Ticino7

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№ 32 del 9 agosto 2013 · con Teleradio dall’11 al 17 agosto

I nosTrI volTI

I ritratti di alcuni abitanti di Terre di Pedemonte, comune frutto di una recente aggregazione

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Emergenza Siria I vostri doni salvano vite. Aiutateci ora. Invia per SMS «Siria 30» AL 2828 per un dono di CHF 30 (importo massimo CHF 99) CP 12-100-2 menzione «Siria» www.msf.ch


Ticinosette n. 32 del 9 agosto 2013

Impressum Tiratura controllata 68’049 copie

Chiusura redazionale Venerdì 2 agosto

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

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In copertina

Samuele, 2006 Fotografia ©Katja Snozzi

4 Arti Murakami Huraki. Scrivere il sacro di Marco alloNi ........................................... 8 Società Psicologia. L’invenzione della risata di Mariella dal Farra........................... 10 Media Gianni Berengo Gardin. L’attimo in mostra di ValeNtiNa GeriG...................... 12 Kronos Amore di carlo BaGGi................................................................................ 14 Oggetti La caffettiera di daNiele FoNtaNa ............................................................... 15 Eroi Don Chisciotte di FraNcesca riGotti.................................................................. 16 Luoghi Giardini. Strati verdi di Marco JeitziNer; FotoGraFie di FlaVia leueNBerGer.......... 18 Vitae Carlotta Di Stefano di roBerto roVeda ........................................................... 20 Reportage Cento e uno ritratti di saNdro BreNNi; FotoGraFie di KatJa sNozzi............. 48 Tendenze Cucina. Enrico Cerea di steFaNia Briccola .............................................. 56 Fiabe La lezione del ranocchio di c. PiccaluGa; illustrazioNi di s. Grosslercher .......... 58 Svaghi .................................................................................................................... 59 Cruciverba ............................................................................................................ 60 Agorà Stupefacenti. Erba e psicosi

di

Nicoletta BarazzoNi ........................................

La domanda della settimana Da alcune settimane nelle ultime pagine di Ticinosette (rubrica “Svaghi”) poniamo un quesito ai lettori, chiedendo loro di esprimersi con un semplice “sì” o “no” su temi legati all’attualità o al centro di accese discussioni e dibattiti nel cantone. La natura delle risposte non permette certamente di rappresentare con fedeltà tutte le possibili sfumature e le varie opinioni su temi, a volte, piuttosto complessi. Ma comunque le indicazioni e le tendenze appaiono il più delle volte assai decise. È il caso di uno dei primi quesiti ai quali avete risposto, relativo al raddoppio autostradale del San Gottardo (e alle possibili conseguenze per le già congestionate strade del Mendrisiotto): quasi il 75% dei lettori è certo che la situazione a sud di Lugano si aggraverebbe. Alla luce di quanto sta avvenendo in queste settimane di esodi e rientri, pare in tutti i casi di capire che, con o senza raddoppio, la situazione rimane “problematica” e soluzioni devono essere trovate quanto prima se non vogliamo la completa paralisi di tutto il sistema viario cantonale. Quanto sia legata la popolazione (e anche i nostri lettori) al dialetto ticinese lo confermano poi le risposte positive – quasi l’80% – rispetto a una sua introduzione quale materia di insegnamento nelle scuole dell’obbligo. La ricerca e la conservazione della propria identità locale e regionale passano in primo luogo attraverso la lingua, in particolare in un momento storico di grandi

flussi di persone e di incontro fra culture diverse da e per l’intero continente europeo. I recentissimi casi di “spionaggio” e intercettazioni internazionali hanno certamente influenzato parte dei lettori che alla domanda “Quando utilizzate internet e il vostro telefonino, avete mai pensato alla possibilità che qualcuno stia «controllando» ciò che cercate, ricevete e scrivete?”, hanno con decisione risposto affermativamente (80%). O forse la maggior parte di noi utilizza aggeggi elettronici, computer ecc. cosciente che quello che stiamo facendo e dicendo non sta avvenendo tra quattro mura, ma alla mercé di servizi segreti e agenzie di analisi dei mercati. Un’ultima considerazione sul quesito posto nel recente n. 28/2013. Provocatoriamente chiedevamo se sareste disposti a pagare più tasse per permettere al cantone di avere tutti i fondi necessari all’aumento degli organici di polizia, e in modo da migliorare il presidio del territorio. Anche in questo caso, quasi l’80% di chi ha inoltrato il suo SMS non è disposto ad aprire il portamonete per avere più sicurezza (sempre che più polizia corrisponda a maggiore tranquillità e minore criminalità). Le ipotesi in questo caso sono due: o i lettori ritengono che allo stato i soldi non manchino per agire in modo mirato, oppure il tema della sicurezza è un buon soggetto cavalcato da politici e media... mentre i ticinesi che leggono Ticinosette non si sentono poi così minacciati. Buona lettura, la Redazione


Erba e psicosi Salute. Considerata da alcuni una droga pericolosa e da altri una sostanza “ricreativa”, il dibattito sulla marijuana e i suoi effetti resta aperto anche alla luce di recenti studi che hanno evidenziato possibili conseguenze sotto il profilo psichico e neurologico, soprattutto nella fase adolescenziale della crescita

di Nicoletta Barazzoni; illustrazione ©Bruno Machado

Agorà 4

S

ulla marijuana, chiamata anche cannabis, canapa o skunk1 (in commercio oggi è disponibile la cosiddetta super skunk contrassegnata da un elevato livello di THC2 perché modificata geneticamente) ognuno dice davvero la sua. Se da un lato c’è chi sostiene che svolga un ruolo di passaggio verso l’uso di droghe più pesanti, dall’altro c’è chi afferma che se utilizzata con moderazione al pari di un buon bicchiere di vino non abbia nessuna controindicazione, ma al contrario aiuti a rilassarsi. L’effetto della sostanza infatti può essere calmante e miorilassante ma al contempo determina una serie di conseguenze sul piano psicologico e neurologico. Spesso viene messa in contrapposizione con l’alcol e il tabagismo (e il fumo della sigaretta risulta essere il primo killer in classifica in quanto a mortalità), le vere droghe e i veri nemici della salute psicofisica dell’uomo, insieme ovviamente alle più recenti e molto diffuse droghe sintetiche, pericolosissime e non di rado mortali. Gli argomenti a favore o contrari alla canapa si perdono nella storia millenaria di questa “erba” coltivata fin dalla notte dei tempi. Ma il distacco dalla realtà, con la conseguente caduta delle inibizioni e dei tabù, rappresenta davvero il motivo principale della sua diffusione e del suo successo commerciale? Nuove scoperte scientifiche Quando nel 2002, con il documentario L’Erba proibita si discuteva della legalizzazione e del consumo di marijuana in Italia, il professore di neuropsicofarmacologia dell’università di Cagliari, Gian Luigi Gessa, autore di svariati libri sull’argomento tra i quali Cocaina (Rubettino editore, 2008), rilasciava un’intervista in cui sosteneva: “nessuno ha mai dimostrato l’insorgere di danni fisici al cervello nei consumatori di cannabis”. Lo psichiatra e farmacologo, a dieci anni di distanza, ha mutato la sua posizione anche perché smen-

tito dalla scienza che ha portato degli studi, uno in particolare, pubblicato sulla rivista dell’Istituto nazionale americano di salute, in cui si stabilisce la correlazione tra l’uso prolungato di cannabis e l’insorgere di psicosi. La ricerca3 mette in relazione l’utilizzo delle sostanze dopo il primo episodio di psicosi, evidenziando che quasi la metà delle persone che hanno manifestato un primo episodio di psicosi hanno una storia passata di abuso o una dipendenza da cannabis, e fra questi un terzo ha ancora questo disturbo presente. Negli studi si parla in particolare dell’uso e dell’abuso continuo, prolungato nel tempo da parte degli adolescenti. Un dato innegabile Riproponiamo una parte dell’intervista rilasciata nel 2011 dal professor Gessa all’Associazione per la sensibilizzazione sulla canapa autoprodotta (ASCIA)4. Lo stralcio dell’intervista si riferisce al documento Cannabis e danni alla salute pubblicato dal Dipartimento politiche antidroga in Italia5 a cui il prof. Gessa fa riferimento. “Nel libro Cannabis e danni alla salute si scrive che dagli esperimenti fatti sui topi, dopo 6 giorni in cui si sospende l’uso della cannabis, si produce un restringimento delle cellule nervose con la frammentazione del DNA dell’ippocampo. L’assunzione di canapa può innescare in certi individui delle malattie mentali: la sua assunzione praticamente può provocare delle psicosi e delle allucinazioni, crisi d’ansia generalizzate, paranoie o sintomi paranoidei. Questo è innegabile. Tra gli effetti della cannabis c’è anche quello di alterare il nostro cervello con delle psicosi che insorgono in individui che iniziano ma non hanno una persistenza perché scompaiono quando scompare l’intossicazione. Problema che si pone come una litania è che la cannabis può provocare la schizofrenia. È una cosa grandissima, importantissima. Se è vero che tanti uomini giovani stanno


Agorà 5

(...)


L’epigenetica ci dice infatti che, nella fase dell’adolescenza, il cervello è altamente a rischio perché nello sviluppo psicofisico dell’adolescente sussiste uno sbilanciamento del network neuronale. Gli adolescenti predisposti agli effetti del THC sono tra i più esposti alle psicosi, e in modo preoccupante più sensibili a sviluppare un atteggiamento affettivo alterato, con l’alto rischio di sfociare in una schizofrenia

usando la cannabis, la schizofrenia negli anni non si è modificata uno potrebbe sollevare dei dubbi. Dire che la cannabis produce la schizofrenia sarebbe, scientificamente parlando, una bella notizia perché darebbe una spiegazione a una malattia che, da che l’uomo è diventato uomo sapiens, colpisce almeno l’1% della popolazione. Questa scoperta darebbe agli scienziati, che tuttora studiano il caso, un’immensa via di indagine”. Agorà 6

I topi da laboratorio insegnano Uno studio recente effettuato su topi da laboratorio, condotto dalla dottoressa in farmacologia Daniela Parolaro, del centro di neuroscienze dell’università degli studi dell’Insubria, ha stabilito in che modo, una volta diventati adulti, con l’esperienza precoce in età giovanile della sostanza, la cannabis somministrata ai topi abbia mutato il loro comportamento nell’età adulta. Lo studio giunge alla seguente conclusione: i possibili problemi associati al consumo di marijuana durante l’adolescenza suggeriscono che la fase di sviluppo adolescenziale rappresenta un periodo vulnerabile per gli effetti sulla plasticità sinaptica che potrebbe evidenziare azioni avverse dei cannabinoidi nell’età matura. Questi effetti sono strettamente legati al sesso e dunque presentano delle differenze tra maschi e femmine. I maschi sono più propensi a sviluppare aggressività, le femmine più soggette alla depressione6. Esposti non solo al THC ma anche ai derivati della canapa, ai cosiddetti cannabinoidi, i topi da laboratorio hanno denotato un deficit nell’apprendimento cognitivo dovuto all’alterazione dell’ippocampo, con la conseguente riduzione delle capacità cerebrali, quelle che intercorrono da un neurone all’altro, a scapito della connettività neuronale. Adolescenti vulnerabili La neuroscienza ha decretato che il cervello di un adolescente è più vulnerabile di quello di un adulto. L’epigenetica ci dice infatti che, nella fase dell’adolescenza, il cervello è altamente a rischio perché nello sviluppo psi-

cofisico dell’adolescente sussiste uno sbilanciamento del network neuronale. Gli adolescenti predisposti agli effetti del THC sono tra i più esposti alle psicosi, e in modo preoccupante più sensibili a sviluppare un atteggiamento affettivo alterato, con l’alto rischio di sfociare in una schizofrenia. I processi cognitivi, la coordinazione motoria subiscono delle alterazioni perché, come detto, la cannabis è un analgesico7, dall’effetto miorilassante e vasodilatatorio che modifica le percezioni corporee e cognitive. Essendo un vasodilatatore a lungo andare farsi le canne può creare anche dei danni cardiovascolari importanti nell’età adulta. Va però precisato che la cannabis è il fattore di queste patologie e non la causa. Il deficit sarà anche sociale? Quando parliamo di deficit neuronale diviene indispensabile considerare anche il deficit sociale che viene a crearsi se questa giovane fascia di popolazione è davvero così esposta al rischio di psicosi. E dunque chiedersi cosa significa essere affetti da schizofrenia in termini di salute pubblica. Di questo e altro abbiamo parlato con la psichiatra Raffaella Ada Colombo, capo servizio della Clinica psichiatrica cantonale. Dottoressa Colombo questa realtà va letta in termini di salute pubblica? Nell’ambito della salute pubblica si pone molta attenzione anche alla problematica dell’utilizzo di sostanze, in particolare nella popolazione giovane, considerata vulnerabile dal punto di vista dello sviluppo neurobiologico nella fase del cosiddetto “cervello adolescente”, sensibile a sostanze intossicanti, ma anche a effetti protettivi. Oggi, l’uso di sostanze e la dipendenza pongono forte preoccupazione, se considerate tra i pazienti psichiatrici, sia in termini clinici sia di salute pubblica: dal punto di vista epidemiologico la comorbidità diagnostica (patologia psichiatria e abuso/dipendenza da sostanze) presenta un alto numero di trattamenti e maggior incidenza di ricadute. Da qui la necessità di una corretta prevenzione con interventi precoci a livello farmacologico, psicosociale e psicoterapeutico.


Cosa si dice sul consumo di canapa? Il rapporto congiunto dell’Osservatorio europeo del 2013 indica che c’è sostanziale stabilità nel consumo di canapa in tutti i paesi europei. A livello svizzero non ci sono indicazioni di diversa evoluzione rispetto a quanto riscontrato in Europa, tanto che l’Ufficio federale di polizia (FEDPOL) nel 2013 afferma: “in base agli elementi di cui dispone la FEDPOL , gli sviluppi nel rapporto UE possono essere osservati anche in Svizzera”. Dall’autunno 2013 per i maggiorenni in Svizzera8 il mero consumo di canapa sarà sanzionato tramite multa. Sviluppare una psicosi sulla base di quanto detto vuol dire forse trovarsi fuori dai circuiti socioeconomici e dover fare appello all’assistenza? La valutazione della comorbidità è un nostro interesse prioritario per attuare strategie di cura e prevenzione alle ricadute, che non necessariamente portano verso un’assistenza o a un’emarginazione socioeconomica, dato che la complessità dei quadri clinici presentati dà risposte di esito differenti in base agli interventi attuati. Basti pensare ai fattori di rischio nella popolazione generale, a differenze sociodemografiche e a proporzione più alta di abusers tra la popolazione maschile, dati che fanno presumere traiettorie di sviluppo individuale e difficoltà socioeconomiche molto differenti tra i singoli individui. Ci spieghi cosa ne pensa del fenomeno e ci dica quali sono le sue esperienze nel campo? C’è da preoccuparsi? La situazione attuale richiede un focus attentivo precipuo, dal momento che circa il 60% dei pazienti psichiatrici con un primo episodio psicotico ha fatto uso di canapa nei 12 mesi precedenti alla richiesta di visita specialistica9 e coloro che usano canapa in giovane età possono presentare psicosi più frequentemente rispetto ai non consumatori10. La metà dei pazienti al primo episodio psicotico ha una storia di abuso di canapa e un terzo ha un corrente disturbo da uso di canapa11. La preoccupazione riguarda in specifico la popolazione giovanile: sappiamo dalle ricerche che l’uso di canapa è uno dei fattori di rischio per la psicosi a fronte di una condizione neurobiologica vulnerabile12. La canapa, il tipo di utilizzo, dipendenza o disturbo possono giocare un ruolo nello sviluppo di psicosi. Che cosa intende dire con “esordio precoce di psicosi”? In giovane età tra i 15 e i 18-21 anni si possono manifestare, come esordio precoce di probabile malattia psichiatrica, sintomi psicotici transitori o progressivi (allucinazioni, deliri, deficit attentivi, mnemonici, di concentrazione, sintomi negativi della sfera della volizione, motivazione e affezione) che preludono a una possibile evoluzione nell’ambito dello spettro della schizofrenia con manifestazione di patologia psichiatrica grave a lungo termine laddove vi è una vulnerabilità individuale. Cosa c’è di nuovo in queste ricerche? Le ricerche internazionali non solo sottolineano la necessità di una prevenzione precoce dell’esordio psicotico associato ad abuso di sostanze, ma anche di verificare se l’uso di canapa

negli adolescenti incrementa il rischio di esiti psicotici, aumentando l’incidenza e persistenza subclinica del disturbo nella popolazione generale. Strategie di terapia, presa a carico, prevenzione all’esordio sono la base per migliorare gli esiti a lungo termine ed evitare il fenomeno delle ricadute13. Secondo lei cosa bisogna fare e come bisogna agire? Essere ben informati è la base di una corretta iniziale e indispensabile prevenzione, in particolare tra i giovani. Non demonizzare i comportamenti, non sottovalutare e non temere di indagare sintomi che preoccupano cercando aiuto in ambito psichiatrico. Oggi in psichiatria il monitoraggio epidemiologico e la strategia di prevenzione a medio e lungo termine sono presidi fondamentali per prevenire e curare l’esordio di una probabile patologia psichiatrica grave.

note 1 Skunk è un nome generico usato spesso in gran parte dalla stampa o dalla polizia per descrivere una potente forma della pianta di cannabis. La droga skunk originale fu un incrocio tra innesti delle specie di Cannabis indica e sativa. Questa droga può essere coltivata in casa e normalmente provoca euforia, rilassamento profondo, alterazione del tempo e delle percezioni, allucinazioni transitorie, nervosismo, angoscia e moderata paranoia nonché un forte desiderio di sgranocchiare e stimolo a mangiare. 2 Il principio attivo responsabile dell’effetto stupefacente della canapa si chiama “D-9-etraidrocannabinolo”, abbreviato THC . Appartiene alla famiglia dei cannabinoidi, di cui la canapa contiene più di 60 rappresentanti, alcuni dei quali pure con azione psicotropa (4.ti.ch/fileadmin/DSS/DSP/UMC/sportello/ pubblicazioni/epidem/Esp0102.pdf). 3 ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3575521/ 4 youtube.com/watch?v=H-YGm4dJdq8 youtube.com/watch?v=-BkoBXX70a8 youtube.com/watch?v=r9BntzMKbrE 5 www.politicheantidroga.it/comunicazione/notizie/2011/gennaio/ presentata-la-pubblicazione-cannabis/presentazione.aspx 6 A proposito di schizofrenia e depressione uno studio, anch’esso pubblicato sulla rivista dell’Istituto nazionale americano di salute, ha evidenziato che, per esempio, l’uso di marijuana aumenta il rischio di sviluppare schizofrenia o disturbi di umore come la depressione più tardi nella vita. L’età all’inizio dell’utilizzo potrebbe essere decisiva nella comprensione delle anomalie strutturali in certi pazienti (ncbi.nlm.nih.gov/pmc/ articles/PMC2922015/). 7 Le proprietà della cannabis vengono impiegate nella cura contro il dolore soprattutto per i malati terminali. 8 Per i dati europei, si consigliano rapporti annuali EMCDDAOEDT e il Rapporto EMCDDA 2013 (emcdda.europa.eu/attachements.cfm/att_213154_IT_TDAT13001ITN1.pdf). Si suggerisce uno degli approfondimenti sul sito EMCDDA (emcdda.europa.eu/topics/pods/frequent-cannabis-users). Per i dati svizzeri, si consiglia lo strumento epidemiologico: Monitoraggio svizzero delle dipendenze. Si attendono prossimamente i dati del 2012. 9 Wade et al., 2006; Moore et al., 2007; Wisdom et al., 2011. 10 Zammit et al., 2008; Large et al., 2011; Madigan et al., 2012. 11 Kamali et al., 2009; Dekker et al., 2012. 12 Wilson, Cadet, 2009; Large et al., 2011. 13 Kuepper et al., 2011

Agorà 7


Scrivere il sacro

Dopo il “Pasto nudo” di William Burroughs non avevo mai letto un libro indecifrabile come “L’uccello che girava le viti del mondo” di Murakami Haruki. Naturalmente nessuna assonanza fra i due, se non l’interrogativo che ci accompagna lungo le pagine: sto capendo?

di Marco Alloni

Arti 8

Una consolidata e rispettabile vulgata vuole che la letteratura non necessariamente debba essere capita. Chi abbia letto le riflessioni che Heidegger fa su Hölderlin se ne sarà forse accorto: a volte la letteratura non solo non deve essere capita ma, se fosse capita, paradossalmente, non sarebbe capita. Il cortocircuito logico si dipana qualora al concetto tradizionale di comprensione si sostituisse quello di appercezione. Il confine fra i due termini è nell’atteggiamento mentale di chi legge: se ci si attende dall’opera di essere un’illustrazione razionale di qualcosa si rischia di cogliere soltanto una nebulosa o una patina priva di risonanze. Ma se si riesce a compiere un balzo al di là delle aspettative razionali, oltre le strettoie della verosimiglianza, un mondo incomprensibile e tuttavia significativo si dischiude. Per dirlo in altre parole: ci sono opere, ci sono autori, che ci consegnano a quello che in epoche prerazionali si chiamava il sacro. In essi l’antinomia fra razionale e irrazionale non è più presente. Come Umberto Galimberti ci insegna, per il sacro in generale le ragioni umane non hanno più parte e le ragioni divine possono essere accolte solo se ci si dispone a riconoscerne l’imperscrutabilità. In un certo senso è quella letteratura che fa del Deus absconditus – di quel ganz Ande che Karl Barth aveva posto a principio della sua teologia – il proprio oggetto. Isaia nella Bibbia lo afferma senza tema di incorrere in contraddizioni: Vere tu es Deus absconditus Deus Israhel salvator. La verità può essere invisibile. Un autore criptico Murakami Haruki è uno di questi scrittori. Lungo le oltre ottocento pagine del suo L’uccello che girava le viti del mondo egli dipana storie il cui intreccio è organizzato intorno a connessioni che non svelano mai nulla di tipicamente razionale. Non che siano in sé incomprensibili, al contrario: l’ottima prosa di Haruki disegna sulla pagina situazioni di perfetta evidenza logica, e il racconto procede da fatti di ordinaria quotidianità che tutto lascerebbero sospettare tranne che ci potranno poi smarrire nel magma delle loro sovrapposizioni. Ma se le premesse e i singoli episodi lasciano supporre che siamo di fronte a un sem-

plice gioco a incastri – un gatto che scappa, una donna che si reca al lavoro, un marito che resta a casa a badare alle faccende domestiche – il loro accumulo svela progressivamente che ci siamo sbagliati. O meglio, che quegli incastri non saranno districati. O almeno, non come noi ci attenderemmo. Questo è l’aspetto affascinante e irritante di Huraki. Più si avanza lungo le pagine – costretti all’attesa da una prosa di straordinaria potenza affabulatoria – più ci si rende conto che tale chiarimento non assumerà mai i profili della chiarezza. Vittime inconsapevoli di continui soprassalti, ci si trova nel sacro della vita in un perpetuo palpito di vertigine. Un sacro impossibile da razionalizzare, ma non per questo incapace di dischiudere, in filigrana, qualcosa di incommensurabilmente significativo. Che cosa? Confesso che ho cercato a lungo di capirlo. Finché mi sono rassegnato, o convinto, che capire Huraki è fondamentalmente inopportuno. Huraki non si capisce, si percepisce. Esattamente come la contraddittorietà del Dio di Abramo che nel famoso comandamento proclama di “non uccidere” ma poi chiede al patriarca di sacrificare suo figlio. Una contraddittorietà che cessa di essere tale solo se alla chiusura negli spazi rassicuranti della razionalità, appunto, si sostituisce l’apertura al sacro. Compiuto questo balzo anche l’inverosimiglianza di Huraki cessa di essere un limite e diventa una chiave d’accesso alle impalpabili risonanze della vita: impossibili da capire ma non per questo – come Isaia aveva compreso primo fra tutti – meno vere. Kant diceva della coscienza che è “una piccola isola nel mare dell’inconscio”. Huraki ci fa danzare fra le spume indomite e indomabili di questo mare.

Murakami Haruki L’uccello che girava le viti del mondo Einaudi, 2007


Arti 9

Murakami Haruki (1949); immagine tratta da sololibri.net


L’invenzione della risata Portare alla risata qualcuno garantisce un abbassamento dei livelli di aggressività e di violenza, induce a prendere le parti di chi ci fa sorridere, infonde simpatia e ha indubbi vantaggi anche nelle relazioni amorose di Mariella Dal Farra

Società 10

Fra le diverse modalità di espressione delle emozioni, due sembrano essere peculiari della specie umana: il riso e il pianto. Gli altri animali, infatti, non versano lacrime per manifestare il proprio dolore, e neppure emettono quel suono così particolare e universalmente riconoscibile come risata quando “si divertono”. Per la verità, e proprio di recente, un team di ricercatori dell’università di Portsmouth ha condotto uno studio che prevedeva di fare il solletico a ventuno cuccioli di orangotango, gorilla, scimpanzé e bonobo, uno di siamango e tre bambini, registrando i suoni emessi in risposta alla sollecitazione e analizzandoli sulla base di undici parametri. La ricerca ha trovato evidenze a supporto dell’ipotesi che la risata umana abbia dei precursori in comune con gli altri primati: “In particolare, i cuccioli di gorilla e di bonobo producono suoni simili a quelli umani”1, afferma Marina Davila Ross, coordinatrice dello studio, che aggiunge: “Siamo interessati a scoprire di più su come queste vocalizzazioni siano usate nell’ambito del gioco sociale [fra primati]”. “Possiamo ridere di Dio?” Analogamente, per quanto riguarda il gioco sociale fra gli umani, ci si chiede quale funzione svolga il riso e perché tenda a essere connotato in maniera incondizionatamente positiva. “La risata è una vocalizzazione istintiva, contagiosa, stereotipata, attivata a livello inconscio, che scaturisce nell’ambito dell’interazione sociale ed è insolita quando si è da soli [al contrario, per esempio, del sorriso]”2. L’ilarità prorompe dunque spontanea in una varietà di situazioni che vengono soggettivamente percepite come “buffe”, sia nel caso in cui siano involontarie (la classica scivolata sulla buccia di banana) che deliberate (la battuta). Il riso ha spesso a che fare con il senso dell’assurdo, o con il non-senso tout court, che rappresenta un genere di comicità peculiare (vedi, per esempio, il gruppo inglese dei Monty Python); più frequentemente, il senso c’è e consiste nel ridicolizzare una persona, un’idea, una situazione o un’istituzione, soprattutto se considerate serie e rispet-

tabili. Molto spesso, quindi, la risata è “dissacrante”: nel film tratto da Il nome della rosa è padre Jorge a denunciare in maniera esplicita il potenziale “eversivo” della risata quando, con voce apocalittica, declama: “Il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede. […] Possiamo ridere di Dio? Il mondo precipiterebbe nel caos!”. Così, se il pianto costituisce un dispositivo alquanto sofisticato di elaborazione del dolore, fisico e soprattutto morale, il riso appare antitetico al sentimento della paura e sembra anzi avere il potere di dissolverla. Ma c’è un’altra emozione, altrettanto importante, che il riso pare contrastare con una certa efficacia; pensiamo al celebre motto anarchico “Una risata vi seppellirà”3 o al modo di dire “Ridere significa mostrare i denti”: il riso si configura spesso come sostituzione – sublimazione? – di una pulsione aggressiva. Disinnescare le emozioni Nel saggio sul motto di spirito, Sigmund Freud scrive: “Da quando abbiamo dovuto rinunciare a manifestare l’ostilità con l’azione – impediti in questo dalla presenza del terzo spassionato che ha interesse al mantenimento della sicurezza personale – abbiamo sviluppato […] una nuova tecnica dell’invettiva, che mira ad accattivarci questo terzo personaggio contro il nostro avversario. Dipingendo il nostro nemico come un essere meschino, vile, spregevole, ridicolo, ci procuriamo per via indiretta il godimento della sua sconfitta, e la terza persona, che non ha fatto alcuno sforzo, lo attesta col suo riso”4. Freud attribuisce il piacere che accompagna la risata al rilascio della tensione psichica fino a quel momento impiegata per inibire l’aggressività: trovando espressione in una forma socialmente appropriata, il quantum di energia associata al compito si libererebbe nel sistema provocando una sensazione di sollievo che viene esperita come piacere. A prescindere dal “meccanismo” di funzionamento endopsichico, l’aspetto sorprendente di questa particolare reazione psicologica (il ridere) risiede proprio nella sua capacità di “disinnescare” l’emozione della rabbia, trasformandola in qualcosa di qualitativamente diverso.


La sublimazione dell’aggressività attraverso la risata risulta particolarmente evidente nel prototipo del comico da cabaret che, in uno spettacolo improntato all’improvvisazione, pronuncia battute corrosive, di preferenza rivolte al proprio stesso pubblico, senza che questi ne rimanga minimamente offeso. “La psicanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani”, motteggia Woody Allen con esplicita ambivalenza nei confronti dei discendenti dell’autore del “Motto di spirito”; ma proprio Freud riesce a cogliere un’altra proprietà essenziale della capacità di fare ridere, quando osserva: “[il motto] Corromperà l’ascoltatore, col piacere che gli procura, inducendolo a prendere le nostre parti senza andare a fondo della questione […]. Attrarre dalla propria parte chi ride, si dice in tedesco con espressione veramente calzante”.5

Provocare l’ilarità nei nostri simili consente pertanto di adempiere a una varietà di compiti “socialmente utili”, il cui comune denominatore è dato dal rovesciamento della valenza aggressiva in un comportamento capace di attrarre simpatia e aumentare la coesione interna di un gruppo. Ciò accade sia in maniera indiretta – per esempio, depotenziando il sentimento di paura che, insieme alla frustrazione, costituisce uno dei detonatori del comportamento aggressivo – sia conferendo alla pulsione in oggetto una forma che consente di avere ragione dell’avversario senza lederlo. Il vantaggio evolutivo che tale invenzione comporta è distintamente percepibile ogni qualvolta orientiamo a nostro favore la disposizione di un pubblico, facendolo ridere.

Per l’innamoramento, contro la violenza Considerato che la risata è una reazione inconscia e involontaria, suscitarla in qualcuno costituisce di fatto una forma di seduzione, nel senso letterale di “condurre a sé”: “La risata compare come riflesso incontrollabile nei neonati intorno ai quattro mesi di età [...]. Arrivati alla scuola materna, i bambini, giocando con i non-sense verbali e gli scioglilingua, imparano che dire qualcosa di divertente convoglia l’interesse e l’apprezzamento degli altri su di sé”6. Più avanti, nell’ambito del corteggiamento, tale interesse potrà assumere un senso specifico, se è vero che fra le motivazioni addotte nell’innamorarsi di qualcuno, una delle più frequenti – soprattutto dalle donne – è proprio il senso dell’umorismo.

note 1 M. Davila Ross, M.J. Owren, E. Zimmermann, Curr. Biol. Doi:10.1016/j.cub.2009.05.028 (2009), citato da L. Laursen in “Human-ape links heard in laughter”, Nature, 04/06/2009. 2 R.B. Provine, “Laughing, Tickling, and the Evolution of Speech and Self”, Current directions in psychological science, vol. 13, n. 6, 2004 American Psychological Society. 3 Michail Bakunin (1814–1876), rivoluzionario, filosofo e anarchico russo. 4 S. Freud, “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” (1905) in Opere 1905–1909, vol.5, pag. 92, Bollati Boringhieri, 1972. 5 S. Freud, Ibidem. 6 C. Liebertz, “A Healthy Laugh”, Scientific American Mind, 2005, vol. 16, n. 3, pp. 90–91.

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L’attimo in mostra Da sessant’anni Gianni Berengo Gardin ha la macchina fotografica appesa al collo. Il suo archivio conta un milione e mezzo di scatti, ma lui non ama essere chiamato artista, preferisce essere definito un testimone della sua epoca. Oggi le sue immagini sono in mostra a Palazzo Reale di Valentina Gerig

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Ci sono fotografi che intervengono sulla realtà e altri che la documentano nella sua purezza. Nessuna costruzione, nessuna “invasione di campo”. Solo un occhio e un clic. “Solo” si fa per dire, perché bisogna essere in grado di cogliere quell’attimo che non tornerà più e che rende uno scatto unico e speciale. Il fotografo diventa spettatore discreto, quasi invisibile, di ciò che accade di fronte ai suoi occhi e quindi anche testimone di un’epoca. Un balcone affollato di una casa di ringhiera, gambe femminili che camminano in sequenza, una famiglia in attesa di partire su un binario di una stazione, un senzatetto che dorme accucciato su un muro, la folla riunita in piazza. Sono figure, atmosfere, vestiti che restano immagini ma diventano anche racconti di un’epoca, spaccati della vita sociale, politica, economica e culturale di un paese. Gianni Berengo Gardin fa parte di questo tipo di fotografi, anzi, è uno dei maggiori rappresentanti degli ultimi cinquant’anni. Ne è conferma la mostra a lui dedicata a Palazzo Reale a Milano e che proseguirà fino all’8 settembre. L’esposizione è divisa in nove sezioni e raccoglie 180 scatti che raccontano l’Italia degli anni sessanta fino ai giorni nostri, con qualche excursus di fotografie oltre confine. Lugano, Milano, il mondo Gianni Berengo Gardin oggi ha 83 anni portati splendidamente. Nasce a Genova nel 1930, ma cresce a Venezia, dove trascorre l’infanzia. Nella sua vita c’è anche Lugano. La mamma, infatti, era una Maffei e qui in Ticino il futuro fotografo trascorre due anni della sua adolescenza. Risalgono ad allora i suoi primi scatti da dilettante, tanto da dichiarare che la sua prima fotografia in assoluto (bruttissima, a suo giudizio) ritraeva i riflessi di un albero sul lago. E sempre a Lugano, proprio in via Nassa, Berengo Gardin acquista la prima macchina fotografica usata. Lo ha raccontato in una bella intervista realizzata da Michele Fazioli nel 2010 per il programma della RSI “Controluce”. Le sue prime foto vengono pubblicate nel 1954 sulla prestigiosa rivista Il Mondo diretta da Mario Pannunzio, con cui collabora pubblicando centinaia di fotografie fino al 1965, anno molto importante perché coincide con il suo trasferimento a Milano. Qui inizia la sua vera e propria carriera professionale, il suo nome diventa noto a livello internazionale, realizza reportage, fotografie di indagine sociale per altri prestigiosi periodici italiani come Epoca, Domus, L’Espresso, ma anche internazionali (Le Figaro e Time). Nella mostra di Palazzo Reale una stanza ripercorre una serie di scatti riuniti sotto il titolo Gente di Milano. Emer-

ge il tessuto sociale e urbano di questa città in rapido mutamento, da allora ai giorni nostri. Molte le fotografie scattate nella Stazione Centrale, luogo privilegiato in cui si incrociano generazioni e classi sociali diverse. Tra manicomi e zingari L’esposizione approfondisce inoltre due celebri reportageinchiesta realizzati da Berengo Gardin tra gli anni sessanta e settanta. Il primo si chiama Morire di classe. Sono immagini crude, terribili, che per la prima volta permettono agli italiani di aprire gli occhi sulla drammatica quanto incivile situazione dei manicomi. Le foto ritraggono i pazienti degli istituti psichiatrici e furono commissionate da quel Franco Basaglia che darà il nome alla storica legge che nel 1978 porterà finalmente alla chiusura di quei luoghi di disumana segregazione. Il secondo reportage, intitolato con l’ossimoro La disperata allegria, racconta la vita degli zingari in Italia. Berengo Gardin visse quarantacinque giorni nei campi nomadi di Firenze negli anni novanta e con la sua macchina fotografica sempre appesa al collo cercò di raccontare la vita, le usanze e le abitudini di questa popolazione “ai margini” con umanità e umiltà, senza pregiudizi a e diffidenza. “Gli zingari sono sempre prevenuti nei confronti della macchina fotografica proprio perché, solitamente, si fotografa il lato negativo della realtà. Per me è stato difficile entrare in questo mondo, ma quel che mi resta di questo lavoro è la generosità, la poesia e la musica”, racconterà in seguito Gardin. I suoi scatti sono sempre in bianco e nero. “Il colore distrae il fotografo e chi guarda”, soprattutto quando si tratta di reportage. Lo ripete sempre il maestro che non ama essere chiamato artista, nonostante i prestigiosi riconoscimenti, le centinaia di mostre a lui dedicate e gli oltre duecento libri di fotografia pubblicati. A chi gli chiede quando una fotografia può definirsi buona, Berengo Gardin spiega che deve raccontare qualcosa, dev’esserci un avvenimento. Altrimenti è semplicemente una bella fotografia. Fine a se stessa. Tutto sta nel cogliere quell’attimo o, come lo chiamava Henri Cartier-Bresson, “il momento decisivo”.

la mostra Gianni Berengo Gardin - Storie di un fotografo Fino all’8 settembre Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano Infoline e prevendita: tel. 0039 02 54917 comune.milano.it/palazzoreale mostraberengogardin.it


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Milano, anni settanta: Gery Palamara si esibisce in una casa di ringhiera; fotografia ŠGianni Berengo Gardin/Contrasto


Amore

Le parole sono come le persone: umili, ricercate, volgari, comuni, spiritualmente evolute. Come le persone subiscono abusi, sono svilite, esaltate, alla moda o desuete e, sovente, a causa della loro profondità sono banalizzate di Carlo Baggi

Tra le parole che più sono state banalizzate vi è il termine amore. E così si ama il mare, lo sport, il partner, i figli, la patria, Dio e quant’altro ci attira in modo particolare. Si ama, ma non sappiamo più se quel moto del profondo sia frutto di un particolare dono fatto all’uomo o lo scatenarsi di reazioni biochimiche. Guardiamo il cielo e vediamo il sole, la luna, le stelle che si muovono grazie a precisi parametri matematici; osserviamo il nostro corpo che non esplode e si disperde nello spazio solo perché leggi fisiche tengono sotto controllo le masse atomiche. Anche questo è amore. L’amore non è un sentimento, ma una forza che, con nomi differenti, irrora ogni manifestazione di questa nostra realtà impedendole di disperdersi nel nulla.

Kronos 14

scopo e una relazione attivata per mero interesse distruggono qualunque fuoco d’amore. Occorre quindi intendere il desiderio come espressione di unione incondizionata e la necessità di relazionarsi come superamento della solitudine e non come modo per evitarla6.

Una nuova unità Il tema della solitudine impregna di sé, già da subito, il testo biblico. In modo nascosto, per quanto concerne l’Eterno, dietro i significati mistici della prima parola “In principio”; in modo palese e denso di significato, nell’ambito della creazione dell’Adam, quando l’Eterno constata che: “Non è bene che l’uomo sia solo”7. Questa condizione, tuttavia, non porta immediatamente alla formazione della donna, ma alla manifestazione degli esseri animali, simbolo delle pulsioni umane La matrice del creato che saranno soggiogate dall’Adam con l’atto Nel secondo capitolo della Genesi, la dedi assegnarne il nome8. Solo successivamente scrizione dell’opera della creazione cambia l’Eterno procederà alla differenziazione del improvvisamente registro. Muta il nome di genere femminile umano. La solitudine fu Dio (da Elohim in YHWH Elohim1), si ribalta superata dalla consapevolezza che lo scopo l’ordine di apparizione del creato (l’Adam è della relazione doveva esprimere una nuova formato all’inizio e non al termine del sesto unità e non un artificio per arginare lacune giorno cosmico), la natura compare solo in esistenziali. concomitanza del manifestarsi dell’essere È significativo, a questo punto, che il primo umano. Il racconto si sviluppa srotolando, in Masolino da Panicale, Adamo ed Eva (1425), canto d’amore registrato dalla Scrittura9 non modo subliminale, un dato affascinante: Dio affresco, Cappella Brancacci sia dedicato al Creatore, ma all’immagine fa esperienza di sé attraverso la creazione in in Santa Maria del femminile dell’Adam; perché, com’è scritto: generale e l’Adam2 in particolare, che traspare Carmine, Firenze “Tutto deriva dalla donna”.10 come il corpo da questo desiderato e amato. La mistica ebraica scorge in questo processo due aspetti importanti. Il primo pone alla base della creazione il “desiderio” dell’infinito di conoscere3 il finito; il secondo legge nella note parola Adam l’incontro tra la trascendenza, rappresentata 1 Elohim indica l’astrazione del pensiero divino è l’ “Essere degli Esseri”. YHWH Elohim sviluppa invece il concetto di “Essere che dalla prima lettera dell’alfabeto ebraico (alef), il cui caratè, che fu e che sarà” e quindi esprime la concretezza dell’azione tere è legato simbolicamente alla divinità, e l’immanenza, divina. espressa dalla seconda parte del nome (dam), che significa 2 Adam è inteso non come “uomo”, ma come “Umanità”. sangue. La stessa struttura del nome impronunciabile di 3 Da’at, la “conoscenza” biblica, è un evento di esplorazione e di unione nell’intimo, che spazia dall’amore intellettuale a quello Dio4 racchiude un’immagine molto significativa. La Yod rappresenta l’elemento maschile, la He quello femminile, la 4 carico di connotati erotici. Il Tetragramma YHWH è impronunciabile, non solo perché comWav indica la congiunzione5 e la seconda He il frutto di tale posto di quattro consonanti, ma per impossibilità dell’uomo di unione. Il tetragramma esprime dunque la matrice di tutto definire l’Assoluto. il creato e si riverbera nell’uomo attraverso due necessità 5 In ebraico questa lettera è usata come congiunzione. vitali, che sono alla base di ogni atto d’amore: il desiderio 6 Marc Gafni, L’impronta dell’anima, Mondadori, 2002, pag. 44. 7 e la necessità di relazionarsi. Si tratta di due aspetti molto 8 Genesi 2: 18 Genesi 2: 19, 20. Assegnare il nome, nel contesto biblico, significa delicati il cui contenuto, rientrando nell’ambito della dicircoscrivere e, quindi, prendere potestà sull’oggetto definito. mensione “egoistica”, determina la qualità dell’espressione 9 Genesi 2: 23 d’amore. Un desiderio che si spegne una volta raggiunto lo 10 Bereshit Rabba’ (Commento alla Genesi) XVII, 7.


La caffettiera di Daniele Fontana

Non importa la faccia che ha il primo mattino. Se ancora buia e fonda. E fredda. Livida da pensare che non farà mai più giorno. Oppure già luminosa. Di quella luce morbida che si irradia accarezzando ogni cosa, filtro senza impurità tanto amato da fotografi e pittori. Dono congiunto del cielo immobile e delle orbite terrestri, che fa del palazzo e del giardino di fronte un improbabile scorcio di Arles o St. Ives. Tu – non sono ancora le sei del mattino – sei comunque anima persa. Corpo separato dal volere. Nonostante il tentativo di ginnastica che in bagno hai già abbozzato o preteso di abbozzare e le prime incostanti vergognosamente insufficienti scariche di adrenalina messe in circolo. Quando ti affacci al mondo – perché la tua cucina è letteralmente una finestra sul mondo – lei è lì ad attenderti. Fedele. Discreta. Non chiede, non chiama. Esiste. Nelle sue forme metalliche e antropomorfe che sono già segno e narrazione. Caffettiera, moka, napoletana, bricco o cucumma che sia. Manufatto umano e scatola di prodigi. È con lei che quasi sempre hai il primo colloquio del mattino. Quando la casa ancora dorme e fuori rare finestre, come palpebre, a fatica iniziano a schiudersi. È un colloquio silente. Muto. Essenziale eppure denso. Preludio al lavoro che con umiltà e magia lei si appresta a svolgere. Perché di questo si tratta. La torrefazione e le miscele certo contano. Con i loro esotismi, le loro misteriose e sapienti alchimie, le loro fragranze di specie che sanno di terre lontane: Arabica, Robusta, Liberica. Ma il vero miracolo si compie nel cuore della macchinetta, crogiuolo della esoterica trasformazione che di una manciata di oscura polvere, con l’aiuto di poco più di un goccio d’acqua, produrrà una bevanda leggendaria. Sintesi perfetta di semplicità e complessità, di ingegno e discrezione, la caffettiera è emblema del vivere che mi piace. La misura. Sei quel che sei e ciò che sai. Né più né meno. Ed è già saggezza, in tempi in cui l’ignoranza si esibisce vestita di tracotanza. Le parole si moltiplicano all’infinito, tessendo reti ormai planetarie. L’inutile travolge il necessario con violenza pari solo alla propria insignificanza. Ma questo è fuori, là fuori. Qui, nel silenzio che ancora governa, si ode il primo gorgoglio. Il prodigio che si ripropone. Dalle viscere dell’oggetto incantato risale l’oscura, fragrante pozione. L’attesa, il suono, la conferma valgono persino più del piacere sensoriale fatto di odori e sapori. È un tutt’uno che esplode: la forza dell’ultima acqua che ruggisce e il vigore dell’aroma che si diffonde. Una volta ancora la meraviglia si è compiuta. L’infallibile onnipotenza della fisica è stata addomesticata dalla funzionale modestia dell’oggetto. Ci sono regole eterne, trascendenti pur nella loro immanenza, al cui cospetto è dolce confidare. In genti migliori. In tempi meno bui. Ma non c’è spazio per vagheggiamenti e sentimentalismi. Non ora. Non qui. C’è una moka da togliere dal fuoco. Perché, ribollito, il caffé si fa liquido di feccia.

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Don Chisciotte

Protagonista dell’omonimo romanzo di Miguel de Cervantes, è il personaggio più notevole della letteratura spagnola di tutti i tempi. Ancora oggi simbolo di battaglie perdute in partenza, egli aspira a restaurare la giustizia nel mondo emulando gli eroi (tramontati) dei romanzi cavallereschi di Francesca Rigotti

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“In un paese della Mancia di cui non voglio fare il nome...”. È questo l’incipit del Don Chisciotte, un romanzo tanto noto quanto poco veramente letto, pubblicato per la prima volta, in due parti, nel 1605 e nel 1615. Protagonista, un eroe-antieroe, l’ingegnoso hidalgo (gentiluomo, cavaliere?) generato dalla mente di Miguel de Cervantes.

secoli, una bacinella da barbiere piantata in capo, su un vecchio cavallo cui dà il nome di Ronzinante; decide poi di procurarsi una dama avvenente, una giovane contadina del paesello vicino, che chiamerà Dulcinea, e infine uno scudiero, Sancio Panza, il contadino ignorante che da quel momento lo accompagnerà.

Vita avventurosa di Miguel de Cervantes Cervantes stesso, nato a Valladolid e poi trasferitosi con la famiglia d’origine a Cordoba, a Siviglia e infine a Madrid, ebbe una vita avventurosa; giovane poeta, si appassionò ai libri di cavalleria, ma dovette lasciare precipitosamente la Spagna per Roma, a causa di una condanna dovuta al ferimento di un avversario. Datosi alla carriera militare, Cervantes partecipò alla battaglia di Lepanto del 1571, dove la flotta di Don Giovanni d’Austria sconfisse i turchi; fu prigioniero ad Algeri per cinque anni, tornò in Spagna, mise su famiglia, ricoprì incarichi politici e tornò a scrivere poesie e a comporre infine un romanzo di straordinaria originalità: Don Chisciotte.

“Donchisciottismo” e “panzaismo” L’immortale coppia, precorritrice di infinite altre simili coppie e composta dall’hidalgo, secco e allampanato sul ronzino, e dallo scudiero, grasso e tozzo, che mena il suo asino, intraprenderà una serie di avventure delle quali la più famosa è probabilmente quella dei mulini a vento. Incontrando una distesa di mulini a vento con le pale che girano, Don Chisciotte immagina che siano giganti che agitano le grandi braccia, mentre Sancio cerca di spiegargli che i giganti sono mulini a venti. La prima posizione è stata definita dallo scrittore statunitense di fantascienza Robert Sheckley “donchisciottismo”: esso consiste nella “percezione delle cose di ogni giorno come entità rare e desuete”. Il “panzaismo” consisterebbe invece nell’inverso, nella “percezione di entità rare e desuete come cose di tutti i giorni”: entrambe le posizioni mettono in atto un procedimento straniante nel quale l’oggetto antistante diventa in ogni caso cosa speciale e inaspettata.

In un anonimo paese della Mancia Le avventure di Don Chisciotte non si svolgono in terre lontane e strane, in imperi esotici e favolosi. Un primo elemento che fa di Don Chisciotte un antieroe è proprio il fatto che le sue imprese hanno luogo in un anonimo paese della Mancia, dove i giorni trascorrono monotoni e placidi, dove non accade mai nulla di straordinario e dove il nostro si dedicava, oltre che alla caccia e all’amministrazione dei suoi beni, alla lettura di libri di cavalleria, fino a passare le nottate “a leggere da un crepuscolo all’altro, e le giornate dalla prima all’ultima luce; e così, dal poco dormire e il molto leggere gli s’inaridì il cervello in maniera che perdette il giudizio”. Una pazzia da carta stampata Antieroe dunque pure per la sua pazzia, che è di un genere tutto particolare: la pazzia di Don Chisciotte nasce dai libri, dalla carta stampata; è una malattia mentale prodotta dalla letteratura. Credendo che tutto quel che aveva letto nei libri di cavalleria fosse narrazione storica di fatti realmente accaduti, e desiderando resuscitare la vita cavalleresca in difesa degli ideali medievali, l’hidalgo decide di diventare cavaliere errante e di andare per il mondo in cerca di avventure. Parte con un’armatura vecchia di due

L’incantatore maligno Il Cavaliere dalla Trista Figura, così definito da Sancio dopo aver scorto Chisciotte alla livida luce di una torcia, avanza in groppa a Ronzinante, col suo bacile da barbiere in testa, pulito e lucidato fino a splendere come e più di un elmo: invano coloro che gli stanno intorno fanno il possibile per sviarlo dal suo errore e per fargli vedere che ciò che lui credeva giganti, eserciti, castelli o elmi non erano altro che mulini a vento, greggi, locande e un volgare catino per la barba. L’eroe-antieroe replica che è colpa di un maligno incantatore che trasforma in volgare e umile ciò che è nobile e elevato. Don Chischiotte non uscirà, se non per un breve momento, dalle illusioni e dal sogno nei quali lo avvolge quella specie di genio maligno cartesiano ante litteram. Continuerà invece, nella sua pazzia intellettuale e libresca, a sublimare tutto ciò che di normale, volgare e abitudinario accade nella Mancia, in un’ardente avventura cavalleresca.


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Il fedele Sancio e Don Chisciotte in una classica illustrazione di Paul Gustave Doré (1832–1883)


Giardini. Strati verdi di Marco Jeitziner; fotografie ©Flavia Leuenberger

serio, forse piantato nel posto sbagliato. Più avanti l’inossidabile agrifoglio dai fiori bianchi profumatissimi: se non l’avete mai odorato, peggio per voi. Il susino striminzito ora respira, dopo che ho segato il vecchio ammalato che gli faceva ombra. In fondo a destra, un ciliegio un po’ malandato e più avanti un ex pesco decisamente andato che, però, fa da spalla all’edera. Il rosmarino tiene botta, le lavande pure, così come l’alloro che spunta esuberante dai rododendri, che sono un piacevole pugno in un occhio. Il gelsomino? Peggio d’una piovra ma l’odore che rilascia è solo suo. L’ortensia ha un carattere difficile ma si vedrà. Tra me e i rovi ormai è una questione personale. Ne tralascio tante altre con le quali mi scuso.

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Spazio verde all’aperto dedicato alla vista, magari di altro verde, alla coltivazione di quello che vi pare e al godimento individuale di piante e altre forme di vita naturali. Siamo nella bella stagione e il verde è esploso da qualche mese. Ve ne siete accorti, gente di città che il giardino non ce l’ha? Quel bellissimo verde erboso che rasserena lo spirito, calma la mente, stuzzica gli occhi, sfarfalla il ventre, solletica la pianta dei piedi. Chi ne è privo si perde qualcosa: allontana stress e aggressività. Chi ce l’ha finto s’è perso l’istinto. All’italiana, alla francese, all’inglese, alla giapponese, alla vostra maniera, ma è uno spazio che ci assorbe. E lasciamoci assorbire. Lungo le stagioni Se ognuno avesse un giardino, forse ci sarebbero meno infarti e meno violenza, chissà. Cominci a seguirne la vita per l’anno intero. Arriva l’autunno che s’ingiallisce, è quasi calvo, c’ha l’alopecia. La smette di fare il capellone ‘sto arrogante. Poi ecco l’inverno, duro come il cemento, la terra è come mattone, l’erba è fiacca e a guardarla fa pena. Arriva la neve che copre tutto ed è meglio così. A primavera il calore del risveglio scioglie il freddo cappotto che restituisce acqua alle radici della giovane erbetta. L’estate lo scotta ma lo rinvigorisce e non c’è bisogno, come certi fanatici, di bagnarlo, innaffiarlo o irrigarlo ogni giorno. Il trifoglio e il dente di leone si scatenano, dalla banale sterpaglia spuntano bei fiorellini misteriosi, rosa, gialli e viola. A marzo e aprile torna a essere punk, così come lo vogliamo. Il mio è centro e periferia. Lascio diversi fiori ed erbe selvatiche nei quartieri lontani, vicino ai muri di casa piante aromatiche qua e là, un fico e un acero poco

Falciatori del sabato L’estate è una cucina di aromi, un pastrocchio di colori netti e sani. Ma tutto dipende, dall’erba del giardino: è lei che comanda, che va domata, è lei che mostra o che nasconde. Non disdegno i campi d’erba alta, fanno un po’ prateria, qui nella bassa Riviera. Non me ne vogliano i contadini. Qualche mese fa uno m’ha piantato il recinto per quattro cavalli nel campo sotto casa, senza chiedere nulla: “è peccato lasciare l’erba così!” mi ha detto. Faccia pure, lei che è del mestiere. Ma l’erbetta soffice sotto la pianta del piede è altra cosa. Pioggia e sole ed eccola esuberante, verde e rabbiosa. Poi scatta l’ironica gara tra vicini di casa, tra chi ce l’ha più verde e tosato, anche se poi, quei vicini, in giardino non li vedi mai. Forse, come nei balconi (vedi Ticinosette n. 26/2012), non amano mostrarsi. I falciatori amatoriali di solito escono di sabato, brandendo i loro barbieri meccanici. Sono paesaggisti impensabili, bancari in settimana con le ginocchia bianche. È quasi un’esclusiva per soli uomini: vedere una donna alle prese col tagliaerba fa strano. Sappiate, care donne, che gli uomini amano, per un oscuro motivo, tagliare l’erba. Dipende poi dall’indole: burbero e sommario col B&D a benzina che pare un trattore, raffinato e precisino col McCulloch elettrico, timido e scansafatiche col cubetto solare che macina da solo su e giù per il gazon. Non è il “Giardino di Albert” ma poco ci manca. Fatevi piccoli, fate uscire il Piero Angela che è in voi e inginocchiatevi davanti al microcosmo che lo abita: scoprirete un mondo. Loro ci stanno per diritto preistorico acquisito. Quando noi non ci saremo più in giardino, loro saranno ancora lì a sgambettare e svolazzare sull’erbetta. Sempre che di erba ve ne sia ancora.


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Vitae 20

ono nata a Losanna nel 1988. Poi io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in Ticino, dove ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza. La passione per l’arte è nata quando ero bambina… ho sempre disegnato, ho sempre crea­ to piccoli oggetti, sculture. Una passione che non ho assecondato subito: mi so­ no infatti iscritta al liceo scientifico. In quegli anni ho sacrificato la mia vena artistica e mi sono appas­ sionata alla chimica. Mi piacevano il calcolo e le reazioni chimiche, mi af­ fascinava la possibilità di trasformare la materia. Un aspetto, questo, che ho poi ritrovato nelle mie opere in cui trasformo oggetti e materiali per crearne dei nuovi. Terminato il liceo non sa­ pevo che fare: seguire la mia passione per l’arte o intraprendere un percorso scientifico, magari nell’am­ bito della medicina, co­ me mio padre? Davanti a questo interrogativo sono partita per Losanna. Lì ho cercato di coniugare que­ sti due interessi lavoran­ do con i bambini disabili, attraverso un percorso di arteterapia. Quell’espe­ rienza mi ha fatto capire che l’arteterapia non era quello che cercavo, mi sono resa conto che volevo dedicarmi all’arte in prima persona. Così mi sono iscritta alla Nuova Accademia di Belle Arti di Mila­ no. Quelli all’Accademia sono stati tre anni importanti. Lì mi sono accorta che avevo tantissimo da imparare, io che ero sempre stata un’autodidatta e che pensavo di essere già arrivata da qualche parte. Ho capito esattamente che cosa mi piaceva: l’illustrazione per l’infanzia, la pittura e la creazione di personaggi con materiali riciclati, gli stessi personaggi che ritornano nelle illustrazioni. È in quegli anni che è nata Guendi, il corvo­ballerina che è diventata il mio marchio, il mio segno distintivo. Guendi è una specie di testolina nera col becco che si può trasformare in personaggi diversi. Pensandoci bene assomiglia al mio pupazzo dell’infanzia, un topo rosa. Oggi Guendi mi accompagna ovunque. Dall’arte mi sono spostata più verso l’artigianato e negli oggetti che creo questo corvo­ballerina ricorre spessissimo. Dietro di lei un po’ mi ci nascondo, è attraverso di lei che mi presento. Ma tornando all’Accademia, una volta laureata nel 2011 il

mio sogno era vincere il concorso per poter avere la residenza da artista ad Amsterdam. Per due anni avrei vissuto insieme ad altri colleghi e sarei entrata in contatto con galleristi del posto che mi avrebbe­ ro lanciata. Purtroppo il concorso non l’ho vinto e ho deciso di proseguire gli studi. Sono andata a Venezia e mi sono iscritta all’Accademia di Belle Ar­ ti, dove frequento tutt’ora il biennio specialistico in Decorazione. All’inizio Ve­ nezia rappresentava per me un ripiego e invece si è rivelata un’occasione. Ho coltivato il mio inte­ resse per l’artigianato e con altri ragazzi ho aperto un negozio che si chiama Nerodiseppia: lì espongo i miei prodotti, illustrazioni, gioielli, magliette, oggetti d’arredo. L’artigianato mi permette di essere acces­ sibile a un pubblico vasto, meno elitario. Il mondo dell’arte è più difficile, in pochi ce la fanno. Certo, io partecipo sempre a concorsi e se un giorno mi proponessero una mostra in uno spazio importante non rifiuterei, però anche essere apprez­ zata dalla gente comune è una grande soddisfazione e l’artigianato mi dà questa possibilità. E poi la mia produ­ zione non è molto in linea con l’arte contemporanea: le mie opere sono libere, spontanee, estetiche, mentre oggi l’arte va più verso la concettualizzazione, si sta molto attenti ai significati che stanno dietro le creazioni. A me interessa molto il confronto con il pubblico però dipingo per un piacere mio, per una soddisfazione puramente estetica. Faccio fatica a spiegare il significato delle mie opere. Per me l’arte è un’attività ludica: mi diverto a fare ciò che faccio. E mi piacerebbe far conoscere il mio mondo a un numero sempre maggiore di persone, pubblicando un libro illustrato e aprendo un negozio­atelier tutto mio, dove la gente possa entrare e apprezzare i miei oggetti fantasiosi e colorati. Sto lavorando per realizzare questo sogno: il 1. gennaio 2013 ho aperto il mio negozio online, un primo passo che spero mi porti dove desidero arrivare.

CArLOTTA DI STEFANO Lei è una giovane artista e Guendi è la protagonista delle sue creazioni, un corvoballerina poetico e colorato. La sua arte è spontanea, ludica e immediata, lontana dai cliché contemporanei

testimonianza raccolta da Roberto Roveda fotografia ©Flavia Leuenberger


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cento e uno ritratti testo a cura di Sandro Brenni; fotografie ©Katja Snozzi

La nascita del comune Terre di Pedemonte, sorto dall’aggregazione dei comuni di Tegna, Verscio e Cavigliano, ha spinto la fotografa Katja Snozzi a realizzare una particolare ricerca iconografica che, al di là dell’indubbio valore artistico, rappresenta un contributo importante sul piano della storia umana e sociale del nostro territorio

Romano, 1949



È

di questi giorni l’apertura a Verscio della mostra fotografica di Katja Snozzi “Gente delle Terre di Pedemonte”. La mostra vuol essere un omaggio alla nascita del comune Terre di Pedemonte, sorto dall’aggregazione degli ex comuni di Tegna, Verscio e Cavigliano, sancita dalle elezioni amministrative svoltesi nella primavera di quest’anno. È appunto per sottolineare e celebrare questo evento che Katja Snozzi ha elaborato un progetto espositivo del tutto particolare, incentrato non già sulla nuova e in parte ritrovata unità politica comunale (fino al 17 settembre del 1464, Tegna, Verscio, Cavigliano, assieme ad Auressio, erano già un tutt’uno: costituivano infatti la “Vicinanza di Pedemonte”), bensì su uno spaccato di vita della realtà locale, espresso at-

traverso una serie di ritratti degli abitanti del nuovo comune che conta oggi 2621 abitanti. La mostra, aperta dal 9 agosto al 20 ottobre 2013 presso la Casa del Clown a Verscio, comprende 100 e una fotografieritratto di abitanti del neo-costituito comune pedemontano (un/una abitante di Tegna, Verscio e Cavigliano per classe d’età dal 1913 al 2013: una foto-ritratto per anno, dalla centenaria al neonato venuto al mondo poco tempo fa). Le fotografie esposte (tutte in bianco e nero, come quelle riprodotte nel presente reportage, e formato 40 x 50), sono riunite per altro in un catalogo introdotto da una prefazione di Claudio Guarda. Quest’ultimo, sottolineando i tratti comuni che legano tutte le persone fotografate (“Un’unica terra, una medesima radice, una stessa esperienza di vita alle

Ximena, 1918

Luisa, 1970

Aurora, 1922


spalle,…”), ricorda anche l’importanza del ritratto in quanto tale e non già come mera riproduzione tecnica delle fattezze di una persona (“… gli uomini hanno sempre cercato di lasciare un’immagine la più reale, ma al tempo stesso anche la meno banale possibile di sé, del proprio essere, soprattutto del proprio volto”). Il discorso fotografico che ci propone oggi Katja Snozzi, che conoscevamo soprattutto per i suoi reportage in terre esotiche, prescinde qui dai tratti drammatici dell’attualità quotidiana per soffermarsi, in linee volutamente sobrie, su realtà indigene e partecipative. Ma il tutto come è nato? È Katja stessa a raccontarlo: “Nel 2012 tutti qui parlavano in modo favorevole o contrario dell’aggregazione dei comuni di Tegna, Verscio e Cavigliano. Io, che ero una convinta sosteni-

trice della fusione, pensai che ciascuno, nei limiti del possibile e delle proprie competenze, dovesse fornire un contributo personale. Una sera, nel corso di uno spettacolo al Teatro Dimitri a Verscio, osservando un’attrice seduta su una sedia al centro del palcoscenico assolutamente spoglio, mi è nata l’idea: perché non riunire 101 persone (una per anno dal 1913 al 2013) dei tre comuni, fotografandole tutte sul palcoscenico, singolarmente, su una sedia o poco più, come l’attrice che stavo vedendo in quel momento? E intorno tutto nero, una sedia soltanto. Con il passar del tempo, l’idea ha cominciato a prendere forma. Ma dove trovare tutte queste persone? Cominciai a vedere se i tre comuni potevano darmi una mano fornendomi l’elenco degli abitanti con relativo anno di nascita. Sapevo che una parte delle persone che potevano entrare in linea di conto era contraria e una parte

Aline, 1986

Nadia, 1973

Axel, 1956


Leocard, 1995

Anja, 2009

Vasco, 2013

favorevole all’aggregazione, ma poco importa: le volevo tutte”. Sappiamo che l’idea piacque, sia ai comuni interessati, sia ai responsabili della Fondazione Teatro Dimitri (Masha Dimitri, attuale direttrice del Teatro, ha messo a disposizione il teatro stesso per le sedute fotografiche). Anche Dimitri si è espresso favorevolmente che, per la prima volta, si realizzasse una mostra fotografica nella vicina Casa del Clown. “L’idea – prosegue Katja Snozzi – era di fotografare tutti allo stesso modo: su un palcoscenico vuoto, una sedia soltanto. Volevo che le premesse e le circostanze fossero identiche per tutti”. Le persone fotografate sono state scelte “a caso”, ma assicurando un certo equilibrio: 51 figure singole femminili, 46 maschili e 4 coppie di gemelli. La maggior parte sono persone che abitano a Verscio, seguite, proporzionalmente, da abitanti di Cavigliano e di Tegna. Ci sono persone più o meno abbienti, intellettuali e operai, poco importa il colore della pelle o il colore politico, nonché, evidentemente, giovanissimi, adolescenti e anziani.

“Impressionante – è sempre la fotografa che parla – è stata la partecipazione della gente. Venivano singolarmente o in gruppo, ma la magia della ribalta faceva sì che tutti si «esibissero» come veri attori. In ogni caso, ho cercato di fotografare in rapide sequenze in modo che nessuno avesse il tempo di mettersi artificiosamente in posa. Volevo cogliere e raffigurare la persona esattamente com’era. Dei convocati, solo quattro non sono potuti venire al teatro; abbiamo trovato comunque una soluzione di ripiego a casa loro”. Katja Snozzi Nata a Locarno nel 1947, trascorre la sua infanzia e adolescenza tra il Kenia e la Svizzera italiana e tedesca. Frequenta a Zurigo il Centro studi di industrie artistiche (Sezione fotografia) e dal 1974 intraprende l’attività di fotografa. Tra i suoi numerosi lavori, pubblicati su giornali e riviste nazionali e internazionali, figurano importanti resoconti fotografici su guerre civili, sui terremoti e genocidi. Nel 1986 apre una propria agenzia fotografica a Berna e dal 1996 si occupa anche del settore multimediale. Oggi vive a Verscio. katjasnozzi.ch


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Come a casa Abbiamo incontrato lo chef Enrico Cerea, che con il fratello Roberto gestisce il ristorante pluristellato Michelin “Da Vittorio”, nella bergamasca. Cultori di una cucina semplice e genuina, anche i Cerea credono nella bistromania, una tendenza che sta conquistando l’Europa Tendenze p. 56 – 57 | di Stefania Briccola

L

a crisi e la globalizzazione hanno inevitabilmente sortito degli effetti nell’ambito della gastronomia e della cultura del cibo. La massima di Ludwig Feuerbach secondo cui “l’uomo è quello che mangia” casca a fagiolo per fotografare abitudini alimentari, gusti e mode connesse allo spirito del tempo. Si va infatti sempre più affermando in Europa la bistromania che vede diffondersi una cucina di qualità a prezzi contenuti. È una sorta di sogno accessibile; è come se un Escoffier o un Carême qualsiasi uscissero dalle reali cucine per vendere manicaretti e brioche nei quartieri e sulle piazze. La tendenza si traduce in una rivisitazione del vecchio bistrot parigino che ha fatto la fortuna di artisti e scrittori con menù a buon mercato.

Per una cucina “senza fusioni” Oggi la cucina spopola in televisione con programmi che lusingano cuochi in erba messi al cospetto di maestri ormai parte dello star-system, ma si parla ancora poco di quello che entra nel piatto e va sulla tavola. La globalizzazione ha lanciato la moda della contaminazione che impazza nei menù. A Enrico Cerea, pluristellato chef insieme al fratello Roberto del ristorante “Da Vittorio” a Brusaporto (Bergamo), abbiamo chiesto dove va la cucina oggi e se ha ancora senso parlare di tradizione. Sulla contaminazione ha le idee chiare e più che di “fusion” parla di “confusion”. Enrico Cerea ha una passione smodata per i dolci e il risotto. E a Ticinosette svela le regole d’oro per cucinare quello ”alla milanese”… Enrico Cerea, come si declina in pratica la bistromania? La crisi ha portato anche risvolti positivi come il tentativo di rendere più accessibile la cucina dei grandi nomi. La bistromania è una tendenza che ha contagiato molti chef blasonati e ultimamente anche noi. Infatti, apriremo a mesi un punto ristoro all’aeroporto di Orio (Bergamo) che propone menù a prezzi contenuti, visto il periodo contingente. Noi abbiamo pensato a chi viaggia e per questo vogliamo offrire qualcosa che ricordi il focolare e il calore della famiglia. Il riferimento è una cucina “come a casa” con piatti tradizionali rivisitati, ma che siamo facilmente riconoscibili al palato, di impatto diretto e non concettuali. Penso a

delle buone tagliatelle al ragù, alle lasagne, così bistrattate, allo stufato con la polenta, alla cotoletta alla milanese e alle verdure di stagione. Parlare di qualità significa rispettare i prodotti e le stagioni, una scelta che offre molti vantaggi. La globalizzazione ha portato nei piatti la contaminazione di tradizioni diverse. Come vede la moda della cucina fusion? La globalizzazione e l’abitudine di viaggiare influisce sui gusti. Chi va all’estero prova una cucina diversa dalla propria e quando rientra a casa cerca di adattare i singoli piatti o di rivisitarli. La cucina fusion che va molto di moda soprattutto nelle grandi città è più “confusion(e)” che fusion(e). Mi capita di vedere dei piatti che non hanno né capo né coda perché sono una miscellanea di tutto. Riuscire a realizzare un piatto “fusion” davvero valido è più difficile che farne uno tradizionale. È quasi impossibile trovarne uno che si rispetti in giro. Quale mentalità vince oggi in cucina? Essere legati al territorio e alla tradizione, avere buoni prodotti e riuscire a creare piatti validi che lascino anche solo un bel ricordo o la voglia di ritornare ai nostri ospiti. Il mio sogno è che i commensali possano trascorrere un’ora di gioia a tavola. Lei oggi è uno chef noto. Come vive il successo delle “tre stelle” Michelin? Sono il primogenito di cinque fratelli e fin dall’età di otto anni non mi sono dedicato ai vari hobby e agli amici perché dovevo aiutare mio padre Vittorio in cucina. Ricordo che prima di pranzare servivo ai tavoli del ristorante. I miei genitori mi hanno trasmesso l’amore per il lavoro e i valori della vita: il senso della fatica e del sacrificio senza i quali non arrivi a certi risultati. Non c’è niente di scontato e facile. Ma io non lavoro per i riconoscimenti, ma per dare gioia ai nostri ospiti. Io vivo per queste soddisfazioni, le altre arrivano da sole. Non nascondo che le “tre stelle” Michelin hanno rappresentato un passaggio molto importante che però costringe ad aumentare la soglia dell’attenzione ogni giorno per mantenersi a quel livello. Cerco di fare il mio lavoro con naturalezza e con amore.


Quali altri maestri ha avuto, oltre a suo padre Vittorio? Ho avuto la fortuna di avere un padre lungimirante, che mi ha mandato a scuola dai grandi chef in giro per il mondo. Anche se a quel tempo il nostro ristorante stava crescendo e il mio aiuto era importante. Con mio padre ho deciso dove andare a bottega tra l’Europa e l’America; da Roger Verger in Francia, da Sirio Maccioni a New York, da Ferran Adrià in Spagna. Devo il mio amore sviscerato per la pasticceria a due maestri come Igino Massari e Achille Brena. Tra le tappe fondamentali ricordo la cucina provenzale, colorata e fresca di Roger Verger e quella di Georges Blanc, che mi ha introdotto più nella classicità della tradizione francese con i suoi dogmi. Che cosa ha compreso della cucina francese nel suo apprendistato? Ho capito che i francesi si sono dati da tempo delle regole che noi italiani abbiamo adottato sempre dopo. Loro, per esempio, hanno creato la formazione delle partite in cucina per cui ognuno ha i propri compiti. Fortunatamente poi abbiamo recuperato terreno anche grazie ad alcuni locali storici che hanno dato una linfa nuova alla cucina italiana. Oggi abbiamo grandi cuochi che non hanno nulla da invidiare ai francesi. Me ne rendo conto andando in giro per il mondo. Dal suo punto di vista, quale tipo di comunicazione necessita l’alta cucina? Più che l’eccessiva esposizione mediatica che al giorno d’oggi sta facendo solo del male alla cucina è importante trasmettere

il senso del lavoro svolto. Uno può essere il cuoco migliore del mondo, ma se non c’è qualcuno che presenta al cliente nel modo giusto il piatto realizzato qualcosa va vanificato e perso. Nessuno parla del servizio in sala. Quali novità ci saranno al ristorante “Da Vittorio” aperto presso il Carlton di St Moritz? Quest’anno introdurremo delle lezioni di cucina e alcune serate a tema, dedicate ai piatti delle regioni italiane. Metti un giorno ai fornelli con Enrico Cerea mentre prepara il risotto alla milanese… ci sveli qualche trucco! Sono necessarie quelle piccole accortezze che si imparano solo se ci si esercita nella pratica. Ci vuole il colpo d’occhio. La prima fase è la tostatura: il riso deve piangere e fare rumore quando lo giri con il cucchiaio di legno. Poi c’è la completa evaporazione del vino che deve dare profumo, ma non acidità. Poi c’è il brodo, di carne o vegetale, che deve essere buono perché dà corpo al risotto. Alla fine c’è la mantecatura con una nocetta di burro. Fate attenzione alla cottura: il riso non deve essere al dente. Se quando si spezza il chicco si vede l’amido bianco, non va bene. Un piatto all’apparenza semplice ma che ha messo alla prova anche un maestro come lei… Certo, si immagini che ho fatto per tre anni consecutivi il risotto “espresso” alla milanese per quasi mille persone dopo la prima della Scala di Milano al 7 dicembre…


La lezione del ranocchio di Chiara Piccaluga; illustrazioni ©Stephanie Grosslercher

Fiabe 58

’estate è giunta e un gruppo di ranocchi, invogliato dalle belle e lunghe giornate, ha deciso di divertirsi, provando a fare dello sport. Ai ranocchi, si sa, piace molto correre e soprattutto saltare e non a caso il loro passatempo preferito è proprio “la corsa a ostacoli per arrivare allo stagno”. Si cimentano anche in gare improvvisate per godere appieno della vita e della loro agilità e forza vitale. Da molti anni poi, durante la prima notte di luna piena del mese di agosto, si disputa la più importante gara dell’anno alla quale partecipano più di mille ranocchi. Si tratta della “corsa alla torre”, una competizione molto attesa e anche fisicamente impegnativa. Da settimane i ranocchi si allenano, chi da solo e chi in gruppo, su e giù per le strade, sentieri e montagne, da mattino a sera per rinforzare i muscoli delle gambette e farsi il fiato. Il fatidico giorno è finalmente arrivato, i concorrenti sono pronti al via con le loro pettorine numerate e tutto il paese dei ranocchi si è riversato in strada per fare il tifo. L’obiettivo è arrivare in cima alla grande torre che si trova in fondo al paese e vince chi raggiunge l’apice per primo senza trucchi e senza inganno ma con impegno e determinazione. Tre, due, uno e la gara ha inizio… in realtà molti tifosi non credono possibile che i ranocchi riusciranno a raggiungere la cima della torre perché quest’anno le piogge abbondanti hanno reso i gradini della torre scivolosi e quindi si sente un vociferare poco incoraggiante con frasi del tipo: “Che pena! Non ce la faranno mai! Poveri ranocchi! Cosa pensano di fare!”. Influenzati da queste affermazioni poco incoraggianti, molti ranocchi abbandonano

la gara, alcuni desistono perché sfiduciati, chi prima e chi poco dopo, uno a uno lasciano, accostano o si fermano… tranne un ranocchio che punta dritto alla meta, non si lascia influenzare dalle continue voci che ora più che mai rimbombano nell’aria: “Non ce la farà mai! È inutile, non ce la farà mai!”. Passo dopo passo, gradino per gradino, il coraggioso ranocchio raggiunge la cima, alza la zampe al cielo e si appresta a ridiscendere. Un boato di gioia accompagna la sua vittoria e ad aspettarlo c’è molta gente che vuole congratularsi con lui. Sembra timido e riservato, apprezza le strette di mano del pubblico ma non si volta a ringraziare chi gli grida frasi del tipo: “Sei un eroe! Hai fatto una gara strepitosa! Sei fortissimo!”. Un ranocchio, gli si avvicina e per intervistarlo e chiedergli come ha fatto a concludere la prova, ed è allora che si scopre che il ranocchio vincitore è sordo! E questo spiega molte cose. Il ranocchio ha infatti vinto proprio perché, non potendo udire le voci pessimiste e di scoraggiamento, ha conservato la convinzione di farcela. Da quel giorno molti concorrenti e i ranocchi del pubblico hanno compreso che a volte è bene non dar retta alle persone che spesso hanno la pessima abitudine di essere negative… in tal modo derubano le migliori speranze che conserviamo nel cuore. Il sindaco del paese, dopo aver premiato il vincitore con una medaglia d’oro, si rivolge alla folla dicendo: “Ricordate sempre il potere che hanno le parole e preoccupatevi di essere sempre positivi. Siate sempre sordi quando qualcuno vi dice che non potete realizzare i vostri sogni! Credeteci, portate avanzi ciò in cui credete, senza farvi influenzare influenzare da chi vi scoraggia! Senza paure, senza rimpianti, ma con determinazione e costanza. E continuate a sognare!”.


La domanda della settimana

Alla luce dei gravi incidenti avvenuti di recente, in Svizzera e all’estero, vi sentite sicuri quando viaggiate in treno?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro mercoledì 14 agosto. I risultati appariranno sul numero 34 di Ticinosette.

Al quesito “Sareste favorevoli all’eventuale presenza nel nostro cantone di animali selvatici come orsi e lupi?” avete risposto:

SI

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NO

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Astri ariete Soddisfazioni da parte dei figli. Cambiamenti professionali. Scaricatevi con uno sport. Piuttosto aggressivi i nati nella seconda decade.

toro Desiderio di cambiare effettivamente le cose. Vita sentimentale in crescita per i nati tra la seconda e la terza decade. Non cedete ai rimpianti.

gemelli Grazie a Mercurio, forte intensificazione della vita sociale. Incontri durante una gita. Siate meno svogliati. Mangiate di meno.

cancro Evitate politiche attendiste: datevi una mossa!. Opportunità professionali per i nati tra la prima e la seconda decade. Bene il 13 e il 14.

leone Momento adatto per prendersi qualche soddisfazione. La quotidianità non vi pesa. Pensieri malinconici tra il 13 e il 14 agosto.

vergine Opportunità professionali grazie a Giove e Plutone. Proficue collaborazioni con le persone a voi più affini. Sentimenti di abnegazione.

bilancia Momento adatto per compiere azioni radicali. Giocate di attacco. Ferragosto segnato da un inaspettato exploit nella vita sociale.

scorpione Attenti tra il 13 e il 14 a non dire una parola di troppo. Non fatevi sopraffare dalle emozioni. Eventi karmici per i nati nella prima decade.

sagittario Scarso interesse verso le situazioni seriose. Vizi e stravizi possono essere più allettanti di una triste riunione di lavoro. Dieta più equilibrata.

capricorno Momento sentimentale favorevole per i nati nella terza decade. Favoriti gli incontri basati sulle affinità intellettuali. Bene tra il 13 e il 14.

acquario Mercurio e Saturno in aspetto disarmonico. Riposatevi di più. Rinnovato desiderio di provare antiche emozioni. Ricordi tra il 13 e il 14 agosto.

pesci Periodo favorevole grazie agli ottimi transiti. Ricchezza e fortuna finanziaria. Bene tra il 13 e il 14 agosto grazie agli effetti del transito lunare.


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La soluzione verrà pubblicata sul numero 34

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro mercoledì 14 agosto e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 13 ago. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Verticali 1. Film di successo del 1995 interpretato da S. Castellitto • 2. Un arnese del contadino • 3. Il Sodio del chimico • 4. Canto patriottico • 5. Il no del moscovita • 6. La fa dolere l’angina • 7. Dentina • 8. Preposizione semplice • 9. Lubrificano • 14. Speculare • 16. Le suona la ballerina spagnola • 17. Mangiano di tutto (f) • 20. Velivolo • 22. Arto pennuto • 23. La locandiera di Goldoni • 24. Le iniziali di Morricone • 28. Vocali in tresche • 32. Piccolo cervide • 35. Lo è il consenso totale • 37. Le cerca il poeta • 39. Nodo centrale • 41. Scalda e illumina • 43. Cela l’asso • 45. Il Paradiso perduto • 49. Articolo maschile • 51. Mezzo giro.

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Orizzontali 1. È detta anche San Pietroburgo • 10. Metallo radioattivo • 11. Cuor di cavallo • 12. Pari in coppa • 13. Preposizione articolata • 15. Il mostro di Creta • 18. Starnazza • 19. Grande stato asiatico • 21. Quello nero è un film di Vivarelli • 25. È variabile • 26. Mira al centro! • 27. Franz, compositore ungherese • 29. Produce more • 30. Il noto Marvin • 31. Il regno dei morti • 33. Ohio e Portogallo • 34. Gracida • 35. Un ufficio del disoccupato • 36. Serpe senza pari • 38. Pianta carnivora • 40. Il Ticino sulle targhe • 41. Scandaglio • 42. Coagulo di sangue • 44. Piccolo difetto • 46. Fausto, cantante • 47. Il Campeador • 48. I filtri dell’organismo • 50. Una delle Piccole donne • 52. Torna sempre indietro • 53. Marziani.

La soluzione del Concorso apparso il 26 luglio è: DISASTRO Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stato sorteggiato: Fiorenzo Albisetti via Pestalozzi 6 6830 Chiasso Al vincitore facciamo i nostri complimenti!


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Promettiamo a Jay di applicare entro il 2020 gli elevati standard svizzeri relativi al benessere degli animali anche ai nostri prodotti dall’estero. La Migros s’impegna sin da oggi a favore di un approccio verso gli animali attento al loro benessere e garantisce, in collaborazione con i suoi partner, tra cui la Protezione svizzera degli animali PSA, il rispetto entro il 2020 delle severe direttiva svizzere anche all’estero. Con questa e altre numerose promesse concrete ci impegniamo per la generazione di domani.

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