№ 37 del 13 settembre 2013 · con Teleradio dal 15 al 21 sett.
caTTiva maesTra?
vecchia, anacronistica, moribonda… e invece la Tv pare vivere una nuova giovinezza. Grazie al suo peggiore nemico: internet
C T · RT · T Z · .–
Photo by KEYSTONE | Gallery Stock | Morgan Norman
Basta provarlo: collocate semplicemente il vostro smartphone nello spazio indicato e attivate la fotocamera frontale.
Le inserzioni creano un legame tra cliente e prodotto. E con i media. Questo annuncio fa pubblicità alla pubblicità su giornali e riviste. Ogni anno l’associazione STAMPA SVIZZERA indice un concorso per giovani creativi. Anche questo lavoro ha vinto: è opera di Julia Bochanneck e Jan Kempter, agenzia pubblicitaria Scholz & Friends Schweiz AG. www.Questo-può-farlo-solo-un-annuncio.ch
Ticinosette n. 37 del 13 settembre 2013
Impressum Tiratura controllata 68’049 copie
Chiusura redazionale Venerdì 6 settembre
Editore
Teleradio 7 SA Muzzano
Redattore responsabile Fabio Martini
Coredattore
Giancarlo Fornasier
Photo editor Reza Khatir
Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55
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In copertina
Ultravisioni Illustrazione ©Bruno Machado
4 Arti Iperrealismo. Una realtà esagerata di iRina Zucca alessandRelli ............................ 8 Kronos Comunicazione. Le metafore del denaro di FRancesca Rigotti ..................... 10 Profili Werner Kropik. Viaggi in fuga di KeRi gonZato; Foto di ReZa KhatiR ................ 12 Mundus Media. Lupus in fabula di nicola de MaRchi............................................. 14 Luoghi Solo sabbia di MeRco JeitZineR; Foto di Flavia leuenbeRgeR ............................... 16 Vitae Patrick Fischer & Serge Pelletier di l. doMenichelli; Foto di R. KhatiR ............... 18 Graphic Novel #sentitoall’aeroporto di olMo ceRRi e Micha dalcol ....................... 20 Reportage Living in the U.S.A. testo e FotogRaFie di Flavia leuenbeRgeR ..................... 48 Fiabe L’anello di Karim di Fabio MaRtini; illustRaZioni di giovanni occhiuZZi ............... 56 Tendenze Moda e artigianato. Un cestino per borsetta di MaRisa goRZa................ 58 Astri ....................................................................................................................... 59 Giochi .................................................................................................................... 60 Agorà Televisione e internet. Strategie oblique
di
RobeRto Roveda ............................
Ultimi paradossi Nei giorni scorsi i media di tutto il mondo hanno diffuso le fotografie di alcuni militari americani con il volto coperto da un foglio di carta sul quale esprimevano il loro netto rifiuto di fronte alla possibilità di essere chiamati a combattere al fianco dei ribelli jihadisti e filo al-Qaida in Siria. Parallelamente – ma per motivazioni del tutto diverse, a partire dall’accorato appello di papa Francesco – politici, intellettuali e persone comuni in tutto il mondo hanno espresso, attraverso l’adesione a un digiuno, profondi dubbi circa un eventuale intervento statunitense nella sanguinosa crisi siriana. Se da un lato è difficile dare torto a quei soldati che hanno visto i loro compagni morire nelle guerre dei Bush e che sono stati addestrati a considerare tout court l’islamismo come un focolaio di potenziali terroristi, dall’altro è impossibile non tener conto dei richiami del pontefice. È infatti evidente che un intervento americano nello scenario della guerra civile siriana potrebbe innescare a cascata effetti imprevedibili anche alla luce della crescente instabilità politica, religiosa e istituzionale dell’intera regione e in particolare di paesi come Egitto, Tunisia, Iraq, Iran e lo stesso Libano. Senza dimenticare l’enorme ondata di profughi siriani che si sta già riversando sull’intera Europa, già messa a dura prova da oltre vent’anni di flussi migratori. Se si pensa poi al fatto che la jihad e il fondamentalismo islamico sono stati ampiamente sponsorizzati dagli Stati Uniti in
funzione antisovietica durante l’occupazione dell’Afghanistan da parte delle truppe di Mosca negli anni ottanta, il paradosso risulta ancora più cocente e la situazione attuale ancora più intricata. Per secoli, le iniziative delle diplomazie e delle agenzie di intelligence sono state ispirate dall’idea che “il miglior modo per scongiurare un complotto fosse quello di organizzarlo” (e la storia trasuda letteralmente di esempi a riguardo), ma oggi – nell’era di internet, della controinformazione dilagante e della oggettiva difficoltà a contenere i “segreti” (il caso Snowden è esemplare) e a verificare la realtà dei fatti –, è il caso di riconsiderare drasticamente questo tipo di approccio. La stessa questione legata all’uso delle armi chimiche da parte delle truppe governative di Assad appare confusa e numerosi media occidentali hanno avanzato l’ipotesi che i missili incriminati provenissero in realtà dalle fila dei ribelli (che ovviamente “qualcuno” arma e continua a rifornire). Se poi naturalmente fosse confermato l’utilizzo di armi chimiche da parte di Assad, spetterebbe alle Nazioni Unite far valere il diritto internazionale a prescindere dalla debolezza di un’istituzione tanto invocata quanto bistrattata. Infine, se fra gli obiettivi dell’intervento americano ci fosse anche quello di far rientrare il toro jihadista nel recinto (dopo averlo allevato ed esserselo trovato alle spalle), credo che la pacificazione del Medioriente resterebbe solo un’ipotesi remota. Buona lettura, Fabio Martini
Strategie oblique Televisione. Nell’era di internet e dei nuovi media sono in molti a recitare il de profundis per il mezzo di comunicazione simbolo del ventesimo secolo. La TV, però, pare tutt’altro che spacciata e si prepara, viceversa, a invadere con le sue produzioni tutto l’universo 2.0
di Roberto Roveda; illustrazione ©Bruno Machado
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a televisione, almeno ad ascoltare i discorsi di alcuni massmediologi, pare avere fatto il suo tempo. Ormai se si vuol essere al passo con i tempi, si deve dissertare di nuovi media, di internet, di Twitter, dell’ultima applicazione, già domani dimenticata. Il tutto condito, per i più snob, da quel pizzico di demonizzazione dello strumento televisivo che fa da contrappeso ai decenni in cui la TV è stata al centro – forse troppo al centro! – della vita, del costume e del divertimento. Nella realtà dei fatti la televisione sta tutt’altro che issando bandiera bianca di fronte alle nuove tecnologie della comunicazione. Piuttosto, si sta adattando. Nell’ultimo decennio abbiamo infatti assistito a una vera rivoluzione nel modo di concepire, realizzare e diffondere i programmi televisivi. Il decennio esplosivo In questi ultimi anni, la TV è passata dall’ “età della scarsità” a quella “dell’abbondanza”. Per quasi cinquant’anni siamo stati abituati in quasi tutti i paesi a una televisione limitata in termini di offerta, ma l’avvento della digitalizzazione ha permesso che l’offerta, sia negli Stati Uniti sia in Europa, si moltiplicasse rapidamente. La nascita di moltissimi canali televisivi appositamente studiati per un pubblico mirato ha ridefinito i confini della TV: non più esclusivamente generalista con pochi canali che tutti guardano, ma indirizzata a un pubblico selezionato. Così, se fino a 10-15 anni fa circa il 90-95% del consumo televisivo era rappresentato dai quattro o cinque canali generalisti, oggi quei canali rappresentano meno del 70%. In questo modo il pubblico ha a disposizione un’offerta molto più articolata che gli consente di accedere a una miriade di reti minori, spesso a carattere tematico.
Un altro aspetto che ha caratterizzato questo inizio secolo è sintetizzabile con uno slogan: “la televisione ha divorziato dal televisore”. Il motivo? Un tempo la dimensione domestica dell’apparecchio televisivo si identificava totalmente con il mezzo televisivo, mentre oggi la TV può essere fruita un po’ ovunque grazie alle varie possibilità offerte dalle nuove tecnologie. In pratica la televisione si “muove” con noi: è la “mobile TV”, cioè ricevibile attraverso smartphone e tablet usati soprattutto dalle nuove generazioni. E sono proprio i giovani a dettare nuove “regole” sul modo di guardare la TV: non sempre la visione avviene in diretta, molti preferiscono scaricarsi e scambiarsi una serie di successo per poi vederla in un altro momento. Parlare oggi di crisi della televisione non ha perciò molto senso, anzi Massimo Scaglioni, docente di Comunicazione televisiva all’università della Svizzera italiana e collaboratore storico di Aldo Grasso, ha parlato non a caso di “decennio esplosivo” in riferimento alle trasformazioni recenti della TV1. La grande certezza è che la TV si sta trasformando in qualcosa di diverso e di più elastico rispetto a un tempo, con un “dialogo” sempre più serrato con le nuove tecnologie e un continuo rinnovamento, anche dal punto di vista dell’offerta dei programmi. Un dialogo e un rinnovamento che però, almeno dall’esterno non sembra né facile, né acquisito come ci conferma proprio Massimo Scaglioni: “L’impressione è corretta. In generale spesso nell’evoluzione dei media la tecnologia precede l’evoluzione dei contenuti. Stessa cosa avvenne negli anni cinquanta e sessanta quando l’avvento della TV saccheggiò gli altri media (il teatro, in parte il cinema, l’avanspettacolo...) per mettere in campo generi specifici. Oggi, pur essendo già dentro al futuro della televisione, ci si trova a dover fare i conti con contenuti che non sono al passo con (...)
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“Nel prossimo futuro il trend in costante crescita della mobile TV sarà accentuato da quella che molti prefigurano come l’ennesima rivoluzione tecnologica che trasformerà completamente il piccolo schermo: le Smart TV, che permetteranno di accedere ai programmi dei canali digitali, ma anche di aprire App (applicazioni) e finestre come quelle del nostro PC”
l’evoluzione tecnologica. Vanno però fatti i dovuti distinguo, in primo luogo tra generi e tipologie di programmi”.
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Quale genere televisivo rappresenta per lei la migliore sintesi tra uso della tecnologia e innovazione dei contenuti? “Quello che a mio avviso è il genere della contemporaneità per eccellenza perché meglio di altri interpreta la cultura e la società d’oggi trovando un riscontro soprattutto tra le nuove generazioni, è rappresentato dalle serie TV americane. Su queste sono state fatte ottime operazioni di innovazione. Un esempio su tutti Lost, serie amatissima negli USA e di grandissimo successo anche da noi in Europa grazie a una costruzione originalissima del plot. Gli autori, infatti, hanno costruito il racconto non più racchiudendolo soltanto nel racconto televisivo, ma disperdendolo anche in una serie di media diversi. I grandi appassionati di queste serie reperivano, così, frammenti di racconto sul web, trovavano piccoli episodi, esperivano forme di interattività con la serie”. È assodato che negli Stati Uniti siano a un livello più avanzato nello sviluppo dei linguaggi interattivi. Esistono anche in Europa esempi simili? “Sicuramente i talent show. Penso a X Factor, programma televisivo che ha spopolato in Europa e soprattutto in Italia. Sono state compiute operazioni notevoli in termini di coinvolgimento del pubblico televisivo. Oltre al sito internet, che offre video e contenuti aggiuntivi rispetto a quanto va in onda in TV, e la possibilità di commentare e votare l’artista preferito, è stato messo in atto un interessantissimo esperimento d’interazione tra mezzo televisivo e industria musicale, dando la possibilità agli spettatori di scaricare i brani inediti presentati dai concorrenti in gara la sera stessa della messa in onda con iTunes e, per di più, a un costo esiguo (meno di un euro a brano). Va però detto che c’è ancora molto da fare nell’uso di queste tecnologie da parte di generi più tradizionali, come alcuni programmi d’intrattenimento e la fiction”. Rivoluzione tecnologica Nel prossimo futuro il trend in costante crescita della mobile TV sarà accentuato da quella che molti prefigurano come l’ennesima rivoluzione tecnologica che trasformerà completamente il piccolo schermo: le Smart TV, che permetteranno di accedere ai programmi dei canali digitali, ma anche di aprire App (applicazioni) e finestre come quel-
le del nostro PC. L’intera offerta di contenuti sarà dunque accessibile attraverso un solo apparecchio. Già da alcuni anni gli editori ufficiali hanno messo a disposizione tutta una serie di contenuti all’interno dei propri siti web (in Italia rai.tv oppure Sky Go per le reti di Murdoch) che attirano migliaia di spettatori. A ciò si somma la possibilità di visualizzare spezzoni e filmati estratti dai programmi e caricati su YouTube dagli utenti o dagli stessi network, se dispongono di un canale attivo. Si inizia dunque a parlare di catch-up TV come nuovo modello di televisione flessibile e personalizzabile, in cui i contenuti si consumano in fretta attraverso clip che riproducono momenti salienti dei programmi. Un modo di vivere la TV che è proprio delle giovani generazioni, “smanettone” e disabituate al vecchio modo di vedere la televisione, seduti comodi in poltrona. È il caso soprattutto delle serie TV americane, che negli ultimi anni hanno avuto un boom dei consumi tra i più giovani. Serial come “How I met your mother” e “Big bang theory” (e prima ancora “Lost” e “Gray’s Anatomy”, solo per citare le più celebri) sono seguiti dai ragazzi di tutta Europa che, per non aspettare la messa in onda delle reti televisive nazionali, “divorano” le puntate su YouTube o le scaricano da internet in lingua originale. Basta guardare poche inquadrature di questi – spesso sofisticati – prodotti culturali per capire che hanno tutti gli ingredienti per catturare l’attenzione del popolo dei nativi digitali: linguaggio innovativo, emozioni e continui colpi di scena, un racconto complesso e coinvolgente che si avvale di continui flashback e flashforward in grado di sollecitare fantasia e ragionamento. Insomma, la TV cambia linguaggio e soprattutto tecnologia, come ci conferma Andrea Bellavita, ricercatore in Teorie e tecniche della comunicazione di massa all’università dell’Insubria, a cui abbiamo rivolto alcune domande. Dopo che le Smart TV saranno entrate nelle nostre case che tipo d’innovazione ci aspetta? “In pochissimi anni le vecchie televisioni saranno del tutto sostituite dalle Smart TV che potranno essere appese all’interno del salotto di casa grazie al caratteristico schermo piatto. Il sofisticatissimo hardware permetterà l’integrazione di funzioni e servizi legati a internet all’interno di apparecchi televisivi. Per esempio, lo spettatore potrà vedere sia il programma TV prescelto sia accedere a YouTube come da un computer. La caratteristica innovativa delle Smart TV è infatti proprio questa:
che dovranno rispondere all’editore-sponsor. Questo perché a tutt’oggi la TV rimane il terreno più fertile per il marketing pubblicitario. Di contro, il web fatica ancora un po’: non è stato sinora trovato un modello di business efficace per valutare – e quindi far rendere – un’inserzione pubblicitaria su internet. In sostanza, i proventi derivanti dalle pubblicità in rete sono ancora troppo bassi e difficilmente quantificabili”.
Gli interpreti del serial TV “How I met your mother”
con il collegamento alla rete, si può usufruire di servizi online tipicamente destinati ai computer, quali navigazione internet, web TV, video on demand, multimedialità, servizi in streaming, social network, oltre alla normale offerta televisiva delle reti nazionali e del digitale terrestre. È un’ulteriore rivoluzione tecnologica sia in termini d’interattività sia di competitività. L’offerta, e dunque anche la possibilità di scelta, sarà tutta lì, davanti allo spettatore”. Quali altre innovazioni ci attendono? “Il sistema televisivo sarà rivoluzionato anche nel metodo di rilevazione degli ascolti. Fino a oggi, in tutto il mondo, esso si basa su rilevazioni a campione che indicano solo se la TV è accesa in quel dato momento, ma non ci forniscono altre informazioni. Nel mondo del digitale, invece, cambia radicalmente il paradigma: posso fare una rilevazione quantitativa contando a uno a uno gli accessi. Per esempio, si possono conoscere e vedere in tempo reale il numero di visualizzazioni di un video su YouTube e verificare anche il tempo di permanenza”. Queste innovazioni che permettono di monitorare in tempo reale il pubblico televisivo aprono nuovi scenari anche sul fronte del rapporto tra TV e pubblicità... “Certo, cambierà il modo di fare pubblicità. Se finora il brand, ovvero la società (o le società) che materialmente si occupa delle inserzioni pubblicitarie, gestiva solo gli spot dei vari programmi, pian piano assumerà un ruolo di controllo assoluto della programmazione televisiva. Il brand diventerà l’editore pagando per l’intera trasmissione, serie o programma che andrà in onda. Ciò significherà dettare regole precise anche per i contenuti
Quale futuro per il servizio pubblico? Da quanto detto sinora è evidente che il “de profundis” per la TV è lontano da venire, ma rischia di essere vicino per i sistemi televisivi tradizionali e interamente generalisti. In uno scenario come questo ha ancora senso parlare di servizio pubblico televisivo, come è oggi inteso nel nostro paese? Massimo Scaglioni a riguardo non ha dubbi: “Nonostante le innovazioni tecnologiche e la forte frammentazione dell’audience, credo che la funzione sociale e culturale della televisione pubblica sia oggi più viva che mai. Naturalmente ogni servizio pubblico nazionale, da quello inglese a quello svizzero, ha cercato di rispondere in modo diverso alla naturale nascita delle TV commerciali e all’avvento della deregulation. Questo, però, non ha mai messo in discussione la sua importanza: la TV pubblica rimane l’agorà, la piazza dove la società si riunisce a discutere e il luogo da cui tutti passano. Un segnale ci viene dal fatto che sopravvivono ancora riti come quello del TG della sera. Pur essendo bombardati da migliaia di notizie rimane – non solo in Svizzera ma in tutta Europa – un’abitudine consolidata e un’occasione di incontro-confronto famigliare. In particolare, la TV della Svizzera italiana continua a produrre contenuti di alto valore culturale e non ha mai perso la sua grande capacità di fare informazione. Un’informazione che non si limita al cortile di casa, ma che conserva il suo respiro internazionale”. Quali suggerimenti per il futuro dei palinsesti della TV generalista? “Continuare a fornire una programmazione culturale (ma non solo) di alta qualità e capace di rinnovarsi, evitando linguaggi polverosi e sorpassati. Perché la funzione del servizio pubblico è anche quella di fare cultura, da intendersi, però, in senso più ampio, non solo come approfondimenti culturali, ma come tutta una serie di prodotti dell’industria culturale: per esempio, fiction più complesse, paracinematografiche che dialoghino con i media per avvicinare i giovani. La TV del futuro dovrà tener conto dei mutamenti della società, generando condivisione e discussione, e offrire un palinsesto variegato, in cui tutti – o quasi – possano riconoscersi”. Tirando le somme sul futuro della televisione emerge un concetto semplice: solo la capacità di reinvertarsi può tutelare la sua sopravvivenza. Serve confrontarsi e interfacciarsi con l’offerta crescente delle web TV, con i brand pubblicitari che svolgeranno sempre più il ruolo dell’editore. Alla TV generalista spetta il compito di dialogare con i nuovi media televisivi per ridefinire il suo ruolo di editore multimediale. Se così sarà la televisione avrà ancora lunga vita.
note 1 Massimo Scaglioni, La TV dopo la TV. Il decennio che ha cambiato la televisione: scenario, offerta, pubblico, Vita e Pensiero, 2011.
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Una realtà esagerata L’iperrealismo continua a esercitare un fascino magnetico sul pubblico. Ma che cosa c’è di così irresistibile in un’opera iperrealista? L’effetto su chi guarda è certamente intenso. Che l’opera osservata piaccia o no è un problema secondario: che faccia sussultare è il dato più interessante e da analizzare di Irina Zucca Alessandrelli
Il “più vero del vero” è una sorta di provocazione. Il con-
fronto che si innesca tra quello che conosciamo e quello che l’opera riproduce è immediato e la sensazione che ne scaturisce è potente. È come osservare una versione del vero, intensificata al massimo grado. Questo vero “espanso” può anche mettere a disagio, ma nella maggior parte dei casi, attrae l’osservatore come una calamita. Per quale ragione, prima di capire se ci piace un’opera iperrealista, ne veniamo catturati?
Arti 8
stesso tempo, amplifica quello che dalla realtà ci aspettiamo in modo da renderla confortante e confortevole.
Iperrealismo, fotorealismo e superrealismo Alla fine degli anni sessanta, negli Stati Uniti cominciarono a formarsi gruppi di pittori che raffiguravano oggetti di uso quotidiano e scene di vita comune, partendo dalla fotografia. Una mostra itinerante fa il punto sui maestri americani dell’iperrealismo in pittura come Richard Estes, John BaeEmulare la realtà der, Robert Bechtle, Chuck Close2, e Nel saggio Lo scambio simbolico e sulle generazioni europee fino a oggi la morte1 Jean Baudrillard, filoso(la prossima tappa, dal 20 novembre fo e sociologo francese morto nel 2013 al 30 marzo 2014, si terrà presso 2007, affermava che nella società il Birmingham Museum and Art Galcontemporanea, satura di informalery). Chuck Close (americano, 1940), zioni e bombardata dalle immagini i cui dipinti sono esposti nelle più (e pensare che all’epoca non esisteva importanti collezioni private e museancora internet), la realtà viene ricoali di tutto il mondo, è forse uno dei nosciuta solo quando è riprodotta più noti esempi del genere chiamato con una simulazione. Il filosofo deanche fotorealismo o superrealismo. La finisce questa realtà, percepita attraproduzione di Close, cominciata alla verso un’esperienza mediatica, come fine degli anni sessanta, si caratterizza “iperrealtà”. L’emulazione sistematica per ritratti in bianco e nero su scala di ogni dettaglio del reale dà vita a monumentale. Il suo primo lavoro di questa sorta di realtà concentrata, questo tipo fu il suo autoritratto in Il rocker Lou Reed in un dipinto di Chuck Close riconosciuta solo perché riprodotta in bianco e nero del 1968. Partendo da una simulazione. L’iperreale ottenuto con una duplicazione una fotografia, lo divise in riquadri, sovrapponendovi un meticolosa del reale, attraverso un mezzo riproduttivo come reticolato con lettere e numeri. Poi, Chuck Close riprodusse la pubblicità o la fotografia, sostituisce così la realtà. fedelmente ogni parte suddivisa in formato murales con Al di là di questa percezione particolare della realtà, i confini pittura acrilica. tra realtà e immaginazione sono totalmente offuscati. Da un Va sottolineato che, da parte di Close, non c’è un dichiarato altro punto di vista, Umberto Eco nel suo Viaggi nell’iperrealtà intento realistico perché il suo lavoro, pur offrendoci ogni (Bompiani, 1977), tra musei delle cere e parchi-attrazioni singolo dettaglio di un viso, lo presenta così amplificato americani, aveva parlato di momento storico in cui la realtà da risultare innaturale. L’effetto, da una certa distanza, è non esiste più, e l’autenticità non è più storica, ma “visiva”. quello di una fotografia ingrandita. Avvicinandosi alla tela, Essendo l’unica realtà possibile visivamente mediata, ogni co- ogni minimo particolare del viso appare come sotto la lente sa che appare reale finisce per esserlo. In luoghi come Disney d’ingrandimento, quindi molto lontano da quello che si World, per esempio, lo spettacolo offerto ai visitatori non si percepirebbe a occhio nudo nella realtà. esaurisce con l’imitazione della realtà, piuttosto la sostituisce con un nuovo tipo di realtà più appagante, in cui la foresta La società allo specchio artificiale e il paesino di montagna sono ricostruiti con una Negli stessi anni, molti pittori si sono focalizzati su scene di logica da sogno realistico, molto più spettacolare del vero. vita quotidiana americana e sugli oggetti che la rappresenUn appagamento particolare caratterizza la fruizione della tavano: le auto dalle superfici lucide e riflettenti, cibi indurappresentazione iperrealistica. L’iper-reale gratifica perché striali in vendita sugli scaffali dei supermercati o baracchini semplifica i troppi stimoli che riceviamo dalla realtà e, allo di hot-dog dalle lamiere argentate. Spesso i dipinti venivano
La ricerca del confronto A distanza di quarant’anni dalla nascita del genere, l’interesse del pubblico per questa iper-realtà, declinata in diversi mezzi e stili, rimane altissimo. Una recente dimostrazione è la mostra di Ron Mueck (australiano del 1958, inglese di adozione), ora prolungata di oltre un mese alla Fondazione Cartier di Parigi (fino al 27 ottobre). Sarebbe semplicistico definire la sua opera iperrealista, ma di certo non si può dimenticarne la matrice. Le sue figure umane sono fedelissime riproduzioni dal vero in scala micro e macro dall’effetto straniante. Può capitare che lo spettatore, accanto a questi personaggi, si senta come un intruso in una scena di vita altrui. Questa sensazione e il desiderio di avvicinarsi in modo incontrollato all’opera, quasi a constatare le doti veristiche dell’artista, sono tutt’ora alla base della fruizione dell’opera iperrealista.
Caduta dei capelli … Capelli deboli … Unghie fragili …
... possono essere provocati dalla carenza di biotina.
aiuta ad eliminare questo stato di carenza. Lo sviluppo di capelli e unghie sani Cellule specializzate (cellule epidermiche) nella matrice dei capelli , rispettivamente delle unghie si riproducono per scissione cellulare e si spingono lentamente verso gli strati cutanei superiori . Maturando, formano la proteina filamentosa cheratina, elemento costitutivo principale di capelli e unghie. La cheratina conferisce a capelli e unghie resistenza. Così agisce la biotina La biotina agisce sulla moltiplicazione delle cellule matrici di capelli e unghie , favorisce la formazione di cheratina e ne migliora la struttura.
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note 1 Precisamente nello scritto L’iper-realismo della simulazione, pubblicato per la prima volta in francese nel 1976. 2 Si veda anche il bel contributo “L’iperrealismo dalle origini a oggi” di Gianluigi Bellei, in Azione n. 21, 21 maggio 2013 (ndr.)
Leggere il foglietto illustrativo.
Distributore: Biomed AG, 8600 Dübendorf www.biomed.ch
realizzati proiettando con diapositive le immagini fotografate direttamente sulla tela consentendo all’artista di ottenere incredibile precisione di dettagli pittorici, tanto da rendere la stessa superficie simile a quella di una fotografia. Quello che può, inizialmente, sembrare un tentativo di riproduzione della realtà, si rivela, in seguito, essere la creazione di una nuova realtà, unicamente visiva, focalizzata su determinati dettagli da tutti riconoscibili. Ancora una volta, quindi, l’iperrealismo finisce per “semplificare” la confusione visiva del mondo contemporaneo, riducendolo a poche immagini “tranquillizzanti”, riconoscibili come familiari, prese da un’unica visuale. Un esempio iperrealista, in ambito scultoreo, può ritrovarsi nella produzione dell’artista americano Duane Hanson (1925–1996) a partire dagli anni settanta. Sicuramente Hanson, pur essendo legato alla pop art, può essere considerato una sorta di padre di questa corrente che non ha confini geografico-temporali né teorici, né un vero e proprio inizio (e tanto meno una fine, visto che ancora oggi vi sono artisti iperrealisti). I suoi personaggi in cera a grandezza naturale, turisti con la camicia hawaiana e la macchina fotografica, o donne obese con il carrello della spesa e le borse dello shopping, colpiscono per la verosimiglianza dell’incarnato e del colore dei capelli. Questi personaggi alienati mostrano la società allo specchio, in un certo senso, sono quello che non vogliamo vedere. Allo stesso tempo, però, le persone comuni, che Hanson costruiva tramite calchi, con parti del corpo ottenute da persone diverse, riacquistano una loro dignità, per essere state scelte. L’artista aveva affermato di non volere duplicare la vita, piuttosto di occuparsi dei valori umani che le sculture rappresentavano. Scegliere una parte per far riflettere sul tutto, era il modo di Hanson di focalizzare l’attenzione su un aspetto della realtà. Le sue persone ordinarie rimandano alla società americana dell’epoca, soffocata dal consumismo imperante, alla ricerca dell’ideale “american way of life”.
Le metafore del denaro L’uso di metafore tratte dall’economia oppure, all’opposto, da ambiti diversi per parlare di denaro è ormai parte della nostra comunicazione. Ma quali valori trasmettono tali immagini? E cosa spiegano del nostro rapporto con il denaro? di Francesca Rigotti
Kronos 10 Banconota da 100$ con l’effige di Benjamin Franklin; immagine tratta da lowesforpros.com
Sono molteplici gli ambiti del linguaggio del mondo contemporaneo in cui dominano metafore e immagini derivate dall’economia. Viaggiatori in ferrovia e pazienti di studi medici sono ormai chiamati “clienti”. Nelle università, i capi dipartimento sono costretti a valutare output e impact per giudicare la qualità del lavoro scientifico, mentre agli studenti si assegnano “debiti” e “crediti” che suggeriscono l’equivalenza tra sapere e denaro, oltre che tra fede (“credere”) e denaro. Allo stesso tempo, si parla del denaro continuando a usare antiche metafore mutuate a loro volta da altri contesti: quello della crescita organica (il “frutto” del denaro), per esempio, ma soprattutto quello dell’acqua (il denaro “liquido”). Lo scambio è dunque reciproco, e nel caso delle immagini e metafore che l’economia ricava da altri linguaggi, non certo recente, anzi. Guarderemo dunque a questi scambi di significati, domandandoci quali valori trasmettono tali immagini e soprattutto che cosa cercano di dirci in merito al nostro rapporto con il denaro. Il tempo è denaro Gli elementi più preziosi nella nostra vita hanno in comune una metafora: quella di liquidità. Il tempo e il denaro, ma anche il potere e la parola “colano”, circolano: come il sangue, come l’acqua. Parleremo in particolare delle metafore che modellano il nostro immaginario – in relazione agli elementi di tempo, potere, parola e moneta – sui preziosi
liquidi appena citati: prevalentemente sangue e acqua. Noi accettiamo naturalmente le immagini della fluidità e del moto del tempo – cominciamo da qui, dal tempo, perché tutto l’essere si svolge nel tempo. Il tempo – da come ne parliamo – si muove nello spazio, in avanti e all’indietro, passa, cammina, corre, vola. Espressioni come la rapidità e la velocità del tempo, un intervallo di tempo, la lunghezza o la brevità di un periodo, la profondità del passato, le altezze del futuro, la distanza, la lontananza e la prossimità di un evento, la linea retta del tempo, la semiretta del futuro, il punto del presente e così via appartengono propriamente a un contesto spaziale-geometrico che ci presenta un tempo in movimento. Gli eventi cadono o precipitano come dall’alto di una cascata; espressioni come mare della storia o fiume del tempo, mostrano tutte come perfettamente adeguata alla comprensione l’immagine di un tempo (e di un denaro), oltre che mobile, acquatico e fluente. Del resto il tempo è denaro, affermava Benjamin Franklin, l’inventore del motto. E lo è per due ragioni (magari non proprio ragionevoli): perché entrambi sono preziosi e perché entrambi sono fluidi. Anche il potere viene presentato come fluido o liquido, anzi come il liquido per eccellenza, l’acqua, che zampilla e serpeggia. Lo (di)mostrano termini come “fonte” o “emanazione” del potere, che evocano l’idea di una sorgente le cui acque vanno a precipitare da un dislivello formando una cascata.
“Ottima cosa è l’acqua” Prezioso e circolante è dunque il denaro, ma è questo l’unico messaggio che queste immagini ci trasmettono? No. Esse presentano anche, ecco il punto che riprendo dall’inizio, una sorta di condizione naturale delle faccende economiche; per fare un esempio, ai nostri giorni l’elevato tasso di disoccupazione. Infatti ciò che è naturale è considerato, come tutte le cose naturali, buono: buona e preziosa è l’acqua, “áriston mèn hýdor”, ottima cosa è l’acqua – affermava il poeta lirico greco Pindaro, vissuto tra il VI e il V sec. a.C., nel primo verso delle Olimpiche –, buono e naturale è il frutto del ventre. Buono è ciò che è naturale, buono o per lo meno inevitabile: la naturalità emerge nelle metafore acquatiche e di crescita che vengono usate per parlare del denaro ma non vi è niente di naturale in molti fenomeni economici come l’alto livello di disoccupazione che osserviamo oggi. Le immagini, anche le immagini verbali come le metafore, non sono oggetti neutri, anzi molto spesso hanno la capacità di condizionare fortemente la nostra percezione della realtà. Grazie alla similitudine attribuitagli con l’acqua, il denaro viene chiamato a far parte della natura, e chi oserebbe mai contrastare la natura? La natura dell’acqua è qualcosa di bio-
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Il denaro è liquido È comune per noi parlare del denaro impiegando termini metaforici provenienti dal campo acquatico: il denaro contante è liquido, i conti sono correnti, i capitali si congelano, la moneta circola. La dottrina degli apologeti della disuguaglianza, che sostiene che lasciare più denaro a chi sta in cima alla scala sociale avvantaggia tutti, è detta “teoria dell’effetto a cascata”; se il valore delle ipoteche è inferiore a quello nominale, si dice che “è finito sott’acqua”; il valore immobiliare “evapora”, il mercato è a rischio di “volatilità”; dopo l’esplosione della “bolla” immobiliare molti proprietari di case sono finiti “sott’acqua” (ossia con un debito superiore al valore delle loro abitazioni); e che dire delle “iniezioni di liquidità”, delle “inondazioni di liquido”, dell’“evaporazione” del valore ecc.? Tutto questo si connette come abbiamo visto a quel più ricco contesto analogico che comprende tempo/potere e tempo/denaro; potere/denaro; tempo/parola; parola/denaro; potere/parola, tutti collegati in base ai caratteri di preziosità e liquidità provenienti da acqua, sangue ecc. L’idea del fluire, comune ai quattro elementi, evoca il carattere di elevata mobilità di ciascuno di essi. Tempo, denaro, potere, parola sono mobili e attivi, generatori di scambi e spostamenti, strumenti di comunicazione e mezzi di circolazione. In più i liquidi prescelti per i paragoni: acqua, sangue, sono liquidi preziosi per la vita, indispensabili e “circolanti” entrambi.
logicamente primordiale, di buono; in più l’acqua è buona, ottima, anzi è indispensabile per la vita. Tramite l’immagine dell’acqua si attribuisce al denaro l’autorevolezza che promana dalla natura, la necessità biologica, l’inevitabilità di quella “discesa a cascata” dai ricchi ai poveri (?) che precipita da un luogo avvalorato come è l’alto, ove sta tutto ciò che è maggiore e importante. Queste immagini, che evocano una alta naturalità, sembrano confermare la posizione di quanti non vogliono che i governi inizino a porre rimedio ad alcune deviazioni del sistema economico lesive degli interessi dei molti e protettrici di quelli dei pochi. Potrei concludere proponendo un nuovo campo metaforico, diverso da quello della liquidità, magari da me inventato, per parlare del denaro: si potrebbe infatti pensare che mentre la modernità è avanzata in senso economico, tecnologico e anche sociale, il linguaggio sia rimasto indietro e occorra dargli una spintarella, proponendo nuove immagini per moderni contesti. Non lo farò perché non credo che funzionerebbero: temo che la metafora costruita a tavolino “mancherebbe dell’elemento che la retorica classica conosceva bene, l’enàrgeia, l’evidenza, lo splendore della visione vivida e immediata” di cui parla Maurizio Bettini (in Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, 2011). Temo che metafore studiate appositamente per modificare la percezione di determinati fenomeni suonerebbero false e artificiali e godrebbero di scarso successo. O forse, lo dico soltanto perché la mia povera immaginazione non mi permette di inventare nuove metafore e nuove immagini per il denaro.
Comitato apartitico SÌ alla legge sul lavoro Laupenstrasse 2, 3008 Berna
Ecco che la metafora della fluidità ci apre nuove prospettive per comprendere tali fenomeni: tempo, denaro, potere, parola sono unificati dalla fluidità e dalla preziosità, dal loro valore. Il tempo è denaro, la parola è potere, il potere è denaro perché tutti sono preziosi ma soprattutto perché tutti sono fluidi come acqua, come sangue. Abbiamo già parlato della fluidità del tempo e del denaro e del potere: ma fluida è anche la parola – il mezzo di comunicazione per eccellenza – che versiamo come da una caraffa colma: fiumi di parole, cascate di vocaboli, rivoli di aggettivi, torrenti di invettive.
Roberta Pantani, Consigliera nazionale Lega TI:
«Alle due del mattino, le commesse possono vendere un cervelat, ma non una luganighetta. Fermiamo questa burocrazia inutile!» Il 22 settembre
LEGGE SUL LAVORO
SÌ
Viaggi in fuga
Quando si racconta la vita di un uomo come Werner Kropik è difficile trovare un inizio e una fine. La sua ricca esperienza lo circonda di un’aura carismatica, che pare più intensa in questo caldo pomeriggio d’estate a Lugano di Keri Gonzato; fotografia ©Reza Khatir
Siamo a casa di Werner Kropik, un nido appollaiato tra
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i palazzi di Lugano. Si tratta di un luogo emblematico perché è qui che egli torna dopo ogni viaggio. È un nido confortevole, essenziale e allo stesso tempo colmo di racconti, contenuti negli oggetti che lo popolano: un’arma tibetana, una statuetta fallica indonesiana, una lampada dei desideri indiana e via così. Ogni casa sussurra segreti su chi vi abita… “Per me l’arredamento non è mai stato una preoccupazione, sono interessato all’essenza della vita piuttosto che ai fronzoli”, dice Werner. Ha cominciato a ricercare questo valore intrinseco della vita quando, verso i 18 anni, è partito dalla sua comoda casa viennese per il grande viaggio iniziatico. Quel primo assaggio dell’altrove gli entra dentro in profondità, alimentando un desiderio di scoperta che non lo lascerà mai. A partire da quel giorno, trasformatosi in un moderno avventuriero, ha esplorato alcuni degli angoli più remoti del globo. Ancora oggi, il suo viso abbronzato vibra mentre parla di viaggi presenti, passati e futuri. Ad accoglierlo, al rientro, c’era sempre il suo rifugio che egli ama molto “soprattutto per il terrazzo sul tetto, con una vista senza limiti che ti dà un senso di libertà”. Mi confida che è un sollievo partire con la consapevolezza di poter sempre tornare in Ticino, un luogo che ama per la presenza di una natura forte e magnifica. “Molte volte, dopo viaggi particolarmente impegnativi, sono stato davvero felice di rientrare”, spiega. “Il viaggio spesso non è un’esperienza di per sé piacevole, ci confronta con situazioni faticose e scomode. Ciò che mi spinge ad andare in giro è la voglia di entrare in contatto con altri modi di vivere per poi poterli raccontare”. Un luogo da cui partire “Il mio modo di girare è sempre stato slegato dai percorsi turistici comuni, lì non trovi niente. Anche se vai in capo al mondo, se mangi all’Hilton e visiti soltanto i luoghi indicati dalle guide hai una visione limitata e distorta della realtà”, spiega tranquillo. “Io mi muovo a piedi, in bicicletta, a bordo dei piccoli bus locali ed è proprio lì che, senza che io l’abbia previsto, incontro la vita vera: una celebrazione, degli uomini che litigano nel mezzo di un mercato, una famiglia a tavola”. In quei momenti allora, Werner Kropik accende la sua piccola telecamera e, discretamente, riprende. A partire da queste perle poi – proprio come quando lavorava come orefice – crea delle collane di immagini: preziose testimonianze antropologiche di modus vivendi che, in molti casi, stanno per sparire. Si tratta dei documentari che
ha iniziato a produrre nel 1995, dopo un lungo viaggio in bici che l’ha portato fino alla Cina… “Sono affascinato dalle realtà ancestrali che ormai sono in via d’estinzione, a causa del fenomeno che io chiamo globanalizzazione”, spiega, “che sta inghiottendo il mondo intero e che porta tutti a mangiare le stesse cose, a indossare i jeans piuttosto che gli abiti tradizionali e via dicendo: diventando tutti uguali, poco a poco, si stanno perdendo le particolarità che distinguono le culture”. Werner Kropik avverte visceralmente la necessità e l’importanza di viaggiare per catturare e documentare le testimonianze della ricchezza culturale, che per molto tempo ha contraddistinto la vita sulla terra e oggi sta sparendo. La vera età è scritta negli occhi Nato nel 1942 a Vienna, Werner Kropik sulla carta ha 71 anni, ma il blu guizzante dei suoi occhi attesta l’energia vibrante di un ragazzo. Questo spirito si sprigiona dallo sguardo e si scalda con il sorriso, che si apre mentre, assieme al fotografo Reza Khatir, parla di vite, morti e miracoli vissuti durante i numerosi viaggi in Medioriente. “Una volta, eravamo accampati per la notte in un’area remota della Siria quando abbiamo visto avvicinarsi un gruppo minaccioso di uomini con la barba lunga”, rievoca Werner; “la situazione non prometteva bene ma, quando hanno capito che eravamo degli innocui viaggiatori, hanno finito per condividere il loro cibo con noi”. Mentre i due uomini parlano, dimostrando una sincera complicità io, con orecchie curiose, ascolto… Nonostante la vita spericolata che conduce, mi sorprende per la normalità e la pacatezza con cui si racconta: “non mi considero coraggioso per i viaggi che faccio, basta saper interpretare le situazioni per non mettersi in pericolo”. Con un fare rilassato, gli occhi di Werner Kropik vanno alla ricerca di ciò che si nasconde tra le curve del quotidiano, scovano quello che spesso non viene detto, dandolo per scontato, ma che in verità nasconde il ritmo del vivere. “A me, prima di tutto, interessa vedere oltre quello che lo sguardo addormentato non nota più”, conferma questo osservatore del mondo. Il sesto senso dell’artista Mentre parliamo il mio sguardo vaga su una parete piena di quadri, guardando più attentamente vedo che sono firmati Kropik, sono molto belli… Si tratta per lo più di nudi femminili, non gliene chiedo conferma ma deduco che queste forme sinuose alludano a un’altra delle passioni dell’avventuriero. “Il mio percorso è partito con l’Accademia
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Werner Kropik sul terrazzo della sua casa di Lugano
d’Arte di Vienna che poi mi ha portato a lavorare come orefice proprio a Lugano. Dovevo restare soltanto un anno ma poi, come spesso accade nella vita, le cose cambiano ed eccomi ancora qua”. La pittura, per Werner Kropik… “È una passione che non mi ha mai lasciato, è una necessità che sento e un piacere che coltivo”. Mi racconta che da qualche tempo, una volta alla settimana, si ritrova con un gruppo di cinque amici per dipingere nel suo appartamento. Un’immagine che mi colpisce al cuore, la trovo di una rara delizia bohémien. Questa sensibilità artistica tocca anche i suoi documentari che, oltre a essere delle testimonianze antropologiche sono anche opere cariche di poesia. Non c’è dubbio, Werner Kropik è nato con quel sesto senso di cui solo i creativi sono provvisti, che gli permette di vedere
oltre allo scontato e il banale. Un senso che lo rende capace di trascendere la realtà e di cogliere una sfumatura poetica anche nelle situazioni più difficili. “Sono convinto che ognuno abbia delle storie interessanti da raccontare”, afferma. Secondo lui, i giovani dovrebbero sfruttare meglio le fantastiche possibilità della tecnologia di oggi per condividere queste storie: “Tutti dovrebbero prendere in mando una piccola telecamera e condividere così la propria visione del mondo”, dice. Quello che manca però, aggiunge con un po’ di amarezza, è che i media si decidano a dare uno spazio reale a questo tipo di contenuti. Il desiderio di Werner Kropik è che nel mondo si creino i presupposti per la diffusione di mezzi di comunicazione di reale qualità, che vadano al di là dei contenuti, tutti uguali, che saturano l’etere.
Lupus in bufala
La stampa, la televisione e la rete, succubi della legge dell’immagine, sono sovente al centro di piccole e grandi bufale. Che se non altro, hanno il merito di darci uno scossone, fra una dormita mediatica e l’altra di Nicola De Marchi
Per qualche giorno in Francia è circolata la notizia che
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2004) la beffa è più spesso di quanto si crede speculativa, Nabilla, la nuova e plastica “famosa” d’oltralpe, già eroina vale a dire il semplice “immaginare che ci sia una beffa”. dell’ultima edizione di “Anges de la téléréalité”, non era Aggiungiamo, in questo caso un personaggio capace di altri che Rémi Gaillard, il pasciuto video-performer del tutto, quel tot di credibilità che ti dà la rete (l’ho letto su n’importe quoi. Era il 18 luglio quando il burlone delle internet = l’ho visto alla tele = l’ha detto “mio cuggino”), azioni più insensate, postava sul suo profilo Facebook e la patacca, anche se potenziale, è servita. Con l’effetto un video in cui diceva: “Cari collaterale, in fondo non poi internauti, l’avete capito, Nabilla così stupido, di far retrocedere è Rémi Gaillard e Rémi Gaillard un attimo la soggettiva barriera è Nabilla. Era una scommessa della credulità. che ci eravamo lanciati tra amici, Infatti, goliardia a parte, esiquella di creare un personaggio di ste un effetto pedagogico nella velina decerebrata che i francesi bufala. Rispetto al falso, alla adorerebbero. Senza voler essere truffa o all’imbroglio, questa vanitoso penso che siamo riusciti a specie di pesce d’aprile fuor ingannare non poche persone”. d’acqua, gioisce infatti sopratEra una bufala da far impallitutto nell’essere scoperto. È in dire la Tootsie di Dustin Hoffquel momento, quando le bocce mann. Come dire che Elisabetta sono ferme e l’ultimo scettico Canalis, o la Christa Rigozzi è stato conquistato, che essa nazionale, non è in verità che rivela, come un vaccino che un’invenzione del tipo che sta risveglia gli anticorpi, qualcosa sotto il Gabibbo. Infatti, anche del carattere credulone della se il geniale guitto della rete ha natura umana. abituato i suoi fans alle imprese Purtroppo però (o per fortuna), più improbabili e talora scorretl’effetto rivelatore di ogni bute (vedere YouTube per credere), fala e la lezione che dispensa, la fisica, o meglio il fisico, non hanno scarsa durata. La prova permette certo tali miracoli. Ciò ce la dà la storia e i puntuali nondimeno il profilo di Gailappuntamenti con la burla (velard era poco dopo già tutto un dere snopes.com e altri siti che Joaquin Phoenix... o chi altri? pandemonio di commenti. Chi catalogano i bidoni). Cosi se tra Immagine tratta da mcphedranbadside.com se l’è bevuta come caffellatte al i miti fondanti dei moderni e mattino (il sottoscritto), chi si proto-mediatici hoaxes (bufale stupiva deluso dell’imbroglio (i fan di Nabilla), chi applau- all’americana), troviamo il fantasioso volo di Hans Ball diva all’exploit trasformistico del secolo (quelli di Rémi). che, seguendo le intenzioni mistificanti del suo autore Edgar Allan Poe, per tanti lettori del feuilleton era veramente L’ho letto, l’ho visto, me l’ha detto arrivato sulla luna in mongolfiera, ancora di più sorprende Questo forse perché viviamo un’epoca in cui cose fino a come lo stesso anno (1835) e con successo strepitoso, il New ieri apparentemente insensate e tesi complottistiche alla York Sun, seguendo il modello di Poe, riuscì, in una serie George Orwell si confermano reali (vedere le rivelazioni di articoli firmati, per usurpazione dall’astronomo John di Snowden sulle attività della NSA). O forse più semplice- Herschel, a gabbare i lettori di mezzo mondo con le più mente perché la gente è un tantino fessa e perché “il sonno incredibili scoperte fatte sulla Luna grazie ad innovativi della ragione genera mostri” come scriveva il pittore Goya. telescopi. Tra queste una forma di società di “uomini con O forse anche perché, come congetturava Luca Damiani ali di pipistrello”, “piramidi color lilla” e pure “unicorni nella sua Breve storia delle bufale mediatiche (Castelvecchi, e bisonti blu”.
Dai falsi Modigliani… Oggi la carta stampata ha ceduto il passo al video, la speculazione ha avuto la meglio su pure fantasie, mentre l’immagine, quale garante di obiettività, ha preso il posto delle parole. Ma il risultato non è cambiato: anzi, le beffe proliferano. Cosi dallo sbarco degli alieni commentato per radio da Orson Welles nel 1938, alle sculture di Modigliani rinvenute nel canale di Livorno nel 1984 (volevo verificare “fino a che punto la gente, i critici, i mass-media creano dei miti” disse Froglia, artista e co-autore della “beffa di Livorno”), e facendo attenzione a non sconfinare nel folto ma rigorosamente anonimo mondo delle leggende metropolitane, non sono poche le bufale che si perpetuano, sfruttando sempre più la risonanza dei mezzi mediatici. Quasi a credere che, in una società iperconnessa e sovrainformata come la nostra, risulti paradossalmente più facile far circolare i bidoni più strambi. Non solo: con il tempo la bufala è diventata arte che, confondendo realtà e finzione, contamina allegramente televisione e cinema. Cosi avviene nei vari “Scherzi a parte”, fino agli pseudo documentari (mockumentary) di Sacha Baron Cohen in cui il personaggio inventato di turno, perfettamente eccentrico e un bel paio di metri sopra le righe, s’imbatte negli individui più rigidi e, retroattivamente, gonzi. … a Joaquin Phoenix Ancora più radicale fece il fascinoso e scomodo Joaquin Phoenix quando nel 2008 annunciava a ciel serenissimo il suo ritiro dal cinema. Sorpresa nell’ambiente. Incredulità tra i fan. Ma l’11 febbraio 2009, l’eterno e sbarbato volto di Johnny Cash, si presenta sul palco del sempre seguitissimo talk show di David Letterman, con la barba lunga così, i capelli tipo massa aggrovigliata, occhiali da sole da sintomatico mistero e una balbuzie sconfinante nel mutismo autistico quando il brillante giornalista gli porge le più scontate domande. Risultato: imbarazzo, sconcerto che diventa ilarità generale quando l’attore spiega il suo ritiro con l’intenzione di diventare un cantante hip-hop. Increduli gli ammiratori: a Joaquin è effettivamente dato di volta il cervello! La sceneggiata durerà ancora un po’, puntualmente ripresa dai media quando, a distanza di un anno e mezzo, esce diretto dall’amico Casey Affleck, I’m still here. Titolo che sa di beffa per un mockumentary che contiene tutti i vaneggiamenti e le pagliacciate di Joaquin in versione pseudo-rapper e in cui si vedrà anche il cammeo del prestigioso rapper e produttore Sean Puff Daddy Combs che avrà il buon gusto, se non di evitare “la sòla”, perlomeno di dire il fatto suo sulla qualità della musica proposta da Phoenix. Bufala? Imbroglio? O genialata pirandelliana volta a dimostrare come si è vittima dei personaggi che si è (un attore resta un attore) e come la realtà sia manipolabile? Gli autori si difendono dicendo che si trattava solo di una performance artistica. Cosi, se non ha il merito di metterci più sale in zucca, la bufala ha almeno il pregio di svegliarci ogni tanto, tra una dormita e l’altra. D’altronde a una bufala dichiarata, quanti imbrogli interessati rimangono mascherati?
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Solo sabbia di Marco Jeitziner; fotografie ©Flavia Leuenberger
degli stolti lanciavano dalla proménade. Una bottiglia vuota di pet, capace di restarci millenni in quell’acqua, ma dentro nessun messaggio di pace o d’amore, no, soltanto lei, un messaggio di solitudine. Come ci sarebbe molto spazio in quel posteggio per lucertole sub-sahariane che è Cala Turqueta a Minorca, o in quella gigante lettiera per pesci gatto, ma suvvia, ora tentiamo di farne l’apologia, per ricordarne altre che un tempo erano sabbia dorata, o scura di vulcano, e per dimenticare quelle che non lo saranno più. Finalmente le balene e gli albatros, quelli color marrone o persino arancione, lucidi, bollenti, con l’addome e il dorso fritti, se ne sono sono andati. O non sono ancora arrivati, così come non spunteranno sirene e poseidoni. Luoghi 16
E sono stagioni che non son più stagioni. Primavera in ritardo, maggiolini a giugno, o meglio, “giugnolini”, estate forse a luglio e chissà quando si mangerà l’anguria. Ecco che la spiaggia, deserta, silenziosa, candida, pulita, ritorna soltanto sabbia, quella sabbia depredata a Madre Terra con cui costruiamo i muri di case e uffici. Cambia la stagione, non è più quella dei lidi abbandonati che m’ispirarono poesia a modo mio (Ticinosette n. 40/2011), ma è quella per la quale ci aspetteremmo caciara e folla chiassosa, alla ricerca disperata e malsana di una tintarella. E invece no, ci sei solo tu, più solo di un granello di sabbia tra miliardi, magari occhio di fotografo, le onde del mare o del lago, conchiglie strapazzate e la brezza che qualcosa sembra aver portato via. Meglio soli Era maggio, un maggio impazzito, giù in Provenza, il cielo sì blu, però umorale, e la spiaggia soltanto spiaggia, senza il barcone del cafone. Solo qualche peschereccio lontano e il vento, il maestrale, a spettinare i capelli di lei, il bagnasciuga e la scogliera. Che bello, ogni tanto, sentirsi soli sulla sabbia e voler sparire sotto, vergognosamente incapaci di rispettare in silenzio quella bellezza. Era luglio, quel luglio normale di anni fa, in mutande a Cervia, tanto non c’era quasi nessuno, dopo un caotico evento musicale all’aperto, che si aspettava il momento giusto per un tuffo. Ed era agosto su una spiaggia deserta delle Cicladi sconosciute: io e lei, lei e io, moderni Crusoe, un po’ come nel film Cast Away. Com’era giugno su un minuscolo fazzoletto di sabbia pubblica a Cannes, dopo una notte nel sacco a pelo a schivare bottiglie e lattine che
Quello che non c’è Il bagno 55 di Rimini o la playa sol di Ibiza sono ben lontane e noi, che a quel Mediterraneo non apparteniamo ma lo sogniamo soltanto, ne siamo ben felici. Non c’è la calca di gente e di camper che trovi persino in fondo alla Camarga, tra quel mare e il delta del Rodano. Non ci sono chilometri di ombrelloni e di lettini, ordinati come sardine portoghesi in scatola. Le serrande dei bar di piadine e granatine, quelle dei chiringuitos, sono abbassate. Puoi solo aver fame di silenzio e sete di brezza marina o lacustre. Ora, per scelta o per errore, ci sei soltanto tu, il mare e la sabbia e da solo te la dovrai vedere con loro. Andarsene o rimanere? Bagnarsi o sotterrarsi? Non ci sono radioline e cellulari ad alto volume. Non ci sono i bagnini bruciati dal sole, né i moderni vitelloni felliniani, gli uomini delle sdraio, le signore alla cassa, i tedeschi che si fan fregare, “cocco bello” e “vu cumprà” a romperti l’anima. Niente castelletto di sabbia del bimbo, niente paletta e secchiello, né tappetini gonfiabili e plasticume vario, niente mamme isteriche che si sedano di gossip, niente padri ammansiti sotterrati dai figli o nascosti dietro al foglio rosa. Lassù, nessun monomotore e nessuno striscione a dirci che “questa sera al molo 17 c’è la festa danzante da Nicola”. Tutto questo non c’è, non ancora. Oh, questo lido fa semplicemente paura, inquieta, stordisce, ma affascina. Tutta la salsedine del mondo sembra inutile, sprecata, se non c’è pelle da incrostare. Ma i raggi del sole, di una stagione che ha perso la trebisonda, se non scaldano epidermidi secche, grasse o disidratate, almeno fan la vita del mondo di mezzo, tra l’onda e lo scoglio, tra l’acqua e il fondale, tra la sabbia e la battigia....
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S
Vitae 18
ono nato a Zugo, la mia casa distava pochi minuti dallo stadio del ghiaccio. Mio fratello maggiore Marco già giocava a hockey, così a soli tre anni ho iniziato a calzare i pattini. Negli anni seguenti lo stadio è diventato la mia seconda casa. Ero un bambino attivo, amavo giocare all’aperto, praticare ogni tipo di sport e trascorrere il tempo libero con i miei coetanei. La scuola non mi è mai piaciuta, troppe regole per uno come me che amava fare di testa propria. Per fortuna, i miei genitori hanno intuito la mia natura e mi hanno permesso di scegliere liberamente la mia strada. E io non avevo dubbi: avrei giocato a hockey su ghiaccio. Non c’erano altre opzioni. Dopo il percorso nella sezione giovanile di Zugo, all’età di 15 anni, la mia famiglia si è trasferita nel Tennessee, per un anno. Ho colto l’occasione per varcare l’Oceano e giocare a hockey nelle leghe canadesi, in Manitoba. Rientrato in Svizzera e conseguito il diploma di commercio, ero pronto a fare sul serio e mi sono buttato nel professionismo. Fino al 2006, anno in cui ho partecipato ai Mondiali con la maglia rossocrociata in Lettonia. Feci un buon torneo, e così agenti nordamericani mi chiesero se ero interessato a giocare in National Hockey League. A 31 anni sono tornato in Nord America, a Phoenix per un anno. Per me la NHL esisteva solo nella Playstation, ed è stato un sogno entrare nella lega più forte al mondo, senza dubbio l’apice della mia carriera. Ma dopo aver giocato ancora due anni in Svizzera, qualcosa era cambiato. Non mi divertivo più, non ero motivato e non avvertivo più l’entusiasmo di prima. Ho deciso così di smettere di giocare. Appendere i pattini al chiodo a soli 33 anni con un contratto ancora valido non è stata una decisione facile, ma era l’unica possibile. Per la prima volta nella mia vita non sapevo cosa volevo fare. Mi sono quindi preso del tempo per girare il mondo, per vivere tutte le esperienze che non avevo potuto fare da giocatore. Ho visitato il Sud America, l’Africa e la Thailandia. Venti mesi di viaggio interiore, di autoanalisi, di emozioni, durante i quali non ho mai perso la fiducia nel futuro e nella vita. In America Latina ho vissuto a contatto con gli indigeni dell’Amazzonia, un’esperienza che mi ha insegnato la semplicità e l’importanza di vivere con cuore e passione, valori che condivido. È stata una tappa fondamentale, per chiudere il capitolo legato all’hockey giocato e aprirne un altro. In Ticino viveva mio figlio Kimy, così sono tornato a Lugano per stargli vicino. L’Hockey Club Lugano mi ha quindi proposto di lavorare nella sezione giovanile come assistente allenatore degli Juniores Elite. Ho accettato. Parallelamente ho seguito dei corsi a Milano per diventare life coach. Poco dopo è stato licenziato l’allora allenatore della prima squadra e inaspettatamente mi sono trovato sulla panchina dell’HCL.
PATRICK FISCHER
Nato nel 1975, ex giocatore, uomo di cuore e grande entusiasmo, è il nuovo allenatore dell’Hockey Club Lugano Da quest’anno sono allenatore capo, una sfida che mi appresto a vivere con grande entusiasmo. Il mio obiettivo è quello di creare un gruppo unito, che sappia lottare per il bene della squadra, senza tuttavia dimenticare le singole individualità. La comunicazione tra i singoli giocatori e l’allenatore è fondamentale. In questo mi sono stati utili i corsi seguiti a Milano. Il segreto sta nell’entrare in empatia con ogni singola personalità scovando il modo per trarre il meglio da ciascuno. Non sarà un compito semplice. Qualcuno ha espresso perplessità sulla mia giovane età, ma credo che il rispetto che riesci a guadagnarti in un gruppo non dipenda dall’anagrafe, né dall’avere i capelli grigi. Onestà, lavoro duro e tanta voglia di vincere sono alla base del successo. Valori che fanno parte di questa società e che riscontro anche nei ragazzi. Sono sicuro che sarà un’esperienza entusiasmante sotto tutti i punti di vista. Mi attende una stagione dura, con alti e bassi, ma sono convinto che uniti sapremo risolvere anche le situazioni più difficili. Io sono pronto e il gruppo è con me.
SERGE PELLETIER
24 anni mi sono diplomato come maestro di sport, scegliendo l’opzione dell’hockey su ghiaccio. Non ho mai eccelso, ma mi sono divertito tanto. Poi la mia vita è cambiata radicalmente. Un amico mi ha chiamato a Lugano per lavorare con il settore giovanile della società bianconera. Era il 1989. Ho deciso di partire e provare l’esperienza in Europa. Ho lavorato con tutte le categorie, dai piccoli agli Juniores Elite, fino alla chiamata in prima squadra per affiancare l’allora allenatore Jim Koleff alla transenna del Hockey Club Lugano. È stato il punto di svolta della mia carriera: dopo tre anni come vice allenatore, sono stato chiamato da Friborgo, Zugo e Ambrì-Piotta. Amo il mio lavoro. Una squadra di hockey, è una “microsocietà” al cui interno puoi trovare il padre di famiglia, con tutte le sue responsabilità, così come il giovane spensierato che si presenta ogni mattina canticchiando con il cappellino al contrario. L’allenatore deve trovare il modo di relazionarsi con ognuno dei suoi giocatori, cercando di interpretare al meglio le diverse personalità. Credo che in questo stia il segreto del successo di un allenatore. Il coach non è soltanto colui che impartisce gli schemi di gioco, che decide chi scenderà in campo e quando, ma deve diventare anche un punto di riferimento per i giocatori, instaurando un rapporto di complicità e fiducia. La gestione del gruppo richiede diverse abilità, non solo tecniche ma anche umane, altrettanto importanti per trarre il meglio da ogni giocatore. Il momento più eccitante è senza dubbio quello della partita. L’adrenalina, le emozioni che ti fa vivere una vittoria e quelle, anche dolorose, che ti procura la gestione della sconfitta, sono un condensato di ciò che si prova nella vita. Essere un allenatore è un lavoro molto coinvolgente dal punto di vista emotivo ma richiede anche diversi sacrifici. Gli spostamenti da una città all’altra, i fine settimana sempre impegnati hanno influito sulla mia vita privata. Ma non ho rimpianti, sono felice di aver fatto ciò che mi appassiona. Non nascondo che il passaggio da giocatore a allenatore non è stato semplice. Ci sono voluti quasi due anni per acquisire la mentalità da coach. È stato un processo mentale lento, graduale e assolutamente necessario per poter crescere come individuo. Credo che chiunque si appresti a terminare la propria carriera agonistica, non debba avere fretta di trovare subito un posto di lavoro prestigioso. Meglio, a volte, ripartire dal basso, per non bruciarsi, per crescere come allenatori ed essere pronti quando si presenterà l’occasione di lavorare ai massimi livelli. Perché se aspetti, quell’occasione arriverà.
Classe 1965, sarà ancora lui a guidare l’Hockey Club Ambrì-Piotta. Canadese, “vive” sul ghiaccio dall’età di tre anni
S
ono nato e cresciuto a Montréal. Come la maggior parte dei bambini canadesi, all’età di tre anni ho cominciato a pattinare. Mia mamma portava me e io mio fratello allo stadio del ghiaccio diverse volte alla settimana. E poi c’erano le molte piste all’aperto, una si trovava proprio nel mio quartiere. Trascorrevamo pomeriggi interi giocando a hockey con gli amici. Come se questo non bastasse, bagnavamo il giardino dietro casa con la canna dell’acqua che con le temperature rigide degli inverni in Québec, gelava durante la notte, creando un campo naturale. La giornata terminava quando mia madre spegneva le luci del giardino. Era il segnale che la cena era pronta e bisognava smettere di giocare. Rientravamo infreddoliti, borbottando perché avremmo voluto continuare per ore. Prima di andare a letto, io e mio fratello mettevamo i dischi in congelatore per renderli più duri e fare in modo che scivolassero meglio. Insomma come si dice, sono cresciuto a pane e hockey. Questo sport è stato il “fil rouge” della mia vita. Ho giocato in tutte le diverse categorie, fino alle leghe universitarie. A
testimonianze raccolte da Ludovica Domenichelli fotografie ©Reza Khatir
Vitae 19
#sentitoall’aeroporto
di Olmo Cerri e Micha Dalcol
sono appena tornata dalla spagna ho rivisto mio figlio, ha già sette anni. sono stata dal mio ex che vive giù.
un bel posto, vicino al mare.
stavo in una pensioncina perché ho bisogno della mia tranquillità, e poi con i farmaci è meglio così.
mangi primo, secondo, vino di quello buono o anche solo il secondo ma con contorni abbondanti, per 7 euro. qui per meno di 24 franchi...
in spagna si vive bene. meglio che qui.
il mio ex con trecento euri ha un appartamento, piccolo ma mica male. e poi d’inverno non fa neanche freddo e non spendi niente di riscaldamento, al massimo va giù a dieci gradi, mica come da noi… ho messo via i soldi tutto l’a nno, li ho dati al claudio che me li tenesse, se no li spendevo in cazzate. però poi li ho avuti in mano per tre giorni prima di partire e avrei anche potuto fare delle cazzate. ma mi sono detta: stai a casa, tranquilla, non fare cazzate!
due anni fa era stata un disastro, stavo malissimo, sudavo sempre quel sudore strano... che in spagna mica si suda che c ’è sempre un venticello e il mio ex mi aveva detto che per stare così potevo anche tornare a casa.
questa volta invece è andata proprio bene.
la mattina in pensione e al pomeriggio al mare.
lì si che si vive bene, meglio che qui
LIVIng In the U.S.A. La fotografa Flavia Leuenberger, nel corso di un recente viaggio negli Stati Uniti, ha incontrato e conosciuto due famiglie di origine ticinese emigrate dal nostro cantone in epoche molto diverse. Per la prima il trasferimento, avvenuto alla fine dell’ottocento, fu motivato dalla ricerca di migliori condizioni di lavoro e di un maggior benessere economico; per la seconda, trasferitasi invece pochi anni fa, alla possibilità per il capo famiglia di ampliare il proprio orizzonte professionale si è affiancata la curiosità per un paese dai mille volti. Da un lato, dunque, Pat e Betty, nipoti di tony Canonica che lasciò il suo paese per cercare fortuna a Butte, nello stato del Montana. Dall’altra la giovane famiglia asconese dei Pedrazzini che, nonostante il desiderio di vivere tra i boschi dell’Oregon, non ha perso l’amore e l’interesse per la nazione di origine
testo e fotografie ©Flavia Leuenberger
TONY CANONICA Ambrosetti, Campana, Parini, Rodoni, Pedretti, Vanina sono alcune delle famiglie ticinesi che verso la fine dell’ottocento emigrarono nel Montana per intraprendere attività pionieristiche, allora necessarie. Come loro, Tony Canonica, classe 1880, fu uno dei primi lattonieri del West. Risiedette a Butte, Montana, per 64 anni e lavorò nel suo negozio per oltre mezzo secolo. Emigrato inizialmente a Virginia City, Nevada, a soli 16 anni, due anni dopo si trasferì a Butte. Dapprima imparò a lavorare come fabbro; successivamente venne a conoscenza che “Tinsmith A. E. Jones” era intenzionato a vendere la sua impresa. Mister Canonica la comprò e nacque quindi, nel 1898, il “Tony’s Tin Shop”. Durante il suo periodo di attività produsse tazze e secchi di latta, barattoli, caffettiere, imbuti, caldaie e vasche da bagno in ferro o zincate. Fu membro del “Butte Pioneer’s club”. Si sposò con Mary con la quale ebbe tre figli. Morì all’età di 83 anni al numero 108 di South Arizona Street, Butte. I nipoti Pat e Betty, tuttora residenti nel Montana, hanno voluto condividere il loro ricordo con noi.
FA MIGLIA PEDRAZZINI Miriam (Ascona) e Francesco (Tenero) entrambi nati nel 1968, sono sposati da diciotto anni. Dopo aver trascorso quattro anni a New York con un visto di lavoro, hanno vissuto per un periodo a Berna dove è in seguito maturata la decisione, grazie anche a una possibilità di lavoro, di trasferirsi definitivamente nella grande mela. È infatti dal 2003 che vivono negli Stati Uniti. Dopo aver vissuto a New York per cinque anni si sono trasferiti in Colorado per poi muoversi nell’Oregon, dove oggi risiedono. Francesco lavora per una ditta svizzera attiva nel campo delle energie rinnovabili e pannelli solari, mentre Miriam si occupa della casa e dei due figli più piccoli (il terzo, Egon, ha ormai venticinque anni e vive a Seattle). A casa parlano italiano, e, nonostante anche la nonna materna li abbia appena raggiunti (la signora a sinistra nella fotografia), non perdono occasione per ritornare in Ticino. La loro attuale residenza è situata nella cosiddetta “Helvetia area”, poco distante da Portland.
Flavia Leuenberger Classe 1985, ha frequentato il Centro scolastico per le industrie artistiche (CSIA) ottenendo nel 2004 il diploma di grafica. Dopo alcuni anni di esperienza anche in ambito fotografico svolge ora entrambe le attivitĂ come professionista indipendente. flavialeuenberger.daportfolio.com
L’anello di Karim di Fabio Martini; illustrazioni ©Giovanni Occhiuzzi
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anto tempo fa, nel mercato di Damasco, il cosiddetto suq, lavorava un abilissimo orafo di nome Karim. La sua maestria nel creare gioielli era tale che la sua bottega era spesso visitata dalle tante mogli del sultano, desiderose di competere l’una con l’altra per il gioiello più bello e prezioso. Dato che l’età avanzava e la barba di Karim da grigia si era ormai fatta bianca, egli decise che era indispensabile trovare un giovanotto capace di imparare l’arte orafa in modo che il nome e la fama della bottega proseguissero anche dopo la sua morte. Fece dunque mettere in giro la voce che cercava un apprendista e dopo qualche giorno una fila di giovani si presentò all’ingresso della gioielleria. Dopo aver messo alla prova tutti gli aspiranti la scelta di Karim cadde su un ragazzo di nome Talib. Egli possedeva una grande fantasia nel disegnare motivi e arabeschi, apprendeva velocemente e si era impegnato nel lavoro con grande entusiasmo. In breve tempo, da semplice apprendista Talib si affermò come un orafo di prim’ordine e i suoi gioielli incontrarono subito il favore delle esigenti favorite del sultano. Un giorno, alla bottega, si presentò un uomo misterioso, con il volto coperto, chiedendo di Karim che proprio in quei giorni era rimasto a casa per un attacco di gotta.
“Signore, il mio padrone è malato, ma potete parlare con me. Sono Talib il suo stimato aiutante”, lo rassicurò il giovane. L’uomo si guardava intorno con aria circospetta come se temesse di essere seguito o che qualcuno lo stesse osservando. “Vorrei che forgiaste per me un anello con incastonata questa pietra”, e dalla tasca estrasse un diamante di straordinaria purezza e brillantezza. “Ma guai”, proseguì l’uomo “se uno di voi o chiunque altro lo infilerà al dito. Chi oserà far questo avrà solo sventura. Passerò fra una settimana a ritirare il lavoro finito”. Il giovane, dopo aver riposto la pietra nella grossa cassaforte che stava dietro il bancone, rassicurò l’uomo ma non aveva finito di parlare che quello era già scomparso tra le tante persone che affollavano il suq. La mattina seguente Talib si mise subito all’opera: una pietra del genere meritava la massima attenzione ed egli si impegnò per creare il più bell’anello che si fosse mai visto. Il giorno seguente, con gli occhi stanchi aver lavorato tutta la notte, decise che l’anello era pronto. Dopo averlo riposto nella cassaforte chiuse la bottega e si mise a fare un sonnellino nel retro. Gli apparve in sogno una donna bellissima che gli sussurrava all’orecchio: “Talib, Talib cosa ti impedisce di pro-
vare l’anello? Non temere, le parole dello straniero non devono spaventarti. Egli è uno sciocco che teme soltanto che qualcuno possa rubarglielo”. isvegliatosi di colpo, Talib aprì la cassaforte e d’impulso infilò al dito l’anello. La prima cosa che avvertì fu un improvviso e assoluto silenzio: le voci e i rumori del suq erano cessati di colpo. Uscito in strada rimase di sasso: il mondo intorno a lui si era fermato. Le persone apparivano come vere e proprie statue immobilizzate nel gesto che stavano compiendo in quel momento: c’era un mercante con la bilancia in mano, una donna assorta di fronte a un banco di panni di seta, un giovane garzone con le dita nel naso e poco più in là un ladro con in mano la borsa di un uomo che aveva appena derubato. Di fronte a quella scena Talib, che possedeva uno spiccato senso della giustizia, non riuscì a trattenersi: sfilò la borsa dalla mano del ladro e la rimise a tracolla dell’uomo che era stato derubato. Fatto questo si rintanò in un angolo per osservare la scena e si sfilò l’anello. Di colpo il mondo tornò quello di sempre e gli uomini ripresero a muoversi, come se nulla fosse accaduto. Il ladro, sorpreso di non avere più fra le mani la borsa che aveva appena rubato se la diede a gambe levate, pensando di essere diventato matto. Rientrato nella bottega e riposto l’anello, Talib si fermò a riflettere sul potere di quell’anello: avrebbe potuto mettere fine a ogni ingiustizia e grazie ad esso sarebbe diventato il segreto riparatore dei tanti mali che ogni giorno affliggevano la sua città. Quella sera stessa si presentò a casa di Karim per dirgli che doveva lasciare la città a causa di un lontano parente di Aleppo che aveva bisogno d’aiuto. Rattristato da quella notizia il vecchio orefice congedò il giovanotto raccomandandogli di tornare al più presto.
a Talib non lasciò affatto la città. Quella notte nascosto da un turbante, iniziò a vagare per le strade: grazie all’anello salvò la vita a un paio di viandanti che erano stati assaliti dai briganti, legò mani e piedi a un uomo che picchiava la moglie, salvò la vita a un ragazzino che era finito in un pozzo. Per alcuni giorni andò avanti così, aiutando le persone e vivendo dei suoi risparmi ma una volta terminati i soldi e non avendo più un lavoro si chiese come risolvere il problema del cibo e di un luogo in cui vivere. La risposta era semplice: bastava prenderli a quel farabutto di Fayyd, il mercante di cammelli, sempre pronto a gabbare i suoi clienti. E così fece. Ma giorno dopo giorno, da paladino della giustizia Talib si trasformò in un ladro qualsiasi. Una sera, dopo aver fermato il mondo per compiere l’ennesimo furto, sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Atterrito si voltò: di fronte a lui stava il vero padrone dell’anello che era del tutto immune al misterioso incantesimo. “Cosa ti avevo raccomandato? Ricordi le mie parole? Solo sventura… Fare del bene e aiutare gli altri non dipende dagli oggetti ma da come noi li utilizziamo. Una lama puoi salvare una vita ma puoi anche uccidere un uomo. Tu hai usato molto male questo anello fin dall’inizio visto che te ne sei impossessato rubandomelo. Se dunque non vuoi finire nella prigione del sultano per il resto della tua vita, torna da Karim e lavora per lui giorno e notte finché non avrai saldato il debito con tutte le persone che hai derubato in questi giorni. E che ti serva da lezione”. Restituito l’anello al proprietario Talib tornò alla gioielleria e da quel giorno, oltre che un grande artigiano, rimase sempre un uomo retto e giusto.
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Un cestino per borsetta Tendenze p. 58 | di Marisa Gorza
boschiva, i nidi degli uccelli... – è l’acquisizione più antica e più diffusa della terra. Addirittura nasce prima della tessitura e della ceramica. La manipolazione di elementi vegetali flessibili è stata praticata in aree lontane e completamente diverse tra loro. Nella notte dei tempi il primo cestaio non ha avuto nessuno da cui apprendere la tecnica, tuttavia diede vita a un oggetto capace di rendere amica una natura spesso ostile. Le prime testimonianze della produzione di cesti risalgono al neolitico: ci sono dei reperti risalenti a 7000 anni a.C. a Shanidar in Irak, per esempio, mentre in una grotta nei pressi di Bisceglie in Puglia è stato rinvenuto un manufatto di intreccio antecedente al 6555 a.C.
cavagn e cavagnatt deLLe vaLLi ticinesi
La sempLicità fa tendenza La Birkin di Hermés, esclusiva borsetta, oggetto del desiderio di ogni donna, come è noto prende il nome dall’omonima Jane. Non tutti sanno però che l’anticonformista star, alla costosa Birkin ha sempre preferito un semplice e modesto cestino di vimini di gusto campagnard. Durante i trasgressivi anni settanta certo, ma poi oltre, ha continuato a farne la sua originale, economica style signature. L’adorabile Jane ci insegna dunque che per essere chic e avere uno stile personalissimo non è sempre indispensabile spendere un mucchio di soldi, bastano piglio e fantasia per usare un canestro come la più desiderabile delle borsette. Con tanto di manico arrotondato per infilarci il braccio, diventava così un accessorio unico e versatile da portare d’estate con jeans e T-shirt e d’inverno con stivali e pellicciotto e, perché no, perfino con il miniabito nude look da sera che sfoggiava accanto all’estasiato Serge Gainsbourg.
Un’arte ancestraLe Sulla scia delle pulsioni ecologiche e del rinnovato interesse per tutto ciò che ha il fascino del naturale, gli oggetti intrecciati in vimini e simili sono ritornati più che mai di tendenza. Nella sua forma semplicissima il cesto è una delle massime espressioni della capacità elaborativa della mente umana. Dopotutto l’arte dell’intreccio – nata dall’osservazione dei fenomeni naturali, quali l’intrico della vegetazione
Torniamo nella nostra latitudine, con i piedi ben appoggiati sul territorio delle valli ticinesi, ma con il cuore e la mente pieni di memorie. A Mergoscia, in Valle Verzasca, si conserva l’antica tradizione di costruire cesti con una caratteristica forma doppia e bombata, chiamati, appunto, i cavagn di Mergoscia, magari in una specifica misura da far entrare a incastro nella gerla. Nelle rigide sere d’inverno, le famiglie riunite intorno al focolare, rendevano piacevole quel lento scorrere del tempo raccontandosi storie, leggende, ricordi... e frattanto rimanevano attivi impegnando le mani per costruire ceste e canestri. Questi erano oggetti di varia utilità: dall’esemplare che serviva a contenere le verdure appena raccolte a quello specifico per le patate, da quello per le bacche fino al pratico marsupio per i pesci d’acqua dolce o per le castagne. Anche la polenta veniva adagiata su un piatto di vimine intrecciato. Innocente Bianconi, un famoso ed esperto cavagnatt locale, alcune generazioni fa tramandò le forme particolari, la didattica e i segreti dei cesti di Mergoscia a Mirko Bonfanti, diventato pure lui noto per la maestria e l’inventiva nell’intrecciare manufatti. Il suo era un vero e proprio atelier dove rivendicava appassionatamente questa genuina e creativa manualità, parte così importante della cultura rurale. Poi, oltre vent’anni fa Michele Wildhaber andò dal Bonfanti ad apprendere l’affascinante mestiere e per tutti questo periodo ha continuato a creare degli esemplari su forme collaudate e anche inedite, riportando al paese di origine i cavagn di Mergoscia, appunto. Una tradizione e un patrimonio culturale che non sono andati perduti, anzi hanno via via trovato nuovi appassionati e adepti, i quali hanno creato un gruppo di lavoro artigianale, più che mai attivo con entusiasmo, meticolosità, operosità. Dal castagno al nocciolo, al salice: dalla raccolta del materiale nelle selve con tanto di falcetto. Dal macero nell’acqua all’asciugatura, all’arte dell’intreccio. Il cesto rivive le sue antiche origini, pronto per essere usato, magari per funzioni del tutto nuove e inaspettate.
La domanda della settimana
Il tanto atteso Piano Viabilità del Polo Luganese continua a manifestare seri “problemi di gioventù”. Era meglio quando si stava peggio?
Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 19 settembre. I risultati appariranno sul numero 39 di Ticinosette.
Al quesito “Ritenete che gli astri abbiano una reale influenza sulla nostra esistenza?” avete risposto:
SI
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NO
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Astri ariete Svolta radicale negli eventi della vostra vita. Considerate che Mercurio continuerà a trovarsi in opposizione al Sole: attenti a quello che dite.
toro Venti di guerra nella sfera matrimoniale. Tutti i nodi sembrano venire al pettine. L’amore è abbandono, non è né ragionamento né calcolo.
gemelli Opportunità professionali. Vita sentimentale commista a questioni professionali per i nati in maggio. Diete e naturopatia per tutti gli altri.
cancro Opportunità di consolidare la sfera sentimentale. Progetti matrimoniali per i rapporti a lunga durata. Speculazioni al limite del consentito.
leone Tra il 16 e il 17 configurazione esplosiva per i nati tra la prima e la seconda decade. Antichi ricordi. Evitate di ripetere errori passati.
vergine Da un lato ponete l’attenzione sugli aspetti più nobili della vita dall’altro siete indolenti nell’affrontare alcune questioni. Irritabilità.
bilancia Approfittate della Luna positiva del 16 e del 17 se dovete prendere una decisione importante. Evitate una politica attendista. Agite con audacia!
scorpione Una persona proveniente dal passato sta per cambiarvi la vita. Tra il 17 e il 18 potrete vivere atmosfere segnate dall’eros e dal romanticismo.
sagittario Momento fervido. Tra il 16 e il 17 potrete realizzare qualcosa di importante. Incontri ed eros elettrizzante tra il 20 e il 21. Esami e concorsi.
capricorno Eccessive sollecitazioni. Gli altri sembrano lenti ma la vostra precipitazione può farvi trascurare aspetti importanti. Cambiamenti radicali.
acquario Siete troppo distaccati o troppo attaccati ai ricordi per vivere serenamente i sentimenti. Momenti di malinconia tra il 16 e il 17 settembre.
pesci Legami con una cultura estera. L’approccio verso l’amore si fa più maturo. Opportunità per i nati nella seconda decade grazie a Giove.
Gioca e vinci con Ticinosette
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Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 19 settembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 17 sett. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!
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Orizzontali 1. Immortale, eterna • 10. Nome di donna • 11. Segue l’ambo • 12. Inventata, ideata • 14. Cifra imprecisata • 15. Pari in contare • 16. Giovanni, scrittore • 18. No detto a Zurigo • 20. Preposizione semplice • 21. Articolo romanesco • 22. Insensati, assurdi • 25. La nitro che scoppia • 27. Una nota e un articolo • 28. Liste • 30. Ingegnere in breve • 32. Stato USA • 33. Grosso uccello dei Gruiformi • 35. Le iniziali di Montanelli • 36. L’ami di Maupassant • 37. Università • 40. Associazione Sportiva • 42. Pari in libbra • 43. Antico Testamento • 45. Plaid • 47. Un colore • 48. Baronetto inglese • 49. Cuba e Svezia • 50. Piccoli • 53. Il nome della Piccolo • 54. Dittongo in boato. Verticali 1. Noto romanzo di N. Treusch • 2. Battente, incalzante • 3. Infantili, bambineschi • 4. Epoca • 5. Parte di pagamento • 6. Iniziali di Tasso • 7. Spintoni • 8. Quartiere cittadino • 9. Uccello rapace • 13. Azzardare, osare • 17. Al, noto attore • 19. Sta nel gheriglio • 23. Più che fredda • 24. Prostrarsi • 26. Lo dice il rassegnato • 29. Il pronome dell’egoista • 31. Serata fastosa • 34. Anomali • 38. La coppiera degli dei • 39. È simile alla foca • 41. Ramazza • 44. Prova attitudinale • 46. Il noto Buazzelli • 51. Quattro romani • 52. Il Calcio del chimico.
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La soluzione del Concorso apparso il 30 agosto è: RANOCCHIO Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Rosita Marcionelli 6955 Cagiallo Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!
Premio in palio: buono RailAway FFS per l’offerta “Regione Ritom-Piora” RailAway FFS offre un buono del valore di 100.– CHF per 2 persone in 2a classe per l’offerta RailAway FFS “Regione RitomPiora” da scontare presso una stazione FFS in Svizzera. Ulteriori informazioni su ffs.ch/montagne.
Regione Ritom-Piora. L’emozione più ripida dal 1921. La funicolare del Ritom, una delle più ripide d’Europa, vi accompagna comodamente in un meraviglioso mondo alpino disseminato di incantevoli laghetti. Lontano dalla quotidianità, nella valle di Piora (1793 m s.l.m.), potrete scoprire paesaggi incontaminati grazie ad una fitta rete di sentieri.
Per colori in sintonia con la natura.
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Nel 2011 Coop era al 1° posto nel Corporate Rating oekom dei dettaglianti.
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