№ 49 del 6 dicembre 2013 · con Teleradio dall,8 al 14 dic.
polvere di sTelle
presentiamo una selezione di scatti di Maurizio Molgora, fotografo impegnato in una singolare ricerca sul volto
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IL GIRO , DELL ISOLATO DI Hesurdo & KIK
CHE FATE?
Ticinosette n. 49 del 6 dicembre 2013
Impressum Tiratura controllata 68’049 copie
Chiusura redazionale Venerdì 29 novembre
Editore
Teleradio 7 SA Muzzano
Redattore responsabile Fabio Martini
Coredattore
Giancarlo Fornasier
4 Agorà Memoria e archiviazione. Il valore del passato di stefania Briccola ................. 6 Arti Teatro svizzero. Testi viventi di irina Zucca alessandrelli ................................... 10 Media Televisione. Slang Zapping di nicola de MarcHi .......................................... 12 Letture Tra due guerre di roBerto roveda .............................................................. 13 Vitae Andrea Bignasca di Marco JeitZiner ............................................................... 14 Reportage Everybody is a star di Paolo Blendinger; foto di MauriZio Molgora ........ 39 Luoghi Milano. Sant’Ambrogio di roBerto roveda; foto di reZa KHatir ..................... 44 Società Movimenti religiosi. Fede e società autori vari.......................................... 46 Tendenze Pasticceria. Cake design di eugenio Klueser ........................................... 48 Svaghi .................................................................................................................... 50
Graphic Novel Il giro dell’isolato
di
Hesurdo & KiK .................................................
Photo editor Reza Khatir
Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55
Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs
Stampa
(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona
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In copertina
Ivana Falconi, artista Fotografia ©Maurizio Molgora
Virtù cardinale Egregi redattori, seguo sempre la vostra rivista che oltre a fornire un servizio utile con le pagine dei programmi televisivi propone anche articoli interessanti e a volte piacevoli da leggere. Ho notato che ci sono anche articoli legati alla religione cattolica in cui vengono prese posizioni differenti e a volte contrarie, come nel caso dell’articolo-intervista al signor Marzano e della risposta di don Rolando Leo. Volevo a proposito intervenire su questo tema ma non tanto sulla questione dei movimenti ma su papa Francesco. Questa riflessione mi è nata dopo aver visto in televisione un’intervista al cardinale Scola, arcivescovo di Milano che, interrogato da un giornalista su un tema di attualità di cui non ricordo l’argomento, aveva concluso dicendo che oggi c’è bisogno di “prudenza”. Non so davvero a cosa si riferisse ma a me è venuto in mente papa Francesco che – ripeto, si tratta di opinione personale – mi pare stia affrontando il pontificato con un grande carisma ma anche con una certa spregiudicatezza. Le sue dichiarazioni, anche recenti, nei confronti della comunione alle persone divorziate, del mercato che genera disastri, dei cattolici “finti”, dei politici che da un lato rubano e dall’altro magari fanno donazioni alla Chiesa, pur comprensibili, mi paiono il risultato di un certo radicalismo che non mi sento di approvare. Certamente egli proviene da un mondo – quello dell’America Latina – in cui i contrasti economici e sociali sono parecchio forti e sentiti. Inoltre è un gesuita e quindi capace di prendere posizioni “autonome” rispetto alla Chiesa. Credo però che la differenza dai due precedenti pontefici, molto diversi fra loro ma che condividevano la stessa idea di Chiesa, sia stata forse un po’ troppo brusca e possa dar vita a ulteriori e più
profonde divisioni all’interno dei credenti. Si tratta comunque del pensiero, ripeto, di una persona del tutto comune. Molte grazie. D.B. (Losone) Gentile lettrice, la sensazione è che in questo momento ci sia molta, anzi troppa attenzione mediatica su tutto ciò che dice e fa papa Francesco e che molte delle cose da lui espresse vengano volutamente enfatizzate quasi per un bisogno epidermico di novità e di maggiore leggerezza dopo due pontificati, uno lungo e storicamente cruciale (quello di Giovanni Paolo II), l’altro breve ma estremamente austero (quello di Benedetto XVI). Proprio questa attenzione però ci dice anche che all’interno di buona parte del mondo cattolico si avvertiva il bisogno di una Chiesa magari ferma nelle sue convinzioni, ma capace di toni più aperti e dialoganti. E che anche nel mondo laico c’era il desiderio di avere una controparte religiosa con cui confrontarsi in modo più diretto. Che poi sia radicale nelle sue scelte, oltre che nelle parole solo il tempo ce lo potrà dire. Per ora non è accaduto nulla di rivoluzionario nella Chiesa, né ritengo accadrà nel prossimo futuro. Quanto alla prudenza invocata dall’arcivescovo di Milano, è una delle virtù cardinali... ma non sempre degli uomini, che talvolta la dimenticano facilmente. Buona lettura, Fabio Martini La direzione, la redazione e tutti i collaboratori di Ticinosette si uniscono al dolore di Giancarlo Fornasier e dei suoi familiari per la recente perdita del padre.
Il valore del passato Memoria. Gli archivi, essenziali per la conservazione del nostro passato, necessitano di tutela, protezione e organizzazione ottenibili solo grazie a un’accurata conservazione. Con Luciano Canfora, esperto del mondo antico, scrittore e docente di filologia classica all’università di Bari, intervistato a margine del suo intervento a ParoLario, abbiamo discusso dell’impiego sempre più frequente delle nuove tecnologie nella consultazione, dell’uso politico degli archivi, ma anche delle scoperte, davvero rare, e dei falsi sempre in agguato
di Stefania Briccola; fotografia ©Peter Keller
Agorà 6
L’
archivio è un complesso organico di documenti legati tra loro da un vincolo originario, necessario e determinato. Questi corpi di memoria sedimentata nel tempo vanno tuttavia interrogati e analizzati con intelligenza. La consultazione nell’era del digitale presenta vantaggi, come la garanzia di una maggiore salvaguardia dei documenti, alcuni dei quali facilmente deperibili, e punti deboli come il cortocircuito improvviso che manderebbe in tilt l’intero sistema. La conservazione della memoria è degna di essere perseguita con il massimo rigore anche se nulla può sostituire una consultazione diretta di alcuni documenti antichi che nessuna riproduzione digitale può rendere. Gli archivi sono anche il riflesso dell’immagine che il potere sceglie di trasmettere e diventano cruciali nel dibattito culturale dei nostri giorni. Per questo abbiamo interrogato uno studioso che volge il suo sguardo all’antichità classica, ma con un occhio sempre attento al presente anche perché la storia è sempre contemporanea. Luciano Canfora, acuto indagatore dei temi del potere e della democrazia, parte dall’interesse per il testo, le fonti e i documenti per approdare dall’indizio a una strada in grado di condurre alla verità storica. L’archivio non è qualcosa di statico e di acritico e ha a che fare con la forma e l’identità di una società. La memoria collettiva di un popolo, che ogni stato cerca di accaparrarsi, costituisce dunque un’importante posta in gioco nella lotta per il potere. Professor Luciano Canfora, come entra la memoria digitale nel discorso sugli archivi oggi? Mi verrebbe un po’ per paradosso di evocare Il visitatore segreto di John Le Carrè che descrive il suo lavoro di intelligence
e racconta di un tale che, pur godendo della massima fiducia, faceva scomparire documenti necessari al funzionamento del servizio… e dice che quello era il tempo in cui ancora si poteva cercare un documento magari rassegnandosi a non trovarlo. Oggi invece, non appena non lo si trova, si chiama il tecnico. In altre parole, abbiamo perduto totalmente il controllo sul funzionamento dell’archivio. Dico questo non per essere passatista o il Don Ferrante della situazione, ma per chiarire che ci sono aspetti positivi e negativi. Tra i primi ci sarebbe la garanzia di lunga conservazione dei documenti dovuta al fatto che la carta è deperibile. Se si visita l’Archivio centrale di stato a Roma che conserva materiale sulla storia del novecento, da poco prima del Fascismo fino alla prima repubblica, ci si rende conto che, per esempio, le carte di polizia sono in procinto di morire dal punto di vista della sopravvivenza materiale, sia per l’incuria degli studiosi un po’ troppo aggressivi, sia per la natura stessa fragilissima di queste carte veline che si usavano allora. Se poi andiamo indietro e guardiamo agli archivi nazionali francesi, nei quali è raccolta la storia dalla Rivoluzione in avanti, il materiale è ancor più deperibile per cui la digitalizzazione può rappresentarne la salvezza. Consultare il materiale d’archivio sullo schermo è un bene perché consente di preservare l’oggetto. Tra gli aspetti negativi della gestione digitale c’è da temere il cortocircuito perché appena un evento del genere distrugge questa memoria affidata a supporti così sofisticati siamo fritti. Gli archivi digitali vanno sicuramente incrementati e perfezionati però si deve sempre avere la possibilità alternativa selezionandone l’accesso, anche se quello poi è un tema spinoso perché i peggiori sono proprio gli studiosi. Perché mai gli studiosi sarebbero così pericolosi nel maneggiare i documenti d’archivio? Parecchi anni fa a Parigi la direttrice dell’archivio della Facoltà
Archivio di Stato di Bellinzona, Sezione fotografia (2010)
giuridica della Sorbona, che raccoglie documenti importantissimi del periodo rivoluzionario riguardanti i processi del tribunale dell’epoca, lanciò un allarme: durante una consultazione del materiale ella si accorse che le pagine che contenevano le dichiarazioni rese da Danton prima di essere condannato erano state sottratte e ritagliate con una lametta. La tragedia era che solo pochissimi avevano accesso a quel tipo di documenti. Quindi anche la teoria che si propone di riservare l’accesso solo a persone di alto valore scientifico e di fiducia potrebbe riservare qualche sorpresa. È accaduto anche in Vaticano. C’è un rischio effettivo: lo studioso si affeziona al documento e non si rende conto che nel momento in cui se ne impossessa lo rende inutilizzabile, ma come fa a citarlo, deve dimostrare di conoscerlo perché gli serve, ma se lo cita si autoaccusa e quindi… Quale opinione ha sul tema della conservazione della memoria? Bisogna dare ai principi della conservazione il massimo del rigore. Dopo avere contrastato per egoismo di studioso la ferocia dei conservatori di manoscritti, sono del parere che facciano bene; una difficoltà in più scoraggia incidenti simili a quelli appena descritti. Poi la possibilità di accedere per via informatica a tanta parte della documentazione elimina almeno l’80% della fatica. È chiaro, parlando del mio mestiere, che se si tratta di un manoscritto è importante verificare come è cucito e cosa c’è, per esempio, scritto all’interno della legatura. Mi riferisco a manoscritti greci, latini e del tardo Medioevo. Però quel tipo di approfondimento che va fatto rappresenta il 20% dell’intero lavoro ed è indispensabile proteggere il manufatto antico fin che è possibile, riservando l’accesso solo nel momento in cui si tratta documentatamente, di mostrare e di fare perlustrare elementi che nessuna riproduzione digitale, sia pure straordinariamente raffinata, può rendere.
Cosa pensa dell’intervento del Google Cultural Institute per la digitalizzazione e fruizione online dell’archivio di Nelson Mandela? Questa opzione trova la mia piena ammirazione perché l’archivio potrebbe giovare ancora oggi politicamente ben oltre il ristretto numero degli studiosi di storia. Invece una soluzione opposta mi sembra la decisione di cedere l’archivio personale di Oscar Luigi Scalfaro, ex presidente della Repubblica Italiana, ai gesuiti, che sono un’élite e questa scelta ristretta determina un filtro. Alla biblioteca dell’università Alma Mater di Bologna il maggio scorso è stato ritrovato un rotolo della Torah (o Pentateuco) che era stato catalogato a fine ottocento come risalente al 1600, invece è stato vergato a mano in un periodo compreso tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo (1155–1225); una datazione che la rende il più antico rotolo ebraico completo della Torah a oggi conosciuto al mondo. Ci sono ancora “tesori nascosti” negli archivi? Intanto direi che c’è sempre il pericolo del falso che fa chiasso fino a quando viene smascherato e poi non se ne parla più. Un po’ di tempo fa è saltato fuori un papiro in cui Gesù sembrava avere una moglie. Una coptologa americana, Karen King, fece un baccano enorme, il quotidiano “La Repubblica” ci cascò e uscì con due pagine. Si trattava di un vangelo apocrifo in cui a un certo punto Gesù diceva: “mia moglie…” e poi c’era una frase del tipo: “ha cucinato la pasta…”. Si trattava di un marchiano falso. L’Osservatore Romano si è scatenato mettendo subito in azione dei coptologi di prim’ordine per dimostrare che era una patacca e veniva fuori da archivi che conservano documenti ancora inesplorati. In occidente questo rischio di trovare tesori nascosti lo vedo piuttosto limitato. (...)
Agorà 7
Invece, purtroppo, bisogna dire che in archivi e biblioteche in Medioriente c’è una quantità notevole di materiali conosciuti e sicuramente qualcosa ancora ci sfugge per ragioni varie. Il monastero di san Panteleímon sul monte Athos è il più chiuso, ostile e iperortodosso e se non si appartiene alla religione ortodossa, non è permesso entrare. Il grandissimo falsario Costantino Simonidis sosteneva di essere il nipote del direttore di quel convento dal quale lui trasse pagine che poi vendette in occidente. Questo individuo operava tra il 1840 e il 1860 che è un periodo terribile per la proliferazione di falsi incontrollati. Oggi credo che sia molto meno probabile andare incontro a liete sorprese come quella di Bologna. Nel mondo antico greco e romano quando si cominciano a distinguere gli archivi dalle biblioteche? Ad Atene già da subito si pone una distinzione, meno percepita nell’antica Roma dove i due ambiti tendevano a sovrapporsi. In un caso molto documentato come quello di Alessandria, addirittura constatiamo che esisteva un‘intera struttura dentro il palazzo reale dei Tolomei che conteneva il museo cioè la raccolta scientifica, animali rari, strumenti di carattere astronomico, la biblioteca gigantesca, piena di rotoli anche di infinite copie delle stesse opere. A tutto ciò si aggiungeva una biblioteca più piccola collocata fuori dal palazzo. Augusto fonda nella sua casa sul Palatino le due biblioteche, una greca e una latina, che erano anche archivi. Svetonio, era il bibliotecario dell’imperatore Adriano e anche segretario ab epi-
stulis dell’archivio del princeps che stava dentro la biblioteca imperiale. La diversificazione avviene pian piano ed è un fenomeno successivo. Invece, a un livello molto arcaico si potrebbe dire che nell’antica Atene questa distinzione esisteva. C’era un archivio che si chiamava Metròon dove si depositavano i documenti originali su papiro di ciò che poi veniva iscritto ed esposto al pubblico sulle mura nell’acropoli; la città antica era una città parlante. Non era la biblioteca di Atene, che non esisteva in realtà come tale, anche se qualche fonte ne parla (per esempio, Aulo Gellio). Ora la certezza che ad Atene ci sia stata una biblioteca l’abbiamo solo per l’epoca di Aristotele che la istituisce dentro la scuola del liceo ed è il modello della biblioteca di Alessandria. Questo perché i suoi scolari furono quelli che portarono ad Alessandria la grande novità della biblioteca organizzata e diretta da persone competenti. Euripide aveva una sua biblioteca personale. L’imperatore Adriano nella sua mania filoellenica regala ad Atene una biblioteca e la fa incrementare di anno in anno. Secondo Jacques Le Goff impadronirsi della memoria collettiva e dell’oblio è una delle massime preoccupazione delle classi, dei gruppi e degli individui che hanno dominato le società storiche. L’archivio può diventare uno strumento politico? Senza dubbio. Se parliamo di un tempo a noi più vicino ci rendiamo conto del fatto che l’archivio è uno strumento politico per varie ragioni anche perché è controllato dal potere politico e
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non tutti i documenti vengono resi accessibili per motivazioni non sempre nobilissime. È una storia delicatissima poiché una struttura statale si difende. Già questo è un elemento che spiega perché la lotta per la memoria sia una contesa per estendere la conoscenza a una parte degli storici e per difendersi da un’eccessiva conoscenza della storia da parte del potere. Poi c’è un altro aspetto. Un materiale documentario spesso incandescente diventa accessibile quando finisce un regime politico. Abbiamo una discreta conoscenza del periodo fascista per quanto riguarda l’Italia e del periodo nazista per la Germania. La fitta produzione storiografica concerne periodi che sono meglio documentati in quanto quei regimi sono crollati e i loro archivi sono stati inglobati dal nuovo stato che ne è erede e che al tempo stesso gestisce questa eredità discostandosi da quella precedente esperienza. Analogo è il caso del 1991 nella ex Unione Sovietica ed è interessante vedere quello che è avvenuto in seguito, dopo Eltsin; prima apertura e poi chiusura. Putin è probabilmente l’erede dell’esperienza sovietica, ma ha anche ereditato il ruolo planetario, geopolitico, che dura al di là del tipo di governo che c’è. Questo è noto, e quindi il recupero di prestigio, di influenza, di capacità di contrapporsi ad altre grandi potenze ha come corrispettivo immediato il controllo sugli archivi. Certo, c’è maggiore elasticità e intelligenza. C’è una ragione: allora era la continuità dello stato, cioè uno che voleva andare a ficcare il naso nella documentazione che riguardava la storia dell’URSS e del Comintern aveva come interlocutore quello stato ancora operante e vivente. È come se andassi dal
ministro degli interni in Italia e chiedessi la documentazione vivente dell’anno scorso o di dieci anni fa: mi farebbero dei problemi dicendomi questo non è ancora materiale per archivi. Nel momento in cui crolla un regime politico questo viene passato a un’altra branca dello stato, l’archivio. Quindi la Russia attuale per quanto si senta da capo erede dell’esperienza imperiale ha comunque un distacco verso quella che è la storia passata essendoci stata questa fortissima cesura negli anni di caos in cui Boris Eltsin vendeva gli archivi sovietici agli americani e infatti a Standford si trova fior di materiale. Nel caso del Terzo Reich avvenne che a Berlino arrivarono prima i russi quindi questi archivi sono andati a finire un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Gli americani microfilmarono tutto il possibile e si portarono negli Stati Uniti il materiale che dopo la riunificazione tedesca hanno restituito agli archivi tedeschi i quali a loro volta erano divisi tra l’archivio di Potsdam per la Repubblica Democratica tedesca e l’archivio di Coblenza per la Repubblica Federale che ora si sono riunificati a Berlino e il materiale che era negli Stati Uniti sotto forma di microfilmatura bassissima è ritornato in Germania. Quello sovietico è stato oggetto di mercanteggiamento tra l’ultimo Gorbaciov che voleva l’elemosina da Helmut Kohl che in cambio si riprendeva dei pezzi. I tedeschi sono bravissimi e saranno riusciti a ricomporre l’intero archivio che però non è esattamente come era nel momento in cui crollò il Terzo Reich. Questo rende la nostra fatica come quella di Sisifo: ci avviciniamo, ma non raggiungeremo mai una conoscenza completa.
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Testi viventi
L’annuale festival di nuova arte Steirischerherbst, che caratterizza l’autunno di Graz, appena concluso, ha proposto due interessanti spettacoli teatrali di registi svizzeri di Irina Zucca Alessandrelli
Arti 10
Due generazioni diverse, due aree geografiche di prove- i movimenti più svariati. L’assenza di parole è compensata nienza differenti, due approcci al teatro lontanissimi tra dalla musica e dai versi, in un’alternanza di ordini imparloro, ma capaci di far riflettere, però, perché sottesi da una titi e lamenti. Niente scenografia, sul palco in ombra c’è stessa carica eversiva. La voglia di spezzare ogni schema di solo il tecnico del suono. Gli attori, rimasti in slip neri recitazione drammatica tradizionale, di superare le logiche (la donna di mezza età, nel frattempo è rovinata a terra) spazio temporali, di sottrarre il pubblico dal classico ruolo cominciano a mettersi nelle pose del culturismo classico. di spettatore, era in fondo la medesima. Ancora una volta non si sa se ridere o piangere di fronte Immaginate una vecchia palestra, di quelle con i mate- ai loro muscoli inesistenti, contratti all’inverosimile. Poi, rassini in pelle e le panchine in legno; un quadrilatero al si passa alla seconda “immagine lunga”, in cui la donna cui centro sta una donna in scarpe da ginnastica e jeans stramazzata si rianima in una danza onirica in tuta imbotche si aggira legandosi i biondi tita, a imitazione dei corpi nudi capelli lisci con elastici, in gesti dei culturisti, insieme a un uomo sempre più bruschi. Passano alcon la maschera di Arnold Schwarcuni minuti e cinque persone, zenegger, anch’egli ingigantito da quattro uomini e una donna tra muscoli di gommapiuma. gli spettatori si alzano di scatto per Intitolato Gym Club, lo spettacolo venire “allenati” dalla bionda. E si ispira, infatti, alla prima fase qui comincia un’agonia collettiva, della vita di Schwarzenegger, nato tra momenti d’ilarità e di sofferena Graz (oggi esiste un museo nella za empatica. L’insegnante, infatti, sua casa natale). Furlan si è ispiraè una macchina da guerra che to alla notte del 1966, prima della impartisce esercizi, senza parlare, partenza per Monaco, città in cui solo con versi d’incitamento a la star hollywoodiana avrebbe queste cinque persone di diverse cominciato la sua carriera di culetà, assolutamente normali, in turista. Il riferimento è all’infanzia abbigliamento casual. del fitness, quando l’approccio Il regista, e attore, è Massimo alla cura del corpo era ancora Furlan, nato nel 1965 a Losanna amatoriale, lontano dall’odierna da genitori italiani di Monfalcone ossessione per la forma fisica. (Gorizia). Lo si vede contrarsi in pose tutt’altro che atletiche e in Testi viventi Un momento dello spettacolo di Massimo Furlan sequenze ginniche sempre più veFurlan si è spesso sentito dire che “Gym Club” (isteirischerherbst.at) loci, sempre più insensate al limite il suo “non è teatro”. Lui ci tiene del masochismo. Si sente la fanfaa precisare che ha una formazione ra dei bersaglieri e i movimenti seguono il ritmo veloce. Lo da scenografo, uscito dall’Accademia di Belle Arti e che non spettatore è molto vicino ai corpi sudati, percepisce i rantoli avverte nessuna necessità di interrogarsi sul dogma teatradi fatica e il calore aumentare. Intanto, l’istruttrice indica le. La sua immagine lunga richiama piuttosto i tableaux pose talmente impossibili da risultare comiche. La scena vivants. Quanto alla definizione di teatro, quello di Furlan è lunga, a volte in modo preoccupante, ma mai noiosa. A potrebbe rientrare in quello definito dal teorico tedesco un certo punto, le magliette madide di sudore dei quattro Hans Thies Lehmann come “teatro postdrammatico”. Con uomini, vengono sbattute addosso a uno spettatore, che questo termine in uso dal 1999 (quando è uscito il libro le sposta con la punta delle dita. dall’omonimo titolo, tradotto in inglese nel 2006) si intende una tendenza iniziata negli anni sessanta, in cui la trama La vita di Arnold e il testo teatrale passano in secondo piano, soppiantanti da Tutto si basa sul concetto di “immagine lunga” di Furlan. una nuova concezione dell’attore, non più personaggio da Quello a cui il pubblico assiste per una mezzora è, in effetti, descrivere con fatti, ma esso stesso portatore di significato, una sola immagine dello stesso luogo, in cui si succedono sorta di testo vivente. Non c’è progressione temporale,
né svolgimento tematico. Queste caratteristiche, insieme alla voglia di mettere in discussione il rapporto tra attori e pubblico, si ritrovano anche nel lavoro di Boris Nikitin, giovane regista svizzero nato a Basilea nel 1979. All’opposto di Furlan, la sua produzione Don’t be yourself, si basa sulla parola come mezzo privilegiato per insinuare il dubbio. Il pubblico fin dalle prime battute si chiede se i personaggi che si raccontano al microfono, stiano parlando delle loro vite private, o stiano giocando con i meccanismi teatrali. Uno di loro racconta di come a scuola di recitazione gli abbiano insegnato a piangere e mentre racconta i trucchi del mestiere, l’attore sembra scomparire per lasciare il posto all’uomo che si commuove davvero ripensando alle profonde implicazioni emotive in gioco. L’opera di Nikitin è incentrata sul diritto di ciascuno di fingere, esasperando l’assenza di linearità nella vita. La menzogna, quintessenza della struttura sociale contemporanea, si ritrova nel mestiere di attore, al massimo grado. A partire da How to win friends and influence people di Dale Carnegie (1936), libro storico della letteratura motivazionale, Nikitin parafrasa l’attuale mito dell’autenticità, ribaltandone i termini. Carnegie consigliava tecniche relazionali per una comunità di successo, cancellando se stessi per piacere agli altri. Attori che non recitano Il lavoro teatrale di Nikitin, basato su un fitto dialogo, offre molte informazioni allo spettatore, ma nessun parametro per appurarne la veridicità, provocando un cortocircuito tra il mito dell’autenticità e la grande libertà offerta dalla
finzione. “Innanzitutto”, afferma, “mentire su se stessi è il miglior modo per fuggire gli attentati alla privacy e poi recitare nella vita, non significa per forza essere superficiali”. Al contrario, imparando le regole del gioco, si entra in una finzione collettiva che sposta l’attenzione da se stessi a una dimensione di benessere conviviale. Per lo spettatore si crea una confusione che raggiunge il culmine quando i personaggi, dopo essersi presentati in monologhi, si scambiano i vestiti e non si sa più se stanno prendendo il carattere della persona di cui hanno indossato gli abiti, o se sono ancora i personaggi precedenti, o semplicemente persone che hanno parlato di se stesse apertamente. Il regista si scaglia contro la recitazione che esaspera i meccanismi tradizionali del teatro. “La mia fatica più grande è trovare attori che non recitino” afferma Nikitin. Negando la recitazione teatrale drammatica, la situazione sul palco si trasforma in modo fluido perché si basa su una situazione ”fragile”, i cui contorni sono offuscati. Quando gli attori tradizionali recitano, è molto chiaro che mettono in scena personaggi studiati. Invece, senza il peso della teatralità, lo spettatore è spinto verso la scomodità. L’aspetto positivo del sentirsi a disagio è che, continuando a porsi domande e a sostituire alle risposte date nuove risposte, lo spettatore “lavora”. Dimenticatevi di sedervi per farvi raccontare una storia: la storia si fa insieme agli attori in una continua confusione produttiva. L’importante è sapersi godere le infinite possibilità di finzione e d’interpretazione. Un bell’esercizio di elasticità mentale per lo spettatore da non dimenticare, una volta uscito dal teatro.
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Tutti (o quasi) praticano lo “zapping”, ma non tutti sanno che all’origine il termine non era altro che il suono emesso da una pistola: quella a raggi sonici di Buck Rogers, il primo esploratore del cosmo nella storia della fantascienza di Nicola De Marchi
“Chi cambia canale è un…” (Gialappa’s Band, Italia1)
La faccenda inizia nel 1928 quando il magazine pulp Amazing Stories pubblicava “Armageddon 2419 A.D.” di Philip Francis Nowlan: prima avventura di Buck Rogers, una serie che tra sequel TV, cinema, videogiochi e soprattutto fumetti, non si sarebbe più esaurita. Ma se l’eroe del futuro venuto dal passato attraversa le epoche, la sua arma, via via adattata alle mode fantascientifiche, emette sempre, nella vulgata fumettistica, l’inconfondibile ZAP!. Un’onomotopea che, con più fortuna dei vari BANG, SPLASH, SLURP, ha finito col farsi verbo dell’inglese standard (to zap) per significare qualcosa come “uccidere o disintegrare come fa l’insetticida sugli insetti”. Media 12
“To zap” ovvero l’avvento del telecomando Sarà solo nel 1986, più o meno all’epoca in cui Renzo Arbore cantava “tu nella vita comandi fino a quando / ci hai stretto in mano il tuo telecomando”, che dalle colonne del Wall Street Journal sortiva la nuova seducente accezione del termine. “Zap” diventava, per la disperazione dei direttori di rete, il compulsivo e indiscriminato cambiare canale da parte di telespettatori emancipati dall’avvento del telecomando, scocciati dalle pubblicità e allettati dall’offerta sempre più vasta di programmi. Era l’epoca in cui da tua nonna potevi trovare fino a cinque o sei di questi aggeggi per gestire 600 canali, l’epoca in cui il tuo vicino batteva record di zapping e De Piscopo cantava più modestamente “tengo ‘na televisione a 36 canali”. Una tendenza che da pratica privata diventerà poi un nuovo modo frammentario di guardare ma anche di raccontare la TV come dimostrerà dal 1989 il mitico “Blob” di RaiTre. Il “multitasking”: quasi un’epidemia Oggi, se zapping è entrato a far parte del linguaggio comune anche al di fuori della sfera televisiva (in francese si può “zaper” nella conversazione cambiando repentinamente argomento), l’incremento delle sorgenti di informazioni spinge l’utente a una nuova forma di disciplina che consiste nell’uso simultaneo di diversi media. È l’epoca in cui puoi vedere tuo nipote guardare la TV scrivendo un messaggio via smartphone mentre il computer carica un film, o peggio, vedere fare queste cose guidando. È il “multitasking” (alla lettera “multicompito”), termine preso in prestito al mondo
dei computer capaci, grazie a multiprocessori, di frazionare ed eseguire più mansioni contemporaneamente. Questa emulazione della macchina da parte dell’uomo ha stimolato una barca di studi. Cosi se per alcuni (come lo psicologo David Meyer) la distrazione è oggi una forma di epidemia ed è tecnicamente impossibile a noi bipedi eseguire più attività alla volta, per altri il multitasking non solo è possibile ma è nientemeno che il frutto dell’evoluzione biologica e della sete di varietà dell’uomo. Benché oggi questa capacità di “continua e parziale attenzione”, abbia chiaramente meno a che fare con la sopravvivenza delle specie che non con l’ambizione di restare connessi allo scopo di non perdersi niente.
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Tutte parole straniere? Colpa nostra! Manco a dirlo, l’italiano non ha equivalenti per multitask e tantomeno per zap. D’altronde né Pascoli né Tex Willer disponevano di un verbo onomatopeico per stecchire o liquidare qualcosa in un battibaleno. Al fantaitalofono non resta quindi che barattare l’origine fumettistica del termine con vezzi più locali, come il suffisso medicale dell’infiammazione (la “cambite”, la “telecomandite”), o le parole composte (“Raffica”, “salta-canale” o “mitragliacanali”). Per il verbo, visto che gli stessi anglofoni non disdegnano usare channel hopping al posto di zapping, perché non osare “cavallettare”, “saltabeccare” o “paloinfrascare” nella vita come davanti agli schermi. Quanto a multitasking, si potrebbe ripensare il “factotum” latino in “multifactotum”, o rivoltare l’italico “farniente” nel meno dolce “far-mentre”. Audacia linguistica poi mica cosi campata per aria se si pensa che gli psicologi spiegano questi abusi mediatici proprio come frutto combinato di pigrizia, disattenzione e iperattività. Confesso in proposito che, più dello zapping mediatico, pratico volentieri, ma senza troppi danni, il “far-mentre” di ghiotte attività come mangiare cioccolato, bere un caffè, leggere e, nel mentre, ascoltare un disco cantando all’unisono. Soprattutto se il disco in questione dice “ti prepari un panino mentre guardi la TV, anche tu”.
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Letture di Roberto Roveda
Tra due guerre di Pompeo Macaluso Armando Dadò editore, 2013
Gli
anni che intercorrono tra il primo e il secondo conflitto mondiale videro l’affermazione dei totalitarismi di stampo fascista e stalinista, a stento contenuti dalle democrazie europee. Fu un periodo di opposti estremismi in campo politico che ebbe una notevole risonanza anche in Ticino. Il cantone, infatti, visse pienamente i travagli di quell’epoca di torbidi con le sue élite intellettuali e politiche fortemente influenzate dai sommovimenti che caratterizzavano l’intera Europa e soprattutto la contigua Italia mussoliniana. Il Ticino – ma il discorso, lo sappiamo, può estendersi all’intera Confederazione – non fu quindi un’isola felice in mezzo alla tempesta europea. Fu, viceversa, parte integrante della vicenda politica dell’epoca come ci racconta lo storico Pompeo Macaluso nel suo recente Tra le due guerre, undici saggi attraverso i quali ritroviamo problemi e protagonisti del ventennio politico ticinese tra il 1920 e il 1940. Un periodo in cui il nostro cantone attraversò una crisi profonda, specchio di quella crisi – sociale e politica – più ampia che attraversava l’intero continente europeo. Un ventennio in cui vediamo confrontarsi nelle pagine di Macaluso e sull’agone della politica cantonale le istanze del comunismo nostrano, quelle dei non pochi emuli del fascismo italiano contrapposte alle posizioni democratiche, europeiste e antifasciste rappresentate dal Partito liberale radicale democratico ticinese (PLRDT) e dal liberalismo di Giulio Guglielmetti. Un Ticino, quindi, diviso, politicamente travagliato, incantato dalle sirene ideologiche, anche da quelle più estreme, provenienti da oltre confine. Un Ticino che assomiglia in molti tratti a quello di oggi, colpito da una crisi di identità e attraversato in maniera neanche troppo carsica dalle chiusure e dagli estremismi isolazionistici che fermentano un po’ ovunque in Europa. E quasi inconsapevolmente trasudano e trovano humus ideale in una Confederazione che certo non si può dire povera.
Letture 13
C
Vitae 14
on mio padre facevamo spesso dei lunghi viaggi in macchina e c’erano sempre della cassette musicali che venivano ascoltate finché si rovinava il nastro: Creedence, Tom Petty, su tutti forse Born in the USA di Bruce (Springsteen, ndr.), un “rush” pazzesco! Guardavo fuori dal finestrino e mi vedevo come il bambino più veloce della scuola, quello con tutte le ragazzine attorno. Mi vedevo correre più veloce della macchina! Io questo lo chiamo “escapism”, una specie di fuga dalla realtà con mille possibilità. Mi ha segnato anche un solo di Brian Quinn, batterista nato a Dino, a un concerto della filarmonica di Sonvico: il giorno dopo, su mia richiesta, mia madre lo ha chiamato per chiedergli di darmi lezioni di batteria. Ho suonato dieci anni con lezioni. Ma ai tempi del liceo suonare era più uno sfogo, fare casino, una sfida, a 16 anni sei un pirla (ride, ndr.)! Col tempo la mia idea della musica è cambiata e da li il “bisogno” di scrivere canzoni, passando perciò alla chitarra. Oggi il termine “artista” è abusato. Sì, ci sono più possibilità e alla gente piace fare “l’artista”, ma ho un’idea abbastanza nebulosa dell’arte. La cosa che non riesco a spiegarmi è esattamente da che parte di me provengano le canzoni, l’atto creativo, è il creare che, probabilmente, è arte. E poi c’è l’arte del lavoro, che per me è un po’ come la “redenzione”, quindici ore al giorno solo per quello e vai a letto che sei soddisfatto. Quando ho iniziato a cantare, a suonare la chitarra e a scrivere le mie prime canzoni, a sedici-diciassette anni, sì, diciamo che ero in una fase della mia vita di grande crescita, forse non vissuta serenamente: quindi probabilmente è vero che si crea quando non si sta molto bene. Si scrive anche per metabolizzare la vita. I miei testi spesso non sono celebrativi o gioiosi, ma piuttoso oscuri, anche se c’è sempre uno spiraglio di positività, del bello nel brutto. Suonare però è la cosa in cui voglio eccellere e fare per tutta la vita: questo fa paura perché può diventare una definizione di te. Ai momenti che precedono un concerto ci si abitua: se non avessi “le farfalle allo stomaco”, non penso che ciò avrebbe lo stesso “appeal”. Fondamentalmente non è mai una paura
di stare davanti alle persone, o di sbagliare, quella che ti paralizza, ma è sempre “adrenalinica” come situazione, hai voglia di fare bene, perché sono sicuro della mia musica. E poi ti esibisci, fai uno “show”, e un ego ovviamente ce l’ho anche io. Spesse volte lo si accarezza quando si è sul palco. È anche intrattenimento, ma non solo, sono tre minuti durante i quali uno non pensa alla sua vita, dove cerca magari rabbia o amore e lo trova. Sta a chi è sul palco di convincere il pubblico, sapere qual è il “setting” migliore per quale parte della tua musica. Fondamentalmente suono per le emozioni in chi mi ascolta. Oggi ci sono molti gruppi musicali fabbricati a tavolino, ma credo che la genuinità, il cuore, la gente lo fiuta e lo sente. La musica ha avuto e può ancora avere un ruolo sociale, è stata il veicolo della rivoluzione sessuale e di pensiero degli anni sessanta e settanta. È indubbio che può avere effetti sulla vita delle persone. Ma è anche alienazione, ogni tanto ci vuole, anche se poi ascoltare e sentire sono due cose diverse. Io ho sentito e ascoltato tanto, ultimamente però sono talmente concentrato sulla mia musica che passo settimane durante le quali non sento altro che la mia chitarra e la mia voce. Non è una scelta conscia, non è egocentrismo, è concentrarsi, è la volontà che il trigger (l’origine, ndr.) e lo spark (la scintilla, ndr.) vengano da me e non dall’esterno. Cosa penso di programmi televisivi come “X-Factor”? Noto che lo spettro di differenziazione tra un artista e l’altro si assottiglia, come il timbro di voce, e la genuinità, il cuore, spesso vanno a farsi benedire. Ho un’idea ben precisa del tipo di percorso per fare del mio amore per la musica una professione. Non ho fretta, ho solo venticinque anni, è come l’espressione pay your dues, cioè farsi le ossa, guadagnarsi l’ipotetica notorietà, che per ora è solo regionale! (ride, ndr.). Ma ogni persona che riesci a smuovere, che viene al tuo concerto, è una carezza al cuore!
ANDrEA BIGNASCA
Sta raggiungendo la notorietà come giovane cantautore, ma senza montarsi la testa. Ogni volta che riesce a smuovere qualcuno con la sua musica, per lui è come una carezza al cuore...
testimonianza raccolta da Marco Jeitziner fotografia ©Flavia Leuenberger
EVERYbodY is A stAR di Paolo Blendinger; fotografie ŠMaurizio Molgora
Il gruppo musicale The Pretty Things; Bellinzona 2012
Giovanna Masoni Brenni, oggi vicesindaca di Lugano; Lugano 2012
Gabriele Basilico, fotografo, e Aurelio Galfetti, architetto; Mendrisio 2010
Daniele Cavallini, gallerista; Lugano 2012
Lilith, cantante e artista; Piacenza 2013
Mimo, artista di strada; Lugano 2013
Passante; Lugano 2013
Nag Arnoldi, artista; Lugano 2013
Roberto Benigni, attore e showman; Milano 2013
Patti Smith, artista, musicista e scrittrice; Lugano 2010
Everybody is a star Proviamo a capovolgere quest’affermazione chiedendoci: is everybody a star? Se riprendiamo l’assunto di Andy Warhol secondo cui “Ognuno ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità”, dovremmo rispondere positivamente a questa domanda, accettandone però anche l’implicazione drammatica di una fama fugace in una vita altrimenti anonima: solo 15 minuti, 15 minuti contati, oltretutto promessi da chi da star ha vissuto per decenni coltivandone con sistema il mito. Nella società dell’apparire sembriamo elemosinare questi scampoli, queste poche briciole di felicità: alle luci della ribalta si affidano i sogni all’insegna della spettacolarizzazione della realtà in cui tutto è consumo di massa e non solo di merci, ma anche dei sentimenti, delle emozioni frullati nel mixer della standardizzazione. E allora il sogno della fama diventa, per chi si sente avvilito dalla quotidianità, una sorta di via di fuga da una realtà percepita come opprimente che, in senso più lato, sul piano sociale diventa una delle ossessioni centrali della cultura popolare. Nei reality show il sistema comunicativo ha sostituito gli intrattenitori, i personaggi dello spettacolo con la gente comune, trasformando l’uomo di strada in un effimero fenomeno pubblico che si autoconsuma nell’esposizione mediatica. L’espressione artistica, così intimamente legata alla vita, non sfugge a questa regola e la cultura pop con
il suo ingrandimento, estraniamento e moltiplicazione di un oggetto comune, in cui l’uomo stesso è diventato oggetto, ne ha indicato la strada: oggetto e soggetto sono dunque diventati tutt’uno nella società del consumo, dunque ambedue sottostanno ai principi di marketing e di conseguenza il bacino di potenziali star nella massificazione è diventato infinito, ridotto solo a una questione di produzione. Il prezzo pagato dall’individuo è alto perché come un prodotto che va venduto, smarrisce la sua identità, diventa altro nel rituale collettivo della tentata divinizzazione e allora dobbiamo ammettere che lo status di star resta un miraggio, un miraggio tanto più distante nei luoghi della provincia che abitiamo. Sostanzialmente resta una menzogna. Il ritratto fotografico è uno dei tasselli miliari di questo processo, è la Veronica, letteralmente la vera icona, il tessuto in cui il volto del Redentore rimase impresso nella Via Crucis, l’immagine per eccellenza della modernità, che nell’era digitale è diventata accessibile a chiunque, condivisibile su larga scala. Ma ancora una volta una pessimistica contraddizione: nella sua estrema moltiplicazione e diffusione risiede naturalmente il suo annullamento… questioni di sovraesposizione.
Maurizio Molgora Nato a Milano nel 1964, produce immagini, più che come fotografo che mette in posa i suoi modelli, piuttosto come paparazzo nelle strade cittadine, accompagnato sempre dalla sua macchina fotografica, pronto a cogliere sprazzi di realtà. Un’umanità vagante che nella fissità dell’immagine, nella
sua atemporalità astratta, assurge a riferimento, confronto per chi osserva.
Paolo Blendinger Nato ad Agno nel 1954, è critico d’arte, artista, gallerista e scrittore, dopo un soggiorno di studio di due anni a Parigi e a Londra, frequenta dal 1975 al 1979 i corsi di Storia dell’Arte all’università di Firenze sotto la guida di Mina Gregori e Maria Grazia Ciardi Dupré. Ha tenuto personali in Svizzera e all’estero dal 1975. Sue opere si trovano in diverse importanti collezioni nazionali.
Flash Mob dell’Agorà Teatro; Lugano 2012
Donna; Lugano 2012
Milano. Sant’Ambrogio di Roberto Roveda; fotografie ©Reza Khatir
Luoghi 44
Se il Duomo è il simbolo di Milano, la basilica dedicata al santo protettore incarna la tradizione religiosa del capoluogo lombardo. È il luogo, infatti, che più di ogni altro testimonia il legame unico e antichissimo tra la città e la fede cristiana, raccontandoci diciassette secoli di cristianesimo ambrosiano. Per comprendere fino in fondo un luogo come Sant’Ambrogio a Milano non basta fermarsi ad ammirare la sua facciata o soffermarsi sulla stranezza di una basilica con due campanili che si fanno compagnia e nello stesso tempo rivaleggiano nel cielo. Neppure è sufficiente godersi la sua architettura massiccia da bel romanico lombardo, coi mattoni in cotto, l’intonaco bianco e le pietre povere a far da muratura come era solito, un tempo, in tutte le cascine della pianura tra le Alpi e il Po. E neanche servono tutti i tesori e le opere d’arte che la basilica conserva al suo interno. Le origini della basilica Serve, prima di ogni cosa, la giusta disposizione d’animo, un atto di fiducia all’immaginario e al sogno che consenta di viaggiare a ritroso nel tempo di circa millesettecento anni, per arrivare nella seconda metà del IV secolo. La meta finale del nostro viaggio è Mediolanum, una delle capitali dell’Impero romano, il luogo prescelto dall’imperatore Costantino nel 313 per porre fine all’epoca dei martiri e delle persecuzioni con la concessione della piena libertà di culto ai cristiani. Circa cinquant’anni dopo, quando comincia la nostra storia, in città a tener le fila della vita religiosa così come dell’amministrazione pubblica è il vescovo, Ambrogio. Egli si occupa di tutto e tutto decide: combatte le eresie, fa togliere di mezzo da Milano e da tutto l’impero i simboli pagani, bacchetta senza timore imperatori. A uno di questi, Teodosio, addirittura impedisce di entrare in chiesa perché non ha chiesto perdono e fatto penitenza dopo un massacro di innocenti compiuto in Grecia. L’imperatore china il capo e si sottomette.
Quello dell’epoca di Ambrogio è un cristianesimo in tumultuosa crescita come numero di fedeli, ma anche come importanza all’interno della società. È finito, quindi, il tempo delle catacombe e delle cerimonie celebrate nelle case private e c’è bisogno di edifici di culto all’altezza dei nuovi tempi. Ambrogio decide di far realizzare a Milano, sul modello di quello che è già avvenuto a Roma, una serie di basiliche, da erigersi poco fuori le mura cittadine. Il luogo prescelto per la più importante è un antico cimitero dedicato ai martiri delle persecuzioni romane. Qui, a partire dal 379, sorge la Basilica Martyrum, ossia la Basilica dei Martiri, a poca distanza dal palazzo imperiale di Mediolanum, dal Circo, dove gareggiano le bighe, e dall’anfiteatro, dove lottano gladiatori. Un viaggio attraverso i secoli Oggi di quei grandiosi edifici romani non restano che poche pietre masticate dal tempo. La basilica voluta da Ambrogio e a lui dedicata dopo la morte nel 397 è invece ancora al suo posto, seppur mutata dal sovrapporsi degli stili e dei gusti architettonici e “rattoppata” da decine di restauri successivi. Fuori e dentro si distingue l’impronta dello scorrere dei secoli, il passare degli uomini, il mutare della autorità e dei poteri. Incontriamo mosaici che ci rimandano all’antica Costantinopoli oppure sarcofagi che ci ricordano come i potenti in ogni tempo abbiano scelto questo luogo desiderando celebrarsi anche da morti. In cima a una colonna di epoca romana, al centro della navata principale, osserviamo poggiato un serpente di bronzo. Venne donato a Milano nel 1007 dall’imperatore bizantino Basilio II e secondo la leggenda scenderà dalla colonna per preannunciare la fine del mondo. Gli rivolgiamo, tra il divertito e lo scaramantico, una muta esortazione a star fermo e passiamo avanti. Solo, però, per raggiungere la piccola cappella di San Vittore in Ciel d’Oro e osservare il soffitto dorato come probabilmente poté fare lo stesso Ambrogio diciassette secoli fa. Come i nobili e i popolani del medioevo ammiriamo l’altare d’oro di Volvinio, capolavoro dell’oreficeria dell’epoca di Carlo Magno, e ritroviamo i segni degli interventi voluti da Ludovico il Moro, ultimo signore di Milano nel cinquecento, e realizzati dal Bramante. Ci sono poi le tracce lasciate dalla storia che passa, impietosa, anche sui simboli e prende forma nelle spoliazioni di epoca napoleonica e nelle distruzioni dovute ai bombardamenti del 1943. E c’è, infine, nella cripta sotto l’altare, Ambrogio, addormentato nella sua basilica. Ambrogio capace, nonostante tutto, di tenere ancora acceso un tenue legame tra la Milano cristiana di un tempo e la Milano multietnica e indaffarata di oggi.
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Fede e società
I movimenti ecclesiali sono delle sette? Lo scorso 27 settembre “Ticinosette” pubblicava un articolo, in cui Roberto Roveda intervistava il sociologo Marco Marzano, che di fatto sottoscriveva questa tesi. Pubblichiamo la replica congiunta di alcuni rappresentanti ticinesi di movimenti ecclesiali a cura di Carlo Bernasconi (Movimento dei Focolari), Enrico Berardo (Rinnovamento nello Spirito), Alberto Moccetti (Comunione e Liberazione), Fiorella Tassini (Movimento dei Focolari)
Società 46
Papa Francesco circondato dai fedeli festanti in Piazza San Pietro (da static.fanpage.it)
Dato che partecipiamo dell’esperienza di alcuni dei movimenti citati nell’articolo di Roberto Roveda (Movimento dei Focolari, Comunione e Liberazione, Rinnovamento nello Spirito), e siccome abbiamo sentito descrivere le nostre rispettive realtà ecclesiali in un modo che ci è parso distorto, volentieri approfittiamo dello spazio che Ticinosette ci offre, a seguito di una nostra richiesta di replica. Che cosa sono i movimenti nella Chiesa? Proviamo a rispondere a questa domanda guardando, da una parte, quel che dicono i movimenti di loro stessi, come definiscono la loro esperienza; dall’altra, come a essi guarda la Chiesa, che tra l’altro non li ha certo riconosciuti con leggerezza, da un giorno all’altro. Che cosa siano i movimenti per la Chiesa del dopo-Concilio lo possiamo comprendere attraverso le parole degli ultimi papi, che in queste realtà ecclesiali hanno visto un dono provvidenziale: “Il mio venerato Predecessore, Giovanni Paolo II, ha presentato i movimenti e le nuove comunità sorte in questi anni come un dono provvidenziale dello Spirito Santo alla Chiesa per rispondere in maniera efficace alle sfide del nostro tempo. E anche io, altre volte, ho avuto modo di sottolineare il valore della loro dimensione carismatica” (Benedetto XVI, 8 febbraio 2007, Ai membri del movimento dei Focolari e di Sant’Egidio). Sempre Benedetto XVI notava anche, senza scandalizzarsi,
come il fiorire dei movimenti nella storia della Chiesa, possa essere stato e sia a volte scomodo (“Ed è una bella cosa che, senza iniziativa della gerarchia, con una iniziativa dal basso, come si dice, ma con una iniziativa anche realmente dall’Alto, cioè come dono dello Spirito Santo, nascono nuove forme di vita nella Chiesa, come del resto sono nate in tutti i secoli. Inizialmente erano sempre scomode: anche san Francesco era molto scomodo (…) Voglio solo dire questo: in tutti i secoli sono nati movimenti. Anche san Benedetto, inizialmente, era un movimento”, 22 febbraio 2007, “Ai parroci di Roma”). Confronto e testimonianza Papa Francesco, infine, ha praticamente aperto il suo pontificato incontrando i movimenti e chiedendo loro di essere testimoni fino “alle periferie dell’esistenza”. I movimenti alla vita dei quali partecipiamo, sono aperti a chiunque, non occorrono presupposti particolari per farne parte. Ognuno di noi ha cominciato a partecipare a una di queste realtà ecclesiali perché ha fatto l’esperienza che il cristianesimo rende più bella, più umana la vita. Proprio la vita di tutti i giorni. Non si tratta di presunzione da primi della classe, perché non accade certo per merito nostro; né di settaria chiusura di gente che basta a se stessa (in modi diversi, i vari movimenti sono impegnati vuoi nel dialo-
go tra confessioni cristiane, vuoi nel dialogo con le altre religioni, vuoi in un confronto costruttivo con il pensiero laico. Inoltre, a livello locale, numerose sono le persone che, proprio perché partecipano alla vita di un movimento, sono impegnate al servizio della loro parrocchia). Si tratta invece dell’esperienza di “poveracci”, come tutti, che hanno avuto la grazia dell’incontro con Gesù, e che questo incontro desiderano comunicare a tutti. Esattamente quello che duemila anni fa era capitato ai primi discepoli, a Maria Maddalena, a Zaccheo il pubblicano, o alla Samaritana. Non nello stesso modo, ma la stessa cosa. In fondo, è questo l’annuncio cristiano, che, per quanto ci riguarda ci ha raggiunto nel carisma di un movimento o dell’altro. Movimento dei Focolari “Che tutti siano una cosa sola” (Gv 17,20) È da questa prospettiva che il Movimento dei Focolari guarda al messaggio di Gesù impegnandosi per portare nella società del nostro tempo la sua testimonianza di vita, di condivisione, espressa in varie forme di impegno spirituale e sociale, e in una specifica esperienza ecumenica, di dialogo con i credenti delle diverse fedi e con uomini di ogni estrazione culturale. Comunione e Liberazione “Cristo è la risposta al problema, alla sete e alla fame che l’uomo ha della verità, della felicità, della bellezza e dell’amore,
della giustizia, del significato ultimo. Se questo non è vivido in noi, se questa esigenza non è educata in noi, che ci sta a fare Cristo? Cioè, che ci sta a fare la Messa, la confessione, le preghiere, il catechismo, la Chiesa, preti e Papa?” (don Luigi Giussani, fondatore di CL). Il movimento di CL nasce da questa esigenza profondamente umana e dal riconoscimento del cristianesimo come risposta ad essa. Rinnovamento nello Spirito Santo Il Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS) è un movimento ecclesiale che, come Benedetto XVI ha sottolineato ai Vescovi nel 2008, rappresenta, insieme agli altri movimenti, “un dono di Dio per tutta la Chiesa, una risorsa preziosa per arricchire con i suoi carismi tutta la comunità cristiana”. Nato negli USA, negli anni sessanta, quando alcuni studenti riunitisi per un ritiro sperimentarono una potente e spontanea Pentecoste, il RnS ha suscitato e continua a suscitare una rigenerazione spirituale che trasforma radicalmente la vita, orientandola decisamente verso Dio. In coloro che hanno fatto questa esperienza è possibile notare una netta distinzione tra il prima e il dopo: una vita nuova rigenerata dall’effusione dello Spirito, una grazia che comunica un’esperienza di Dio molto forte, capace di coinvolgere tutto l’essere (intelligenza, emozioni e sentimenti). Nel 1980, Papa Giovanni Paolo II, incontrando i gruppi e le comunità del RnS, ebbe a dire: “A questa effusione dello Spirito Santo noi sappiamo di essere debitori di una esperienza sempre più profonda della presenza di Cristo”.
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Cake design
L’effimero dolciario Tendenze p. 48 – 49 | di Eugenio Klueser
C’erano una volta… a dettare legge i golosissimi dolci realizzati dalle mani esperte di pasticcieri. Poi sono arrivate le torte preparate secondo le regole del cake design, insinuatesi subdolamente nei programmi televisivi e in seguito, pian piano, nelle librerie, nelle cucine di casa e infine, sacrileghe, esposte anche nelle vetrine delle pasticcerie più rinomate. Che a dominare sia solo la mera apparenza…? Di sicuro, se Giambattista Marino vivesse ai giorni nostri, ne sarebbe entusiasta... Lui, uno dei massimi poeti barocchi, certamente avrebbe cantate lodi sperticate del cake design, al grido di “è del pasticcier il fin la meraviglia!”. Potremmo addirittura mettere la mano sul fuoco che le effimere creazioni di pasticcieri armati di ghiaccia reale (nome quanto mai azzeccato, in questo caso!), pasta di zucchero, crema al burro, stampini e coloranti sarebbero state presenti nei suoi componimenti così come sulla sua tavola. Lo attesta la sua celeberrima frase, “è del poeta il fin la meraviglia”, un vero e proprio mantra dell’epoca. La poesia deve stupire e la fantasia non può essere incatenata da limiti: la mission
dell’artista è di esprimere quel senso di sorpresa di fronte alle nuove scoperte. E che cos’è il cake design se non la moda del momento, una sorta di marinismo fatto, però, di ingredienti tutti da modellare? È davvero facile immaginare l’intima soddisfazione di chi ha speso tempo, fantasia e soldi nel ricercare quell’espressione di stupore negli occhi di coloro che si trovano ad ammirare torte che, oltretutto, sono poco appetitose! In un periodo di crisi anche di ideali (non solo economica), connotato da una deriva decadentista, ecco che dal mondo anglosassone, come spesso accade, arriva di prepotenza questa tecnica che sta ormai spopolando. Dolci dubbi interrogativi In poco tempo, dalle vetrine delle pasticcerie sono via via scomparse le torte più peccaminose, i trionfi di ciuffi di panna, le Sacher, i bignè, per far posto a fiorellini, pesciolini, torte dalle più incredibili forme, interamente ricoperte da uno strato di pasta di zucchero decorato in mille modi. Ed è così che siamo scivolati dalla soddisfazione del palato alla meraviglia per gli occhi, dal valore nutritivo e dalla
voluttà dei sapori alla vittoria schiacciante della forma sulla sostanza. Insomma, ci sono schiere di apprendisti designer che si dedicano alla realizzazione di torte belle e solo virtualmente buone. Il punto è che nei fumetti tutto è permesso, ma nella vita reale forse qualche domanda bisognerebbe porsela.
o, per i più ambiziosi, anche un disegno preparatorio per opere più complesse… Forse varrebbe la pena di iniziare a intonare il controcanto con un manifesto che ci risvegli da questo incubo multicolor nel quale non sei à la page se dici che non ti piace il cake design.
Virtù innate Prima di tutto, qualche osservazione un po’ scontata. Questa tecnica possiede un asso nella manica: è relativamente semplice e alla portata di tutti e, anche se piuttosto costosa, alla fine lo è meno, per esempio, della ceramica che richiede anche una cottura (meglio se non nel forno di casa…): chi la sperimenta spesso scopre di possedere un’irrefrenabile vena artistica inespressa e soffocata da una vita talvolta poco soddisfacente. E il fatto che si tratti comunque di cibo zittisce quella fastidiosa vocina dentro la propria coscienza, il tarlo del sospetto dell’inutilità, inaccettabile in un momento così. E allora, via a seguire corsi, lezioni, libri e video dei nuovi maestri, veri e propri idoli che creano torte mirabolanti. E poi come i bambini con la plastilina, di corsa a perdere il sonno in prove per creare un petalo di rosa più vero del vero, una faccina, un cagnolino, a fare la pasta di zucchero
Ciò che è bello… sarà anche buono? Se si spendono un sacco di soldi per una torta di compleanno e gli invitati ne assaggiano un pezzetto solo per cortesia e abbandonano tutto il resto oppure scalzano la copertura tanto ambita e si accontentano di un po’ di pan di Spagna, allora forse si dovrebbe guardare in faccia la realtà: il bello non è necessariamente buono e siamo di fronte a un chiaro caso di “sotto il vestito niente”, per parafrasare il titolo di una nota pellicola degli anni ottanta. Forse è giunto il momento di restituire la giusta importanza alle cose senza nascondere la sostanza con lustrini e colori artificiali che rendono tutto anche un po’ ridicolo e squalliduccio… Insomma, la pasticceria vera, quella che fino all’altro giorno abbiamo apprezzato con ogni nostra papilla gustativa in un momento di lascivo abbandono, sì, proprio quella, non ha bisogno di essere coperta, ma ri-scoperta boccone dopo boccone.
Buon iNatale.
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La domanda della settimana
La vostra famiglia sarebbe in grado di far fronte a un’improvvisa spesa di 5000 franchi?
Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 12 dicembre. I risultati appariranno sul numero 51 di Ticinosette.
Al quesito “La creazione di una cassa malattia cantonale unica permetterebbe di contenere i premi a carico degli assicurati?” avete risposto:
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Astri ariete Calo energetico. Evitate di combattere su più fronti. Stabilite una scala di priorità. Irascibili tra il 10 e l’11 dicembre. Controllate l’emotività.
toro Abbassate il tono delle polemiche. Cambiamenti professionali provocati da Giove e Saturno. Rapporti tesi con i propri collaboratori.
gemelli Tensione con il partner. Non siate insofferenti di fronte alle ingenuità del compagno/a. Energia in fase di recupero. Sorprese tra l’11 e il 12.
cancro Tensione con i vostri familiari. Cercate di canalizzarvi verso un obiettivo. Nuove opportunità professionali per i nati nella seconda decade.
leone Puntate su soluzioni inaspettate. Molto creativi i nati nella prima decade. Malinconia tra il 13 e il 14 dicembre. Controllate l’ego.
vergine Discussioni animate con fratelli o amici durante un viaggio. Non fatevi condizionare dagli altrui progetti. Benissimo tra l’11 e il 12 dicembre.
bilancia Evitate una politica attendista. Ne verreste solo travolti. Affrontate i vostri avversari a viso aperto. Prudenza tra l’11 e il 12 dicembre.
scorpione Momento importante per i nati nella seconda decade. Nuovi incontri. State attenti a non perder il treno. Cautela alla guida.
sagittario Con l’intuito siete in grado di risolvere qualunque tipo di problema. Spese per i nati nella terza decade interessati dal transito di Venere.
capricorno Sarete al centro di una battaglia epocale. Tutte le vostre ambizioni tenderanno a essere particolarmente stimolate. Imprevisti tra l’11 e il 12.
acquario L’importante è fare ricorso al vostro proverbiale intuito. Scelte professionali per i nati nella seconda decade. Possibili disturbi di stagione.
pesci Collaborazione con una persona cara. Potreste gettare le basi per qualcosa di importante. Disattenzioni per i nati nella prima decade.
Gioca e vinci con Ticinosette
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La soluzione verrà pubblicata sul numero 51
Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 12 dicembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 10 dic. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!
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Verticali 1. Noto film d’animazione di Iginio Straffi • 2. Veloci, celeri • 3. La Bella danzatrice • 4. Mezzo tono • 5. Divinità marina • 6. Dittongo in reità • 7. Fiammifero • 8. Ungheria e Italia • 9. I frutti degli investimenti • 13. Truffa • 15. Togliere di mezzo • 16. Pirata • 21. Alni • 22. Protozoo unicellulare • 25. Avverbio di luogo • 26. Una lava l’altra • 29. Alimenti, cibi • 31. Urlo • 33. Privi di difese • 35. Pittore statunitense • 37. È ottima anche quella salmonata • 39. Si affiancano spesso ai monti • 41. Dittongo in baita • 43. Piccolo difetto • 46. Dubitativa.
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Orizzontali 1. Stravaganti e paradossali • 10. Messaggeri • 11. Uno detto a Zurigo • 12. Insetto laborioso • 13. Francia e Romania • 14. Dirige l’azienda in gonnella • 17. Feticcio • 18. C’è quel del vero • 19. Assicurazione Invalidità • 20. Privo di profumo • 22. Belle, piacevoli • 23. Le iniziali di Savoia • 24. Ermanno, regista • 26. Rimasto... in centro • 27. Il niente del croupier • 28. Tirchi, taccagni • 30. Vigila sulla spiaggia • 32. Si contrappone alla partenza • 34. Le iniziali di Montanelli • 36. Vocali in pezzi • 37. Consonanti in ateneo • 38. La memoria del computer • 40. Regalare • 42. Porto algerino • 44. Noto stilista • 45. Ambizioni, puntamenti • 46. Sud-Est • 47. Pari in stima • 48. Ione negativo • 49. In nessun tempo.
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La soluzione del Concorso apparso il 22 novembre è: BOCCIARE Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta sono stati sorteggiati: Simona Sulmoni 6963 Pregassona Carlo Gianinazzi 6979 Brè sopra Lugano Dario Traversi 6854 S. Pietro Ai vincitori facciamo i nostri complimenti!
Premio in palio: due carte regalo FFS Le Ferrovie Federali Svizzere offrono 2 carte regalo per un valore totale di CHF 100.– a un fortunato vincitore. Ulteriori informazioni visitando il portale ffs.ch/cartaregalo
Biglietti per un evento sportivo, un concerto, un viaggio dell’Agenzia viaggi FFS, carte giornaliere, abbonamenti, orologi FFS di Mondaine o Smartbox: questo e molto altro può essere pagato con la carta regalo FFS. La carta valore è il regalo ideale per ogni occasione, è disponibile presso tutti gli sportelli FFS e l’importo da caricare può essere stabilito liberamente tra 10 e 3.000 franchi. E per adeguare il regalo all’occasione, è possibile scegliere tra diversi soggetti diversi. A proposito: dopo ogni acquisto con la carta regalo FFS, la validità sarà automaticamente prolungata di altri due anni.
Svaghi 51
Festeggiate all’insegna del buon gusto con le specialità per l’aperitivo di Bell
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www.bell.ch
Tris di salami
Rustico Burehamme
Roast beef
Pastrami
Salamettini