Ticino7

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№ 2 del 10 gennaio 2014 · con Teleradio dal 12 al 18 gen.

ciTTà di mezzo

chiasso: il meridione della confederazione. Una via di transito dal glorioso passato e un futuro ricco di (troppe) promesse?

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La forza, senza la gravitĂ .

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Ticinosette n. 2 del 10 gennaio 2014

Impressum Tiratura controllata 66’475 copie

Chiusura redazionale Venerdì 3 gennaio

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

4 Arti Cinema. Una complessa semplicità di irina Zucca alessandrelli........................... 6 Virtù Carità di Gaia GriMani ..................................................................................... 8 Letture Il mistero della Casa di marzapane di nicoletta BaraZZoni ........................... 9 Media Nuove tecnologie. Il filone d’oro di Mariella dal Farra ................................ 10 Letture Suona, Nora Blume di FaBio Martini.......................................................... 11 Vitae Marco Gurtner di Marco JeitZiner .................................................................. 12 Reportage Filippine. Il tifone a cura della redaZione; Foto di didier rueF .................. 37 Luoghi Frontiere. La bella Chiasso di andrea raMani; Foto di Flavia leuenBerGer ......... 42 Tendenze Pet therapy. Veri amici di chiara PiccaluGa ............................................ 44 Svaghi .................................................................................................................... 46 Agorà Democrazia. Egitto e Iran, analogie

di

Marco alloni .....................................

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

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(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Oltre la “ramina”, ecco Chiasso! Foografia ©Flavia Leuenberger

Periferici bisogni Se è vero che il grado di civiltà si misura anche in base alla disponibilità dei gabinetti pubblici, a Lugano stiamo procedendo a ritroso, e di gran carriera. E non sono sufficienti le parole di Cristina Zanini Barzaghi, municipale titolare dell’Area costruzione e dei Servizi urbani, a rassicurarci. Certo, oggi la parola d’ordine è “tagliare i costi” e nessuno è più al sicuro. L’amministrazione della città e il suo nuovo sindaco si sono trovati a fronteggiare dei conti comunali ereditati dal precedete esecutivo (che qualche responsabilità l’avrà pure... e in pochi ne parlano), ma prendere ad esempio l’Italia, che dal punto di vista della disponibilità dei bagni pubblici è poco al di sopra del Congo – fatte salve alcune aree privilegiate e civilissime, come il Trentino Alto Adige –, ci pare sbagliato. Comprendiamo la sacrosanta necessità di eliminare i doppioni (là dove naturalmente esistono), ma privilegiare i gabinetti del centro a svantaggio di quelli delle periferie è davvero un azzardo. A prescindere dal fatto che non si vive tutti in centro e che il bisogno improvviso può coglierci dovunque, resta aperto un interrogativo: come fanno a sostenere che nei quartieri periferici certi gabinetti pubblici vengono usati solo una o due volte a settimana (Corriere del Ticino, 2 gennaio, pag. 8)? Ci controllano forse anche quando soddisfiamo i nostri sacrosanti bisogni fisiologici? E poi, mica tutti sono capaci di trattenersi… ci sono i colitici, gli incontinenti, gli ansiosi – che non fanno

un passo fuori casa senza avere la sicurezza di disporre di un gabinetto a vista –, tutte componenti sociali rilevanti che, fossi un politico, eviterei seriamente di trascurare. D’accordo, la questione sembra scaturire dal “ridimensionamento del personale” e dal fatto che la manutenzione dei “periferici” è stata affidata fino a oggi a ditte private… ma arrivare ad affermare che “… se troviamo qualcuno disposto a occuparsene possiamo dargli la chiave”, ci lascia interdetti. Cos’è, un’offerta di lavoro? Un invito al volontariato? Ringraziamo tanto, non si sa mai, e poi con tutti questi giovani e meno giovani in giro… Restano i bar, i negozi e i centri commerciali, ultima sponda per chi, sopraffatto dagli spasmi, non vede l’ora di chiudersi nella quiete del bagno pubblico. Per quanto riguarda i primi c’è da sperare che, a differenza di quanto accade in Italia – dove, per una tacita quanto perversa convenzione, puoi accedere al bagnetto del bar, spesso sporco e mal tenuto, solo dopo aver ordinato qualcosa –, i gestori ticinesi siano più magnanimi e aperti di vedute. Per quanto concerne i centri commerciali, rappresentano da questo punto di vista degli spazi privilegiati anche per la loro diffusione sul territorio. Insomma, per chi, come il comico Roberto Benigni, si vanta di appartenere alla “compagnia del corpo sciolto”, nella Grande Lugano (e una volta molto ricca) si prevedono tempi difficili… Cordialmente, Fabio Martini


Egitto e Iran, analogie Democrazia. Leggere il Medioriente, le sue vicende politiche e sociali, le sue profonde contraddizioni è sempre un’operazione difficile e in qualche modo destinata al fallimento. Restano però valide alcune considerazioni di fondo che proviamo a evidenziare di Marco Alloni; fotografia ©Reza Khatir

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Agorà 4

o sempre ritenuto bizzarro che un intellettuale come Michel Foucault sostenesse la rivoluzione iraniana del 1979. Non tanto perché non fosse comprensibile contestare uno scià come Mohammad Reza Pahlavi, macchiatosi – come l’Occidente ha voluto riconoscere troppo in ritardo – di crimini atroci attraverso la sua polizia segreta Savak. Responsabile di una oligarchizzazione della società unica nella storia del paese e del mondo, egli saccheggiò a fini personali le ricchezze dell’Iran (petrolio in primis), sterminò le opposizioni nelle forme più orride (studenti e intellettuali in testa, e a seguire mullah e religiosi), si erse a paranoico dell’onnipotenza (mirava a creare il terzo più grande esercito mondiale) e a liquidatore dell’identità profonda persiana. In una parola, fu il promotore di quella supposta Grande Civiltà che gli iraniani qualificarono con il più adeguato termine di Grande Ingiustizia. No, tutto ciò rientra nell’ovvietà, soprattutto per un uomo e un intellettuale di sinistra a cui evidentemente poco garbava l’olimpica sperequazione economica fra plebe iraniana e dirigenza corrotta, servile e spietata. Bizzarro è però che alla padella dello scià Foucault non abbia esitato a privilegiare la brace dell’ayatollah Khomeini, forse dimenticando che né da una parte né dall’altra veniva una richiesta di democrazia o di democratizzazione dell’Iran, bensì due speculari vocazioni totalitarie: ultra-occidentale la prima e anti-occidentale la seconda, plutocratica la prima e teocratica la seconda, gerarchica in senso militare la prima e gerarchica in senso clericale la seconda. Ma pur sempre due vocazioni che avevano in un regime e nei suoi organi di controllo (Savak la prima e Komite la seconda) il loro orizzonte di realizzazione. Non certo un parlamentarismo pluralista. La brace e la padella Tuttavia questa bizzarria diventa più sfumata – anche se non comprensibile su un piano di pura riflessione storica – considerando come, toute proportion gardée, in Egitto sta avvenendo oggi la stessa cosa a gran parte degli intellettuali e, in una certa misura, anche agli intellettuali della diaspora. Le parti si sono invertite: l’opposizione a un regime “teocratico” come quello incarnato da Morsi si trasforma nel sostegno a una dirigenza “militare” come quella incar-

nata da El-Sisi. Ma il meccanismo è identico: in entrambi i casi sembra che non si voglia o non si sappia considerare se non l’alternativa tra una padella e l’altra o tra una brace e l’altra, o appunto tra la padella e la brace. È vero, le condizioni sono sensibilmente diverse. Se non altro sul piano delle prospettive e degli antefatti. L’Iran di Khomeini non aveva precedenti storici nei trascorsi della Persia; non fosse per il fatto che una sorta di investitura divina veniva conferita agli stessi scià o re del paese. Quindi le due figure – fino a tempi recentissimi – in qualche modo si compenetravano. Capo di stato e capo religioso erano un’unica persona. Mentre l’Egitto ha conosciuto lo spettro del regime militare per sessant’anni – prima con Nasser, poi con Sadat e infine con Mubarak (per non contare l’interregno di Tantawi) – e poi un anno di regime islamista. Quindi, a differenza del khomeinismo, non ha dalla sua l’opzione della messa alla prova. Sa di che si tratta. Come sa, ormai, di che si tratta una governance della Fratellanza musulmana. Eppure le analogie sono impressionanti, e cruciale tentarne una lettura. Da una parte e dall’altra una folta schiera di intellettuali dimentica (Egitto) o spera (Iran) con identica disinvoltura invece di valutare con cogente Zeitgeist. Perché questo accade laddove si parla di cervelli consapevoli e non di sprovveduti? Per due ragioni. La prima è che, a differenza del popolo, tendenzialmente incline a soggiacere alla seduzione ideologico-populistica e alla parusìa dell’uomo forte, gli intellettuali sono sensibili alla cosiddetta Realpolitik, e malgrado debbano turarsi il naso (Montanelli insegna) sanno che la storia si compie scegliendo spesso il minore dei mali e non il grande ideale palingenetico. Oggi quindi in Egitto – come ieri in Iran, con Khomeini – considerano evidentemente i militari un’opzione meno drammatica di quella dell’islamismo politico: almeno in una prospettiva di transizione. Esattamente come ieri molti si affidarono, almeno in una prospettiva di transizione, al khomeinismo come minore dei mali. La seconda ragione è che, ci piaccia o no, gli intellettuali non sono tutti dei combattenti. Lo sono a parole, certo. Ma le rivoluzioni si fanno con le armi, e sfido qualunque bempensante a ritenere stricto sensu pavido chi non si scaglia contro potenze di fuoco come l’esercito iraniano dello scià, le milizie


khomeiniste o quel Giano bifronte che sono le forze armate egiziane di El-Sisi (esercito e polizia). Pertanto, soprattutto le vecchie generazioni – che già hanno patito carcere, censura e persecuzioni – semplicemente si affidano al buon senso. Meglio sperare turandosi il naso che sparare sulle barricate di Tahrir o Teheran. Il popolo al centro Ma c’è una terza ragione, che sovrasta le precedenti. Fatte salve alcune eccezioni – si commemora in questi giorni la morte del “poeta del popolo egiziano” Ahmed Fouad Negm – e fermo restando che una classe borghese non è necessariamente una casta, gli intellettuali non appartengono al popolo. Appartengono appunto alla medio-alta borghesia. Le ragioni del popolo sono loro ben note, ma ricadono in un’identificazione indiretta (diremmo persino astratta) che attiene molto più ai principi che alle necessità. Hanno di che sfamarsi, insomma, e spesso anche di che fare armi e bagagli e riparare all’estero (all’epoca di Reza Pahlevi erano molti di più gli intellettuali iraniani fuggiti in occidente che quelli rimasti in patria). Alle ragioni del popolo prestano così molto più l’orecchio che il cuore, molto più la mente che la carne. E in entrambi i casi – Iran ed Egitto – non si sono accorti e non si stanno accorgendo che con i loro principi il popolo non si sfama, il popolo

non indietreggia, la rabbia non sfuma. Prima o poi torna a esplodere. E, per quanto politicamente minoritario, è in questo popolo mal rappresentato, abbandonato a se stesso dalle cancellerie occidentali e frantumato in un ginepraio di movimenti improvvisati che è depositata la storia del futuro. L’Iran se ne sta accorgendo da qualche anno. E, limando gli estremismi del post-khomeinismo, già ha trovato nelle rivolte giovanili, e nel periodo di Mohammad Khatami, quella voce in capitolo che gli era mancata per decenni o secoli. L’Egitto idem. Il regime militare di Mubarak e quello di Tantawi li ha abbattuti, quello islamista di Morsi pure. Ora pare tagliato fuori dai giochi o risucchiato nell’orbita di un’idolatria del qaìd, della guida, del grande padre della patria (provvisoriamente incarnato da Abdel Fattah El-Sisi). Ma non commettiamo lo stesso errore compiuto da Michel Foucault. L’avvenire o sarà del popolo o non sarà affatto. Il tempo antropologico della sottomissione è finito. Ancora una o due generazioni – malgrado la Realpolitik imprescindibile in ogni periodo di transizione e i rinnovati incanti di palingenesi suscitati dal nemico dei propri nemici – concordia e amicizia, pacificazione nazionale e integrazione del popolo nell’agone politico di entrambi i paesi, si daranno solo quando la storia avrà risposto alle richieste della rivoluzione: del farsi rivoluzionario che ormai ha lasciato scoccare, in tutte e due le nazioni, la propria scintilla. Democrazia o barbarie Ci vorranno vent’anni, trenta, cinquanta? Non lo so. Ma francamente non vedo – e i fatti italiani di queste ultime settimane sarebbero un’ulteriore avvisaglia – altri scenari se non quelli della guerra fra popolo e capitale, fra popolo e potere (che non a caso, spesso, coincidono). Finché capitale e potere non saranno redistribuiti non ci sarà restaurazione se non nella provvisorietà di cui si avvale la Storia prima di riesplodere da capo. Il popolo è il vero protagonista del futuro. Perché lo è oggi in quanto tale e non più come artiglieria quantitativa di un’ideologia (il comunismo o il fascismo), di un Dio (Allah o il Monarca) o di un demone trasversale come il mercato. Oggi il popolo ha subìto una trasformazione di coscienza che non è sanabile se non attraverso la giustizia sociale. È un popolo la cui metamorfosi è ormai sostanzialmente qualitativa. Ai governanti, e agli intellettuali, accorgersene e provvedere prima che si passi a un’altra illusione di salvezza cosmetica. La democrazia è il futuro, e il futuro è nella democrazia. In caso contrario, la violenza sarà devastante.

Agorà 5


Una complessa semplicità Alla settimana della critica di Venezia il film “Zoran, il mio nipote scemo” si è subito imposto come una rivelazione. Dieci minuti di applausi hanno accolto il giovane regista Matteo Oleotto, alla sua opera prima. Nel cast, superlativo, il friulano Giuseppe Battiston e il ticinese Teco Celio di Irina Zucca Alessandrelli

Arti 6

Un film a piccolo budget che, in un solo mese di distribuzione nelle sale italiane, ha superato i 500mila euro di incassi, ed è stato per questo definito “il caso del 2013”. Un miracolo di autenticità, che alcuni di voi avranno visto all’ultima edizione di Castellinaria, il festival di cinema giovane di Bellinzona, dove ha raccolto ulteriori consensi. Al centro della vicenda, ambientata nelle aree agricole tra Gorizia e la Slovenia, la storia di Paolo, cucita addosso al barbuto Giuseppe Battiston, un quarantenne perditempo, annoiato e irascibile, che si definisce “alcolista” per distinguersi dall’alcolizzato. Ogni sua giornata prevede una o più tappe da Gustino (Teco Celio) personaggio saggio e benevolo proprietario dell’osteria di paese, intorno a cui si snoda tutta la vicenda. La sua meschina vita viene scossa dalla speranza di un improvviso guadagno, grazie all’eredità di una zia slovena morta. Recatosi a “compiangere” la sua salma, nella malcelata speranza di ereditare almeno la casa, scopre che, invece, la zia gli ha lasciato la responsabilità di occuparsi del nipote quindicenne. La forza delle freccette Zoran, impacciatissimo adolescente che ha imparato l’italiano su sconosciuti romanzi ottocenteschi ha, però, un incredibile talento che lo zio, ancora una volta, spera di sfruttare a suo vantaggio: Zoran è un campione di freccette perché ha passato la vita a sfidare l’anziana parente. Da qui la vicenda si dipana in inaspettati sviluppi, dove le risate non mancano mai, insieme a momenti teneri e malinconici. Le battute irresistibili che scaturiscono dallo scontro tra questi due mondi lontani sono di una freschezza e di un’autenticità rara. Il regista di Gorizia Matteo Oleotto (classe 1977) ci ha raccontato come ha creato la commedia perfetta. Innanzitutto, qualche notizia sulla tua formazione... Sono nato e vissuto a Gorizia fino a ventidue anni. Mi sono diplomato all’Accademia di arte drammatica “Nico Pepe” di

Udine, perché inizialmente volevo fare l’attore, poi sono andato a studiare al Centro sperimentale a Roma e mi sono diplomato come regista. In seguito, ho lavorato per otto anni per la televisione, facendo documentari e programmi di vario genere in attesa del debutto come regista, che finalmente è arrivato dopo quattro anni di lavoro sul film. Nel film racconti un Friuli sconosciuto, la classica piccola comunità di provincia. La provincia friulana è poco conosciuta anche dagli italiani. Ho evitato di fare le cartoline tipiche del Friuli, ci pensa già la fiction a questo. Non volevo tirar fuori per forza le cose belle, ma gli aspetti più autentici della mia regione. È un film sul territorio, il protagonista Paolo è un mix di persone che mi faceva piacere raccontare, che vivono nella mia terra, che esprimono un territorio che è casa mia e di cui sono follemente innamorato. Sono tornato a casa per il mio debutto. Il bar, l’osteria per noi ha un valore centrale a livello socio-comunicativo, per cui, parlando delle mie parti, era inevitabile che trattassi di queste comunità. Tutti i giovani della mia generazione sono passati almeno da uno o più anni di vendemmia, anche perché è un modo semplice per guadagnare qualche soldo. Mi sembra che tu sia alla continua ricerca del vero, mi sbaglio? Assolutamente sì, sono ossessionato dalla verità perché mi incuriosisce molto la ricerca di qualcosa che si può realmente trovare nel quotidiano. Il 90% dei dialoghi scritti e le battute più esilaranti del film le ho sentite dire in osteria. C’è stato un grande lavoro da parte mia e degli altri sceneggiatori per riportare tutto quello che ci piaceva e che ho sempre sentito nella realtà. Il personaggio protagonista Paolo, che sembra proprio cucito addosso a Giuseppe Battiston (vincitore di due David di Donatello come miglior attore) e anche l’oste Gustino, interpretato da Teco Celio, sono resi in modo così eccezionale da far sembrare tutto semplice…


Questo è un po’ tutto il gioco del film, ci sono dinamiche che appaiono semplici, ma la semplicità è molto difficile da ottenere perché bisogna lavorare di sottrazione, è un percorso di lavoro molto complesso. Abbiamo compiuto un lavoro per asciugare e uno sforzo di riflessione dietro il plot, per capire da dove veniva il personaggio, cose che nel film non si vedono, ma emergono in altro modo. Poi, il coinvolgimento di Battiston, fin dalla primissima sceneggiatura di anni fa, le prime stesure discusse a lungo, insieme a varie degustazioni e i venti giorni di prova prima di andare sul set, rappresentano un po’ il valore aggiunto del film. C’è stata molta dedizione anche da parte del protagonista. Poi, la bravura di Battiston è stata quella di creare un gruppo molto omogeneo con gli altri attori, anche se si presentava come del tutto eterogeneo per età ed esperienza. Poi, io amo moltissimo l’attore svizzero Teco Celio di Krans Montana, – suo padre era presidente della Confederazione elvetica –, che in Francia è molto noto per un telefilm, La crim’, una sorta di nostro commissario Montalbano. Ha un curriculum densissimo di film, ha lavorato anche con Kieslovski. Teco ha doti straordinarie, dai suoi sessant’anni si mette sempre in discussione e riesce così a essere fresco, con un’energia impressionante che si vede sullo schermo. Sono contento che l’Italia si sia finalmente accorta della sua bravura grazie a registi come Moretti, Zanasi e Gipi. Chi sono i tuoi maestri? I film di Ken Loach mi sono sempre piaciuti, lui è uno dei miei capisaldi. Soprattutto mi piace il fatto che, anche nei

suoi film drammatici, ci sono sempre scene fresche nei pub, molto vere. Loach riesce a trattare temi molto pesanti con leggerezza, come si faceva in Italia negli anni cinquanta, sessanta, quando si realizzavano ancora belle commedie. I fratelli Cohen, poi, mi piacciono molto e Fargo è sicuramente tra i miei film preferiti e poi Kubrick che ha creato un capolavoro per ogni genere. In anni recenti è stato difficile vedere una “bella” commedia italiana… Il genere della commedia in Italia negli ultimi anni è stato relegato a genere di serie B. I maledetti anni ottanta hanno raso al suolo tutto quello che c’era di buono in questo senso. Mentre l’Italia è capace di grandi commedie, il genere stesso è nato qui. Da molti anni il termine “commedia” viene associata con il Natale in senso negativo. A me piacerebbe riportare in auge il genere della commedia e sono contentissimo che questo aspetto sia emerso bene al Festival di Venezia, alla settimana della critica, perché il film è stato apprezzato proprio come commedia di livello. Mi sembri molto soddisfatto del risultato. Si vede che è un lavoro fatto con grande amore… Se a qualcuno non piace, per me è un colpo duro perché sono molto contento del film: ci ho messo tutto quello che mi piaceva. Questo è il film che volevo fare da sempre e vedere i miei amici contenti, prima ancora della proiezione nelle sale, è stata una forte emozione per me.

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Carità

Terza virtù teologale, la carità consente di far germogliare in sé l’amore per l’altro non solo come compassione ma come apertura alle sue necessità di Gaia Grimani

Virtù 8

Quando ero bambina e andavo alla scuola elementare, trovavo sempre davanti al portone un giovane privo di entrambe le gambe, che si spostava su un rudimentale carrellino costituito da un asse di legno grezzo su cui erano state montate quattro rotelle. Poverissimo, viveva chiedendo l’elemosina. C’erano tanti mendicanti allora per la strada, ma chissà perché quella persona colpiva in modo particolare la mia fantasia di bambina. La mamma ogni mattina mi comprava per la merenda un dolcetto di pasta frolla che a me piaceva tanto e una volta, passando e vedendo lì il poveretto con quel suo mezzo sorriso, ne fui toccata al punto da cedergli, tutta contenta, la mia merenda, scappando via. Sentii subito il mio cuore allargarsi in una dimensione ignota, mentre era pervaso da una grande dolcezza. Con un semplice gesto di condivisione avevo assaporato cos’è la carità o almeno uno dei suoi aspetti. È infatti difficilissimo parlare di carità che non è semplicemente il fare l’elemosina o soccorrere qualcuno in stato di bisogno, ma il poter far germogliare nel proprio cuore una forma di amore per l’altro che è com-passione, apertura a lui e alle sue necessità.

mente ad amare con tale purezza di cuore? Si fa strada in noi l’incresciosa condizione di credere a qualcosa di sublime, ma che contrasta terribilmente con la realtà che ci circonda. Esiste un mondo basato sull’amore? L’amore è veramente il senso della vita? E l’uomo davvero è stato creato per amare ed essere amato? Le risposte ci vengono subito davanti agli occhi con le innumerevoli immagini di morte che la televisione e i giornali ci propinano ogni giorno: attentati, violenze, campi di sterminio, guerre che spingono ai nostri confini disperati in fuga dal proprio paese nella speranza di una vita migliore per sé e i propri figli. Dov’è l’amore? È una delle domande più importanti che si pone chi crede e opera per creare un mondo diverso e se ne sente scoraggiato.

Ottimismo drammatico Oggi, purtroppo, i modelli che abbiamo accanto ci spingono alla prepotenza, all’affermazione di noi stessi, alla sopraffazione degli altri, unici mezzi per ottenere il successo. L’uomo non ha mai imparato molto dalle lezioni della storia; se lo avesse fatto, certi orrori sarebbero scomparsi, invece si ripetono con crudele monotonia. Allora non v’è speranza? Eppure, nonoDov’è l’amore? stante tutto, nel profondo del mio cuore Piero del Pollaiolo, La carità (1469) La carità è la terza virtù teologale e san e in quello di molti altri alberga la certezGalleria degli Uffizi, Firenze Paolo nella celeberrima Lettera ai Corinzi, za che il senso ultimo della vita sia questo al capitolo 13, ci dice che di tutte è la più anelito all’amore e al bene senza il quale importante: “Le profezie scompariranno; il dono delle lingue nulla avrebbe più senso nell’avventura umana. Ma, come cesserà e la scienza svanirà. Queste le tre cose che rimangono: credervi a dispetto della realtà che ci circonda e senza cadere la fede, la speranza e la carità; ma di tutte la più grande è la nel ridicolo e nei sorrisetti di commiserazione altrui? carità”. La soluzione, come spesso accade, l’ho trovata in un libro: Ma che cos’è la carità? Si potrebbe pensarla come sinonimo Io e Dio del teologo Vito Mancuso, imbattendomi in un dell’amore e in effetti lo è. Ma l’amore ha mille sfumature. termine che mi affascina e mi risolve la spaccatura fra ideale È ancora san Paolo, sempre nella Lettera ai Corinzi, che ce e realtà: ottimismo drammatico definisce Mancuso quello di ne indica le caratteristiche: “La carità è paziente, è benigna chi vive nella convinzione di far parte di un senso di arla carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, monia, di bene e di razionalità, ma contemporaneamente è non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, convinto che tale armonia si compia in modo drammatico, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma cioè soffrendo all’interno di una realtà da cui non è assente si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, il negativo e l’assurdo. tutto sopporta”. La Bibbia ci racconta che per salvare Sodoma e Gomorra E già con queste splendide parole, pur avvertendone la sarebbero stati sufficienti dieci saggi. Nella mia vita, fortuprofonda verità, ci sentiamo in imbarazzo. Chi riesce vera- natamente, ne ho incontrati e ne incontro molti di più.


influenza? Raffreddore?

Letture

Erste Hilfe bei Verletzungen und Erkrankungen

di Nicoletta Barazzoni

Il mistero della Casa di marzapane di Monica Piffaretti SalvioniNarrativa, 2013

Tempo e realtà, mescolati al piacere liberatorio del fiabesco, ci accompagnano, intrecciando sentimenti e paure, ne Il mistero della Casa di marzapane di Monica Piffaretti. Ha il tocco della favola moderna e del romanzo breve, articolati attraverso il vissuto di due ragazzini dei nostri tempi, Greta e Giovannino, figli di due genitori separati, Margherita e Mauro, a confronto con le difficoltà del vivere. Un libro delizioso che va dritto al cuore perché scritto con la forza dell’amore per i nostri figli. Una madre afflitta dai sensi di colpa si dimentica di loro. I due piccoli protagonisti principali, costretti a crescere prima del tempo, imparano presto a distinguere la realtà dai sogni. Greta di nove anni deve assumersi giocoforza il ruolo di mamma, accudendo il fratello Giovannino di sette anni (i loro nomi evocano volutamente la fiaba di Hänsel e Gretel). Sono l’espressione vivente di questa società in delirio che non ha più tempo per le favole? Malgrado ciò si improvvisano investigatori, dando spazio alla fantasia e all’inventiva, incamminandosi in una storia dalla quale emerge la responsabilità dei genitori che spesso si separano anche dai loro figli. Ogni favola è un gioco che si fa con il tempo, canta Edoardo Bennato. Questo libro attribuisce al tempo un ruolo prezioso che bisogna recuperare, soprattutto se si tratta di infanzia negata. Un libro positivamente ribelle, che si pone dalla parte dei ragazzi, scritto per loro ma che mette in luce, con toccante sensibilità, anche l’inadeguatezza di una madre. Margherita fa i conti con le macerie della sua famiglia che si è spezzata, crac, come un ramo rinsecchito. Nelle pagine di questo romanzo fiabesco ma al contempo così reale, la descrizione della casa di marzapane ci ricorda la casa di marzapane della nostra infanzia. Descrizione che si affaccia (forse troppo timidamente, l’autrice avrebbe potuto elargirci maggiori particolari descrittivi) in una notte di luna quasi piena trapuntata di stelle. Alternando la storia vera all’immaginazione – il cui gioco infantile è l’edulcorante principale –, ci siamo noi con le nostre paure, con uno sguardo (in questo caso forse eccessivamente cupo) sull’ambiente in cui viviamo. I due fratelli partiranno all’avventura nello squallore di un moderno bosco di asfalto e cemento. Il finale, tinto di giallo, anela al recupero di certi valori, grazie all’incontro “biscottato” con la strega Angiolina. Al lettore l’impressione di percorrere una storia vissuta con infinita speranza, da gustare e consumare tutta d’un fiato.

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Il filone d’oro

“Le chiatte di Google... Un data center galleggiante? Una nave per party sfrenati? Un container per l’ultimo dinosauro vivente? Sfortunatamente, nulla di tutto questo” (Google Inc. - Dichiarazione ufficiale)

di Mariella Dal Farra

Media 10

Alec Guinness nei panni di George Smiley, il capo del servizio di intelligence inglese dei romanzi di John Le Carré (bpr.org)

“A Eden-Olympia invece gli elaboratori centrali erano svegli da un pezzo, e le antenne paraboliche erano intente ad assorbire informazione immagazzinata nel cielo. Dai pavimenti cablati affluiva già un intenso traffico elettronico, che trasmetteva gli indici Dow e Nikkei, gli inventari dei magazzini farmaceutici a Düsseldorf e dei depositi di merluzzo a Trondheim”. James G. Ballard, Super-Cannes, (Feltrinelli, 2002, pag. 40) C’erano una volta le spie che tutti abbiamo imparato a conoscere – qualcuno anche ad amare – nei romanzi di le Carré: uomini grigi, con occhiali dalla montatura di tartaruga, che si addentrano in polverosi archivi cartacei al fine di trafugare, o microfilmare, documenti decisivi per le sorti della guerra fredda. Un’iconografia, quella relativa all’intelligence degli anni sessanta e settanta, che ha la risonanza di un passato ormai remoto, reso atavico dalla velocità supersonica con la quale il mondo delle informazioni – il nostro mondo – si è evoluto nel corso degli ultimi quarant’anni.

Sono stimati sui cinque miliardi i “meta-dati” telefonici raccolti giornalmente dalla National Security Agency (NSA), secondo le ultime rivelazioni fornite dalla “talpa” Snowden e pubblicate dal Washington Post del 5 dicembre scorso; 131.679 è invece “il numero di chilometri di cavi di fibra ottica che, dopo aver attraversato il Mediterraneo, «atterrano» in Sicilia. In quei cavi passa il 100% delle telecomunicazioni non satellitari che escono dall’area strategicamente più delicata al mondo (Medio Oriente e mondo arabo)”.1 Settantacinque metri per quindici è invece la dimensione della chiatta galleggiante che Google sta allestendo al largo della baia di San Francisco, e la cui destinazione d’uso non è ancora stata chiarita: se le versioni ufficiali parlano di showroom e/o di una piattaforma formativa, sono in molti a ipotizzare che le chiatte (ne sono previste cinque in totale) potrebbero diventare data center che, posti in acque extraterritoriali, non risulterebbero soggetti alle legislature che regolano, per esempio, il trattamento dei dati personali.


Nuova merce Considerati nel loro insieme, questi elementi abbozzano uno scenario in cui le informazioni rappresentano non soltanto la merce più preziosa attualmente in circolazione, ma anche quella più facilmente accessibile, e di cui si dispone in quantità massive. Due sono le istanze che di fatto giocano questa partita: le intelligence dei diversi paesi, da una parte, e il mercato dall’altra. E se da un lato le agenzie governative, come le vicende Wikileaks e Snowden hanno rivelato, dispongono a questo scopo di mezzi che prevedono l’intercettazione telefonica e, forse, la possibilità di “siringare” determinati flussi di informazione direttamente dalle connessioni cablate che li conducono2, dall’altro il mercato si concentra invece sul profiling del target per proporre in maniera sempre più sofisticata, e ancor più persuasiva, le proprie comunicazioni commerciali. Così, è possibile che, avendo visitato un sito che richiedeva per essere visto l’accettazione di un “cookie”, quel sito sia ora in grado di riconoscermi ogni qual volta vi ricapito, e magari di fare comparire un banner che il profilo social a cui appartengo trova statisticamente interessante... Pietra filosofale La pietra filosofale di questo sistema è rappresentata dai social network, i quali: conferiscono immortalità a ogni cosa che toccano, ovvero qualunque “contenuto”, una volta “postato”, sarà reso pubblico per sempre; ci rendono onniscienti sul passato, il presente e una parte del futuro di coloro ai quali siamo connessi, e viceversa; tramutano in oro, nel senso letterale del termine, il materiale grezzo delle nostre esistenze, centrifugate nel vortice della nuova connettività e sublimate in analisi fattoriali da cui ricavare i cluster dei comportamento d’acquisto. E mentre sulla rete, e fuori, si moltiplicano gli appelli a limitare la propria esposizione, i prodotti tecnologici che acquistiamo prevedono, e in una qualche misura impongono, un’interconnessione a maglie sempre più strette. Così, nell’avviare per la prima volta un tablet acquistato di recente, mi viene proposto, nell’ordine: di registrare un account presso l’azienda produttrice in modo da essere informata sugli aggiornamenti rilasciati; di acconsentire a che il dispositivo, acceso o anche spento, invii dati di geolocalizzazione circa la mia attuale posizione nello spazio; di usare un’applicazione che coordina le mie eventuali pagine Facebook, Twitter, Instagram ecc. e che prevede all’uopo la registrazione dei dati personali attraverso i quali identificare le pagine di riferimento. Se questa è davvero l’alba di una nuova era, il cui paradigma sarà la comunicazione – e ne ha tutta l’aria –, allora la tutela della privacy rappresenta la sua nuova frontiera. note 1 Claudio Gatti, “Il grande orecchio americano in ascolto dai cavi di Palermo”, Il Sole 24 Ore, 25/10/2013. 2 “Silenzio, si spia: sotto controllo i cavi siciliani”, SiciliaInformazioni.com, 23/11/2013. per saperne di più Fra i vari video reperibili in rete sulla tutela dei dati personali, segnaliamo, perché particolarmente divertente, quello reperibile su YouTube all’indirizzo: youtube.com/watch?v=F7pYHN9iC9I

Letture di Fabio Martini

Suona, Nora Blume di Claudia Quadri Casagrande, 2013

Non conoscevo i precedenti romanzi di Claudia Qua-

dri (Lupe, 2000; Lacrima, 2003; Come antiche astronavi, 2008) e mi sono addentrato nella lettura di questo suo ultimo lavoro con curiosità e privo di qualsiasi idea a riguardo. E si è trattato di un’autentica sorpresa. L’autrice ticinese possiede due qualità che apprezzo particolarmente negli scrittori: da un lato, la capacità di dire molto attraverso descrizioni e cenni rapidi dall’altro una scrittura, poco incline all’autocompiacimento letterario, ma sottesa da una vena umoristica che per certi versi richiama certe pagine di Thomas Bernard (autore fra l’altro di un celebre romanzo, Il soccombente, in cui la musica e il pianoforte ricoprono un ruolo centrale). Un romanzo breve – o un lungo racconto, se preferite – che ruota intorno alla figura non esattamente simpatica di una pianista, Nora Blume, una bella donna ancora giovane e senza figli, la cui vita è stata segnata dalla precoce quanto poco chiara perdita del marito Toni, un uomo amato profondamente a dispetto della grande differenza di carattere fra i due. Nora, che ha rinunciato all’attività concertistica, si mantiene insegnando pianoforte ad allievi per lo più adolescenti ma anche a qualche adulto. La sua vita è così scandita da questi incontri in cui la musica diviene il pretesto, l’occasione per far emergere nevrosi, affinità, idiosincrasie e ricordi di un passato non esattamente facile (suo padre, André, è stato un giocatore compulsivo e un uomo incapace di far fronte alle proprie responsabilità di genitore). E il pianoforte – e conseguentemente l’apprendimento della musica – è l’oggetto intorno al quale, in una sorta di transfert (e relativo controtransfert), prendono forma e talvolta soluzione le dinamiche interiori dei personaggi. Claudia Quadri conduce il lettore attraverso l’animo complesso della protagonista e della sua storia più intima, che è poi quella di una donna all’apparenza dura e forse po’ cinica ma in fondo desiderosa di recuperare la propria autenticità di essere umano e una dimensione affettiva che la solitudine ha cristallizzato e irrigidito.


I

l mio primo vero incontro con l’arte è avvenuto a Locarno, negli atelier dello scultore Remo Rossi. Avevo 16 anni. Da lì erano passati anche Ben Nicholson, Italo Valenti, Marino Marini, Jean Arp e altri. Con Rossi ho imparato un po’ i rudimenti del mestiere, soprattutto il disegno dal vero, e con lui mi sono preparato per l’esame di ammissione all’Accademia di Belle arti a Brera, nel 1977, sezione pittura. Alcuni docenti di storia dell’arte erano molto interessanti e preparati, come Raffaele De Grada o Gianfranco Bruno. Oggi però il quartiere è diventato una sorta di “boutique” a cielo aperto, un po’ come tutta Milano, mentre l’Accademia, per un artista, vale solo un pezzo di carta con cui puoi fare tutto o niente: basti dire che una volta c’erano unicamente le botteghe. Tornato in Ticino mi sono dato da fare, ho proseguito lo studio della chitarra (che suono dall’infanzia). A quei tempi ad Ascona c’era “il Borgo”, che ospitava musicisti e chitarristi di musica spagnola o latinoamericana, anche ottimi virtuosi, con cui ho suonato tanto e appreso molte cose. Anni d’oro, come tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, quando il Locarnese ospitava una miriade di artisti, uno più bravo dell’altro. Ed è questa la vera novità della mia vita: l’interesse per gli artisti del passato, quelli praticamente sconosciuti. Sono approfondimenti di storia e di storia dell’arte, piccola o grande che sia, per far riconoscere i loro meriti che altrimenti rimarrebbero per sempre in una cantina buia. Nel Locarnese ho allestito diverse mostre, tematiche, collettive, monografiche, con opere di Remo Rossi, Bruno Nizzola, Max Uehlinger, il grande espressionista Edmondo Dobrzanski, oppure quella recente di Varlin, che negli anni cinquanta ha trascorso un periodo ad Ascona. Era la prima volta che veniva documentata l’opera pittorica del suo periodo ticinese, soprattutto locarnese, con una mostra alla pinacoteca Casa Rusca a Locarno. Un grande artista Varlin che, per intenderci, va collocato a fianco di Giacometti e Bacon! Anche nell’arte il Ticino è ombelicale e ci vorrebbe più autocritica, meno compromessi con le istituzioni. Per esempio, succede che organizzi una mostra e a metà il Municipio

decide che bisogna chiuderla! (ride, ndr) Soltanto perché arriva un “potente” del settore con una “grossa mostra” da proporre, anche se per me quell’artista era solo un “pittorino”. Il risultato è che quella “grossa mostra” è stata un flop totale! Oppure si porta un grande nome internazionale, che però non vale niente, come Fernando Botero, il nulla totale: c’era tanta gente ma soltanto perché è come vedere dei “palloni gonfiati” che incantano i bambini. Oggi l’arte direi che è una grande confusione! Se una volta c’era il pittore, poi gli astrattisti, gli espressionisti, gli informali ecc., oggi invece tutti si improvvisano “artisti”, fanno una sorta di “crosta” e voilà, ecco il “grande genio” del momento, che però non ha inventato nulla e che scomparirà senza lasciar traccia. Molti sprecano grandi energie per mostrarsi e troppo poche per pensare a cosa fare. Il problema è più che altro la qualità: molte mostre sono forse un po’ “buttate là”, con un solo intento commerciale, e spesso non hanno niente da dire. Si potrebbe migliorare con chi manovra i soldi per queste operazioni culturali, cioè i politici, che spesso si fanno incantare da un nome, “buttano dentro” un pacco di soldi per un’esposizione assai discutibile e in cui non credono più di tanto, mentre tutti gli altri devono stare in piedi con quasi niente. Bisognerebbe saper distribuire le finanze un po’ più intelligentemente! E un artista non andrebbe mai messo sul piedistallo, solo la storia può farlo. Ai giovani che oggi vogliono fare arte, dico che bisogna essere determinati. Uno può anche non fare nessuna scuola e diventare un grande artista, ma, per certi aspetti, è meglio avere delle basi, e poi devi sentire qualcosa dentro, avere qualcosa da dire. L’arte è lo specchio della nostra società, cioè quella del nulla, quella confusione che vedi dappertutto. L’arte deve comunicare qualcosa, in modo positivo o negativo. Lo spettatore non deve rimanere indifferente, perché in tal caso l’artista ha fallito: evidentemente nella sua opera non c’è niente.

MARCO GURTNER

Vitae 12

Una vita dedicata all’arte, alla musica e all’allestimento di mostre per riscoprire piccoli e grandi nomi del passato. E oggi non smette di rivendicare meno compromessi e più spazio alla qualità

testimonianza raccolta da Marco Jeitziner fotografia ©Reza Khatir


IL TIFONE Il ciclone tropicale Haiyan, noto nelle Filippine anche come Yolanda, è stato uno dei più potenti di sempre, con velocità dei venti sulla terraferma raramente registrate in precedenza. Le tremende distruzioni e le conseguenti numerose vittime causate dal suo passaggio sono dovuti alla concomitanza di più fattori, principalmente all’innalzamento al largo del livello dell’acqua associato a un sistema di bassa pressione. Le ondate tempestose causate dai forti venti che soffiavano sulla superficie dell’oceano hanno fatto sì che il livello del mare fosse infatti più alto rispetto a quanto avviene ordinariamente. Il fotografo svizzero Didier Ruef si è recato sui luoghi del disastro per testimoniare sia le ferite lasciate dal cataclisma sia lo sforzo di organizzazioni umanitarie come Terre des hommes a cura della Redazione; fotografie ©Didier Ruef


sopra Filippine, provincia di Eastern Samar, Hernani, quartiere di Batang (24.11.2013). Due nonne pregano sulle macerie della chiesa cattolica Milagrossa Medalla, mentre dei bambini giocano intorno a quel che resta dell’altare. Sullo sfondo, a destra, l’organizzazione non governativa Terre des hommes distribuisce prodotti alimentari e generi di prima necessità

in apertura Provincia di Eastern Samar, Hernani (27.11.2013). “Aiutateci. Abbiamo bisogno di cibo”, è la richiesta che la popolazione ha scritto su un cartellone. Ben il 95% della città è stata distrutta dai venti e dall’acqua scaricati dal tifone Haiyan


Didier Ruef Fotografo documentarista e fotoreporter, ha pubblicato per importanti testate (“Time”, “The Observer Magazine”, “Daily Telegraph”, “Le Monde”, “Der Speigel”, “Neue Zürcher Zeitung”). Ha collaborato con Médecins sans Frontières, il Fondo Globale e la Fondazione Syngenta. Dal 1991 è stato coinvolto in un progetto sul tema degli sprechi e dei rifiuti dal quale è nato anche un libro (Recycle, Casagrande, 2011). dididierruef.com


Provincia di Eastern Samar, Hernani, quartiere di Carmel (25.11.2013). In una tradizionale capanna, Rowina Calvadares (13 anni, al centro) con la sorella Rica (11, a sinistra) e il fratello Ric (7) sono seduti in ciò che resta della loro casa; a destra, sulla parete un manifesto religioso. I tre ragazzi sono rimasti orfani

Provincia di Eastern Samar, Hernani, quartiere di Batang (24.11.2013). Il Philippine Charity Sweepstakes Office (PCSO) distribuisce prodotti alimentari e di prima necessitĂ alla popolazione ordinatamente in fila


Provincia di Eastern Samar, Hernani, quartiere di Batang (27.11.2013). Il giorno di festa per il patrono della città di Hernani, a cui dà il nome: un gruppo di donne mangiano riso, pasta e budino tra le macerie delle case distrutte dal tifone

Provincia di Eastern Samar, Hernani (26.11.2013). Due ragazze su una delle dighe costruite a protezione delle coste: l’8 novembre scorso nulla hanno potuto contro i venti e le piogge provenienti dall’Oceano Pacifico


Frontiere. La bella Chiasso di Andrea Ramani; fotografie ©Flavia Leuenberger

Quand’è

Luoghi 42

che il tempo è passato, Chiasso? Eri giovane e ogni uomo che incontravi cercava di sedurti. La città festeggiava l’apertura della nuova stazione, snodo interna­ zionale fra il caldo sud e il freddo nord, punto d’incontro di merci e genti. In quei giorni di festa viaggiatori venuti da lontano venivano rapiti da quella tua bellezza primaverile, appena sbocciata. Ma tu diffidavi delle lusinghe di quegli avventurieri, già sapevi che a spingerli non era l’amore. Volevano possederti, privarti della tua giovanile innocen­ za. Ambiziosi giramondo il cui unico scopo era quello di lasciare un segno nel tuo spirito, per poi abbandonarti. Cos’è successo, Chiasso? Tua madre ti aveva messo in guardia. Ti aveva protetto come poteva. Ma si sa, lei, Sviz­ zera, era fatta diversamente. Rigida e legata a un passato di stenti, madre di troppi figli fuggiti, aveva imparato ad accontentarsi di ciò che aveva, preferendo la strada sicura a quella sconosciuta. Come puoi biasimarla, Chiasso? Lei era cresciuta in mezzo ai grandi, cercando di restare sempre ferma. E a suo modo ce l’aveva fatta, piccola e forte era riu­ scita a emergere. Forse anche grazie a quei tempi propizi in cui i figli più poveri di sua sorella Italia offrivano il loro lavoro in cambio di un pezzo di pane, sperando, come lei, di poter aver un giorno successo. In che momento vi siete allontanate? Forse quando all’en­ nesima lusinga ti sei concessa. Ti sembravano parole dette in modo diverso, sincere, prive della bramosia di chi aspira a una facile conquista. Ed è forse in quel momento che hai ceduto. Hai abbandonato quei binari posati negli anni dal lavoro materno e hai accolto la vita. Regina Ti ricordi, Chiasso? Quella sensazione sconosciuta di esse­ re veramente amata. Di svegliarti e allo specchio vederti giovane e, d’un tratto, ricca. Quanto valgono istanti del

genere? Forse ora puoi saperlo. Ma in quegli anni non c’era tempo per pensare. Tanti volti nuovi, tanti odori, sapori e rumori mai vissuti prima. E lui, lui che ti vedeva come una regina. Che ti copriva di quei gioielli di cui tu non capivi veramente il senso. Cosa può fare realmente una pietra? E lui a dirti che fra le gioie, una perla come te non poteva che splendere ancora più intensamente. Bravo e generoso, lui. Lo era veramente, Chiasso? Ambi­ zioso, sicuro. Furbo, forse. Onesto, non proprio. In fondo anche le pietre hanno un prezzo. Ma con che moneta pagare il debito verso se stessi? Quanto valgono delle vite rovinate? A lui non importava. Ma tu, tu che ritrovavi in queste vite quella rovina da cui tua madre era emersa, non potevi accettarlo. Faceva parte di quei nuovi figli d’Italia, arricchitisi in modo non sempre lecito che arrivavano in città per sottrarsi al dovere di mantenere una madre che, dopo aver riassaporato la libertà grazie all’aiuto di quel lontano zio d’America, stava ora vivendo i primi acciacchi dovuti all’età. Lui fu comprensivo, ti lasciò la bellezza. Le gioie, invece, quelle le tenne per sé. Avido, lui. Affamata, tu. Terra di frontiera Cosa facesti per sopravvivere, Chiasso? Quando si è dispe­ rati una bella parola sembra essere una mano tesa pronta ad aiutarti. Forse eri ingenua. Sicuramente sola, con la tua bellezza. Ma fu chiaro subito che l’amore che tanti ti davano era diverso da quello che meritavi. Può il denaro comprare un cuore? Domanda insulsa, se quello che ti serve è il pane. E quando la fame tacque, ormai tu vendevi il tuo amore. Anche la città, come te, soffriva. Troppa la fiducia nel denaro e nessuno a pensare che quest’animale selvaggio si sarebbe potuto rivoltare. Quanti uomini hai avuto, Chiasso? Non è necessario elen­ care. Chi ti ha incontrato nel buio, ora nega con pudore. Quante vite ti sono appartenute. Hai conosciuto tanto del mondo, senza mai dover partire. Distesa tu, terra di fron­ tiera, quanti ti hanno attraversata per poi partire. Troppo presi da loro stessi per accorgersi della tua bellezza. Gli anni passano in fretta. E tu, bella di giorno ma più bella di notte, hai visto il tuo corpo cambiare. I tuoi seni hanno perso il tono d’un tempo, ma all’occhio attento non sfugge la tua lontana bellezza. Sei d’ispirazione per l’artista, il musicista e lo scrittore, che di te hanno fatto arte. Conservi nel cuore il tuo passato, Chiasso. Dopo di lui hai rinunciato ai gioielli, ma oggi porti con te un opale, di poco valore. Per non dimenticare l’errore, per non dimenticare il dolore.


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S

Veri amici Tendenze p. 44–45 | di Chiara Piccaluga

I nostri compagni di vita a quattro zampe portano nella quotidianità affetto, fiducia, ricchezza relazionale, riconoscenza e presenza… Senza rancori, senza rimpiangere il passato o temere il futuro loro sono li, nell’istante che spesso a noi sfugge. Veri e propri angeli custodi, soprattutto per chi si trova a vivere situazioni di disagio o malattia

e da un lato vi è una spinta alla crescita di una società più civile in grado di riconoscere agli animali uno status di diritto proprio, dall’altro, all’opposto, si compiono, per le ragioni più diverse, inimmaginabili crudeltà verso queste creature. Il rapporto con gli animali si è sviluppato nel tempo; i nostri antenati del Paleolitico hanno scoperto per primi il reciproco legame affettivo con i primi lupi da essi addomesticati. Né la caccia, né la pastorizia, né la guardia o altra attività sarebbero state sufficienti a innescare il processo di addomesticazione se tra quelle persone e gli animali non fosse scaturito qualcosa di simile all’amore; perché il cane, spesso fa il suo lavoro solo perché ama incondizionatamente il suo padrone. Il valore di quello strano sentimento d’amore che lega un umano e un non umano è molto cambiato nel tempo tanto da essere anche introdotto nella legislazione: la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, per esempio, ha riconosciuto “che l’uomo ha l’obbligo morale di rispettare tutte le creature viventi”, e in considerazione dei particolari vincoli esistenti tra l’uomo e gli animali da compagnia, ha affermato “l’importanza degli animali da compagnia a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società”. Un rapporto priVilegiato È auspicabile, quindi, che un crescente numero di animali, cani e gatti in primis, possano restare accanto all’uomo anche nel momento del bisogno. Molteplici studi hanno dimostrato l’importanza degli animali in ambito geriatrico, in cui si evidenziano gli effetti positivi che essi hanno sul comportamento degli anziani: riduzione del malessere psicologico, calo della percezione della solitudine, aiuto all’adattamento al


nuovo ambiente nel caso, per esempio, di ingresso nelle case di riposo. Ogni giorno gli animali portano amore, risate e compagnia non solo agli anziani: cani e gatti offrono alle persone sole un senso di incoraggiamento e una ragione di vita in modo assolutamente disinteressato. Sarebbe, dunque, buona cosa se si prendesse esempio dall’Emilia Romagna, regione dove dallo scorso dicembre si è ottenuto un sì all’unanimità alla nuova normativa che prevede la compagnia di cani e gatti in alcuni reparti ospedalieri al fine di migliorare lo stato d’animo dei pazienti. Non si potranno ovviamente tenere gli animali in reparti di terapia intensiva, in chirurgia e traumatologia d’urgenza, nei reparti o nelle stanze di isolamento, nei centri trapianto e tra i grandi ustionati, nei centri dialisi, in ostetricia e nursery e in altre zone particolarmente delicate degli ospedali, ma nei reparti di lunga degenza, geriatria o pediatria i “compagni di vita non umani” potranno accompagnare i pazienti nel loro percorso con una formale richiesta scritta. In realtà, già negli anni cinquanta lo psichiatra americano Boris Levinson, che lavorava con bambini con gravi disturbi di comportamento, constatò che la compagnia dei cani con i suoi piccoli pazienti rappresentava un vero e proprio toccasana: essi si rilassavano, erano più collaborativi e disponibili durante le terapie. Lo psichiatra introdusse così regolarmente nelle proprie terapie gli animali da compagnia divulgando progetti terapeutici che implicavano l’impiego dei cani. InsIeme a scuola Anche nella Svizzera italiana da alcuni anni si propongono interventi mirati con gli animali in strutture di cura e nelle scuole. Cani, gatti, cavalli, uccellini ecc… offrono una relazione privilegiata, priva di giudizio e carica di emozioni che facilita la relazione e la comunicazione. Da una decina d’anni, nelle clas-

si speciali del Sottoceneri, sono promossi progetti di attività assistita con animali da compagnia che vanno dalla presenza continua o saltuaria di cani in classe, ad attività che favoriscono l’accudimento di animali. Mauro Taglioni, docente presso la scuola speciale di Molino Nuovo, ha portato due cani da terapia nella sua classe. “Abbiamo scelto di introdurre due cani nella mia classe, composta da sei allievi di età compresa tra i nove e i dieci anni, per rispondere ai bisogni affettivi degli alunni, per contribuire a creare un clima positivo affinché il lavoro scolastico potesse svolgersi al meglio. Abbiamo scelto come animale il cane perché si addice alla relazione con i bambini e manifesta con chiarezza il suo amore incondizionato oltre a favorire le relazioni sociali. Penso che il cane abbia rappresentato una presenza complice e rassicurante, una forma di compensazione che ha permesso ai bambini di affrontare la scuola con minori timori e maggiori successi”. Dopo un periodo di sperimentazione sono stati registrati numerosi cambiamenti e benefici del lavoro svolto. “A livello individuale” spiega Taglioni, “i cani hanno dispensato affetto, calma e sicurezza, hanno aiutato i ragazzi ad affrontare certe difficoltà. Inoltre, si è visto che hanno accettato gli sfoghi emozionali, stimolato la curiosità, l’attenzione, la memoria e l’organizzazione temporale, permesso d’imparare attraverso l’esperienza e favorito la lettura dei messaggi non verbali. A livello collettivo i cani sono stati una fonte di svago che ha favorito gli incontri tra gli allievi, stimolato la collaborazione e appianato i conflitti. Inoltre, ho riscontrato che sono stati utili per far emergere le problematiche di alcuni alunni, così da favorire la ricerca della soluzione”.

sottoposto a un test d’idoneità” spiega Jocelyne Gaggini, conduttrice di cani da terapia, “si procede poi con un colloquio con il conduttore del cane allo scopo di conoscere le sue motivazioni e attitudini. Se questo test si conclude in modo positivo, si possono iniziare gli allenamenti pratici durante i quali vengono trattate dieci tematiche di tecniche cinofile e otto di simulazione di situazioni pratiche. Al termine della formazione, i team di cani da terapia affronteranno un test per valutarne le qualità di obbedienza e il comportamento di fronte a situazioni delicate e particolari”. I cani da terapia formati dalla scuola possono operare in vari ambiti: nelle case per anziani, negli ospedali e case di cura, nelle scuole speciali, nelle istituzioni per persone disabili, in comunità terapeutiche, in cliniche psichiatriche, nelle carceri ecc. “Il luogo d’intervento e la capacità del cane di rispondere alle aspettative devono essere attentamente valutate prima di effettuare una scelta” continua Jocelyne Gaggini, “il futuro cane da terapia viene addestrato ad affrontare le diverse situazioni che potrà incontrare nei luoghi dove sarà chiamato a operare come, per esempio, camminare accanto a una sedia a rotelle, mantenere la calma in presenza di urla e rumori inusuali, o ancora entrare senza problemi in un ascensore stretto e affollato o accettare persone che hanno dei comportamenti inusuali e improvvisi”. Questi animali sono come dei piccoli ma indispensabili angeli che accompagnano un pezzettino di vita di alcuni di noi; fanno parte di progetti che rappresentano minuscoli passi verso un grande ma graduale cambiamento nel rapporto fra le diverse specie il cui fine non può che essere quello di un crescente benessere globale.

I nostrI angelI I cani da terapia vengono formati ad hoc prima di entrare in azione: nella Svizzera italiana opera la scuola DELTA che educa i cani a tale scopo. “Inizialmente l’animale viene

per informazioni Scuola per la formazione di cani da terapia DELTA c/o MELIDE AIUTA - Associazione di volontariato, 6815 Melide tel. 079 757 76 72; melideaiuta.ch


La domanda della settimana

Vi ritenete dei meteoropatici, ovvero il vostro umore è condizionato dalle condizioni climatiche?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 16 gennaio. I risultati appariranno sul numero 4 di Ticinosette.

Al quesito “Una salutare e disintossicante dieta rientra tra i vostri buoni propositi per il nuovo anno?” avete risposto:

SI

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NO

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Astri ariete Dal 12 gennaio Mercurio è con voi. Negoziazione delle conflittualità provocate da Marte in opposizione. Risoluzione di una vecchia diatriba.

toro Attenti a non gestire una trattativa di affari con eccessiva rigidità. Attenzione a email e sms… potreste scrivere una parola di troppo.

gemelli Grandi opportunità professionali. Siete determinati e intraprendenti con una visione chiara sullo stato delle cose. Eros alle stelle tra il 13 e il 14.

cancro State per affrontare una vera rivoluzione. Ne vanno di mezzo la vostra libertà e indipendenza. Non fatevi sovrastare dall’ansia.

leone I contatti e le comunicazioni con il partner si fanno instabili se non caratterizzati da forti elementi di novità. Prudenza tra il 17 e il 18.

vergine Fuori tono il 12 gennaio. Una vecchia fiamma ritorna alla ribalta. E anche nella vita professionale si riaprono inaspettate opportunità.

bilancia Mercurio il 12 gennaio entra in acquario. Capacità decisionali e lucidità. Molto positiva la giornata del 12. Momenti di svago con gli amici.

scorpione Ottime possibilità tra il 14 e il 16 gennaio. Riconoscimenti pubblici per i nati nella seconda decade. Fortuna per avvocati e costruttori.

sagittario Tempismo nella realizzazione dei vostri progetti. Potenzialità nel mondo degli affari. Momento magico per i colloqui di lavoro. Instabili il 12.

capricorno Cercate di affrontare un problema alla volta. I nati nella seconda decade potranno contare sull’aiuto del partner. Molto gelosi i nati in dicembre.

acquario Lucidi e dinamici grazie a Mercurio e alla forza e alla determinazione prodotti dal lungo transito di Marte. Raggiungimento di un obiettivo.

pesci Magica Luna tra il 14 e il 16. Incontro con i grandi temi. Ristrutturazione dei propri spazi vitali. Venere favorisce la rinascita di antichi amori.


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Orizzontali 1. Esce tutti i giorni • 9. Grido • 10. Li celano i bari • 11. Un idrocarburo • 13. Articolo romanesco • 15. Dittongo in giada • 16. Piccoli molluschi • 18. Vivacità, allegria • 20. Grossa arteria • 21. La Silvia vestale • 22. Oriente • 23. Pari in perla • 24. Un figlio di Noè • 26. Touring Club • 28. Son fiori o strumenti musicali • 30. Cieca • 32. Regno immenso • 34. Tiro centrale • 35. Fiumiciattolo • 36. Sarcasmo • 39. Rilevanti, importanti • 41. La “p” geometrica • 43. Preposizione articolata • 44. Assicurazione Invalidità • 45. Lubrifica • 46. Zambia e Città del Vaticano • 47. Impermeabile austriaco • 50. Fu imperatore d’Oriente • 52. Producono miele • 54. La Bella danzatrice • 55. Cono centrale. Verticali 1. Noto film del 1990 di Martin Scorsese con Robert de Niro • 2. Cozzare • 3. L’onda nello stadio • 4. Stupidotto • 5. Città del Texas • 6. Un piccolo atollo • 7. Pari in farsa • 8. Nulla • 12. Dittongo in poeta • 14. La fugge il sognatore • 17. Pari in Piero • 19. Il noto da Todi • 22. Famosa, illustre • 25. Pari in maglie • 27. Sottogonna, guardinfante • 29. Profondi, intimi • 31. Sbronzo - 33. Le segnano le lancette • 37. Ellittico • 38. Cortile agreste • 40. Gattopardo americano • 42. Argini • 45. Oppure detto a Zurigo • 48. Uno a Londra • 49. Un distillato • 51. Negazione • 53. L’antico Eridano.

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 4

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 16 gennaio e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 14 gennaio a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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50

49

51

52

53

54

55 5

La parola chiave è: 1

1

S

10

E

11

R

14

V

16

I

18

Z

2

2

C R E

O

30

P

33

U

36

B

38

B

I

49

C

52

O

E

4

E S S

A

T

E

T

A

E

R 22

E

27

A

31

R

T

E

I

47

43

B

I

C

O

24 29

L I

I

T

L

L

L

I

E

C 50

I

A

A

O

N 45

O

48

A

R

I

A

N

A

N

M

O

O

B

A

44

7

8

Soluzioni n. 52

E

O

G 40

6

13

I

U

35

5

La soluzione del Concorso apparso il 27 dicembre 2013 è:

21 25

32

A R

A

A

O

34

N

R A

L

P

A

A 53

O

E

N

I

S

S

S

R

R

4

A

I

37

E

9

A

O

O

A C

G

E

39

8

R

20

D

T R A

A

O

7

12

23

E

N

I A

15

T

A

6

A

O

N

E

I

19

E

42

D

S

R

A

5

17

28

M

L 46

R

S

I 26

3

3

T O 41

O V I

51

E

N

T

I

PALESTRA Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta è stata sorteggiata: Adriana Rossi via Cassarinetta 18 6900 Lugano Alla vincitrice facciamo i nostri complimenti!

Questa settimana ci sono in palio 100.– franchi in contanti!

Svaghi 47


L’APPETITO VIEN VIAGGIANDO: PROSSIMA FERMATA

NUOVA DELHI <wm>10CAsNsjY0MDQx0TU2MTaxMAQAEYUN4Q8AAAA=</wm>

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Lanciati in una gustosa spedizione «di fama mondiale» alla scoperta della cucina vegetariana con le specialità Coop Karma. Fermati in India per un Vegetable Dal.

Per un giro del mondo a tappe vegetariane.


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