№ 24 del 14 giugno 2013 · con Teleradio dal 16 al 22 giu.
in prima fila
per la Svizzera e il Ticino, Expo 2015 rappresenta una grande opportunità, nonostante gli italici ritardi
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Ticinosette n. 24 del 14 giugno 2013
Agorà Expo 2015. La grande occasione
di
Letture Joseph Conrad. Oltre il margine
RedaZione ................................
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MaRco JeitZineR ......................................................................
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Vitae Marcel Aeby
Chiusura redazionale
Reportage Le lune e la Novena
Editore
Kronos Il grande manipolatore
Venerdì 7 giugno Teleradio 7 SA Muzzano
Redattore responsabile Fabio Martini
Coredattore
Giancarlo Fornasier
Photo editor
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Società Patente. Apprendisti al volante di
MaRco alloni ........................................ Zucca alessandRelli .................
Tiratura controllata 68’049 copie
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di
Arti Biennale di Venezia. L’arte come ritorno
Impressum
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Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55
Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs
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In copertina
In prima fila Illustrazione ©Bruno Machado
Identità cercasi La copertina che Bruno Machado ha realizzato per questo numero di Ticinosette, ispirata all’articolo di apertura, concerne il ruolo che il cantone in primis e la Svizzera in generale avranno nel corso del prossimo Expo 2015, l’importante manifestazione che si terrà nel capoluogo milanese. Un’occasione da non perdere, non solo perché il Ticino rappresenta una piattaforma di riferimento – sia sotto il profilo dell’accoglienza sia in termini di offerta imprenditoriale –, ma anche per i riflessi economici che sottendono il sempre più stretto rapporto fra il cantone e la Lombardia, come sottolinea Luigi Pedrazzini nell’intervista rilasciata a Ticinosette. Un rapporto che ha radici storiche, culturali e linguistiche profonde e che la crisi economica, i cui effetti in Italia si sono fatti sempre più pesanti nel corso dell’ultimo anno, ha contribuito a rafforzare, nel bene e nel male. Non v’è dubbio infatti che il Ticino, in riferimento a tutta l’area insubrica, abbia rappresentato nel corso degli ultimi cinque anni un bacino occupazionale di fondamentale importanza per decine di migliaia di lavoratori italiani che ogni giorno varcano la frontiera. Un fenomeno rilevante che concerne problematiche interne al cantone legate alla formazione scolastica, al mercato del lavoro (con i casi di dumping salariale), all’ambiente e all’incremento esponenziale del traffico sulle nostre strade. Questioni a cui la politica non può sottrarsi, pur tenendo conto dell’essenziale apporto, in termini di professionalità più svariate, che giunge dal oltre confine.
Resta poi, e non si tratta certo di un argomento trascurabile, l’aspetto legato all’identità culturale del cantone e della Svizzera più in generale, anche in vista di Expo 2015. Un tema che potremmo considerare seminale, proprio per le caratteristiche multiculturali e linguistiche del nostro paese, fin dalla sua fondazione. In una prospettiva di “riappropriazione” dell’eleveticità si muove Valentin Carron (nella foto, Rhapsodie, das warme Unwetter aus Acryl und Blut, una delle opere esposte a Venezia), giovane artista vallesano cui è stato dedicato il Padiglione svizzero alla Biennale di Venezia e di cui scrive Irina Zucca Alessandrelli. Carron reinterpreta i simboli e i temi della cultura nazionale e del suo cantone con ironia ma al contempo restituendogli quella forza e quel senso che la contemporaneità, con la corsa verso la progressiva indifferenziazione, rischia di compromettere. Un modo, riteniamo, certamente intelligente, ironico e rispettoso di riappropriarsi della propria koinè culturale. Buona lettura, Fabio Martini
La grande occasione Expo 2015. Da mesi sui media compaiono notizie allarmanti sui ritardi e i problemi che affliggono l’organizzazione dell’Esposizione Universale che Milano ospiterà tra due anni. Eppure le adesioni continuano a crescere e i paesi partecipanti, con la Svizzera in prima fila, stanno approntando i loro padiglioni espositivi. Perché, nonostante gli italici intoppi, l’Expo si farà e sarà meglio esserci da protagonisti
di Roberto Roveda
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irca centotrenta paesi partecipanti, oltre venti milioni di visitatori da ogni angolo del globo, duecentomila nuovi posti di lavoro, un indotto economico totale nel periodo 2012–2020 in termini di produzione aggiuntiva che una recente ricerca dell’Università Bocconi finanziata dalla Camera di commercio di Milano ha valutato attorno ai venticinque miliardi di euro1. Cifre faraoniche, di fronte alle quali è impossibile non pensare a Expo 2015 come a un’opportunità imprenditoriale, turistica ed economica da non lasciarsi sfuggire, soprattutto se ci si ritrova, come nel caso della Svizzera, a poche decine di chilometri di distanza dalla sede dell’evento. Proprio per sfruttare pienamente questa importante occasione la Confederazione, nell’ottobre 2011, è stata il primo paese a formalizzare la propria presenza all’Esposizione milanese e il 16 maggio 2012 il Consiglio federale ha approvato un finanziamento per la partecipazione a Expo di 23,1 milioni di franchi, di cui 21 destinati alla pianificazione, al montaggio e alla gestione del padiglione. Un impegno deciso e importante, determinato dalla prospettiva delle ricadute positive che una manifestazione di tale portata potrebbe avere sull’economia elvetica: dal turismo legato all’enorme flusso di visitatori alla possibilità di “mettere in mostra” e far conoscere a tutto il mondo i propri prodotti, fino alle nuove prospettive commerciali che Expo può aprire per privati e aziende.
L’Expo? Ci sarà di sicuro Ultimamente, però, l’ottimismo iniziale si è alquanto raffreddato, complice la messe di notizie sempre più allarmanti provenienti da oltre confine. Notizie che riguardano ritardi enormi nell’avvio della macchina organizzativa e di una cronica mancanza dei finanziamenti di cui Expo necessita. Si è poi spesso parlato di una Milano ormai sul punto di alzare bandiera bianca o per lo meno di un ridimensionamento della manifestazione tale da renderla molto meno appetibile per le nazioni partecipanti. Da
qui le polemiche, a livello nazionale e anche cantonale, sull’impegno elvetico per Expo e sulla necessità di vigilare attentamente su quello che sta accadendo nella metropoli lombarda. Tenere gli occhi aperti è sempre bene, ma l’importante è non scadere in allarmismi ingiustificati. Perché una cosa è chiara a chi segue con attenzione le vicende legate a Expo: la manifestazione, nonostante tutto, ci sarà e si tratterà di un evento di grande portata. Solo così si giustifica il dato di 128 paesi che hanno già dato la loro adesione alla manifestazione. Ma vi è un’altra considerazione da fare e cioè che la maggior parte delle note negative riguardo all’evento concernono non tanto l’Expo in sé, ma tutte le infrastrutture e i progetti che erano in origine previsti per dare un nuovo volto a Milano e al suo hinterland. In soldoni, il capoluogo milanese sta seriamente rischiando di non riuscire a sfruttare il traino determinato dal fatto di ospitare una manifestazione di questa portata per rimodellarsi come metropoli, rilanciare la propria immagine, riavviare la propria economia. Una politica masochistica che però poco inficia il fatto che l’Expo per i paesi espositori rappresenti una vetrina unica. E aggiungiamo un’altra considerazione: per il Ticino, proprio la disorganizzazione italica può rappresentare un’occasione in più, come vedremo. Innanzitutto, però, cerchiamo di fare chiarezza su quello che sta accadendo a pochi chilometri da noi, in modo da capire meglio perché se sarà un flop, a farne le spese sarà soprattutto Milano, mentre Expo svolgerà comunque la sua funzione principale: quella di vetrina delle eccellenze provenienti da tutto il mondo. Circolo vizioso Nel 2008 è Milano a vincere l’agguerrita concorrenza della città turca di Smirne e a ottenere l’organizzazione di Expo 2015 presentando un progetto da “mille e una notte” che proponeva una vera rivoluzione nella strut-
tura urbanistica del capoluogo lombardo e del suo hinterland. Per intenderci: era stata inserita nel masterplan della manifestazione l’idea di una via d’acqua formata da venti chilometri di canali transitabili su cui creare una rete di comunicazione alternativa ai trasporti tradizionali su strada e rotaia. Inoltre, sono state ipotizzate tre nuove linee metropolitane, aree verdi, piste ciclabili. Insomma, nelle intenzioni originarie, Milano doveva avviare una sorta di rivoluzione per trasformarsi in una metropoli del terzo millennio, sul modello delle grandi città del nord Europa. Progetti che per essere realizzati richiedevano decisioni rapide, collaborazione tra mondo politico e imprenditoriale e soldi, moltissimi soldi. Solo dal governo centrale dovevano arrivare fondi per un miliardo e trecento milioni di euro. Doveva quindi avviarsi un circolo virtuoso in grado di compiere una grande impresa. Invece ci si è infilati in un circolo vizioso che ha sottratto quasi da subito energia al progetto Expo. Prima di tutto, sia il mondo politico sia quello imprenditoriale lombardo hanno visto nell’Esposizione una grande torta da spartire tra meno commensali possibili. Da qui anni di lotte senza quartiere fra Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia, e Letizia Moratti, ex sindaco di Milano. I due, pur appartenendo entrambi alla medesima formazione politica (PDL), si sono lanciati in una contesa che ha di fatto paralizzato Expo per anni. Le cose sono migliorate solo dopo che la Moratti ha perduto la poltrona di sindaco, nel 2011, e la macchina organizzativa ha giovato anche dell’uscita di scena di Formigoni, costretto alle dimissioni dalla carica di governatore nell’autunno 2012 in seguito a una serie di inchieste giudiziarie. L’attuale sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e il nuovo presidente della Regione, il leghista Roberto Maroni, paiono, infatti, riuscire a dialogare molto meglio dei loro predecessori, pur appartenendo ad aree politiche distanti tra loro. E non è certo un caso che negli ultimi mesi siano partiti parecchi dei cantieri previsti per Expo che languivano da anni. A mancare, però, continuano a essere i fondi per portare avanti i progetti previsti.
Congiuntura sfavorevole Da questo punto di vista pesa sicuramente l’attuale congiuntura economica, ma ancora di più ha contato l’atteggiamento delle istituzioni lombarde e meneghine, che hanno continuato a batter cassa a Roma, pretendendo però una totale indipendenza dal governo centrale. Il risultato è che a oggi, del già citato miliardo e trecento milioni di euro promessi, mancano all’appello ben 963 milioni, tre quarti abbondanti! A ciò si aggiunge il clima generale che si respira a Milano e dintorni attorno a Expo. Un clima di disinteresse, quando non di fastidio, da parte dell’opinione pubblica e della cittadinanza, determinato dal fatto che non ci si è mossi per coinvolgere le persone nell’evento, per farlo sentire un bene comune e non solo un’opportunità per lobbisti del mattone e speculatori pronti ad azzuffarsi pur di mettere le mani sui fondi pubblici destinati all’Esposizione. Viceversa, un maggiore coinvolgimento dei cittadini e delle realtà locali – associazioni, piccola imprenditoria, mondo intellettuale – avrebbe consentito di superare più agevolmente le difficoltà e creato pressione su chi lavorava solo per accaparrarsi l’evento, costringendolo a mollare la presa. Questa concomitanza di elementi negativi ha portato a ritardi probabilmente incolmabili ed è quindi gioco forza pensare che, per quanto si lavori alacremente nei due anni che mancano al giorno dell’inaugurazione, si riuscirà a realizzare solo lo stretto indispensabile, cioè la grande area espositiva destinata ai padiglioni dei diversi paesi aderenti. Per il resto si faranno delle operazioni di facciata, del maquillage urbanistico, come dimostra il fatto che la famosa via d’acqua è scomparsa dall’orizzonte e che delle Agorà tre linee metropolitane previste sarà già molto se ne sarà 7 ultimata una. Milano quindi ospiterà l’Expo, ma di fatto ha già sprecato una grande occasione per darsi l’immagine di città moderna, efficiente, pronta a rilanciarsi dopo anni di appannamento. Non avrà neppure quelle infrastrutture e quelle modifiche urbanistiche di cui avrebbe tanto bisogno per diventare più vivibile. Un flop di cui sono responsabili coloro che in questi anni hanno tenuto le redini del potere politico a livello cittadino e regionale. (...)
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“Consideriamo Expo un’occasione interessante anche sul piano turistico. Questo perché è realistico pensare che una parte dei visitatori potrebbe scegliere il Ticino come base per visitare la manifestazione o comunque venire in Ticino a margine dell’evento. È perciò importante che il nostro cantone sappia profilarsi per tempo come un elemento della «rete» Expo”
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L’importanza di esserci Cinicamente, ma anche realisticamente, il fatto che Milano si presenti all’evento in maniera dimessa concentrerà ancora di più l’attenzione sul parco esposizioni, cioè sull’Expo vera e propria. Chi verrà a Milano, lo farà ancora di più per vedere i padiglioni espositivi dei diversi paesi. Per questo è ragionevole l’impegno che la Confederazione ha messo in campo per creare il proprio padiglione e per far sì che venisse posizionato proprio a ridosso di quello italiano, che è il più importante2. Sicuramente, però, da Expo si possono ottenere dei vantaggi anche in casa nostra, magari sfruttando le carenze meneghine. Il sistema alberghiero milanese dispone attualmente di soli 70mila posti letto, non sufficienti – secondo le stime – a coprire l’intera richiesta prevista per i sei mesi dell’evento; l’integrazione di questi con i 30mila posti del vicino canton Ticino sembra dunque necessaria, oltre che auspicabile. Inoltre Svizzera Turismo, in collaborazione con Swiss Air, ha già studiato delle formule in grado di attirare il maggior numero di visitatori della manifestazione oltre il confine. Si tratta di comodi pacchetti turistici che prevedono come hub Zurigo, visite alle città del lusso e dello shopping (Zurigo appunto e Ginevra), pernottamenti in Ticino, gite con i trenini delle montagne, trasferimenti ferroviari per Milano e una visita alle principali città d’arte italiane. Insomma, su Expo si è già fatto molto in Svizzera e anche nel nostro cantone, come ci conferma Luigi Pedrazzini, delegato del canton Ticino per Expo 2015. A lui abbiamo chiesto di aiutarci a raccontare le attese degli operatori svizzeri e di spiegarci come la regione più vicina all’Italia si sta preparando al meglio a questo importante appuntamento: In linea con quanto sta facendo la Confederazione e in stretta collaborazione con Presenza Svizzera, che si occupa di coordinare tutto quanto viene svolto a livello elvetico per Expo, consideriamo l’esposizione un’occasione importante per profilare il Ticino come regione di collegamento fra l’Italia e il resto della Confederazione e per agganciare il nostro cantone, che ha importanti potenzialità, alla realtà metropolitana lombarda. Per quanto concerne i risultati economici, molto dipenderà dalla volontà delle aziende ticinesi di impegnarsi nel progetto, oltre che dall’effettive possibilità di accesso che saranno loro riservate. Il Ticino saprà essere uno dei poli turistici che graviteranno attorno a Expo? Di marketing territoriale e turismo nel nostro cantone si sta occupando in particolare il soggetto preposto, l’Ente Ticinese del turismo. Consideriamo Expo un’occasione interessante anche sul piano turistico. Questo perché è realistico pensare che una parte
dei visitatori potrebbe scegliere il Ticino come base per visitare la manifestazione o comunque venire in Ticino a margine dell’evento. È perciò importante che il nostro cantone sappia profilarsi per tempo come un elemento della “rete” Expo. L’impegno del Ticino però non è limitato al settore turistico, ma si esplica su molteplici fronti… Oltre che nella collaborazione con i cantoni Uri, Vallese e Grigioni per l’allestimento di una comune presenza nel padiglione svizzero, il canton Ticino si sta impegnando su diversi fronti. In particolare stiamo portando avanti, collaborando con le città, con l’economia, con Ticino Turismo, una serie di progetti che avranno lo scopo di far conoscere il cantone ai visitatori della manifestazione. Questi progetti non sono rivolti soltanto a visitatori provenienti da paesi lontani, ma anche alle popolazioni delle vicine regioni italiane, poiché noi vediamo l’Expo come un’occasione per migliorare la conoscenza del Ticino e della Svizzera in Italia. Ci stiamo infine adoperando per far sostenere l’economia in vista di Expo nell’intento di permettere alle ditte ticinesi di operare sul cantiere Expo. Da questo punto di vista può essere di buon auspicio la recente decisione della Regione Lombardia di istituire una Commissione speciale “Rapporti tra Regione Lombardia, Confederazione e province autonome” un organismo che, grazie a competenze trasversali, si occuperà a tutto campo dei rapporti fra la Lombardia e, in particolare, il Ticino e avrà come presidente Francesca Brianza della Lega Nord. Insomma, l’intento delle nostre autorità è di esserci e le premesse affinché Expo serva da volano alla Svizzera e al Ticino ci sono tutte. Meglio allora profilarsi da protagonisti, fino in fondo, senza farsi condizionare troppo dalle “paludi italiche”.
per saperne di più: Alessia Gallione, Dossier Expo, Rizzoli, Milano, 2012 expo2015.org ti.ch/expo2015
note 1 mi.camcom.it/web/guest/consulenza-proprieta-intellettuale?p_p_ id=64&p_p_lifecycle=1&p_p_state=exclusive&p_p_ mode=view&_64_struts_action=%2Frecent_documents%2Fget_file&_64_folderId=1934307&_64_name=9758 2 Tutte le informazioni sul padiglione del nostro paese sono disponibili sul sito del Dipartimento federale degli affari esteri dedicato a Expo 2015: eda.admin.ch/eda/it/home/topics/prskom/ siteet/milan.html
Letture Oltre il margine di Marco Alloni
Perché si legge un autore? Certamente perché qualcosa ci ha stimolati a farlo. Giuseppe Pontiggia anni fa aveva scritto a proposito dell’espressione “rileggere i classici”: “Sono quei libri che si leggono per la prima volta”. Tipico atteggiamento di chi affronta un classico (moderno o antico) è infatti quello di misconoscere che non lo si era fatto in precedenza. Eppure un semplice conteggio – semplice e impossibile – porta alla placida conclusione che, come diceva qualcuno: “Per leggere tutti i classici non basta un’intera vita”. O, come lamentava Massimo Troisi: “A scrivere sono in molti, ma a leggere sono solo io”. Per cui rassegniamoci: una buona ragione per affrontare un classico è non averlo mai fatto. È stato per me il caso de’ La linea d’ombra di Joseph Conrad, che stazionava in pole position nella mia privata classifica dei “libri ignorati”. Aspettative moltissime, raccomandazioni alla lettura ancora di più: non c’era amico dotto che non mi esortasse a leggerlo. E poi quell’antica rivista omo-
nima, diretta da Goffredo Fofi dal 1983, Linea d’ombra, che compariva e scompariva ammiccante nel corso delle mie letture. Infine eccomi ad affrontarlo senz’altra motivazione che farlo. Risultato: un angoscioso senso di disappartenenza. Lo stesso che proviamo quando, di fronte a un capolavoro, ci rendiamo conto che non ci parla più. Quella “linea d’ombra” che separa la nostra giovinezza dall’età della consapevolezza, quel crinale oltre il quale fortuna e caso ci sospingono verso il nostro destino, infatti, non mi riguardavano più. Cercavo vita ed eventi di vita, quella passione delle cose che troppo spesso la letteratura sacrifica sull’altare del disincanto, e trovavo un distillato della vita senza musica a nutrirla. Un’intelligenza disanimata, per così dire, che racconta il sacrificio come coessenza dell’esistenza. Un libro che esorta alla determinazione e in pari tempo la annichilisce. Un classico che imprime una nota nera sul tessuto delle risorse della problematicità.
La linea d’ombra di Joseph Conrad Einaudi, 1993
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L’arte come ritorno Oggetti scultorei come veicoli di cultura: il lavoro di Valentin Carron, la pratica della riappropriazione e l’identità vallese nel Padiglione svizzero alla Biennale veneziana di Irina Zucca Alessandrelli
Valentin Carron, Ciao n°6, 2013 (©Stefan Altenburger Photography, Zürich)
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Quest’anno il Padiglione svizzero alla Biennale di Venezia è commissionato da Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura che, attraverso un comitato di selezione, ha designato l’artista Valentin Carron a rappresentare la Confederazione nel corso della 55esima Esposizione Internazionale d’Arte, che si tiene dal 1 giugno al 24 novembre 2013. Valentin Carron (nato nel 1977 a Martigny) è uno dei giovani artisti svizzeri che si è fatto strada sulla scena internazionale con mostre personali, dal Palais de Tokyo al Centre Culturel Suisse di Parigi, dalla Kunsthalle di Zurigo al Swiss Institute di New York. La sua notorietà è legata anche all’opera di esasperazione degli elementi decorativi e dei dettagli architettonici legati all’immaginario della Svizzera bucolica, tutta prati verdi, mucche e orologi a cucù. Carron ha, per esempio, ripreso gli orsi grossolanamente intagliati nel legno o le croci lignee, tipiche del paesaggio alpino, riproducendole in formato esagerato, usando materiali industriali come la resina acrilica o il polistirene. Per il Padiglione a Venezia Carron ha chiesto a Giovanni Carmine (nato nel 1975 a Bellinzona), oggi direttore della Kunst Halle di San Gallo, di curare la sua mostra. Lo abbiamo incontrato per parlare del Padiglione svizzero, dal punto di vista di chi, insieme all’artista, l’ha concepito. Giovanni, come sei diventato curatore del Padiglione del tuo paese? Ho studiato tra Zurigo e Losanna e mi sono occupato per alcuni anni di arte contemporanea come critico e curatore di mostre in diversi spazi. Poi, nel 2007 ho visto che la Kunst Halle di San Gallo cercava un curatore, così ho fatto domanda perché volevo
fare un’esperienza istituzionale: come indipendente mi ero abituato a lavorare su progetti singoli e avevo voglia di cimentarmi in un programma di lunga durata. Due anni fa, Bice Curiger, direttrice di ILLUMInations, la precedente edizione della Biennale di Venezia, mi ha invitato ad assisterla come coordinatore artistico. Immagino che, questo sia uno dei motivi per cui Valentin Carron mi ha chiesto di lavorare al suo progetto, oltre al fatto che era da parecchio tempo che volevamo realizzare qualcosa insieme. Come avete concepito l’allestimento del padiglione svizzero che si presenta all’ingresso dei Giardini come edificio modernista degli anni cinquanta? La strategia generale di Carron è stata di proseguire nella ricerca che stava svolgendo, nel senso che le opere sono nuove produzioni, ma portano avanti un discorso avviato in precedenza. Si tratta principalmente di un lavoro di scultura, declinato in diverse forme. L’opera principale è un serpente bicefalo in ferro, come ne ha già fatti in passato, lungo 80 metri che traccia un sentiero per tutto il padiglione come una linea sulla carta e invita il pubblico a seguirlo. Alla stregua di un guardiano, il serpente fissa negli occhi il visitatore fin dall’entrata e lo conduce nella sala che l’architetto svizzero Bruno Giacometti aveva espressamente concepito nel 1952 per le opere di pittura del Padiglione, poi attraversa il corridoio destinato alla grafica e arriva nella sala per la scultura, e con una parabola verso l’alto, si alza e si riabbassa, avanzando fuori con la seconda testa. Valentin Carron ha così mantenuto la divisione degli spazi adibiti a pittura, scultura, presentando diverse opere sia scultoree che pittoriche, accomunate dalla pratica della riappropriazione, costante del suo lavoro.
Anche il serpente rientra dunque in questa modalità di riappropriazione… Sì, certo. Il serpente bicefalo deriva da un cancello art nouveau dei vigili del fuoco di Zurigo, ma poi ci sono sei grandi pannelli che riproducono un dettaglio architettonico dell’Académie Royale des Beaux Arts di Bruxelles. Nello specifico, si tratta di particolari vetrate realizzate secondo la tecnica chiamata dalle de verre, in cui pezzi di vetro colorato vengono fusi a riempire una griglia di cemento. Queste vetrate colorate, versione povera di quelle presenti nelle chiese antiche, hanno la caratteristica di riflettere la luce, creando effetti di colore dall’interno di un edificio mentre, viste dall’esterno, hanno un aspetto molto sobrio. Valentin Carron ha riprodotto queste finestre in vetroresina in modo che assumessero l’aspetto di quadri astratti appesi alla parete, con un effetto molto fisico, come un campionamento di architettura nello spazio.
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Mi sembra un Padiglione molto denso, quasi un riassunto di tutti i modi di lavorare finora sperimentati da Carron… Sì, infatti, è come una vera mostra museale, ma realizzata con un linguaggio minimale. Infine sono esposte otto sculture, strumenti musicali schiacciati dall’artista saltandoci sopra, degli ottoni poi fusi in bronzo che ricordano le sculture dei Nouveaux réalistes come Arman e César. Questo è un lavoro sul modernismo, partito da uno strumento musicale schiacciato visto da Carron in un bar. I Nouveaux réalistes hanno fatto il gesto, poi artisti locali li hanno ripresi e così l’oggetto è finito in un bar. Un discorso sull’idea di moderno, di avanguardia e sul come questa viene “distillata”, recepita nell’arte e poi nella realtà. Quindi c’è ancora una volta il riappropriarsi di un oggetto, di un gesto compiuto da altri a cui si aggiunge un discorso sul restauro, che emerge nel motorino Ciao della Piaggio che verrà presentato nel padiglione. L’artista ha preso un vecchio motorino Ciao degli anni ottanta e l’ha rimesso completamente a nuovo. Il motorino rimanda a una cultura industriale italiana andata persa, a un’idea romantica della gioventù, ai primi amori adolescenziali, ma allo stesso tempo, emerge anche una riflessione sul senso del restauro, su quanta libertà si può prendere chi mette mano a un oggetto rovinato per rimetterlo a nuovo. Direi che la riappropriazione è il punto di partenza del lavoro di Carron. Come si lega questa modalità artistica all’idea di Svizzera e al tema delle origini per l’artista? Carron è molto legato alla sua regione, il Vallese, e lui non è quel genere d’artista che si trasferisce nelle capitali dell’arte, non è andato a vivere a Berlino o a New York, ma è restato molto local e strettamente legato a fenomeni estetici del Vallese. Il suo lavoro si confronta con il paese d’origine attraverso il vernacolare, ma anche attraverso l’interesse per la pittura astratta, tipica della scuola di Losanna da cui sono emersi artisti come John Armeleder e Olivier Mosset. Per la sua poetica, è importante che le sue opere siano fisicamente prodotte in Svizzera, ma hanno ovviamente una valenza internazionale. Nel suo caso si potrebbe parlare di un discorso quasi moralizzante nei confronti della Svizzera, nel senso del suo desiderio di recuperare il sapere degli artigiani e di vivere in una comunità molto piccola. Infatti, Carron collabora anche con artigiani locali, come una sorta di conservatore delle tradizioni con un atteggiamento di amore romantico verso le sue radici.
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Apprendisti al volante Patentati o apprendisti? Renato Gazzola, responsabile comunicazione del Touring Club Svizzero interviene nel dibattito avviato da un recente articolo pubblicato su Ticinosette per precisare una proposta e un quadro normativo tutt’altro che scontati a cura della Redazione; fotografia ©Reza Khatir
Società 12
Un momento di una lezione tecnica presso il centro TCS di Rivera
L’idea che un sedicenne possa andarsene in giro a scor-
razzare insieme agli amici alla guida della potente berlina di papà, di certo non rassicura né i genitori né chi si mette alla guida della propria vettura. Nel suo articolo, pubblicato sul n. 21 di Ticinosette, Nicoletta Barazzoni, che spesso si è dedicata a temi legati all’adolescenza e alla postadolescenza, si faceva portavoce di una obiettiva preoccupazione verso la possibile concessione della patente di guida ai sedicenni anche nel nostro paese. E non solo per quanto concerne la sicurezza e l’incolumità delle persone coinvolte ma anche riguardo alle ricadute che ciò avrebbe su una viabilità già ampiamente congestionata. A sostegno della sua analisi, una serie di studi e ricerche in campo neurologico, che attestano la non completa capacità di un giovane di sedici anni a far fronte a quella serie di complesse attività, abilità e responsabilità che la guida di una vettura inevitabilmente comporta. In risposta a questa posizione, motivata certamente da una sensibilità verso l’incolumità dei nostri giovani – e non solo –, ci siamo confrontati con Renato Gazzola, portavoce del Touring Club Svizzero per la Svizzera italiana che ci ha fornito una serie di precisazioni indispensabili
a chiarire la proposta del TCS a riguardo e far luce sul quadro normativo. Una delucidazione essenziale, non solo perché potrà rassicurare molti di noi ma anche per le ripercussioni positive che potrebbe avere in futuro in termini di aumento del livello di sicurezza sulle nostre strade. Allievi, non conducenti Ma sentiamo Gazzola: “Innanzitutto è bene chiarire che il progetto proposto dal TCS, non prevede assolutamente la patente a 16 anni. La questione è totalmente diversa perché va nella direzione di una formazione più solida dei giovani che intendono accostarsi alla guida, sia per quanto concerne le abilità sia riguardo la consapevolezza e la responsabilità morale che tale attività implica. In altre parole, il sedicenne che lo desidera e che in questa scelta ha il consenso dei propri genitori, può iniziare un percorso di formazione alla guida accedendo a quella che viene tecnicamente definita come «prima fase». Cosa significa? Che dai 16 ai 18 anni egli è e resta un allievo. Dopo aver preso contatto, assieme ai genitori, con un maestro conducente e stipulato un contratto di formazione, dovrà frequentare il corso relativo ai «primi
soccorsi» e, in seguito, a un certo numero di lezioni teoriche durante le quali inizierà a esercitarsi alla guida, prima con un Maestro conducente e successivamente sempre e soltanto insieme a un adulto che abbia più di 25 anni e la patente da almeno tre anni”. Ma quindi, una volta verificata la sua capacità di condurre, potrà sottoporsi all’esame pratico, anche se ancora minorenne? “Assolutamente no. L’esame pratico può essere affrontato soltanto dopo il compimento del diciottesimo anno di età come avviene per tutti coloro che decidono di seguire l’iter formativo tradizionale, quello che inizia dopo il compimento dei 18 anni, per intenderci. Se poi l’esame viene superato si segue l’iter in vigore che prevede la licenza provvisoria di condurre per tre anni, durante i quali il conducente in «prova» dovrà frequentare i due giorni previsti dalla «seconda fase». Se tutto procede regolarmente e non vengono commesse infrazioni gravi, che porterebbero a ripercorrere tutto l’iter dall’inizio, il conducente ottiene infine la patente definitiva”. Più pratica, maggiore sicurezza Il concetto sembra funzionare, perché in fondo practise makes perfect, come affermano gli anglosassoni: “Esattamente. Qui non si tratta di sedicenni che sgommano ai semafori sulle fuoriserie di papà. Si tratta piuttosto di fornire la possibilità di una formazione sempre più solida sotto il profilo delle abilità e della consapevolezza, in modo da arrivare
alla «seconda fase» con una preparazione effettiva e un certo numero di chilometri percorsi sulle spalle. Se da un lato è vero che gli studi sul cervello, come riporta la vostra giornalista e dichiara lo stesso Granig di Road Cross, dimostrano che i sedicenni non sono completamente formati sotto il profilo neurologico, d’altra parte un programma di apprendistato alla guida non può che apparire fondamentale. Anche perché altri studi confermano che per formare un «buon guidatore» sono necessari almeno 50.000 chilometri percorsi e 5 anni di pratica che a volte, come purtroppo sappiamo, non sono sufficienti”. Quindi il caso USA poco ha a che fare con quanto accade da noi? “Premesso che negli Stati Uniti la patente viene concessa ai sedicenni solo in alcuni stati, quanto sta accadendo in Svizzera è totalmente diverso, a partire dal fatto che nel corso degli ultimi 40 anni abbiamo registrato un calo degli incidenti mortali dell’81%, un dato significativo anche se migliorabile. In questa prospettiva la nostra proposta mira a un’ulteriore riduzione e non è casuale che l’adozione della «Scuola guida accompagnata» coinvolga in Europa ben 17 paesi in cui è possibile seguire questo sistema facoltativo d’apprendimento, ovviamente sulla base di normative diverse a seconda dei quadri legislativi. Senza considerare poi che i giovani che aderiscono a questo percorso formativo incorrono 5-6 volte in meno in incidenti rispetto ai coetanei che hanno ottenuto la patente con il sistema tradizionale. E non mi pare poco”.
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Una soluzione si trova sempre
M
io padre si chiamava Albert ed era giardiniere, proprio come il padre di Jimi Hendrix. Sarà un caso? Alla fine degli anni sessanta ascoltavo i 45 giri degli Stones, dei Beatles, dei Move, dei Bee Gees. Noi ragazzini andavamo letteralmente fuori per questa musica. Ma qualcosa in me è scattato nell’aprile del 1971: avevo 14 anni e Bruno, un amico, mi diede una cassetta di Hendrix, The Cry Of Love. È stato amore a… primo suono! Wow! Non avevo mai sentito nulla del genere. Gli dissi che se Jimi arrivava in Svizzera dovevamo andare a vederlo. E lui: “Ma sei scemo o cosa? È morto sei mesi fa!”. Non lo sapevo, porca miseria! Nel 1968 Jimi suonò per due giorni all’Hallenstadion a Zurigo, al Monsterkonzert, ma ero giovane per andarci. Quando ho iniziato a collezionare? Nel 1971 a Basilea. Compravo i dischi in vinile ufficiali di Hendrix, quello che si trovava, Are You Experienced, Axis: Bold As Love, Electric Ladyland, Band of Gypsys. Non avevo soldi e ai tempi un LP costava 25 franchi, così facevo dei lavoretti e risparmiavo. Oggi, quarant’anni dopo, sono ormai a quota oltre mille dischi! Nel 1972 le prime vacanze a Londra, dove ho trovato dei bootleg, dei posters che spedivo a casa e molte altre cose mai viste in Svizzera. Poi ho comprato la mia prima chitarra elettrica: volevo suonare le cose che faceva Jimi. Ho imparato gli accordi di “Hey Joe” ma non suonava mai nel modo giusto e non capivo perché. Ho dovuto aspettare il 1973 per capire come faceva. Ero a Londra ed era uscito il primo film su Hendrix che ho visto ogni giorno, dalle nove di mattina a mezzanotte, finché non mi buttavano fuori! Nel 1975 sono andato in America. Ho visitato la tomba di Jimi a Seattle, poi ho girato i negozi di San Francisco e Los Angeles alla ricerca di materiale. A Hollywood ho acquistato per cinque dollari un poster che ho ancora oggi. La proprietaria del negozio mi disse che aveva fatto le pulizie a casa di Keith Moon, il batterista degli Who. Diceva di aver conosciuto Eric Barrett, il road-manager di Hendrix e di avere un disco pirata registrato al concerto di Jimi a Maui-Hawaii, stampato in sole cinquanta copie, bla bla bla… chiaramente non le credevo. Qualche giorno
dopo trovai un libro su Hendrix con una foto di Barrett: lo compro e decido di mettere alla prova la donna, mostrandole la foto di Barrett ma coprendo la didascalia con un dito. E lei: “Ma era ancora così magro?”. Lo conosceva davvero. Andiamo a casa sua, mi fa vedere le foto di lei a casa di Keith Moon… era tutto vero! E finalmente, mi regala quel disco pirata che oggi vale almeno 500 franchi! Nella mia passione per Jimi ci sono un sacco di coincidenze. Come negli anni ottanta, quando sono a Londra per la posa di una targa sulla casa dove abitava con Kathy Etchingham, la sua ragazza dal ‘66 al ‘69, una mia amica. Tra i negozi di Camden sento, guarda caso, il pezzo “Purlpe Haze” da una radio e chi mi trovo davanti? Dico: “No, non è possibile! Tu devi essere Al, il papà di Jimi!”. E lui: “Sì, sono Al, come stai?”. C’era anche Janie, la sorellastra di Jimi e abbiamo fatto delle foto assieme. Pensare che negli anni settanta sono stato due volte a Seattle, sotto la casa di Al, ma non ho mai osato disturbarlo! Ho un amplificatore Marshall usato da Jimi, un poster comperato a Londra nel ‘73 che ho pagato 10 franchi e che oggi ne vale più di 5mila. A quei tempi certi oggetti li potevi ancora avere, ma oggi sono inavvicinabili. Non ho la minima idea di quanto mi sia costata questa passione, ma non mi interessa. Cosa voglio fare di tutto questo materiale? Voglio condividerlo. Gran parte dei miei dischi andrà alla Fonoteca nazionale svizzera, dove lavoro. Alla Biblioteca nazionale invece ho già regalato quasi mille poster che verranno digitalizzati. La mia specializzazione, per quanto riguarda Hendrix, è il Monsterkonzert di Zurigo. Penso di essere il punto di riferimento per quanto riguarda quel concerto, di cui posseggo quasi tremila fotografie e molto altro. Sto raccogliendo materiale, cercando gente che è andata a sentirlo: però non ho ancora trovato nessun ticinese! Quindi ne approfitto per lanciare un appello: se qualcuno ha visto Hendrix a Zurigo o a Milano nel 1968, si faccia vivo!
MArCEL AEBy
Vitae 14
Folgorato da Jimi Hendrix, da quarant’anni raccoglie materiale sul famoso artista di Seattle. Possiede una importante collezione di dischi e il suo obiettivo, un giorno, è di condividerla…
testimonianza raccolta da Marco Jeitziner fotografia di Flavia Leuenberger
L e L u n e e L a n ov e n a di Daniele Fontana; fotografie ŠPeter Keller
a destra: Il Lago di Griess. Alimentato dall’omonimo ghiacciaio si trova sul versante vallesano del Passo della Novena
in apertura: Il ghiacciaio del Gries ha una lunghezza di 5 km, una larghezza di 1 km e copre una superfice di 6 km2. Durante l’era glaciale il Gries scendeva sul versante italiano della Valle del Gries. Oggi parte da un altitudine di 3000 m e termina sotto il Passo della Novena a circa 2200 m
I tornanti della strada che conduce al Passo della Novena. Inizialmente la strada era stata costruita per collegare il villaggio di Ulrichen con la diga del Lago di Griess. Il prolungamento sul Passo della Novena e per la Valle Bedretto fu inaugurato nel 1969
L’
auto sale gli stretti e ripidi tornanti portandosi addosso il peso della vita. Amori e timori che come cilindri contrapposti pompano l’esistenza. Nell’abitacolo regna un silenzio in bianco e nero. I pensieri per crescere non sopportano i colori, distraggono dall’essenza. Quand’ecco, superato il passo, approdati a un balcone affacciato sulla valle sottostante, spalancarsi in un crepuscolo di luce al neon la sfacciataggine di una Selene al massimo del proprio esibizionismo. Luna platealmente piena, smodatamente dorata, insopportabilmente irridente, diva divina su di un palcoscenico di plastica e fluorescenze della più indecrifrabile Modern Art. È la luna che è scesa sin quaggiù. Non la strada che è salita. Lo vedi. Lo capisci. Quella neve, grigia di polvere e di venti, impastata in volute morbide e sinuose da sapienti spatolate,
pressata sino al gelo che si compone e avvolge in pieghe, balze e crepacci. Una massa in ritirata che, consumandosi, si divora tra la nebbia persistente delle nuvole basse. E l’acqua del laghetto, ghiaccio liquido, algido specchio in cui si appoggia un cielo ormai a contatto. Poi tutte quelle pareti verticali, tagliate, smangiate, limate dal freddo e dalla pioggia che si fa neve. La cui nudità si veste solo di radi ostinati radicati licheni. Solitudini assolute a farsi compagnia in un silenzio cifra del tempo che immobile trascorre. Un incontro di vette a raffigurare l’incontro, laggiù nei fondovalle, di genti divise dalle lingue ma unite dalla fatica e dai costumi della vita. Transitare dall’una terra all’altra è stata da sempre fatica grande. E impervia. E pure pericolosa. Non più ora però, perché da 50 anni ormai una carrozzabile ti accompagna danzando lungo l’aspro dislivello sino ai 2480 metri del passo.
Formazioni rocciose soggette a erosione in cima al Passo della Novena
La stazione ferroviaria di Ulrichen, villaggio vallesano ai piedi del Passo della Novena
Il viaggio verso il paesaggio lunare non si compie più per ardimento. Per svago certo, per necessità forse. Ma anche per razzia. Cresce infatti, tra quelle rocce, una pianta gentile. Raggruppata in cespugli di pochi centimetri, protetta da un’argentea peluria, sprigiona un sentore aromatico. E quel sentore ne fa preda ambita per distillazioni proibite. Artemisia genepi è il suo nome. Conosciuta anche come Artemisia gliacialis. Da, si dice, Artemide, la dea della luna crescente. Virginale e tremenda. Lei, la dea. Profumato e buonissimo, il liquore che se ne ricava, a riscaldare le notti nei rifugi alpini. È da queste parti che nasce il fiume che dà il nome a un intero cantone. Alimentato, anche, da quel freddo che va ritirandosi. I territori qui sono brulli. Di piante. Ché, non appena spunta, l’erba invece è buona e da secoli altri son venuti con le proprie bestie a rivendicarne i sapori. Per dare poi alle genti prodotti che raccontano di alpeggi romiti, di luoghi in cui terra e cielo si fondono in abbracci continui e promiscui, di vite dure, solitarie eppure accumunate da tempi, spazi e modi. Il mondo sublunare che da sempre stringe e costringe la vita che ci è data. La valle digrada dolcemente. L’auto la discende in linea quasi retta, l’abitacolo traboccante dei colori e dei profumi dell’estate che l’ombra progressiva della sera, per osmosi, gli ha trasfuso. I due occupanti hanno ritrovato le parole. È la leggerezza piena della vita che affiora. Il senso naturale dell’esserci, il valore profondo dello scegliersi, la soddisfazione impagabile del ritrovarsi. Sullo sfondo ormai avvolto di nero è apparso il profilo appena percettibile di Ecate, la luna nuova, traghettatrice di anime. Fonte della vita. Libera, illuminata viaggiatrice tra il mondo degli uomini e il regno di Morte.
Peter Keller
Classe 1950, ha dapprima seguito una formazione nell’ambito della tipografia e della fotografia, in seguito si è diplomato in Ingegneria della stampa e dei media presso l’Università di Stoccarda. Dopo una carriera dirigenziale per diversi quotidiani, da luglio 2012 lavora come fotografo e autore indipendente. Ha collaborato con i fotografi Adriano Heitmann e Reza Khatir. Nel 2010 è stato pubblicato il volume fotografico Barocco (Edizioni Casagrande) e alcuni suoi lavori sono presenti in Dodicisette (EdizioniSalvioni, 2012), il catalogo della mostra “12 x 7” (Casa Cavalier Pellanda, Biasca).
Il grande manipolatore “Guardai, ma non c’era nessuno, proprio nessuno tra loro che sapesse dare un consiglio, o che, interrogato, potesse darmi una risposta”1 di Carlo Baggi
Questa affermazione del profeta Isaia va oltre l’ambiente
Kronos 46
punto. L’altezza, raggiunta dalla Torre in corso d’opera, faceva sì che i costruttori vivessero in loco e solo il materiale e il cibo venivano, con fatica, trasferiti dal suolo. Per questo si afferma che essi provavano più disperazione per la caduta nel vuoto di un mattone che per quella di un uomo. Attraverso l’evidente riferimento simbolico del testo, il lettore è messo in guardia nei confronti del pericolo che consegue dal progresso quand’esso non s’identifica più con l’essere umano, ma con gli strumenti e i fini. Come si sa, il risultato di quella globalizzazione, inizialmente foriera di speranze (identità di lingua e unità di parole) e di grande sviluppo (lavori imponenti), fu di esplodere in mille rivoli d’incomprensione, che generarono conflitti e la conseguente dispersione. La storia aveva deragliato e l’umanità dovette ricominciare a costruire un nuovo cammino per ritrovare la propria identità.
religioso e la situazione storica in cui è inserita, anzi quella trama è solo un pretesto. Più volte l’umanità si è confrontata con periodi che costituiscono dei “nodi”; spazi di tempo in cui la storia preferisce deragliare piuttosto che continuare su vie in cui l’incapacità umana la costringe. La prima grande globalizzazione, descritta dalla nostra cultura, è quella che scaturì in una pianura nel paese di Shinhar2. In quel luogo si era radunato il resto dell’umanità, scampato alla devastazione del Grande Diluvio3. Il testo ci dice che quegli uomini parlavano una stessa lingua e usavano le stesse parole. La frase, apparentemente ridondante, ben esprime l’essenza di una società concorde e armoniosa; infatti, la medesima lingua nulla può senza una comunione d’intenti, ben descritta dall’identificarsi nel senso delle parole espresse. Tuttavia quell’umanità, fondata su un patto alimentato da reciproca fedeltà e fiducia, fu Fuori dalla storia travolta dall’egemonia di Nimrod4, Oggi, ancora una volta, l’uomo si nipote di Cam, il figlio di Noè. Il trova a confrontarsi con un punto suo nome era seguito dall’attributo nodale in cui gli effetti di una di “potente cacciatore”, interpretarapida massificazione e impropria to dagli esegeti non in senso letteindifferenziazione stanno progresrale, ma come espressione di una sivamente svuotando le democraparticolare capacità di manipolare zie dei valori assoluti di libertà, Peter Bruegel il vecchio, Re Nimrod in visita al le opinioni e di conquistare condignità e indipendenza, senza i cantiere della Torre di Babele (particolare), Olio su sensi5. Fu così che, ammaliando il quali esse non hanno più signitavola (1563) Kunsthistorisches Museum, Vienna popolo, Nimrod si fece riconoscere ficato. Questa tendenza, se non come re di Babele. Il primo atto del nuovo corso fu una rivo- dovesse essere interrotta con coraggiose risposte, comporterà luzione tecnologica: per edificare si abbandonò l’uso delle il pericolo che inedite forme di autoritarismo, cavalcando le pietre e s’introdusse quello dei mattoni. L’artificio è evidente sollecitudini che gravano su moltitudini di persone, assunel testo ebraico perché la parola “pietra” (le’aben), nasconde mano il potere. Il profeta Isaia non era un indovino, ma un in sé le parole “padre-ab” e “figlio-ben”; mentre la parola profondo osservatore e sapeva che alla base dell’incapacità di “mattone” (lebenah) tralascia il concetto di “padre”. offrire risposte stavano artefici di un sistema che, in procinto di uscire dalla storia, produceva vacuità.7 Degrado morale Questi significati inducono la riflessione sul fatto che, una errata corrige volta spezzata la memoria e la tradizione, ognuno è figlio Nella sezione iniziale dell’articolo di Carlo Baggi “La forma solo di se stesso e la storia diventa cieca, appiattendosi sulla del destino”, pubblicato sul n. 22 di Ticinosette, il riferimento contemporaneità. Inoltre, la personalità individuale, rappre- a Maria come madre di Cristo è errato trattandosi in realtà di sentata dalla differenza delle pietre, è violata da strutture so- Maria Maddalena. Ci scusiamo con l’autore e con i lettori per l’imprecisione. ciali omologate e interscambiabili richiamate dal simbolismo dell’uniformità dei mattoni. Il secondo atto di Nimrod fu note di promuovere una falsa visione di sviluppo, in cui il valore 1 Isaia 41: 28 del lavoro consisteva unicamente nel raggiungere lo scopo 2 La località significa “luogo del rivolgimento”. 3 Genesi 11:1,2 di erigere l’altissima Torre. In questa scelta si nascondeva 4 Il nome Nimrod significa “ribellione”. un progetto che, assorbendo ogni volontà e sforzo, avvitava 5 Parashat Noah 5759, 5764. J.Pacifici. quella società in una spirale in cui l’indifferenza per ogni 6 Metodo d’indagine rabbinica della Scrittura, costitutivo di una altro obiettivo provocava degrado morale. Il pensiero biblico, precisa letteratura. attraverso il Midrash,6 offre una drammatica lettura su questo 7 Isaia 41: 29
“Omo” sapiens
Un progetto idroelettrico e l’accaparramento della terra minacciano le popolazioni indigene della bassa Valle dell’Omo, tra Etiopia e Kenya. Il loro stile di vita sta per essere distrutto, in nome del “progresso”. Ma in tema di natura e futuro, i popoli tribali sono forse più saggi di noi di Alba Minadeo
Per mezzo milione di indigeni della bassa Valle dell’Omo,
lingua “della terra” ricca di vocaboli che contiene comla costruzione della diga Gibe III, le cui acque andreb- plesse informazioni geografiche, geologiche e climatiche, bero a irrigare nuove piantagioni per la produzione di rilevanti a livello universale. “Non so leggere i libri” spiega biocarburanti, si preannuncia una catastrofe. Da tempo, il boscimane Gana Roy Sesana “ma so come leggere la terra Survival International chiede la sospensione dei lavori, e gli animali. Tutti i nostri bambini sanno farlo. Se non ne degli sfratti forzosi dalle loro terre e dei trasferimenti in fossero capaci, sarebbero morti molto tempo fa”. Mentre gli campi di reinsediamento dei popoli Bodi, Daasanach, ecosistemi vengono distrutti, sono minacciate anche le Kara, Kwegu, Mursi e Nyangatom, culture che sanno comprenderli che abitano lungo le sponde del meglio. Molte delle aree più ricche fiume, e degli Hamar, Chai, Suri e di biodiversità del pianeta sopravTurkana, che vivono più distante vivono grazie alle cure dei popoli ma che, in tempi di siccità e careche le abitano. Il modo migliore stie, accedono anch’essi alle risorse per proteggere gli habitat fragili e generate dalle piene naturali del difendere i popoli vulnerabili confiume Omo. La diga metterebbe siste nel garantire i diritti alla terra infatti fine a un millenario stile di delle comunità indigene. Non covita; le conseguenze del divieto di nosciamo ancora l’esatta portata di possedere delle mandrie sarebbero ciò che stiamo perdendo: pertanto devastanti e farebbero dipendere è illogico ignorare la saggezza di le varie etnie esclusivamente dagli chi ha una conoscenza del mondo aiuti alimentari governativi. naturale frutto di un’esperienza millenaria. Con i loro stili di vita a Custodi della terra basso impatto ambientale, i popoli I popoli tribali condividono un’anindigeni sono legittimati a darci tica fiducia nell’armonia tra uomo buoni consigli sulle soluzioni da e natura e la convinzione che è adottare per mitigare i cambiafondamentale prendersi cura della menti climatici. Questo si legge terra a lungo termine. Gli Irochesi Adolescente di etnia Kara; ©Survival International nel libro Siamo tutti uno, edito da del Nord America, per esempio, Survival. “Solo noi indigeni sappiamo tengono conto degli effetti che le loro decisioni potrebbero come proteggere le foreste” dice Davi Kopenawa, sciamano e avere su sette generazioni a venire: “Non pensate a voi stessi. portavoce degli Yanomami. “Restituiteci le nostre terre prima Pensate a coloro che non sono ancora nati e i cui volti stanno che la foresta muoia”. per sorgere dalla terra”. Molti indigeni dipendono ancora dai loro ambienti per soddisfare ogni bisogno, per questo Una società invadente sono più consapevoli della necessità di mantenere l’equili- Survival International, fondato 45 anni fa in Inghilterra, brio ecologico di quanti hanno ormai perduto il contatto è un movimento che lotta per la sopravvivenza dei popoli diretto con gli elementi naturali. Loro sanno che quando tribali, li aiuta a difendere i loro diritti, incluso quello a le foreste, gli alberi, le montagne e gli oceani saranno stati “essere diversi e decidere per se stessi, invece di soccombere a mutilati o inquinati oltre il limite, non ci sarà soluzione una società invadente”. Trecentosettanta milioni di persone, il 6% della popolazione mondiale, le cui economie si tecnologica in grado di guarirli. fondano su una conoscenza molto intima e profonda dei Saggezza tribale propri territori, con cui mantengono un legame pratico e Delle 7000 lingue conosciute, 4000 sono parlate dagli spirituale inscindibile. indigeni e oggi si estingue una lingua madre ogni quindici giorni. Ogni volta che l’ultimo esponente di una per informazioni: tribù muore, scompare una visione del mondo unica, una survival.it/siamotuttiuno
Mundus 47
# Sneakers " CON LE ALI AI PIEDI
Tendenze p. 48 – 49 | di Marisa Gorza
Che tra i teenagers e le sneakers ci sia un amore incondizionato è cosa risaputa. Meno scontato che donne e uomini di successo le indossino, non di rado abbinandole a completi da stanza dei bottoni o a tailleur firmati
S
carpe sportive, scarpe da ginnastica, scarpe da tennis, running shoes, sneakers… o in qualsiasi modo le si voglia chiamare, nel giro di qualche stagione hanno indotto una vera e propria rivoluzione nel vestire quotidiano. Ma facciamo un piccolo excursus storico per scoprire come sono nate le calzature sportive. Benché gli indios dell’Amazzonia avessero già l’abitudine di spalmarsi il lattice degli alberi di caucciù direttamente sulla pianta dei piedi come protezione, fu solo nell’ottocento che l’uso del lattice venne abbinato alla produzione di scarpe, tant’è che un poliziotto britannico ne inventò un paio in tela con la suola in gomma, perfetto per rincorrere i malviventi. Le battezzò “sneakers” dal verbo to sneak (muoversi furtivamente), denominazione rimasta nel suo significato di scarpa... veloce. Nel 1839 l’americano Charles Goodyear perfezionò il processo di vulcanizzazione della gomma che permise di ottenere suole più elastiche. Usate inizialmente per le calzature di pochi privilegiati praticanti gli sports d’élite, come tennis e croquet, videro una prima diffusione in concomitanza con le Olimpiadi di Atene del 1896. Nel 1917 in America nacquero i prototipi da basket, cioè le mitiche Converse All Star. Subito dopo in Germania iniziava l’ascesa di Adidas seguita nel 1948 dal marchio Puma. Perfette per il rock’n roll Con gli anni cinquanta, i rockers scatenati e lo star system hollywoodiano, divi come Marilyn Monroe, James Dean, Elvis Presley… indossano spesso le disinvolte calzature abbinandole ai jeans. Addirittura negli anni settanta e ottanta, musicisti e cantanti di gruppi punk, heavy metal e hard rock faranno delle sneakers, o simili, un elemento
fisso del loro abbigliamento. Intanto appaiono sul mercato americano le Nike dalle suole pressurizzate e, con il boom dell’aerobica, spopolano le inglesi Reebok. Piacciono anche le italiche Superga e le svizzere MTB, note per l’effetto tonico della suola basculante. Eccoci ai nostri giorni ed è proprio sull’onda dell’easy chic che imperversano sneakers di ogni stile e colore. Modelli avveniristici si alternano a modelli classici e a rivisitazioni in serie limitata. Tuttavia nella scelta attuale di indossare queste calzature non si intravede solo il bisogno di praticità, tipico di un periodo che richiede concretezza, ma anche il desiderio di qualcosa che sia confortevole e gratificante nel contempo. Come non rinunciare a un tocco-tacco di vanità? Semplice, indossando la sneaker con zeppa nascosta all’interno. Se nei decenni scorsi le donne in carriera partivano da casa con le scarpe da ginnastica per sostituirle nell’ascensore dell’ufficio con i tacchi a spillo, ora la moda viene incontro con questo innocente trucchetto che rende eleganti scarpe un tempo ritenute solo per ragazzine o per lo sport. Ecco allora alcune proposte primaverili tutte al femminile. Active couture C’è l’ispirazione couture che mixa nelle scarpe active di Ruco Line dettagli glam rock a quelli unisex che evocano gli anni settanta. Il piede scompare quasi completamente nella stringata Thelma, fasciato dal tessuto bianco ghiaccio che assume sfumature colorate con l’esposizione alla luce, riporti in camoscio verde smeraldo, lacci in tinta e in più quella chiusura con strisce a strappo che fa molto streetpop style. Ma la chicca è naturalmente la zeppa interna di 8 cm perfettamente camuffata nel modello avvolgente. Tecnologia futuristica Continua la collaborazione tra la cantante attrice Alicia Kieys e la Reebok, leader mondiale nello sportswear e nel fitness, con una particolare attenzione alle scarpe sportive. Al centro del progetto creativo si trovano le classiche Freestyle, nel modello alto mediato dal basket e dal ballo hip-hop. Tuttavia la sperimentata tradizione questa volta vira verso accenti futuristici per via della tomaia in pelle rifrangente nelle colorazioni fluo e di una particolare leggerezza high tech, i profili imbottiti tipo tuta spaziale e il tallone rialzato con un wedge di 7 cm volutamente messo in evidenza. Quote rosa La zeppa nascosta nella sneaker non è certo una novità per la Hogan che da anni propone modelli segretamente rialzati. Alcune di queste icone sono state reinterpretate per la stagione in corso dalla stylist Katie Grand che, senza tradire lo spirito casual chic del marchio, ha apportato un fresco senso di femminilità a ogni rivisitazione. Una frizzante energia espressa da una intensa sfumatura di rosa e da un bianco ottico esaltato da cuoricini in pelle applicati qua e là. Per una donna determinata e teneramente glamour.
La domanda della settimana
Sareste favorevoli all’introduzione dell’insegnamento del dialetto ticinese nelle scuole elementari e medie del cantone? Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 20 giugno. I risultati appariranno sul numero 26 di Ticinosette.
Svaghi 50
Astri ariete Cambiamenti per i nati nelle prime decadi. Date spazio alla creatività. Aiuti da parte dei partner. Novità professionali per i nati nella terza decade.
toro Conoscenza di nuove persone e arricchimento dal confronto con una nuova cultura. Tempesta passionale per il solstizio d’estate. Seguite una dieta.
gemelli Giove e Marte aiutano. Sbalzi umorali tra il 16 e il 17 a causa della perturbazione lunare. Successi nella comunicazione e nelle relazioni.
cancro Divertente congiuntura per i nati tra la seconda e la terza decade. I nati nella prima decade devono stare attenti a non cedere all’ansia o a paure.
leone Momento ottimo per affrontare un viaggio d’affari o per dare forza a una propria idea. Risoluzione di una vertenza legale. Tagliate i rami secchi.
vergine Crescente iperattività in ogni vostro lavoro di equipe. Se non volete cadere vittime della frenesia sceglietevi una direzione. Bene in amore.
bilancia Colpi di fulmine con persone fuori del comune. Momento di crescita personale oltre che professionale. Crescita delle vostre capacità persuasive.
scorpione Venere e a Mercurio favorevoli per i nati nella terza decade. Grandi opportunità professionali per chi fosse impegnato sul piano artistico o creativo.
sagittario Risveglio dei sensi oltre che di voi stessi. Finalmente siete tornati ad amarvi. Momento felice per i nati nella prima decade aiutati da Urano.
capricorno Conflittualità tra amor sacro e amor profano. Cambiamenti di rotta. Forte aumento degli appetiti sessuali. Possibile scandalo rosa tra il 17 e il 19.
acquario I grandi cambiamenti si succedono senza tregua. Colpi di fulmine, creatività alle stelle. Successo per avventurosi, visionari e “pirati”.
pesci Mettete fine a una discordia maturata negli ultimi giorni. Incontri con persone più giovani. Soddisfazioni provenienti dai figli. Romanticismo.
Gioca e vinci con Ticinosette
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La soluzione verrà pubblicata sul numero 26
Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 20 giugno e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 18 giu. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!
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Orizzontali 1. Chiacchierare, parlare • 10. Gli Stati Uniti in breve • 11. Il lamento dell’asino • 12. Due al cubo • 14. Lo indossa il frate • 15. Crimine • 17. Turchia • 19. Articolo maschile • 20. Stracarico di lavoro • 22. Contenti, felici • 24. Profetizzò la rovina del regno di Israele • 25. Sono propri o comuni • 26. Bella località grigionese • 27. Pena nel cuore • 28. Albero fruttifero • 29. Può essere anche nobiliare • 33. Fa coppia con lui • 34. Un’incognita • 36. Voce senza pari • 37. Bruciata • 38. Decollano e atterrano • 40. Il nome di King Cole • 41. Superbo, severo • 42. Gettata... in mezzo • 43. Chiude la preghiera • 44. Le iniziali di Polo • 45. Due romani • 46. Lo lancia il naufrago • 47. Salvò la fauna • 48. Dopo Cristo • 49. Il nome della Morante • 51. Consonanti in nuora • 52. La dea greca dell’aurora • 53. Ben ventilato. Verticali 1. Noto film del 2001 di Scott Hicks con Antony Hopkins • 2. Un albergo per giovani • 3. Venuta al mondo • 4. Articolo romanesco • 5. Capo etiope • 6. Sbagliare, errare • 7. Arti pennuti • 8. Ribelle, indocile • 9. Dittongo in beone • 13. Cura l’otite • 16. La cintura del kimono • 18. La regina con le spine • 21. Fa palpitare il cuore • 23. Una pietra preziosa • 26. La fine del mondo • 30. Celestiale • 31. Avverbio di luogo • 32. L’astensione per protesta dal lavoro • 35. Stoffa lucente • 36. Stato USA • 39. Pedina coronata • 41. Occhiello • 46. Dubitativa • 50. Andata e Ritorno.
Soluzioni n. 22
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La soluzione del Concorso apparso il 31 maggio è: MANICOTTO
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La parola chiave è: 2
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Sandra Leuenberger 6746 Lavorgo
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Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!
Premio in palio: 2 buoni del valore di 50.– CHF l’uno per l’acquisto di biglietti per eventi FFS Le Ferrovie federali svizzere offrono due buoni del valore di 50.– CHF per l’acquisto di biglietti per eventi a un fortunato vincitore da scontare presso una stazione FFS in Svizzera. Ulteriori informazioni su ffs.ch
La stazione FFS: il punto di prevendita di biglietti per eventi I biglietti per concerti, party, eventi sportivi e numerose altre manifestazioni sono disponibili presso circa 200 punti di prevendita nelle stazioni FFS. L’assortimento comprende tutte le manifestazioni di Ticketcorner, Starticket, Ticketportal e biglietteria.ch. Nelle maggiori stazioni FFS i punti di prevendita sono aperti anche nel fine settimana. Per raggiungere in tutta rapidità e comodità la sede dell’evento, vi consigliamo di prendere il treno. Ulteriori informazioni sono a disposizione su ffs.ch/events. Buon divertimento!
Svaghi 51
Il numero 1 delle capsule compatibili.*
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Kassensturz 12.6.2012: nota 4.9
*Café Royal detiene la quota di mercato più alta in Svizzera per le capsule compatibili con il sistema Nespresso. Le capsule Café Royal sono adatte unicamente per macchine per il caffè di marca Nespresso. La marca Nespresso appartiene a terzi che non sono in alcun modo legati alla Delica AG. Vendita solo a economie domestiche private in quantità normali. www.cafe-royal.com
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