ritrarre liberamente persone in strada? “Se la/le persona/e sono il soggetto principale della fotografia, la pubblicazione non può avvenire in alcun caso senza il permesso degli interessati. Nel caso in cui oggetto del lavoro del fotografo siano invece altri elementi come, per esempio, un edificio, un fenomeno naturale o sociale o altro, e compaiano persone di passaggio che rientrano nel contesto, nello sfondo, allora si eccepisce. La questione di Google Street View è ancora più complicata e non è del tutto risolvibile con la copertura dei volti e delle targhe perché gli aspetti sono molteplici: la difficoltà di anonimizzare perfettamente tutti i volti e le persone ritratte sia in strada sia all’interno di luoghi privati, la funzione zoom che consente di ingrandire volti e particolari, la databilità e la diffusione in rete, l’altezza di 2,75 metri da cui vengono eseguite le riprese e che consente di scavalcare i luoghi recintati, ecc. Insomma, è una questione articolata”. A livello globale, ogni paese ha la sua giurisprudenza. In altre parole, le limitazioni che un fotografo può incontrare nel nostro paese non sono necessariamente le stesse che trova, per esempio, in Egitto… “Fino a un certo punto. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo, almeno per quanto riguarda l’Europa, ha fissato delle disposizioni abbastanza precise a partire dal caso di Carolina di Monaco. È stato così definito uno standard europeo riguardante la protezione della privacy anche delle persone pubbliche”. Premesso che mi sembrano due situazioni piuttosto differenti: Google Street View colloca la persona all’interno di un contesto territoriale preciso – una strada, una piazza –, mentre una fotografia realizzata con obiettivi artistici non necessariamente è contestualizzabile… Con questo tipo di limiti, non si incorre nel rischio di una perdita di documentazione sociale, antropologica e culturale della società contemporanea? In fondo, la fotografia nasce

Ma non si potrebbe sostenere che il lavoro di Fieni, realizzato con un iPhone e senza avvertire le persone ritratte, per riprenderle in modo oggettivo, rappresenti un’operazione in grado di trascendere la singolarità della persona ripresa? “Ma, vede, innanzitutto l’uso dell’iPhone, rafforza la clandestinità di questa operazione. Già è diverso quando il fotografo crea una sua postazione, con il cavalletto, le macchine fotografiche, le luci, ecc. Chi passa di lì sarà cosciente di essere ripreso e potrà decidere di sottrarsi… L’aspetto della clandestinità è in netto contrasto con l’idea della protezione dei dati. Nello specifico del lavoro svolto da Matteo Fieni, l’unica possibilità è di presentarlo come un’operazione di carattere squisitamente artistico, appellandosi quindi ai principi di libertà artistica e di espressione, peraltro tutelati dalla Costituzione svizzera. Si potrebbe dunque considerare che quando si tratta di operazioni di carattere artistico la soglia è più elevata, ma si tratta di pura teoria, di un’interpretazione, anche perché la casistica è minima. Quindi privacy da un lato e libertà artistica dall’altro. Questo forse è un piano su cui si può ottenere qualche risultato”.

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La presenza manifesta del fotografo tende però a modificare l’atteggiamento delle persone, le rende meno spontanee e naturali… “Certamente. Ma la persona che si riconoscesse in una di queste fotografie, se non venisse applicato il bollino rosso, potrebbe opporsi con varie motivazioni, tutte impugnabili: a partire dalla considerazione che la foto e il modo in cui è stata ripresa non gli piacciono o sono lesivi della propria immagine. Sarebbe già di per sé sufficiente. Detto questo, sussiste una netta differenza fra il lavoro di Fieni e le immagini fornite da Google Street View: qui abbiamo un intento artistico e documentaristico indubbio, mentre là si tratta di un interesse commerciale. Questa potrebbe essere un’argomentazione sostenibile in caso di un contenzioso per la pubblicazione senza bollino rosso. In caso sfavorevole, si va incontro a sanzioni pecuniarie valutabili intorno a qualche migliaio di franchi. Incorrere in sanzioni penali è difficile anche se vi sono casi specifici connessi alla legge sulla protezione dei dati, ma qui non si tratta di diffamazione delle persone”. Ma non è un paradosso che si ricorra a una legislazione così rigida in un’epoca contrassegnata dall’esposizione personale sui social network, dall’utilizzo della videosorveglianza, dalla tracciabilità dei cellulari e delle proprie (…)


carte di credito, e così via? In altre parole, questa enfatizzazione sui temi della privacy non è forse una reazione alla sempre maggiore invasività della società nei confronti dell’individuo? “Ognuno ha il diritto ad avere una sfera privata. Nel 1890, due avvocati di Boston, Samuel Warren e Louis Brandeis pubblicarono un saggio intitolato appunto The right to privacy in risposta al crescente fenomeno del gossip e del fotogiornalismo. Furono i primi a elaborare la formula the right to be left alone che è un po’ alla radice della storia giuridica della privacy. Il fatto che in Europa come negli Stati Uniti le differenti istituzioni deputate alla tutela dei dati personali si siano mosse contro gli abusi di Facebook è importante. Le cose stanno evolvendo”. Sembra dunque poco probabile che vi siano aperture in questa direzione a prescindere dal fatto che la limitazione imposta alla fotografia ridurrà la possibilità di disporre di materiale negli anni e decenni futuri… “Si tenga presente che, almeno in Europa, non vi sono grandi differenze. Anzi, nel caso particolare della Francia, per esempio, prendere foto di edifici dal terreno pubblico necessita di permesso. Ciò significa che l’edificio è considerato come una sorta di estensione della personalità del proprietario, così ha stabilito la Corte di Cassazione francese, una decisione unica nel genere in Europa. Comunque, in termini generali, è probabile che si vada verso ulteriori restrizioni”.

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Qualche consiglio? “Dipende dall’editore. Se esiste una chiara motivazione artistica nell’esecuzione di un determinato lavoro l’editore può ovviamente decidere, a suo rischio, di pubblicare. Insomma, sia che si tratti di un professionista o un artista che pubblica per lavoro, sia che si tratti di un dilettante che posta le proprie fotografie sul blog personale, valgono le medesime norme. Infine, dal punto di vista personale, posso essere d’accordo che in una prospettiva artistica si debba lasciare maggiore libertà. Il problema è che può accadere che sia il giudice a dover stabilire se certe fotografie sono arte o meno, una faccenda complessa, mi pare…”. Veniamo ora a chi opera sul “fronte”, a chi le fotografie le commissiona, le raccoglie e rivende a giornali e siti web, un’attività che implica notevoli rischi e una indispensabile conoscenza legale. Signor Jenatsch, mi pare che il caso di Heidi Klum possa rappresentare un buon punto di partenza per iniziare il discorso? “Certo. Nell’aprile del 2005 un fotografo Keystone scattò delle immagini alla top model Heidi Klum mentre lasciava un hotel di Zurigo insieme alla figlia Leni. L’immagine non era una «paparazzata» voluta dall’autore, ma il risultato di una casualità. Il fotografo ha documentato sul posto ciò che letteralmente è passato davanti alla sua macchina. La foto è stata messa a disposizione dalla Keystone attraverso i suo partner Associated Press e l’European Pressphoto Agency in tutto il mondo. A partire da quel momento uno studio legale in Germania si è messo in moto. I casi sono due: o la signora Klum aveva dato incarico permanente allo studio legale di denunciare chiunque avesse pubblicato immagini in compagnia dei suoi figli, o lo studio legale si è mosso autonomamente. Il fotografo – giustamente, a nostro avviso – ha ritenuto di mettere a disposizione la fotografia di una persona pubblica come Heidi Klum fotografata insieme alla figlia Leni. Mi piacerebbe fornirvi l’immagine per meglio illustrare questo articolo, ma temo che lo studio legale in Germania si rimetterebbe subito al lavoro…”.

Che tipo di indicazioni fornite ai vostri fotografi? “Li incoraggiamo a catturare le immagini della vita quotidiana, i cosiddetti features. D’altronde si tratta – se non sono immagini naturali o di paesaggio – di cogliere sempre le persone in situazioni quotidiane. Naturalmente i fotografi sono invitati – dopo aver preso le immagini – a entrare in contatto con le persone fotografate. Tutto questo avviene verbalmente, senza un contratto o una liberatoria scritta. Probabilmente non è la soluzione ottimale. In questo modo, infatti, le persone fotografate hanno la possibilità di prevenire la diffusione della loro immagine. Per dimostrare che questo contatto ha avuto luogo, il nome e il cognome (o almeno il cognome) della persona ritratta viene inserito nella didascalia dell’immagine. Solo in quel caso l’immagine viene inviata ai media. È una pratica che Keystone ha mutuato dall’agenzia statunitense Associated Press. Si tratta di una precauzione efficace che consente di ottenere un buon grado di sicurezza in termini di tutela della privacy dei soggetti”. Accade a volte che il fotografo, una volta eseguito lo scatto, non sia in grado in alcun modo di entrare in contatto con la persona fotografata, ma l’immagine è ottimale e cattura una situazione meravigliosa. Come vi comportate? “Nel caso in cui il fotografo si opponga alla cancellazione della fotografia, malgrado l’assenza dei dati riguardanti l’immagine, è la Keystone che valuta il da farsi. Oltre all’esperienza giornalistica sono richieste anche conoscenze giuridiche. Il redattore si consulta con il fotografo, valuta il materiale e decide se l’immagine può essere messa a disposizione nonostante l’assenza di delibera. In questi casi la didascalia della foto viene redatta in modo tale da limitarne fortemente l’uso. Certo, queste immagini si muovono in una «zona grigia», e il margine è piccolo e sarà sempre più ristretto. Molta attenzione va poi riservata alla didascalia: a volte un testo inesatto può creare una connessione errata tra immagine e testo, con la conseguenza che le persone in essa ritratte vengono inserite nel contesto sbagliato”. Resta il fatto che è impossibile per l’agenzia verificare l’uso delle immagini cedute ai media… “L’agenzia può lavorare in modo giornalisticamente ineccepibile, ma un controllo al 100% su come verrà poi utilizzata l’immagine non è possibile. I media hanno accesso alla banca dati di Keystone, e con un clic del mouse possono ottenere le immagini. Le condizioni generali precisano che per ogni immagine è necessario il rispetto dei diritti personali e che è vietato usarle in modo indiscriminato. Eppure, accadono spesso incidenti. Nei casi critici anche gli usi redazionali rari vengono chiariti e analizzati”. Come agire dunque dal punto di vista del fornitore? “La cosa più importante in incidenti di questo tipo è precisare la metodologia sia con i media sia con le persone interessate. A parte la vanità comune e l’avidità delle persone, si creano situazioni davvero difficili. Spesso giungono lettere di persone che reclamano dopo aver visto la pubblicazione della fotografia di una persona scomparsa. In questi casi dobbiamo riuscire a dimostrare quando e dove e per quale scopo è stata scattata l’immagine e che non abbiamo agito contro la persona raffigurata nella fotografia. Detto questo, se tutte le parti si comportano con il necessario rispetto e lavorano con la professionalità giornalistica necessaria – soprattutto i media –, anche in futuro sarà possibile fornire immagini di vita quotidiana con persone comuni senza violare i diritti personali. Tuttavia, questo richiede un atteggiamento basato sul principio che le persone fotografate debbano essere trattate come se fossimo noi stessi a essere fotografati”.


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Ricordando Cesare

George Clooney non è un maestro del cinema, né uno straor-

» di Roberto Roveda

sapienza i colpi di scena e affidandosi a un cast di grandi attori dinario interprete. È però persona di grande onestà intellettuale tra i quali la brava Marisa Tomei nei panni della giornalista e di solidi principi, capace di trasferire queste virtù nel suo senza scrupoli Ida Horowicz. La pellicola funziona soprattutto cinema, che si presenta lineare e capace di far per la scelta di Clooney di rivisitare l’eterno riflettere senza ideologie e preconcetti. Ottitopos del male insito nel potere senza filtri mo cinema, confezionato con professionalità ideologici. Infatti, nell’era di Obama, per il e con un occhio di riguardo al pubblico. regista liberal americano nessuno si salva: la Tutti elementi che ritroviamo in Le idi di battaglia per conquistare la vetta ammette marzo, parabola sulle dinamiche del potere ogni mezzo e lo spettatore è posto davanti ambientata nel mondo della politica ameria questa realtà senza buonismi e mascheracana. Il protagonista, Stephen Meyers (Ryan menti. L’America delle Idi di marzo è spietata Gosling), giovane e brillante addetto stampa, e con poche, limitate possibilità di riscatto sostiene il governatore della Pennsylvania Mietico: una presa di posizione netta che ha ke Morris (Clooney) nella sua campagna per provocato negli Stati Uniti alcune reazioni le primarie presidenziali americane del Partito ostili nei confronti della pellicola. Democratico, contro il più moderato senatore Senza lasciarsi andare a giudizi qualunquisti dell’Arkansas Ted Pullman. Ben presto però o demagogici – del tipo, “tutti i politici sono Meyers si accorge che il candidato alla Casa uguali” –, il film risulta godibile e ben ritmaLe idi di marzo Bianca, all’apparenza uomo integerrimo, ha to. Quasi evocando la solenne classicità delle regia di George Clooney un lato oscuro. A questo punto il thriller potragedie shakespeariane, il regista avvia una USA, 2011 litico si fonde con il romanzo di formazione riflessione lucida e senza tempo sull’avidità di un giovane che – scoperchiato il vaso di Pandora – scopre e sulla sete di affermazione dell’uomo, piaghe che oggi trovacompromessi e corruzioni, intrighi sessuali e giochi sporchi, no spazio non solo nel mondo politico, ma anche in quello che si consumano all’ombra della democrazia “ufficiale”. E ne dei media, dominato dalla logica dello scandalo e del ricatto. viene a sua volta risucchiato. Trama non originale, all’interno Mancano i pugnali e il sangue, ma le cospirazioni del potere della quale, però, il regista mantiene alto il ritmo dosando con restano efferate come ai tempi di Cesare.

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La vita “facile” Come ho conosciuto la musica del grande sassofonista californiano Art Pepper e perché ritengo sia giusto annoverarlo tra i giganti del jazz di Tito Mangialajo Rantzer

Arti

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La prima volta che ho ascoltato un disco di Art Pepper, avevo dall’eroina, che lo minò fin dai suoi vent’anni. Negli Stati Uniti, 19 anni. Da circa un paio di anni il “virus” del jazz mi aveva essere “beccati” anche con una sola dose di eroina voleva dire contagiato, grazie anche a mio padre, che da sempre lo ascol- il carcere e la sospensione della Cabaret Card, una sorta di tava, e al quale una sera chies: “Papà, mi fai ascoltare del jazz?”. permesso per poter suonare nei jazz club e nei locali notturni. Lui mise sul piatto del giradischi un Lp di Fats Navarro, storico Così il povero Art fu recluso continuativamente dal 1952 al ’54 trombettista degli anni Quaranta, e la mia vita cambiò. e dal ’59 al ’66 in maniera intermittente. Nei periodi in cui non Così, un paio d’anni dopo, mi era recluso, riusciva a suonare imbattei in Art Pepper, sassoe a registrare degli album. Di fonista californiano, nato nel questo suo primo periodo – il 1925 e morto prematuramente secondo lo si fa coincidere nel 1982. Il disco in questione con la disintossicazione dalla si chiamava Straight Life. Non droga, ovvero dalla fine degli ricordo perché lo comprai: foranni Sessanta fino alla morte – se mi era stato consigliato da fortunatamente ci sono rimasti un amico; forse se ne parlava alcuni dischi eccezionali, fissati in qualche libro sul jazz o in su vinile tra il 1956 e il ’60. qualche rivista che allora aviPer farci un’idea della sua imdamente leggevo; oppure, semportanza nella storia del jazz, plicemente, ero stato attratto della sua maestria sul sax e dalla copertina (molti anni del suo suono inconfondibile fa, quando si compravano gli non abbiamo che da pescare Lp, belli, grandi, la copertina a piene mani in questo mare giocava spesso un ruolo fondi registrazioni. Poi, dal ’60 al damentale nella scelta di quale ’66, Pepper non fa che entrare disco acquistare...). In copered uscire dal carcere di San tina c’era lui, Art Pepper, in Quentin, la sua vita deraglia, primo piano. Un primo piano commette anche qualche picImmagine tratta da www.globalrhythmpress.com che rivelava il viso di un uomo colo crimine per procurarsi segnato dalla vita e dall’abuso i soldi per le dosi. La musica di eroina. Ma un viso tremendamente espressivo, profondo, ovviamente ne risente. Il poco materiale registrato in questi duro e dolce al stesso tempo, tutti tratti che poi ritrovai nella anni non gli rende giustizia. Finalmente, verso la fine del desua musica. cennio, Pepper entra nella comunità di recupero di Synanon e lì incontra la donna che diventerà sua moglie: Laurie. I due si Quel maledetto suono... sposano e, usciti nel 1972 dalla comunità, Laurie diventerà il La prima cosa che mi colpì di Art Pepper fu il suono del manager di Art che conoscerà così una seconda, straordinaria suo sax alto. Ed è sempre il suono che poi ho capito essere stagione creativa. Dal ’75 al ’82 Pepper registrò più di tre dozforse il parametro più importante e più caratterizzante di zine di album, alcuni bellissimi, tra cui quello Straight life (Vita un jazzista. Per me viene prima delle note e se il suono non facile) del quale mi innamorai anni fa. è jazz, non c’è il jazz. Il suono di Art era alle mie orecchie Se può essere talvolta banale o addirittura pericoloso creare nuovo, personale, diverso da quello fantastico di Char- un parallelo tra la biografia di un artista e la sua arte, secondo lie Parker, che già ben conoscevo, ma altrettanto unico. il blogger americano Fred Kaplan, in Art Pepper le due cose E poi il fraseggio: da mozzare il fiato sui tempi veloci; discorsivo, coincidono. E dal modo in cui suona le ballad emerge tutta dolcissimo ed emozionante sui tempi lenti. In particolare, in la miseria, le difficoltà, la durezza della sua vita. Un’esistenza questo disco c’è una versione di un famoso brano degli anni difficile, l’opposto della “vita facile” che dà il titolo anche alla Quaranta, “Nature Boy”, una ballad portata al successo dal sua autobiografia (Straight Life, uscita nel 1979 e purtroppo mai grande Nat King Cole. Avrò ascoltato questo pezzo decine di tradotta in italiano), ma che ci ha lasciato della musica bellissivolte, fino a consumare i solchi del disco. Decisi così di appro- ma e profonda; una musica, che secondo le parole dello stesso fondire la conoscenza con questo gigante del jazz. Art Pepper Pepper, ha lo scopo di far provare qualcosa all’ascoltatore e di ebbe una vita travagliata, complice la terribile dipendenza non lasciarlo mai indifferente.


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Censura di Stato In Egitto la stampa indipendente riesce, almeno per il momento, a far sentire ancora la propria voce a dispetto della censura imposta dal Consiglio Supremo delle Forze Armate testo di Marco Alloni illustrazione di Micha Dalcol

Mohammad Hashem è il direttore della casa editrice Merit, la più rinomata oggi in Egitto e che ha dato voce alla nuova generazione di scrittori contestatari. Nel corso degli scontri di piazza che hanno opposto, a fine novembre 2011, i manifestanti agli agenti della giunta militare, Hashem è stato accusato di aver pagato i criminali della baltaghia – la teppaglia che semina disordini dal tempo della Rivoluzione – responsabili di aver dato alle fiamme l’Istituto d’Egitto. L’accusa, pretestuosa e falsa, ci dà la misura di che cosa stia accadendo oggi nel paese nord africano sul fronte dell’intellighenzia. Gli intellettuali sono presi di mira come “provocatori” e la giunta militare del maresciallo Tantawi non perde occasione per indicare in questo o quell’intellettuale il mandante dei disordini di piazza. È accaduto a Mohammad Hashem, allo scrittore Alaa Al-Aswani e a numerosi altri rappresentanti della cultura locale. Gli editori indipendenti non rinunciano però a replicare a questi attacchi pubblicando a spron battuto volumi sulla Rivoluzione in cui vengono squadernati i fatti per come realmente sono avvenuti: una vera e propria battaglia d’informazione e controinformazione, di legittimazione delle rivendicazioni rivoluzionarie e di tentativi più o meno capziosi di discreditarle, che si è quindi aperta inesorabilmente fra il mondo intellettuale e il Consiglio Supremo delle Forze Armate. Lo stesso maresciallo Tantawi avrebbe riferito a Jimmy Carter – in visita in Egitto alcune settimane fa – che l’aggressione perpetrata da un drappello di agenti contro la ragazza di piazza Tahrir, svestita e malmenata sotto gli occhi delle telecamere – il video ha fatto il giro del mondo –, sarebbe un falso e non racconterebbe la verità dei fatti. Dichiarazione che la dice lunga sul grado di manipolazione messo in atto dall’esercito nel tentativo di insabbiare i propri massacri e atrocità. Uno scenario diviso Ma il problema va al di là del coinvolgimento degli intellettuali in questa schermaglia contro la propaganda di regime, e purtroppo riguarda gli stessi mezzi di comunicazione. Si è prodotta una scissione radicale fra media privati e media di Stato: i primi, attenti a difendere le istanze della Rivoluzione

e i giovani che l’hanno promossa – in particolare, i blogger e gli intellettuali indipendenti – e i secondi, sistematicamente sottoposti al controllo della giunta militare e determinati a conservare lo status quo a colpi di disinformazione e travisamento dei fatti. Con l’aggravante che i ruoli cruciali all’interno dei media di Stato continuano a essere affidati – dal ministro dell’Informazione, figura tra le più invise dai rivoluzionari – a rappresentanti in combutta con la giunta militare che non hanno nessun interesse a promuovere un’informazione libera e trasparente. Mia moglie – presentatrice presso il Canale Culturale della televisione nazionale – è stata a più riprese richiamata all’ordine per aver riportato notizie della stampa indipendente sulle malefatte delle forze di polizia o dell’esercito. A dimostrazione che persino sul fronte culturale continua a vigilare un governo di transizione per niente intenzionato a contrastare le politiche repressive e censorie della giunta militare. A questo scenario si aggiunge la propaganda islamista, che dopo la vittoria dei Fratelli musulmani e dei Salafiti alle elezioni parlamentari è uscita allo scoperto denunciando a piede libero – senza che né la giunta, né il governo sanzionassero tali atti di diffamazione – tutto quanto fosse in sapore di “eresia” (dal loro punto di vista, naturalmente): dai monumenti faraonici considerati empi, all’opera di Naguib Mahfuz, allo stesso liberalismo politico, alla promiscuità nei luoghi pubblici. Libertà a rischio Il quadro che si presenta attualmente in Egitto appare pertanto come una sorta di prova generale di quello che potrebbe essere il liberticidio di Stato una volta installatisi gli islamisti al potere con la complicità della giunta militare. Una combinazione fra censura di regime e censura religiosa che già ha portato gli intellettuali, capeggiati dall’artista Mohammad Abla, a creare un fronte di resistenza per difendere libertà di espressione sui giornali, libera editoria, libertà di raffigurazione creativa e libera discussione politica sui media. Una battaglia che protrebbe prefigurare – se il dialogo fra le forze in campo non prevarrà sul muro contro muro – persino una guerra civile.

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La parabola dell’arte In occasione dell’uscita in dvd di “Exit through the gift shop”, primo lungometraggio di Banksy, torniamo a parlare dell’artista sconosciuto più famoso del mondo che firma “un documentario su un regista, diretto dal soggetto sul quale il regista avrebbe dovuto girare il film” di Mariella Dal Farra

Sognare. Se l’idea originale era quella di illustrare

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una forma d’arte – il graffitismo – che in qualsiasi momento può essere dissolta dall’intervento degli assessorati al decoro urbano, ebbene nel procedere del primo film diretto dall’inglese Bansky1 quest’idea viene completamente sovvertita, fino a diventare un reportage sul farsi del documentario stesso2. L’operazione è facilitata dalla peculiare personalità del “regista” inizialmente designato: Thierry Guetta, un francese emigrato a Los Angeles che si caratterizza per la compulsione a filmare qualsiasi cosa si proponga alla sua attenzione, dai clienti che frequentano il suo negozio di abbigliamento vintage alle scene di vita familiare, fino alle celebrità che gli capita di incontrare per strada. La vita di Guetta subisce una drammatica svolta quando, in occasione di un soggiorno a Parigi, scopre che suo cugino è l’artista di strada “Invader”, noto per i piccoli mosaici incastonati negli angoli più imprevedibili della capitale francese, e ispirati al gioco Space Invader. Da quel momento in poi, l’aspirante documentarista inizia a seguire gli esponenti della cosiddetta guerrilla art nelle loro spedizioni notturne, riprendendoli mentre scavalcano cornicioni, si arrampicano su altissime scale a pioli, dipingono a spray il loro messaggio e fuggono, talvolta inseguiti dalla polizia. La passione per questa forma di espressione artistica, unitamente all’eccitante pericolosità della sua esecuzione, fanno

sì che Thierry Guetta persista nell’impresa accumulando materiale lungo un’intera decade. L’incontro e la genesi Quando nel 2006 Banksy approda a Los Angeles per l’allestimento della mostra “Barely legal”, Guetta riesce a coronare il suo sogno, diventando assistente dell’anonimo artista e aiutandolo nella realizzazione di un paio di interventi “extra-esibizione”. Guadagnatosi in tal modo la fiducia dello street artist per eccellenza, Guetta riceve da lui l’incarico di confezionare un film che illustri la filosofia del graffitismo, improntata alla demistificazione del concetto di arte inteso in senso accademico, e al rifiuto dell’apparato commerciale che ci ruota intorno. La street art si propone infatti come movimento di democratizzazione dell’arte, perseguita attraverso la pratica di due “infrazioni”: 1. la sconsacrazione dei luoghi ufficialmente deputati a custodirla, poiché i graffiti non stanno nei musei ma nelle strade, dove tutti possono vederli; 2. il superamento della

Passare in filiale. figura “carismatica” dell’artista, che non è più “chi possiede un talento particolare” ma “chiunque abbia qualcosa da dire”. Non a caso, la tecnica preferita da Banksy è lo stencil che, oltre ad assicurare la massima rapidità d’esecuzione e una riproducibilità illimitata, non richiede una manualità particolare, quasi a sottolineare la possibilità da parte di tutti


Un fotogramma di Exit through the gift shop (2010). Immagine tratta da www.dumbdrum.com

di “fare dell’arte”. Ma il sistema ha i suoi anticorpi, e reagisce appropriandosi dei prodotti della street art – talvolta “strappandoli” letteralmente dai muri – per re-immetterli nei circuiti commerciali

Acquistare. (aste e gallerie). Se il graffitismo è un movimento espressivo di critica sociale, con particolare riferimento alla proprietà privata del bene (anche artistico), allora il film nasce come reazione alla crescente “capitalizzazione” dell’arte, esemplificata dal clamoroso riscontro ottenuto dalla sopracitata mostra di Banksy, le cui opere raggiungono a partire da quel momento quotazioni vertiginose. Un successo sorprendente Fino a qui, tutto bene; i problemi cominciano quando Guetta consegna a Banksy il film che ha realizzato per spiegare tutto questo. Il lavoro, dall’evocativo titolo di Life remote control (“Il telecomando della vita”) è infatti un assemblato incoerente di sequenze che rivela come Guetta non abbia la benché minima idea di come si giri un film. Ed è qui che il documentario prende una piega inattesa: Bansky decide di assumere il controllo della situazione e occuparsene lui; per avere campo libero, suggerisce a Guetta di tornare a Los Angeles e dedicarsi in prima persona alla street art, magari organizzando una mostra.

Guetta, galvanizzato dall’incoraggiamento dell’artista, assume lo pseudonimo di “Mister Brainwash” e comincia a produrre “pezzi” che sembrano un centrifugato – ad alto coefficiente di banalizzazione – di Wharol, Shepard Fairey e Banksy stesso. Ma non si ferma qui: accendendo un secondo mutuo sulla propria abitazione, acquista un enorme spazio industriale e comincia a pubblicizzare l’apertura di una grande personale. La creazione mediatica dell’evento procede a ritmo serrato in assenza di qualsiasi presupposto logico, poiché Guetta non è mai stato un artista e tanto meno ha mai organizzato un’esposizione. Ma Mister Brainwash è inarrestabile – o, verosimilmente, affetto da qualche forma di disturbo bipolare – e non esita ad avvalersi dell’aiuto dei suoi amici artisti per reclamizzare l’evento. La catastrofe sembra imminente, ma alla fine l’esposizione riesce ad aprire e viene visitata, in un solo giorno, da più di 5.000 persone; i profitti delle vendite realizzate nel corso della prima settimana ammonteranno a un milione di dollari circa. La metafora dell’artista Perfetta parabola di come attualmente funzioni il mercato dell’arte, Exit through the gift shop è stato accusato di essere un mockdocumentary, un falso documentario in cui una storia fittizia viene presentata come vera. Tuttavia, a parere di chi scrive, la vicenda è troppo paradossale, troppo genuinamente assurda per essere un artefatto; inoltre, tutti i protagonisti sono autentici, incluso Guetta – alias Mister Brainwash – che nel 2009 ha curato la copertina dell’album di Madonna, Celebration. Quello che doveva essere un

documentario sulla street art è dunque un film che mette a nudo in maniera irriverente, e divertente, i meccanismi che governano questo settore, basato sulla creazione dell’evento e sulla mercificazione dell’artista in forma d’icona pop. Nel film, Banksy si mostra all’interno di uno studio – presumibilmente il suo – con il viso oscurato da un cappuccio: accanto a lui, in una teca di vetro, una maschera di scimmia che sembra alludere al vero volto dell’artista in questa nostra (almeno, ancora per un po’) ritrita società dei consumi… note 1

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In italiano la pellicola è disponibile da Feltrinelli, nella collana “Real Cinema” (2011). Sull’artita inglese si veda anche “Bansky. La guerriglia artistica” in Ticinosette n. 46/2009 (http://issuu.com/ infocdt/docs/n_0946_ti7). Ty Burr, “Exit through the gift shop - Writing’s on the wall”: in “Exit, street art scene becomes a farce”, The Boston Globe, 23/4/2010.

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La legge del naufrago La vera avventura è un’esperienza lontana da leggi, codici, regole e abitudini della società civilizzata. Una prova di sopravvivenza che in mare si fa ancora più estrema e sacrificatoria di Giancarlo Fornasier

“Art. 303 - Abbandono della nave in pericolo

annali e diari di viaggio stampati. Una fonte che Melville scoprì molti anni prima della stesura del suo romanzo; tanto che nel 1841, imbarcato come mozzo sulla baleniera Acushnet, lo scrittore americano riuscì anche a incontrare di persona Owen Chase. In verità, il resoconto del primo ufficiale è una delle tre ricostruzioni del naufragio della Essex2; sia il comandante Pollard sia un altro sopravvissuto, Thomas Chapple, raccontarono i tragici fatti pubblicati più volte a partire dal 1821.

L’incontro con il destino Il 20 novembre 1820 la baleniera americana Essex – 238 tonnellate di stazza e venti membri d’equipaggio – è impegnata in una battuta di caccia nell’Oceano Pacifico, a circa 2.000 miglia a ovest delle Isole Galapagos, sulla linea dell’Equatore. Al comando della nave, “un bastimento solido e sicuro (...) aveva un carico di provviste sufficiente a due anni e mezzo di navigazione”, il capitano George Pollard, in quel momento a bordo di una lancia impegnato a inseguire dei cetacei; alle sue spalle il primo ufficiale Owen Chase (nell’immagine a lato) su una seconda imbarcazione. Nelle concitate fasi dell’attacco a uno degli animali, la scialuppa di Chase viene danneggiata e con i suoi uomini torna a bordo della Essex, pronto però a riprendere la caccia... “quando scorsi un enorme capodoglio, per quanto riuscivo a distinguere lungo almeno un’ottantina di piedi, emergere dall’acqua”. Il primo ufficiale osserva l’animale immergersi e ricomparire, poi avvicinarsi minaccioso alla baleniera. Chase ordina allora di virare: “Le parole non mi erano ancora uscite di bocca che la balena ci fu addosso urtando con il capo la prua della nave (...). La nave si rizzò di scatto come avesse cozzato contro uno scoglio, e per alcuni secondi tremò come una foglia. Ci guardammo sconvolti, senza parole”. Sarà il primo di due micidiali attacchi.

Inizio e fine del sacrificio Se le pagine di Moby Dick rappresentano uno dei massimi vertici della letteratura ottocentesca – con il capitano Achab che, ferito e legato al “mostro” bianco, viene portato negli abissi tra vortici di schiuma e sangue –, l’incidente della Essex introduce altri elementi profondamente crudi e disturbanti. Recuperato parte del materiale dalla baleniera (carte nautiche, viveri e alcuni strumenti di navigazione), il naufragio pare risolversi con la sola perdita materiale – “Eravamo appena ad una distanza pari a due lunghezze della scialuppa quando la nave si rovesciò sopravvento e sprofondò lentamente” –, mentre tutto l’equipaggio diviso in tre scialuppe è in salvo. Il 22 novembre gli uomini si dirigono verso le Isole Henderson, sul Tropico del Capricorno, dove giungono il 20 dicembre, ma così affamati da nutrirsi di uccelli tropicali “divorandoli vivi”. Tre di loro rimangono sull’isola e il 27 del mese le barche ripartono. Qui il dramma si fa ancora più grave e iniziano i primi atti di cannibalismo: i corpi di quattro marinai, nel frattempo deceduti per lo sfinimento, servono da sostentamento per gli altri. E non sarà un episodio isolato: già il 1. febbraio su una delle lance si decide a sorte chi dovrà morire per permettere ai compagni di continuare a sperare. Le barche rimaste sono ora due, distanti tra loro a seguito di un temporale. Verranno recuperate fra il 18 e il 23 febbraio del 1821: delle navi di passaggio troveranno cinque sopravvissuti, testimoni di un dramma tanto estremo da diventare l’archetipo della sopravvivenza e delle sue leggi. Tra questi anche il capitano George Pollard, che per vincere la morte non colò a picco con la sua nave, e nemmeno si diede in sacrificio per garantire la sopravvivenza dei suoi uomini.

Il comandante non può ordinare l’abbandono della nave in pericolo se non dopo esperimento senza risultato dei mezzi suggeriti dall’arte nautica per salvarla, sentito il parere degli ufficiali di coperta o, in mancanza, di due almeno fra i più provetti componenti dell’equipaggio. Il comandante deve abbandonare la nave per ultimo, provvedendo in quanto possibile a salvare le carte e i libri di bordo, e gli oggetti di valore affidati alla sua custodia”.1

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La fonte del mito Il racconto del naufragio della Essex è tra gli episodi più saccheggiati (ma meno noti) della storia della navigazione moderna. Qualcuno avrà forse collegato le parole di Chase ad alcune pagine di Moby Dick (1851), capolavoro di Herman Melville dedicato a una baleniera (il Pequod) speronata e fatta affondare da un enorme capodoglio bianco. E le cose stanno proprio così: Owen Chase è un personaggio realmente esistito e la distruzione del suo veliero divenne in breve tempo prima patrimonio orale tra la gente di mare – “di nave in nave, di porto in porto se ne tramandò notizia” –, entrando poi nella leggenda attraverso memorie,

note 1 Leopoldo Tullio, Codice della navigazione, Titolo III - “Dell’impresa della navigazione”, Giuffrè, 2009. 2 Il resoconto di O. Chase è stato edito in italiano con il titolo Il naufragio della baleniera Essex (SE, 2002). Le parti in corsivo sono tratte dal volume citato.


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Oblio, parte seconda Concludiamo la riflessione sul significato della memoria e dell’oblio, indagando e analizzando le metafore a cui affidiamo i loro significati testo di Francesca Rigotti illustrazione di Mimmo Mendicino

La

memoria, dicevamo nella puntata precedente1, viene espressa prevalentemente con due campi metaforici: quello del “magazzino” e quello della “della tavoletta di cera”. Anche gli stati opposti a memoria e ricordo, dimenticanza e oblio, vengono espressi con un linguaggio costruito intorno a quelle immagini. Avremo quindi, per quanto riguarda il dimenticare, metafore del profondo per l’immagine del magazzino, e metafore della cancellazione della scrittura per l’immagine della traccia nella cera. Se si immagina la memoria come un magazzino, l’oblio viene a trovarsi nella sua parte più fonda, buia, umida, piena d’acqua: si parlerà delle profondità del “pozzo del passato” in Thomas Mann, di “oscura dimenticanza”, di “azzurro oblio”, azzurro come le acque marine, in Nietzsche, di “oblio profondo” in Blanchot. In questo modello l’acqua è spesso presente, sia che si trovi in fondo al pozzo, sia che avvolga l’isola o la zattera della memoria, sia che scorra come acque dell’oblio, acque del tempo, acque dalle quali i ricordi del passato “risalgono a galla” o “emergono alla superficie”. Talvolta il deposito della memoria è bucato come un setaccio o un colabrodo: sono i ricordi che escono dai buchi per cadere nel fiume dell’oblio o i ricordi che dai buchi scivolano fuori come acqua. Le acque dell’informatica Alla metaforica del magazzino (store, storing, storage) come a quella della profondità e dell’oscurità del deposito nonché dell’acqua nella quale si cade o si sprofonda non sfugge certo il linguaggio dell’informatica, già fortemente acquatico (cibernetica, surf, web, ecc.). Essa coesiste peraltro col modello della memoria quale impronta nella cera: electronic footprint, di fatti passati etched like a tattoo in to our digital skins, di memoria etched in stone quanto paradossalmente dotata di una buona dose di “malleabilità” (gli esempi sono tratti dal recente libro di Viktor Mayer-Schönbeger, Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale, Egea, 2011). Come verrà rappresentato l’oblio volontario, in azione quando

si vuole deliberatamente cancellare (anche questo metafora: si “cancella” quando si tirano su una scrittura dei freghi per lungo e per traverso che rendono la figura di un cancello)? Col gesto (metaforico) di rendere liscia la tavola di cera incisa: è questa la metafora implicita nel verbo latino obliviscor e nel sostantivo oblivio, da cui gli italiani oblio, obliare, obliterare ecc., che sta per render liscio, levis, spianare le tavole della mente, togliere rilievi e riempire incavi, anche quelli lasciati dai punti, quindi in questo caso ex-pungere, espungere, cancellare, eliminare. Delete Oggi invece di affaticarsi a lisciare cera o a tracciare cancelli sulla pergamena o sulla carta, per gettare i dati nel pozzo dell’oblio basta premere il tasto delete. Il termine inglese delete – che significa rimuovere qualcosa di scritto o di stampato, come primo significato, e poi cancellare, espungere, togliere – viene direttamente da forme verbali greche (dēléomai) e latine (dēlēo). Dēlēo e dēléomai hanno entrambi un senso ben più aggressivo del cancellare uno scritto: dēléomai vuol dire propriamente “ferire, danneggiare, distruggere”, e l’aggettivo deleterio, da esso derivato e diventato poi termine prevalentemente medico, designa qualcosa di nocivo, che avvelena e distrugge. Il verbo latino dēlēo, apprendiamo, risulta composto, da de, che designa allontanamento, e li, una radice che ha che fare con il verbo latino lino, linire = lenire, ammorbidire con unguenti, spalmare, lisciare, cancellare e alttri termini greci con significato identico (ammorbidire, lenire, rendere morbido e liscio) o analogo (ungere, spalmare, anche intonacare). Insomma basta passarci sopra una bella mano di bianco, un colpo di spugna e via, ecco i dati cancellati, spenti, estinti, espunti, insomma dimenticati: viene così confermata la vitalità operativa della metafora della memoria come traccia impressa nella c’era impressione anche nella faccia negativa dell’oblio. Delete come de lethe: rendi liscio e spiana, restituisci all’oblio. nota 1 Si veda Ticinosette n. 50/2011 (http://issuu.com/infocdt/docs/n_1150_ti7).

Metaphorae

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» testimonianza raccolta da Gaia Grimani; fotografia di Igor Ponti

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Carlo Storni

Vitae

non ci pesava, consapevoli che i lavori in campagna non sarebbero così ricaduti sulle spalle dei nostri genitori. Poi lentamente, sempre con mio fratello, si fece strada l’idea di dar vita a una piccola tipografia per conto nostro. E ci riuscimmo: era il 1957. Innamorati della nostra professione, ci impegnammo a fondo con i nostri pochi collaboratori e i nostri clienti, la maggioranza dei quali, alla fin fine erano diventati amici. Nel medesimo anno mi sposai. Ho tre figli maschi e quattro nipoti, due ragazze e due ragazzi, tra i quindici e i venti anni. E la vita passa, con alti e bassi. Nato in campagna, tipografo per cin- Ho avuto una malattia imporquant’anni, innamorato del suo Ticino, ha tante, ma è stata utile, perché spinto lo sguardo verso terre lontane per mi ha permesso di riflettere sul fatto che noi qui abbiamo portare, pedalando, l’acqua e il sorriso a tanto e molti, troppi, tanto chi non li ha poco. Allora, mi sono detto, mentre possiamo, facciamo mentari, frequentai la scuola qualcosa per chi ha bisogno. Avevo visto maggiore a Tesserete. nel 1995 la dimostrazione di una pompa a Terminata la guerra, nel giupedali, molto semplice, creata da due ingegno del ‘47 in un tema in gneri svizzeri in pensione. Una pompa del classe intitolato “Cosa farò da genere non richiede né manutenzione, né grande”, scrissi: il tipografo. energia ed è facile da riparare. È l’ideale per Perché? La strada degli studi essere portata nel terzo mondo in paesi con a lungo termine era preclusa, penuria d’acqua, partendo dal presupposto di non sopportabile finanziarianon regalarla, affinché l’apprezzino maggiormente per i nostri genitori e mente, d’insegnare loro a costruirla e gestirla, c’era in paese un tipografo, facendogliela pagare una sciocchezza che amico di mio padre, che si possono saldare in anni con parte del ricavo adoperò per trovarmi un podei raccolti che l’acqua consente. Per monsto in quel settore. Tirocinio tare queste pompe servono tre condizioni: a Lugano, contratto dopo gli appoggiarsi a gente che conosce bene il teresami d’ammissione, quattro ritorio, generalmente gli Istituti don Bosco; anni, settimana di 48 ore, che ci sia vicino un torrente, una sorgente paga al venerdì, scuola un oppure una falda; che sia prossimo un mergiorno alla settimana per le cato, dove possa essere venduta la parte del materie culturali, e al sabato raccolto che eccede i bisogni familiari. Il vanpomeriggio in una tipografia taggio più immediato è che le donne hanno a Bellinzona per quelle propiù tempo per la famiglia e non lo perdono, fessionali. Esami finali alla percorrendo chilometri per attingere l’acqua. scadenza del contratto, in tiSi avvia in questo modo anche un circuito pografia, di domenica per non di microcredito per cui possono ottenere intralciare il lavoro nei giorni piccoli prestiti per le loro necessità familiari, settimanali. dai vaccini ai libri scolastici per i figli. È stata Divenni tipografo stampatocreata nella Svizzera tedesca un’associazione, re e mio fratello, che aveva la W-3-W (Wasser für die dritte Welt) che scelto la mia strada, compogestisce il tutto. Dalla primavera, due pompe sitore. Abbiamo trascorso una saranno visibili e funzionanti anche da noi bella gioventù: si lavorava a in Ticino, una a Vaglio e l’altra sulla piana Lugano, si lavorava a casa in di Magadino. campagna, seguendo il ritmo Tutti possiamo fare qualcosa per gli altri che delle stagioni. Avevamo relasia durevole e riesca a strappar loro un sorritivamente poca libertà, ma so. Magari con l’aiuto di una pompa a pedali.

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A

prii gli occhi in una giornata fredda, il 7 gennaio del 1933, in una camera della casa di mia nonna a Vaglio in Capriasca. Abitavamo in piena campagna in quel di Lugaggia, assai lontano da un nucleo abitato. Non passò poi molto tempo, che sorrisero in casa nostra un fratello e due sorelle, venuti a rallegrare la nostra famiglia ancora prima della guerra, che ci colse giusto nel settembre del 1939, quando iniziai la prima elementare a Lugaggia. Figlio di un muratore e di una contadina, la mia infanzia fu caratterizzata dalla scarsa presenza del padre, che per la durezza della crisi fu obbligato all’emigrazione a Zurigo, eccetto nel periodo che andava da dicembre a marzo. Mi rivedo, nelle belle giornate dei mesi invernali, con mio fratello, il naso incollato alla finestra della cucina, ad attendere che il sole, scendendo dalla collina del San Bernardo, arrivasse fino a noi, così che la mamma ci permettesse di raggiungere nostro padre nel bosco a far legna. La guerra s’insinuò nelle nostre vite, senza che noi bambini neanche ce ne accorgessimo. Certo non possiamo dimenticare l’assenza più prolungata di nostro padre, subito richiamato in servizio fino al 1945, la gioia al suo rientro nei giorni di congedo, la carta nera che nostra madre applicava alle finestre per l’oscuramento, il razionamento con i bollini da consegnare a Filomena, la nostra brava bottegaia, il libretto dove annotava le compere, che veniva poi pagato a fine mese. Avevamo la grande fortuna di abitare in campagna e poter coltivare ogni metro di terra. Avevamo la mucca, le galline e i conigli. Tutto questo ci impedì di patire la fame. Dopo scuola lavoravamo per aiutare la nostra mamma, ma non ci pesava più di quel tanto, anche perché avevamo davanti un grande esempio, e, fatti i lavori e i compiti, potevamo pure giocare. Dopo le ele-


Good morning, Lugano Storia di quotidiane battaglie per capire cosa abbiamo conquistato

Scrivere della luce estiva luganese in pieno inverno berlinese è il fil rouge che ho voluto seguire per cercare di trasmettere lo stato d’animo che ha portato alla realizzazione delle fotografie presentate in questo servizio. Il quadro del discorso è ampio, almeno quanto lo è la dimensione che ci separa dalle stagioni; ampio, quando penso che oggi, in questa città, è inverno e la serie, così come l’avrei voluta, sarebbe comunque stata impossibile da pubblicare

testo e fotografie di Matteo Fieni


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ostalgicamente vedo e penso alla “fotografia”, almeno a quella appartenente alla old school, come a uno strumento cognitivo in grado di far raggiungere al magico momento ripreso l’eternità, al di là dello spazio e del tempo. Un “fare” che si distanzia nettamente dalla fotografia “usa e getta” come la si intende e la si vive oggi. Nella fotografia più impegnata, quella di tipo documentativo/ sociale per intenderci, alla quale ho attinto per il progetto presentato in queste pagine, l’obiettivo è di lasciare emergere gli elementi naturali così come si presentano, senza condizionarli. È ciò che ho tentato di fare, in una specie di

“pedinamento del reale”, per dirla con le parole del celebre sceneggiatore neorealista Cesare Zavattini. Scegliendo i luoghi in base alla loro luce, ho lasciato che le persone riprese mi passassero davanti, senza essere state preparate come in una fiction. Da questo punto di vista, esse conservano tutta la loro innocenza, condizione sine qua non per questo tipo di sguardo. Non solo, il progetto è anche una sorta di omaggio a quanto teorizzato da Henry Cartier Bresson, padre della fotografia giornalistica. Per lui il fotografare era infatti “organizzazione rigorosa delle forme percepite visualmente che esprimono e significano quel fatto”, mettendo “sulla stessa


linea di mira la testa, l’occhio e il cuore”, come accade nelle arti marziali. Ma non siamo nella Parigi degli anni Trenta, e nemmeno a New York, dove di gente per strada ce n’è sempre parecchia. Fare streetphotography a Lugano è faccenda molto più ardua di quel che si pensa, soprattutto oggi che le cose sembrano essersi disallineate dalla poetica bressoniana. Semaforo rosso La legge ci ha poi messo lo zampino: per proteggerci e in nome del progresso, la ricerca di quella stessa eternità

accennata sopra non sembra più essere una motivazione sufficiente per fare sul serio. Mi occorrono praticamente due lauree per esercitare l’attività di fotografo/artista e distinguermi da chi realizza le immagini di Google Street View. Mentre tutti i sistemi di ripresa automatici installati per “fotografare” una società oppressa e controllata sono legali, io, che uso lo strumento fotografico per liberarne una lettura e per interpretare questa società in prima linea, non lo sono affatto. Ecco il motivo del bollino rosso che vedete nelle fotografie presentate in queste pagine.


Verboten! Mi sembra di udire questo avvertimento dal poliziotto che mi osserva mentre attraverso a piedi e col rosso un incrocio berlinese su una strada deserta. Metaforicamente, il rosso rappresenta in queste fotografie non solo un divieto, ma una vera e propria censura. Il discorso si sposta prepotentemente sul concetto contemporaneo di privacy che, in modo contraddittorio, rivela crudamente quello che la società cerca di nasconderci. Allora osservate di nuovo le fotografie, perché la tentazione di chiedervi se vi piacciono ancora equivale a chiederci se

ci piacciamo ancora. Se il vostro intrinseco voyerismo non è soddisfatto, vi schiererete probabilmente dalla mia parte, o prenderete almeno parte a quel dibattito che si vuole lanciare da queste pagine. Un dibattito che non si sarebbe nemmeno posto se avessi chiesto tutte le autorizzazioni necessarie, autorizzazioni che tra l’altro uso sempre più e che quindi conosco ormai piuttosto bene. Mentre progredivo con questo progetto, durante le meravigliose mattinate estive luganesi, non pensavo all’amaro destino di queste riprese e al compromesso che avrei dovuto accettare per vederle pubblicate. Onestamente non pensavo


nemmeno di pubblicarle, poiché ero concentrato nel cogliere gli attimi, senza fare i conti con un’industria che da una parte ti sprona a produrre e dall’altra ti limita. Insomma, in nome del consumismo si muniscono le persone di micro gadget trasformandole tutte in potenziali spie, rendendole complici di questa nuova guerra fredda sulla controversia della privacy, pubblicando di tutto e di più sui vari social network e prelevando dati su dati dalle milioni di fonti disponibili. In questo senso considero il mio lavoro molto poetico. Abbellire questo scenario è anche la mia ambizione, e lo faccio esorcizzandolo in quello che so fare meglio. Lo

incanalo laddove l’industria mediatica me lo consente, ma se mi si ostacola così, quello che emerge è l’ostacolo. Oltre il confine Con questo lavoro volevo raccontarvi della riproducibilità sopraggiunta durante l’epoca digitale, elevata da Twitter a vera e propria realtà, che viene rappresentata dalla struttura ripetitiva. In fondo, non tutto il male viene per nuocere; anche a me lo standard piace e ve lo dico attraverso il tempo nelle persone che osservo sfilarmi davanti. Tempo che diventa filmico, tempo alla Muybridge, pioniere dello stopmotion.


Quindi, qui la modularità ritmica è concettualmente giustificata. E allora quel bollino cosa c’entra? Osservo di nuovo le fotografie: la gente ora sembra sfilarmi davanti come se fosse teleguidata da un sistema schizofrenico, vittima del neuromarketing. Ebbene, con questo bollino i prodotti siamo noi. Noi, che veniamo regolarmente bollati come se fossimo merce. La buona notizia arriva dagli originali, proposti per ora solo sul mio sito. Spero che tra i miei lettori non si nasconda chi vuole far valere la sopravalutata (e onnivora) privacy, altrimenti potrebbero essere guai. A quel punto mi occorrerebbe

anche una laurea in giurisprudenza per difendere il mio lavoro di fotografo e appellarmi al sacrosanto diritto alla libertà di espressione, sancita dal Codice civile svizzero. Ma sono in buona compagnia. Guardiamo alla rinomatissima Magnum, agenzia fotografica nata nel 1947 per difendere i diritti di un drappello di fotografi ma sopravvissuta sino a oggi e di cui lo stesso Bresson fu tra i fondatori. Mi focalizzo sull’attualissimo lavoro di uno dei suoi membri: David Alan Harvey. Ebbene anche lui usa l’iPhone per lavorare, e lo fa “twittando” continuamente i suoi scatti senza preoccuparsi minimamente della privacy delle persone, né


dei suoi copyright. Sì, perché una volta spedite le fotografie, è come se queste venissero lanciate nello spazio, senza poi sapere bene dove andranno a finire e senza averne un controllo ma, a giudicare dai suoi follower, assicurando loro un folto pubblico. Twitter è il suo palcoscenico, la cassa di risonanza del suo lavoro, come questo articolo lo è per il mio lavoro. Anche se pochi mi seguono, nonostante tutti i rischi, continuo ad andare avanti, progredendo nella mia ricerca, perché il permesso di lasciarmi attraversare questa strada a questo punto me lo prendo da solo, immaginandovi senza semafori in testa.

Matteo Fieni Nato nel 1976, si diploma nel 2001 all’Istituto Europeo di Design di Milano dove ha studiato fotografia. Inizia la sua carriera artistica con alcuni lavori presentati al festival off di Image Argos Project 2000 (Vevey) e con diverse performance presso la Fabbrica tra cui figura l’esposizione “Realtà rivelata” nel 2003 (Losone). Nel 2007 si iscrive alla Facoltà di Scienze della comunicazione (USI, Lugano). Dal 2010 si sta occupando del progetto “Ritratti Metropolitani” (www.ritrattimetropolitani.ch). Vive a Lugano e lavora presso la Opening da lui fondata nel 2003 (www.opening.ch).


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L’anello sepolto

Tanto tempo fa, in una terra lontana, c’era

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un lago sulle cui rive viveva un contadino di nome Giacomo con la sua famiglia. La sua proprietà era ammirata da tutti perché era ampia e ben esposta ai raggi del sole. Ma nonostante tutti i tentativi, ogni coltivazione andava a male e nessuno sapeva comprenderne la ragione. Ogni anno, poco prima del raccolto, benché i muri di confine rimanessero intatti e non una pietra fosse trovata fuori posto, i suoi campi venivano tutti rovinati. Insomma, un vero mistero. Disperato, Giacomo si rivolse al suo amico e vicino Bartolo: “Che cosa posso fare? Sono tempi davvero brutti e se anche quest’anno avverrà

trascrizione di Fabio Martini illustrazione di Simona Giacomini

la stessa cosa dell’anno passato non avrò nulla da dare da mangiare ai miei bambini. Di questo passo non mi resta che andarmene in cerca di fortuna o diventare marinaio su qualche nave”, si confidò sconsolato. “L’unica soluzione è che, insieme a i miei due figlioli, mi metta di notte a fare la guardia, perché è proprio una vergogna che un brav’uomo come te sia ridotto in queste condizioni”, gli suggerì l’amico. Così, la notte seguente, Bartolo e i suoi due figli si sistemarono dietro una roccia al limite settentrionale del podere. Era una bella serata, la luna splendeva nel cielo e brillava sulle acque limpide del lago. Non un rumore si udiva se non, in lontananza il magico canto dell’usignolo. Improvvisamente le acque cominciarono a muoversi e a ribollire e dal centro del lago emerse un grosso drago che sollevatosi con qualche colpo d’ala andò ad accucciarsi proprio al centro del podere di Giacomo, calpestando una parte del raccolto. Bartolo e suoi figli, spaventati da tale apparizione, si fecero ancora più piccini dietro la roccia e se ne stettero lì zitti, zitti e senza fiatare finché, poco prima del sorgere del sole, il drago si gettò nelle acque del lago.

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tre vicini, ancora agitati, raccontarono a Giacomo cosa avevano visto. Non sapendo cosa fare, Giacomo, consigliato dalla moglie, decise di andare a parlare con la vecchia Agata, una donna che viveva in completa solitudine, come un eremita, in


una casupola in mezzo alla foresta. Da sempre, le genti di quei luoghi sostenevano che Agata avesse poteri magici e molti vi si recavano per chiedere consigli o interrogare il proprio futuro. E così anche Giacomo quel giorno bussò alla sua porta. “Avanti”, sentì dire dall’interno. Appena entrato trovò la vecchia Agata seduta davanti al camino intenta a fumare una lunga pipa. “Che volete buon uomo? In cosa posso aiutarvi?”. Giacomo le raccontò l’intera storia, senza nascondere la sua preoccupazione per la sorte della sua famiglia. Agata allora si alzò e appoggiandosi a un bastone andò verso un dispensa dal cui interno trasse una boccetta di vetro azzurro. “Dovete raccogliere le lacrime del drago in questa boccetta e portarmele, senza perderne alcuna. Solo così sapremo perché prima del raccolto va a sedersi nel vostro podere”. “Ma come faccio?”, chiese Giacomo, “io di draghi mica me ne intendo. E se poi mi mangia o mi dà fuoco? Andrà ancora peggio…”. “Non temete. Preparate una soluzione di miele, ginepro e latte di mucca e avvicinatevi senza apprensione. Ne sarà addolcito e lo farà piangere. Ma starà a voi riuscire a raccogliere le sue lacrime”. Giacomo, preoccupato per quanto l’aspettava, preparò la bevanda e, scesa la notte, si nascose dietro la pietra. Era da poco passata la mezzanotte che l’enorme bestia uscì dal lago e andò a posarsi in mezzo al podere. Giacomo, fattosi coraggio si avvicinò per lasciare la bacinella con il latte e il miele proprio davanti al muso del drago. Questi prima sbuffò, ma poi, avvertito il dolce profumo della pozione, la bevve tutta avidamente. A quel punto, una gran malinconia lo pervase e grosse lacrime cominciarono a luccicare nei suoi occhi. Giacomo si avvicinò di nuovo

e, una volta raccolte le lacrime che copiose scendevano dal muso dell’animale, se la diede a gambe levate.

Il giorno seguente tornò dalla vecchia Agata. “Ecco le lacrime. Ho avuto una gran fortuna ma il vostro consiglio si è dimostrato giusto”. La vecchia fece cadere due gocce dalla boccetta in una bacinella di aceto di mele e rimase a lungo a osservare le forme che si producevano sulla superficie. “Ora capisco”, disse dopo un po’. “Proprio nel vostro podere è seppellito un anello, l’anello che il drago avrebbe voluto donare alla sua sposa draghessa. Ma un mago malvagio ha voluto impedire la loro unione e ha nascosto nella vostra terra quel prezioso gioiello. Dovete dissotterrarlo e, una volta trovato, badate bene di non guardarlo né tanto meno di metterlo al dito, perché altrimenti il mago vi troverà e distruggerà voi e la vostra famiglia. Aspettate dunque la notte e appoggiatelo a terra, ai piedi del drago. Lui lo prenderà e fuggirà per sempre dal lago e dalle vostre terre”. Quella sera, insieme a Bartolo e ai suoi figli, Giacomo si mise a scavare e quando la buca fu profonda tre braccia le loro vanghe urtarono contro qualcosa di duro. Era uno scrigno d’argento al cui interno era nascosto il grosso anello. Appena il drago quella notte si posò nel campo, Giacomo gli si avvicinò e, appoggiato a terra lo scrigno, lo aprì. Una luce incredibile si sparse tutto intorno e il drago, afferrato l’anello, scomparve nel chiarore della luna, oltre i monti che separano dal mare. Nessuno, a quanto Giacomo mi ha raccontato tanto tempo fa, lo vide mai più. Le sue terre tornarono feconde e la sua famiglia vi rimase a lungo e per molte generazioni.

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Rivoluzioni in Tendenze p. 48 – 49 | di Luca Martini

L’ingresso sul mercato dei nuovi sistemi fotografici mirrorless sta modificando l’approccio alla fotografia. Il primato delle reflex, almeno quelle di fascia economica, inizia infatti a vacillare di fronte alle prestazioni e alla versatilità di queste “piccoline”

Panasonic È stata la prima a introdurre il concetto mirrorless e sta proponendo sistemi basati sullo standard Micro Quattro Terzi che prevede un sensore di diagonale pari a ½ del formato 35 mm, il cosiddetto full frame. Tende a proporre macchine che si pongono in chiara alternativa alle reflex, ma anche a compatte di alta qualita. Attraverso specifici anelli adattatori è possibile usare le fantastiche ottiche Leica M. Ovviamente con queste ottiche si rinuncia all’autofocus, ma si guadagna in qualita dell’immagine in modo sorprendente.

■ ■ Chi si interessa di fotografia ed è estimatore del telemetro assiste al momento a un’appassionante sfida tra i maggiori colossi dell’industria fotografica. I contendenti sono da un lato le aziende di maggior estrazione fotografica e che hanno saldamente in mano il mercato delle reflex, Canon e Nikon; dall’altro le aziende a vocazione elettronica che stanno cercando di scalzare il primato delle leader del settore con l’introduzione di concetti rivoluzionari che in qualche modo rivisitano le caratteristiche del telemetro. Si tratta per lo più di Sony, Panasonic, Samsung e Olympus. La posta in gioco è il mercato dei sistemi fotografici amatoriali, semiprofessionali e forse anche in parte professionali. La quasi totalità di coloro che si sono dedicati alla passione fotografica con un certo impegno negli ultimi anni, ha finito per dotarsi di un corredo reflex e di alcuni obiettivi. Le reflex sono infatti al momento i sistemi più versatili e completi. La loro primaria caratteristica è quella di permettere la visione dell’immagine attraverso il mirino cosi come la coglie la macchina attraverso l’ottica, che

Nikon Ha introdotto due macchine, la J1 e la V1, che interpretano l’architettura mirrorless senza approfondirla, perché questo significherebbe fare concorrenza alle reflex di fascia medio bassa in cui Nikon, insieme a Canon, è leader. Le J1 e V1 sono poco piu` che delle compatte con ottica intercambiabile che puntano tutto sulla capacita di passare dalla modalita fotografica a quella video quasi senza soluzione di continuita. La qualita delle immagini non si discosta però da quella di una buona compatta. Grazie a un sistema AF estremamente veloce, paragonabile a quello delle reflex, e a processori di immagine altrettanto rapidi, le due macchine riescono a scattare fino a 60 immagini al secondo a piena risoluzione.

Olympus Con la revisitazione del sistema Pen degli anni Sessanta, Olympus ha introdotto una serie di nuove macchine la cui fascia alta, con la E-P3 eventualmente dotata di mirino opzionale sulla staffa del flash, si pone in concorrenza con le reflex. Anche Olympus si appoggia allo standard Micro Quattro Terzi e permette di montare ottiche di tutte le epoche incluse le Leica M. La E-P3 è dotata di un display touch screen OLED estremamente luminoso attraverso cui è possibile indicare alla macchina quale oggetto tenere a fuoco semplicemente toccandolo sul display.


n corso può essere modificata a seconda delle esigenze di ripresa. I primi sistemi reflex sono nati negli anni Cinquanta e da allora si sono evoluti e adattati a tutte le trasformazioni tecnologiche avvenute: l’elettronica, l’autofocus e infine il digitale. Ciò grazie alla flessibilità di una architettura piuttosto complessa basata su di un sistema di specchi e un mirino a pentaprisma. Nel momento in cui si rilascia l’otturatore, la visione nel mirino si oscura perché lo specchio si alza e l’immagine, che prima era deviata nel mirino, viene impressa sull’elemento sensibile, previa apertura della tendina. Tutta questa flessibilita ha però un costo. Infatti la distanza tra la flangia su cui si montano le ottiche e l’elemento sensibile deve essere sufficiente per installare il sistema reflex e questo fa si che sia gli obiettivi sia gli apparecchi siano grandi, pesanti e complessi. Eliminando il sistema reflex e introducendo un mirino elettronico è possibile ridurre le dimensioni di ottiche e macchine in modo impressionante, lasciando inalterate molte delle caratteristche che fanno delle reflex degli strumenti professionali: grandi sensori,

Samsung Samsung commercializza due configurazioni diverse. Le NX10 e NX11 si propongono come alternativa ai sistemi reflex e ne hanno l’aspetto e le funzioni. Le NX100 e NX200 hanno invece una forma decisamente più compatta grazie alla rinuncia al mirino integrato. Basate su di un sensore APS-C, più grande dello standard Micro Quattro Terzi e pari a quello delle reflex tradizionali in commercio, competono con le reflex di fascia media.

esposizioni accurate, autofocus sofisticati e velocissimi, ottiche intercambiabili di altissima qualita. Questa nuova generazione di macchine si chiama CSC (Compact System Camera) oppure semplicemente mirrorless. Alcune sono dotate di mirino elettronico, in certi casi opzionale, altre usano semplicemente il display sul dorso dell’apparecchio che con le più recenti tecnologie risulta brillante anche in pieno sole. Ma non si tratta solo di una questione di ingombro e peso, perché le mirrorless stanno cominciando a evidenziare anche altri vantaggi nei confronti delle reflex. Infatti sia l’esposizione che la messa a fuoco integrate con il sensore rendono le mirrorless potenzialmente superiori. Inoltre, il mirino elettronico ha una resa in condizioni di scarsa illuminazione, anche con ottiche poco luminose, che le reflex non possono avere. Caratteristica, questa, comune alle macchine a telemetro. Vediamo come hanno affrontato il tema le diverse case produttrivi, con l’eccezione di Canon, il cui primo sistema mirrorless è atteso nel 2012.

Sony Anche Sony ha scelto i sensori formato APS-C e li propone su tre mirrorles, la NEX-C3, la NEX-5N e la NEX-7. Quest’ultima con una risoluzione di ben 24.3 Mpixel. La NEX-C3 non ha il mirino e per inquadrare usa il display con una risoluzione di 920.000 punti; la NEX-5N ha il mirino in opzione, mentre sulla NEX-7 lo si trova integrato. Sono macchine assai compatte, ma a causa delle dimensioni del sensore, le ottiche non lo sono affatto, il che le rende un po’ sbilanciate. Grazie a un anello adattatore possono montare le ineguagliabili ottiche Leica M e, dotata di queste ottiche, la NEX-7 si pone allo stesso livello, se non superiore, della Leica M9 a un prezzo pari a un quarto.


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Astri toro

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Rinnovato interesse verso l’ignoto favorito dal recente ritorno di Nettuno. Il transito vi accompagnerà per gli anni a venire favorendo in chiave globale un nuovo percorso spirituale. Venere stimola i sensi.

Venere positiva per i nati nel segno. Ogni espressione emotiva tende a farsi più intensa. Forte crescita dei desideri erotici. La predisposizione a possedere il partner si auto esalta in un delirio cosmico.

Amori in arrivo per i nati nella prima decade a partire dall’8 febbraio. Grazie a Venere nel segno dell’Ariete il momento è ottimo per dare inizio a una inaspettata storia di amore. Ansiosi i nati nella terza decade.

Cambiamenti affettivi per i nati nella terza decade tra il 5 e il 7 febbraio. Grazie a Marte e Venere riuscite a muovervi con decisione e a gestire i cambiamenti portati da Saturno nella vostra quarta casa solare.

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Tra il 6 e l’8 la Luna transita nel vostro segno. Se i nati nella prima decade si sentiranno sollecitati a intraprendere strade nuove, i nati nella terza decade si rifaranno integralmente a vecchi atteggiamenti.

Marte vi spinge al movimento e all’azione. Venere di transito nei Pesci fino al 7 favorisce la vita sentimentale dei nati a fine segno. Flirts e passioni improvvise. Sempre in crescita i nati in agosto.

Esperienze emotive e amorose per i nati nella prima decade. Circostanze rivoluzionarie portate dall’arrivo di Venere. Colpi di fulmine o rotture improvvise. Liberatevi da vecchi condizionamenti infantili.

Situazione inaspettate con i colleghi di lavoro. Sviluppo di cortesie o di improvvise simpatie. Sbalzi umorali tra il 6 e l’8 febbraio. Il vostro amor proprio potrebbe sentirsi ferito. Rinnovamento e acquisti.

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Grazie a Mercurio i nati nella terza decade potranno cimentarsi in qualunque tipo di attività. Il momento è ottimo per far lavorare il cervello. Dall’8 febbraio in poi Venere è con i nati in novembre.

Plutone, Nettuno e Giove influenzano i nati nella prima decade. Possibili intuizioni finanziarie. Seguite l’istinto facendo altresì tesoro delle esperienze pregresse. Importante il 6 febbraio per i rapporti a due.

Grazie a Venere nel segno dell’Ariete, novità affettive per i nati in gennaio. Colpi di fulmine e creatività. Situazioni inaspettate e piacevoli. Lucidità mentale per i nati nella terza decade favoriti da Mercurio.

Con Nettuno prima e Mercurio poi, dal 7 febbraio siete pronti a intraprendere una profonda metamorfosi. I nati in febbraio troveranno nuovi porti in cui ancorare. Incontri con persone affini spiritualmente.

» a cura di Elisabetta

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 7

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 9 febbraio e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 7 feb. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

Orizzontali 1. Eludere, schivare • 10. Ragno velenoso • 11. Partenze... al contrario • 12. Consonanti in diario • 14. Il figlio di Anchise • 15. Mare del Mediterraneo • 17. I confini del Ticino • 19. L’antica Thailandia • 20. È l’ultima a morire • 23. Manovali • 25. Dittongo in Coira • 26. Precede la risposta • 28. Pari in forca • 30. Fiore lilla • 31. La rapì Paride • 32. Venti periodici • 33. Tiro centrale • 34. Assicurazione Invalidità • 35. Tra Mao e Tung • 37. Società Anonima • 39. Un’acconciatura femminile • 41. È vicino a Giumaglio • 43. Austria e Ungheria • 44. Articolo spagnolo • 45. Sottordine dei Rettili • 47. Un lungo pesce • 50. Preposizione semplice • 51. Arti pennuti • 52. Dubitativa • 53. Gavitello. Verticali 1. Tra la Sicilia e la Calabria • 2. Uccide Abele • 3. Superfici • 4. È piccola ma grande! • 5. La sigla del Tritolo • 6. Vasi panciuti • 7. Tediosa • 8. Il nome di Pacino • 9. Le provoca la radioattività • 13. La capitale con il Colosseo • 16. Il nome di Frassica • 18. Martin, indimenticato attore • 20. Segue l’aratura • 21. Scultore greco • 22. Allegro, piacevole • 24. Forellino epidermico • 27. Un veloce traghetto • 29. Un noto gastronomo • 36. Risonanze • 38. I confini di Arogno • 40. Pari in orco • 42. Sono dodici in un anno • 45. Risuona nell’arena • 46. L’Essere Supremo • 48. Cala centrale • 49. Lussemburgo e Svezia.

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La parola chiave del Concorso apparso il 20 gennaio 2012 è: CANTONE Tra coloro che hanno comunicato la soluzione corretta è stata sorteggiata: Ursula Guidetti via Saleggi 20 6612 Ascona Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

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