ticinosette № 10
del 9 marzo 2012
con Teleradio 11–17 marzo
mercenari
GUERRE PRIVATE
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7000 famiglie sono state deportate in quest’area desolata dove sono costrette Villaggio di Kan Dang Kao a vivere in condizioni disumane
vero amore
conosciuto misura
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Ticinosette n° 10 del 9 marzo 2012
Agorà Mercenari. La guerra “privata” Mundus Pallottole sull’acqua
di
Metaphorae Staccare la spina Società Lezioni di sottosviluppo
di
di
FRancesca Rigotti
di
Fiabe Il cappello di Ariel
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MaRco alloni . . . . . . . . . . . . di
gaia gRiMani . . . . . .
deMis QuadRi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Reportage Sport e handicap di
Foto di
Reto albeRtalli . . . . . . .
Fabio MaRtini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tendenze Zigomi&Zigomi
di
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RobeRto Roveda . . .
duccio canestRini . . . . . . . . . . . .
Media Quale lingua nel 2061? (pt.1) Vitae Antonella Pomari
di
MaRisa goRza . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La guerra dei soldi Mercoledì 29 febbraio i quotidiani recitavano laconicamente: “Sono cresciute lo scorso anno le vendite di armi elvetiche. La Svizzera ha infatti esportato in 68 Paesi materiale bellico per un totale di 872,7 milioni, facendo registrare un incremento del 36% rispetto al 2010. (...) A influenzare «in maniera decisiva l’incremento» sono state le esportazioni di velivoli militari da addestramento non armati negli Emirati Arabi Uniti, il nostro miglior acquirente. Seguono Germania, Italia, Belgio e Spagna”. Ricordiamo che nel 2010 le esportazioni si erano attestate a 640,5 milioni, una diminuzione del 12% rispetto ai 727,7 milioni del 2009 . Considerando la netta ripresa del mercato rispetto ai due anni precedenti, parrebbe di capire che “gli affari” abbiano imboccato la “giusta via”; un segnale questo assai positivo ed edificante se pensiamo, invece, alle indicazioni ancora incerte fornite dall’economia europea e dall’occupazione giovanile . Secondo alcuni analisti, l’attuale lievitazione del prezzo dei carburanti dovrebbe essere letta positivamente, poiché l’aumento del costo delle materie prime sarebbe indice di ripresa economica (o di una sua imminente risalita) . Eh sì, altrimenti che senso avrebbe pagare di più qualcosa che nessuno vuole? È la legge della domanda e dell’offerta nel libero mercato . A questo punto varrebbe la pena chiedersi: ma se la Svizzera ha venduto per 872,7 milioni in armi (in mezzo mondo), questo è avvenuto perché vi sono più tensioni, conflitti e tragedie umanitarie, oppure perché questa benedettissima crisi è finalmente alle nostre spalle? Buona lettura, Giancarlo Fornasier
Impressum Chiusura redazionale 2 marzo 2012
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In copertina Pagati per ammazzare Elaborazione grafica di Antonio Bertossi
Promettiamo a Manuela di offrire, anche nei prossimi 3 anni, un posto d’apprendistato a 3300 adolescenti.
Mercenari. La guerra “privata”
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Agorà
Lo scorso ottobre il Consiglio federale ha avviato la procedura per vietare la presenza di compagnie militari private sul suolo svizzero. Una decisione importante perché segna una prima, piccola battuta d’arresto per un settore – quello delle società private che forniscono mezzi, logistica e mercenari (i cosiddetti “contractors”) – che negli ultimi anni è cresciuto economicamente come pochi altri. Anche riguardo alla capacità di influenzare le scelte della politica
di Roberto Roveda
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imentichiamoci l’immagine tradizionale del “soldato di ventura”, che trascorre il suo tempo in bar fumosi ed esotici in attesa di un ingaggio. Oggi si parla di compagnie militari private, aziende moderne e modernamente organizzate, con sedi in diversi Paesi, entrature importanti nei Dipartimenti della Difesa di nazioni come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e contatti politici ad altissimo livello. Per andare sul pratico, società di un comparto che ha un giro di affari tra i 50 e i 100 miliardi di dollari all’anno secondo i dati di un recente rapporto dell’ONU, tanto che oggi si calcola che il 20-25% delle operazioni militari NATO vengano appaltate all’esterno. Aziende che prosperano sulla guerra quindi, ma che ben conoscono le regole del marketing e sanno quanto sia importante avere una certa rispettabilità presso l’opinione pubblica. Così i loro siti Internet sono tutto un trionfo del politically correct e a emergere sono solo temi digeribili come la sicurezza e il peacekeeping (cioè le operazioni di mantenimento della pace), quando in realtà le compagnie militari private vivono e si arricchiscono sul contrario, cioè sull’instabilità e l’insicurezza. Ne parliamo con Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo (www. disarmo.org) e autore del volume Mercenari S.p.a (Bur, 2004) oltre che curatore del blog “I Signori delle guerre” per Altreconomia (www. altreconomia.it/signoridelleguerre).
Dottor Vignarca, oggi quasi un terzo del bilancio del Dipartimento per la difesa americano viene destinato a società militari e di supporto logistico private. Eppure qualche decennio fa l’epoca dei mercenari sembrava tramontata. Che cosa è cambiato negli ultimi anni? “Come altri analisti di questi fenomeni, penso che la guerra o il modo di fare la guerra sia l’ultima cosa che si trasforma. Prima si modifica l’economia, poi si trasformano le modalità, i meccanismi di gestione del potere o comunque di gestione internazionale di quelle che possono essere le dinamiche politiche. Infine si trasforma il modo di fare la guerra. Negli anni Ottanta, con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, è iniziata la cosiddetta deregulation. Privatizzare ed esternalizzare sono diventate le parole d’ordine, un’idea economica che è stata applicata alla politica e che ha abbattuto uno dei capisaldi dello Statonazione così come è stato inteso in epoca moderna, cioè la gestione dell’esercito, della violenza, in ultimo della guerra. In questo quadro si sono inserite le compagnie militari private, che sono aziende all’avanguardia, che hanno associazioni di categoria a livello internazionale. Soprattutto parliamo di società che offrono una vasta gamma di servizi: combattere è solo una e non certo la principale delle loro attività”. Quali servizi offrono? “Addestrano i combattenti, ma soprattutto hanno a che fare con quello che è il compito fondamen- (...)
Con promesse concrete in merito alla salute, ai consumi, ai collaboratori, all’ambiente e alla società ci impegniamo per la generazione di domani.
Per saperne di piĂš visita generazione-m.ch
tale di un esercito moderno: la logistica. Il generale Omar Bradley1 diceva «Di strategia parlano i dilettanti, i professionisti della guerra parlano di logistica». In pratica, se io non sono capace di spostare mezzi e materiali, non so spostare i soldati, non so dare il vettovagliamento, non so creare una struttura in grado di gestire tutto ciò, non posso mettere un esercito moderno in grado di operare. La logistica è un settore dove oggi sono in gioco interessi enormi. Per intenderci, nei due anni precedenti l’invasione dell’Iraq del 2003 tutto il mercato delle navi roll-on/roll-off – traghetti e ferry, per capirci - è stato completamente «drogato» dal fatto che gli statunitensi hanno spostato tutte queste navi nell’area del Golfo. Ci hanno, infatti, messo due anni a predisporre la logistica di Camp Doha da cui poi è partita l’invasione. E di questo enorme meccanismo si sono occupate le compagnie militari private, che inoltre hanno interessi economici nei vari teatri di guerra. Si fanno pagare i loro servizi, infatti, sotto forma di concessioni minerarie o estrattive nelle zone dove operano. E hanno interessi a monte perché si faccia la guerra in determinate aree”.
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Questo è un punto interessante. In che senso lo afferma? “È un mio parere, però, ma considerare la decisione di Bush di attaccare l’Iraq finalizzata al solo interesse per il petrolio è limitativo. Chi ha deciso è stato qualcun altro, cioè la Halliburton, multinazionale che ha al suo interno anche alcune compagnie militari private e che fino al 2000 è stata guidata da Dick Cheney, poi vicepresidente degli Stati Uniti. La Halliburton ha vinto, prima che iniziasse il conflitto del 2003, l’appalto per la ricostruzione dei pozzi iracheni. Attenzione: ha vinto l’appalto per ricostruire pozzi che non erano ancora stati distrutti, dato che la guerra doveva ancora cominciare! Quindi la Halliburton aveva interessi forti a un nuovo conflitto iracheno. Come le dicevo all’inizio prima viene la decisione economica, che in seguito si trasforma in scelta politica...”. Perché queste compagnie private hanno tanto successo? “Perché hanno costi minori rispetto a un esercito regolare, ma soprattutto perché con il gioco degli appalti è più facile per militari e politici gestire tangenti, giri strani. Sulle attività di queste società private c’è poco controllo, infatti. Qualsiasi bilancio pubblico, soprattutto se riguarda il settore militare, ha comunque un tipo di controllo, mentre nel caso delle compagnie private una volta firmato un contratto nessuno verifica più. Se durante le operazioni un camion perde una ruota le compagnie private lo lasciano lì, tanto che torni indietro o no, viene comunque pagato in base al contratto di appalto. In questo modo le ruberie sono infinite. Poi se muore un contractor non torna certo a casa con la bara avvolta in una bandiera e quindi non c’è nessun tipo di pressione da parte dei media e dell’opinione pubblica. Lo stesso vale se commette delitti o porcherie nel luogo in cui opera. Niente polveroni, niente inchieste che coinvolgano le sfere militari e politiche”. Le conseguenze della privatizzazione della guerra La tendenza attuale è di servirsi sempre di più di queste società private. Così però si nega una delle basi su cui si regge l’idea di Stato come è stata elaborata da due secoli a questa parte: il monopolio della violenza. “Esattamente, non c’è più questa concezione. Il potere dello stato nazionale si sta man mano erodendo e non solo in campo militare. Sempre più spesso le autorità nazionali devono sottostare a decisioni imposte da organismi sovranazionali, soprattutto economici come per esempio il Fondo Monetario Internazionale. Lo stiamo vedendo negli ultimi tempi in Italia: la situazione economica impone un governo tecnico che decide in totale autonomia dalla politica. La Svizzera, nei mesi scorsi, è stata obbligata a firmare degli accordi
internazionali sulla trasparenza bancaria per non perdere, diciamo così, un asset economico molto importante. Nel settore bellico il peso, anche decisionale, degli attori privati è molto aumentato negli ultimi anni. Per intenderci, in Iraq, a un certo punto i contractors erano il secondo contingente presente sul campo, meno numerosi degli statunitensi ma più numerosi dei britannici. E vi era una totale confusione perché queste compagnie private non avevano alcun tipo di coordinamento e controllo”. E come si è risolto il problema? “Non si è trovato di meglio che affidare il coordinamento a un’altra società privata, l’inglese Aegis Defence Services, fondata da Tim Spicer, personaggio ambiguo, per usare un eufemismo. Uno che si autodefinisce un «soldato non ortodosso» nella sua biografia, che ha tentato un colpo di stato in Papua Nuova Guinea, ha contrabbandato armi provando di sovvertire il governo in Sierra Leone, un personaggio che però fondando questa compagnia si è riciclato diventando un uomo molto potente e molto ricco. Gli Stati Uniti hanno affidato un contratto di 300 milioni di dollari alla Aegis per gestire le altre compagnie private. Il risultato è che la decisione sul campo non è più in mano a una linea di comando militare «regolare» che agisce in base a un’indicazione politica ma è in mano a queste agenzie, le quali come primo scopo non hanno un obiettivo politico, giusto o sbagliato che sia, di gestione del territorio, di contrasto ai ribelli ecc, ma operano in base a criteri unicamente economici. Devo gestire un territorio? Non mi interessa di farlo legalmente o illegalmente. Non mi interessa se per star tranquillo nella zona in cui opero devo pagare i ribelli che poi usano quei soldi per comprare armi e attaccare le forze regolari, alimentando così di fatto la guerra. L’importante è essere liberi di operare nelle zone di competenza e dove ho degli interessi perché magari in quella zona ho una miniera da far rendere oppure dei pozzi petroliferi da ricostruire”. Quello che poi succede al di fuori del loro ambito di azione non ha rilevanza quindi... “C’è solo il contratto, ci sono i costi da minimizzare. Siamo di fronte a un vero sovvertimento della concezione dello Stato moderno come organismo che deve porre al primo posto il bene collettivo rispetto agli interessi del privato. Stiamo tornando al privateering, cioè alle compagnie private come nel Seicento erano la Compagnia delle Indie, la compagnia delle Antille olandesi, i corsari che avendo il mandato da parte di una nazione di compiere delle azioni di pirateria, pagavano delle royalties e facevano quello che volevano”. La decisione svizzera di avviare una procedura legale per vietare le compagnie militari private che importanza ha? “È una decisione rilevante, perché è la prima volta che si fa qualcosa per regolamentare questo settore a livello sia nazionale, sia internazionale. È importante perché il segnale arriva dalla Svizzera. Le compagnie militari private i contratti li ottengono negli Stati Uniti oppure in Gran Bretagna. Vengono in Svizzera per motivi fiscali e perché la Confederazione gode di una grande reputazione di affidabilità e prestigio a livello internazionale. Se mi presento come società svizzera vengo preso in considerazione, sono più rispettato e rispettabile. La decisione svizzera quindi delimita uno spazio in cui le compagnie private non sono libere di agire e toglie loro una sorta di biglietto da visita importante. Poi è una decisione simbolica che dice «non vogliamo questa gente sul nostro territorio». È un segnale, ma molto importante”. note 1 Omar Nelson Bradley (1893–1981) è stato uno dei più importanti comandanti militari americani durante la Seconda guerra mondiale e Capo di Stato Maggiore dell’esercito dal 1948 al 1953.
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Pallottole sull’acqua Indiani diavoli e militari europei angeli. C’è qualcosa che non quadra nella vicenda dei due pescatori indiani, presunti pirati, uccisi per sbaglio al largo di Kochi poche settimane fa. E il patriottismo, in questi casi, pare proprio non aiutare
di Duccio Canestrini
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brutto “incidente” avvenuto in acque internazionali che ha coinvolto due militari tricolore non è tanto l’esatta ricostruzione dei fatti – come sia potuto accadere l’equivoco o chi materialmente abbia esploso i colpi – a far pensare. Non quadra e non c’entra un patriottismo di cattivo gusto, appiccicato ai fatti, che avrebbe voluto scagionare i due fucilieri della Marina Militare Italiana, a prescindere dall’accertamento delle loro eventuali responsabilità. Un patriottismo che ha sfiorato il grottesco. Il sito web dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni su Lavoro, per esempio, ha spiegato che la traiettoria dei colpi esplosi in acqua, a scopo deterrente, poteva essere stata “deviata da un eventuale contatto con la superficie marina”. In pratica, le pallottole sparate dal maresciallo Massimiliano Latorre e dal sergente Salvatore Girone – se mai fossero stati loro gli autori –, potevano essere rimbalzate sull’acqua, e avere ucciso per errore. Quasi un incidente sul lavoro.
marò”, cui hanno aderito vari politici, con l’iniziativa di alcuni comuni italiani di esporre nelle piazze le gigantografie dei due fucilieri pugliesi. In queste circostanze non viene mai a mancare la retorica sull’eroismo dei mercenari. Sui difensori di roccheforti e navi mercantili. Sulle sentinelle nel deserto dei Tartari. Questa sollevazione di popolo non è uno spettacolo edificante. Non è stato proprio un bel sollevare, chiunque l’abbia fatto. Ricorda un po’ gli striscioni da stadio in favore del comandante Schettino, che ha fatto il possibile per affondare la nave Concordia sugli scogli dell’Isola del Giglio.
Auto da fé Come italiano devo dunque fare autocritica: in queste cose purtroppo siamo tarati, guai a chi ci tocca, anche se possiamo aver sbagliato. Ho molta stima del sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura, inviato in India per risolvere il caso dei due marò arrestati. Per un mese ho accompagnato di persona De Mistura in Afghanistan, quando ancora lavorava per le Nazioni Unite, e l’ho visto Robert De Niro in Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese all’opera: brillante, poliglotta, Una collezione di “perle” determinato, un asso della diQuesta delle pallottole che rimbalzano sull’acqua non è che la perla di una serie di esterna- plomazia internazionale che sa alternare con disinvoltura zioni incaute e inopportune. Con disquisizioni sulle acque lo smoking alla tuta mimetica. Anche a lui però voglio ricorinternazionali, fughe di notizie sulle perizie balistiche, soli- dare: noi non dobbiamo salvare nessuno, ma agire secondo darietà a vanvera e le rassicurazioni alle mamme – ah, sante giustizia. Se pertanto i fucilieri italiani o svedesi o svizzeri mamme dei fucilieri – che i loro cari ingiustamente incarcerati sono innocenti, evviva. Se queste persone invece sono colpevoli di qualche reato, devono pagare di conseguenza. stanno bene. L’addetto militare presso l’ambasciata d’Italia in India, il contram- Tutto qui. Perché l’auspicabile crescita di un paese non è miraglio Franco Favre, parla di due “ragazzi meravigliosi”, che per solo quella economica predicata dai vari primi ministri. fortuna a Kochi “vengono nutriti con pasti continentali”, come a Come avviene in molte nazioni del mondo, l’Italia crescerà dire non certo con le schifezze che normalmente mangiano davvero quando imparerà a essere onesta e responsabile. In gli indiani. Ed è nata perfino la campagna “Salviamo i nostri ogni frangente, per mare e per terra.
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Staccare la spina Lo Stato è forse una struttura artificiale costrui ta dagli uomini, una macchina che essi possono montare, smontare e rimontare in base alla lo ro intenzionalità e alla loro volontà? Alcune me tafore paiono confermarlo… testo di Francesca Rigotti illustrazione di Mimmo Mendicino
Credevamo che il limite del cattivo gusto fosse stato raggiunto, nel linguaggio politico italiano, con la metafora, coniata da Silvio Berlusconi e poi ripresa dalla politica e dai media, delle “mani nelle tasche”. “Non metterò le mani nelle tasche degli italiani” aveva infatti dichiarato solennemente qualche anno fa l’allora presidente del consiglio del Belpaese, facendo finemente intendere che lo Stato che impone la tassazione dei redditi e riscuote le tasse è una specie di borseggiatore che ti sfila il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni o addirittura ti mette le mani nelle tasche anteriori per cavarti fuori gli ultimi spiccioli. Si noti tra l’altro il carattere vagamente sessista della metafora, che presuppone che a lavorare e guadagnare siano soltanto gli uomini perché sono loro che generalmente tengono i soldi nelle tasche, servendoci noi donne di altri contenitori come le borsette. E invece no, il fondo non era ancora stato toccato, dal momento che il cattivo gusto della immagine usata per visualizzare il ricatto del PDL e della Lega al governo Monti – “Se ci darete troppo fastidio vi elimineremo staccando la spina” –, è decisamente più sgradevole. La metafora meccanicista Volendo applicare categorie scientifiche di analisi della metafora a questa fiorita espressione, noteremo che essa ricade nell’ambito delle metafore “meccaniciste”, che istituiscono cioè un paragone della realtà interessata con la macchina. In esse allo stato oppure, come in questo caso, al governo dello stato, vengono attribuiti i caratteri di una macchina, ovvero di un assemblaggio artificiale di pezzi messi insieme dall’uomo. La metafora della macchina si oppone generalmente a quella dell’organismo, che è invece visto come struttura naturale; essa nasce e si impone nel secolo della rivoluzione scientifica, il Seicento: e infatti uno degli esempi storici più noti e illuminanti di questa analogia è quello dello “stato-macchina” di Thomas Hobbes, filosofo inglese del XVII secolo. Lo stato, voleva dire Hobbes, non nasce così per volere di Dio o della natura, non è un corpo generato bensì una struttura artificiale costruita dagli
uomini, una macchina che essi possono montare, smontare e rimontare grazie alla loro intenzionalità e alla loro volontà. Aspirapolvere o respiratore artificiale? La macchina cui si pensa di togliere la spina possiede però, nella nostra metafora un’ulteriore specificità, ovvero quella di essere messa e mantenuta in funzione da una forma di energia, non umana come nel caso della leva e nemmeno bovina come per l’aratro, bensì elettrica. Potremmo immaginarla come un elettrodomestico, l’aspirapolvere, il che avrebbe anche il vantaggio di confermare la metafora precedente: invece di togliere i soldi dalle tasche con le mani il nuovo governo Monti, rappresentante della “primavera italiana”, li aspira col risucchio potente di un elettrodomestico. Oppure, e qui l’immagine diventa ancor più truculenta, potremmo vedere questa macchina come un respiratore artificiale, un polmone d’acciaio o una camera iperbarica nella quale stanno distesi, come sardine nella scatola, Mario Monti e i suoi accoliti. Si stacca la spina e via, tutti stecchiti. Una bella eutanasia ed è tutto finito perché il dito sull’interruttore – altro messaggio elegantemente emanato dalla metafora –, ce l’abbiamo noi e siamo noi che facciamo il bello e il cattivo tempo, che diamo la vita o, staccando la spina, la morte. Sono solo metafore E allora, suvvia, che importanza ha quale metafora si usa; in fondo, dicono alcuni improvvidamente, tanto sono “solo” metafore! E invece importa e come. Da tempo la linguistica e la filosofia cognitiva hanno abbandonato l’idea che le metafore siano mere forme ornamentali del discorso scritto e parlato. Le metafore aiutano a conoscere e a comprendere; le metafore lasciano un segno profondo e irreversibile sulla nozione metaforizzata, proprio come l’impronta dello stampo sulla pasta delle gouffres, per lasciarvi con una metafora piacevole, alla larga da furti e decessi, che lasci il dolce in bocca. Una metafora che il cavaliere di buon gusto, protagonista di una celebre commedia di Goldoni, avrebbe sicuramente apprezzato.
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Lezioni di sottosviluppo L’Occidente si trova oggi a fare i conti con tematiche che il mondo islamico affronterà probabilmente solo fra molti decenni, pur essendone consapevole grazie all’informazione globale. Eppure in entrambi i contesti esiste un’ala modernista e un’ala passatista, uno schieramento progressista e uno schieramento conservatore testo di Marco Alloni fotografia di Reza Khatir
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Che fare del concetto di progresso – o per meglio dire, del concetto di sviluppo, se vogliamo conservare la distinzione di Pasolini – laddove in termini assoluti è del tutto evidente che le tematiche con cui si confronta attualmente il mondo islamico appartengono, dal nostro punto di vista, ancora alla dimensione dell’arretratezza? Possiamo forse considerare lo sviluppo come qualcosa di universale che risponde alle stesse logiche e agli stessi criteri, alle medesime leggi in qualunque parte del mondo? Niente affatto: lo sviluppo è sempre relativo. Le conquiste in termini di progresso sono tali solo se riferite ai contesti in cui si iscrivono. Questa che potrebbe apparire un’evidenza porta con sé conseguenze radicali e impone una riflessione su un dato fondamentale: quale primato assegnare all’Occidente se il suo vantaggio storico “relega” la sua presunta superiorità fra le questioni relative e non assolute? Quale importanza assume lo sviluppo se non è mai in sé ma sempre in rapporto alle sue condizioni? Vivendo nel mondo arabo mi sono spesso trovato a disagio nell’osservare come il dibattito culturale muovesse da presupposti che nei cosiddetti Paesi avanzati, e quindi in primo luogo in Occidente, erano attuali già cinquant’anni fa. E quindi nel rendermi conto che quello che in determinati contesti poteva sembrare un pensiero di avanguardia in realtà (o in assoluto) non era che una posizione, rispetto ad altri contesti, appartenente al passato. Divergenze radicali Prendiamo il caso dell’omosessualità. Da noi si discute ampiamente se debba ricadere fra le leggi di natura oppure rappresentare una deviazione culturale (o addirittura morale). Già Platone la riteneva una forma di pregiudizio fondato sulla doxa o sulla legge, mentre la Chiesa cattolica insiste ancora oggi nel definirla un’aberrazione. Nel mondo arabo tale dibattito è viceversa del tutto assente: il presupposto culturale e sociale impedisce che esso abbia modo di svilupparsi. L’omosessualità è haram, peccato, contraria all’Islam, punto: ulteriori congetture o speculazioni non sono ammesse. Per non parlare delle coppie gay, del matrimonio omosessuale, dell’adozione di figli da parte di conviventi omofili o altro di simile.
Possiamo allora ritenere per questo che gli arabi o i musulmani, o i cristiani del mondo islamico, siano arretrati? Al contrario, dal loro punto di vista lo sviluppo e il progresso hanno altre implicazioni e procedono da presupposti diversi. Nei paesi arabi un atteggiamento progressista può essere quello di rappresentare la condizione omosessuale in libri o film – come alcuni audaci scrittori e cineasti hanno fatto – ma non certo nel sottoporla a interrogativi ulteriori o addirittura alla questione dei diritti e della dignità gay come accade in Occidente. Se queste sono le divergenze radicali che distinguono il dibattito culturale occidentale dal dibattito culturale islamico, viene da domandarsi quale linea di continuità o di contiguità possa esserci fra i due universi per paventare l’ipotesi di un dialogo fra civiltà. Si può forse confrontare una linea di discorso critico fondata sulla parità di diritti fra etero e omosessuali con una linea critica che nega sul nascere l’ipotesi di un riconoscimento dell’omosessuale come portatore delle identiche istante sociali e culturali dell’eterosessuale? La Storia come molteplice Analogo discorso vale per la fede. Nel mondo arabo-islamico l’ateismo o l’agnosticismo semplicemente non sono ammessi come opzioni di fede equiparabili a quelle confessionali. Un ateo o un agnostico ricadono senza ulteriori distinguo nell’ambito della blasfemia. E questa non si iscrive fra le possibili e libere scelte individuali ma come una vera e propria effrazione sociale e morale rispetto alla norma. La mancanza di fede è soggetta alla riprovazione e non al confronto critico. Anche in questo caso un dialogo fra civiltà rischia di arenarsi sul nascere per mancanza di presupposti culturali comuni. Potremmo considerare poi la questione e il concetto di “democrazia”, quello di “individuo”, quello di “libertà”, quello di “morale”. Per ciascuno di tali ambiti il divario che separa Occidente e mondo arabo è tale da impedire che il confronto fra civiltà possa concretamente determinare un’ipotesi di sviluppo o progresso comune. Sviluppo e progresso saranno sempre – nella contingenza storica in cui si delinea un confronto fra civiltà – concetti drasticamente relativi e asimmetricamente incomparabili. Significa questo che non possiamo credere o favorire un confronto fra civiltà, un dialogo o un
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rapporto critico perché non esistono presupposti comuni per una condivisa idea di sviluppo? No, significa che prima di avventurarsi in una simile prospettiva dialogica è bene tenere presente che la nostra idea di sviluppo – e quindi il nostro concetto di verità – obbediscono a leggi storiche irrinunciabili. E l’unico atteggiamento costruttivo di partenza per consentire un simile confronto consiste nel riconoscere che non esiste una Storia ma una pluralità di storie, e che lo sviluppo di ciascuna di esse presuppone una relativizzazione del progresso tale da imporre quanto meno la rinuncia al principio dell’unicità del progresso e del pregiudizio positivo secondo cui il progresso sarebbe quello di cui siamo interpreti e protagonisti noi come occidentali e non gli altri. La nostalgia dell’innocenza Liberato il campo dalla presunzione di aver superato le fasi dell’altrui primitivismo culturale potremo così riconoscere, nello sviluppo e nel progresso degli altri, i valori e i princìpi che il loro conservatorismo custodisce e conserva mentre noi li abbiamo smarriti nella folle corsa verso l’evoluzione. In altre parole potremmo renderci conto che laddove tendiamo a
individuare altrove nient’altro che passatismo e primitività e sottosviluppo si cela talvolta quel fondo di feconda civiltà che è appunto prerogativa delle civiltà meno evolute e dei loro sistemi di convivenza non ancora intaccati dai nostri “valori”. E qui sarebbe naturalmente facile ricordare che i progressi della medicina ci hanno anche disumanizzato di fronte al dolore e alla morte, che i progressi della tecnica ci hanno anche spersonalizzato e ridotto a funzioni dell’apparato tecnico, che i progressi del libertarismo ci hanno anche individualizzato al punto da farci smarrire il nostro rapporto affettivo con il mondo, che i progressi della razionalità scientifica ci hanno anche impoverito sul piano spirituale... e via dicendo. Insomma, il confronto con le civiltà storicamente meno evolute può anche produrre un effetto opposto a quello dell’orgoglio progressista di aver conquistato la palma dei primi in classifica. Può anche suscitare in noi un giusto empito di nostalgia. La nostalgia di non essere più “innocenti” come il nostro slancio in avanti ci ha indotti a essere, e l’umiltà di chiederci se, in questa corsa in avanti, non abbiamo perso qualcosa di fondamentale della nostra socialità, semplicità, infantilità e, in una parola, umanità.
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Quale lingua nel 2061? Il senso di appartenenza alla propria lingua può costituire un valore su cui investire? Quali sono le prospettive future dell’italiano in Italia e all’estero, soprattutto in Svizzera dove è una delle lingue nazionali? di Gaia Grimani (prima parte)
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A queste domande e a molte altre questioni, come per esempio il rapporto tra unità politica e unità linguistica, la necessaria affinità tra lingua e letteratura, le presunte difficoltà del linguaggio scolastico contemporaneo e l’evoluzione dell’italiano attraverso le nuove tecnologie, si è tentato di rispondere nel corso del passato Congresso Internazionale della Società Dante Alighieri, a Torino, sul tema “Unità d’Italia e Unità linguistica tra passato e contemporaneità: quale lingua nel 2061?”. Al Congresso hanno preso parte linguisti, docenti, personalità della politica, dell’economia e della cultura, e oltre duecento delegati provenienti dall’Italia e dall’estero. Gianluigi Beccaria, professore emerito dell’Università di Torino, aprendo i lavori, ha delineato la particolarità della lingua e della situazione italiane: “In Italia”, ha detto Beccarla, “prima della nazione è venuta la lingua: la lingua della letteratura. Era toccato a un poeta, Dante, segnare la data d’inizio di quest’unità d’Italia ideale, quando nel De vulgari eloquentia la vide come lo spazio geografico su cui la lingua del sì avrebbe dovuto diffondersi. La parola poetica comincia così a distendersi su un’unità geografica e culturale prima che essa esista realmente. (…) L’italiano moderno è mutato poco rispetto all’antico. La letteratura nazionale ha contribuito affinché la lingua rimanesse nei secoli vicina, strutturalmente, alla lingua delle origini. Cosa che negli altri paesi europei non è capitato. L’italiano non ha subìto nel lungo periodo cambiamenti importanti o radicali: certi brani di Machiavelli appaiono a chi li legge come fossero scritti da un contemporaneo, «freschi di giornata». Rispetto all’italiano antico, in quello moderno, pur con qualche cambiamento apprezzabile nell’ordine delle parole, nel complesso, tutto sommato, sono prevalsi gli elementi di continuità e persistenza. Tant’è che, in generale, Dante è relativamente «facile da leggere» come afferma Thomas S. Eliot. Non lo è al contrario Chaucer per un inglese, il Cid per uno spagnolo, la Chanson de Roland per un francese, che vanno tradotti perché oggi li si possa comprendere. Ha osservato lo studioso e linguista Tullio De Mauro che dei settemila vocaboli diversi usati nella Commedia l’86% è ancora oggi vivo e usuale e non solo nell’uso più raffinato e colto.” Una visione impropria Ma quali sono i problemi attuali della lingua e quali le prospettive che si apriranno in un prossimo futuro? Su questa questione sono intervenuti la professoressa Nicoletta Mara-
schio, Presidente dell’Accademia della Crusca e il giornalista Pier Luigi Vercesi, condirettore di Io donna-Corriere della Sera. La Maraschio ha messo in evidenza che le lingue non sono solo degli strumenti comunicativi, ma soprattutto strumenti di identità, sedimenti culturali e modi d’interpretazione e creazione di realtà. L’osservazione è essenziale pensando, per esempio, all’uso indiscriminato ed esclusivo dell’inglese, soprattutto per esprimere realtà economiche, modalità diffusa in molte università in Italia e nella Svizzera che parla italiano. Perfino le convocazioni per le riunioni si vorrebbe farle solo in inglese. “Va considerato”, ha affermato la Maraschio, “che l’inglese, di cui tutti riconosciamo la fondamentale funzione comunicativa sovranazionale, non è, come sembrerebbe, uno strumento neutro, ma trasmette una certa visione della realtà e in particolare dei sistemi economici: adottandolo acriticamente, il rischio è quello di adottare acriticamente anche quella visione. I linguisti lo affermano da molto tempo: le monoculture, se nel breve periodo possono essere vantaggiose, nel medio e nel lungo periodo sono sicuramente perdenti. Nel presente, il valore del multilinguismo appare essenziale: anche in campo linguistico è necessario differenziare e non accettare a scatola chiusa una sola lingua che, nell’immediato, sembra risolvere alcune situazioni, ma, di fatto, rischia di condizionare i nostri pensieri e la nostra visione della realtà”. Questo problema è assai importante e tocca molto da vicino non solo noi, in Svizzera, in cui l’inglese pare diventare il nuovo esperanto, la chiave per comprenderci, tralasciando la studio delle lingue nazionali minoritarie, ma tutta l’Europa, dove esso viene scelto come lingua ponte per armonizzare diversi linguaggi in varie discipline. Una lingua parallela Non è completamente d’accordo su questa visione negativa, o quantomeno allarmata, a proposito dell’uso dell’inglese, Pier Luigi Vercesi che lo ha definito piuttosto una lingua parallela che una lingua da contaminazione. “Certo contamina l’italiano”, ha aggiunto Vercesi, “ma nel mondo attuale così allargato consente in qualche modo di dialogare tutti insieme. La domanda che ci si potrebbe porre è piuttosto perché l’inglese e non un’altra lingua? Non solo perché gli anglo-americani hanno vinto due guerre mondiali e l’Inghilterra per un certo periodo ha dominato due terzi del mondo, ma perché l’inglese è una lingua flessibile e ricca: il 10
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La Torre di Babilonia in una rappresentazione del 1587 di un anonimo maestro fiammingo (www.babelstone.co.uk)
giugno 2009 il vocabolario anglo americano è arrivato a un milione di parole e si stima che ogni 98 minuti si arricchisca di una nuova voce. Se guardiamo alle lingue dell’Europa continentale, l’italiano conta un patrimonio di circa 300.000 parole, lo spagnolo 250.000, il tedesco 200.000, il francese non più di 100.000. Il problema di oggi non è più l’inglesizzazione dell’italiano, ma l’uso di una lingua parallela che consenta in qualche modo di mettere l’Italia e gli altri Paesi all’interno di un sistema economico globalizzato”. “Negli ultimi 150 anni, d’altra parte”, ha aggiunto la Maraschio, “l’Italia si è relativamente omogeneizzata per quanto riguarda la diffusione della lingua nel territorio e nella società, grazie a un processo in parte spontaneo, in parte guidato che ha avuto i suoi pilastri nella scuola, nell’esercito di leva, nella pubblica amministrazione e in quel grande mezzo di diffusione delle notizie che è la televisione. Nonostante ciò, le diseguaglianze linguistiche che si
riscontrano oggi nel bel paese sono ancora troppo forti, e il problema più importante è quello di arrivare a eliminarle attraverso una più diffusa consapevolezza e conoscenza maggiore della lingua, di cui la scuola può farsi promotrice insieme alle varie istituzioni e le università che ne possono appoggiare il ruolo straordinario. La scarsa conoscenza della lingua, poi, si scontra con il proliferare negli ultimi tempi di tanti linguaggi speciali e settoriali sempre più chiusi in se stessi e sempre meno comunicanti gli uni con gli altri. In Italia questo problema è più grave perché non esiste una tradizione di divulgazione alta che permetta un ponte tra gli specialisti dei settori e la gente: e la difficoltà diventa una questione di democrazia, quando il linguaggio non compreso è, per esempio, quello giuridico o amministrativo, che andrebbe per lo meno semplificato e reso più chiaro e accessibile alla grande maggioranza”. (prosegue sul prossimo numero di Ticinosette)
» testimonianza raccolta da Demis Quadri; fotografia di Reza Khatir
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Antonella Pomari
Vitae
Il nostro sogno era di avere 4 figli e così è stato: 2 maschi e 2 femmine. Per poterli crescere e potermeli godere, ho rinunciato alla mia professione. Ma più tardi, quando Luca e Lorenzo frequentavano il liceo, e Laura e Lisa le medie, ho ripreso a studiare yoga, aromaterapia, fitoterapia, ecc. diventando maestra di yoga e terapista complementare cantonale. Ho avuto maestri esigenti come Leboyer, pioniere del parto rispettoso del bambino, Rittiner, che mi ha insegnato lo yoga del quotidiano, Gianina, professore internazionale di yoga e spiritualità vedica, e Soldera, studioso di psicologia prenaCon il suo lavoro cerca di aiutare le don- tale. Nel 2000, vedendo che ne a vivere con pienezza l’esperienza amavo aiutare le mie amidella maternità, stimolandole a superare che in gravidanza quando mi chiedevano consigli, ho la rigidità degli schemi mentali cominciato a dare lezioni. E nel 2004 ho aperto a Locarno voro. Ma in agosto ottenni il mio centro di ayuryoga e di yoga per la un impiego ad Arbedo. Congravidanza. Nel mio lavoro cerco di aiutare le siderando che non avevo mai mamme a sentire la gioia della femminilità, lavorato, fu subito una grande dell’avere dei figli e una famiglia. sfida, perché mi incaricarono, L’accompagnamento dello yoga in gravicon l’aiuto di un architetto, di danza che propongo opera a livello olistiristrutturare la sede dell’asilo. co. Partendo dall’osservazione della donna, Decidemmo di fare qualcosa attraverso movimenti morbidi, tranquilli, di colorato, e io mi sbizzarrii semplicissimi, aiuto il corpo in trasformazionel creare gli spazi. Del rene della futura mamma a far posto al bebè, a sto conoscevo già un po’ la lasciargli lo spazio necessario e a sciogliere le cromoterapia, perché sono tensioni. Se per esempio la donna sente delle sempre stata attratta dalle ditensioni a livello di respiro, perché l’utero scipline olistiche. Poi arrivarosale e i polmoni vengono schiacciati, bisogna no 40 bambini: a quei tempi creare un’apertura del petto con un respiro le sezioni erano abbondanti... profondo e un movimento dolce delle bracL’anno dopo mi chiamarono cia. Anticamente, la nascita è sempre stata un a Solduno, dove sarei rimasta momento meraviglioso. Però nella famiglia per diversi anni, e a malincuoc’era un gruppo di donne che aiutava la future lasciai Arbedo, dove avevo ra partoriente con un sostegno emotivo, fisico vissuto un’esperienza bellissie psicologico. Nella società di oggi le donne ma. Perché allora quell’asilo sono diventate più indipendenti, lavorano, era in mezzo ai campi, e io hanno studiato, ma non osano più ascoltarsi seguivo un po’ la filosofia nella loro bellezza e nella loro femminilità. di Rudolf Steiner, legata alla E spesso non si rendono conto che durante natura e al contatto con gli la gravidanza è necessario rallentare un po’ elementi. Lì inoltre avevo coi ritmi, perché comunque fisiologicamente minciato a introdurre lo yoga il corpo rallenta. Per questo in quel periodo per i bambini, dopo aver chieè importante cercare di aiutare le mamme sto naturalmente il permesso a scoprire che si può partorire nell’amore e all’ispettorato. In questo mocon il proprio ritmo, acquisendo una grande do, a seconda di quello che fiducia in loro stesse, in modo da essere proni bambini avevano bisogno, te ad accogliere il bambino. Perché il bebè potevo utilizzare delle prativive il travaglio e percepisce la nostra paura. che energizzanti o rilassanti. E allora è fondamentale che possa invece Nel 1982 mi sposai con Rosentire l’energia dell’amore della mamma berto, l’amore della mia vita. e del papà, la loro voglia di abbracciarlo.
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ono nata a Locarno una mattina del 1957, con la neve che scendeva lieve lieve. Fu una nascita morbidissima, senza troppo dolore, come un soffio leggero. Ero la terza di tre sorelle. I miei genitori erano del Bellinzonese ma sono cresciuta a Locarno, dove mio papà si era trasferito per lavoro. Abitavamo in un palazzo e a me piaceva molto perché c’erano tante famiglie con bambini e uscivamo spesso in giardino a giocare... Quando compii cinque anni, i miei genitori decisero di traslocare a Locarno Monti, dove ho vissuto negli anni seguenti. Più tardi, al momento di scegliere cosa fare dopo il ginnasio, optai per la Magistrale. Ma non mi interessava diventare maestra di scuola elementare: essendo molto libera e creativa, non volevo essere obbligata a seguire gli schemi dei programmi scolastici. Per cui, con grande gioia e consapevolezza, scelsi la scuola materna. In questo modo avrei potuto lavorare coi bambini, che con la loro spontaneità e la loro capacità di entusiasmarsi sono la mia passione. Attraverso i tirocini e il lavoro come istruttrice nelle colonie, intanto, vedevo quanto mi piacevano il movimento e la ginnastica. Io però cercavo qualcosa di diverso, che all’epoca in Ticino era difficile trovare. Finché grazie al passaparola conobbi un maestro di yoga del Kerala. A quei tempi, nel 1973, quest’uomo dalla pelle molto scura, che parlava cingalese e a malapena inglese, era una presenza nuova. Io andai da lui e imparai lo hatha yoga, cioè lo yoga tradizionale con le sue posture, e poi tecniche di meditazione e di respirazione, pranayama, mudra e tutto quanto poteva servirmi. Mi accorsi che mi facevano molto bene, che mi davano concentrazione, serenità e stabilità. Nel 1976 ottenni la patente di scuola materna. All’epoca c’erano tantissimi maestri e non era facile trovare un la-
Sport senza barriere testo di Fabio Martini; fotografie di Reto Albertalli
Nel corso dell’ultimo cinquantennio la società occidentale, soprattutto nei paesi più ricchi e in quelli supportati da politiche sociali lungimiranti, ha profondamente modificato l’approccio all’handicap, sia esso di natura fisica o mentale. Se letto in una prospettiva storica si tratta di un fenomeno tutto sommato recente che a partire dal dopoguerra ha coinvolto milioni e milioni di persone in un crescendo di studi e di esperienze che nel tempo hanno contribuito a formare una più corretta consapevolezza della molteplicità dei problemi legati alla disabilità in tutte le sue forme
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ell’ambito della ricerca e dell’impegno sociale sui temi dell’handicap lo sport ha svolto nel corso degli ultimi decenni una funzione essenziale. Fu infatti nei primi anni Quaranta che il neurologo anglotedesco Ludwig Guttman (1899–1980) si rese conto che l’attività sportiva rappresentava uno strumento indispensabile non solo per la riabilitazione fisica dei suoi pazienti (in quel caso, per lo più medullolesi) ma un’occasione per poter aiutare le persone differentemente abili a rafforzare la propria condizione psicologica, aiutandole a raggiungere un pieno rispetto di sé e avviando al contempo la relazione con l’altro, abile o disabile che sia. Non è un caso che Guttmann sia considerato il padre della Paraolimpiadi, la cui prima edizione, iniziata il 28 luglio 1948 si tenne a Stoke Mandeville, nei dintorni di Londra, dove egli lavorava. Oggi, al di là delle Paraolimpiadi che hanno raggiunto livelli di impegno e professionalità del tutto analoghi a quelle delle Olimpiadi per normodotati (ma su questa distinzione si continua a discutere moltissimo anche perché sarebbe auspicabile giungere a una completa integrazione sia all’interno delle Federazioni sia delle due manifestazioni), i programmi di coinvolgimento nelle attività sportive rientrano nelle normalità delle attività di sostegno ai portatori di handicap. E la Svizzera non fa eccezione, come attestano le fotografie scattate da Reto Albertalli durante i campi-vacanza organizzati da Plusport, l’ente svizzero che si occupa dell’organizzazione delle attività sportive e ricreative per le persone differentemente abili. Abbiamo incontrato a riguardo Aglaia Haritz, artista ticinese che da alcuni anni collabora come responsabile nei campi vacanza di Plusport: “Per quanto riguarda il mio coinvolgimento come responsabile-monitore di alcuni campi estivi, mi sono trovata a operare sia con persone affette da problemi di natura mentale sia con persone con handicap fisici. Il rapporto numerico monitori-utenti varia da uno a uno a uno a quattro, a seconda delle differenti condizioni. In genere, si tratta di persone con un elevato grado di autonomia ma naturalmente i casi possono essere molto diversi: ci sono ragazzi affetti da sindrome di Down ma anche persone con disturbi psichici o portatori di handicap fisici. Spesso il nucleo dei partecipanti è il medesimo e quindi con alcuni si ha anche modo di conoscersi piuttosto bene”. Le chiediamo quindi cosa l’ha spinta a impegnarsi su questo fronte, data la sua differente formazione: “Io professionalmente sono artista ma l’impegno nel sociale, che svolgo sia collaborando con Plusport sia con Procap e a cui dedico più di due mesi l’anno, lo considero fondamentale perché mi aiuta a tenere i piedi bene a terra, a mantenere un rapporto saldo con la realtà, oltre a piacermi moltissimo”. E la situazione in Ticino? “È un po’ diversa. In generale, sono pochi i ticinesi che partecipano ai campi di Plusport dove l’utenza proviene per lo più dalla Svizzera interna. In Ticino il punto di riferimento è la Federazione Ticinese Integrazione Andicap (FTIA) che è presente sul territorio da molto tempo e che organizza iniziative di vario genere. Resta il fatto che quello dei campi-vacanza è un’attività che meriterebbe di essere ampliata anche qui da noi”.
Le fotografie di questo reportage sono state scattate nel corso di due differenti campi di vacanza organizzati da Plusport. Per avere ulteriori informazioni è possibile consultare i siti www.plusport.ch e www.procap.ch.
Reto Albertalli Nato nel 1979, vive e lavora tra il Ticino dov'è nato e Ginevra. Dopo la maturità artistica presso il Liceo Artistico del CSIA di Lugano e il diploma presso la scuola di fotografia di Vevey, ha iniziato a lavorare come fotogiornalista per alcune delle più importanti testate svizzere. Nel 2011 gli è stato assegnato il secondo posto nella categoria “Estero” dello Swiss Press Photo (www.retoalbertalli.com)
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Il cappello di Ariel
Tanto, tanto tempo fa nelle terre di Francia viveva un contadino di nome Albert a cui la sorte aveva dato dieci figli, cinque femmine e cinque maschi. Insieme alla moglie l’uomo lavorava i campi dalla mattina alla sera per riuscire sfamare la sua numerosa famiglia. Buona parte del loro raccolto veniva però ogni anno requisito dagli sgherri del conte Gaston, l’esoso signore di quelle terre. Ad Albert e alla sua famiglia rimaneva così il minimo per riuscire a sopravvivere. Accadde che sul quel contado si abbattè una terribile carestia: i campi rinsecchivano, il cibo scarseggiava e uomini e animali soffrivano la fame e le malattie. Di fronte a tale disgrazia Albert e sua moglie decisero di fare qualcosa. “Io un’idea ce l’avrei”, disse la moglie. “Ariel, nostro figlio maggiore è un ragazzo sveglio e intelligente e saprà certamente cavarsela da solo. In questo modo avremo una bocca in meno da sfamare”. Con molto dispiacere il padre comunicò ad Ariel che doveva cercare fortuna altrove. Il ragazzo, che era molto legato ai genitori e ai fratelli, pianse per il dispiacere, ma essendo di animo avventuroso decise che avrebbe affrontato la strada e la sua nuova vita senza alcun timore. La mattina seguente, dopo aver salutato i suoi cari, Ariel si mise in viaggio verso occidente.
testo di Fabio Martini illustrazione di Céline Meisser
Cammina, cammina giunse a un grande fiume. Dato che ponti per attraversarlo non ce n’erano, andò in cerca di un barcaiolo che potesse traghettarlo sull’altra sponda. Era ormai sera quando lungo la riva scorse una casupola al cui interno riluceva la fiamma di un camino. Bussò alla porta e qualcuno dall’interno rispose: “Avanti!”. L’abitante era un uomo molto vecchio con la barba e lunghi capelli bianchi. “Sono un viandante”, disse Ariel, “sto andando verso il mare”. “E che ci vai a fare che sei ancora un ragazzino?” “Voglio diventare marinaio”. Il vecchio lo osservò a lungo, sbuffando nuvole di fumo da una lunga pipa. Poi gli fece segno di sedersi. “Una scelta coraggiosa… avrai fame… se vuoi puoi dividere con me la cena, poi mi racconterai la tua storia”. Dopo aver mangiato Ariel raccontò al vecchio dei suoi genitori, dei suoi fratelli e sorelle e di come il conte Gaston e la siccità avessero devastato quelle terre, costringendolo a partire. Il vecchio se ne impietosì e gli promise che l’indomani l’avrebbe portato con la sua barca dall’altra parte del fiume. Ma la mattina seguente al risveglio il vecchio parve non ricordare nulla, anzi, si meravigliò della presenza del giovane nella sua casupola: “E tu chi sei?”, gli chiese. Ariel fu allora costretto a ripetere la sua storia e il vecchio gli promise che il giorno successivo l’avrebbe traghettato sull’altra sponda. Giorno dopo giorno si ripeteva la stessa identica scena e Ariel non sapeva più che pesci pigliare. Gli venne persino in mente di rubare la barca ma essendo di animo onesto e temendo la forte corrente del fiume decise di desistere. Un bel giorno, Ariel, spazientito da quella situazio-
ne, decise di andare a fare una passeggiata. Trovata una radura proprio vicino al fiume si stese sotto un albero e si addormentò. Gli apparve allora in sogno la Fata del fiume che si rivolse a lui con queste pa-
role: “Ascoltami Ariel, non scoraggiarti. Nascosto dietro la dispensa troverai un capello. Prendilo, è un cappello magico: quando lo si indossa il tempo si arresta, le stelle e la luna si fermano, il vento smette di soffiare e tutti gli esseri viventi si trasformano in statue. Ma dovrai stare molto attento, il cappello dona un grande potere a chi lo possiede”. Quella notte, dopo aver atteso che il vecchio battelliere si addormentasse, Ariel andò a cercare il cappello e una volta trovato lo indossò. Uscito all’aperto vide che l’acqua del fiume era calma come quella di un lago in un giorno senza vento. Trascinata in acqua la barca iniziò a remare e rapidamente raggiunse l’altra sponda. Il mattino seguente riprese il suo cammino.
Qualche giorno dopo Ariel si fermò a dormire presso
una locanda. Essendo l’unico avventore chiese la ragione all’oste. “Sono settimane che nessuno esce di casa”, spiegò l’uomo. “Una orribile strega semina il terrore, entra nelle case e spaventa la gente. Come potete vedere nessuno lavora più i campi e tutto va in malora”, raccontò con voce disperata. “E nessuno vi difende? Chi è il signore di queste terre?”. “Come, non lo sapete? È il principe di Acquitania. Si è chiuso nel suo castello in preda al terrore e non si fa avvicinare da nessuno”. La mattina seguente, dopo aver attraversato contrade deserte, Ariel si presentò all’ingresso del castello. “Che volete?”, chiese il capo delle guardie con sospetto. “Desidero parlare con il principe, posso aiutarlo se lui mi darà ascolto, dovete credermi”. Le guardie, poco convinte, lo condussero al cospetto del principe. “Perché mi disturbate ragazzo?”
“Vostra Altezza. Io posso liberarvi da questa maledizione ma se ci riuscirò mi dovrete far costruire una nave con tanto di ciurma perché desidero andar per mare”. Il principe appoggiò la testa allo schienale del trono come vinto da una grande fatica. “Siete poco più che un bimbetto, che avete in mente? Siete pazzo! Non ce la farete mai a sconfiggere la megera… Ma a pensarci bene, in fondo non costa nulla. Di navi ne possiedo tante e se riuscirete nell’impresa ve ne donerò una. Ricordate però: per distruggerla dovrete rubare il suo anello, la cosa a cui tiene di più”. Ariel chiese allora informazioni sul luogo in cui viveva la strega, si fece preparare un cavallo e subito si mise in viaggio. Dopo qualche ora giunse in prossimità di un grande palazzo di pietra al centro di una piana arida e senza vita. Bussò con forza al portone che un attimo dopo si aprì con uno scatto. Il ragazzo mise allora in testa il capello magico e fece il suo ingresso nel palazzo. A far da maggiordomo c’era un’avvoltoio che, immobile come un sasso, faceva segno di entrare con un inchino. Ariel salì la lunga scala e giunto al piano superiore trovò la strega, che l’incantesimo del cappello aveva trasformato in un’orribile statua, intenta ad ammirare il suo anello. Il ragazzo glielo strappò dalle mani e senza fretta si allontanò dal palazzo. Quando fu a un paio di miglia si sedette a guardare e si tolse il capello. Per un attimo tutto rimase immobile poi la terra iniziò a tremare e il palazzo crollò miseramente, seppellendo fra le sue macerie l’orrenda strega. Di Ariel si dice sia divenuto un celebre mercante che con le sue navi solca i mari trasportando merci da un porto all’altro del continente. Ogni tanto, la notte, pare, sogna ancora la Fata del fiume…
Zigomi&Zigomi Tendenze p. 48 – 49 | di Marisa Gorza
Cleopatra, Marlène Dietrich, Audrey Hepburn, Sofia Loren, Charlize Theron… cosa hanno in comune queste donne apparentemente così distanti e diverse tra loro? Di sicuro la bellezza. Ma c’è un dettaglio (anzi due) nel loro volto che le rende affascinanti e le trasforma in icone di seduzione…
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i dice che se Cleopatra avesse avuto un naso diverso, la storia avrebbe seguito un altro corso, ma molto probabilmente se gli zigomi del suo viso non fossero stati così importanti e definiti, quali le stilizzate effigi ce li rimandano, non avrebbe sedotto né Giulio Cesare, né Antonio. E chissà se Rasputin, senza la forma incisiva degli stessi, avrebbe avuto quel malefico potere sui Romanov? A costituire questa malia forse c’è un quid di magnetismo ferino, qualcosa che accomuna i tratti alle sembianze dei felini e alla loro sinuosa sensualità. Niente da eccepire, sia al femminile che al maschile, gli zigomi pronunciati, oltre a esserne l’impalcatura, rendono il volto icastico e, riflettendo la luce, fungono da palcoscenico per gli occhi e da insostituibile set di sguardi intriganti. Canone di bellezza del nostro tempo (e non solo), contrastano il cedimento dei tessuti che si verifica con il passare degli anni. Purtroppo, anche quando gli zigomi sono un dono di natura, con la maturità il turgore della giovinezza lascia spesso spazio ad antipatiche ptosi a caduta libera, cosicché guance, mento e contorno del volto appaiono meno tonici. Come correre ai ripari? Da anni chirurghi e medici estetici rivolgono alle auspicabili prominenze la loro attenzione. Di fatto uno zigomo ben assestato allarga un viso troppo lungo, rende meno paffuto uno tondo e riempie quello scarno ristabilendo l’armonia. Ma se fino a qualche tempo fa ciò era ottenibile solo attraverso un atto chirurgico, ovvero con l’inserimento di una protesi omologata (sigh!), ora le metodiche, oltre a essere molto più semplici e meno invasive, permettono risultati decisamente più personalizzati. Insomma una sorta di tecnica sartoriale, un effetto couture plasmato ad hoc su ogni singola faccia. Attenti a quei due! Di tutto questo è stato ampiamente disquisito durante un recente congresso tenutosi in un hotel di St. Moritz dalla Merz Pharma, multinazionale farmaceutica ben affermata nel campo della dermatologia e della medicina estetica. La sempre maggior richiesta di interventi poco invasivi, con tecnologie di filler e tossina botulinica di nuova generazione – sì, proprio loro: le punturine magiche –, ha portato alla messa a punto di un prodotto chiamato “Radiesse”, evoluzione dei già noti dermofiller a base di acido ialuronico. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Simona Nichetti, medico estetico, incontrata nel contesto del convegno. Dottoressa, questa sostanza è davvero innovativa e quali sono le nuove tendenze in questo ambito? “Innovativo è il concetto, la sostanza non è inerte, ma interagisce con il derma «risvegliandolo». Il trend attuale è quello di usare sostanze non
semplicemente voluminizzanti, ma anche ristrutturanti e rimodellanti. Tra i prodotti che felicemente rispondono a queste caratteristiche, molto indicata per valorizzare gli zigomi, c’è l’idrossiapatite di calcio, conosciuta sul mercato come Radiesse, appunto”. Si tratta di un materiale prettamente antiaging o il suo utilizzo viene consigliato anche a persone giovani? “Efficacissimo come antiaging, è molto utile anche per implementare il volume della zona malare di soggetti giovani, qualora questa si presentasse carente. Sempre rispettando i parametri delle proporzioni classiche. Quei visi particolarmente artificiosi con zigomi esagerati, figli del silicone e delle protesi, fortunatamente cedono il passo a un’immagine di bellezza più naturale, perseguibile attraverso queste tipologie di filler. In America, opportunamente diluito, il Radiesse viene usato anche come biostimolante”. Come si effettua la sua applicazione? “Per iniezione nella zona malare, ma anche nelle guance, nel mento, nel contorno mandibolare e perfino sul dorso delle mani. Dopo esser stato iniettato, la matrice elastica in gel veicola le microsfere del principio attivo con un effetto volumizzante immediato. Microsfere che stimolano pure la produzione del collagene endogeno”. E quanto dura il suo effetto? “La durata è di circa un anno. Tuttavia esistono variabili personali dipendenti da diversi fattori, come il fumo e un’esagerata attività fisica...”. Il procedimento è doloroso? “Assolutamente no, tanto più che si può miscelare il prodotto a un anestetico”. Ritornando agli zigomi e al loro appeal, il loro implemento viene richiesto anche dagli uomini? “Di solito non in maniera consapevole e diretta. Si rivolgono al medico estetico per risolvere eventuali cedimenti e svuotamenti, cioè espressioni di aging del terzo medio del volto. Anche se desiderano ottenere il ripristino di queste salienze, non ne danno una precisa denominazione. Nell’immaginario dell’estetica maschile, i lineamenti del viso non sono molto enfatizzati e quindi non necessariamente menzionati”. Le donne sono quindi più edotte sulla potenzialità delle loro fattezze? “Certamente, d’altronde le donne ne sanno sempre una più del diavolo che, guarda caso... è maschio”.
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Astri toro
gemelli
cancro
Bene tra il 13 e il 14 marzo. Con Urano andrete incontro a una svolta epocale della vostra vita. Improvvise opportunità professionali per i nati nella prima decade. Date sfogo al vostro gusto per la sfida.
Con l’arrivo di Venere si aprono le strade dell’amore. Sfruttate ogni opportunità e ogni incontro. Fidatevi delle vostre emozioni. Aiuti da parte di amici. Momento magnifico per rifarsi il “look”. Segreti.
Grazie a Mercurio e a Urano in Ariete e a Saturno in Bilancia improvviso aumento delle vostre intuizioni. Exploit nelle comunicazioni. Grazie ad alcune innovazioni riuscite a dare una svolta a un progetto.
Con Giove e Venere favorevoli potete puntare in alto. Se credete in quello che fate sarete in grado di superare qualsiasi ostacolo. Rinnovatevi senza autolimitarvi. Pronti per qualsiasi tipo di competizione.
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bilancia
scorpione
Periodo movimentato caratterizzato da una improvvisa spinta prometeica. Rapporti anticonformisti con il partner. Passioni e gelosie. Improvvisamente possessivi, volete che tutto sia vostro. Bene tra il 13 e il 14.
Nella seconda settimana di marzo fase rosa per i nati nella prima decade. Grazie a Venere e a Giove in Toro e a Plutone in Capricorno vi sarà un improvviso aumento del vostro carisma. Proposte di matrimonio.
Le idee tendono a fluire velocemente, forse troppo. Il rischio è quello di di farsi prendere dallo stress. Attenzione alla guida. Grazie alla Luna tra il 13 e 14 marzo potrete vivere un momento magico.
Sbalzi umorali. Attenzione, con Venere e Giove in opposizione forte incremento degli appetiti sessuali. Se non sarete soddisfatti non esisterete a guardarvi altrove. L’obiettivo è quello di sentirsi vivi.
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capricorno
acquario
pesci
Tra il 13 e il 14 marzo la Luna attraversa il segno. Se riuscirete a non farvi prendere dall’ansia potrete realizzare qualcosa di importante. Scaricate le tensioni provocate da Marte con la pratica sportiva.
Nella seconda settimana di marzo flirts e avventure. Grazie a Giove, Plutone, Marte e Venere la vostra vita sta per andare incontro a una nuova realtà. Dopo anni di incertezze torna l’allegria. Sregolatezza.
Grazie all’ingresso di Venere in Toro si apre un periodo particolarmente passionale. Con Giove e Venere in quadratura scoprirete di esser diventati improvvisamente gelosi. Attenti alle esagerazioni alimentari.
Sbalzi umorali: con Marte e Luna in aspetto è facile perdere il controllo delle proprie emozioni. Se riuscirete a sintonizzarvi sulle frequenze dell’amore eviterete di far la guerra a tutto ciò che si muove…
» a cura di Elisabetta
ariete
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Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 15 marzo e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 13 mar. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!
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Verticali 1. Noto film di Mira Nair • 2. Granturco • 3. Vi riposano i faraoni • 4. Spintoni • 5. Ridotta... nel mezzo • 6. Ricordato, citato • 7. Nord-Est • 8. Un torrido... parallelo • 9. Belva striata • 13. Sensibilità, facilità alla commozione • 17. Utilizzi • 19. Critici estremi • 21. Cuor di cane • 23. Cortile agreste • 25. La pistola a spruzzo, altrimenti detta • 28. Assicurazione Invalidità • 30. Parte della scarpa • 32. Accentato, nega • 35. Feretro • 38. Due al cubo • 40. Svezia e Zambia • 41. Dubitativa • 43. Città croata • 47. La dea della discordia • 49. Consonanti in Teseo • 50. Il nome di Pacino • 52. Ente Turistico.
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Orizzontali 1. Fanno spesso passi avventati • 10. Lamenti poetici • 11. Un legno pregiato • 12. Un colpo del pugile • 14. Si contrappone a “off” • 15. Chi non li supera, li ripete • 16. Seria, oscura • 18. I confini di Mogno • 19. Coincidenze • 20. È simile al frac • 22. Dottrina professionale • 24. Pellerossa • 26. Dittongo in Coira • 27. Il noto Montand (Y=I) • 28. Il nome della poetessa Negri • 29. La fine della Turandot • 31. Battute sardoniche • 33. Medico • 34. Consonanti in Libia • 36. Le iniziali di Montale • 37. Vi sguazza il ricco • 38. È bella ma stupida • 39. Precede Vegas • 41. Stella del cinema • 42. Città francese • 44. Un vulcano • 45. I confini di Osogna • 46. Opprime d’estate • 48. Ohio e Cuba • 49. È ottima anche quella salmonata • 51. Pedina coronata • 53. Ella • 54. Ha scritto “Cocktail party”.
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La soluzione del Concorso apparso il 24 febbraio è:
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Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Marily Bernasconi viale dei Faggi 10 6900 Lugano Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!
Premio in palio: buono RailAway FFS “Snow’n’Rail San Bernardino” RailAway FFS offre 1 buono del valore di 160.– CHF per 2 persone in 2a classe per l’offerta RailAway FFS “Snow’n’Rail San Bernardino” da scontare presso una stazione FFS in Svizzera. Ulteriori informazioni su ffs.ch/snownrail.
Snow’n’Rail San Bernardino - A sciare in treno e bus San Bernardino è la meta per gli appassionati della neve e tutti gli amanti degli sport invernali: 40 km di piste con tutti i gradi di difficoltà, il ristorante sulle piste “Confin” a 1.950 metri di altitudine con 800 posti a sedere, di cui 400 sulla terrazza solarium: oltre all’ottima cucina, anche un magnifico panorama! Per gli sciatori che preferiscono un drink veloce fra una discesa e l’altra, una sosta allo Snow Bar in alta quota non deve proprio mancare. E per i ragazzi e i principianti ci sono due scilift nel centro del paese.
Giochi
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