Ticino7

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№ 44 del 2 novembre 2013 · con Teleradio dal 3 al 9 novembre

sei in onda

Quella di oggi non gracchia quasi più e nemmeno il digitale ha scalfito il suo fascino. Che c’è di meglio della radio?

C  T · RT · T Z ·  .–


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Ticinosette n. 44 del 2 novembre 2013

RobeRto Roveda .........................

4

MaRco alloni ......................................................

8

eugenio KlueseR .........................................................

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Agorà Media e comunicazione. Onde immortali Levante Mahfuz e il socialismo Letture La coscienza di Gol

Impressum

di

di

di

lauRa di coRcia ...................................................

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MaRco JeitzineR ....................................................................

11

Media Linguaggi. Poetry slam

di

Tiratura controllata

Mundus Traslocare

Chiusura redazionale

Vitae Giovanni Bottinelli

di

gaia giMani .................................................................

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Editore

Reportage Squatters

nicola de MaRchi; fotogRafie di Julien gRegoRio/Phovea........

37

68’049 copie

Venerdì 25 ottobre Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Photo editor

di

di

Luoghi Morat. La battaglia

di

MaRco JeitzineR; fotogRafie di PhiliPPe Mougin ..............

42

MaRisa goRza ..................................................

44

Svaghi ....................................................................................................................

46

Tendenze Piumini. Anime calde

di

Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Alza il volume Illustrazione ©Bruno Machado

Passo falso L’occidente traballa. Traballano le economie, traballano i modelli politici che, in molti casi i cittadini, sempre meno partecipi e coinvolti, considerano inadeguati ad affrontare i loro reali problemi; e infine traballano le alleanze, messe a dura prova dall’invadenza e dalla paranoia degli USA di Obama, responsabili di un abuso i cui esiti rischiano di compromettere seriamente i rapporti fra i paesi occidentali. Da sempre, anche fra alleati, ci si è spiati ma il caso del Datagate e delle intercettazioni a tappeto attuate dall’ NSA a danno dei governanti europei, ha colmato di molto la misura. Si è parlato a ragione di egoismo, di arroganza, di violazione dei diritti fondamentali non solo dei milioni di cittadini spiati, ma anche dei loro rappresentanti politici ai massimi livelli. In effetti, in questa bruttissima faccenda la questione dei diritti ha un ruolo cruciale. In quanto democrazie, fondate su costituzioni animate da principi miranti ad assicurare a tutti i cittadini i medesimi diritti e garanzie (eccellenti parole in nome delle quali si sono fatte e si continuano a fare guerre), si presume che i mezzi messi in atto non entrino mai in contrasto con i principi fondanti. Il problema è che ci troviamo di fronte a un vero e proprio conflitto fra due differenti forme di pensiero: da un lato chi, come Ed Snowden, ritiene che un fine giusto possa essere perseguito solo attraverso l’utilizzo di strumenti giusti. Un posizione che deve essere ricondotta all’etica deontologica kantiana secondo cui la correttezza di un determinato comportamento rappresenta un dovere

imprescindibile dell’essere umano, perché sostenuta da una logica innegabile (la medesima logica secondo cui due più due fa quattro). Una posizione che, nella storia americana, come ha scritto qualche mese fa Davide Borsani, docente in Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (“Datagate: la linea sottile tra sicurezza e libertà”, Commentary, ISPI, 10 giugno 2013), può essere ricondotta al pensiero “jeffersoniano”, secondo cui il primo compito del governo federale è di agire in base ai dettami costituzionali. All’opposto, abbiamo il pensiero utilitarista e consequenzialista secondo il quale a contare, in ultima istanza, non sono i principi ma piuttosto il fine, gli effetti, le conseguenze. Con il rischio, come scriveva Borsani: “… di una deriva simil-autoritaria e di una «presidenza imperiale» – nelle parole di Snowden, «una tirannia» – che, come paventava nell’ottocento John Quincy Adams, porterebbe l’America a non essere «più padrona del suo spirito», della propria struttura «lockiana» contrapposta a quella «hobbesiana»”. Sta di fatto che dal 2001 a oggi la politica estera americana, proprio in virtù di questa concezione dominante nelle sue più alte gerarchie di potere (e condivisa da una buona metà della popolazione; Borsani, op. cit), sta raccogliendo una lunga serie di fallimenti, con la risultante e grave compromissione dell’immagine di un paese erettosi per oltre tre secoli a faro del diritto e della libertà nel mondo intero. Che sia la strada sbagliata? Buona lettura, Fabio Martini


Onde immortali Radio. Nel corso della sua storia la radio ha dimostrato di saper rinnovarsi costantemente riuscendo ad adattarsi ai mutamenti imposti dai nuovi media. Il mezzo radiofonico sta dimostrando infatti di saper interagire al meglio con le tecnologie digitali e con l’universo di internet, in costante e febbrile mutamento di Roberto Roveda

L

Agorà 4

a radio ha scritto capitoli importanti nella storia del XX secolo, ha raccontato le drammatiche vicende dell’Europa dei totalitarismi, la seconda guerra mondiale, il sessantotto e tutti i grandi avvenimenti sportivi e le imprese umane del novecento. È stato il mezzo di comunicazione di massa dominante tra gli anni venti e gli anni cinquanta del secolo scorso, anche se poi, con l’avvento della televisione, è stato un poco marginalizzato dal proscenio mediatico. Di fronte alla TV, il mezzo radiofonico sembrava, infatti, obsoleto, limitato. Solo suoni e voci, quando la televisione poteva offrire anche l’immagine, sembrava non poterci essere un futuro per la radio e in molti intonarono il requiem. Le cose, lo sappiamo bene, sono poi andate in ben altro modo. Di fronte alla sfida televisiva, la radiofonia ha saputo reinventarsi, ha abbandonato magari il salotto di casa dove i nostri nonni ascoltavano la radio la sera in poltrona, per occupare altri spazi e tempi della giornata. Si è miniaturizzata, grazie alle prime radio a transistor, è diventata portatile grazie all’alimentazione a batteria, si è impossessata del tempo che passiamo in auto grazie alle autoradio. Al contempo la radio ha cominciato a dedicarsi a temi – come la cultura, il teatro, la musica classica, il racconto del territorio – che la televisione non teneva in considerazione, perché protesa agli ascolti di massa, a indirizzarsi sempre di più verso un pubblico generalista. Oggi si parla tanto di canali televisivi tematici come la grande novità dell’era digitale. Ebbene questa rivoluzione la radio l’ha compiuta già alcuni decenni fa, per occupare quelle numerose nicchie di pubblico che la televisione non riusciva a soddisfare pienamente. La radio nell’era digitale In questo modo, con questa sua capacità di reinventarsi e grazie alla sua duttilità, il mezzo radiofonico è riuscito a rimanere moderno, innovativo. Ha intercettato i gusti delle diverse generazioni, senza diventare un cimelio per collezionisti e per amanti del vintage. Una capacità di adattamento, quella della radio, che sta emergendo anche in questi ultimi anni di fronte alle nuove tecnologie digitali, ai nuovi modi di fare comunicazione, alle sfide

dell’universo 2.0 e 3.0. Basterà per fare del mezzo radiofonico un media protagonista anche del futuro prossimo? La radio è realmente in grado di adeguarsi agli sviluppi delle nuove tecnologie? Ne abbiamo parlato con Gabriele Balbi, docente di Sociologia della comunicazione di massa all’università della Svizzera italiana e autore del volume La radio prima della radio. L’araldo telefonico e l’invenzione del broadcasting in Italia (Bulzoni, 2010). “A mio parere la radio continua a stare al passo con i tempi, come, del resto, è avvenuto in passato. La radio è, infatti, sempre riuscita a integrarsi con i nuovi mezzi di comunicazione. Basti pensare a come sia «entrata» nelle nostre tasche diventando portatile e a come oggi sia possibile ascoltarla sui telefoni cellulari e, con l’avvento del digitale, anche sui canali televisivi, quasi a dimostrare di voler riconquistare il suo più acerrimo nemico: la TV, per l’appunto. Stessa cosa è accaduta con il Minidisc e poi con l’iPod. L’esempio più eclatante dell’integrazione tra la radio e le nuove tecnologie è poi, sicuramente, la fruibilità del mezzo radiofonico sul web. Il computer da strumento di lavoro si sta sempre più evolvendo per accogliere spazi riservati all’informazione e all’intrattenimento radiofonico, a dimostrazione che la radio, pur essendo molto antica, è capace di innovarsi e reggere benissimo il confronto e l’impatto delle nuove tecnologie. I dati statistici su come viene oggi utilizzata lo dimostrano”. Appunto, come viene ascoltata nel XXI secolo? “Le posso dare alcuni dati relativi all’Italia ma la situazione non è molto diversa negli altri paesi europei. Secondo l’ultimo rapporto del Censis1 relativo all’anno 2012, le persone che ascoltano la radio lo fanno più frequentemente in auto e in modo tradizionale, con la classica radio in casa. Però il dato indubbiamente più interessante è quello che vede una costante ascesa negli ultimi cinque-sei anni dell’ascolto della radio al cellulare, che oggi si attesta al 9,8%. Va poi considerato l’ascolto su internet, che oggi raggiunge il 10,1% degli utenti radiofonici ed è un dato in crescita. Queste cifre, dunque, confermano la capacità di integrazione e di adattabilità della radio ai vari supporti, quelli digitali in primis. Sempre in tema di capacità di adattarsi alle nuove tecnologie e ai nuovi media, la radio sta trovando una dimensione interessante e nuova grazie al podcast, che permette di scaricare e ascoltare i programmi radiofonici

(...)


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“… la radio sta trovando una dimensione interessante e nuova grazie al podcast, che permette di scaricare e ascoltare i programmi radiofonici quando e dove vogliamo. È una modalità, questa, che funziona benissimo e si sposa facilmente con internet e con la telefonia mobile. Per questo, a mio parere, lo stato di salute della radio è ottimo ed essa ha davanti a sé un futuro importante”

quando e dove vogliamo. È una modalità, questa, che funziona benissimo e si sposa facilmente con internet e con la telefonia mobile. Per questo, a mio parere, lo stato di salute della radio è ottimo ed essa ha davanti a sé un futuro importante”.

Agorà 6

I giovani e la radio È però lecito domandarsi se un media “antico” come la radio riesca ancora a intercettare i gusti delle nuove generazioni così come avveniva fino a pochi anni fa oppure se stia rischiando un destino simile a quello della televisione tradizionale, per molto tempo punto di riferimento per i giovani ma oggi scalzata in parte da internet. Per Gabriele Balbi, anche in questo caso, la radio sta dimostrando tutta la sua versatilità. “A mio parere la radio mantiene la sua centralità per il mondo giovanile, anche se in forme diverse rispetto al passato. Negli anni settanta la radio è stata uno strumento di «combattimento sociale» grazie alle radio libere. A lungo è stato il mezzo più semplice per ascoltare musica. Oggi, indubbiamente, queste funzioni si sono molto ridotte, ma sono sempre i giovani i maggiori fruitori della radio, che sia in internet, sull’mp3 o sul cellulare. Non si tratta quindi di un ascolto «anziano», al contrario, anche in virtù del fatto che la radio è stata il primo grande mezzo di comunicazione interattivo. Sin dagli anni settanta, infatti, ha dato la possibilità di telefonare in diretta (il cosiddetto «phone-in») e continua a farlo oggi utilizzando tutti gli strumenti che consentono al radioascoltatore di ricoprire un ruolo attivo: chiamate, sms, social network (come Facebook e Twitter). I programmi radio di oggi ci «bombardano» in continuazione con frasi come «Scriveteci su Facebook..., twittate al nostro account...», a ulteriore prova di quanto l’ascolto radiofonico sia di un pubblico giovane e profondamente al passo con i tempi del digitale”. Da cosa deriva, secondo lei, questa eterna modernità della radio? “La radio è un mezzo di comunicazione orale, che «guarda» più all’orecchio che all’occhio e che, per quanto concerne l’interattività, mostra di essere più efficace della TV. La radio riesce a realizzare una vicinanza con chi l’ascolta che non appartiene alla TV. L’ascoltatore radiofonico, da sempre, riesce a immede-

simarsi con la radio, perché la sente vicina al proprio stile di vita; vi si affeziona e rimane fedele a un canale specifico, che diventa quello preferito. Questa vicinanza, questa capacità della radio di dialogare con il pubblico è decisamente al passo con i nostri tempi, e molto compatibile con i gusti di oggi. Soprattutto dei giovani”. Radio e pubblicità: un dialogo difficile Paradossalmente, data la popolarità e la diffusione del mezzo radiofonico, la radio non ha mai attirato la giusta attenzione del mercato pubblicitario. Gli investimenti pubblicitari si sono concentrati soprattutto sulla TV. In Italia, per esempio, paese che è particolarmente televisivo-centrico, le reti televisive raccolgono investimenti pubblicitari dieci volte superiori a quelli delle radio, ma senza arrivare a questi eccessi la situazione non è diversa altrove. La radio rimane quindi in una posizione defilata che è difficile da spiegare se consideriamo il fatto che il mezzo radiofonico è in grado di stimolare ancor più l’immaginazione di quanto non faccia invece un bombardamento televisivo. Una situazione che è ancora più difficile da comprendere dato che la radio è itinerante, ci segue ovunque tutti i giorni e dunque rappresenta uno strumento di propaganda pubblicitaria estremamente efficace. Spesso poi a mancare è proprio l’attenzione al mezzo e alle sue specifiche caratteristiche: per risparmiare alcune aziende addirittura utilizzano per la radio lo stesso identico spot pensato per la televisione! Per Gabriele Balbi questa disattenzione ha una spiegazione precisa: “Il problema sta nel fatto che, in particolare nell’ambiente italofono in cui abbiamo vissuto, il punto di riferimento è sempre stato la TV, sin dagli anni sessanta. Gli altri mezzi di comunicazione hanno un po’ sofferto lo strapotere mediatico del piccolo schermo, adeguandosi ai ritmi, ai temi e ai linguaggi televisivi. Sicuramente si sarebbe dovuta sviluppare di più una certa attenzione a un linguaggio pubblicitario radiofonico, ma così non è avvenuto e in radio ci sono stati solo sporadici tentativi di proporre messaggi pubblicitari interessanti, mentre in generale, la maggior parte della pubblicità radiofonica è priva di fantasia e appiattita sulla logica televisiva che tende a essere dominante”. Insomma quella tra radio e mercato pubblicitario sembra


Il “misterioso” DJ Lupo Solitario di American Graffiti (1973), film culto di George Lucas (fotogramma tratto da YouTube)

essere una sorta di occasione mancata, una strada ancora da esplorare pienamente, e non solo puntando su forme di linguaggio pubblicitario appositamente pensate per la radio. Per esempio, per uscire dalla logica del “puro” spot e conquistare un numero sempre crescente di inserzionisti, anche il mezzo radiofonico – come già sta facendo la televisione – dovrebbe iniziare ad adottare nuove formule di pubblicità, in grado di integrare sempre di più brand e contenuto della programmazione, attraverso partnership, giochi, concorsi ed eventi locali e nazionali. Insomma, la radio anche in campo pubblicitario dovrebbe far valere la sua duttilità e la sua capacità di interagire con facilità con l’ascoltatore. Una bella sfida da proporre per il futuro a chi guida i canali radiofonici pubblici e privati, così come una via da seguire potrebbe essere quella di staccarsi sempre di più anche nella programmazione, non solo in pubblicità dall’idea di fare della radio una sorta di televisione senza immagini. Tornare in un certo senso alla tradizione della radiofonia di una volta, quella che raccontava il mondo solo con le voci, i suoni e i rumori, sapendo già in partenza che non c’era come oggi la possibilità per il pubblico di vedere gli avvenimenti raccontati in TV o via internet. Pensiamo solo cosa potrebbe essere fare informazione radiofonica non semplicemente descrivendo gli eventi come si usa oggi ma lasciando campo libero al suono degli eventi stessi, facendo sentire il fragore delle guerre, i boati della manifestazioni di protesta, i suoni e i canti delle grandi liturgie religiose. Una radio, quindi, che osi sfruttare fino in fondo il suono. E la radio in Ticino? Sfide e potenzialità non mancano quindi alla radio del futuro, mentre il presente continua a premiare l’offerta

radiofonica “tradizionale” e il Ticino in questo senso è emblematico. Osservando i dati degli ascolti gli indicatori dello “stato di salute” dei canali radiofonici della RSI dimostrano come la radio della Svizzera italiana goda di “ottima forma”. Basti pensare che la RSI si attesta intorno a una quota di mercato che supera il 70% nel 2012 secondo i dati forniti dal rapporto annuale di Mediapulse, la società che elabora i dati per i media elettronici in Svizzera (mpgruppe.ch). Ciò significa, in pratica, che su dieci persone all’ascolto della radio qui da noi lo scorso anno sette erano sintonizzate su Rete Uno, Due e Tre. Ai buoni risultati dei canali pubblici si aggiunge poi la vitalità delle emittenti private ticinesi. Radio 3iii è stata votata nel 2009 tra le migliori radio svizzere pubbliche e private dell’anno in occasione dello Swiss Radio Day e raggiunge ogni giorno circa quarantamila contatti. È anche un canale molto utilizzato dagli utenti radiofonici in streaming. Al passo con i tempi è anche Radio Fiume Ticino disponibile anch’essa via internet e in grado di coinvolgere oltre trentamila contatti giornalieri grazie a una programmazione prevalentemente musicale. Dati incoraggianti se pensiamo a quanta concorrenza ci sia da parte dei canali radiofonici italiani. Un panorama, quello nostrano, piuttosto roseo, tanto che Gabriele Balbi a chi dirige le nostre radio dà un suggerimento poco “innovatore”: “L’unica cosa che mi viene da dire, se proprio dobbiamo dare un suggerimento, è di portare avanti quello che già si sta facendo, cioè una logica di interattività e vicinanza al territorio, di essere portavoce del territorio e dell’utenza a cui fa riferimento. Questa vicinanza, unita alla capacità già detta di penetrare e dialogare con le nuove tecnologie, rappresenta il punto di forza della radio e le può consentire di conquistare sempre nuove fette di pubblico. Insomma, di rimanere il più possibile evergreen”.

Agorà 7


Mahfuz e il socialismo Quali sono i rischi che corre oggi l’Egitto? Passare dalla padella dell’islamismo alla brace del neo-militarismo anti-islamista? Oppure rubare ai ricchi per riconsegnare tutto ad altri, altrettanto ricchi? di Marco Alloni

Levante 8

C’è un romanzo dello scomparso Naguib Mahfuz (premio da Gamal Abdel Nasser, seppe riconoscere tra i primi – con Nobel per la letteratura nel 1988) intitolato Il ladro e i cani la lucidità consueta di chi alla Pasolini “sa perché è uno che oggi potrebbe diventare una bussola per chi in Egitto scrittore” – che il socialismo non era soltanto giustizia so– a fronte del nuovo revanchismo che invoca il ritorno ciale ma anche regime, casta, oligopolio e militarismo. dell’uomo forte al potere – non si pone il problema di quali Oggi in Egitto si invoca il ritorno di un uomo forte alla ricadute un simile atteggiamento potrebbe avere. guida dello stato. E una sconsiderata euforia accompagna La storia è semplice e molto “mahfuziana”. Un giovane le prodezze salvifiche del generale Abdel Fattah El-Sisi al povero si trova a rubare in un mopunto da indurre una parte della mento di particolare difficoltà e un popolazione ad augurarsi la sua nogiornalista – che gli intellettuali mina a prossimo presidente della egiziani identificano con Mohamad repubblica. Un atteggiamento che Hasanein Heikel, punta di diamante ripete l’illusione ottica attraverso la del giornalismo mediorientale fin quale, con la Rivoluzione del 1952, dai tempi di Nasser – lo esorta a si credeva che un paese a guida minon sentirsi in colpa per il proprio litare, per quanto socialista, avrebbe furto. Ma, anzi, a farne una ragione davvero garantito alla popolazione di fierezza. quel processo di democratizzazione Novello Robin Hood della teoria nasinsito nell’ideologia e nella teoria seriana di sottrarre ai ricchi per dare del socialismo. ai poveri, il giornalista induce così il giovane sulla dubbia strada dell’ideScegliere una democrazia adulta ologia del furto. Costui diventa un Oggi non siamo più nella stessa ladro incallito e, soltanto quando la condizione: la giunta militare casua vita è ormai rovinata, si pente. peggiata da El-Sisi non annovera più Ma soprattutto capisce. Comprenla stessa casta di uomini di governo dere quanto andrebbe capito anche che determinarono il sessantennato Naguib Mahfuz, 1911–2006 (sebinho.com.br) oggi: che nella prassi il principio militare di Nasser, Sadat e Mubarak. redistributivo del socialismo non ha mai rispecchiato le Ma l’aspettativa popolare è in gran parte identica. E non sue premesse e promesse teoriche. a caso i nuovi eroi post-Morsi e le effigi e le immagini che più sovente campeggiano per le strade sono quelle di ElGiustizia e redistribuzione Sisi e di Nasser. La grande metafora di Mahfuz agisce come un ammoni- Un campanello d’allarme che deve farci ricordare la leziomento extra tempore. Scritto nel 1961, il romanzo era solo di ne di Mahfuz e il rischio che da una padella si passi a una cinque anni successivo al ventesimo congresso del Partito brace: dalla padella della monarchia alla brace del totalitacomunista sovietico, durante il quale Nikita Kruscev svelò rismo nasseriano ieri e, oggi, dalla padella dell’islamismo i cosiddetti “segreti di Stalin” e l’inganno di cui erano state alla brace del neo-militarismo anti-islamista. vittime, fino a quel momento, tutte le formazioni socialiste Sottrarre ai ricchi per ridistribuire ai poveri è – persino e comuniste occidentali. Portò cioè alla luce che dietro la cristianamente e persino islamicamente – lodevole. Ma parvenza di una società improntata alla giustizia sociale e sottrarre ai ricchi per consegnare ad altri ricchi è un’insialla redistribuzione delle ricchezze si celava in realtà una dia che il popolo egiziano non può permettersi. Se è vero macchina di privilegi, oppressioni e purghe senza eguali che la fase di trapasso attuale è segnata dall’ineluttabilità in nessuna delle dittature mondiali. del pugno duro contro le formazioni eversive e sabotatrici Mahfuz è stato tra gli scrittori più coraggiosi della sua epo- incarnate dalla Fratellanza musulmana, è infatti anche ca. E sarebbe probabilmente oggi fra i promotori di quella vero che un futuro davvero nuovo non può prospettarsi se Primavera araba laica che revanchisti e nostalgici dell’ancien non nelle forme indicate da Mahfuz: attraverso una reale régime – per non parlare degli islamisti – stanno cercando di svolta che abbia, come suo cardine, non forme spurie di far tracollare. A fronte delle promesse di welfare inaugurate democrazia ma forme compiute di democrazia.


Letture La coscienza di Gol di Eugenio Klueser

Fin

dalle prime pagine del romanzo di Pedro Lenz siamo subito catapultati, senza troppe premesse, nelle vicende di Gol, giovane ex tossico-dipendente che, uscito di prigione, deve riabituarsi alla vita della piccola Schummertal, immaginaria cittadina della Svizzera tedesca. Con lo scorrere delle pagine di In porta c’ero io, accompagniamo il protagonista nel suo quotidiano: un salto al pub Maison per bere qualcosa e guardare lavorare Regula (di cui è innamorato); due chiacchiere con il suo amico d’infanzia Ueli e poi il monotono lavoro alla tipografia. Più che quello che Gol fa, diventa importante pagina dopo pagina quello che il giovane pensa. Non si può fare a meno, infatti, di essere coinvolti nel turbinio dei suoi pensieri che si concentrano sul presente, ma soprattutto sul passato, sull’infanzia e sulle partite di calcio giocate da bambino. Spesso pensieri all’apparenza futili, innocui, ma sarà solo grazie a questo incessante rimuginare che Gol riuscirà a far luce sul vero motivo della sua prigionia e

a comprendere che le persone che riteneva amiche sono le prime ad averlo tradito. Pedro Lenz affronta in queste pagine temi complessi come la tossicodipendenza, le difficoltà dei rapporti umani anche in un piccolo centro, l’estraniazione di un individuo che non riesce, nonostante tutto, a sentirsi membro della sua comunità di appartenenza. Lo fa chiedendo al lettore di immedesimarsi nel protagonista del suo romanzo, di diventare quasi un tutt’uno con lui, l’ambiente che lo circonda e il suo tempo, gli anni ottanta del secolo scorso. Per questa ragione Lenz utilizza uno stile quasi diaristico, con un linguaggio diretto e gergale trasmettendo così al lettore un senso di immediatezza e di estrema vicinanza ai pensieri del protagonista e ai rapporti che intrattiene con gli altri personaggi. Una scelta stilistica che all’inizio disorienta, ma che col susseguirsi delle pagine si rivela vincente, regalandoci un romanzo originale, diverso dai soliti, forse meno raccontato ma certamente più pensato e più intimo.

In porta c’ero io di Pedro Lenz Gabriele Capelli Editore, 2011

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Poetry slam

Un gruppo di poeti, una giuria composta da persone comuni e soprattutto dei testi. Questi gli ingredienti di una modalità di comunicazione che si sta affermando nel mondo della poesia contemporanea di Laura Di Corcia

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La ricetta si prepara così: un gruppo di poeti, possibilmente insolita modalità di comunicare la poesia nella mia città”. dotati di buona vocalità e capacità performative, una giuria Probabilmente è lo spirito di competizione a scaldare gli popolare, lontana dagli accademismi e quindi libera nel animi e a trasformare queste serate in veri e propri spettagiudizio, un MC (maestro di cerimonia) che svolge il ruolo coli, frequentati anche dai non addetti ai lavori. di presentatore della serata e di arbitro e poi, appunto, i Ma come si svolge, nello specifico, uno slam? Non è poi così testi, testi che possono essere scherzosi o drammatici e che complicato: i poeti salgono sul palco e hanno tre minuti spesso strizzano l’occhio al rap e ai suoi stilemi. Il gioco è ciascuno per leggere o “performare” il loro testo. Spesso fatto: il poetry slam (e non slam ci si confronta due per volta, poetry, come alcuni erroneaovvero dopo due letture la giuria mente lo chiamano) è una gara popolare vota l’esibizione con un di poesia che gioca sulla forza numero da uno a dieci e si fa la della parola detta, ma anche ursomma del punteggio, escludenlata (“slam”, nel gergo americado il voto più alto e quello più no, significa sbattere, e quindi si basso. Quelli che hanno passato presuppone che i testi scuotano il primo turno, si sfidano tra di l’ascoltatore, smuovendo in lui loro, e alla fine resta un solo pole emozioni più profonde). eta, il vincitore. Non mancano, Considerata da taluni la modaalla fine della gara, proteste e lità più innovativa della poesia musi lunghi, soprattutto da parte contemporanea, lo slam, nato a di chi è stato scartato. Chicago a metà degli anni ottanIn Italia, fra i più famosi slammer ta, si è affermato rapidamente Il poeta e slammer italiano Lello Voce (lellovoce.it) ricordiamo, oltre a Lello Voce, lo negli USA, riuscendo a poco a stesso Max Ponte, Dome Bulfaro, poco a conquistarsi uno spazio anche in Europa. In Italia animatore di poetry slam soprattutto in quel di Monza, il poetry slam è arrivato nel 2001, importato dal poeta e Sergio Garau, Simone Savogin, Alfonso Maria Petrosino, performer Lello Voce, che nel 1997 assistette a una gara Scarty Doc e Giacomo Sandron. Grazie al loro impegno e poetica al Nuyorican Poet’s Café di New York e ne rimase alla loro passione, e a partire da un dibattito nato in rete, colpito, a tal punto da organizzarne una anche in madre- nello specifico intorno a un articolo scritto da Max Ponte patria. La prima serata fu un vero successo, cosa che lo sul sito “La poesia e lo spirito”, è nata quest’anno la Fedespinse ad andare avanti su quella strada, subito seguito da razione italiana di Poetry Slam, in ritardo rispetto ad altri altri poeti e performer. paesi europei come la Francia e la Germania: si prevede un maggiore coordinamento fra le gare sul territorio nazionale, Sfida all’ultimo verso che prevederà nello specifico una finale, la quale avrà luogo Qual è la ricetta vincente di questa competizione? “Sin a Monza nel 2014. dall’inizio, in America, lo slam si è prefissato obiettivi democratici e comunitari che vanno al di là del successo personale”, Slam ticinese spiega Max Ponte, slammer torinese e animatore del Anche in Ticino ci sono state due gare di poetry slam: “Murazzi Poetry Slam” di Torino, studioso di poesia orale l’ultima si è svolta l’anno scorso, in maggio, in occasione e appassionato sostenitore di questo modo diverso di con- di “ChiassoLetteraria” al Murrayfield di Chiasso in collabodividere i testi poetici. “Prima di tutto il maestro di cerimonia razione con Radio Gwendalyn; fra i vari ospiti, anche uno (mc), che di solito è un poeta, deve essere super partes e quindi slammer ticinese, Marko Miladinovic, che viene invitato garantire l’uguaglianza oltre che stare attento a preservare lo spesso anche oltreconfine per le notevoli capacità perforspirito dello slam. La formula è molto semplice, ma avvincente, mative. “Del poetry slam la cosa più bella è viaggiare. Scrivo e permette di realizzare uno spettacolo dinamico che avvicina per questo, per godere della vita (anche se scrivere è il contrario alla poesia un pubblico eterogeneo, fra cui anche persone a di- di godere). Poi, è vero, c’è la gara, ma di quello mi importa poco, giuno di versi. È quello che constato sempre durante le serate che io certamente non vinco niente. Ma quando si tratta di Venezia, organizzo e quello che mi spinge a continuare a diffondere questa Torino e città così, è un bel niente. È l’Italia che mi muove”.


Traslocare di Marco Jeitziner

A Losanna traslocai due volte: dalla periferia multietnica di Renens al centro urbano, sempre multietnico. Fu difficile separarmi soprattutto da un elegante, ma ingombrante, tavolo di legno massiccio. Traslocai ancora, non senza rimorsi, in Ticino e si ripresentò il “problema mobilio”, ma esisteva già un noto fabbricante globale, inoltre appartengo alla categoria degli “essenzialismi”, in pratica “un tetto, un letto e un gabinetto”, come scrissi tempo fa. La transumanza Io il trasloco lo odio! C’è chi invece lo adora, come quella che in Facebook ha scritto “nove traslochi in tre anni!”. Se penso che di solito alla donna non equivale un arredamento minimalista, mi vien male. E ricordo alcune giovani donne, manco fossero orticoltrici da balcone, cambiare casa perché là dove vivevano c’erano poche ore di luce o una scarsa illuminazione che, si sa, influenza l’umore. Ritenevo che il “nomadismo abitativo” appartenesse a culture ataviche. Beh, mi sbagliavo. Molta gente è nomade, anche tanti uomini single, spinti forse da atavici impulsi di conquista territoriale e di caccia. Tuttavia non cambio idea: a meno che non vi cacci da casa il vostro viziatissimo animale domestico, che pensavate di conoscere bene, o dobbiate andarvene a causa di una colonia di animali infestanti, traslocate il meno possibile! Al limite diventate adepti dell’arredamento essenziale. Solo così eviterete ansie da imballaggio, stress da trasporto e colpi della strega... Chi decide non te l’aspetti Cambio d’indirizzo a centomila aziende e uffici, annuncio di partenza/arrivo al comune, cambio di domicilio anche se rimani nello stesso cantone (curiosità tutta elvetica) e poi pensi che sia fatta. Ti sbagli, perché il trasloco è una pirami-

de del potere: in cima, i proprietari di casa, poi le fiduciarie, poi le ditte di trasloco/autonoleggio, infine noi, poveri nomadi, in lista d’attesa come al supermercato, obbligati a rivelare tutto (alla faccia della privacy) e senza alcuna garanzia di assegnazione. E poco importa se hai urgenza e rischi di finire in un dormitorio per vagabondi: a loro non importa. Non è tutto. La figura forse più sottovalutata, ma assai influente, è un’altra: il custode (o portinaio)! Uomini e donne spesso dotati di forte personalità, forse perché fanno uno “sporco lavoro” che qualcuno deve pur svolgere. Ora che ho traslocato (spero per l’ultima volta, ma mai dire mai...) di portinai ne ho persino due! Italiani e simpaticissimi. Figura sottovalutata, dicevo, perché (fiduciaria dixit) uno dei due aveva l’ultima parola per darmi l’alloggio! Mai capitato. Lui il capo quartiere, lui il guardiano, lui il “butta dentro”, lui il “mastro di chiavi”... Non sottovalutare l’inquilino Ma anche inquilini, vicini e dirimpettai non scherzano. Ricordo l’assistito che chiamano come un famoso statista indiano (sic!), la bella vicina single con cui flirtare in lavanderia e non solo, fantasmi e Poltergeist vari (quelli che non vedi mai e di cui non saprai mai nulla), famigliole di varie etnie, l’africano che ricavò un buco nel parquet per accenderci il fuoco (aneddoto raccontatomi da persona degna di fede), prostitute travestite da massaggiatrici, la coppietta giovane che litiga sempre, anonimi pensionati, anonimi lavoratori. Noi inquilini dobbiamo difenderci, o almeno provarci. Io l’ho fatto due volte: i tassi ipotecari scendevano da anni e chiesi la riduzione della pigione, invano, ma insistetti e andai all’ufficio di conciliazione a causa di ripetuti difetti al riscaldamento, finché ottenni quello che volevo. Piuttosto che traslocare ancora!

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ono nato a Mendrisio nel 1967 e ho passato la mia infanzia e la mia giovinezza nel mendrisiotto: mi ricordo in particolare la scuola elementare a Novazzano, con il profumo dei libri e delle aule nel primo giorno di scuola e le estati che solitamente trascorrevo da mio nonno in campagna. Una volta per il mio compleanno siamo andati al mercato e il nonno mi ha chiesto cosa desiderassi in regalo. Avevo visto delle anatre che mi avevano affascinato totalmente, gli ho espresso il desiderio di averle e lui me le ha comprate. Insieme andavamo nel bosco a camminare, lo aiutavo nei vari lavori e ad accudire gli animali. È forse da questa serie d’esperienze che si è insinuata in me la passione per i giardini e la natura che nutro ancor oggi. A un certo punto nella mia vita normale di studente è accaduto qualcosa di speciale: ero in terza ginnasio, quando i miei genitori hanno deciso di mandarmi a studiare fuori casa, in Svizzera tedesca, affinché imparassi bene la lingua, anche in vista del proseguimento degli studi all’università. Così, verso la metà di agosto, mi hanno portato su e mi ci hanno lasciato: li vedo ancora partire e io, che non conoscevo nessuno, mi sono detto: e ora da che parte cominciamo? Avevo 14 anni e il cuore in tumulto per questa vera rivoluzione nella mia vita. Ero stato proiettato, ancora bambino, in un mondo totalmente diverso, con un’altra cultura e un modo differente di relazionarsi con gli altri. Sono rimasto lì sette anni: i primi sono stati assai duri sotto l’aspetto culturale e linguistico, ma nel complesso è stata un’esperienza molto arricchente dal punto di vista della personalità. Ho frequentato il liceo economico e poi, mi sono orientato verso l’economia anche all’università, pur avendomi sfiorato l’idea di fare il veterinario. Dopo gli studi ero affascinato dai meccanismi che mandano avanti l’economia e desideravo intraprendere un lavoro che mi permettesse di esserne parte, mi è così venuto naturale indirizzare la mia attività verso il mondo bancario, dapprima nella Svizzera tedesca. Non ho mai sentito i sacrifici come tali perché la mia attività mi piace. Gli spazi liberi dal lavoro sono occupati da due gran-

di passioni: i giardini e le escursioni in montagna. La passione per i giardini è iniziata, come ho detto, nelle estati infantili dai miei nonni. Durante un recente viaggio in Olanda però, ho visitato il parco Keukenhof vicino ad Amsterdam e ne sono rimasto affascinato: macchie di colori a perdita d’occhio di una bellezza stupefacente. Dopo questa esperienza la mia passione è cresciuta. Cosa ho imparato dal giardinaggio? Che dobbiamo cogliere l’attimo. Ci sono dei fiori che durano un giorno o poco più. Se ne vuoi apprezzare la bellezza lo devi fare subito. Domani potrebbe piovere e guastarti la festa. Il giardino ci ricorda che non dobbiamo mai dare le cose per scontate, se oggi il prato è bello non necessariamente lo sarà anche domani. Il caldo potrebbe seccarlo o un fungo se ne potrebbe impadronire, bruciandolo. Bisogna pensarci prima con dei trattamenti, se non si vogliono avere brutte sorprese. È così anche con gli affetti: se non fai mai niente, si potrebbero inaridire. Ci vuole costanza, non bisogna mai mollare, se si vogliono dei risultati a lungo termine. Il giardinaggio, come la vita del resto, è una maratona. Il mio fiore preferito? Decisamente il fiore di ciliegio. Mi piace perché è semplice e delicato, non lo noti fin tanto che non ti fermi e lo osservi da vicino. È lo stesso fiore che i samurai hanno scelto come loro simbolo. Per loro rappresenta la bellezza e la caducità della vita. Hanno ragione… L’altro hobby che occupa il mio tempo libero sono le passeggiate in montagna. Sono l’ideale per stare nella natura e per tenersi in forma: unisco l’utile al dilettevole. È duro superare i dislivelli che portano alla meta, alla fine guardando il panorama, però la ricompensa è grande. Se devo considerare la mia vita, mi rendo conto di aver imparato due lezioni: la prima è che l’unica cosa che conta è darsi sempre da fare: niente è gratis. La seconda è che, se siamo curiosi, dobbiamo guardare bene l’erba del vicino, talvolta è più verde solo perché la si vede da lontano.

GIOvANNI BOttINELLI

Vitae 12

Lavora in banca ma nel cuore ha due passioni: il giardinaggio e l’escursionismo. È particolarmente attratto dalle analogie tra il giardino e la vita, entrambi bisognosi di cure, attenzione e amore per non farli inaridire

testimonianza raccolta da Gaia Grimani fotografia ©Flavia Leuenberger


“giovani appartenenti a gruppi metropolitani caratterizzati da un’ideologia di rifiuto radicale delle istituzioni; prendono possesso di edifici abbandonati (case, fabbriche, magazzini, scuole) che trasformano in spazi creativi e abitazioni collettive” (definizione tratta da www.dizionarioitaliano.it/squatter)

SquatterS

di Nicola De Marchi; fotografie ©Julien Gregorio/Phovea


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orreva l’anno 1995. Ginevra, città “internazionale” famosa per il getto d’acqua, l’ONU, l’orologio fiorito e per i tappeti rossi puntualmente srotolati ai piedi di emiri, oligarchi e altri facoltosi contribuenti desiderosi di stabilirsi sul Lemano, contava non meno di 150 case occupate sparse sul suo territorio. Un accostamento (super-lusso contro super-precarietà) che per un pezzo ha fatto di Ginevra un’eccezione a tutto tondo. Alcune cifre di quegli anni parlano infatti di 2000 persone alloggiate. I ricordi, di un’intensa vita notturna, di bar improvvisati in locali abitativi abbandonati, teatri reinventati da garage, discoteche arrangiate in ex macelli,

asili nido autogestiti e ristoranti a prezzi modici. Cifre incredibili per ricordi indelebili. Era l’età dell’oro degli squat ginevrini. Una storia che incominciava all’inizio degli anni novanta. Ginevra viveva infatti a quei tempi una delle sue cicliche crisi immobiliari. Non si piantava più un chiodo per costruire un’abitazione. La cronica penuria di alloggi per i ceti medio-bassi si intensificava senza una possibile soluzione mentre il vasto parco di alloggi sfitti e case vuote prendeva acqua e talvolta crollava sotto il peso degli anni e dell’incuria, prigioniero della speculazione immobiliare.


Simboli di contro cultura Di fronte a questo scenario una generazione di attivisti, stu­ denti, artisti, punk e clandestini incominciava a occupare, sul modello della lotta che aveva salvato dalla distruzione il quartiere Grotte negli anni settanta, le case lasciate vuote dalla speculazione. Chi per ottenere risposte politiche al problema alloggi. Chi per mettere un tetto sopra la propria testa. Chi preso dall’ebbrezza di libertà. “Gli spazi sono di chi se ne occupa” era lo slogan. Messaggio sufficientemente condiviso da parte dell’opinione pubblica e della classe po­ litica, visto il clima di relativa tolleranza che si instaurava allora nei confronti delle case occupate.

L’età dell’oro degli squat cominciava e l’eccezione costitui­ ta dall’austera Ginevra faceva parlare di sé al punto che nel 2001 lo stesso sindaco in carica, faceva visitare al suo omologo parigino uno squat per esaltare “la ricchezza del modello alternativo”. Ma era già la fine. Con gli anni 2000 infatti, il settore immobiliare riprende quota. Il movimento ginevrino, già lacerato al suo interno tra chi si accampava su posizioni radicali e chi era alla ri­ cerca del compromesso, si frammenta. L’adesione attorno agli squatters si sgretola e iniziano gli sgomberi attuati con crescente intensità. È più o meno a quest’epoca che Julien Gregorio – autore



del bel volume Squat, Genève 2002-2012 – imbraccia la sua macchina fotografia per testimoniare dall’interno del movimento. Spazi, muri slabbrati, intonaci erosi, stramberie architettoniche, design vernacolari, soluzioni e bricolage impensabili, si alternano a tracce di vite comunitarie, oggetti simbolo dell’ordinario e visi, volti, persone. Perché al di là delle case e delle cose ci sono loro, gli abitanti e l’ideale quotidiano, non sempre facile, di una vita collettiva. Foto imbevute di nostalgia che non esauriscono certo vent’anni di storia di un movimento ma ne abbozzano sicuramente una testimonianza liminare. Quel che resta, oggi… Oggi a Ginevra, malgrado una situazione alloggi che resta nera (come dimostra la nutrita manifestazione “Un tetto è un diritto” indetta il 28 settembre scorso da associazioni di inquilini), se ci sono tre squat in croce è un miracolo. Gli squatters più radicali sono da tempo migrati a bordo di roulottes nei terrains vagues alla periferia della città. Alcuni hanno firmato contratti di fiducia con i proprietari degli immobili regolando la loro situazione. Ma i più se ne sono fatti una ragione mettendosi pancia a terra per pagare affitti di monolocali a tre zeri e frequentando quel che rimane di luoghi alternativi. Artamis, Rhino, Goulet, Tour, Etuves, Drize, Grenouilles ecc… è storia passata.

Il bilancio culturale parla di intense miscele sociali per un nuovo panorama e folklore urbano ed evoca talora veri propri successi come il richiestissimo Teatro Malandro di Omar Porras nato proprio in quegli anni nello squat Garage. L’eredità politica parla di contratti di fiducia, ecoquartieri, cooperative associative e di indignati. In tutto ciò, si rallegra l’utente alpha, resta per fortuna il Moloko, leggendario bar al primo dell’Usine dove puoi sempre incontrare un banchiere in cerca di emozioni, uno studente in fuga, un punk nero, attorno a una birra, una sigaretta e talvolta qualcosa di più.

Julien Gregorio Classe 1978, vive a Ginevra. Diplomatosi alla Scuola di fotografia di Vevey, appassionato degli aspetti sociali della fotografia, ha collaborato con numerosi giornali e associazioni, toccando spesso temi legati alla precarietà e alla ricerca dell’abitazione. È con Reto Albertalli cofondatore dell’agenzia fotografica Phovea (phovea.com). Le fotografie presenti in queste pagine sono tratte dal volume Squats, Genève 2002–2012 (Èditions Labor et Fides, 2012). Esse ripercorrono l’esperienza delle case occupate ginevrine nell’arco di un decennio, prima che il mercato immobiliare cancellasse definitivamente queste importanti esperienze di vita collettiva. Le immagini sono state presentate per la prima volta durante un’importante esposizione tenutasi alla Galerie Focale (Nyon) tra maggio e giugno 2012 (focale.ch).


Morat. La battaglia di Marco Jeitziner; fotografie ©Philippe Mougin

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Sulle alture di Morat (Murten) soffiarono i venti delle guerre di Borgogna. Furono anni di battaglie laceranti che diedero fama continentale alle capacità militari svizzere. Quanta cieca violenza percorse quei campi, quanta sete di vendetta ribollì nelle acque del Murtensee e quanto orgoglio patriot­ tico scorse nelle vene di quegli uomini? Fu nell’estate del 1476 che le terre della signoria savoiarda si macchiarono di sangue, soprattutto straniero, e che tra i boschi circostanti risuonò il metallo delle picche e l’odore della polvere da sparo. Piccolo grande lago Più piccolo e timido tra i laghi ai piedi del Giura, quello di Morat sembrava attendesse di inghiottire gli invasori, parte di quei 30mila uomini agli ordini di un violento, bruciato dall’orgoglio, il duca Carlo I di Borgogna, detto “il temerario”. Accecato dalla vendetta, pochi mesi dopo la cocente sconfitta a Grandson, sordo alle sue vaneggianti mire espansionistiche, il duca era troppo sicuro di sé. Li riteneva rozzi e sempliciotti, ma i confederati si rivelarono in realtà audaci e scaltri. Oh, quanto li sottovalutò! Non bastò la cittadina fortificata, no, anche le acque pescose del lago obbedivano alla signoria, ma tutto sarebbe cambiato di lì a poco: prima amici, poi d’un tratto nemici. Come il duca Renato II di Lorena che, vistosi invaso il proprio regno da Carlo, qui si rifugiò in cerca di alleati, qui comandò la cavalleria e gli alsaziani, accorsi in aiuto degli svizzeri. Carlo non poteva immaginare che lungo le sponde di quel lago, all’altezza del villaggio di Meyriez (Merlach), sarebbero cadute così tante lacrime dagli occhi del potente ducato, messo in fuga perché sorpreso, annientato senza pietà perché mal preparato.

Trappola in campagna La piccola Svizzera di otto cantoni, guidata da Berna, allea­ tasi ai Savoia contro i potenti Asburgo, sentiva che Morat non poteva rimanere a lungo nelle mani di un infame, Giacomo di Savoia, conte di Romont e amico del Temerario. Per questo Berna e Friburgo la occuparono, installandovi una guarnigione guidata dal generale bernese Adrian von Bubenberg, signore di Spiez. Una provocazione in più per il cocciuto Carlo, che decise di farla pagare una volta per tutte agli svizzeri. La sua marcia verso Berna iniziò in primavera, non prima di aver ricostituito a Losanna un imponente esercito di mercenari inglesi, lombardi e fiamminghi. Installò il campo e il suo enorme seguito di soldati e cortigiane a ovest, sulla frontiera con Berna. Circondò la cittadina e al contempo, a qualche chilometro di distanza, avrebbe attirato gli svizzeri, stanandoli dalle montagne, colpendoli ai fianchi durante il loro attacco frontale, annientandoli così nei campi. Un piano quasi perfetto. Il 18 giugno il primo assalto a Morat, che il prode von Bubenberg respingerà dopo ore di com­ battimento. Lo sfondamento svizzero Il giorno della battaglia il cielo era grigio, il volto di Carlo livido di rabbia. Dalle alture circostanti ecco i due fronti, i Borgognoni dall’attuale Courlevon, gli svizzeri a Courge­ vaux, guidati dal violento ma capace zurighese Hans Waldmann: sarà lui che attraverserà a cavallo il campo di Carlo con gli stendardi cantonali. E poi l’argoviese Hans von Hallwyl, già in prima fila a Grandson, con gli uomini dell’Oberland e di Friburgo; e la retroguardia del lucernese di Gaspard de Hertenstein. Nello scontro, mentre Hallwyl sconfiggerà le guardie del corpo del duca, Waldmann sbucherà da dove Carlo aveva previsto, dai boschi di Bir­ chenwald, ma compatto, coi temibili picchieri a riccio, e perforerà il campo nemico, colto di sorpresa e impreparato. Bubenberg intanto uscirà dalla città con seicento uomini respingendo i lombardi. L’uccisione di un comandante del duca farà battere i Borgo­ gnoni in una ritirata confusa verso Romont, mentre lungo la sponda del lago periranno migliaia di soldati lombardi. Il duca raggiunse Ginevra soltanto con trenta cavalieri, umi­ liato nuovamente, per essersi troppo occupato dell’assedio di Morat e per aver scelto un campo di battaglia troppo piccolo per il suo enorme esercito.


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Anime cAlde

Cappotti sartoriali e over classici gli fanno concorrenza, ma quando arriva il grande freddo, il piumino riappare vittorioso e capace di inaspettate metamorfosi Tendenze p. 44 – 45 | di Marisa Gorza

Altro che “finito”! Pronto in mille versioni: adesivo o morbido, corto in vita o lungo ai piedi e perfino nelle attualissime forme a clessidra e a uovo... È pratico, confortevole, simbolo di uno stile svelto e fresco... anche se con efficaci esiti termici. Il segreto sta nella sua anima composta da genuine piumette d’oca che garantiscono leggerezza da nuvola, morbidezza e tepore. L’invenzione del piumino si deve allo scalatore George Finch che per primo si arrampicò sull’Everest (1922) munito di un anorak ben farcito di piume. Negli anni cinquanta, René Ramillon, fondatore del celeberrimo marchio Moncler, iniziò a fornire i più abili alpinisti delle migliori giacche da neve, imbottite ad hoc. Ma si deve attendere gli anni settanta per la comparsa dei piumini nelle collezioni degli stilisti, consacrati dalla rivista di moda “Elle” nel famoso servizio fotografico che puntava sul desiderio di un loro utilizzo cittadino. Negli anni ottanta diventa il veicolo di un look legato a modelli e marchi precisi, quello dei paninari. Ma se questa è storia moderna, tempi più vetusti datano il piumino addirittura all’epoca di re Artù e dei suoi cavalieri che usavano qualcosa di simile per attutire gelo e colpacci. Anche i mantelli in cui le dame del settecento si avvolgevano durante i viaggi in carrozza erano in caldo duvet. Altre divine, altra epoca: nei raffinati anni quaranta Charles James, grande couturier americano disegnava il primo piumotto da sera in raso e lo dedicava a Marlene Dietrich.

La trasformazione continua Il duvet, firmato Moncler (2-3), osa, sperimenta, cambia, pur restando unico e fedele a se stesso. La versione femminile è resa sofisticata da materiali non convenzionali, tra i quali il velluto liscio, cangiante e stretch, il nylon doppiato da un velo di organza, gli inserti in pelle e pelliccia a sottolineare la linea sinuosa. La rivisitazione d’annata ripensa al trench, alla giacca vis à vis e al chiodo, cioè le tre grandi icone dell’abbigliamento contemporaneo rese più che mai d’attualità con qualche tocco di spiritosa couture. Pronti a vivere avventure estreme, anche urbane, con il massimo del comfort tecnico, i giubbotti da uomo per l’inverno alle porte, sono ispirati alle atmosfere e ai boschi delle Highlands con i più tradizionali dei tartan, però con un continuo mutamento in micro e macro del pattern scozzese. Debutta il chiodo realizzato in pelle ultra soft, in tonalità chiare o neo black, resistente all’acqua e alle rigide intemperie, ovviamente imbottito con le versatili piumette. Doppio gioco Ad animare la scena della stagione invernale di Peuterey c’è una coppia di spie, un uomo (1) e una donna (4) che si destreggiano tra inseguimenti metropolitani e fughe improvvise verso scenari naturali e incontaminati. In un abile susseguirsi di pedinamenti e rendez vous in incognito, giungono alle falde del Monte Bianco, davanti

alla cima del Peuterey (capito da dove prende il nome la griffe?) per una tregua energizzante e contemplativa. Sempre protetti da capi dalle grandi performance, resistenti a qualunque stress e temperatura. Il gioco dei misteriosi camouflage continua con le proposte reversibili che alternano la superficie trapuntata e più sportiva, in tessuto tecnico, a quella liscia in raso lucente. Accanto alla field jacket da uomo, in panno militare e con doppio colore interno/esterno, c’è la serie femminile dei parka riempiti in soffice down, ben strizzati in vita nella linea a clessidra. Il nylon bi-stretch opaco è utilizzato per le giacche maschili dotate di tasche multiple e warmer staccabili, mentre per le ragazze (di ogni età) scatenate e modaiole, ci sono gli stilosi piumini smanicati di varie lunghezze da indossare in modi differenti ed estemporanei: sopra il golfone, sotto il parka, sotto il gonfio bolero e così via. Sfumature basiche come il grigio urbano sono smentite dai contrasti tonali e i color block dell’avvolgente maglieria che completa il caldo look.


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La domanda della settimana

Ritenete che la qualità delle proposte radiofoniche in Ticino sia migliorata negli ultimi anni?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 7 novembre. I risultati appariranno sul numero 46 di Ticinosette.

Al quesito “Paesi della Comunità Europea come Italia, Francia o Spagna, sarebbero in grado di applicare un sistema politico-amministrativo come quello elvetico?” avete risposto:

SI

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NO

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Svaghi 46

Astri ariete Periodo di rinnovamento. In discussione ogni vostra convinzione esistenziale. Ricerca del potere creativo. Disarmonici il 2 novembre.

toro Passioni. Possibili sogni premonitori. Il mistero rende tutto più eccitante. Incontri con persone dotate di un carisma. Maggior autocontrollo.

gemelli Soluzioni inaspettate per i nati nella prima decade. Vita sentimentale in fermento per i nati nella terza decade. Superficialità tra il 5 e il 6.

cancro Ritorni di fiamma. Possibili rivoluzioni in famiglia. Date spazio alla creatività. Non tentennate nella prendere una decisione. Il treno passa veloce…

leone Flirt durante un viaggio. Momenti di malinconia per i nati nella prima decade provocati dalla quadratura con Sole e Saturno.

vergine Acquisti di beni voluttuari e arredamento. Occasioni mondane in forte crescita. Riconoscimenti professionali per i nati nella seconda decade.

bilancia Situazioni inaspettate e indecisioni. Cercate una soluzione intelligente che privilegi la vostra libertà e indipendenza. Evitate di alzare la voce.

scorpione Momento giusto per un’analisi interiore. Occasioni mondane a partire dal 6 novembre. Qualche difficoltà nel rapporto con i figli e i partner.

sagittario Venere superlativa. Situazioni sentimentali inaspettate. Puntate su originalità, confronto culturale e indipendenza intellettuale.

capricorno Vita amorosa alla grande. Potete costruire qualcosa di duraturo. Intemperanze familiari sempre provocate dalla retrogradazione di Urano.

acquario Grazie a Urano i nati nel segno potranno dare una svolta alla loro vita, ma attenzione a non lasciarsi scappare le occasioni.

pesci Calo di energie provocato dal transito di Marte. Periodo conflittuale sia per la vita matrimoniale che nella professione. Diplomazia.


Gioca e vinci con Ticinosette

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 46

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 7 novembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 5 nov. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Orizzontali 1. Ispettori di polizia • 9. Insetto laborioso • 10. La dea della caccia • 11. Disdire il contratto • 14. Complessino canoro • 15. Ha composto “L’Arlesiana” • 16. Dittongo in beato • 17. Flebile (f) • 18. Nome di donna • 20. Fu re dell’Epiro • 22. Istituzione • 24. Spagna e Austria • 25. L’antagonista del Milan • 28. Le iniziali della Pravo • 30. Reparto, divisione • 31. Mira al centro! • 32. Sminuzzati • 33. I filtri dell’organismo • 34. Levati, tolti • 36. Argovia sulle targhe • 37. Passeracei americani • 39. E’ vicino a Sonvico • 41. Gara per cowboys • 42. Antenata • 43. Pasti serali • 44. Una nota e un articolo • 45. Non rispondono all’appello • 47. Introito, ricavo • 48. Vocali in pigra. Verticali 1. Segnali per autisti • 2. Manovali • 3. Son dodici in un anno • 4. I giorni fatali a Cesare • 5. Infarto • 6. Godono nel far soffrire • 7. Ambire, desiderare • 8. Quasi uniche • 12. Bauletto, scrigno • 13. Il mitico re di Egina • 19. È lunga sette giorni • 21. Derubare • 23. Il Massimo de’ “Ricomincio da tre” • 26. Mori • 27. La membrana che riveste la cavità addominale • 29. Reclusione • 35. Un male moderno • 38. Il paradiso perduto • 40. Il nome di Graziani • 43. Consonanti in Cassia • 45. Alcoolisti Anonimi • 46. Il Ticino sulle targhe.

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La soluzione del Concorso apparso il 18 ottobre è: PICCIONE Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Miriam Beffa via San Gottardo 59B 6500 Bellinzona

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IL CONCORSO A PREMI DELLA MIGROS PIÙ GRANDE DI TUTTI I TEMPI.

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