Ticino7

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№ 30

del 27 luglio 2012

con Teleradio 29 lug. – 4 ago.

L CI A E P S

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Il miglior film

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Ticinosette n° 30 del 27 luglio 2012

Agorà Cinema in Ticino. Lo stato dell’arte

di

Arti Otto Preminger. Un regista coraggioso

di

Reza KhaTiR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Mundus Cinema egiziano. Libertà a rischio

di

MaRCo alloni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Impressum

Media Festival del film. Lo sguardo della giuria

Tiratura controllata

Società Cinema e psicoanalisi. La culla del sogno

70’634 copie

Chiusura redazionale Venerdì 20 luglio

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

4 8 9 10 12 14 39 46 48 50 51

Tiziana ConTe. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vitae Davide Lussetti

di

di

niColeTTa BaRazzoni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . di

MaRiella dal FaRRa . . . . . . . . . . . . . . . . . .

deMis QuadRi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reportage Il mio nome è Clayton

di

MaRCo JeiTzineR; FoTo di MaRCo BelTRaMeTTi . . . . . . .

Luoghi Piazza Grande. Selciato patinato

di

MaRCo JeiTzineR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tendenze Moda e accessori. Festa sotto le stelle

di

MaRisa GoRza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

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(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Tippi Hedren Fotografia di Marco Beltrametti

Sulle luci della Piazza L’apertura della 65esima edizione del Festival del film di Locarno è alle porte, come in molti si saranno accorti . Negli scorsi anni Ticinosette ha dedicato alla manifestazione i propri reportage, tematizzando attraverso la pubblicazione di manifesti d’epoca soggetti come la fantascienza degli anni Cinquanta e le devianze giovanili . Quest’anno la Redazione ha voluto confezionare un’intero numero sul più noto e rilevante festival del cinema in Svizzera; un evento tanto importante per il cantone – culturalmente ed economicamente – e sul quale, puntualmente, le discussioni e le piccole e grandi polemiche non mancano . Un effetto secondario e con ogni probabilità inevitabile, viste l’importanza nazionale della vetrina, lo sforzo (umano e finanziario) per farla funzionare e la necessità di compiere delle scelte (non solo artistiche) che evidentemente non tutti sono obbligati a condividere . Nel presentare quest’ultima edizione, nei giorni scorsi il presidente Marco Solari ha voluto rassicurare sulla tenuta finanziaria dell’evento; inaspettatamente potremmo dire, alla luce sia della contingenza economica non propriamente rosea in buona parte d’Europa sia della ormai evidente concorrenza di altre manifestazioni dedicate alla settima arte, in Svizzera e nelle vicine regioni del nord Italia . Un segnale positivo ma che non attenua il dibattito su che cosa sia, era o debba essere questo festival . Il legame diretto che vincola la nostra regione (e il Locarnese in particolare) alla manifestazione passa senza ombra di dubbio dal fattore “turismo”; da qui la necessità di garantire a un evento in grado di stravolgere per quasi due settimane la vita di una piccola cittadina come Locarno strutture e servizi capaci di fare crescere – dove possibile – il livello qua-

litativo e professionale della macchina festivaliera . Si è sempre e inevitabilmente tentati al raffronto (Cannes, Berlino, Venezia, Roma, Zurigo, ecc .), sospinti dall’impressione che la cultura del campanilismo, del provincialismo e del “fai da te” – che per troppi decenni hanno segnato le proposte culturali della nostra regione – prevalgano sulla professionalità e la qualità delle strutture, in particolar modo nell’accoglienza degli ospiti e degli addetti ai lavori . Accuse immeritate o verità storica? Forse non è un caso se in un’intervista apparsa oggi, 20 luglio, sulle pagine del “Corriere del Ticino”, il nuovo direttore di Ticino Turismo Elia Frapolli affermi che “quello che scarseggia di più in Ticino è una vera cultura turistica. Abbiamo un territorio incantevole, ma spesso non ce ne rendiamo conto. Una maggiore sensibilità turistica e per l’accoglienza gioverebbe a tutto il settore”. Insomma, si può e si deve migliorare: perché in una regione a vocazione turistica tutti gli attori di tutto il cantone – privati cittadini, ristoratori, albergatori, organizzatori di eventi, amministratori politici locali e cantonali – sono sulla stessa barca . Peccato che per troppi anni questi abbiano remato seguendo mete e interessi assai diversi e vivendo di una rendita garantita da un tessuto paesaggistico tanto variato e “incantevole” quanto minacciato dalla speculazione affaristica di pochi . Offriamo dunque ai lettori queste pagine “speciali” – a volte serie e circostanziate, in altre occasioni più divertite e scanzonate – dedicate al cinema e alle serate in Piazza Grande, certi che questa imminente edizione 2012 avrà tutta la qualità, il successo di pubblico e l’attenzione che si merita . Il contrario non gioverebbe a nessuno, speriamo se ne siano convinti tutti . Buona lettura, Giancarlo Fornasier


Cinema in Ticino. Lo stato dell’arte

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Agorà

Cercando di comprendere la situazione del cinema ticinese, un dato emerge con forza: la nostra cinematografia gode di buona salute e sta vivendo sotto gli influssi di una nuova energia creativa. Anche se spiegare l’attuale situazione non è semplice… di Tiziana Conte

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arà la lunga storia del Festival del film di Locarno, attraverso il quale intere generazioni di curiosi e cinéphiles hanno nutrito “l’amour du cinéma”, una passione che ha avuto il tempo di depositarsi nella cultura e nella memoria collettiva di un intero territorio. Sarà che a volte si verificano alchimie che sono la somma poco algebrica di geometrie complesse, un mix di politica culturale, di visionarietà individuali, di movimenti di pensiero, di storie, che hanno permesso alla cinematografia ticinese di realizzare buoni film in condizioni non sempre facili e soprattutto con il fisiologico problema di un mercato ristretto e difficile da raggiungere. Per i nostri film ogni successo di pubblico è un miracolo, trovare dei partner nella produzione, in patria come all’estero, è una lotta impari e i finanziamenti languono. Sono però molti i capaci professionisti, armati di buone idee, che vogliono resistere, sostenuti da una discreta industria, da una solida Radiotelevisione e, soprattutto, da uno spirito di gruppo collaborativo e solidale. Proprio per approfondire questa tematica, abbiamo avvicinato alcuni addetti ai lavori cercando di capire attraverso il loro sguardo cosa significa lavorare e fare cinema in Ticino. Erik Bernasconi, classe 1973, è considerato tra i più promettenti registi ticinesi della nuova generazione. Nel 2010 il suo primo lungometraggio, Sinestesia, prodotto da Villi Hermann per l’Imagofilm e con un cast di attori internazionali – tra cui Alessio Boni, Giorgia Wurth, Melanie Winiger e Leonardo Nigro –, ottiene un notevole successo di pubblico e di critica, tanto che il film è candidato a tre Quarzi (gli Oscar del cinema svizzero), per la miglior sceneggiatura, la miglior attrice e la miglior attrice esordiente. Dopo gli studi in cinematografia a Parigi, Erik torna in Ticino dove è chiamato a lavorare dapprima come aiuto regista di film televisivi e in seguito per il cinema. “Nel nostro territorio – ci dice – benché viviamo in una provincia di piccoli numeri, abbiamo al contempo grandi possibilità”.


Nella storia produttiva del suo primo lungometraggio quali sono stati gli ostacoli che ha dovuto affrontare? “Tutto è andato bene, mi è risultato quasi facile. Abbiamo avuto anche fortuna, ma soprattutto tutti noi del team abbiamo lottato e lavorato duramente. Conoscere bene un territorio, le persone che ci lavorano, facilita sicuramente le cose. I problemi più difficili si sono rivelati dopo la produzione; è un aspetto di cui si è già parlato ampiamente, ma penso sia bene sottolinearlo ancora una volta. Sinestesia ha fatto il giro dei continenti, ospite di moltissimi festival, ma purtroppo la sua distribuzione fuori cantone è stata limitata. La versione ufficiale a giustificazione di questa situazione è stata che il film era difficilmente catalogabile: troppo intellettuale per le sale commerciali e, viceversa, troppo commerciale per le sale d’essai. A noi invece è sembrato che sia venuta a mancare la volontà di rischiare, benché nel cast ci fossero attori conosciuti sia nella Svizzera d’oltralpe sia in Italia, e nonostante le nomination ai Quarzi. Il problema della distribuzione è il lato debole sia del cinema ticinese sia di quello svizzero. Credo bisognerebbe fare maggiori investimenti in questo senso, per sfrondare le barriere culturali del nostro paese e conseguentemente migliorare la nostra coesione nazionale”. Secondo lei questa situazione è legata anche a un problema culturale e di lingua? “L’Italia, che è il nostro partner linguistico e di riferimento, sta attraversando diversi problemi sia di ordine politico sia economico. Loro stessi hanno difficoltà nella distribuzione dei propri film. Credo però che la lingua non sia in sé un problema. Faccio un esempio: il cinema danese, riconosciuto come uno tra i migliori al mondo, riesce a esportare i suoi film nonostante siano in una lingua parlata soltanto da cinque milioni e mezzo di persone… il problema linguistico è quindi relativo. Certamente un altro grande problema sono i finanziamenti. Il nostro cantone ha scarsi fondi a disposizione, rispetto ad altre realtà cantonali”. Conferma le difficoltà economiche anche Antonio Mariotti, Presidente della Sottocommissione cantonale per il sostegno ai film e penna nota del giornalismo ticinese. Il cinema, benché a oggi sia l’unico settore culturale disciplinato da una legge cantonale, può disporre di fondi esigui. Signor Mariotti, il fatto che il cinema sia l’unica disciplina a essere regolamentata da una legge è da intendersi come un segnale di una volontà politica forte da parte delle istituzioni pubbliche a sostegno della settima arte? “Questa legge è entrata in vigore meno di dieci anni fa, ancorata a una tassa sui biglietti di entrata al cinema. I proventi di questa tassa, che ammonta a circa 1 franco sul costo totale del biglietto, vengono poi suddivisi: il 40% viene attributo ai gestori stessi, in modo particolare a sostegno delle sale periferiche o del rinnovamento delle infrastrutture, il 60% viene accordato invece alla produzione cinematografica. Negli ultimi cinque-sei anni la cifra a disposizione per le produzioni è diminuita notevolmente, a causa di un evidente calo dell’affluenza di pubblico nelle sale. A oggi abbiamo un budget annuo di circa 300mila franchi. Per questo motivo, quattro anni fa, con l’entrata in funzione della nuova Commissione Film per scadenza di mandato della precedente, si sono dovuti adottare criteri molto precisi nell’assegnazione dei sussidi, che possono arrivare a un massimo di 100mila franchi per la produzione di un lungometraggio. Regolamentare con un certo rigore l’elargizione dei fondi è stato necessario anche per disporre di una riserva a sostegno di progetti cinematografici più coraggiosi. La legge sul cinema – che, ricordo, beneficia di un fondo autonomo – prevede infatti che, se un anno non viene spesa l’intera somma a disposizione, si possa riutilizzarla per sostenere nuovi progetti. Negli anni, inoltre, il pano-

rama del cinema svizzero è molto cambiato: a Zurigo e in Svizzera romanda sono state istituite delle fondazioni che hanno a disposizione svariati milioni; oltre a ciò sono nate delle coproduzioni tra romandi e zurighesi che hanno la possibilità di attingere a entrambi i fondi. Pertanto per un produttore o un cineasta ticinese è sempre più difficile trovare un coproduttore di oltre Gottardo, perché nello scambio economico rimane decisamente il più «debole». Queste difficoltà sussistono anche con i partner italiani, il rischio dunque per i ticinesi è quello di doversi «fare il film in casa», con costi e budget produttivi molto inferiori alla media svizzera”. Quali soluzioni suggerisce per migliorare la visibilità del cinema nazionale? “Durante la giornata di studi organizzata a fine marzo dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, DECS, e dalla RSI in occasione dell’assegnazione delle borse di studio per la scrittura cinematografica – un’iniziativa nata nel 2007 a sostegno di progetti cinematografici – è emerso come la distribuzione sia il grosso problema del nostro cinema. È per noi necessario prima di tutto riuscire a entrare nel mercato italiano con dei prodotti di fiction di qualità, come lo era Sinestesia o come ci si attende da Tutti giù, l’opera prima di imminente uscita di Niccolò Castelli. Attualmente l’Italia dispone di un paio di circuiti digitalizzati; tramite uno di questi per esempio, è stato recentemente distribuito Sister (film svizzero di Ursula Meier vincitore dell’Orso d’Argento a Berlino). Se un film ticinese riuscisse a farsi conoscere in Italia, potrebbe trovare più facilmente un’eco anche nel resto della Svizzera. Il percorso inverso invece mi pare decisamente più arduo”. Il punto di vista dei produttori Tiziana Soudani è produttrice e responsabile di Amka Film, una tra le case di produzioni più attive del cantone. Fondata Agorà 25 anni fa, ha prodotto negli anni film che hanno spesso ottenuto grandi successi sia di pubblico che di critica, basti ricordare, tra i tanti, Pane e tulipani del regista Silvio Soldini. Tiziana Soudani è inoltre membro della Film Commission Alto Adige Südtirol e del Collège Documentaire (Ufficio Federale della Cultura). Il cinema in casa Soudani è una storia di famiglia: suo marito è Mohammed Soudani, noto regista, autore di molti film e documentari, e la figlia Amel è co-fondatrice con Michela Pini di Cinedokke, una società di servizio per produzioni cinematografiche e di audiovisivi, e agenzia di casting. Le abbiamo dunque chiesto di farci una radiografia del cinema ticinese. “Ritengo che da noi ci siano sia buoni progetti sia buoni autori. Purtroppo, uno degli elementi di fragilità è quello di non riuscire a proporci internazionalmente, ma questo è un problema che riguarda l’intera cinematografia nazionale. Probabilmente uno dei motivi di questa scarsa internazionalità è dovuto agli esigui finanziamenti che abbiamo a disposizione per il cinema. In generale gli altri paesi beneficiano di maggiori fondi, dunque per loro diventa meno urgente aprirsi a delle coproduzioni. La mia impressione è che il pensiero si stia nazionalizzando, diversamente da un tempo in cui mi pareva ci fossero più volontà di scambi europei. L’Italia, benché abbia molti problemi di ordine finanziario, ha più fonti a cui attingere per i finanziamenti; le produzioni, per esempio, possono contare su diverse film commission che funzionano bene. In Svizzera i costi medi per produrre un film si aggirano attorno a 2-2,5 milioni; spesso in Ticino questa cifra scende, per arrivare a circa 1-1,5 milioni. Si tratta di budget che secondo me permettono di realizzare un buon film. In altri paesi, come appunto l’Italia, le cifre sono astronomiche; per noi diventa spesso impossibile anche coprire la quota per una coproduzione minoritaria secondo gli accordi di coproduzione europea”. (...)

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AgorĂ

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Locandina del film Promised Land (2004) del regista ticinese Michael Beltrami


Che suggerimenti propone per migliorare le condizioni della cinematografia ticinese? “I problemi sono complessi, ma certamente l’unione fa la forza. Abbiamo costituito recentemente l’Associazione Film Audiovisivi Ticino (AFAT), che raggruppa realtà diverse che operano nel film e negli audiovisivi con lo scopo di dare un’unica voce all’intero settore. I nostri obiettivi sono quelli di stimolare delle attività culturali ed economiche e delle iniziative che possano migliorare, difendere e promuovere gli interessi generali e professionali dei propri membri, a oggi più di venti (vedi www.afat.ch, ndr.). Quest’iniziativa ci permetterà di valorizzare la nostra cinematografia, ma anche la nostra industria, grazie a intenti comuni e azioni solidali che daranno più forza alle nostre richieste, sia verso il cantone che nei confronti della Confederazione”. I film d’autore faticano ad avere una vita oltre ai circuiti festivalieri. Come mai? Secondo lei è un problema di disinteresse da parte del pubblico? “Credo esistano motivazioni diverse a seconda delle fasce d’età. Personalmente penso che i giovani abbiano interesse per il cinema, ma frequentino poco le sale se non per uscire in gruppo e vedere dei blockbuster. Per quanto riguarda i film d’autore, credo che ci siano dei giovani cultori di questo genere, che però preferiscono guardarselo in tv o scaricarlo dalla rete in streaming. Bisognerebbe dunque pensare a questo pubblico, che è un potenziale e interessante mercato per la cinematografia d’autore; al momento manca ancora però una legislazione chiara in merito alla sua diffusione in rete. Invece per il pubblico più adulto, soprattutto per le famiglie, andare al cinema diventa anche un problema di costi. Oggi inoltre escono tanti film, le sollecitazioni sono molte, troppe; i gestori subiscono molte pressioni, così per il film d’autore non c’è più il tempo di raggiungere un pubblico attraverso il passaparola, e le nostre forze promozionali a sostegno del film sono molto limitate”. I film, il pubblico e le sale Antonio Prata gestisce il multisala Cinestar di Lugano, ma pratica il cinema anche come autore e regista. Membro dell’ACSI (Associazione Cinematografi Svizzera Italiana), dà una lettura diversa dei motivi di questa disaffezione al cinema. Signor Prata, perché la gente frequenta meno le sale? Come spiega, in particolare, lo scarso interesse da parte delle sale e del pubblico per il cinema svizzero? “Innanzi tutto c’è un problema di qualità che riguarda l’intera produzione cinematografica di questi ultimi anni, soprattutto quella commerciale, che ha molto deluso il pubblico. A parte Avatar non sono stati realizzati film che hanno saputo colpire fortemente l’immaginario dello spettatore. Dobbiamo poi fare anche i conti con la crisi economica, che non ha risparmiato neppure i consumi culturali e quindi anche il cinema. Per quanto riguarda il cinema svizzero, nella nostra sala in otto anni abbiamo proposto 63 film elvetici, ma a eccezione di alcune produzioni, come per esempio Grounding e ultimamente The Substance, il pubblico è stato scarso. Credo che nella nostra regione uno dei maggiori ostacoli per la diffusione del cinema sia di ordine culturale; vi è una sorta di confine mentale che trattiene la gente dall’andare a vedere film che arrivano sia da nord che da sud. Inoltre abbiamo una visione un po’ manichea e retrò del cinema: film d’autore verso film commerciali, un preconcetto che accompagna spesso anche gli stessi addetti ai lavori. Bisognerebbe uscire da queste categorie di pensiero. Pensare

che un multisala sia un luogo di interesse solo per il pubblico che segue esclusivamente il cinema commerciale è un errore; in realtà chi viene è spesso incuriosito di vedere anche ciò che passa nella sala accanto, quindi anche film d’autore”. Che cosa si potrebbe fare per invogliare la gente ad andare maggiormente al cinema? “Credo che tutti noi che lavoriamo nel settore dovremmo trovare nuove forme e modalità di fruizione, proponendo un marketing innovativo. Inoltre penso che dovremmo incrementare gli scambi tra gestori di sala e produttori locali; in Ticino vi è come una sorta di scollamento tra queste due realtà, invece sarebbe importante capire insieme i gusti del pubblico, come raggiungerlo e fidelizzarlo”. Sono molti tra gli addetti ai lavori ad avere la percezione che la cinematografia ticinese stia vivendo un fase di vitalità, con un crescente affacciarsi di professionisti giovani e capaci. Erik Bernasconi, condivide questa analisi? Il cinema ticinese gode di buona salute? “Non so come fosse prima, ma da quando lavoro in questo ambito avverto senza dubbio l’energia di un gruppo rappresentato da cineasti, produttori, tecnici, ecc. che segue un percorso comune e che in parte si è formato attorno a Sinestesia grazie a Villi Hermann. In questi anni molti film ticinesi si sono segnalati partecipando a festival a volte anche molto prestigiosi, per esempio, solo per citarne alcuni, Hugo en Afrique di Stefano Knuchel presentato con successo a Venezia, o African Election documentario di Jarreth Merz che è stato ospite di un importante festival come il Sundance. Mi sento di affermare che il cinema ticinese gode di buona salute e che esiste un gruppo d0i professionisti pronto a collaborare, benché poi ognuno si faccia il suo film c’è un clima solidale”. Antonio Mariotti, nella sua duplice veste di presidente della Commissione film e di critico che segue il cinema da oltre vent’anni, constata anche lei una sorta di risveglio del nostro cinema? “Ultimamente arrivano in Commissione sempre più progetti ben scritti e/o ben documentati; la qualità c’è ed è alta, e di fatto ci sono stati dei giovani che hanno portato nuovi stimoli, a partire da Erik Bernasconi che con il suo Sinestesia ha un po’ scosso l’ambiente. Finalmente un film ticinese ha infranto quel soffitto di cristallo sotto cui i nostri prodotti cinematografici faticano a respirare. Questo risveglio ha permesso di prendere atto del fatto che non si può più sopravvivere in questa sorta di ghetto dorato. In questo senso, bisogna sottolinearlo, la RSI riveste un ruolo vitale per la nostra cinematografia: senza di essa rischieremmo di vivere in un deserto audiovisivo. È quindi essenziale che la RSI continui a sostenere i lungometraggi ticinesi, nonostante il nuovo «Patto dell’Audiovisivo» che entrerà in vigore nel 2013 cambierà sensibilmente le regole di produzione. Negli ultimi anni, inoltre, è stato decisamente favorevole la sinergia che si è venuta a creare tra i professionisti del cinema delle nuove generazioni, che collaborano in modo solidale. Tutte personalità che lavorano anche fuori cantone, consolidando e migliorando le loro competenze professionali”. Anche Tiziana Soudani lo conferma: ”In Ticino c’è qualità e ci sono anche molti autori, con Villi Hermann e Cinedokke ne abbiamo contati circa una trentina”. Ma il Ticino, si sa, è terra di artisti…

Agorà

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Un regista coraggioso Il Festival del film di Locarno propone in questa edizione una retrospettiva dedicata a Otto Preminger. Annoverato tra i grandi di Hollywood, diresse alcuni film controversi che sfidarono i tabù della società americana del tempo di Reza Khatir illustrazione di Micha Dalcol

Arti

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Otto Preminger nato nel 1905 a Wiznitz, in Ucraina, all’epoca parte dell’Impero Austro-Ungarico, si trasferì più tardi a Vienna con la famiglia. Contro il parere del padre scelse una carriera nel mondo dello spettacolo cominciando a lavorare come direttore di teatro a Vienna e nel 1935 emigrò negli Stati Uniti. Dopo alcuni anni di attività tra Hollywood e New York in qualità di attore e regista, nel 1944 diresse Laura, il suo primo film di successo. La pellicola, un classico del filone noir, gli fece guadagnare la nomination all’Oscar come miglior regista. L’atmosfera sottilmente morbosa e onirica crea uno dei più insoliti triangoli della storia del cinema, che vede due uomini (l’assassino e l’ispettore) entrambi innamorati della stessa donna creduta morta. Otto Preminger, nel suo stile asciutto e diretto, affrontò alcuni dei temi tabù per la società statunitense del tempo quali la droga, l’omosessualità e lo stupro, opponendosi al dilagante maccartismo degli anni Cinquanta che lo costrinse ad autoesiliarsi in Francia per alcuni anni. Tornò definitivamente in America solo nel 1960, dopo l’elezione di John Fitzgerald Kennedy. Temi scabrosi Altri film di Preminger sfidarono la censura; per esempio The moon is blue del 1953 (con David Niven e William Holden) venne duramente contestato dalla “Legion of Decency” perché offendeva il comune senso del pudore per l’uso di parole quali “vergine”, “amante”, e perché parlava eplicitamente di sesso. Preminger dovette difendere l’opera sia attraverso i media sia in tribunale, e la sua vittoria segnò in pratica la fine del famigerato “Codice Hays”. Ancora un clima torbido e sensuale per il film Carmen Jones (1954), libera interpretazione della Carmen di Mérimée in versione afro-americana, con un cast completamente nero. La protagonista, Dorothy Dandridge, all’epoca amante di Preminger, fu la terza attrice afro-americana nominata all’Oscar. Nonostante le controversie suscitate, la pellicola ebbe un enorme successo di pubblico. Nel film L’uomo dal braccio d’oro (1955) con Frank Sinatra e Kim Novak, Preminger espone realisticamente e crudamente la dipendenza dalla droga, finora soggetto tabù a Hollywood,

con una memorabile scena sulla crisi di astinenza del protagonista. Preminger affronta nel 1959 anche il difficile tema della violenza carnale, nel suo modo crudo e diretto, usando esplicitamente termini finora evitati quali “penetrazione”, “sperma”, “stupro” che gli causarono non pochi guai con la censura. Fedele alla versione dettagliata dell’omonimo libro di Robert Traver, la pellicola venne nominata a parecchi Oscar, tra cui quello per miglior film e miglior attore protagonista, James Stewart, senza però vincerne alcuno. Il sogno d’Israele Tra gli anni Sessanta e Settanta, Preminger dirige diversi altri film con poco successo di critica e di pubblico, compreso il suo ultimo lavoro Il fattore umano, tratto dal bellissimo romanzo di Graham Green. Il film forse più discusso di Preminger è però Exodus (1960), con Paul Newman, tratto dall’omonimo romanzo di Leon Uris, che fu un vero bestseller in America. Il romanzo e, soprattutto, il film hanno informato l’opinione pubblica americana, fino a quel momento assai distratta, sulla questione arabo-israeliana. In un saggio di Stephen Kinzer, giornalista del “New York Times” ed esperto di Medioriente, dal titolo Reset (2010) è presente un passaggio interessante a questo proposito. Kinzer scrive: “Due anni dopo la pubblicazione del libro, Exodus divenne un film, con la regia di Otto Preminger. Il film ha avuto un impatto grandissimo sulla coscienza degli americani. La nascita di Israele era dipinta come archetipo della lotta tra libertà e redenzione mentre gli arabi senza volto sembravano esseri privi di ideali abitati dalla stessa furia cieca che motivava i nazisti”. Il film includeva una canzone divenuta assai popolare cantata in molte versioni da Andy Williams, Pat Boone, Connie Francis e tanti altri; “Questa terra è mia, Dio me l’ha data”, dice la canzone “se devo lottare finché questa terra diventi mia, lotterò fino alla morte”. Exodus è di certo un esempio di come la macchina di propaganda hollywoodiana sia riuscita a impossessarsi della storia, rendendola sua, e di come la “verità” del cinema diventi spesso verità storica agli occhi del pubblico. Al di là di tutto, Preminger si è comunque conquistato un posto nell’albo d’oro della storia del cinema per averne scritta una parte importante.


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Libertà a rischio Nel corso dell’ultimo decennio il cinema egiziano si è dedicato con forza all’impegno civile. L’avvento al potere dei Fratelli musulmani e del presidente Mohammad Morsi paiono una minaccia alla libertà creativa degli autori di Marco Alloni

Per molti decenni – almeno a partire dalle nazionalizzazioni zo Yacoubian (2006) di Marwan Hamed (tratto dall’omonimo di Nasser negli anni Cinquanta – il cinema egiziano è stato il romanzo di Alaa Al-Aswani) e Le donne del Cairo (2009) di Yusri faro indiscusso della cinematografia araba. In Egitto sono nate Nasrallah. Di diverso tenore le pellicole nate successivamente pellicole di respiro internazionale, fioriti grandi attori noti alla Rivoluzione egiziana, in qualche modo anticipate da alcuanche in Occidente (da Souad Hosni a Omar Sharif a Ismail ne coraggiose produzioni come Voglio i miei diritti del 2003 e Yasin) ed emersi capolavori indiscussi. Nel 1952 Nasser decise di Zaza, Presidente della Repubblica del 2006 di Tareq Abul Gelil, Il emanare importanti leggi a sostegno dell’industria del cinema, dittatore di Ihab Lamei (2009) – descrizione satirica dell’ex raìs e da lì in poi fu un proliferare di Hosni Mubarak – e Due ragazze egipellicole di ottimo livello, forteziane (2010) di Mohammed Amin. mente influenzate dal neorealismo Pellicole che non hanno risconitaliano (in linea con i principi trato vasti successi commerciali della Rivoluzione nasseriana) e ma hanno poi trovato, malgrado dall’apporto di dirigenti e cineasti alcuni interventi censori, un vasto formatisi all’estero. seguito grazie alla loro diffusione Nemmeno la scomparsa di Nasser nei canali satellitari. interruppe tale fertile produzione, che un’influenza così decisiva ebIl post-Rivoluzione be non solo sulla cinematografia Quanto avvenuto nel 2011 ha degli altri stati arabi, ma sulla portato nuova aria: da allora non si stessa cultura di tali paesi, che non contano le pellicole che, criticando a caso acquisirono familiarità con la corruzione, la violenza di Stato il dialetto egiziano al punto che e la miseria, hanno finalmente ancora oggi esso è l’unica “linportato alla luce un cinema imgua” universalmente compresa pegnato e fortemente versato alla nel mondo arabo. In quegli stessi denuncia politica. Emblematici Il regista Marwan Hamed (www.commeaucinema.com) anni, cominciarono ad affermarsi in questo senso i lavori di Magdi registi che avrebbero fatto la storia Ahmed Ali (La piazza), Sameh della cinematografia egiziana contemporanea: Tawfiq Saleh Abdel Aziz (Coprifuoco), il cortometraggio di Wesam El-Madany Hussein Kamal, Salah Abu Sayf e Youssef Chahine, per citarne Block 25 e l’opera Dopo la battaglia di Yusri Nasrallah. Nonché alcuni. Iniziò anche a imporsi il film d’azione, e alle tematiche molti altri film e documentari ispirati ai fatti di Tahrir e alle “romantiche” della produzione precedente venne progressiva- loro conseguenze. Significa questo che il cinema egiziano si mente avvicendandosi un cinema più polemico e socialmente è definitivamente liberato della censura? Non precisamente. impegnato e drammatico. Ancora di recente al Festival del cinema africano di Luxor deciCon gli anni Ottanta è iniziato un lento declino, e solo nei ne di critici e cineasti hanno infatti denunciato le autorità per Novanta sono tornate a fiorire figure di cineasti di primo livello aver proibito la proiezione del film Exit Cairo di Hisham Issawi, come Atif El-Tayeb e Mohammad Khan, meteore in un contesto storia d’amore fra una donna cristiana e un uomo musulmano. in cui la produzione commerciale è andata sempre più impo- D’altronde l’avvento al potere dei Fratelli musulmani e del neonendosi su quella d’arte. eletto presidente Mohammad Morsi fanno temere ai più che la stretta intorno alla libertà creativa sia destinata a riproporsi Un cinema impegnato – dopo la trentennale censura di Stato perpetrata per motivi Nel nuovo millennio ecco lentamente riproporsi un cinema di politici – come censura religiosa e morale. maggior spessore, per quanto fortemente subordinato alla più Ma un fatto è certo: l’Egitto non tornerà più indietro. E la profortunata produzione della commedia all’egiziana (Adel Imam, duzione incessante di film “engagés” seguita alla Rivoluzione del Mohammad Eneidi e il “buffonesco” Mohammad Saad) e al ci- 25 gennaio 2011 ne è la prova eloquente. Come ha sostenuto nema di conio americano. Una produzione che, nell’imitazione Alaa Al-Aswani di recente, ancora due anni e la Rivoluzione del film d’azione o poliziesco, cercava più che altro un facile porterà per intero i suoi frutti, tentino o non tentino i militari riscontro di botteghino. Significative eccezioni il celebre Palaz- e gli islamisti di opporvisi.

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Lo sguardo della giuria Come opera la giuria di un festival cinematografico? Quali le competenze in gioco e i criteri adottati? Un tema complesso che abbiamo analizzato proprio a partire dall’esempio a noi più prossimo, quello del Festival di Locarno di Nicoletta Barazzoni

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Il percorso di analisi di un film, le sue tappe, le regole del gioco, le fasi come la scomposizione e la ricomposizione, sono procedimenti teorici assai complessi che sono stati descritti in numerosi saggi come, per esempio, Analisi dei film di Francesco Casetti e Federico di Chio a cui facciamo sommariamente riferimento. In questo testo si elencano i criteri di analisi di un film, definendone le caratteristiche che la rendono valida.1 Se partiamo dal concetto che il film è, per definizione, un’opera d’arte intelligibile, e dunque conosciuta e compresa con l’intelletto, diventa difficile misurare e quantificare il suo valore immateriale e intrinseco, applicando dunque criteri prettamente scientifici. Chiunque assiste alla visione di un film assume le vesti di un semispecialista, anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento critico e quello del piacere coincidono.2 Dal momento che il film si avvale di un linguaggio variegato bisognerebbe partire dalla molteplicità dei mezzi espressivi di cui il film si serve, oppure considerare la polarità di codici e sottocodici (filmici, cinematografici, del supporto, dello scorrimento, dello schermo; codici visivi, grafici, sonori, sintattici o del montaggio). In poche parole la validità generale, applicata a tutte le analisi dei film, dovrebbe possedere almeno tre caratteristiche: una coerenza interna, e dunque non contraddirsi in alcun modo; una fedeltà empirica (che implica l’osservazione di dati realmente presenti nell’opera); una rilevanza conoscitiva, cioè saper dire qualche cosa di originale e nuovo3. Ma la scelta di un film da parte di un giurato resta pur sempre un fatto soggettivo e personale perché coinvolge la nostra esperienza, il medium dei nostri sensi, la nostra emotività, uniti alla nostra capacità di immedesimarci o di compiere astrazione. In ultima analisi un film vince per la giuria ma non vince per la piazza e dunque per il pubblico, o viceversa. Perché a tante teste corrispondono tante idee, tante variabili, e altrettanti punti di vista. Forse, anche per questo, il film vincitore di regola non fa stato ma spesso fa tendenza. I punti di vista si guardano Solitamente nella composizione della giuria dei festival del film, si tende a scegliere tra le star e le personalità di spicco del mondo dello spettacolo. Se pensiamo a Cannes, a Venezia o a Berlino la scelta di chi presiede la giuria è tendenzialmente orientata verso una figura “dominante” e famosa. Rivelando, in questo modo, una visione personale della settima arte. Olivier Père, direttore artistico del Festival del film di Locarno, ci spiega quali sono le procedure per la composizione della giuria e i criteri di scelta: “I giurati sono scelti dalla direzione artistica in accordo con il comitato di selezione” afferma Père. “Procediamo

stilando delle liste con i nominativi delle personalità del cinema o delle arti che ammiriamo e rispettiamo, in seguito li contattiamo per sapere se sono interessati e disponibili”. Direttore, quali requisiti deve avere che il giurato? “I giurati devono essere dei protagonisti, degli osservatori o dei conoscitori del cinema internazionale contemporaneo, con un interesse, uno sguardo e un gusto personale per la creazione cinematografica, il cinema d’autore e quello indipendente; criteri importanti per il Festival del film. Essi devono esercitare una delle principali professioni del cinema, con anche un’apertura a programmatori di Festival, storici e critici cinematografici. I giurati a Locarno hanno spesso una relazione con il Festival (hanno già partecipato con un film in competizione) o con l’attualità del cinema. Il Festival è attento a una rappresentazione equa dei due sessi, delle culture e delle origini etniche”. Avete un regolamento con delle disposizioni precise? “Si tratta di regole implicite insite a ogni giuria e che valgono anche per gli altri festival. Partecipazione alle proiezioni, organizzazione delle riunioni delle giurie durante il Festival, partecipazione alle deliberazioni finali, eccetera”. In che misura i giurati non devono avere conflitti d’interesse con i film in concorso e come fate a verificare che non ci sia nessun collegamento? “I giurati non devono essere in alcun modo collegati alla produzione, alla scrittura o alla realizzazione dei film presentati. È poi sufficiente aver visto il film e sapere da chi è stato realizzato, scritto, prodotto. E verificare che i membri delle giurie non siano implicati nella creazione del film”. Quali garanzie ci sono che il vincitore non sia già stato deciso altrove? “È impossibile. È molto raro che i giurati abbiano visto i film in competizione prima dell’inizio del Festival di Locarno, fatta eccezione per alcuni film in prima internazionale che sono già stati proiettati nel loro paese d’origine”. La giuria dello scorso anno, al Concorso internazionale, era presieduta da un produttore (Paulo Branco) e non da un regista. Come mai? “In effetti, non c’è nessuna regola che stabilisca che il presidente della giuria debba essere un regista. Come in ogni giuria dei grandi festival internazionali, il presidente può essere un regista, un attore, un produttore, una personalità appartenente al mondo dell’arte o


della cultura (scrittori, musicisti, ecc.), il cui talento, il rapporto con il cinema e la notorietà legittimano la sua funzione di presidente”. Quali sono i criteri stabiliti per l’assegnazione del vincitore? “Si tratta di criteri artistici e cinematografici che permettono di discutere quali siano i film più originali, di maggior successo e di talento”. Come procede la giuria quando si riunisce? “Generalmente i membri della giuria si riuniscono più volte durante il Festival per discutere dei film che hanno apprezzato maggiormente allo scopo di concentrarsi su quelli più meritevoli del palmarès, eliminando progressivamente i film che non vogliono premiare”. La scelta della giuria è inappellabile? Sono previste delle procedure di ricorso contro la decisione della giuria? “Prima di essere annunciati pubblicamente, i palmarès delle giurie sono trasmessi e validati dalla direzione artistica. Fino a ora non ho mai dovuto discutere o tornare sulle scelte delle giurie, che, in generale, rispetto. Per quanto concerne i ricorsi, non sono previsti: dal momento che un film accetta di entrare nella competizione di un festival, accetta anche le decisioni della giuria”. La scelta deve avere l’unanimità della giuria? “Non è necessario raggiungere l’unanimità, fintanto che la maggioranza dei giurati concorda. Il sistema di voto non è generalmente applicato dalle giurie, tranne che in casi di crisi o di importanti disaccordi tra i giurati, ma è piuttosto raro”. Ma i giudizi sono sempre soggettivi… “Esiste per forza una grande componente di soggettività nelle decisioni di una giuria come nelle scelte della direzione artistica dal momento che per detestare o amare un film bisogna esserne commossi, toccati, quindi provare dei sentimenti e non decidere soltanto in base a un ragionamento intellettuale o scientifico”. Chiediamo dunque a Edo Bertoglio, fotografo e regista che lavora a Lugano, di raccontarci la sua esperienza di giurato. “Sono stato giurato nel 2006 sotto la direzione artistica di Frédéric Maire. La mia esperienza è stata molto arricchente perché con gli altri giurati si è instaurato un clima di armonia e d’intesa. Avevamo problemi di lingua con il regista giapponese che parlava un inglese tutto suo ma noi tutti abbiamo fatto degli sforzi per comprendere il suo punto di vista, alle volte opposto al nostro e per comunicare meglio con lui. La comunicazione tra di noi era costante e continua. Dovevamo visionare tre film al giorno”. Ritiene che la giuria sia un organismo trasparente? “È difficile affermarlo in modo assoluto perché ogni giurato porta la sua esperienza professionale, culturale e di vita. E anche la sua visione e il suo modo di interpretare e vedere il cinema. Quindi, in ultima analisi, la giuria è trasparente se lo sono i suoi giurati e se la maggior parte di essi mette al primo posto il comportamento etico. È chiaro che i criteri di selezione spesso diventano soggettivi per quanto si facciano degli sforzi enormi nel cercare di essere obiettivi. Viene assolutamente naturale portare le proprie esperienze quando si tratta di giudicare e premiare l’opera in concorso, ma è impossibile che un solo giurato riesca a imporre la sua volontà su tutti e la trasparenza è così salvaguardata”. Quale criterio ha contato di più quando doveva scegliere? “L’orientamento e la scelta sono un insieme di criteri multifattoriali. L’atto emozionale e dunque il mio coinvolgimento emotivo era sicuramente l’aspetto principale che rientrava nel mio modo di pormi di fronte all’opera. In molte produzioni ci si poteva identificare con

temi più importanti di altri. Alcune pellicole si occupavano dei massimi sistemi, di argomenti molto astratti con un soggetto e un tema universale. Personalmente preferivo i film che mi procuravano un coinvolgimento emotivo rispetto a quelli che difendevano una tesi. Credo infatti che il regista non debba imporre una visione del mondo ma attivare un meccanismo di riflessione nello spettatore”. Con un’eccessiva arbitrarietà e troppa soggettività non diventa un discorso personale? “Ci sono dei criteri universali che vanno dalla qualità della regia, del soggetto, della sceneggiatura, alla bravura degli attori, che sono di per sé più oggettivi da valutare. Ma quando si valuta il film nel suo complesso – dunque il racconto attraverso le immagini, i dialoghi, il montaggio, la musica – si entra nel campo delle sensazioni e delle emozioni e il giurato diventa facilmente spettatore, che esprime giudizi soggettivi. Il fatto di essere in sei giurati, oltre a portare a una discussione seria e approfondita, stimola la pluralità di vedute. Ognuno mette sul tavolo le sue preferenze, le sue esperienze, la sua sensibilità personale, la cultura e la sua professionalità. Durante la discussione si scoprono dei lati del film che magari non erano stati considerati individualmente. Queste realtà individuali si fondono insieme e diventano collettive perché portano a un punto d’incontro che definisce le tre opere di livello, che vengono successivamente premiate. Il confronto è determinante e la decisione avviene con un consenso in cui deve esserci la maggioranza. Gli eliminati per esempio erano evidenti. In quell’occasione non ci sono state divergenze. I film che non sono entrati nella rosa dei candidati non hanno sollevato obiezioni da parte di nessuno, la decisione di eliminarli è stata unanime. Semmai la discussione si pone per quanto riguarda la tipologia dei premi da attribuire. Dal momento che non si può attribuire un premio alla regia a tutti, si cerca di dare gli altri premi, per esempio il miglior attore, ai film migliori”. Vi sono state pressioni o interferenze esterne? “Lo escludo in modo assoluto. Mi sono sentito autonomo e libero di decidere e valutare. Ho avuto sempre la possibilità di esprimermi senza nessun tipo di pressione”. La tendenza è quella di optare per le star dello spettacolo, chiamate a presiedere le giurie dei festival. Cosa ne pensa? “Se parliamo di Cannes e di Venezia o anche di Berlino, la tendenza a volte è quella. Ma al Festival di Locarno questo aspetto non si presenta perché si guarda meno alla notorietà”. Pensa che la stampa riesca a “deviare” il giudizio dei giurati? “No, perché il mondo della giuria, per la mia esperienza, è molto chiuso rispetto all’esterno e non legge le critiche ai film sulla stampa”. Cosa non dovrebbe mai fare un giurato? “Spingere un film o individuare un’opera sulla base di sentimenti campanilistici, che tengono in considerazione aspetti legati a una visione che favorisce, per esempio, un film svizzero perché nel mio caso sono un giurato svizzero. Il giurato inoltre deve prestare la massima attenzione durante la visione dei film evitando qualsiasi distrazione proveniente dal mondo esterno. È un impegno che deve essere preso con serietà per produrre un giudizio il più rigoroso possibile”. note 1 Francesco Casetti e Federico di Chio, Analisi del film, Bompiani, 1990. Gli autori definiscono l’analisi come un insieme di operazioni compiute su un oggetto al fine di individuare meglio le componenti, l’architettura, i movimenti, le dinamiche. In una parola: i principi di costruzione e di funzionamento. 2 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Piccola Biblioteca Einaudi, 2000 3 F. Casetti e F. di Chio, Op. cit.

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La culla del sogno

Il cinema e la psicoanalisi sono quasi coetanei ed entrambi elaborano sovente soggetti legati al mondo onirico ma con un approccio assai diverso. Una differenza che li rende però, almeno nelle migliori pellicole, perfettamente funzionali

di Mariella dal Farra

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“Sì, questo è Sunset Boulevard, Los Angeles, California. Sono circa

le cinque del mattino. Quella è la Squadra omicidi, completa di investigatori e giornalisti. È stato commesso un omicidio in una di quelle grandi case dal numero civico molto alto. Sicuramente leggerete tutti i particolari nelle ultime edizioni. Sentirete la storia alla radio e la vedrete alla televisione, perché c’è di mezzo una grande star del passato, una delle più grandi. Ma prima che sia distorta e gonfiata, prima che i giornalisti di Hollywood ci mettano le mani sopra, forse vi piacerebbe ascoltare i fatti, tutta la verità...”.1 Accompagnato dalla voce che parla, il piano sequenza segue le auto della polizia fino a una sontuosa villa hollywoodiana: la telecamera inquadra il corpo di un uomo giovane e ben vestito che galleggia a faccia in giù nell’acqua della piscina. La voce maschile prosegue: “Se è così, siete capitati nel posto giusto... Insomma, nella piscina della sua villa è stato trovato il corpo di un uomo con due colpi d’arma da fuoco nella schiena e uno nello stomaco. Uno qualunque, per la verità. Uno che scriveva per il cinema, con un paio di film di serie B al suo attivo. Povero fesso. Aveva sempre voluto una piscina. Bene, alla fine l’ha avuta. Solo che gli è costata un po’ troppo... Torniamo indietro di sei mesi, fino al giorno in cui è iniziato tutto. Vivevo in un residence oltre l’incrocio tra Franklin e Ivar. Al momento le cose andavano male [...].” Voce “fuori” campo È a questo punto, a circa due minuti e mezzo dall’inizio del film Viale del tramonto, che lo spettatore realizza essere l’uomo assassinato a parlare ma, mano a mano che la narrazione prosegue, l’iniziale senso di straniamento svanisce, e l’incongruenza ci appare del tutto naturale. L’incipit di questo grande film esemplifica in maniera efficace una delle prerogative più affascinanti del cinema: quella di sospendere temporaneamente il principio di realtà, rendendo accettabili presupposti evidentemente inverosimili e portandoci così oltre la sfera della logica razionale per esplorare mondi che infrangono il principio di non contraddizione. Conosciamo solo un’altra condizione (tralasciando gli stati allucinatori) nella quale ciò avviene, ed è quella del sogno. Secondo Sigmund Freud, “Il lavoro psichico nella formazione del sogno si suddivide in due operazioni: la produzione dei pensieri del sogno, la loro trasformazione in contenuto [manifesto] del sogno”2. Il fondatore della psicoanalisi identificò quattro meccanismi principali attraverso i quali l’inconscio trasfigura il contenuto latente: 1. la condensazione (aggregazione di oggetti psichici diversi in un’unica rappresentazione psico-affettiva); 2. lo spostamento (trasferimento dell’intensità emotiva propria di una determinata rappresentazione su di un’altra, originariamente poco intensa, ma legata alla prima da una catena associativa); 3. il riguardo per la raffigurabilità (la traduzione visiva del pensiero e/o emozione in immagine); 4. l’elaborazione secondaria, che equivale un po’ al “montaggio” finale del “girato” in quanto finalizzata a conferire al sogno “una trama relativamente coerente e comprensibile”3.


Fotogramma tratto da Il viale del tramonto (Sunset Boulevard), pellicola del 1950 diretta da Billy Wilder (www.movieplayer.it)

Considerata in questi termini, la produzione onirica presenta significative analogie con quella cinematografica, prima fra tutte la stratificazione di diversi livelli di significato, alcuni dei quali manifesti e altri latenti. Un altro elemento che accomuna le due esperienze è dato dalla relativa immobilità richiesta per il suo estrinsecarsi; così, secondo Christian Metz, “la situazione filmica porta in sé certi elementi di inibizione motoria, ed è sotto questo aspetto un piccolo sonno, un sonno da svegli. Lo spettatore è relativamente immobile, immerso in una relativa oscurità”.4 Cinema: un sogno non mediato Cinema e psicoanalisi nascono nello stesso periodo5, condividono una matrice culturale comune (quella dell’Europa al sorgere del ventesimo secolo) e “lavorano” con lo stesso materiale: la facoltà mitopoietica dell’inconscio, ovvero quella “fabbrica” di miti, o di sogni, che sta all’origine del narrare. Tuttavia, a differenza di ciò che avviene nell’ambito della psicoanalisi, il cinema “presenta un sogno, ma non lo interpreta”6: lascia cioè libero lo spettatore di risuonare con la rappresentazione proposta in accordo alla propria sensibilità, senza cercare di spiegare. Se “spiega troppo” un film diventa didascalico e perde quella capacità di “parlare direttamente all’inconscio” a cui si riferiva Musatti7. In questo senso, le due euristiche – quella psicoanalitica e quella cinematografica – si configurano come complementari nella misura in cui la prima privilegia come metodo

conoscitivo l’analisi, mentre la seconda genera comprensione attraverso la sintesi focale di un’immagine, una frase, un’espressione. per saperne di più Christian Metz (1977), Cinema e psicanalisi: il significante immaginario, Marsilio, 1980; Cesare Musatti, Scritti sul cinema, in Dario F. Romano (a cura di), Testo & Immagine, 2000. Per una bibliografia essenziale, si rimanda alle due opere che vengono citate nelle note al testo. Segnaliamo inoltre due registi in cui film presentano, a parere di chi scrive, un “coefficiente onirico” piuttosto elevato: Roman Polanski, con particolare riferimento a Repulsion (1965) in cui una Catherine Deneuve giovanissima e di inquietante bravura ci conduce nei meandri di un inconscio disturbato; David Lynch, a partire dal seminale Eraserhead (1977) fino a Inland Empire (2006). note 1 Sceneggiatura originale di Viale del Tramonto, film diretto nel 1950 da Billy Wilder, scritta da Charles Brackett, Billy Wilder, D.M. Marshman Jr, 21 marzo 1949. 2 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung, 1900) in Laplanche e Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Biblioteca Universale Laterza, 1987, pag. 289. 3 Laplanche e Pontalis, Op. cit., pag. 134. 4 Christian Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, 1980. 5 “Nel 1895, l’anno in cui a Parigi veniva proiettato il primo film dei fratelli Lumière, a Vienna Freud eseguiva la prima interpretazione d’un sogno” (http://it.wikipedia.org/wiki/Psicoanalisi_e_cinema). 6 C. Metz, Op. cit. 7 Cesare L. Musatti, Scritti sul cinema, a cura di Romano D.F., Testo&Immagine, 2000.

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» testimonianza raccolta da Demis Quadri; fotografia di Reza Khatir

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Davide Lussetti

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di oggi ai grandi festival di Berlino, Cannes o Venezia, è stata un’ottima esperienza. All’epoca anche l’ambiente che ruotava attorno al Festival era fantastico. Locarno sembrava più giovane e libertina. Ogni anno passavi i primi due o tre giorni della manifestazione a cercare di trovare il bar illegale di turno. Oggi invece si va più verso una standardizzazione dell’offerta. Intanto sono sempre meno o rischiano di sparire i punti di ritrovo storici del Festival, quelli che hanno mantenuto nel tempo una loro identità come la Cantina Canetti: un luogo dove democraticamente anche un consigliere federale È convinto che il cinema rappresenti uno deve aspettare il proprio turno specchio dei cambiamenti in atto. Con il come tutti gli altri, o dove suo lavoro permette allo spettatore di go- accanto a vecchi e giovani frequentatori abituali puoi indersi il suono di lingue sconosciute senza contrare attori e registi famosi. dover rinunciare al senso dei film Dopo il Festival di Locarno ho lavorato per due anni a computer, ma per trasmettequello di Roma. Come svizzero, anche se re le informazioni a un’altra magari non le parli alla perfezione, mastichi persona non le scrivevi una comunque le lingue, per cui hai certe facilità mail: dovevi stampare tutto che in Italia non sempre si hanno. Eravamo su un foglio e passarglielo. cinque o sei svizzeri e siamo sbarcati in quello Anche i telefonini erano molche in seguito abbiamo scoperto essere il to rari. Era un mestiere strano fulcro della politica capitolina nei confronti nel senso che in dieci giorni della nazione. In sostanza il Festival di Roma bruciavi tutto il lavoro di un era stato sponsorizzato e lanciato da Walter anno: se undici mesi e due Veltroni come trampolino per la sua idea settimane all’anno erano di di diventare primo ministro. All’inizio non preparazione, poi durante il l’avevamo capito, ma in seguito ci siamo resi periodo del Festival improvconto del complesso meccanismo di rapporti visamente passavi al problem e di amicizie con il quale noi non avevamo solving, cioè se avevi un proniente a che fare. Per cui tra noi c’è chi ha blema dovevi risolverlo subiresistito un anno, chi due, magari qualcuno to. Per certi aspetti si era forse anche tre, ma prima o poi tutti siamo stati più efficaci di adesso. allontanati. Ora sarà Marco Müller ad andare Non so se è a causa di Blacka Roma, e credo che questo cambiamento Berry, iPhone, ecc. ma a volte potrà far bene a quella manifestazione... mi pare che nella nostra socieDopo l’esperienza romana, sono stato contattà si sia sviluppata un po’ una tato dalla società con cui lavoro attualmente: cultura dello “scaricabarile”. mi hanno chiesto se ero interessato a collaIn quegli anni sicuramente il borare con loro e così ho cominciato. Nel Festival era una struttura molfrattempo l’anno scorso per la prima volta to più casereccia di ora, in un ho seguito veramente a fondo il Festival di certo senso forse meno profesLocarno da fruitore. Quando ci lavoravo, in sionale; mi ricordo di Rezzodieci anni avrò visto forse cinque film: tutti in nico che andava a fare il giro un’edizione, oltretutto, perché mi ero guardella Sopracenerina per condato il ciclo Cremaster di Matthew Barney, trollare che i cartelli fossero che era stato proiettato nel pomeriggio e per bene allineati. Probabilmente il quale quindi avevo potuto ritagliarmi un il presidente attuale non deve po’ di spazio nel tempo libero. L’esperienza fare la stessa cosa. Comunda spettatore è stata bella, mi sono divertito: que, anche se allora quello di bei film, belle scoperte. Anche delle grandi Locarno assomigliava meno dormite... ma questo fa parte dei festival.

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ivo a Locarno e lavoro per una società che si occupa di offrire ai festival cinematografici il servizio di sottotitolatura delle pellicole, normalmente nella lingua locale. In generale i film vengono forniti con i sottotitoli in inglese, ma in Francia ne hanno bisogno di una versione francese, in Germania in tedesco, e così via: non tutti parlano inglese. In sostanza nel nostro campo si ricevono i film, li si converte in un formato che consenta di lavorarci sopra, quindi tocca ai traduttori e poi a coloro che rileggono e correggono quanto fatto da questi ultimi. In seguito si passa alla sincronizzazione tra il film e i sottotitoli, per poi spostarsi al festival dove si installano i proiettori, i computer, gli schermi sotto quello principale e si proietta infine il risultato ottenuto, sperando che la copia proiettata sia effettivamente la stessa su cui abbiamo lavorato. Personalmente non mi occupo delle traduzioni, ma piuttosto del lato tecnico, di tutto il processo. Mi sono formato come tipografo. Molti anni fa lavoravo nell’azienda di Raimondo Rezzonico, che allora era il “presidentissimo” del Festival di Locarno. Un bel giorno mi ha chiesto di andare negli uffici del Festival per un problema con gli schermi. È così che sono finito al Festival. Io mi occupavo principalmente di informatica, e in effetti ho poi scoperto che le televisioni di Rezzonico erano in realtà i computer. A ogni modo è appunto così che ho cominciato a collaborare col Festival, dove sono rimasto per dieci anni. Penso sia stato uno dei posti più belli in cui ho lavorato, ma non saprei dire come sia attualmente. All’epoca a Locarno c’era Marco Müller e in generale il modo di lavorare era molto diverso rispetto a oggi. Basti pensare che, in tutto il nostro ufficio, l’unico ad avere e a usare un modem con il collegamento internet era il direttore. Si usava già il


Il mIo nome è Clayton di Marco Jeitziner; fotografie di Marco Beltrametti

La storia di un attore americano di “serie B” smarritosi per le vie di Locarno affianca una selezione di fotografie di personaggi che hanno segnato la storia del Film Festival di Locarno. Sono solo alcune delle straordinarie immagini scattate da Marco Beltrametti in quindici anni di documentazione di quello che ancora oggi è, per prestigio e rilievo internazionali, il principale evento culturale del nostro cantone. Un momento singolare durante il quale si stabilisce un rapporto più intimo e diretto fra noi, comuni cittadini e appassionati di cinema, e quelle che il grande circo dello spettacolo cinematografico ha trasformato in icone intramontabili. Con l’ovvia eccezione di Clayton Tackleberry Junior…


sopra: Jean Luc Godard, 1995; in apertura: Cinema Teatro, 1995



Palazzo Sopracenerina, 1994

FEVI, 2001


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bituato a ben altri tappeti rossi, o almeno così la pensava, l’attore americano Clayton Tackleberry Junior aveva accettato volentieri l’invito del Festival per ritirare l’Original Award, un premio speciale per gli attori un po’ speciali. Diciamo di culto. E lui era ovviamente uno di quelli, dopo aver recitato in film memorabili come Il ponte sul fiume in secca e Il mio nome è il mio nome, opere entrate di diritto nella storia del cinema. Di un certo tipo di cinema. Una faccia inconfondibile la sua, impossibile non riconoscerlo, una via di mezzo tra un Brando e una Monroe, amava dire, anche se poi nessuno riusciva mai a farsene una chiara idea. Atterrò con mezz’ora di ritardo a Magadino, dopo incomprensibili disguidi doganali con le autorità elvetiche: pare non capissero a cosa si riferisse quel “junior”. Aveva dovuto alloggiare in un Garni a due stelle e la direzione del Festival s’era scusata più volte. Lui aveva accettato di buon grado, in cambio di un piccolo favore: “Ogni sera una bottiglia di Ascona Whisky in ca-

Isabelle Huppert, 1994

mera!”, aveva chiesto perentorio. Era l’unica cosa che conosceva del territorio. Si fece una doccia, si cambiò e chiamò Toni, la sua ragazza nell’Arkansas, dimenticandosi del fuso orario. Toni infatti non rispose e lui imprecò. Poco dopo squillò il telefono: gli ricordavano la conferenza stampa alla Morettina che si sarebbe tenuta un’ora dopo. “Oh, okay, More and Tina, I’ll be there, don’t worry!” rassicurò lui. Disse che ci sarebbe arrivato da solo. Girò in poco tempo tra Minusio, Muralto, Locarno, chiedendosi cosa avessero di diverso quei luoghi per avere tre nomi così differenti. Imboccò Viale Verbano e poi il Lungolago Giuseppe Motta, che non erano certo la Promenade de la Croisette di Cannes, ma tant’è… Portava un cappello da vaccaro, occhiali a

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in senso anti orario Sandra Bullock, 1994 John Singleton, 2001 Jean-Luis Trintignant, 1994 a destra Jeanne Labrune, 2000


specchio e sigaro in bocca. Se non fosse stato il mitico Clayton Tackleberry Junior, lo si sarebbe scambiato per un qualsiasi truzzo di provincia, invece i locarnesi avevano l’opportunità di vedere di persona una (quasi) stella di un certo cinema, di poterci parlare, fotografarla, toccarla, ecc. Era uno che, di solito, mandava in visibilio le donne dell’Arkansas e faceva ingelosire i loro uomini. Ma Tackleberry Junior si rese presto conto che nessuno se lo filava, nessuno lo degnava di uno sguardo. Persino i cigni del lago snobbavano le sue briciole di pane. Ma in che razza di posto era mai capitato? Forse aveva sbagliato look? Fermò un po’ di persone, dicendo loro chi fosse, che aveva recitato nel celebre Tigre d’argento col mantello rosso, ma per la gente era sempre un “Oh, non saprei, mi spiace!”, “Scusi sono di fretta!”. Oppure, peggio, non reagivano proprio, sguardo fisso a terra e passo accelerato. Uno smacco! Domandò allora al chiosco del Debarcadero dove potesse trovare questa More e questa Tina, presumibilmente due donne, pensò, ma nessuno seppe aiutarlo. “Tina? Intende una cantina?” fece un tassista, che non parlava inglese. “No, Tina! She’s a woman! Where is she?” insistette. Alla ricerca di questa Tina, Tackleberry Junior si perse tra i portici di Piazza Grande e la città vecchia, bidonando alla grande la conferenza stampa. Fu ritrovato la mattina seguente al Bosco Isolino in compagnia di una certa Tatiana, meglio nota nell’ambiente notturno come “la Tina”. Al Festival intanto teneva banco un giallo: qualcuno, la notte precedente, davanti al piccolo casinò cittadino, s’era portato via la testa di una statua del pardo, laccata d’argento, e un metro quadrato di tappeto rosso, perfettamente sforbiciato...

Marco Beltrametti Classe 1963, vive a Cadenazzo. Fotografo, cameraman, events designer è dal 2006 docente di Fotografia presso il Dipartimento Ambiente Costruzioni Design della SUPSI. Documenta il Festival del film di Locarno nel periodo tra il 1988 e il 2003: dapprima per le pagine dei quotidiani ticinesi, dal 1993 per quelle di “Le Nouveau Quotidien”, “Journal de Genève” (divenuti in seguito “Le Temps”), “La Tribune de Genève”, “L’Hebdo” e “Tages Anzeiger”.


Piazza Grande. Selciato patinato di Marco Jeitziner; fotografie di Ivana De Maria

io avere pagato entrata!”. E il giovane aborigeno di Losone o di Gordola, improvvisato addetto alla sicurezza, fa spallucce, mica il maggiordomo, scherziamo? Delirio assicurato...

Luoghi

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Amata, invidiata, ma anche ignorata e odiata. Come quasi tutte le piazze delle nostre piccole cittadine, anche questa resta vuota per quasi tutto l’anno. Ma è tempo di festival e definirla solo “grande” è riduttivo. In barba a quelle coi tacchi che devono attraversarla a piedi, agli automobilisti che vi parcheggiavano, ai negozianti che vi commerciavano. È Piazza Grande, che scritto maiuscolo suona un po’ Venezia, città che non a caso vi è collegata dall’acqua. Dal 1971, quando il Vacchini la immaginò come un’immensa sala cinematografica, divenne platea d’agosto per migliaia di spettatori durante il maggiore evento culturale elvetico. Ecco allora il presente e il futuro: un giovane cinefilo eccentrico camminare sopra i ciottoli scalzo, evitando quelli più cocenti. Senza persone, si sa, niente piazza, poiché il contrario, ahinoi, non vale. Su e giù dal selciato C’è chi sfiora i muri della Sopracenerina, chi di palazzo Marcacci, ma i ciottoli della “super agorà” sono lì dalla prima metà dell’Ottocento: meritano rispetto, diamine! Chissà il selciato quante ne ha viste... Rumorosa e maestosa, foderata di sedie a macchie, circondata da case pastello illuminate a sera, avvolta da vocianti ristori, “coperta” da una maglia di luci e da un cielo a scacchi. Stolto chi a tutto ciò preferisce l’insulso circo di plastica fumante, all’interno di una abnorme e anonima rotatoria, ovviamente deserta nel resto dell’anno. I festivalieri, quelli veri, invece lo sanno: il posto in piazza non è mai garantito. Le scomode sedie sono già occupate da vestiti, birre, borse, volantini, bambini appallottolati. Quella lì non è una signora zurighese profumata, è la sua sagoma di cartone, portata lì un’ora prima dall’amica del chiosco! Gli stoici che i film se li guardano in piedi come cavalli, patiscono pure il petulante turista del nord: “Signore alto non fare vedere film ma

Spiazzati e simili Fuori dalla piazza, ai piedi del bel Rivellino, il consueto ritrovo di giovani scazzati a cui dei film non frega nulla, lì a tracannare cartoni di birre e a fumar cannoni fino a tardi. Ma è festival e si tollera più o meno tutto. Ecco il tizio di Lugano per la prima volta a Locarno (per la prima volta al festival) che sono ore che vaga attorno alla rotonda chiedendosi “Ah, perché, ci sono dei film da vedere?”. Capita anche la turista francese che domanda: “Scusi, dov’è il festival?”. Be’, certo, dipende a cosa si riferisce. Mentre il Festival di Zurigo ammicca pericolosamente, famosi attori italiani passeggiano tra le vie così svizzere di Locarno e nessuno, proprio nessuno, li avvicina: riservatezza o ignoranza? Stuoli di registi e di attori asiatici tutti uguali, noti solo a chi mangia film a colazione, e veri divi che ricominciano finalmente a tornare sul Verbano, e finti “vips” nostrani che cominciano invece ad annoiare, e starlettes come in vacanza (ma non siamo a Cannes), e critici sempre troppo seriosi, e giornalisti e blogger a caccia di chissà che cosa, e politici presenzialisti con la paresi da sorriso, e sfilze di tamarri e sciacquette culturalmente allergici... Sceneggiate in piazza “E se non ci sarà più gente come me voglio morire in Piazza Grande (...)” ha scritto Ron e cantato Dalla. Ma tranquilli, di gente così ce n’è ancora e la vediamo ogni anno. Mentre la morte da settima arte s’è vista spesso dal selciato. Pomposa e ridicola nei “panettoni” hollywoodiani, facilmente scandalosa negli zombies porno-gay di recenti edizioni, impegnata e accennata nel film d’autore, per fortuna non vera nello svenimento dell’ex direttore Maire. Piazza afona dello storico e “mitico” Faloppa. Poi sfilano ogni anno i ministri elvetici, ognuno a suo modo: in sordina la sera tra le osterie sotto i portici come facevano Leuenberger e Dreifuss; in pompa magna sotto la stecca del sole come Merz e Burkhalter. Cinque minuti di popolarità sul maxi schermo per la gente, divertita ma spesso imbarazzata, inquadrata da un impertinente operatore. C’è un mondo fuori e dentro la piazza, l’avrete capito. Fantastici mucchi di confederati, tedeschi, italiani, inglesi, giapponesi, latino americani e se non sei un po’ cinefilo o poliglotta puoi anche annoiarti. Oppure sei semplicemente troppo provinciale. Ma ecco che, magicamente, per una volta l’anno, la sorniona Locarno e questa periferia complessata diventano internazionali.



Festa sotto le stelle Tendenze p. 48 – 49 | di Marisa Gorza

“Se l’ombre nostre van dato offesa, Voi fate conto v’abbiam colto, Mentr’erravate in preda al sonno, Ed ogni visione era chimera” (William Shakespeare)

Il conto alla rovescia è iniziato. Lo sapeva bene il bardo che la notte, specialmente quella di mezza estate, può essere un sovrapporsi di dimensioni oniriche, di ghiribizzi fantasiosi, di piacevoli illusioni, di giochi di chimere... Come l’odierno e urgente, quanto indispensabile, bisogno di far festa, di folleggiare, di divertirsi, tanto per richiamarsi, almeno in parte, agli atavici baccanali che un tempo celebravano l’arrivo e la continuazione della bella stagione. Proprio con lo scopo di onorare il ritrovato tepore e il risplendere del sole di giorno, promessa di messi abbondanti; mentre nella notte le tenebre oscure si dileguavano illuminate dal cielo punteggiato di stelle. Piuttosto anacronistico? E se alle cicliche suggestioni della natura aggiungessimo lo charme delle valli ticinesi e dei suoi eventi estivi, magari la lusinga di quanto offrono i raffinati hotel e i resort di Locarno e dintorni? Tra party nei dehors e giardini dei grandi alberghi, festival open air, spettacoli teatrali, simposi cinematografici, mostre

d’arte, balli, concerti e ancora di più, non c’è che l’imbarazzo della scelta per godersi le sere d’estate e trovare la scusa per indossare la più glamour e donante delle mise che esalta l’abbronzatura nuova-nuova. Pur essendo forte la tentazione di indugiare su sinuosi e ondeggianti abiti mozzafiato e freschi completi maschili dal perfetto aplomb, suggeriti dalle Grandi Firme, mi limiterò a segnalare alcuni “pezzi” del guardaroba estivo (e oltre) basici e irrinunciabili. Però sempre unici come chi decide di indossarli.

Sconto online del 20%. Cominciamo a innalzarci con il sandaletto

assemblato a mano, proposto da Ermanno Scervino, vero capolavoro di ingegneria e tradizione artigianale. La tomaia a fascia veste-sveste il piedino con malizia e il tacco corposo e svettante a quota 12 cm è ben bilanciato dal furbo plateau anteriore. Un cinturino con fibbia si arrampica


Ermanno Scervino

Philipp Plein

e s’incrocia intorno alla caviglia, mentre la sofisticata morbida pelle, pennellata di riflessi dorati, promette di armonizzarsi con toilette di ogni colore. Lusinga l’incedere e slancia le gambe con quel tocco glam, perfetto per il look gran soirée.

E siccome la festa d’estate sotto le stelle e il chiaro di luna è un tripudio di allegra vitalità, ecco per un uomo gran ballerino e viveur la scarpa Oxford stringata, disegnata da Philipp Plein, molto classica, però... Costruita in vitello grigio con tipica lavorazione all’inglese, ha la punta e il

Cogliete questa opportunità. tallone in prezioso coccodrillo spazzolato, tempestato di micro borchie scintillanti che disegnano pure il profilo a coda di rondine mentre una lucida targhetta con il logo caratterizza il tacco. Come dire che il rock’n’roll incontra e si fonde con piacere al lusso più estremo.

Indispensabile,

per qualsiasi impegno mondano, una borsetta clutch o una pochette dove riporre il telefonino, il rossetto, un mini-mini spruzzatore del profumo preferito e magari un porte-bonheur. Cattura lo sguardo la versione a busta di Philipp Plein, in colori fluo o in pelle di rettile. Con applicazioni sull’ampio battente di borchie a forma di stella e una fitta pioggia di preziosi cristalli Swarovski che compongono pure il logo del teschio, quale chiaro manifesto fashion.

Per

esaltare la vanità maschile rimane sovrana la camicia che, grazie al suo stretto rapporto “di pelle” è complice di impagabili sensazioni di freschezza. Rigorosamente candida, nelle serate estive può fare a meno della giacca, specialmente quando si tratta di un esemplare da smoking, come quello suggerito da Ermanno Scervino in un croccante cotone-seta. Rivoli di piccole ruches adornano il plastron che si chiude al collo con un morbido papillon sempre bianco e preziosi gemelli ai polsi. Intramontabili postille di stile e tocchi di classe.

Non

mancano nel cantone le piscine hollywoodiane dove tuffarsi in un “imprevisto” bagno di mezzanotte, nel bel mezzo della festa. Addirittura alcuni abiti da sera sembrano fatti apposta per infilarci sotto il costume ed essere già pronte, al momento opportuno, con vera nonchalance. Peraltro, al contrario, si può partire da un esemplare intero, quello di Parah Noir, per esempio – nero fatale, scollo decolleté e con fenditure e inserti di cuoio – e costruirvi intorno la mise con vaporosi maxi foulard e una caterva di bijoux. Senza dimenticare un trucco accurato... waterproof naturalmente!

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Opportunità in tutti i campi per i più creativi. Grazie a Venere e Urano favorevoli, la prima settimana di agosto spinge a iniziative originali. Colpi di fulmine per i nati nella terza decade. Matrimoni in vista.

Cambiamenti di rotta per i nati tra la prima e la seconda decade. Scelte inaspettate e improvvise favorite dalla quadratura tra Urano e Plutone. È giunto il momento per tagliare ogni cordone ombelicale.

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È arrivato il momento di puntare su qualcosa di importante. Tra il 2 e il 3 agosto dovrete stare attenti a non farvi sorprendere da inaspettati sbalzi umorali. Progressi professionali per i nati nella seconda decade.

Inquietudini affettive indotte da Venere in quadratura. Professionalmente esagerati i nati tra la prima e la seconda decade pungolati nelle loro ambizioni da Giove angolare. Problemi patrimoniali in famiglia.

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Tra il 2 e il 3 agosto sia la Luna sia Mercurio si troveranno in posizione disarmonica. Amplificazione delle emozioni. Stress e instabilità emotiva per i nati nella prima decade. Dissapori col partner.

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Con Venere in opposizione cresce il desiderio di sentirsi al centro dell’attenzione. Creativi e dinamici tra il 2 e il 3 agosto grazie al transito lunare. Frenetici e a volte bipolari i nati nella prima decade.

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» a cura di Elisabetta

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Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 2 agosto e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 31 luglio a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

Orizzontali 1. Insudiciare, impiastricciare • 10. L’ama Zivago • 11. L’antagonista del Milan • 12. Fiore autunnale • 14. Passeraceo americano • 15. Anno Domini • 16. La Silvia vestale • 17. Costoso • 19. Il no moscovita • 22. Partita a tennis • 23. Decorato, abbellito • 25. In nessun tempo • 26. Principi musulmani • 29. Bacino lacustre russo • 31. L’isola del Colosso • 33. Avverbio di luogo • 34. Un Continente • 37. Andatura equestre • 38. Frecce, saette • 39. Due al lotto • 41. Responsabilità Civile • 43. Italia, Ohio e Portogallo • 44. Un’acqua terapeutica • 48. I confini di Rovio • 49. Si detraggono dal lordo • 50. Il bel Delon • 52. Stato USA • 53. Non proprio scandaloso. Verticali 1. Noto romanzo di Ann Featherstone • 2. Un pianeta • 3. Il nome storico della Gran Bretagna • 4. Glabre • 5. Il nome di Buazzelli • 6. La sigla del Tritolo • 7. La dea della discordia • 8. Vogare • 9. Storico greco • 13. Segno zodiacale • 18. Studiano la volta celeste • 20. Dittongo in giada • 21. Lo zio della capanna • 24. Quasi unici • 27. Arrabbiata • 28. I giorni fatali a Cesare • 30. Nobile inglese • 32. Il noto da Todi • 35. Città grigionese • 36. Ente Turistico • 37. Tirare le conclusioni • 40. Il Godunov • 42. Cricca • 45. Spagna e Arkansas • 46. Una delle Piccole donne • 47. Articolo spagnolo • 51. Dittongo in Paolo.

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Soluzioni n. 28

La soluzione del Concorso apparso il 13 luglio è: REVOLVER Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Gabriella Prospero 6713 Malvaglia Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

Giochi

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