Ticino7

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№ 43 del 25 ottobre 2013 · con teleradio dal 27 ott. al 2 nov .

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Ticinosette n. 43 del 25 ottobre 2013

Impressum Tiratura controllata 68’049 copie

Chiusura redazionale Venerdì 18 ottobre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Il salutista pensante Illustrazione ©Bruno Machado

4 Salute Cromoterapia. La luce e il dolore di nico tanzi ............................................. 6 Benessere Cibi. Crudismo, no grazie... di euGenio Klueser ...................................... 8 Società Difesa personale. Spazi privati di alessio lonGo ......................................... 10 Mundus Neuroscienze. Misteri della mente di duccio canestrini ........................... 12 Letture Il quid della vita di Marco alloni .............................................................. 13 Vitae Joseph Melek di roberto roVeda .................................................................... 14 Reportage La cucina della salute di laura di corcia; fotoGrafie di reza Khatir ......... 39 Luoghi Farmacia. Antro del rimedio di Marco Jeitziner; fotoGrafie di reza Khatir ....... 44 Scienza Junk food. Effetti collaterali di Keri Gonzato .............................................. 46 Tendenze Vernici ecologiche di francesca aJMar .................................................... 48 Svaghi .................................................................................................................... 50 Agorà Pediatria. Bimbi, reparto cercasi...

di

Valentina GeriG .....................................

È meglio iniziare da piccoli... Tra le notizie più lette presenti nel portale dell’Associazione svizzera per la promozione dell’educazione e la salute (suissedu.org) viene segnalato un articolo apparso sul numero 453 (giugno 2008) della rivista scientifica Nature dal titolo “Il numero di cellule adipose si decide nell’infanzia e resta invariato per tutta la vita”. Lo studio compiuto in Svezia dal Karolinska Institute (Stoccolma) aveva scoperto che “il numero di (...) cellule adipose resterebbe uguale dall’adolescenza all’età adulta. Ciò fa pensare che la differenza del numero di cellule di grasso tra le persone obese e quelle magre si stabilisca durante l’infanzia e rimanga tale per tutta la vita”. Esattamente un anno fa (ottobre 2012), l’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) ha emanato la sua Strategia nutrizionale svizzera 2013–2016, un opuscolo che presenta una panoramica dei risultati più importanti del “6° Rapporto sull’alimentazione” nel nostro paese. Già nella sua parte introduttiva, l’UFSP rileva come l’alimentazione equilibrata (che evita apporti energetici eccessivi) “influisce positivamente sul benessere mentale e fisico”, proteggendoci dall’insorgere di malattie correlate all’alimentazione. Le sfide maggiori secondo la Strategia 2013–2016 sono proprio la diffusione di sovrappeso e obesità, segni di uno squilibrio fra assunzione energetica (alimentazione) e dispendio energetico (come, per esempio, attività fisica); ma anche le malattie cardiovascolari, il diabete mellito, il cancro e alcune malattie legate alla mancanza di sostanze nutritive (come l’osteoporosi) sono direttamente legate a una corretta ed

equilibrata assunzione di cibo. Malgrado la popolazione sia generalmente informata, come afferma sempre l’UFSP (pag. 18), anche gli svizzeri – come buona parte degli occidentali – consumano “una quantità insufficienti di alcuni gruppi alimentari (per es. verdura e frutta) e quantità eccessive di altri (per es. dolciumi)” (pag. 16). Gli uomini, i giovani e le “persone socialmente ed economicamente svantaggiate sono i gruppi che più raramente seguono le raccomandazioni nutrizionali e presentano scarse conoscenze nutrizionali”. E purtroppo, “i messaggi pubblicitari sensibilizzano generalmente troppo poco sull’eccessivo contenuto di grassi, zucchero o sale”. Al di là delle responsabilità di chi produce e confeziona gli alimenti (industrie e multinazionali), in ultima istanza siamo noi i diretti responsabili di ciò che mangiamo e di ciò che facciamo mangiare ai nostri figli, proponendo loro modelli di comportamento e scelte più o meno corrette: ancora oggi, scrive l’UFSP, solo il 30% della popolazione consuma le note “5 porzioni al giorno” di frutta e verdura. Basterebbe dunque poco per iniziare, sin da piccoli, con il piede giusto. Buona lettura, Giancarlo Fornasier


Bimbi, reparto cercasi… Cure ospedaliere. In Ticino manca un Reparto di Terapia intensiva pediatrica e neonatale. Per le patologie gravi i bambini devono essere trasportati con la Rega o l’ambulanza al di là del Gottardo. I genitori si trovano catapultati in un cantone di un’altra lingua con costi non coperti e affetti lontani. Nel 2014 aprirà a Bellinzona un nuovo Dipartimento Pediatria: cambierà qualcosa? Sono in molti ad augurarselo… di Valentina Gerig

I Agorà 4

l simbolo dell’Associazione è un leone con la criniera a forma di sole. L’aveva scelto Alessia come contrassegno per l’asilo. Era la figlia di Bernadette Waller-Baschi, la signora che oggi è una delle collaboratrici più attive dell’Associazione che ha preso il nome proprio di sua figlia, deceduta durante il trasporto al Kinderspital di Zurigo dopo una grave complicazione seguita a una polmonite. L’associazione, nata nel 2004 a Vernate, è diventata in questi anni un punto di riferimento per tutte le famiglie ticinesi che devono seguire i propri figli ricoverati oltralpe, spesso improvvisamente e per patologie molto gravi, perché in Ticino non esiste un Reparto di Terapia intensiva pediatrica e neonatale. Al forte stress emotivo si sommano problemi di ordine pratico, quali la conoscenza della lingua, vitto e alloggio non coperti da alcun rimborso, le preoccupazioni per gli affetti lontani, al di là della barriera naturale rappresentata dalle Alpi. L’Associazione Alessia interviene proprio per aiutare i genitori in questa situazione di emergenza e sostenerli, finanziariamente ed emotivamente.

Improvvisamente, oltre Gottardo Elena Stroppini, mamma di Giada, 15 anni, racconta la sua esperienza con l’Associazione: “Sono dovuta rimanere a Zurigo a fianco di mia figlia dal 2 al 31 maggio di quest’anno perché le è stato diagnosticato un tumore al cervello dopo un controllo per una visita oculistica. La bambina è stata trasportata d’urgenza e lì siamo rimasti un mese. È come un fulmine a ciel sereno. Improvvisamente ti trovi catapultata in un posto nuovo, con una lingua che non conosci o, se hai la fortuna di conoscerla, non è mai come se fosse la tua. L’Associazione Alessia ha risposto a tutte le mie domande, sostenendomi non solo nelle faccende burocratiche e pratiche ma anche dal punto di vista finanziario e psicologico. Quando ho visto arrivare le ragazze dell’associazione in mio aiuto senza chiedere niente in cambio, non mi sembrava possibile. Valentina Gaddi, Vicepresidente dell’Associazione e infermiera di Cure intensive a Bellinzona, mi ha dato una grande carica e ha risposto ai mie mille «non so» perché le difficoltà che si hanno al di là del Gottardo sono un carico che si somma all’uragano provocato dalla malattia del proprio figlio”.

È un aspetto su cui le attive collaboratrici dell’Associazione Alessia, Bernadette Waller-Baschi e Gisela Vegezzi, insistono molto perché l’hanno vissuto in prima persona. La loro lotta in questi anni si è concentrata anche su cosa si può e dovrebbe cambiare. La particolare situazione geografica del nostro cantone pone il problema del trasporto soprattutto nei casi più urgenti. È un rischio che secondo l’Associazione un bambino non deve più correre, e per questo chiedono a gran voce la creazione di un Reparto di Terapia intensiva neonatale e pediatrica in Ticino. La Rega in media non può volare per oltre 180 giorni e, aggiunge la signora Bernadette, “a questo 50% bisogna anche aggiungere i casi in cui il paziente è instabile. Non sempre il volo è fattibile, quindi il bambino va trasportato in ambulanza e i tempi si allungano ulteriormente”. Perché allora non trasferire i casi più urgenti al di là del confine, in Lombardia, evitando di superare le Alpi e dove è attivo un ottimo reparto di terapia intensiva pediatrica? Questo è una delle altre battaglie che sta conducendo l’associazione. Ci sono già stati diversi incontri con l’Ospedale Del Ponte di Varese, che vanta un reparto di neonatologia di primissima qualità. “È il top. Da fuori l’edificio magari non ha un bell’aspetto ma quando siamo entrate siamo rimaste stupefatte” dice Bernadette Waller, mentre Gisela Vegezzi fa notare: “Anche nelle operazioni di routine purtroppo ci possono essere delle complicazioni. E se il bambino sta male e c’è la neve, dove va? Se c’è tempo, è giusto che venga portato nelle strutture al di là del Gottardo, ma se è una questione di minuti o secondi, non sarebbe preferibile rivolgersi a ospedali più vicini dotati di strutture adeguate? Noi in fondo chiediamo che il genitore possa scegliere e venga informato di più sulle possibilità che ha a disposizione e a cosa va incontro”. Cosa cambierà? Sono domande particolarmente attuali, visto che a luglio l’Ente Ospedaliero Cantonale ha comunicato l’apertura di un nuovo Dipartimento di Pediatria presso l’Ospedale San Giovanni di Bellinzona che, si legge, “consentirà di prendere a carico in modo ottimale i bambini con patologie complesse” a partire dal 2014. Un’ottima notizia, quindi, che potrebbe


rappresentare un punto di svolta? Le signore dell’Associazione Alessia hanno appreso la notizia come un segnale positivo, ma confessano di non avere capito bene cosa cambierà concretamente. Abbiamo rivolto dunque una serie di domande al Direttore del Dipartimento, il prof. dr. Mario Bianchetti, Primario di pediatria degli Ospedali Regionali di Bellinzona e di Mendrisio, e specializzato in nefrologia e ipertensione arteriosa del bambino. Dottor Bianchetti, qual è la situazione attuale dei reparti di Pediatria in Ticino? “In Ticino si è sempre voluto avere una pediatria capillare, presente a Mendrisio, Lugano, Bellinzona e Locarno. Con la creazione del nuovo Dipartimento non si vuole rinunciare a questo aspetto, ma si intende sviluppare ulteriormente alcune specialità particolari. Già da diversi anni abbiamo concentrato a Lugano alcune problematiche legate a bambini con disturbi di tipo sociale o psichiatrico, mentre a Bellinzona abbiamo creato un servizio di chirurgia e cardiologia pediatrica, neuropediatria e nefrologia. Abbiamo inoltre il reparto di oncologia pediatrica che lavora a stretto contatto con Zurigo. Con il nuovo Dipartimento ci saranno ancora i quattro reparti ma meglio coordinati”. Nel caso di patologie gravi acute, i bambini e neonati devono essere trasferiti oltre Gottardo. Cambierà qualcosa con il nuovo Dipartimento di Pediatria? “Un primo progetto del Dipartimento consisterà nel portare in Ticino medici con preparazioni più specifiche. Per esempio, ci sarà qualcuno che potrà occuparsi di bambini con malattie intestinali, ovvero un gastroenterologo pediatrico, avremo un medico in grado di curare malattie reumatiche e infettive gravi. Questo sicuramente ci permetterà di affrontare in Ticino situazioni che finora sono state trattate fuori dal cantone. Il grosso problema riguarda la creazione di un servizio in grado di curare i neonati e i bambini gravemente malati, ovvero il reparto di

Neonatologia e Terapia intensiva. Su questo argomento ci sono i pro e i contro. A nord delle Alpi il posto più vicino è Lucerna. Un giorno su due, in media, non si può volare con l’elicottero e in secondo luogo si creano dei problemi alle famiglie. Non è facile per una mamma con un piccolo, per esempio, nato prematuro, restare settimane al di là del Gottardo, lasciando marito e magari altri figli a casa. Questo aspetto di tipo emotivo e psico-sociale è quello più grosso. Quindi per queste ragioni l’idea di realizzare qualcosa in Ticino sarebbe sicuramente buona. Ma al momento ci sono anche dei «contro». La conferenza dei direttori dei Dipartimenti della sanità ha deciso che non si possono creare nuovi Reparti di Terapia intensiva e neonatologia, anche se c’è una disponibilità a trovare una soluzione speciale per il Ticino. Altro svantaggio: costa molto e il Ticino ha già problemi di diminuire le spese. Infine, c’è l’aspetto della massa critica: per curare bene certe patologie e avere davvero un’unità di neonatologia e terapia intensiva neonatale, la popolazione dovrebbe essere verosimilmente di circa 500mila abitanti e invece siamo circa 350mila, includendo anche la Mesolcina. C’è comunque la volontà di trovare una soluzione ragionevole”. Vista la complessa conformazione geografica della Svizzera e le difficoltà a varcare le Alpi, perché non collaborare con gli ospedali italiani vicini quando si verificano casi particolarmente urgenti e il trasporto oltre Gottardo può essere rischioso per la vita del bambino? “Il problema è molto complesso. La qualità delle cure pediatriche e neonatali in Italia è di altissimo livello, ma il bizantinismo organizzativo è un problema e l’aspetto «estetico» delle strutture a volte lascia a desiderare. Inoltre la Svizzera è un paese dove la qualità delle cure è estremamente buona, quindi probabilmente Berna non vedrebbe di buon occhio l’idea che i pazienti vadano al di là del confine. La realizzabilità politica al momento è estremamente complessa, ma è possibile ragionarci”. E se fosse una decisione individuale del paziente? “Questa è una cosa non ancora risolta, ma ci si potrebbe pensare. Per ora il Dipartimento rappresenta un tentativo di potenziare in generale le qualità delle cure in Ticino. Se noi riusciamo anche a evitare il «litigio» millenario tra pubblico e privato, le cose possono solo migliorare e già siamo su questa strada. Questo Dipartimento rappresenta davvero un’ottima occasione”. La parola alle mamme Elena Stroppini vuole essere ottimista: “C’è l’urgenza di dar vita a un Reparto di Terapia intensiva, al più presto. Sono già migliorate molte cose, quindi è importante parlarne”. Gisela Vegezzi aggiunge: “Per quanto riguarda gli ospedali della Lombardia, basterebbe una convenzione che permetta di collaborare solo in casi estremamente gravi e urgenti. L’ospedale Del Ponte di Varese si è anche già detto disponibile. Siamo a pochi chilometri di distanza, perché rischiare e varcare le Alpi?”.

Agorà 5


La luce e il dolore Un esperimento malcantonese con la cromopuntura raccontato da un “pioniere” di questa metodologia, il dottor Fausto Pagnamenta di Nico Tanzi

Salute 6

Le medicine alternative sono uno di quegli argomenti destinati inevitabilmente a dividere. La medicina ufficiale e gli scettici sottolineano la mancanza di dati in grado di comprovarne scientificamente l’efficacia, mentre milioni di persone ricorrono sempre più spesso, soprattutto per disturbi e patologie non particolarmente gravi, alle terapie alternative. Di fatto il nodo della questione, al di là dell’efficacia più o meno dubbia o comprovata, sta nell’opposta visione del mondo che sottende ciascuno dei due atteggiamenti. La fiducia nella razionalità e il bisogno di verificare meccanismi ed effetti con le procedure del metodo scientifico, da una parte; dall’altra, una certa apertura verso linguaggi e procedimenti difficilmente verificabili scientificamente, unita a una forte diffidenza per l’invasività dei farmaci “ufficiali”, accusati di curare i sintomi e non le cause, e di indurre – ma questa non è un’accusa ma la realtà dei fatti – effetti collaterali spesso devastanti.

che in un quarto di secolo di attività Pagnamenta ha formato nei suoi corsi un paio di migliaia di persone. L’idea è nata da Roberto Perucchi, direttore della casa anziani malcantonese nonché diplomato in cromopuntura. In accordo con le autorità cantonali – e in particolare con Anna De Benedetti Conti, medico e Caposervizio vigilanza e qualità dell’Ufficio del medico cantonale –, Perucchi ha proposto di curare per un anno, con una seduta settimanale di cromopuntura, un gruppo di ospiti della sua casa anziani: scelti, su base volontaria, fra i più sofferenti di dolori. Dodici in tutto, età media oltre gli 85 anni. Nella casa per anziani è stato allestito uno studiolo per la pratica della “cromo”, e per i trattamenti è stata ingaggiata una terapista diplomata, Chiara Piccaluga. Naturalmente è stato coinvolto il personale, cui era affidata la verifica degli indici del dolore prima e dopo ogni seduta terapeutica, per poter raccogliere statisticamente i risultati.

Risultati sorprendenti “Fin dall’inizio – spiega PagnaUna medicina, menta – i risultati sono stati buoni. ma che funziona E questo è particolarmente signifiPer gentile concessione del dr. Fausto Pagnamenta Secondo Richard Dawkins, uno cativo perché nelle prime due sedute dei più grandi divulgatori sciennon sono state praticate terapie antifici contemporanei, “non esiste la medicina alternativa: tidolore, ma solo di riequilibrio energetico e antitraumatico. Già esiste solo una medicina che funziona, e una che non funzio- dopo la prima seduta abbiamo registrato una diminuzione dei na”. Dawkins non è particolarmente tenero verso ciò che dolori del 30%. Ma questo non deve stupire: il coinvolgimento non è scientificamente dimostrabile. Lo ricordo bene, emotivo aumenta la percezione del dolore, e se con la luce si qualche anno fa a Venezia in un convegno su scienza e agisce su quel livello, come è avvenuto in quelle prime sedute, fede, mentre urlava che il mondo non sarà al sicuro “fino gli effetti sui pazienti sono straordinari”. a quando l’ultimo credente non sarà sparito dalla faccia della Questo forse non stupirà il medico locarnese, che da deterra”. Proprio per questo la sua affermazione mi è sem- cenni è abituato a vedere casi come quello del paziente, brata particolarmente adatta per introdurre un recente citato nel suo ultimo libro Dolori e colori, che arrivato nel esperimento sulla cura del dolore. suo studio “con una sciatica acuta e paralizzato dal dolore, un A raccontarlo è Fausto Pagnamenta, pioniere in Svizzera minuto dopo non ritrova più il suo dolore e lo ricerca piegandosi della cromoterapia (più correttamente: cromopuntura) se- come un ginnasta ai giochi olimpici”. Noi comuni mortali condo la tecnica sviluppata negli anni settanta-ottanta dal invece ci stupiamo eccome. “È vero – ammette Pagnamenta tedesco Peter Mandel, che consiste nell’irradiare sequenze – e questo porterebbe a diverse considerazioni su quale sarebbe di luce colorata su determinati punti del corpo, in parte l’approccio più corretto verso le persone che soffrono di dolore. coincidenti con i meridiani dell’agopuntura cinese. Una Prima di ogni altra cosa, bisognerebbe cercare di attenuare, o pratica terapeutica ormai piuttosto nota qui da noi, visto eliminare del tutto, quegli effetti emotivi che aumentano il dolo-


re, e che sono legati per ciascuno alla propria storia: una storia fatta spesso di traumi, di infelicità familiari, di separazioni, di abbandono. In una casa anziani ci si può sentire molto soli: e questo influenza enormemente la percezione del dolore. Riuscire a curare il dolore con una «semplice» terapia antitraumatica o riequilibrante è un bell’insegnamento: non solo per chi pratica la cromo ma per chiunque – terapista, medico, o familiare – abbia a che fare con il dolore”. Ma torniamo all’esperimento. E ai suoi risultati finali. Che sono andati, spiega Pagnamenta, “al di là delle aspettative. Allo scadere dei dodici mesi, nel marzo scorso, i dolori, misurati da personale paramedico non direttamente coinvolto nella terapia, sono diminuiti del 90%. Undici dei dodici pazienti alla fine non avevano più dolori. I risultati si sono rivelati stabili, anche nella verifica condotta un mese dopo il termine delle terapie. E questo – forse la cosa più importante – ha mutato radicalmente la qualità di vita delle persone coinvolte. Ha cambiato il loro umore, che è diventato più positivo. C’è stato un influsso benefico sui disturbi connessi: frequenti, per esempio, i casi di stitichezza improvvisamente sparita. Naturalmente agli effetti della cromopuntura si sommano quelli del rapporto fra terapista e paziente: se c’è un buon contatto è lo stato complessivo del paziente a trarne beneficio, e non solo l’umore e i dolori”. Un esperimento da ripetere Va sottolineato che la verifica sui dolori è stata effettuata non empiricamente ma secondo criteri “seri”, applicando le

relative scale del dolore. Si trattava di dolori cronici che duravano da anni, legati a diversi tipi di patologie, dall’artrite all’artrosi, con coinvolgimento osseo, curati regolarmente con farmaci di vario livello, dai più blandi (paracetamolo e aspirina) agli oppiacei leggeri (codeina), fino alla morfina. Anche l’uso di farmaci è stato monitorato nel corso dello studio, e ha fatto registrare una diminuzione non solo dei costi (meno 30%), ma anche dell’intensità farmacologica delle terapie. “Per esempio – ricorda Pagnamenta – la morfina è stata diminuita o in certi casi tolta del tutto: un fatto interessante anche perché i farmaci venivano prescritti di volta in volta, sulla base oggettiva dei dolori degli ospiti, dal medico di reparto, che non aveva nessun coinvolgimento nello studio”. Questi i risultati. Perucchi, Pagnamenta e gli altri professionisti coinvolti auspicano che la metodologia si possa estendere, coinvolgendo altri istituti, ospedali, case anziani. E chissà se quest’esperimento influirà sulla considerazione di cui gode la cromopuntura nell’ambiente medico, che registra ancora una certa chiusura: nonostante non siano pochi i medici che la praticano, magari su se stessi e sui propri familiari.

per informazioni Lo studio sull’esperimento di cromopuntura nella casa anziani malcantonese, pubblicato nei giorni scorsi, può essere richiesto contattando il direttore Roberto Perucchi (perucchi@oscam.ch).

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Crudismo, no grazie L’ultima tendenza d’oltre oceano in fatto di cibo è all’insegna del “crudo è meglio!”. Uno slogan che può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Chi critica la cottura, infatti, spesso non conosce le insidie che si nascondono in un’alimentazione che esclude l’uso dei fornelli di Eugenio Klueser

Benessere 8

Negli ultimi tempi si sta affermando la credenza che i cibi crudi siano una panacea per vivere sani e felici. Sono gli effetti della dieta crudista, o raw food, una sorta di “fede” che considera gli alimenti non “uccisi” dal calore della cottura come una cura anti-aging in grado di preservare il fisico da molti guai. Perno di tali principi sono gli studi condotti, nel 1937, dal medico russo Paul Kouchakoff, che fra l’altro ha esercitato in Svizzera, e che hanno evidenziato un aumento temporaneo dei globuli bianchi (leucocitosi) dopo l’assunzione di cibi cotti, rispetto a quelli crudi. Questa risposta immunitaria è stata interpretata come un atto di difesa dell’organismo, negativo per il benessere fisico. Nel tempo il crudismo si è sempre più basato su studi clinici e oggi riscuote un

discreto successo soprattutto tra le star di Hollywood. Il termine lo dice chiaramente: i crudisti stanno alla larga dai fornelli, sono spesso anche vegetariani, se non addirittura vegani, e considerano l’alimento crudo preferibile a quello cotto perché non ne altera la forza vitale. Sono molti i nomi illustri che hanno consigliato il crudismo: primo tra tutti, Gandhi. Il Mahatma scriveva che “per liberarsi di una malattia, occorre sopprimere l’uso del fuoco nella preparazione del pranzo”. Altri hanno criticato la cottura affermando che l’alimentazione umana “nasce” cruda e così deve essere per evitare di inibire il senso di sazietà, snaturare gli alimenti facendoli diventare troppo morbidi, alterarne il contenuto proteico, enzimatico, vitaminico e provocare la leucocitosi.


Il vantaggio della cottura Visitando poi i siti internet che sponsorizzano questa filosofia di vita, vi si può scorgere perfino una sorta di aura animista che considera la cottura come una sgradevole zavorra per l’organismo. Addirittura i crudiveganisti ritengono che il loro sia il modo più ecologico di alimentarsi perché, senza cottura, non si utilizza né energia elettrica né gas e il cibo, acquistato direttamente dal contadino o dal fruttivendolo, azzera i rifiuti secchi… Alcune affermazioni sono condivisibili, ma a un’analisi più accurata si scopre che non tutto sta in questi termini. Per dare voce anche all’altra campana – quella, cioè, che difende la cottura affermando che l’umanità si è evoluta anche grazie al fuoco che ha reso i cibi più digeribili, migliorandone l’igiene e la conservabilità – va aggiunto che di recente numerosi e autorevoli studi hanno scoperto che una lieve cottura riesce a far aumentare il potere antiossidante di parecchi ortaggi, favorendone così l’assorbimento e la biodisponibilità. Questo perché la rottura della parete cellulare vegetale da parte del calore non fa trattenere al suo interno numerosi composti utili. Facciamo qualche esempio: i folati dei cavolfiori, degli asparagi cotti a vapore o dei broccoli, anche se si riducono del 10% circa rispetto ai corrispettivi crudi, vengono assorbiti con maggiore facilità. Ciò non vuol dire che le carote crude, ricche di polifenoli, siano meno consigliabili di quelle cotte, ma che entrambe hanno delle frecce nel loro arco. In realtà, i maggiori problemi nascono dalla

pulizia poco accurata o dalla scelta di carne o pesce da mettere crudi nel piatto (mai pollame, selvaggina o carne suina!). Gli esperti sostengono che, da un punto di vista nutrizionale, non ci sono reali vantaggi tra crudo e cotto, ma che, grazie alle alte temperature, si distruggono salmonelle, germi, muffe e parassiti in grado di provocare intossicazioni anche molto gravi. Attenti all’igiene Eppure sempre più spesso i ristoranti e i supermercati propongono cibi da consumare crudi, strizzando l’occhio a una tendenza che li ritiene migliori. Che fare? Se è vero che, negli ultimi anni, grazie al miglioramento degli allevamenti bovini, la carne è abbastanza sicura, i rischi rimangono con il pesce: per stare tranquilli, accertatevi che, prima di essere servito, abbia trascorso almeno 24-36 ore in un abbattitore a –20 °C. Questo procedimento uccide gli eventuali parassiti, anisakis in primo luogo, che possono sfuggire anche ai rigidi controlli veterinari. Attenzione: non bastano le marinature nel limone o nell’aceto o la conservazione sotto sale per stare tranquilli! Insomma, i rischi ci sono e se proprio per voi “crudo è bello”, abbiate l’accortezza di controllare che l’igiene e la manipolazione dei cibi sia impeccabile!

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La difesa della propria persona è un fenomeno ancestrale, ma dalla sorprendente attualità. Essa si manifesta là dove esiste una reale offesa alla quale è necessario reagire. Ma come? Raramente il nostro corpo pare essere preparato alla risposta armonica ed equilibrata. Anzi... di Alessio Longo

Società 10

Le società contemporanee hanno la tendenza a prevenire e organizzare le difese, a rassicurare mettendo spesso in pratica l’adagio “se vuoi la pace prepara la guerra”. Secondo questa chiave di lettura, tutti gli atteggiamenti del quotidiano – dal prendersi cura del proprio corpo, alle amicizie che instauriamo, alle assicurazioni che paghiamo – possono essere considerati come un atteggiamento preparatorio e difensivo a un conflitto. Per citare René Girard1, “la nostra tribù, il nostro oggetto d’amore ci protegge ed è per tanto da proteggere”.

nella difficile visione oggettiva e scevra di pregiudizi che facilmente ci intrappolano (pregiudizi che vorrebbero assicurarci un futuro sicuro e vittorioso), ci si accorge di quanto antico sia il rituale del conflitto, dello scontro. Dalla competizione sportiva ai più moderni giochi in rete, la trama è sempre la medesima: le parti si contendono qualche cosa e il conflitto regolarmente si trasforma in scontro, fisico, mentale ed emozionale. Una difesa del proprio io, una difesa personale.

Una vita di scontri Oggi, più che mai, proliferano le attività fisiche (ma noi siamo sempre più in sovrappeso…): dal pugilato alla kick boxing, dal karate al kung fu dalla rievocazione medioevale alle battaglie simulate di soft gun, che sembrano veramente voler preparare i praticanti a un’imminente battaglia. Questo atteggiamento a prima vista potrebbe sembrare un esotico ed esoterico modernismo; uno dei tanti modi che abbiamo inventato per “perdere tempo”. In realtà, se ci si addentra

Corpo senza controllo Chi, nella propria vita si è cimentato, almeno una volta, nella disciplina della difesa personale si sarà accorto della mancanza di naturalezza con la quale il proprio corpo cerca di difendersi da aggressioni simulate. Questo atteggiamento goffo e impacciato è il risultato di un conflitto, non nei confronti di un possibile aggressore, ma nei confronti di pensieri ed emozioni interne che emergono in situazioni forzatamente anomale. Per esempio, noi solitamente non


La giusta distanza Nella pratica delle arti marziali, una delle caratteristiche di combattimento è la giusta distanza, espressione con cui s’intende la distanza che permette alla persona di avere il controllo della situazione. In questo particolare spazio tutto è in pace, considerando però che la realtà è in continuo movimento, la pace non può che essere conseguenza stessa del movimento. Questo spazio fisico, energetico ed emotivo che ci circonda è lo strumento con il quale ci relazioniamo con gli altri e dunque con noi stessi. Volersi bene significa anche rispettarsi e riconoscere i propri spazi. Se riceviamo un’aggressione, questa invade violentemente il nostro spazio fisico-emotivo, e noi sappiamo benissimo cosa dobbiamo fare: prendere distanza, la “giusta” distanza. Può succedere anche di subire un’ “invasione” e di lasciare che questa avvenga, senza mettere le mani avanti, senza urlare, senza spostarsi… magari facendo finta di niente perché le convenzioni sociali lo vietano (“non sta bene”, “non si fa”): ma intanto il nostro istinto è in allarme, e la paura ci assale. Nella difesa personale il fine è l’evasione dal conflitto, quindi non si tratta di ingaggiare dei duelli ogni volta che c’è un’intrusione nel nostro spazio, ma di evitare lo scontro. Quando questo è inevitabile però, è essenziale vivere il presente lasciando al nostro istinto tutta la libertà necessaria per “tirarci fuori” dai guai. Con la massima fiducia possibile. Operare sulla difesa personale ha quindi il pregio di aiutarci a conoscerci meglio seguendo la via esperienziale, fisica. Non a parole ma attraverso fatti concreti; perché le parole, si sa, sono spesso fraintese.

Caduta dei capelli … Capelli deboli … Unghie fragili …

... possono essere provocati dalla carenza di biotina.

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note 1 La violenza e il sacro, Adelphi, 1992.

nell’immagine “Three men demonstrating self-defence techniques”, 1930 circa. Dal catalogo della mostra City of Shadows, Justice & Police Museum, Sidney (Australia). Sino al dicembre 2013 (twistedsifter.com).

Leggere il foglietto illustrativo.

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ci mettiamo a strangolare le persone (almeno fisicamente), e nessuno di noi è abituato a farsi mettere le mani al collo, tirare i capelli, essere colpito ai genitali o in altri punti vitali. Eppure da sempre si praticano tecniche per evadere e controllare tali situazioni. Uno degli aspetti indagati quando si pratica l’autodifesa, è la fiducia che abbiamo nelle nostre possibilità di salvarci da una realtà che ci è ostile. A nessuno piace che gli si mettano le mani addosso, o di trovarsi in trappola; istintivamente siamo portati a risolvere subito a nostro favore situazioni di costrizione, eppure spesso non reagiamo. Uno dei fenomeni più caratteristici nella pratica della difesa, è la difficoltà di lasciare che il nostro istinto ci guidi “fuori”, con il risultato di rimanere presi in una impasse dalla quale non vediamo via d’uscita. In questo senso, lavorare sull’aggressione significa liberarsi dei pregiudizi che ci impediscono di reagire, di essere o di manifestarci per quello che siamo. A questo livello il lavoro della difesa personale è un esercizio interno nella propria intimità, abitata dai propri spettri e paure che spesso finiscono per bloccarci fisicamente.


Misteri della mente Le facoltà cognitive dipendono dai fattori più svariati: l’ambiente in cui cresciamo, gli stimoli ricevuti ma anche predisposizioni innate. E per fortuna il nostro cervello non è nemmeno una macchina facilmente prevedibile di Duccio Canestrini

Mundus 12

Cappuccetto Rosso un giorno cade, batte la testa e perde la memoria. Non del tutto però; diciamo che i suoi ricordi affiorano in maniera strana, disordinata. Lo racconta in un video clinico una paziente che, si capisce, usa l’alter ego di Cappuccetto Rosso per parlare di se stessa. Il cervello ha funzioni misteriose, capacità inesplorate, risorse che sorprendono. Chi lo studia si muove tra la fisiologia e la metafisica, tra la ragione logica e l’immaginazione. Le neuroscienze aprono scenari nuovi, cui non sfuggono fenomeni spirituali e talvolta considerati “paranormali”. L’incanto di formule e preghiere di diverse religioni, per esempio, può indurre stati di coscienza alterati. E che dire delle nostra facoltà di concentrazione, quelle che ci portano a prendere importanti decisioni?

moria collettiva. Penso anche a un’antica tradizione alpina che consisteva nel dare un ceffone ai bambini al momento della posa rituale della pietra di confine tra i campi. Era un modo – di certo ingegnoso, ma oggi non riproponibile! – di associare un evento sociale importante a un’esperienza dolorosa, e dunque indimenticabile. La ricerca ha dimostrato anche l’importanza dell’oblio, perché a volte dimenticare certi fatti è preferibile: ci sono forme di parziale amnesia che aiutano a vivere, e non occorre essere malati di mente per giovarsene. C’è il trauma di Cappuccetto Rosso che batte la testa, ma c’è anche quello, psicologico, di Cappuccetto Rosso abusata dallo zio.

Funziona, ma chi sa come… Chi ha visto Django Unchained, l’ultimo capolavoro di Quentin Tarantino, sa quanto gli studi Come si chiamava sul cervello in passato siano il tuo bisnonno? stati rischiosi e fuorvianti. Nel Videoclip: una top model enfilm si vede uno spietato latra in un bar con due bigliettifondista americano, siamo a ti d’aereo in mano e chiede metà ottocento, con la passione chi tra gli uomini che stanno della craniologia: questo grotbevendo birra al bancone sia tesco personaggio ravvisa nella disposto a partire immediataforma del cranio di uno schiavo Chi sceglie, noi o il nostro cervello? mente per andare a casa sua nero le “tipiche” fossette della a vedere una partita di calcio. sottomissione e del servilismo. Le risposte, beh, sono diverse. Sembra però che, a Proprio come Cesare Lombroso (1835–1909) credette dispetto di tutta la nostra razionalità, a guidare i no- di localizzare la propensione al crimine di un famoso stri processi decisionali siano soprattutto le emozioni. brigante in un’anomalia anatomica, cioè nella sua fosNaturalmente dal punto di vista antropologico esisto- setta occipitale. Ma erano fantasie antropologiche, inno più variabili comportamentali rispetto a quelle che terpretazioni fallaci, pseudoscienza del tutto ideologica. possono essere isolate in un laboratorio attrezzato. La Se è vero che alcune aree del nostro cervello ricoprono rilevanza sociale che viene assegnata a certe prestazioni ruoli specifici, è anche vero che esistono interazioni, in determinati contesti, o il valore culturale di alcune scambi, specchi e supplenze che lo fanno lavorare come performance sono molto importanti. L’ambiente, insom- qualche cosa di più che una somma delle sue parti. ma, è determinante. Tramontata la scienza triste della frenologia – costata lacrime Nel deserto della Giordania ho conosciuto beduini che ri- e sangue a uomini e animali – è evidente che le nostre cordano la loro genealogia con i nomi degli ascendenti facoltà cognitive dipendono da un mix di fattori. Sia fino alla quattordicesima generazione. Noi, neanche il dall’ambiente in cui cresciamo, e quindi dagli stimoli nome dei bisnonni. E non è una questione di neuroni, ricevuti, sia da predisposizioni innate. Come tutto questo quanto di educazione, perché i nomadi non hanno ufficio funzioni, compresa l’emotività, è un campo di ricerca dell’anagrafe né catasto, ma hanno invece parecchia me- meraviglioso, e delicato.


Letture Il quid della vita di Marco Alloni

Erano tanti anni che dovevo un omaggio a Giuseppe Pontiggia, fine narratore precocemente scomparso. Glielo dovevo perché la sua prosa ha lasciato una cifra, e quando di un autore si può osare un aggettivo – in questo caso “pontiggiano” – vuol dire che ha impresso un marchio che non si può ignorare. Che cos’è un libro pontiggiano? Romanzo per eccellenza di questa cifra dell’autore milanese è Vite di uomini non illustri, in cui il carattere inconfondibile della sua prosa trova per così dire una summa. Pontiggiano è coniugare l’ironia alla tragedia, o meglio, declinare la tragedia ironicamente. Pontiggiano è cogliere nelle vite degli uomini e delle donne il loro quid, quell’essenza che lunghe digressioni nascondono e il tratteggio essenziale della prosa di Pontiggia staglia viceversa sulla pagina come un’epigrafe d’assoluto. Pontiggiano è però soprattutto un certo tipo di stile. Uno stile che nelle Vite di uomini non illustri si palesa meglio e più a fondo che in tutti gli altri suoi romanzi, non foss’altro per la struttura frammentaria – deliberatamen-

te segmentata a riquadri o ritratti – che fa dell’opera il corrispettivo di certo minimalismo americano scevro dalle asperità della sintesi. Poche pennellate e cogliamo interi destini, vocazioni, aspettative, sogni, conflitti, adulteri, passioni, amarezze, sempre all’insegna di quel grande quadro di riferimento che è (nell’intera opera di Pontiggia) la famiglia. Già, perché stile pontiggiano e famiglia in qualche modo si equivalgono. La famiglia è la nostra fucina e così lo è il nostro linguaggio. Pontiggia ha saputo assimilarli al punto che, se vogliamo capire l’essenza del nostro vivere quotidiano e la quotidianità che ne dà corpo, tale romanzo rappresenta per così dire un exemplum. Letto Vite di uomini non illustri si comprende che cosa sia un fondamentale autore del dopoguerra. E attraversate quelle (così poco illustri eppure così dense) vite si comprende come pontiggiano possa essere, tutto sommato, sinonimo di esistenzialista. Ironicamente, va da sé: perché senza ironia non c’è tragedia e senza tragedia a che serve l’ironia...

Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia Oscar Mondatori, 2003

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S

ono nato al Cairo nel 1955. La mia era una famiglia cristiana del ceto medio, io e i miei fratelli abbiamo ricevuto un’educazione basata su valori forti come l’onestà e il rispetto per gli altri. Ho avuto la possibilità di studiare e in Egitto mi sono laureato in Economia e Commercio. Ricordo l’Egitto come un paese ospitale. Quando ero ragazzo non c’erano gli attuali problemi tra cristiani e musulmani, eravamo tutti fratelli. Beninteso, non i Fratelli Musulmani di oggi che sono una minoranza e questa minoranza non è altro che un’ignoranza, che vuole far affondare la barca egiziana. A mio avviso, la gente ha fatto bene a protestare e quello di inizio luglio non è stato un colpo militare, ma un’azione dei militari per proteggere il popolo da uomini che pensano solo ai propri interessi. Ma tornando a quegli anni, dopo la laurea sono partito, volevo andare in Italia, riprendere gli studi. Così prima degli anni ottanta mi sono trasferito a Firenze, dove ho capito subito però che non potevo studiare e lavorare insieme, dovevo scegliere e visto che in Italia non avevo una fonte di reddito, se non il mio lavoro, ho lasciato gli studi e ho cominciato a lavorare come cuoco. A Firenze mi sono trovato bene, posso dire di essermi integrato senza difficoltà. Devo dire che in Italia mi sono inserito subito anche perché ho sempre messo il rispetto per gli altri al primo posto. Penso che se uno straniero vuole essere accettato in casa d’altri debba essere lui il primo a rispettare chi lo ospita. A Firenze sono stato dieci anni, poi ho incontrato quella che oggi è mia moglie. Lei veniva dalla Svizzera tedesca e si trovava in Italia per studiare l’italiano e intanto lavorava come babysitter. Con mia moglie non mi è mai pesata la differenza di provenienza, i nostri due mondi, che potrebbero sembrare così diversi, sono in realtà simili: dopo tutto l’Egitto è la patria della civiltà e oggi i costumi occidentali sono molto diffusi in questo paese, soprattutto tra gli egiziani cristiani, ma anche tra i musulmani moderati. Dopo esserci conosciuti, ci siamo sposati nella chiesa di Santa Maria a Novoli, un quartiere di Firenze, e abbiamo avuto una bella bambina. Ma ci mancavano le nostre famiglie

d’origine, pur avendo a Firenze tantissimi amici. Ci siamo così avvicinati alla famiglia di mia moglie e ci siamo trasferiti in Ticino, a Camignolo, un paesino di duecento abitanti, tanto diverso dal Cairo e da Firenze! Allora era il 1988 e c’era lavoro. Quando stavamo ancora a Firenze mi era bastato andare qualche volta in Ticino per trovare subito un contatto lavorativo e fare il contratto per la casa. Dopo Camignolo, siamo andati a Viganello, poi a Melide e infine ho lavorato per un grande magazzino di Lugano come cuoco. Lì mi sono fermato per undici anni, ricoprendo anche mansioni di una certa importanza. Ancora oggi ho contatti con tutti gli ex colleghi. Il rapporto di lavoro si è interrotto perché uno degli allora direttori non mi ha voluto concedere i tre mesi di congedo che avevo chiesto per ottenere il certificato di gerenza. Visto che se mi metto in testa qualcosa cerco di realizzarla ho fatto da solo, ho ottenuto il certificato e per conto mio ho aperto un bar-pasticceria a Ponte Tresa, il San Marco, un nome che deriva dal fatto che San Marco è il protettore dell’Egitto. Dopo sei anni di attività, continui viaggi in macchina da Ponte Tresa e Mendrisio, dove abitavo e abito con la mia famiglia, e levatacce alle cinque meno un quarto del mattino io e mia moglie abbiamo deciso di prendere un bar a Mendrisio. Quest’anno il bar compie otto anni e forse noi ci siamo definitivamente stabiliti, dopo essere stati così a lungo in movimento! Le mie due figlie sono diventate grandi, una già lavora, e a Mendrisio sto bene. Ecco, adesso mi muoverei per tornare in Egitto, che non vedo dal 2005, un periodo così lungo perché la morte dei miei genitori e di due dei miei fratelli mi avevano bloccato, non volevo e non riuscivo a tornare. Ma forse adesso è giunto il momento giusto: a una mia nipote che mi chiedeva sempre quando sarei tornato al Cairo, io rispondevo ogni volta “quando ti sposi”. Ebbene, questa volta non posso procrastinare, a fine anno lei si sposa davvero!

JoSEPH MELEk

Vitae 14

Dall’Egitto al Ticino, passando per l’Italia. Una laurea in Economia e gli inizi come cuoco. Oggi gestisce con la moglie un bar a Mendrisio: la Svizzera è la sua casa e per l’Egitto spera in un futuro migliore

testimonianza raccolta da Roberto Roveda fotografia ©Flavia Leuenberger


La cucina della salute di Laura Di Corcia; fotografie ŠReza Khatir

Michele - Cuoco per la dieta


Roberto - Economo, accettazione merci

S

iamo quel che mangiamo. È proprio vero. Una corretta alimentazione, sana ed equilibrata, è importantissima per chi gode di buona salute, affinché la mantenga; figuriamoci per gli altri. Per questo, all’interno delle strutture ospedaliere, è fondamentale abbinare a un buon regime alimentare, il gusto e la sorpresa, per non far pesare troppo le privazioni a chi già sta intraprendendo un percorso di recupero fisico non sempre facile, talvolta irto di ostacoli. È quello che si cerca di realizzare tutti i giorni presso l’Ospedale Regionale di Lugano, e, se i risultati sono più che soddisfacenti (il 95% dei pazienti si esprime positivamente), è in virtù dello sforzo del team guidato da Vicente Rielo, responsabile dei servizi ospedalieri e quindi anche del coordinamento della cucina – che conta, a livello di personale, 38 unità di cui 13 cuochi professionisti e 25 ausiliari – di Ivan Casarotti, chef, e di Francesco Lobosco, sous-chef. È grazie a loro e al team, che la complessa macchina può essere messa in funzione ogni giorno e distribuire ai pazienti, al personale e ai visitatori quotidianamente circa 1800 pasti, sempre attenti nel rispettare le singole esigenze di salute dei pazienti e venendo incontro anche alle preferenze soggettive. La cucina dell’ospedale si avvale di un nuovo sistema produttivo adatto alla ristorazione collettiva, che permette un’organizzazione molto precisa del lavoro: si tratta del “Cook & Chill”, altrimenti detto “Legame refrigerato”, basato sulla completa cottura dell’alimento seguita dal rapido raffreddamento tramite abbattitore di calore e stoccaggio in

Davide - Responsabile stoccaggio


Francesco - Sous-chef


Hueseyin - Ausiliario di cucina

Brunello - Capo pasticciere

condizioni di bassa temperatura gestite e controllate ma in ogni caso sopra il punto di congelamento tra 0 e + 2 °C. In questo modo l’alimento può essere conservato fino a 5 giorni in ambiente non condizionato o per 14 giorni in ambiente condizionato a partire dal momento della cottura senza alcuna variazione qualitativa e igienica. La rigenerazione tramite calore termoventilato o indotto rigenera l’alimento in progressione attiva fino al raggiungimento di un minimo di 65 °C al cuore per almeno 2 minuti. Al momento della rigenerazione sembra quasi magia: la pietanza pare realizzata al momento, a tal punto che alcuni pazienti non immaginano nemmeno che sia stata preparata il giorno prima. In questo modo, non solo si evitano la proliferazione batterica e l’alterazione degli alimenti, ma si mantengono anche inalterati i principi nutritivi, organolettici e i colori degli alimenti: e non è poco. Inoltre la tecnica del “Cook & Chill” permette di avere, una produzione svincolata spazialmente e temporalmente con la massima flessibilità di esercizio degli impianti di produzione, un’ampia proposta qualitativa e quantitativa della dieta, colori vivi e calo di stress. Questo offrendo anche al team di cucina la possibilità di avere orari regolari, senza turni serali, e potendo approfittare del fine settimana e dei festivi. La cucina dell’Ospedale Civico con la sua organizzazione moderna serve anche l’Ospedale Italiano, il Cardiocentro Ticino, la Casa dei Ciechi e un asilo nido.

Piatti colorati e invitanti “Il Cook & Chill che in Ticino usiamo solo noi e in parte in un’altra struttura dell’EOC – spiega il sous-chef Lobosco,– permette anche di ottenere ottimi risultati a livello visivo (come si suol dire si mangia anche con gli occhi). In questo modo, i cibi appaiono colorati e invitanti come appena preparati: l’aspetto psicologico del pasto, in una fase delicata come la degenza, è decisamente importante”. Per questo la stragrande maggioranza dei pazienti si dice soddisfatta di quanto trova nel piatto, perché i menù sono realizzati secondo criteri che soddisfano sia il palato sia l’occhio, tenendo conto dei vari profili dietetici. “La nostra linea generale – continua il sous-chef – è quella di proporre una base di dieta leggera avendo comunque un apporto equilibrato di principi nutritivi ovvero carboidrati, proteine e fibre. Il nostro percorso quotidiano è dettato da un piano di produzione dove sono rigorosamente definite le quantità di sale e di materia grassa da utilizzare per i molteplici pasti preparati, questo perché sempre più sovente sentiamo parlare di un utilizzo parsimonioso del sale e dei grassi, in quanto se mal gestiti sono alla base di svariate patologie gravi per la nostra salute. La cucina è molto attenta anche alla selezione delle materie prime, che sono, dove possibile, ticinesi e, se si tratta di frutta e verdura, di stagione. Quando arrivano all’ospedale, le derrate sono sottoposte ad accurati controlli di qualità prima dell’accettazione.”


Chiara - Praticante (sulla sinistra); Patrizia - Assistente di cura (al centro); Angela - Assistente di cura (sulla destra)

Milleottocento pasti al giorno Come è possibile ottimizzare la distribuzione di 18002000 pasti al giorno ? “Abbiamo a disposizione schede tecniche digitalizzate per ogni paziente” – spiega Rielo –, “quindi sappiamo che la signora X è diabetica e non può eccedere con i carboidrati, mentre il signor Y non può masticare e quindi va nutrito con cibi a consistenza modificata. Nulla è lasciato al caso: ci sono 290 diversi profili dietetici”. Certo, si trova sempre chi si lamenta. E, nel caso dei pazienti, questi sono spesso persone con abitudini alimentari diverse, che a causa della loro patologia si trovano assegnati una dietoterapia restrittiva (dieta senza sale, ipocalorica o specifica per disfunzioni renali ecc.). Queste diete restrittive a volte non vengono accettate perché sensibilmente diverse dalle loro. Spesso si fa fatica ad adattarsi al cambiamento, seppur i menù proposti sembrino invitanti. “Oggi abbiamo come primo, una minestra di miglio, come secondo un arrosto di vitello accompagnato da spätzli, per finire, la mousse alla banana”, spiega Lobosco. È decisamente invitante, non vi sembra?

Reza Khatir Nato a Teheran nel 1951 è fotografo dal 1978. Ha collaborato con numerose testate nazionali e internazionali. Ha vissuto a Parigi e Londra; oggi risiede a Locarno ed è, fra le altre cose, docente presso la SUPSI. khatir.com

Un ringraziamento particolare per la cortese collaborazione a Vicente Rielo, responsabile Servizi Ospedalieri, a Luca Jelmoni, direttore dell’Ospedale Regionale di Lugano e a tutto lo staff di cucina.


Farmacia. Antro del rimedio di Marco Jeitziner; fotografie ©Reza Khatir

fati, in abbigliamento casalingo, col viso serio e borbottante. Poi li ho visti uscire, non dico pimpanti o fischiettanti, ma spesso più sollevati, col loro sacchettino di plastica verde o bianco ricolmo di “magiche” scatolette.

Luoghi 44

Dopo il taglio estivo dell’erba di un campo, qualcosa mi punse dietro al ginocchio, provocandomi un considerevole gonfiore, dolore e prurito. Siccome il problema non passava, decisi di andare in farmacia a chiedere aiuto. Una delle due giovani (e, devo ammettere, carine…) assistenti mi chiese cosa mi avesse morsicato: un ragno, un’ape, uno scorpione, un troll? Boh! Sicché lei uscì da dietro il bancone, venne verso di me, si chinò, sollevò un po’ un pantalone e mi mostrò quella che era la puntura di un’ape, proprio sopra la caviglia, ricevuta qualche giorno prima... Clienti di ogni tipo A parte certe intraprendenti assistenti di farmacia, che avranno sicuramente i loro seguaci, confesso di non amare molto questi luoghi, per la semplicissima ragione che ci si reca quando bene non si sta. Eppure c’è chi le frequenta con assiduità, non di rado quotidianamente. Non avevo idea del movimento che c’è persino in quelle di paese, figuriamoci in città! L’attore e regista Carlo Verdone ha dichiarato che oggi, per conoscere vizi e difetti delle persone, lui si posiziona in un angolino tranquillo della sua farmacia – magari per farsi controllare la pressione – e in silenzio ascolta e osserva. Qualcuno di voi avrà visto Magnolia, un bel film di qualche anno fa: be’, chissà quante psicopatiche dedite a Prozac e Dexedrina ci sono in giro, come quella magistralmente interpretata da Julianne Moore? In paese ho visto clienti bizzarri, di solito anziani, di solito donne, spesso a piedi, col passo “un po’ strascicato”, l’aria sofferente, acciaccati (anche se magari non è vero, ma conta l’apparenza), camuf-

È pur sempre bottega Pare che la predominanza del bianco in questi luoghi (dall’arredamento all’abbigliamento del personale) serva a trasmettere un senso di igiene, di saggezza e persino di lealtà. Una strategia di marketing, insomma. Se ci sono, per carità, persone che stanno male e a cui la farmacia può anche salvare la vita, ce ne sono molte altre che ci vanno come se facessero la spesa al reparto alimentari. A quanto mi risulta, in Ticino abbiamo quasi… 200 farmacie! Il dato, ricavabile dal sito delle autorità cantonali, equivale alla… maggiore densità di tutta la Svizzera! Il Ticino è diventato una Las Vegas del farmaco? I medici prescrivono una quantità eccessiva di medicamenti? È la domanda che crea l’offerta o il contrario? Oppure siamo, semplicemente, un popolo cagionevole e ipocondriaco? La pomata che avanza Vendere farmaci funziona perché è un commercio simbolicamente molto forte che concerne la nostra salute, ciò che abbiamo di più prezioso. E il farmacista, come ogni “tecnico” della salute, tende a considerare seriamente ogni nostra piccola preoccupazione, anche se si tratta di un’insignificante puntura d’insetto. E torno al mio aneddoto estivo. Una volta spiegato il problema al farmacista, lui mi rispose testualmente: “Ah, guardi, è meglio non sottovalutare queste cose, altrimenti rischia di andare al pronto soccorso o farsi venire uno shock anafilattico!”. Se voleva spaventarmi, ci stava riuscendo in pieno. “Addirittura?” commentai. “Eh, sì!”. Essendo lui l’esperto in materia, mi fidai: chiesi dei generici, ma non c’erano, allora comprai dapprima una pomatina da applicare per qualche giorno e poi delle pastiglie, caso mai che… Pagai il conto, col terrore che niente avrebbe funzionato e che mi avrebbero dovuto amputare la gamba. Risultato: dopo soli due giorni di pomata, tutto era tornato a posto, ma il tubetto è ancora mezzo pieno, le pasticche non le ho nemmeno aperte e, peggio ancora, non ho mai saputo che cosa mi avesse morsicato!


Luoghi 45


Effetti collaterali

“Chiedi a un qualsiasi bambino iperattivo, depresso, a un teenager arrabbiato, a un adulto violento o a un criminale cosa mangia e scoprirai che vive di junk food: cereali zuccherati in scatola, caramelle, bibite zuccherate, patatine chips, fast-food” (Barbara Reed Stitt, medico)

di Keri Gonzato

Ogni cosa è collegata. Anche la scienza, sempre di più, sta comprovando questa visione olistica della vita. Molti studi effettuati da un secolo a questa parte hanno messo in rilievo come l’approccio che abbiamo a ogni singolo aspetto del vivere decreti la qualità del nostro benessere, interiore ed esteriore. Per questo è fondamentale compiere delle scelte consapevoli a ogni livello della propria vita per raggiungere il “Sacro Graal dell’armonia“.

Scienza 46

L’importanza di ciò che mangiamo Tra queste decisioni un posto fondamentale è occupato dall’alimentazione, bisogno indispensabile dell’uomo. Come spiegava un mio docente di biologia, “gli alimenti sono i mattoncini di energia fondamentali per far funzionare la fabbrica del tuo corpo”. Evidente, dunque, che la scelta di tali mattoni deve essere attuata con cura, scegliendo quelli di migliore qualità. Purtroppo, non sempre è così. Viviamo in un pianeta sempre più grasso, con le arterie otturate dal colesterolo, la pressione alta e il fiato corto. Perché? Il motivo sono le scelte sbagliate e, tra queste, un posto di rilievo è occupato da quello che gli anglosassoni hanno definito junk food: il cibo spazzatura. Un’espressione che è entrata a far parte di usi e costumi europei a pieno regime ed è contemplata persino dal dizionario della lingua italiana Hoepli: “junk food, loc. sost. m. inv. Cibo da consumare in genere fuori pasto, ad alto contenuto calorico ma di scarso valore nutrizionale; quindi di bassissima qualità”. La spazzatura è qualcosa che solitamente scartiamo perché ormai non serve più; è roba scadente, inutile… sporca. Il fatto che questi cibi vengano affiancati a tale immagine non è sicuramente un buon segno. Si parla infatti di mattoncini che offrono al corpo energia di bassa qualità, con proprietà nutritive spesso prossime allo zero, colmi di grassi saturi, tossine, sostanze ossidanti e acidificanti, aromi artificiali, conservanti, coloranti e via dicendo. Se poi, all’alimentazione sbagliata, si aggiunge il consumo di fumo e l’abuso di alcolici la situazione si fa sempre meno allegra, poiché tali sostanze interferiscono con l’assimilazione dei nutrienti. L’alcol, per esempio, riduce l’assorbimento delle vitamine B1 e B2 che hanno un ruolo cruciale nel garantire la stabilità emotiva. Tali abitudini alimentari sbagliate, oltre a intossicare il corpo a livello

fisiologico, producono delle conseguenze importanti a livello comportamentale. Se diamo al nostro corpo delle sostanze nocive questo reagirà negativamente, con irritabilità, iperattività, apatia o addirittura atteggiamenti aggressivi. Se invece dimostriamo di amarlo, fornendogli dei cibi buoni, tutto il sistema manderà dei messaggi di equilibrio e soddisfazione. Il cibo, la mente e la violenza È la scienza a sottolineare questo fatto, con numerosi studi attorno alla tematica. Una ricerca elaborata da due università spagnole su 8964 volontari ha mostrato, per esempio, che il consumo di cibo scadente fa aumentare del 51% il rischio di disturbi mentali. Dalla Florida inoltre, arriva la certezza che i grassi e gli zuccheri del junk food, stimolando il piacere, provocano il desiderio di averne una dose maggiore e creano un effetto di dipendenza simile a quello degli stupefacenti. Va da sé che, chi si ritrova “in manco”, tende a manifestare un comportamento nervoso e aggressivo… Il dottor Drew Ramsey, dell’università di Oxford, ha provato che esiste una correlazione diretta tra i comportamenti aggressivi e autodistruttivi e una dieta sbagliata, con le conseguenti carenze nutrizionali. Lo studio in questione si è occupato di un gruppo di carcerati i quali, assumendo degli integratori con le sostanze di cui erano carenti, sono diventati più “pacifici”. In assenza di determinati nutrienti invece, il corpo non è in grado di produrre gli ormoni e le sostanze necessarie per il buon umore, la calma e l’armonia mentale. Insomma, davvero, “siamo quello che mangiamo”, anche psicologicamente. La conferma in realtà era già arrivata da alcune esperienze molto significative avvenute prima di queste ricerche. Nel giugno del 1977, il Wall Street Journal dedicò alla storia della dott.ssa Barbara Reed Stitt l’articolo “La cioccolata può trasformarti in un criminale? Alcuni esperti dicono di sì”… Mentre lavorava per una prigione in Ohio questa brillante dottoressa scoprì che, migliorando l’alimentazione dei carcerati, ovvero evitando gli accumuli di tossine e le deficienze nutrizionali, si facevano miracoli. Se il tasso medio di recidiva ammontava al 77%, in 12 anni l’80% dei carcerati trattati dal medico rimasero fuori dai guai.


Immagine tratta da fanpop.com

Altre esperienze simili provarono che, oltre a permettere alle persone di non ricadere in atti criminosi, un regime alimentare sano aiuta a uscire da problemi di dipendenza da sostanze. I ragazzi, gli zuccheri e il cibo veloce La dott.ssa Reed Stitt, assieme al marito biochimico, decise poi di dedicarsi alla prevenzione. Nel 1997 la coppia inizia a portare cibo integrale, proteine magre e frutta fresca nelle scuole americane, eliminando i distributori di bibite zuccherate, il cibo scadente delle mense e il consumo elevato di carne. I risultati sono sbalorditivi: i ragazzi si calmano e ritrovavano la capacità di concentrarsi. Inizialmente, per mostrare l’efficacia del metodo, dopo 7-8 settimane

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di alimentazione impeccabile propongono un giorno di junk food. Il risultato è immediato, nel giro di due ore gli insegnanti perdevano il controllo della classe. Gli allievi rispondono a quel cibo con comportamenti aggressivi, letargici o iperattivi. Nel 1999, un liceo del Wisconsin, li chiamò nel tentativo disperato di risolvere uno stato di crisi. La scuola, che allora aveva bisogno di un poliziotto in pianta stabile, nel giro di due mesi di alimentazione sana aveva ritrovato l’armonia. “Cambiammo soltanto il cibo e, in meno di due mesi, non avevano più alcun problema di disciplina”, rievoca la dottoressa, “e il numero di casi di allievi che abbandonavano gli studi passò da 350 all’anno a soltanto 16”. Alla luce di tali esperienze, questa donna rivoluzionaria è fortemente convinta che dare ai bambini del cibo, altamente raffinato e processato in fabbrica, rappresenta un vero e proprio abuso, non solo fisico ma anche psicologico e accademico. Occorre poi dire che anche chi, evitando hamburger e patatine, pensa di nutrirsi nel modo corretto, deve prestare attenzione. Infatti, inscatolamento, processi industriali (come la raffinazione di zucchero e farine), esposizione alla luce, congelamento e cottura eccessiva debilitano e riducono la qualità dei mattoncini energetici che forniamo al nostro corpo. Se torniamo al pensiero olistico, in cui ogni cosa è connessa, il modo più semplice per compiere la scelta giusta è essere consapevoli di quello che stiamo facendo. L’obiettivo del mangiare non è semplicemente riempirsi la pancia, si tratta di un atto di nutrimento, amore e rispetto verso il proprio corpo. Di conseguenza, i mattoncini che scegliamo per alimentarci dovrebbero essere ricchi di sostanze buone e nutrienti, prodotte e cucinate con amore e che ci facciano stare bene. In fondo, è tutto piuttosto semplice… bibliografia e per saperne di più Food & Behavior – A Natural Connection, Barbara Reed Stitt, Natural Press, 1997. The Happiness Diet: A Nutritional Prescription for a Sharp Brain, Balanced Mood, and Lean, Energized Body, Tyler G. Graham, Drew Ramsey, Rodale Books, 2011. Violent behavior and junk food, Zen Honeycutt, da momsacrossamerica.com, marzo 2013. I junk food aumentano l’aggressività e creano dipendenza, dott. Davide Bianchini, da dietabianchini.com, maggio 2013.

Domande sul tema dei generici? Informatevi grazie alla guida gratuita di Mepha Pharma SA.

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Tutte le guide Mepha sono disponibili al sito www.mepha.ch Quelli con l’arcobaleno


Vernici ecologiche

SENZA SE SENZA MA Tendenze p. 48 – 49 | di Francesca Ajmar

Nuovi colori per la nostra casa? Volentieri, ma attenzione alla scelta delle vernici poiché si tratta di prodotti che agiscono direttamente sulla qualità della nostra vita


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iversi studi scientifici condotti in questi ultimi anni negli USA, in Germania, e in Italia in particolare dal CNR e dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ci consegnano un dato inquietante sul livello di inquinamento “indoor”, ovvero tra le pareti di casa o nei luoghi chiusi di lavoro. In questi ambienti, che dovrebbero essere “protetti”, così almeno ce li immaginiamo, si arriva spesso a livelli di insalubrità anche di otto volte superiori rispetto all’esterno. Questo è dovuto soprattutto ai tipi di materiali da costruzione e d’arredo, che rappresentano quasi il 50% dei fattori inquinanti da interno. Vernici, colle, detergenti e detersivi, elettrodomestici e impianti non sufficientemente schermati, e altro ancora, possono produrre sostanze volatili, radiazioni e campi elettromagnetici nocivi alla salute. Il problema vernici Qualora si desiderasse ritinteggiare, occorre dedicare particolare attenzione alla scelta delle vernici, sia da interno che da esterno, poiché si tratta di prodotti che agiscono direttamente sulla qualità della nostra vita. Se non naturali, le vernici “convenzionali” sono costituite da solventi, pigmenti, cariche e leganti, che provengono dall’industria petrolchimica di sintesi. La loro accertata scarsa traspirabilità

non è sicuramente un fattore salutare, e contribuisce a formare una sorta di pellicola impermeabile sulla superficie trattata. Da non sottovalutare poi che giungono da processi produttivi, i cosiddetti “cicli aperti”, spesso dannosi per chi vi lavora e per l’ambiente anche perché vengono utilizzati pigmenti inorganici contenenti un’elevata quantità di metalli pesanti, quali cadmio, cromo, mercurio, piombo ecc. Circa il 40% del peso di una vernice sintetica evapora per effetto dei solventi, tutti potenzialmente tossici per l’organismo umano. Alcune colle inoltre continuano a produrre formaldeide, anche a distanza di molti anni. Scegliere è essenziale Come scegliere, allora, vernici e finiture naturali? Una vernice può essere definita biologica, a basso impatto ambientale, quando è realizzata e interamente prodotta con ingredienti naturali. Nella scelta occorre sempre leggere attentamente le etichette sui prodotti, e non fermarsi alla prima dicitura “bio” o “eco”. In questi casi infatti i solventi sono certamente naturali (per esempio, l’acqua), ma i componenti possono comunque essere di origine sintetica. È fondamentale che ci sia una certificazione UE, per esempio, “Ecolabel”, ed è molto importante controllare la traspirabilità, espressa col simbolo “µ”, che indica la resistenza al passaggio del vapore.

Questo valore deve essere basso, ovvero la superficie deve rimanere il più permeabile possibile. Le vernici ecologiche offrono una vasta gamma di colori e sfumature, e spesso hanno una resa maggiore rispetto a quelle chimiche. Sono inodori, e consentono quindi di soggiornare nell’ambiente tinteggiato anche subito dopo l’applicazione. Le novità sul mercato Attualmente la ricerca sta puntando molto sulle vernici fotocatalitiche, che cominciano a essere applicate anche su vaste superfici esterne: si tratta di prodotti in grado di trasformare sostanze nocive (polveri sottili) in composti non o comunque meno tossici, attraverso un processo di fotocatalisi, simile per intenderci a quanto avviene con la fotosintesi. Alcune marche prestigiose di vernici bio sono, per esempio, la “Ecos“, originaria della Gran Bretagna, senz’altro una delle più note e delle più valide (ecosorganicpaints.co.uk), oltre che una delle capostipiti per i prodotti ecologici per l’architettura. È possibile l’acquisto online. Un’altra ottima marca è Durga (durga.it), che utilizza materie prime vegetali e rinnovabili, oltre a pigmenti solo naturali. Segnalo inoltre Progetto Bio (progettobio.it), portale di vendita e presentazione online dei migliori prodotti per la bio-edilizia presenti sul mercato internazionale, oltre a biotinteggiature.it.


La domanda della settimana

L’attività di casalinga/casalingo dovrebbe essere riconosciuta e retribuita come avviene per tutte le altre professioni?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro mercoledì 30 ottobre. I risultati appariranno sul numero 45 di Ticinosette.

Al quesito “Una vostra amica ha una relazione con un nuovo collega di lavoro: la dissaduereste?” avete risposto:

SI NO

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Astri ariete Venere in trigono a partire dal 27. Il periodo si presenta ottimo per fare un viaggio d’amore o conoscere qualcuno durante una vacanza.

toro I nati tra la prima e la seconda decade spinti a tagliare i ponti col passato. A volte la diplomazia è essenziale. Positiva la Luna tra il 30 e il 31.

gemelli Difficilmente ve la sentirete di cimentarvi in qualcosa di impegnativo sia che riguardi il lavoro o la vita sentimentale. Distraetevi con un hobby.

cancro Momento ideale per impegnarsi in qualcosa di importante. Grazie a una ritrovata lucidità potrete risolvere quello che avete lasciato in sospeso.

leone Mancate di concentrazione e tutto tende ad annoiarvi. Venere positiva per i nati nella terza decade. Particolare attrazione per gli stranieri.

vergine Ogni battaglia tende a esser sposata con furore religioso. È il momento dell’infatuazione, qualunque essa sia. Bene la giornata del 29 ottobre.

bilancia Un inaspettato passato ritorna a galla. Non è il momento adatto per adottare una politica attendista. Fortunati i nati nella terza decade.

scorpione Momento fondamentale per l’astrologia karmica. Rivoluzione copernicana all’interno della vostra esistenza. Riconoscimenti pubblici.

sagittario Dal 27 colpi di fulmine e rinnovamento del look. Momenti di gioia tra il 27 e il 28 ottobre. Non esagerate con dolci e dieta sbilanciata.

capricorno Atteggiamenti bi-polari nei confronti della realtà circostante. Cambiamenti per i nati nella prima decade da porsi in relazione a Urano.

acquario Amore e/o situazioni di divertimento per i nati nella terza decade. Scelte importanti per i nati tra la prima e la seconda decade.

pesci Potete affrontare le difficoltà senza problemi. Ma non per i nati nella prima decade soggetti all’opposizione di Marte. Calo energetico


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La soluzione verrà pubblicata sul numero 45

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro mercoledì 30 ottobre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 29 ottobre a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Verticali 1. Uccello delle coste artiche • 2. Il poeta di Ascra • 3. L’affanno del moribondo • 4. Il maschio della capra • 5. È simile alla caffeina • 6. L’Arnoldi scultore • 7. Trangugiare • 8. Fuga di massa • 12. Decollano e atterrano • 13. Aggredire a parole • 19. Lapalissiani • 23. Austria e Italia • 24. Incantesimo, malia • 26. Pia, fedele • 28. La scienza che studia il comportamento degli animali • 30. Un insetto molto pigro • 34. Produce miele • 37. L’ampolla in tavola • 39. I confini del Ticino • 41. Ispida • 42. Monte ticinese • 45. Dubitativa • 47. Breve esempio • 49. Trio senza pari.

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Orizzontali 1. È più grave dell’appendicite • 9. Utilizzare • 10. Cuor di cane • 11. Lapidazione, esecuzione sommaria • 14. Una fibra tessile • 15. Sonda centrale • 16. Dispari in iodio •17. Si contrappone alla partenza • 18. Si paga all’armatore • 20. Dittongo in paese • 21. In mezzo ai rovi • 22. La Ville Lumière • 25. Consonanti in Lidia • 27. Vascello • 29. Permessa dalla legge • 31. Articolo romanesco • 32. Antenati • 33. Maroso • 35. Sottomessi, arrendevoli • 36. Lo dice chi rimanda • 38. Andata in poesia • 39. L’eroe svizzero • 40. Cattivo, perfido • 43. Dittongo in pietra • 44. Ritornello, motivetto • 45. Una delle Piccole donne • 46. Pedina coronata • 48. Incrostazioni che si formano nelle botti di vino • 50. Ella • 51. Assicurazione Invalidità • 52. I confini di Arogno.

La soluzione del Concorso apparso il 11 ottobre è: GELATAIO Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Giancarla Zorzi 6747 Chironico Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

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