Ticino7

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№ 42

del 19 ottobre 2012

con Teleradio 21–27 ottobre

Terzo mondo

dose minima

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© Matteo Fieni

12 x 7

I fotografi di Ticinosette

Museo Casa Cavalier Pellanda, Biasca Fino al 30 dicembre 2012

Fotografie di Reto Albertalli, Matteo Aroldi, Giosanna Crivelli, Ivana De Maria, Matteo Fieni, Peter Keller, Reza Khatir, Flavia Leuenberger, Igor Ponti, Jacek Pulawski, Didier Ruef, Katja Snozzi Catalogo edito da EdizioniSalvioni, Bellinzona

Esposizione curata da Marco Gurtner e Reza Khatir. La mostra è aperta al pubblico mercoledì, sabato, domenica e festivi 14 – 18, venerdì 16 – 19

Le prossime serate d’incontro con il pubblico sono previste il:

27 ottobre, ore 18.30 Fotogiornalismo oggi moderatore Oscar Acciari (RSI) interverranno Reto Albertalli e Didier Ruef

10 novembre, ore 18.30 Spazio ai giovani la redazione di Ticinosette e alcuni collaboratori


Ticinosette n° 42 19 ottobre 2012

Agorà Tumori e Terzo mondo. La strage taciuta Società Enrico Mattei. La fine del Corsaro Arti Warne Marsh. Un pacato innovatore

Impressum

Media Teatro. L’Arsenic in evoluzione

Tiratura controllata

Vitae Agnese Zgraggen

70’634 copie

Chiusura redazionale Venerdì 12 ottobre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

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di

eugenio KlueseR. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

tito Mangialajo RantzeR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

tiziana Conte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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fotogRafie di

agostino Rossi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

fabio MaRtini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tendenze Speedway. Tutto di traverso

a CuRa di

gianCaRlo foRnasieR . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cruciverba / Concorso a premi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Coredattore

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RobeRto Roveda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

KeRi gonzato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Reportage La terra desolata Fiabe Nocciolino e l’orco

di

di

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Quanto basta Illustrazione di Antonio Bertossi

La scommessa Innanzitutto una doverosa precisazione . Nell’articolo “Prisca Dindo . Una donna dietro la notizia” pubblicato lo scorso 5 ottobre sul numero 40 di Ticinosette si scriveva “Mai prima, infatti, alle nostre latitudini, una donna era stata chiamata a dirigere una TV, un «vuoto» che riguarda anche la carta stampata” . Se l’affermazione riguardo alle televisione è veritiera, non lo è altrettanto quella relativa alla carta stampata: infatti Monica Piffaretti è stata per quasi un decennio direttrice del quotidiano LaRegioneTicino, mentre Fausta Ferretti dirige attualmente il settimanale l’Informatore . Ci scusiamo con le interessate e con i lettori per l’imprecisione . Sui destini dei giornali cartacei si sta molto dibattendo . A proposito vorrei segnalare un interessante articolo di Tim de Lisle, pubblicato su Intelligent Life, allegato culturale dell’Economist, recentemente tradotto dal settimanale Internazionale (n . 969, 5/11 ottobre, pag . 40) . Nel servizio, de Lisle intervista Alan Rusbridger direttore del quotidiano inglese The Guardian, testata popolare anche fra i lettori americani e una fra le più lette al mondo . Nonostante l’apprezzamento del pubblico e la qualità della proposta giornalistica – ricordiamo che l’inchiesta che ha portato alla chiusura del tabloid News of the World e all’arresto del suo direttore Rebecca Brooks è partita dalle pagine del quotidiano diretto da Rusbridger –, dall’ottobre 2005 al marzo 2012 il Guardian ha di fatto dimezzato la sua tiratura, passata da circa 403 .000 copie a 217 .000 . Un calo che è stato accompagnato negli ultimi tre anni da una perdita giornaliera di 100 .000 sterline (150 .000 franchi) e da conseguenti licenziamenti . Una catastrofe, a quanto sembra, peraltro vissuta in misura e condizioni diverse da quasi tutte le testate cartacee occidentali . Ma esiste anche un altro lato della medaglia . Dal 2008 a oggi i

visitatori unici mensili del sito del quotidiano inglese – che continua a offrire i suoi contenuti gratuitamente al pari del Daily Mail, del Telegraph e del Washington Post –, sono passati da venti a settanta milioni . Al di là della scelta più o meno ideologica del Guardian di non far pagare l’accesso alle versioni online, resta il dato generale dell’incremento del lettorato sulla rete e del conseguente slittamento dei contenuti pubblicitari verso l’editoria digitale i cui supporti e sistemi tecnologici – oggi gli iPhone e gli iPad, domani chissà cos’altro –, mutano e si aggiornano continuamente costringendo i gruppi editoriali a mutazioni e processi di adattamento sempre più rapidi e complessi . Per non entrare nel merito dei social network con cui il mondo ufficiale dell’informazione ritiene sempre più indispensabile intrecciarsi . Cosa accadrà a questi giganti lenti e impacciati che si muovono con difficoltà su terreni sconnessi e in rapida trasformazione è difficile a dirsi . La parola d’ordine, come l’esperienza del Guardian e di altre grandi testate pare dimostrare, è “diversificare”, trasformando le testate giornalistiche in veri e propri brand in grado di articolare la proposta informativa su piani molteplici: dalla carta a internet, dai corsi di scrittura giornalistica e di fotografia alla promozione di eventi culturali di ogni tipo . Un processo da attuare tenendo bene a mente che, soprattutto le nuove generazioni, possono essere “catturate” solo grazie alla qualità degli approfondimenti, a servizi coraggiosi, a grafiche originali, a proposte imperdibili e alla crescente integrazione di tutti questi elementi . Una sfida difficile ma da intraprendere assolutamente perché le scommesse sul giorno in cui uscirà l’ultimo giornale da una tipografia sono iniziate da un pezzo… Buona lettura, Fabio Martini


La strage taciuta Agorà

di Roberto Roveda

C

irca un anno fa intervistammo sul tema della ricerca sul cancro il professor Franco Cavalli, responsabile dell’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana (IOSI) di Bellinzona1. Alla fine della nostra chiacchierata gli chiedemmo quale aspetto della lotta contro il cancro necessitasse di maggiori fondi e di particolare attenzione. Il professor Cavalli rimase per diversi secondi in silenzio poi rispose in maniera apparentemente spiazzante: “Se avessi molti soldi da investire li userei prima di tutto per finanziare un registro dei tumori nei paesi del Terzo mondo così da capire cosa sta capitando in quelle aree. Sappiamo che c’è una esplosione dei casi di cancro, una epidemia, ma dati concreti ne abbiamo pochi” Disparità allarmante I maggiori oncologi a livello internazionale hanno posto l’attenzione su un problema enorme e poco conosciuto, non solo dal grande pubblico, ma anche in seno a parte della comunità medica: la diffusione incontrollata del cancro nei paesi in via di sviluppo e l’altissima mortalità – soprattutto rispetto ai parametri che si registrano oggi nei paesi occidentali – che caratterizza i casi di tumore nelle aree meno sviluppate del pianeta. Solo per rimanere alle fredde cifre, ogni anno muoiono di tumore più di sette milioni di persone in tutto il mondo. Di queste morti il 70% avviene nelle aree meno sviluppate. Una strage destinata a crescere in dimensione dato che si prevede che tra vent’anni i morti per tumore all’anno nel mondo saranno 17 milioni circa a fronte di quasi 30 milioni di nuovi casi annui (oggi siamo a circa 12 milioni di nuovi casi all’anno2). Viene dunque spontaneo chiedersi se la medicina moderna stia vincendo la lunga battaglia con le patologie tumorali, un tema su cui si confronteranno a Lugano dal 25 al 27 ottobre i maggiori esperti di oncologia a livello mondiale nella prima edizione del World Oncology Forum (WOF), un evento fortemente voluto proprio da Franco Cavalli (http://www.eso.net/varie/wof.html) Quello che però appare chiaro è che la battaglia è solo agli inizi e il cancro nei prossimi decenni sarà la grande sfida da affrontare in campo medico a causa del progressivo invecchiamento della popolazione, della crescita demografica e soprattutto dell’estensione delle abitudini e degli stili di vita dei paesi più ricchi anche ai paesi in via di sviluppo. La maggior parte dei nuovi malati si concentrerà, infatti, nelle aree meno sviluppate del pianeta e sempre in quelle zone la mortalità sarà molto più alta che in Occidente, cosa che avviene già oggi. Nelle nazioni più progredite guarisce dal tumore il 50% dei malati,

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La maggior parte dei decessi per patologie tumorali avviene nei paesi in via di sviluppo. Il tema sarà al centro del prossimo World Oncology Forum

mentre nei paesi poveri i dati sono molto inferiori. Per il tumore al seno, per esempio, a fronte della percentuale di guarigione dell’81% negli Stati Uniti, il dato nell’Africa sub-sahariana è del 32%. Per il tumore al collo dell’utero le cifre parlano di un 90% di guarigioni nei paesi occidentali, a fronte del 40% nei paesi meno sviluppati.3 Dramma nel dramma, di questa disparità nell’accesso alle cure e alle terapie fanno le spese soprattutto i bambini: in Occidente la guarigione da cancro in età pediatrica oscilla tra l’80 e l’85%, mentre scende al 15% nelle nazioni in via di sviluppo, per crollare al 5% nelle aree più povere dell’Africa.4 La cosa che deve però far riflettere è che la sopravvivenza era la medesima nel Nord e Sud del mondo nel 1950, segno che in mezzo secolo ci sono stati dei progressi, ma solo a vantaggio degli abitanti delle zone più avanzate del pianeta. Un fenomeno in crescita Una disparità che apre la strada a una vera propria catastrofe umanitaria già in atto, ma destinata a peggiorare nei prossimi anni. Prima di tutto perché nelle zone più povere persistono forme tumorali in regresso in Occidente e legate alla miseria e alle sue conseguenze come la malnutrizione e la mancanza di igiene: si tratta del cancro allo stomaco, all’esofago, al collo dell’utero. Inoltre sempre più zone del pianeta devono fare i conti con l’industrializzazione e i suoi effetti, in primis l’inquinamento, con i cambiamenti nelle abitudini alimentari – con in primo piano la cosiddetta “McDonaldizzazione” del Terzo mondo –, e la crescita nel consumo di sigarette. A rendere più complessa la situazione la velocità con cui questi mutamenti avvengono. L’uomo occidentale è diventato “consumista” e “tabagista” nell’arco di qualche generazione. Ciò significa che il suo organismo ha avuto il tempo di adattarsi ai fattori cancerogeni, un tempo che oggi nei paesi in via di sviluppo è molto più ridotto. Tutto risulta quindi amplificato, esasperato e di fatto più pericoloso. Il problema sanitario A questi fattori sociali e antropologici, si aggiunge lo sfacelo del sistema sanitario in molte nazioni e la mancanza di farmaci e strumenti adatti alla cura dei tumori. Due terzi dei casi di tumore vengono registrati nei paesi in via di sviluppo, che però consumano solo il 5% dei farmaci specifici. E questo soprattutto perché queste cure hanno costi proibitivi per i sistemi sanitari di molte nazioni, che dispongno di risorse limitate. Se in Svizzera, infatti, la spesa sanitaria oggi è di circa 7000 franchi all’anno per ogni abitante, nei paesi più


poveri si arriva a malapena a 20-25 dollari all’anno per abitante! Inutile poi girarci intorno: non esiste nessuna politica seria né a livello di organismi internazionali, né di singole nazioni, meno che mai per quanto riguarda le società farmaceutiche, per rendere i farmaci meno costosi e più accessibili. Lo stesso discorso vale per alcuni vaccini, come quello per prevenire il cancro al collo dell’utero: è disponibile nelle nazioni avanzate, dove però l’incidenza di questo tumore, grazie a una maggiore igiene e ai controlli ginecologici periodici, è limitata. Il vaccino servirebbe molto di più nelle aree più povere del pianeta ma ogni dose costa centinaia di dollari e quindi non è di fatto disponibile. Si è calcolato che con una adeguata campagna di vaccinazione si potrebbero ridurre fino al 70% i casi di questo tumore che uccide migliaia di donne nel Sud del mondo. Mancano poi, quasi totalmente, nei paesi in via di sviluppo, le apparecchiature per radioterapia: in venti paesi del mondo, soprattutto in Africa e nel Sud-est asiatico, non esiste una sola apparecchiatura del genere e, in totale, ne servirebbero almeno 5000 secondo i dati forniti dall’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) di Vienna.5 A questo quadro fosco dobbiamo aggiungere gli ospedali spesso fatiscenti, pazienti costretti a occupare in due lo stesso letto e a essere assistiti dai parenti. Manca, infatti, il personale infermieristico, soprattutto perché per i paesi occidentali è più conveniente “importare” infermieri dal Secondo e Terzo mondo piuttosto che formare – e pagare adeguatamente – personale locale. Così, secondo i calcoli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nei prossimi dieci anni Stati Uniti e Unione Europea daranno lavoro a circa mezzo milione di infermieri provenienti dai paesi in via di sviluppo, privando questi ultimi di risorse umane e professionali indispensabili.

Cosa fare nel futuro? Una prima azione potrebbe essere quella indicata dal professor Cavalli nella sua risposta riportata all’inizio: un registro dei tumori per capire cosa sta accadendo e i numeri del problema. Oggi esiste un registro di questo tipo solo per l’1% della popolazione africana. Un altro punto da affrontare è quello delle cure palliative e del trattamento del dolore. Sempre il professor Cavalli ci ha detto: “Ci vorrebbero anche fondi da mettere a disposizione dei milioni di pazienti che nel Terzo mondo muoiono con dolori terribili perché non c’è la morfina. E non c’è non perché costa, perché la morfina non costa niente: con mezzo miliardo di franchi se ne compra per tutto il mondo. Non c’è perché esistono blocchi ideologici e burocratici contro l’utilizzo degli oppiacei e dei loro derivati”. Il problema principale, inutile nasconderselo, resta quello della disponibilità dei farmaci e delle cure. Senza una netta volontà della politica e della pubblica opinione sarà difficile evitare la catastrofe. Viceversa si può decidere di mettere la testa sotto la sabbia, addebitando la colpa di quello che accade, e che accadrà in futuro, ai governi, agli organismi internazionali, alle lobby farmaceutiche. Forse si dorme meglio, ma non si è meno responsabili. note 1 Ticinosette nr. 43/2011 (http://issuu.com/infocdt/docs/n_1143_ti7). 2 Dati provenienti dal World Cancer Report stilato nel 2008 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC, www.iarc.fr). 3 Dati pubblicati dalla rivista medica Lancet Oncology nel numero di febbraio 2010 (www.thelancet.com/journals/lanonc/issue/current) 4 Dati tratti dal libro di F. Cavalli, Cancro, la grande sfida, Armando Dadò, 2010. 5 Ibidem.

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La fine del Corsaro “Che cosa era Enrico Mattei? Uno di quegli italiani imprendibili, indefinibili, che sanno entrare in tutte le parti, capaci di grandissimo charme come di grandissimo furore, generosi ma con una memoria di elefante per le offese subite, abili nell’usare il denaro ma quasi senza toccarlo, sopra le parti ma capaci di usarle, cinici ma per un grande disegno” (Giorgio Bocca) di Eugenio Klueser

Società

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L’ordine alla fine arrivò: Enrico Mattei non doveva tornare vivo da quel viaggio in Sicilia. Così, il 27 ottobre 1962, sull’aereo che da Catania tornava a Milano salirono assieme al presidente dell’ENI1, al pilota e a un giornalista americano, 150 grammi di tritolo. Pochi, ma sufficienti se innescati durante la delicata fase dell’atterraggio. Così morì quello che gli americani definivano “l’italiano più potente dai tempi di Giulio Cesare”. Per molti si trattò di una fine annunciata, anche se le indagini ufficiali per decenni avvalorarono la tesi dell’incidente2. Il “Corsaro nero” A Mattei, infatti, i nemici non mancavano: troppo attivo, spregiudicato e abile per non pestare i piedi a qualcuno. I dirigenti delle Sette sorelle (le principali compagnie petrolifere multinazionali: le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard Oil of California (Socal), Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum, che fino alla crisi petrolifera hanno svolto un ruolo dominante nel mercato del petrolio) non a caso lo chiamavano il “Corsaro nero”. “Corsaro”, perché come i bucanieri del passato se ne infischiava delle regole imposte dalle compagnie anglo-americane e dei legami politici esistenti tra Italia, Stati Uniti e Regno Unito e così facendo strappava concessioni petrolifere in ogni angolo del mondo. “Nero”, perché la cosa che gli interessava di più era il petrolio e per ottenerlo era disposto anche a fare la “guerra” agli americani. A raccontarlo è lui stesso in un’intervista televisiva, rievocando l’incontro con il capo di uno dei potentati del petrolio: “Fui chiamato per stabilire un rapporto di collaborazione, ma tutta la collaborazione di questo illustre capo riguardava l’Italia. E cioè tener su i prezzi, così guadagnamo tutti di più, proprio il contrario di quello che devo fare io, che sono un esponente di un’azienda dello Stato. Allora gli dissi: in Italia, sa, io credo che abbiate finito di fare una politica vostra. Da adesso in avanti la faremo noi”. Mattei sapeva di correre un grosso rischio ma aveva maturato già nei primi tempi del dopoguerra la convinzione che l’Italia avesse bisogno dell’indipendenza energetica per recuperare l’autonomia politica perduta con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale. E il petrolio era indispensabile per riavviare

l’industria, ammodernare il paese, ricostruire. L’oro nero era controllato dagli inglesi e, soprattutto dagli americani, una situazione intollerabile che Mattei stesso semplificava con un apologo: “C’era una volta un gattino gracile e smunto che aveva fame. Vide dei cani grossi e ringhiosi che stavano mangiando e timidamente si avvicinò alla grossa ciotola. Non fece nemmeno in tempo ad accostarsi che quelli, con una zampata, lo allontanarono. Noi italiani siamo come quel gattino. Abbiamo fame e non sopportiamo più cani grossi e ringhiosi. Anche perché in quella ciotola c’è petrolio per tutti”. Autosufficienza energetica Più facile a dirsi che a farsi: gli americani avevano vinto la guerra e consideravano di fatto l’Italia una provincia del loro nuovo impero occidentale. Erano ben decisi a influenzarne le sorti politiche, ma anche le strategie economiche e industriali. Per esempio, volevano il controllo delle concessioni per lo sfruttamento a fini estrattivi del territorio del Belpaese. Mattei si mise di traverso: sapeva che i tecnici dell’AGIP3 avevano scoperto durante la guerra ricchi giacimenti di metano nella Pianura Padana e capì immediatamente che le concessioni andavano nazionalizzate, non svendute. Ordinò nuove trivellazioni, costruì metanodotti, incurante delle pressioni di chi voleva, anche in Italia, chiudere l’AGIP. Agì da corsaro, garantendosi appoggi e favori con la corruzione più smaccata, mise sul suo libro paga politici e giornalisti. I primi gli garantivano leggi favorevoli in parlamento, i secondi alimentavano il mito della via italiana all’autosufficienza energetica. A chi gli faceva notare che non si faceva scrupoli ad avere l’appoggio anche degli ex-fascisti rispondeva: “Uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa, scendo”. A questo punto, e siamo a metà degli anni Cinquanta, Mattei lanciò la sfida diretta alle Sette sorelle. Scelse di andare direttamente a contrattare le concessioni con i paesi produttori. Puntò sui sugli stati più poveri appena usciti da colonialismo, che vedevano di buon occhio la possibilità di interrompere l’egemonia anglosassone. Mattei garantì ai suoi interlocutori il 75% dei ricavi (contro l’abituale 50%) e offrì


a sinistra: Enrico Mattei; sopra: Gian Maria Volonté in una scena de Il caso Mattei, pellicola del 1972 di Francesco Rosi (immagini tratte da www.eni.com)

inoltre tecnologia, borse di studio e partecipazione da pari a pari nei progetti ai suoi partner che venivano trattati dalle superpotenze occidentali con atteggiamenti post-colonialisti. Un capitalismo “etico” quello di Mattei, che gettò nel panico gli ultra-liberisti anglo-americani, come testimonia un rapporto riservato del Foreign Office britannico datato 19 luglio 1962: “Il matteismo è potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza. Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica matteista rappresenta la distruzione del libero sistema petrolifero in tutto il mondo”. I risultati però arrivavano: nel 1962, l’EnI dava lavoro a 55.700 persone, possedeva quindici petroliere ed era un colosso con interessi in mezzo mondo, guidato da un solo uomo: il “Corsaro nero”. Un personaggio scomodo Il metodo Mattei, il suo enorme potere, cominciavano però a dare sempre più fastidio, non solo all’estero, anche in Italia. Molta parte del mondo della politica e della finanza italica era legata a doppio filo agli Stati Uniti e vedeva in Mattei un pericoloso sovvertitore degli equilibri instauratisi nel dopoguerra. Un uomo che mirava, in prospettiva, a creare un’Italia non più a sovranità limitata e legata in maniera indissolubile agli interessi americani, ma capace di agire in totale autonomia, soprattutto sullo scacchiere mediterraneo e medio-orientale. Un progetto che a molti pareva un pericoloso salto nel buio e che contrastava con gli interessi statunitensi. In quegli anni gli Stati Uniti, inoltre, guardavano con preoccupazione al Belpaese, dove si stavano preparando i primi esperimenti di partecipazione dei socialisti al governo, il cosiddetto centro-sinistra. Mattei era percepito come colui che aveva di fatto preparato il terreno a questo cambiamento e che lo corroborava con il suo statalismo

e antiliberismo di fondo. Vi era, poi, un altro fattore importante: l’epoca dei corsari era finita. L’attivismo di un cane sciolto come Mattei poteva essere tollerato di fronte alla necessità di rimettere in moto l’Italia, ma i tempi erano cambiati. L’Italia opulenta e sonnacchiosa – soprattutto nelle coscienze – del boom economico chiedeva solo di godersi la vita. Era il tempo degli sciacalli e dei coccodrilli e Mattei era “volpe e leone”, per usare una famosa espressione del Principe di Machiavelli. Mattei, però, non si sarebbe mai fatto da parte, non avrebbe mai lasciato spontaneamente il ponte di comando. E se anche fosse stato costretto a farlo, non si sarebbe arreso anche perché aveva le risorse che gli provenivano dall’aver giocato su tanti tavoli e tessuto mille intrighi. Qualcuno allora pensò al tritolo, il mezzo che così spesso nella storia italiana recente è stato usato per chiudere il conto con il cambiamento e mantenere lo status quo. A cinquant’anni da quel giorno di ottobre non sappiamo chi materialmente mise l’esplosivo, né chi furono precisamente i mandanti. Conosciamo però il quadro d’insieme, fosco, sfumato, mefitico, come tante, tantissime vicende del potere italiano, un potere che troppo spesso ha assunto un profilo criminale. per saperne di più Giorgio Galli, Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano, Dalai Editore, 2005. Nico Perrone, Giallo Mattei. I discorsi del fondatore dell’ENI che sfidò gli USA, la NATO e le sette sorelle, Nuovi Equilibri, 2009. note 1 Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), ente pubblico istituito nel 1953 per il controllo delle società di produzione, raffinazione e distribuzione degli idrocarburi liquidi e gassosi in Italia. 2 Solo alla fine degli anni Novanta venne fatta una perizia sui resti dell’incidente e venne provata la presenza di esplosivo sull’aereo. 3 Azienda Generale Italiana Petroli, la compagnia petrolifera pubblica italiana fondata nel 1926 e incaricata di ricercare petrolio in Italia

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Un pacato innovatore Venticinque anni fa moriva il grande sassofonista californiano Warne Marsh. Dopo anni di oblio viene ora riscoperto da tanti giovani e importanti jazzisti in tutto il mondo di Tito Mangialajo Rantzer

Arti

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Il sassofono, uno strumento musicale inventato nel 1841 dal belga Adolphe Sax, fu concepito per aggiungersi alla famiglia degli strumenti dell’orchestra classica, ma deve sicuramente la sua fama e la sua piena realizzazione al jazz. Tra i sassofonisti jazz che maggiormente si legano alla storia di questo strumento, i primi a venire in mente sono musicisti afroamericani provenienti dalla costa est degli Stati Uniti o da Chicago: Coleman Hawkins, Benny Carter, Johhny Hodges, Charlie Parker, Sonny Rollins e John Coltrane... C’è stato però un sassofonista estremamente personale, a lungo sottovalutato, che invece era bianco e californiano. Un musicista morto 25 anni fa durante un concerto, per un attacco cardiaco, mentre suonava il brano “Out of nowhere”. Quell’uomo era Warne Marsh, personalmente un genio.

americana come spunto per l’improvvisazione, mi sembrava partire ogni volta per un viaggio ignoto.

Radicalità e understatement Marsh, proveniente da un famiglia di cineasti (padre direttore della fotografia, zia attrice, madre violinista nelle orchestre che accompagnavano i film muti, sorella montatrice, fratello cameramen...), fu un talento precocissimo. A tre anni sapeva ripetere al pianoforte delle melodie. Studiò quindi il sax tenore e il clarinetto e sarebbe dovuto diventare il classico musicista da studio hollywoodiano pronto per le registrazioni di colonne sonore. Ma l’amore per il jazz lo colse. Cominciò a studiare i soli di Coleman Hawkins, Ben Webster e soprattutto Lester Young, verso il quale avvertiva una profonda affinità. Fuori dai cliché Stanco dell’ambiente musicale di Los Sono arrivato a scoprirlo grazie al conAngels, terminato il servizio militare, si trabbassista Red Mitchell, che adoro da trasferì a New York, già allora capitale del quando ho avuto modo di ascoltarlo, jazz, dove conobbe il pianista-guru Lenanni fa, in un Lp di Art Pepper, Straight nie Tristano, diventandone un discepolo. Life. Lì, Red Mitchell registrò un assolo Incontrò anche Lee Konitz, anch’egli nel estremamente lirico e melodico sul brano giro del pianista italo-americano, con il “Nature boy”: me ne innamorai subito. quale intraprese un sodalizio artistico. Lo sapevo a memoria, potevo cantarlo Da Tristano imparò l’arte di improvvisare insieme al disco. Così cercai di ascoltare, lunghe linee melodiche con una grande nel tempo, più incisioni possibili con forza ritmica interna; il gusto per la poWarne Marsh nel suo studio di Pasadena Red, e un giorno mi imbattei in un disco liritmia e la polimetria; il suono sempre il 15 dicembre del 1976 dal vivo registrato in un famoso jazz club trattenuto e mai urlato. Il suo nome, (imm. tratta da www.warnemarsh.info) di Stoccolma: The big two. Warne Marsh assieme a quelli di Tristano e Konitz, and Red Mitchell recorded live at Fasching Club, Stockholm. Sax e venne subito associato dai critici, sempre inclini ad appiccicare contrabbasso, soli. Meraviglioso. E scoprii Warne Marsh. etichette, al cool jazz, che in qualche modo si contrapponeva Avevo passato anni ad ascoltare Parker, Coltrane e Rollins, al be-bop di Charlie Parker. Ma mentre Konitz conobbe, seppur dei giganti (per non parlare di Armstrong, Fats Navarro, Bud a fasi alterne, una buona fortuna (dovuta forse anche alla sua Powell...), ma sentivo che Warne aveva veramente qualcosa “scoperta” da parte di Miles Davis), Warne Marsh, che era un di diverso che colpiva e incantava. Per la prima volta mi personaggio schivo, molto restio a far parlare di sé e musiciresi conto che si poteva suonare grande jazz controllando sta estremamente radicale, minato anche dall’uso di droghe, l’emozione, senza per questo non emozionare l’ascoltatore; si restò per molti anni in ombra, un cosiddetto “musicista per poteva evitare di suonare pattern, cliché e frasi già sentite. Si musicisti”. poteva improvvisare veramente suonando una canzone già Dopo la morte (e pare che quando morì, suonando in un jazz interpretata decine e decine di volte. club, cadendo a terra cercò istintivamente di proteggere il Intendiamoci, non che Coltrane, Parker, Powell e tutti gli sassofono), avvenne la riscoperta. Tanto che ora, importanti altri non improvvisassero. Avevano trovato un loro linguag- giovani musicisti americani come Kurt Rosenwinkel e Mark gio, cosa già molto difficile che quindi fa guadagnare loro lo Turner lo citano tra le loro maggiori influenze. status di grandi artisti, avendo messo a punto un personale I due cd dal vivo con Red Mitchell e il disco del 1957 Warne vocabolario e delle frasi che prima o poi riutilizzavano. War- Marsh per l’etichetta Atlantic possono rappresentare un buon ne Marsh invece, sviluppando sempre la forma della song inizio per accostarsi a questo grande improvvisatore.


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Con noi per nuovi orizzonti


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L’Arsenic in evoluzione Losanna, 1989: dopo molte rivendicazioni da parte di una ventina di compagnie teatrali indipendenti, la Città assegna loro gli spazi di un vecchio deposito industriale: ovvero l’Arsenic - Centro d’arte scenica contemporanea. Un luogo significativo di promozione della cultura teatrale il cui ampliamento e rinnovamento è previsto per il 2013 di Tiziana Conte

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L’esperienza avviata nel 1989 dall’Arsenic – Centro d’arte scenica contemporanea non è un esempio isolato. Sono infatti molti i luoghi che, sotto la spinta di nuove necessità culturali e sociali e con uno spirito militante, si fondano per promuovere la scena indipendente, come per esempio, solo per citarne alcuni: la Rote Fabrik a Zurigo, il Théâtre de l’Usine a Ginevra, la Reithalle a Berna, la Kaserne a Basilea. La maggioranza di queste realtà ha subito negli anni profondi cambiamenti, si sono professionalizzate e istituzionalizzate. L’Arsenic è un ottimo esempio di questa felice evoluzione dei tempi, un luogo che ha saputo, con intelligenza e lungimiranza, affermarsi come laboratorio aperto alle esperienze estetiche tra le più avventurose, senza però ripiegare su se stesso, ma coinvolgendo il pubblico e le autorità. Lo stabile è attualmente nel pieno di una radicale ristrutturazione degli spazi che prevede l’aggiunta di nuove sale (l’apertura del rinnovato Arsenic è prevista per il 2013). Nonostante i lavori in corso, la direzione non ha smesso però di programmare la sua stagione, trovando accoglienza in spazi e luoghi diversi della città. Abbiamo incontrato Sandrine Kuster che dal 2003 dirige l’Arsenic, fautrice con i suoi collaboratori di un progetto che continua a proporsi con grande originalità, e che ha saputo profilare questo centro d’arte delle arti sceniche contemporanee come uno dei “luoghi faro” in Svizzera. Basilese, ma ginevrina di adozione, Sandrine Kuster, classe 1966, si diploma alla Scuola Teatrale Serge Martin. In seguito collabora, non solo come attrice e aiuto regista, ma anche occupandosi della gestione e dell’organizzazione, con la Compagnie des Basors diretta da Eveline Murenbeeld.

Il conto alla rovescia è iniziato. Signora Kuster, da attrice alla gestione e direzione teatrale. Perché questa scelta? Non era tra i miei sogni giovanili quello di fare l’attrice, ho provato per curiosità e la scuola mi ha selezionata. E così è scoppiata un’autentica passione. Terminata la formazione sono entrata nel collettivo ginevrino “Etat d’urgences”, un gruppo di giovani che cercava degli spazi per realizzare progetti teatrali innovativi; dopo poco abbiamo ottenuto dalla Città il Théâtre de l’Usine. Ho quindi imparato direttamente sul campo la gestione, la programmazione e l’organizzazione di uno spazio teatrale, e ho capito che questo mestiere mi piaceva molto di più di quello di attrice. Ha iniziato la sua attività in un periodo di grande fervore e in cui la scena più innovativa cercava un riconoscimento: il Théâtre de l’Arsenic nasce proprio sotto questa spinta. Ci può riassumere quest’evoluzione? Negli anni Ottanta, in Svizzera si è verificata un’esplosione della scena indipendente. Sempre più artisti avevano il desiderio di uscire dal repertorio classico per aprirsi a esperienze più intimiste, informali, concettuali. A Losanna in ambito istituzionale, a parte rare eccezioni, non esistevano delle sedi disposte ad accogliere le diverse esperienze che nascevano nella regione. La Città ha così messo a disposizione gli spazi dell’Arsenic, che si è da subito profilato come centro di promozione e di creazione per la danza e il teatro contemporaneo.

Questa sua missione è sempre stata e rimane prioritaria, ma l’Arsenic doveva evolvere. Per realizzare questo salto di qualità, il Teatro ha mutato l’organizzazione e lo statuto, da associazione a fondazione riconosciuta dalle istituzioni. Questo cambiamento ha segnato soprattutto l’affermarsi di una nuova volontà in fatto di politica culturale: la scena contemporanea, la ricerca, i laboratori non erano più situati ai margini, ma riconosciuti al pari di altre realtà cittadine. Nel corso del tempo il confine tra arte “alternativa” e “istituzionale”, si è via via assottigliato. Lei come si pone tra queste tendenze e come individua e stimola oggi delle estetiche originali? All’Arsenic abbiamo sempre lavorato con diverse generazioni di artisti, siano essi giovani o già affermati. Un’opera d’arte è per sua essenza un laboratorio, uno spettacolo è già a partire dalle prove “nella ricerca”. Non credo siano necessariamente i giovani a proporre le visioni più originali, anzi, spesso sono proprio gli artisti già riconosciuti ad

Sconto online del 20%. assumersi i rischi maggiori. Penso anche che non sia il denaro a garantire la qualità di uno spettacolo, ma sono fortemente convinta che se un’artista ha la possibilità di creare avendo a disposizione del tempo e delle buone condizioni di lavoro, il risultato ne risentirà in positivo. Istituzionalizzarsi, professionalizzarsi, migliorare le condizioni di lavoro non è antitetico alla ricerca o a un certo impegno artistico, al contrario.


Ecco come sarà il Théâtre de l’Arsenic una volta ultimati i lavori (elaborazione PONT12 Architectes SA; per gentile concessione di Astrid Lavanderos)

Cogliete questa opportunità. Come intende proseguire il suo lavoro in vista dell’imminente riapertura del teatro, stabile che presto potrà finalmente contare su spazi completamente rinnovati? Innanzitutto i lavori di ristrutturazione erano necessari e urgenti perché lo stabile era decadente e non rispettava più le norme di sicurezza. Detto questo bisogna pensare che l’Arsenic è uno strumento a uso degli artisti, come tale era nostra volontà ottimizzarlo sia sul piano tecnico che su quello finanziario: solo delle condizioni di lavoro più performanti permettono alle arti sceniche di evolvere. Fortunatamente non abbiamo l’assillo contabile di quantificare gli spettatori, anche se l’Arsenic può contare su una frequentazione di pubblico alta e in continua crescita. Questo perché abbiamo fidelizzato un pubblico che, con spirito aperto, si aspetta da noi delle proposte originali, capaci di provocare riflessioni, interrogativi e dubbi. La missione artistica l’abbiamo di fatto delegata agli artisti stessi, a cui chiediamo di esplorare il loro immaginario, li incitiamo a osare, a liberare la creatività.

Nel suo programma continueranno a coesistere spettacoli nati dalla coproduzione con artisti locali accanto a produzioni straniere? Sì, credo che questa sia una pratica vincente. Amo molto accompagnare il lavoro e seguire l’evoluzione di alcuni artisti che operano nella nostra regione, come per esempio Nicole Seiler o YoungSoon Cho Jaquet. Le coproduzioni occupano circa 2/3 della nostra programmazione, poi ospitiamo degli spettacoli stranieri. Questa selezione ci permette di dare un “marchio estetico” al nostro cartellone e di attribuire una sorta di plusvalore al nostro teatro. Naturalmente presentare lavori di altri paesi è indispensabile anche per scoprire altre visioni, per sorprendere il nostro pubblico che altrimenti verrebbe a conoscere esclusivamente lo “stile svizzero”. In futuro poi, mi piacerebbe organizzare delle residenze artistiche aperte anche a stranieri a cui proporre di lavorare per alcune settimane con colleghi svizzeri. Queste esperienze di scambio, che in Europa sono una pratica diffusa, ci permetterebbero di entrare in alcune interessanti reti teatrali europee. Una delle maggiori difficoltà per coloro che operano nell’ambito delle arti sceniche contemporanee è la sensibilizzazione e il reclutamento del pubblico. Come è stata la sua esperienza? Con il pubblico non ci si deve mai “sedere”, non basta più avere in cartellone delle “têtes d’affiche”. La qualità e il buon nome

di artista sono un buon viatico per avere pubblico, ma oggi vi e una pletora di eventi che disorienta lo spettatore. Credo quindi che si debba fidelizzare il pubblico dando un’identità forte al luogo: ai valori veicolati, al suo significato, alla sua immagine. Se lo spettatore ha fiducia verso un luogo allora verrà anche a vedere degli spettacoli di cui sa poco, magari anche concettuali e difficili. Noi, per esempio, abbiamo adottato una comunicazione che è al contempo semplice e ludica, e offriamo un prezzo di entrata “politico” di 13 franchi. Questo da una parte permette a tutti di venire a teatro e allo stesso tempo rassicura, perché alla peggio, se non si ha apprezzato lo spettacolo, si è spesa una piccolo cifra.

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» testimonianza raccolta da Keri Gonzato; fotografia di Igor Ponti

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Agnese Zgraggen

Vitae

delle ore senza parlare ma condividendo lo spazio del preparare nutrimento con amore, ne ho scoperto la sacralità. Mia nonna in primis mi aveva fatto apprezzare il senso del cucinare per le persone e l’esperienza indiana ha elevato ulteriormente questa consapevolezza. Il rispetto del cibo per me è molto importante, deve essere preparato con cura ed essere bello, buono e fresco. Questo aspetto del prendersi cura dell’altro, mettendo dell’amore nel preparare ricette, lo riporto quotidianamente nel mio lavoro. Ai fornelli, così come nella mia vita, sono aperta all’imprevisto e ho Nei sapori come nelle forme sperimenta, imparato ad accogliere tutto incrociando la cucina ticinese tradizio- quello che accade. Per mannale con quella etnica. Un’artista capace tenere viva la passione, mi impegno quotidianamente ad di trasformare i cibi in energia creativa improvvisare e a seguire la mia innata curiosità per il monnuovamente nel calore della do. In me, infatti, c’è ancora una bambina bocca… L’idea di lavorare con “rompiballe” che vuole sempre sapere di più. la materia, creando opere che Questo aspetto, che porta tanta emozione e si dissolvono, mi affascina. giocosità nella mia vita, spiega la necessità di Dare vita a qualcosa di nuovo cambiare sempre la scena e di reinventarmi. attraverso la cucina è emozioTrasportare il cibo, esporlo, creare situazioni nante! Nella mia ricerca artisempre nuove è laborioso ma è ciò che fa stica, intrinsecamente legata scorrere la linfa vitale. Anche rischiare fa al cibo, il sapore antico della parte del mio modus operandi, come potrei mia infanzia incontra il desialtrimenti far nascere una ricetta nuova? derio di esplorare la terra alla Una cosa che mi fa “frizzare” è far impazzire scoperta di ingredienti diversi. gli ingredienti tradizionali, come la polenta Grazie al viaggio ho conosciuquando la combino a un pesto di pistacchi. to altri mondi e altri modi di La mia vita professionale è fatta anche di gustare il cibo, di prepararlo convivialità e relazioni con il pubblico. In un e di presentarlo. La ricerca atmondo in cui il linguaggio comunicativo è torno alle spezie, per esempio, sempre più spiccio e virtuale, ci tengo a avere è un elemento molto imporun lato relazionale diretto e umano, quotitante dei viaggi e lo si capisce diano e reale. Nel privato invece coltivo una assaggiando le mie ricette. dimensione più intima, fatta di silenzio, di La forma nella quale si porta pochi amici. Si tratta di momenti di meditail cibo in tavola è un altro zione e di riconnessione per me fondamentaaspetto incredibilmente affali… Nel 2006 ho dato un nome al mio servizio scinante: superando i confini di catering che prima funzionava tramite il ho identificato modalità molpassa parola. Da allora si chiama L’Officina to diverse di presentare e prodel gusto, un nome che riporta all’artigianale. porre il cibo. Berlino, Zurigo, Quando sono lì mi sento proprio un’artiMilano, l’India, in ogni luogo giana che sperimenta sapori, forme, colori dove ho abitato ho appreso e consistenze. Cosa faccio qua, cosa voglio, qualcosa di unico. A Milano, dove vado: sono le domande guida che mi per esempio, è stato ludico hanno sostenuta. Amo quello che faccio, in sperimentare varie forme e questo periodo sono molto appagata e spero colori del nutrirsi nel corso di continuare così. Ci tengo a costruire il di cene sperimentali che ormio percorso con calma, costanza e qualità. ganizzavamo con altri artisti. Senza dimenticare la mia parte adulta, i miei Nelle cucine degli Ashram occhi sono quelli di una bambina pronta a indiani invece, dove si stava incontrare il nuovo a ogni passo…

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T

utto è iniziato nella cucina di casa dove, da piccola, trascorrevo molto tempo in compagnia delle donne della mia famiglia. Ho un profondo ricordo di quanto i pasti fossero un momento conviviale che univa tutte le persone invitate e quelle che vivevano nella casa. Essere cresciuta vicino ai fornelli, lavando la verdura, preparando una torta, tagliando il pane ha impresso una spinta precisa al corso della mia vita. Oggi riconosco la fortuna di essere cresciuta nell’allora realtà contadina del paese di Arcegno, con il latte fresco portato al mattino, il burro e il pane fatti in casa e le verdure degli orti. Sono aspetti preziosi che abitano intensamente il mio presente… Di per sé il mio percorso con il cibo è stato casuale. Ho iniziato a cucinare in modo professionale per pagarmi da vivere e finanziare la mia formazione artistica. Sul cammino ho poi incontrato persone interessanti come Meret Bissegger, famosa per la sua “cucina naturale” a base di erbe aromatiche e spezie. Negli anni Novanta ho lavorato con lei al Ristorante Ponte dei Cavalli: il suo approccio creativo e sperimentale al cucinare ha influenzato profondamente il mio modo di interpretare il cibo… La cucina era vegetariana e, mentre pulivo montagne di verdura dalla mattina alla sera, ho cominciato a notare la bellezza della natura nel colore di ciascun ortaggio. Allo stesso tempo ho iniziato a pensare al cucinare come a una forma di arte effimera e delicata, poiché una volta composto, il piatto viene consumato. Più tardi il libro Le Officine dei Sensi, dell’antropologo Piero Camporesi (Garzanti, 2009), ha dato ancora nuovi stimoli al mio percorso. Tra le altre cose mi ha suggerito l’utilizzo della gelatina, che mi piace moltissimo: a base di acqua e agar agar ti trasporta in un viaggio che, attraverso il liquido, riporta poi al solido per poi sciogliersi


La terra desolata

fotografie di Agostino Rossi; con versi di Thomas Stearns Eliot

Le immagini di questo reportage sono state eseguite lungo le rive del lago di Vogorno, in un momento in cui la siccità fa riemergere dall’acqua del bacino della Verzasca i resti della frazione di Tropino di Mergoscia, luogo in cui vissero un tempo gli antenati dell’autore. La suggestione del paesaggio spoglio, arido e misterioso, fuori dal tempo, rimanda a quello che probabilmente è stato il poema più noto di T. S. Eliot, il grande autore inglese scomparso proprio nel 1965, anno d’inaugurazione della diga


Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo, Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole, E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo, L’arida pietra nessun suono d’acque. C’è solo ombra sotto questa roccia rossa, (Venite all’ombra di questa roccia rossa), E io vi mostrerò qualcosa di diverso Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra Vostra che a sera incontro a voi si leva; In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.


Qui non c’è acqua ma soltanto roccia Roccia e non acqua e la strada di sabbia La strada che serpeggia lassù fra le montagne Che sono montagne di roccia senz’acqua Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia Vi fosse almeno acqua fra la roccia Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare…


E altri arbusti di tempo disseccati Erano dispiegati sui muri a raccontare; forme attonite Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa. Agostino Rossi Di formazione falegname e architetto d’interni SUPSI, da molti anni si dedica alla fotografia bianco e nero analogica, elaborando una personale visione della natura e del paesaggio ma anche del teatro. Cura personalmente sviluppo e stampa delle immagini; parallelamente si dedica anche alla fotografia digitale. Per maggior informazioni: www.ragostudio.ch


Se vi fosse acqua E niente roccia Se vi fosse roccia E anche acqua E acqua Una sorgente Una pozza fra la roccia Se soltanto vi fosse suono d’acqua Non la cicala E l’erba secca che canta Ma suono d’acqua spora la roccia.

(da La terra desolata di T. S. Eliot, 1922)


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Nocciolino e l’orco di Fabio Martini illustrazioni di Laura Pellegrinelli

Nel paese di Ciribiriciò vivevano un tempo un

dere i gonzi per il naso” rispose il falegname.

falegname di nome Poldo, sua moglie e i loro tre

“Ah, questo pensate di noi? Bel modo di con-

figlioli maschi: Olmo, forte e robusto come l’albe-

siderare i vostri concittadini”, ribatté allora il

ro di cui portava il nome, Giunco, alto e magro

farmacista che teneva in mano un grosso vaso

come una canna di palude, e infine Nocciolino,

pieno di miele destinato a Mezzocorno.

così piccino che a metterlo in una gerla ci sareb-

“Se siete così coraggioso, allora toglieteci di mez-

be stato tutto intero. Era una famiglia allegra e

zo il panzone. Ma mi sa che siete voi quello che

nulla pareva minacciare la loro felicità.

conta frottole…”, commentò il mugnaio intento a

Avvenne però che un autunno, sulle montagne

trascinare la sua asina carica di sacchi di pane.

che circondavano Ciribiriciò, venne a vivere l’or-

“Ci potete contare”, disse il falegname, “anche

co che in quelle terre era chiamato Mezzocorno

perché da noi non avrà una briciola, quanto è

perché proprio in cima alla testa aveva un gros-

vero che mi chiamo Poldo”.

so bitorzolo. Quest’orco, cattivo come il male,

Uno dopo l’altro gli abitanti di Ciribiriciò

aveva l’abitudine di vivere a sbafo facendosi

consegnarono quanto richiesto ai pie-

mantenere in tutto e per tutto dalla povera

di dell’orco. Quando ebbero finito,

gente e così una bella mattina si presentò,

Mezzocorno iniziò a grattarsi il suo

grande e grosso davanti alla porta prinFiabe

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bitorzolo e disse:

cipale di Ciribiriciò. Subito cominciò

“Qui qualcuno fa il furbo… Io

a battere per terra col suo bastone

sento che qui qualcuno fa il

per avvertire gli abitanti del-

furbo… Ditemi chi è oppure

la sua orrenda presenza…

mi mangio il sindaco, eh, eh

Bum, bum, bum, bum…

eh…”, tuonò Mezzocorno.

Bum, bum, bum…

Il sindaco, che di coraggio

Appena sentiti i primi

ne aveva proprio poco, al-

colpi, i paesani impalli-

lora dichiarò:

dirono. Infatti, se non gli

“Solo il falegname Poldo

avessero portato subito qualcosa da mangiare

e i suoi figlioli si sono rifiutati di consegnarti

sarebbero stati guai seri per tutti. Interrotta

ciò che chiedevi… Dicono di non aver nessuna

ogni attività, i Ciribicianti – così si chiamano gli

paura di te…”.

abitanti di Ciribiriciò – presero a correre verso

“Bene, bene, bene… allora, se sono tanto corag-

le proprie case per cercare del cibo da portare

giosi”, disse l’orco, “riferitegli che gli invito a

all’orco. Ma mentre tutti si agitavano, il fale-

cena domani sera nella mia caverna… e se non

gname e i suoi tre figlioli se ne stavano davanti

porteranno quello che chiedo metterò tutti voi

alla loro bottega a osservare indifferenti quel vai

nel pentolone!!!”. E così, con un enorme gerla

vai di gente.

sulle spalle e sei asini carichi di ogni ben di Dio,

“E voi non avete sentito i colpi? Non avete pau-

si avviò verso la sua caverna.

ra di Mezzocorno?”, chiese loro il bottegaio di fronte con la schiena carica di prosciutti, salami

La

e ogni ben di Dio da portare all’orco.

del paese e tutti i paesani, nessuno escluso,

“Certo che l’abbiamo sentito, mica siamo sordi.

se la presero con Poldo e suoi figli che, a pa-

Di paura di quel bestione però non ne abbiamo. È

rer loro, stavano mettendo in grave perico-

solo un contafrottole buono capace però di pren-

lo la vita dei Ciribicianti. Ma Poldo e i suoi

sera stessa venne convocato il consiglio


figlioli non sembravano per nulla impensieriti.

tu abbia bevuto e la porchetta più saporita”.

“Che vi preoccupate a fare” disse Poldo. “Mez-

E così lasciarono i doni all’ingresso della caverna.

zocorno ci ha invitato a cena e noi andremo a

A sentire l’odore della porchetta l’orco non seppe

cena… Però abbiamo bisogno che il vignaio ci

resistere e in un paio di bocconi se la mangiò.

dia una botticella di quel vino speciale che serba

Per placare la sete si attaccò poi alla botte e an-

solo per sé. Che il fabbro questa notte fabbrichi

che quella in un attimo fu svuotata. Barcollando

una catena leggera ma robusta e un bel collare di

per il vino e per il sonnifero, si avviò verso la

ferro e che il farmacista ci prepari un bel decotto

caverna e si lasciò cadere addormentato sul suo

che favorisca il sonno e lo si metta dentro alla

giaciglio. Poldo e i suoi figlioli, una volta entrati

porchetta più saporita del nostro norcino”.

nell’antro, caricarono tutto quello che era rimasto

I paesani iniziarono subito a darsi daffare e la

sugli asini.

mattina seguente era tutto pronto: botticella,

“Nocciolino, tu che sei leggero, salta in groppa

catena, collare e porchetta. E così il falegname

alla prima della fila e riportale in paese che noi

e i suoi figlioli si misero in cammino armati di

pensiamo a sistemare questo bestione”. E così

asce e corde.

Nocciolino, riportato in paese ciò che era stato

Giunti di fronte alla caverna dell’orco Poldo parlò

rubato dall’orco, raccontò quanto era accaduto

ai suoi figlioli.

alla grotta.

“Bene, ragazzi miei. Ora tocca a noi”, e subito fece

Intanto, mentre Giunco metteva il collare e la

un gran fischio.

catena al collo dell’orco, Olmo piantava dieci

“Chi è?”, tuonò l’orco.

tronchi davanti all’ingresso della caverna che in

“I tuoi ospiti, signor Mezzocorno. Siamo qui per

un battibaleno si trasformò in una prigione.

la cena”.

Per tre giorni il paese festeggiò i suoi quattro eroi

“E allora entrate perché chi ha coraggio non

e il sindaco, che si era comportato male, fu co-

verrà mangiato”. Ma Poldo e i suoi figlioli non si

stretto ogni giorno a portare alla caverna dell’orco

fidavano per nulla.

un piatto di zuppa e un po’ di pane, finché una

“Entriamo, entriamo ma solo dopo che avrai

mattina di Mezzocorno, a quanto narrano le cro-

assaggiato le nostre offerte: il miglior vino che

nache di Ciribiriciò, non si trovò più traccia…

Fiabe

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Tutto di trav Lo scorso 6 ottobre si è conclusa al Marian Rose Motoarena di Torun (Polonia) la stagione 2012 dello Speedway FIM World Championship. Si è laureato campione del mondo Chris Holder, australiano ma residente a Poole (Inghilterra), che ha battuto il danese Nicki Pedersen, da un decennio nome storico dello speedway europeo

Tendenze p. 44 – 45 | a cura di Giancarlo Fornasier

Su terra e su ghiaccio

Sempre al limite

Ma che cos`è lo speedway…? Tra le specialità motociclistiche è certamente quella meno nota nel sud d’Europa. Nato secondo alcuni in Australia nei primi decenni del Novecento (Wikipedia), è negli Stati Uniti che sempre in quegli anni si svolgono gare su piste sabbiose e il primo Campionato del mondo (1937) vede primeggiare piloti americani. Oggi lo speedway è molto seguito in Gran Bretagna, Polonia, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Russia, Australia, Nuova Zelanda, Canada e ancora negli USA. Anche in Italia questo sport motoristico ha un certo seguito, principalmente nel Nordest (Lonigo, Giavera del Montello, Terenzano/Pozzuolo del Friuli). Nella vicina pista di Castelletto di Branduzzo (Pavia) esisteva un ovale di speedway, purtroppo dismesso per ragioni diverse nel 2006 e oggi completamente asfaltato. Dei 26 piloti iscritti alla stagione 2012 da poco conclusasi, un unico centauro proveniva dalla Penisola: è Nicolas Covatti, classe 1970, plurivincitore in Italia e in Argentina. Nei paesi più freddi è anche diffuso l’ice speedway, una versione su ghiaccio e neve con gomme chiodate. In questa specialità la Svizzera è presente con oltre una decina di piloti iscritti all’associazione cappello nazionale – www.eisspeedway.ch; nel sito trovate anche date, luoghi e link dei prossimi appuntamenti del Campionato svizzero –, tra questi anche Thomas Cavigelli di Flims, località grigionese dove si svolgono regolarmente delle competizioni.

Detto anche dirt track, lo speedway si corre su piste ovali con superficie in terra della lunghezza fra i 340 e i 420 metri. Più simile al motocross – il fondo può essere di diversa natura: o solo terra oppure sassi e ghiaia –, in queste gare i piloti si sfidano quattro per volta. Le moto sono spinte da un propulsore di 500 cc a 4 tempi ad aste e bilancieri, con lubrificazione a perdita d’olio. Il peso minimo delle motociclette è di 77 kg – le più utilizzate sono le ceche Jawa e le italiane GM Motori –, non hanno il cambio e il treno posteriore è fisso e privo di ammortizzatori (presenti invece all’anteriore). Per la verità non sono ammessi nemmeno i freni: per questo tutta la tecnica di guida si basa sul sovrasterzo di potenza – la “derapata” –, uno stile di guida che i piloti necessariamente impiegano per affrontare le curve. In questo senso il fondo poco aderente certo aiuta molto. Il carburante utilizzato è l’alcol metilico: esso permette al propulsore di lavorare con valori di compressione più elevati, garantendo una maggiore potenza finale. All’alcol è aggiunto un olio vegetale necessario alla lubrificazione del motore; la combustione di questa miscela è unica, e il suo odore caratterizza i luoghi dove si pratica lo speedway, siano piste aperte oppure palazzetti dello sport.


averso la sicurezza

Lo speedway ha un suo campionato mondiale ed è regolamentato dalla Federazione internazionale di motociclismo FIM (per maggiori informazioni visitate il sito ufficiale www.speedwaygp.com). Gli sport motoristici – quelli che utilizzano le moto su tutti – danno spesso l’impressione di essere molto pericolosi, e lo sono nel momento in cui il pilota perde il controllo della motocicletta. Nello speedway, dove si guida quasi costantemente al limite dell’aderenza, le cadute sono sovente precedute da uno scivolamento laterale, che non di rado coinvolge anche gli altri piloti. Tra gli accorgimenti impiegati per evitare conseguenze più gravi durante gli incidenti vi è, per esempio, quello di legare il polso del pilota con un’apposita cordina alla moto: se la mano si stacca dal manubrio l’impianto elettrico del mezzo viene “tagliato”, il motore si spegne e la moto si (dovrebbe) fermare… Altre soluzioni legate alla sicurezza sono applicate alla catena di trasmissione, per evitare eventuali ferite e

amputazioni dovute all’eventuale salto e alle rotture della stessa catena metallica. I corridori devono indossare tute in pelle dello spessore minimo di 1,2 mm, o di altri materiali secondo le prescrizione della FIM. Ogni pilota naturalmente porta un casco (o un copri casco) di un colore specifico, in funzione della sua posizione/corsia sulla pista di gara (rosso, blu, bianco e giallo/ nero per il pilota della corsia più esterna). Questo permette la sua identificazione, sia ai giudici di gara sia al pubblico. Una competizione di speedway si svolge su 20 batterie che i 16 piloti in gara devono affrontare in 4 per volta; ogni pilota partecipa a 5 batterie e affronta a rotazione tutti gli altri. Il punteggio assegnato per ogni batteria è di 3, 2, 1 e 0 punti; vince chi alla fine totalizza il punteggio maggiore. Il coraggio e l’audacia di scendere in pista non sono, invece, garanzie di successo…

* nessun additivo nel tabacco non significa che la sigaretta sia meno dannosa. ** offerta valida dal 3 settembre al 31 ottobre 2012. solo per adulti. Week-end per 2 persone. la partecipazione è gratuita, le condizioni sono su WWW.lsnaturellement.ch

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Astri toro

gemelli

cancro

Dal 22 ottobre coraggio, forza e vigore grazie all’arrivo di Marte. Questo aspetto vi aiuterà a prendere decisioni di una certa importanza, ma anche ad aumentare i vostri appetiti erotici. Favoriti gli sportivi.

Grazie al coinvolgimento dei valori della quinta casa solare potrà aver inizio una storia d’amore basata su complicità, gioco ed eros. Bene tra il 25 e il 26. A partire dal 21 Venere favorevole per la terza decade.

La retrogradazione di Giove porta novità. Grazie a questo aspetto una situazione lasciata in sospeso viene inaspettatamente risolta. Andate verso i vostri obiettivi senza disperdervi. Incontri tra il 23 e il 24 ottobre.

Tra il 21 e il 27 Mercurio e Nodo Nord in trigono. Idee provenienti da un lontano passato. Ascoltate i vostri sogni e poi agite di conseguenza. Malumori intorno al 21 ottobre provocati dal passaggio lunare.

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Un antico nemico sembra tornare dalle tenebre. Sfidatelo senza paura. L’importante è che siate consci del vostro valore e che possiate altresì contare sulla bontà dei vostri sentimenti. Stress tra il 23 e il 24.

A partire dal 22 ottobre Marte si troverà angolare rispetto ai cieli dei nati nella seconda decade. Momenti di stanchezza. Alcune situazioni familiari vi tengono particolarmente impegnati. Possibili vertenze legali.

Il mese di ottobre si conclude con una fase decisiva. Grazie alla retrogradazione di Giove state per ricevere una importante opportunità. Il lavoro diviene motivo di appagamento. Aumenti di stipendio.

Tra il 21 e il 27 passaggio di Mercurio e del Nodo Nord. Momento fondamentale per intraprendere un salto evolutivo. Grandi opportunità professionali. Prendete questo treno senza tentennamenti.

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pesci

L’arrivo di Saturno vi spinge a compiere una riflessione sui valori fondamentali della vita. Sbalzi umorali per i nati nella seconda decade. Maggior chiarezza con voi stessi. Impegni sociali tra il 22 e il 24 ottobre.

Grazie al transito di Mercurio i nati nella terza decade si troveranno a far progetti per il futuro. È un momento utile per confrontarsi con i propri amici e concordare obiettivi comuni. Bene tra il 25 e il 26 ottobre.

Giove in retrogradazione offre importanti opportunità per la vostra vita professionale. Mercurio e Nodo in quadratura per i nati nella terza decade. Per raggiungere la vetta agite in segreto e con discrezione.

Dubbi e sospetti si autoalimentano intorno al 24 ottobre. Transito fantastico per quanto riguarda passione ed eros. Attrazione verso le relazioni trasgressive. 24, 25 e 26 giornate particolari. Premonizioni.

» a cura di Elisabetta

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Gioca e vinci con Ticinosette

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 44

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 25 ottobre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 23 ott. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Orizzontali 1. Non sono del tutto adulti • 10. Triste, mesto • 11. Pratiche vetture • 13. Fu tramutata in cigno • 14. Parola... francese • 15. Sono funeste quelle di Achille • 16. Privi di compagnia • 18. Cava centrale • 19. Un colore • 21. Imbianca le vette • 23. Il re di Shakespeare • 24. Asini selvatici • 25. Capo etiope • 27. Affermare • 28. Privo della vista • 30. Articolo romanesco • 31. Il niente del croupier • 33. Cuba e Svezia • 34. Frammenti stellari • 36. La nota Taylor • 37. Associazione Sportiva • 39. Bramare, anelare • 42. Bel paese bleniese • 44. Piero nel cuore • 45. Gatto inglese • 46. Anno Domini • 47. Isola greca • 48. Crea un buco nello stomaco. Verticali 1. Venne ucciso durante la Congiura dei Pazzi • 2. Prendere provvedimenti • 3. Serpente, altrimenti detto • 4. Vincenzo, scultore • 5. Arti pennuti • 6. È esplosiva • 7. Starnazza • 8. Finire, ultimare • 9. Incapace (f) • 12. Il pronome dell’egoista • 16. Società Anonima • 17. Liete senza pari • 19. Arpie • 20. Segnare un percorso • 22. Virginia e Romania • 26. Lo lancia il naufrago • 29. Esordi, primi passi • 32. La figlia del Corsaro Nero • 35. Rapata, rasata • 38. Per nulla facete • 40. Consonanti in magia • 41. Ama Radames • 43. Topo... ginevrino • 46. Le iniziali della Frank.

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Premio in palio: 3 carte giornaliere “Arcobaleno”

Più vicino a voi. Nuova Tariffa Integrata Arcobaleno www.arcobaleno.ch

Arcobaleno mette in palio 1 carta giornaliera di 2a classe, per tutte le zone, a 3 tra i lettori di Ticinosette che comunicheranno correttamente la soluzione. Il valore complessivo dei premi è di CHF 156.–

I biglietti Arcobaleno sono la grande novità della nuova Tariffa Integrata. Con la carta giornaliera si viaggia tutto il giorno all'interno delle zone prescelte, interrompendo e riprendendo il viaggio quante volte si desidera, fino alla chiusura dell'esercizio. La carta giornaliera offre 6 viaggi al prezzo di 5. Maggiori informazioni su www.arcobaleno.ch

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Ascolta la natura. Ogni giorno ci regala ciò che ci fa bene. Trovi tutte le informazioni sui nostri prodotti naturali su www.migros.ch/bio

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