Ticino 7

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L’appuntamento del venerdì

46 numero

07 XI

08

41 04 08 14 Corriere del Ticino

I grandi vecchi del bosco Economia. L’eresia della “decrescita” Pseudonimi. Oltre la finzione letteraria Società. Il tempo perduto

laRegioneTicino

Giornale del Popolo • Tessiner Zeitung

CHF. 2.90

con Teleradio dal 9 al 15 novembre


Pur chocolat, pure emotion.


numero 46 7 novembre 2008

Agorà Economia. L’eresia della “decrescita” Ecce Homo Di come gli ultimi servono

Impressum

DI

SILVANO TOPPI

DAMIANO REALINI

DI

Arti Pseudonimi. Oltre la finzione letteraria

DI

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MARIELLA DAL FARRA

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Tiratura controllata 90’606 copie

Chiusura redazionale Venerdì 31 ottobre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Direttore editoriale

Media Firefox3. Un software da guinness

DI

PAOLA TRIPOLI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Salute Film. Dottor Cinema

DI

Società Il tempo perduto

NICOLETTA BARAZZONI

DI

VALENTINA GERIG

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Peter Keller

Capo progetto, art director, photo editor

Adriano Heitmann

Vitae Fra’ Andrea Schnöller

DI

GAIA GRIMANI

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Reportage Castagni. I grandi vecchi del bosco

DI

PATRIK KREBS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

Animalia Il gatto. Un racconto inedito

DI

PIERO SCANZIANI

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4 6 8

10 12 14 16 41 50

Concetto editoriale

Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Amministrazione

Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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IMMAGINA Sagl, Stabio

via San Gottardo 50 6900 Massagno tel. 091 922 38 00 fax 091 922 38 12

Direzione, redazione, composizione e stampa Società Editrice CdT SA via Industria CH - 6933 Muzzano tel. 091 960 31 31 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

Libero pensiero

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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Gentili lettori, dopo aver pubblicato l’intervista con il divorzista Daniele Joerg “Le nozze possono attendere” nel n. 44 di Ticinosette, un lettore ha voluto dare il suo contributo mandandoci la sua testimonianza che abbiamo il piacere di pubblicare. Ritrovarsi in situazioni analoghe è facile: la legge lo permette, la fabbrica dei divorzi è ben oliata. Se il vostro divorzio è felice dite grazie al buonsenso, pudore e onestà della vostra ex. Prevenire è meglio che guarire, anche nell’amore. O se vi pare meglio, citando il consiglio dell’avvocato Joerg: prima di sposarsi passare dall’avvocato e poi dal prete. Adriano Heitmann

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In copertina

Castagno monumentale (Soazza) Fotografia di Pino Brioschi

Egregio direttore, Dopo 20 anni di matrimonio felice e con tre figli, ho scoperto che mia moglie aveva una relazione e, pur cercando di fare di tutto per ben 5 anni per salvare il matrimonio, mi sono trovato a dover lasciare la mia casa e i figli a seguito dell’in-

tervento del giudice su istanza di mia moglie. Da allora sono passati ben 8 anni e io le verso mensilmente ben 6.000 franchi, inoltre mi assumo una serie di spese dei miei figli. Lei vive nella nostra casa con un altro uomo, e io tento da anni di arrivare a una convenzione di divorzio, che lei non sottoscrive accampando continui dubbi e necessità di chiarimento, con la complicità del suo avvocato. Evidentemente lei sta approfittando dell’incremento del mio avere di cassa pensione e non versa nulla per il credito che ha verso di me, che a suo tempo ho assunto i costi di costruzione della casa. Pur avendo una separazione dei beni, ciò non serve a nulla. Io inoltre ho la sfortuna che ho perso i miei due genitori, e quindi ho le sostanze e i relativi redditi di quanto mi hanno lasciato in eredità, mentre lei ha perso solo il padre e ha firmato a suo tempo una convenzione (senza il mio consenso) di non dividere la sostanza dei genitori fino alla morte di entrambi. Di conseguenza, pur disponendo i genitori di notevoli sostanze, lei figura con un reddito personale basso e quindi sono io che pago! Lettera firmata


L’eresia della decrescita

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L’imperativo della crescita Chi crede che una crescita economica può continuare all’infinito in un mondo finito o è un pazzo o è un economista. Lo diceva proprio un grande economista e matematico americano, Kenneth Ewart Boulding (1910–1993), sepolto pochi anni fa senza onori né gloria, molto probabilmente perché aveva richiamato una verità troppo ovvia e troppo scomoda oppure perché aveva osato porre sullo stesso piano follia ed economia. La crescita è una fede che investe tutta la nostra esistenza e governa i nostri comportamenti. È un riferimento ossessivo per tutti i politici che la racchiudono in una sigla, Pil (Prodotto interno lordo) e in una percentuale che ne indica il movimento. È anche la storia del mondo, perché tutto si misura in termini di crescita economica divenuta sinonimo di sviluppo umano. Noi siamo costruiti su una semplice equazione che si pretende incontrovertibile: più = meglio. Il fondamento è pure semplice e assiomatico: l’economia può solo espandersi, deve crescere producendo non solo prodotti ma anche bisogni inutili o superflui. È come una bicicletta in salita: se non continui a pedalare e se ti fermi crolla tutto. Quando, però, si dice “economia” non si dice solo agricoltura, industria, commercio, finanza, ma si intende pure mentalità diffusa, modo di essere e di sentire, categoria dello spirito del nostro tempo. Proprio perché tutto questo fa parte dell’imperativo categorico della crescita. Infatti, se quest’ultima si affievolisce, frena improvvisamente o è messa in dubbio da una crisi incombente, subentra subito una sorta di paralisi del pensiero, un senso d’inquietudine, l’angoscia per il futuro.

le conseguenze sull’ambiente, sulla salute, sulla qualità di vita –; molte realtà in cui ci troviamo che ci indicano la finitezza del mondo e di risorse naturali assai sfruttate ma non più rinnovabili – le risorse energetiche, le materie prime o alimentari –; gli squilibri geopolitici connessi che fomentano tensioni e conflitti, ci portano a due conclusioni sempre più ineludibili. La prima è una constatazione: così non si può più continuare, qualcosa bisogna intraprendere. La seconda è un’osservazione: viviamo nell’assurdità di un sistema che ci costringe a espanderci, a produrre e consumare senza senso, impoverendoci e ipotecando le generazioni future. Questo stato di cose e queste conclusioni, non più ignorabili, suggeriscono tre possibili vie d’uscita. La prima: la ricerca e l’evoluzione tecnologica, l’ingegnosità dell’uomo, gli investimenti adeguati risolveranno i problemi. Rimane quindi ancora una fede inamovibile sulla bontà della crescita. La seconda: lo sviluppo non può fermarsi, deve però essere sostenibile. Insomma, non deve recare danno, rispettare l’ambiente, rispondere ai bisogni del presente senza compromettere le possibilità per le generazioni future. Su quel “sostenibile” ci sono discussioni infinite: che cosa vuol dire, che cosa contiene? Alcuni sostengono che si tratta solo di un ipocrita ossimoro – cioè di una contrapposizione di due termini contradditori, come l’ “urlo silenzioso” – e che prioritario sarà sempre lo sviluppo economico. Quindi, ancora la crescita. La terza: la decrescita è invece la risposta più radicale ma anche quella che sembrerebbe più logica: se la crescita ci conduce a tanto e ci fa sbattere contro il muro, l’unica via d’uscita è quella di invertire la direzione.

Due osservazioni

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Agorà

Cosa accadrebbe se al concetto di “crescita” economica opponessimo quello di “decrescita”? Pura utopia? Forse. Ciò non toglie che sia in aumento il numero di coloro che considerano questa “eresia” come l’unica via percorribile per assicurare un futuro all’umanità

Molte conseguenze generate da questo tipo di economia, che abbiamo sotto gli occhi e non possiamo più ignorare perché divenute insopportabili – vedi ad esempio

Un capovolgimento dei valori C’è un aspetto paradossale in tutto questo. La decrescita, proprio in termini matematici o fisici, è ritenuta la risposta


Agorà

5 e l’ethos del ludismo sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, l’autonomia sull’eteronomia, il gusto della bella opera sull’efficienza produttivista, il ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale (…)” (vedi Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2008). Insomma, diciamolo in poche parole: il bene sul male.

Decrescita: utopia o soluzione Forse la decrescita ci appare più come un’eresia che una controproposta economica. Chi è pronto a mettere in discussione tutto quanto ritiene ormai essenziale al suo modo di vita e al suo benessere, alla possibilità di crescita continua del proprio potere d’acquisto senza il quale cade nella esclusione, alle offerte incredibili di beni della società industriale o della tecnologia che gli permettono comodità e libertà, a contrastare la modernità in quanto distruttrice di valori? È chiaro che per togliersi dalle credenze e convizioni sedimentatesi nel tempo ci vuole una predisposizione intellettuale, culturale, il

coraggio di una rottura o di un confronto continuo con se stessi e le proprie irragionevolezze e incongruenze, la messa in causa dell’idea di progresso che ci è stata conculcata da destra e da sinistra. La decrescita, insomma, parte da se stessi. Qui sta la sua difficoltà come movimento. Non è come la crescita che arriva dall’esterno e costringe tutti a ritenerla naturale e a seguirla, mentre la decrescita appare contro natura e mortificante. Forse la decrescita è però meno utopistica di quel che si crede. Fosse solo per il fatto che una crescita senza fine è almeno altrettanto utopistica di una proposta che tende invece a dire: pensiamoci, abbiamo dei limiti, stiamo distruggendoci, ci sono altri valori. Non potrebbe allora capitare che il discorso sulla decrescita – che non passa sia che se ne parli nei paesi ricchi o nei paesi poveri e che trova ancora maggiori sarcasmi attualmente proprio quando cresce la paura… della decrescita economica globale – finirà anch’esso per imporsi come l’esigenza inevitabile di diventare eretici, di rivedere tutti i dogmi che oggi ci governano e di metterci in salvo?

» di Silvano Toppi; illustrazione di Micha Dalcol

più ovvia e naturale ma è pure ritenuta la risposta più utopistica e più folle. Ci propone infatti di realizzare l’impossibile (ma indispensabile) e di tentare di conciliare l’inconciliabile. Con la decrescita devono cambiare le equazioni economiche dominanti. All’equazione: più = meglio, va sostituita l’equazione: meno = meglio. All’equazione: più consumo = più economia = più benessere, va sostituita l’equazione: minore consumo = minore disutilità = miglior equilibrio = convivialità e felicità. Devono quindi anche cambiare i comportamenti individuali e collettivi e i modelli di riferimento. Scrive uno dei padri della proposta, il filosofo ed economista Serge Latouche, invitato recentemente dall’Associazione Pangea al Monte Verità ad Ascona per due giornate di studio sul tema: “Passare dall’inferno della crescita insostenibile al paradiso della decrescita conviviale presuppone un cambiamento profondo dei valori ai quali siamo attaccati e sui quali organizziamo la nostra vita (…) L’altruismo deve prendere il passo sull’egoismo, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il piacere delllo svago


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Di come gli ultimi servono

Il cantiere trattiene il fiato. Dall’alto una gru gialla dai polsi

Ecce Homo

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poderosi sta calando un enorme cassero, per gettarvi il cemento, sopra le braccia tese degli operai. Ferri, tubi e arti umani si confondono in una strana preghiera e in un cielo arrugginito caduto in pozzanghere bollenti. Brivido di rottami, febbre e forgia. Il palazzo, destinato al lusso, sta prendendo forma in questo quartiere che ormai ci guarda con occhiaie straniere e che ha fatto polvere delle vecchie case. Il cantiere perciò trattiene il fiato su un inizio, un principio, che sa di fine e che sono gli ultimi, della società, a costruire per i primi su progetto dei primi. Antica vicenda. “Lessi che l’uomo che ordinò l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel Primo Imperatore, Shih Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui”. Compito comune dei principi, dei primi, sarebbe dunque quello di cancellare la storia e il passato, la cultura, ed erigere fortificazioni, palazzi, tramite la massa degli innumerevoli ultimi. Certo il caso di Shih Huang Ti stupisce per le sue proporzioni. Di quanti secoli di storia doveva far tabula rasa? E di quanti ultimi, e di quanti mattoni, necessitava per la sua muraglia? Forse Shih Huang Ti temeva la morte e credette che la muraglia nello spazio e l’incendio nel tempo fossero barriere magiche destinate ad arrestarla. Magari invece “l’imperatore volle ricreare il principio del tempo e si chiamò Primo, per essere realmente il primo”, obbligando gli ultimi a essere ultimi; destinandoli alla fatica eterna di erigere un’opera vasta e infinita come il passato, per evitare che a questo passato, cioè ai libri che lo contengono, si dedicassero. Insomma i primi tendono a distruggere o a inquinare la memoria, per relegare gli ultimi all’oblio della loro condizione. Ma che ne sarebbe dell’opera di Shih Huang Ti senza i suoi sudditi? Che ne sarebbe dei primi, senza gli ultimi? Prima caratterizzazione degli ultimi, ovvero esempi significativi, al fine di evitare generalizzazioni inconvenienti o conclusioni affrettate, finendo per credere che a essi si possa apporre l’immagine del buon soldato Schweig, celebre idiota comprovato. Non è così: anche gli ultimi hanno un cuore.

di Damiano Realini (saccheggiando Borges, Hrabal e Tunström)

Il cantiere è pure “il momento in cui l’affinatore di puntimbianco si strappa gli occhiali e fugge via, via dal lavoro, lontano, e guarda il cielo, poi guarda l’ammasso di arrugginiti rottami, gli uccelli discesi per sbaglio a bere in una pozzanghera bollente, guarda come saltella quel corpicino scottato in mezzo ai tubi di ruggine, come tutto abbia la sua cella di tortura, ma anche il suo paradiso, Non c’è uomo che a volte non si abbandoni a scatti di rivolta, e per questo gli angeli guidano ambulanze e raccolgono altri angeli spezzati a metà”. “Noi che apparteniamo al regno degli spezzati... noi spezziamo”. “Nessuno sogna di me. Non mi libro sulle correnti calde di nessun desiderio, non scendo il fiume di nessuno. Sono separato ed escluso. E tuttavia non riesco a vivere secondo questa verità. Sono costretto a credere in un segreto sistema di canali tra gli esseri umani. Chi è veramente oppresso non si può permettere desideri, non può meditare. A un certo punto l’oppressione ci ha preso alle spalle e si è insinuata in noi. Ma io continuo a cercare”. Sono Minosse, ero Re di Creta, ma Dante mi ha messo all’Inferno a esaminare le anime dannate che si presentano al mio cospetto. In base ai loro peccati io le indirizzo alle pene e ai tormenti previsti per loro dalle alte sfere. Non crediate che il mio sia un gran lavoro. Più che a un giudice, somiglio a un burocrate, o a un impiegato di banca, come quelli che, sul mezzogiorno, fanno ciurlare le chiavi nelle tasche, domandando al collega: dove andiamo a mangiare? Io, comunque, appartengo alla schiera degli ultimi. Senza di me, Dio, che non so che faccia abbia, sarebbe nei “casini” e non potrebbe dedicarsi alla contemplazione. Un fatto è certo: io, che sto in questa fogna, gli servo. Un altro fatto certo: per destabilizzare il governo di Allende, per creare tensione sociale, numerosi delegati dei servizi segreti americani, danneggiavano in Cile le fognature degli ospedali, delle scuole e di numerosi altri istituti, otturandole con spugne e stracci, provocando così la fuoriuscita di


“Tutti abbiamo una luce dentro di noi, ma in alcuni è così debole che basta appena per il loro corpo. In altri ancora sembra quasi non esistere nemmeno. Il viso di Eugen ebbe sempre un aspetto da cinque della sera nel mese di novembre. Per un po’ Ida fu convinta di avere messo al mondo un bambino muto. Se ne stava quasi sempre in un angolo della cucina. Era magro e con gli occhi scuri e faceva in continuazione la cacca senza mai lamentarsi. In futuro sarebbe diventato un solitario e sarebbe andato in giro a stagnare recipienti d’ogni genere, ad arrotare coltelli e fare tutto quanto rientrava nella tradizione di famiglia. Quando fu il primo a morire un paio d’anni fa non mostrò alcuno stupore. Si limitò a posare il

recipiente di rame che stava lucidando e smise di respirare. Come se avesse dato un’occhiata alla vita per un istante e avesse ritenuto che non valesse la pena di continuare, ma fosse rimasto lì per un po’ per salvare le apparenze, per non essere scortese”. Seconda caratterizzazione degli ultimi, per non pensare che siano solo innocenti. E conclusione.

» ill. di Mimmo Mendicino

melme puzzolenti e fanghiglie malsane in corridoi, stanze e strade. Questi zelanti agenti ben sapevano che ogni stato, ogni ministero funzionante, ha bisogno di latrine efficienti. Gli ultimi servono sempre.

Gli ultimi, tutti insieme – ma vi potremmo accorpare anche i penultimi, ossia i più indicati, spariti gli ultimi, ad essere ultimi – formano anchesì quella massa di comuni che lavorano come pazzi per concludere la settimana a far la spesa al centro commerciale, dove aggiungeranno altri mattoni all’infinita muraglia del Primo Imperatore Shih Huang Ti, il cui palazzo, qui fuori, è quasi ultimato. Tuttavia non sembra un granché. Manca di stile


Oltre la finzione letteraria

meno, l’inclinazione – ma, se Salman Rushdie si è beccato una fatwa che, oltre a condizionare pesantemente la sua vita, ha contribuito alla notorietà mondiale di I versi satanici, è anche vero che altri scrittori giocano esageratamente con la propria identità, fino a diventare, di solito con effetti discutibili, personaggi essi stessi. Da questo punto di vista, mi pare che l’invenzione dell’autore-personaggio “J.T. Leroy” abbia consentito la slatentizzazione di tale tendenza, e forse anche la sua denuncia (intenzionale o meno che fosse) attraverso un Opera di René Magritte (elaborazione grafica a cura di Tecnica T7) procedimento che però resta eminentemente letterario. Perché, se J.T. Leroy, come persona Partiamo dalla fine: il 31 za, nel degrado più disperato. fisica, non esiste (nelle apparizioni pubbliche, luglio 2007, Laura Albert, Ora, a prescindere dalle consiveniva impersonato dalla sorellastra del mascrittrice statunitense, viene derazioni etiche che ciascuno rito della Albert, una sedicenne sufficientecondannata a pagare un’am- può esprimere sulla base della mente androgina da poter sostenere il ruolo), menda di 350.000 dollari al- propria sensibilità e cultura, la sua storia personale è frutto di un accurato la casa di produzione Anti- vorrei attirare l’attenzione su lavoro di elaborazione (sublimazione?) messo dote International Films, che come, attualmente, gli autori a punto dall’autrice durante gli anni di anoha intentato e vinto nei suoi vengano sempre chiamati in nimato trascorsi a New York nel tentativo di confronti un’azione legale per causa in prima persona (più pubblicare con il proprio vero nome. frode. Il reato imputato al- o meno fittizia che sia) nelIn questo senso, non c’è alcuna differenza fra la Albert consiste nell’avere la promozione della propria J.T. Leroy e diciamo, Jane Eyre o Huckleberry ceduto i diritti del suo libro opera. Complici politiche ediFinn, se non il fatto che questi personaggi più famoso, Sarah, sotto fal- toriali in cui spesso il markesono stati collocati dai loro autori (che a so nome, ovvero utilizzando ting soppianta la passione loro volta pubblicarono sotto pseudonimo) lo pseudonimo – e l’identità per la letteratura, e quindi all’interno di una cornice – il romanzo – che – che l’ha resa famosa in tutto la capacità di riconoscerla li definisce a priori come tali, mentre il nostro il mondo: quello di Jeremiah e valorizzarla. Gli autori e eroe si situa, almeno formalmente, al di fuori “Terminator” Leroy. le autrici tendono dunque della storia. Tuttavia, poiché un romanzo Fra il 1999 e il gennaio del a intervenire direttamente, è sempre una comunicazione “traslata”, e 2006, quando l’autrice vie- attraverso l’ausilio di altri merisulta tanto più efficace quanto più l’autore ne smascherata, “J.T. Leroy” dia, nella presentazione del riesce a distanziarsene, possiamo ipotizzare assume infatti un ruolo di proprio romanzo o saggio, il che la pregnanza emotiva dei dati biografispicco nel panorama mediati- che, pensandoci bene, costici di partenza fosse in questo caso tale da co occidentale, conquistando richiedere, per essere schiere di fan, in molti casi Quale differenza fra J.T. Leroy, Jane Eyre maneggiata, un appa“eccellenti” (fra gli altri, Boe Huckleberry Finn? Una riflessione sul- rato di secondo livello: no Vox, Suzanne Vega, Wiuna specie di doppia nona Ryder e Asia Argento, la relazione fra autori – che scrivono sotto camera di sicurezza. la quale trarrà un film dai pseudonimo – e i loro personaggi Infine, anche se post suoi racconti), che rimangofactum, dobbiamo amno rapiti, in eguale misura, tuisce un grazioso paradosso, mettere che l’autrice ci aveva messo sull’avdall’intensità della scrittura e essendo il libro concepito e viso, peraltro in maniera piuttosto esplicita: dalla sua terribile vicenda esi- scritto per comunicare in sé il titolo del suo secondo libro recita infatti stenziale di ragazzo di strada, delle cose. testualmente Ingannevole è il cuore più di ogni sottoposto durante l’infanzia Non è mia intenzione assucosa, che è sì un versetto della Bibbia, ma a ogni sorta di abuso e nau- mere posizioni moralistiche anche la definizione più esatta di questa sofifragato, durante l’adolescen- – non ne ho la statura e, tanto sticata e controversa operazione letteraria.

» di Mariella Dal Farra

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In Italia, tutti i libri di Laura Albert sono editi da Fazi: con riferimento alle prime edizioni, Sarah, 2001; Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, 2002; La fine di Harold, con testo inglese a fronte, 2003.

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Arti

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i “mozilliani” hanno celebrato con feste in oltre 25 nazioni, compresa una download fest della durata di 24 ore, battezzata Camp Firefox e tenutasi a Mountain View (California) nel quartier generale di Mozilla. E da luglio a oggi ecco alcuni titoli di giornali: Firefox3 non ce n’è per nessuno! FireFox3 surclassa Internet Explorer, Opera e Safari. In tanti, a questo punto, sono legittimati a pensare che questa sia “stampa amica”, come si dice in gergo, e che io sia stata assoldata da Mozilla Foundation per screditare altri browser a favore del Panda Rosso, simbolo di Mozilla. Ma non è così. Anche se il più usato rimane sempre Internet Expolorer, io ho “donwloaddato” Firefox3 il 18 giugno scorso e ora sono tra quelli che non torna più indietro. Come si può fare a meno di

Internet

www.eff.org La Electronic Frontier Foundation (EFF) assicura che i principi della libertà di opinione e di scambio di informazioni siano pienamente rispettati con l’emergere di nuove tecnologie di comunicazione. È online e scaricabile la Guida a Internet della EFF (Extended EFF’s Guide to the Internet) tradotta in italiano da Liber Liber. Fra le più diffuse al mondo, questa guida è a disposizione di tutti e mira a una diffusione capillare della rete.

di mele e dopo averla trovata, sbadatamente, avete inciampato nel filo di alimentazione del vostro computer. Risultato: addio torta di mele. Invece no! Ecco arrivare il Panda in aiuto. Ora non è più necessario ricordare almeno l’inizio del nome del server basta ricordare l’argomento, digitarlo e Firefox farà il resto. E poi basta con spyware, virus e finestre pop up, quelle fastidiose finestrelle pubblicitarie che si aprono all’improvviso cercando di invogliarvi a passare una serata in un casinò virtuale, oppure a visitare siti porno o quant’altro. Firefox controllerà ogni sito in un elenco conosciuto di siti di malware, per intenderci “cattivi”, come sembra indicare la parola stessa. In verità un difetto l’ho trovato: quel furbetto del Panda si configura automaticamente come browser predefinito. In molti potrebbero lamentarsi di questa Luglio 2008: in 24 ore più di 8 milioni di cosa, perché né Opera né Safari giungono a persone hanno scaricato dalla rete la nuova tanto. Ma basta poco versione del browser Firefox3 di Mozilla per farmi sciogliere ancora in brodo di giugun browser che utilizza in asgiole: grazie a Firefox3, infatti, tramite un soluto il minor quantitativo meraviglioso plug in – un’estensione, una di memoria? Come si può fare sorta di accessorio – possiamo nostalgicaa meno del concetto di “web mente giocare con un buon migliaio di personale”? Un esempio per vecchi giochi Nintendo (una sorta di finestra tutti: la nuova barra degli insull’archeologia informatica). dirizzi. Avete cercato disperaIo sono commossa, non so voi. Insomma, tamente la ricetta della torta provatelo per crederci.

» di Paola Tripoli

Media

Day, sono stati organizzati in ogni parte Download Party, sono stati aggiunti in ogni sito, dagli stessi utenti, banner per promuovere l’evento e link cliccabili. Alla fine ce l’hanno fatta! Dopo l’invito di Mozilla alla propria comunità globale di partecipare all’impresa per il raggiungimento del record per il maggior numero di download di un software effettuati nell’arco di ventiquattro ore invitando quante più persone possibili a scaricare Firefox3 – nuova versione dell’ormai celebre browser open source e gratuito –, la lieta novella è arrivata lo scorso luglio. Il portavoce della Mozilla Corporation ha annunciato che il 18 giugno – era giorno del lancio ufficiale del nuovo programma che permette di navigare sul web – Mozilla è entrata nel Guinness dei primati. Un evento straordinario se Gareth Deaves, responsabile del Guinness World Records, ha aggiunto il record all’elenco delle meraviglie più famoso al mondo, usando queste parole: “Mobilitare oltre 8 milioni di utenti internet nell’arco di 24 ore è un risultato decisamente notevole”. La cifra record di download registrata è stata, infatti, di 8.002.530. Raggiunto l’obiettivo storico,

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Libri


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La lettura della Storia non è

mai univoca. Per questa ragione è sempre più corretto parlare di Storie, ricostruzioni mediate e definite da scelte arbitrarie di eventi, documenti, stagioni. Così la mia Storia non è la Storia di altri. Che c’entra tutto ciò con la pellicola di John Milius? C’entra, perché Un mercoledì da leoni non è una banale operazione dedicata ai surfisti californiani: è piuttosto un viaggio negli Stati Uniti del decennio 1960–70 (quello della morte di Kennedy e dello scandalo Watergate) visti attraverso gli occhi di tre amici – Jack, Matt e Leroy – dediti a cavalcare le onde, tra solitarie spiagge e attese infinite, turbe adolescenziali e riflessioni su un futuro segnato dall’imminente richiamo all’odissea

vietnamita. Il narrato è diviso in quattro grandi stagioni, che nella pellicola coincidono con le enormi mareggiate che colpirono la California nel 1962, ’65, ’68 e ’74, equamente divise tra l’estate, l’autunno, l’inverno e l’ultima – in primavera – dove i protagonisti si ritroveranno per l’ultima volta ad affrontare la più grande delle onde. È la fine di una stagione della vita e un nuovo inizio: l’elemento marino si fa in questo modo metafora temporale, un orologio che scandisce il tempo di una giovinezza che si perderà nella necessaria responsabilizzazione tipica dell’età adulta. La forza visiva e la potenza emotiva delle due ore di film sono inarrivabili, in un’opera che pare, solo inizialmente, “leggera” nei contenuti. Ma

poi tutto cresce, scandito sia da una voce narrante fuori campo che ci introduce alle imminenti stagioni-mareggiate, sia dalle evocative musiche originali di Basil Poledouris. La mistica eroica virile di cui è infarcito il film si infetta di malinconica amicizia, di malesseri esistenziali e universali, come la perdita cosciente del proprio mondo e la guerra. La sfida verso la forza del mare si fa sfida contro il tempo, contro la Storia e i destini, gli stessi che raramente possono essere “veicolati” ma piuttosto messi in “gioco”. Non per nulla quest’opera di Milius è stata paragonata per forza espressiva a Il cacciatore di Michael Cimino, uscito proprio in quel 1978. Un anno di potenti mareggiate…

Un mercoledì da leoni (Big Wednesday)

» di Giancarlo Fornasier

Abbiamo visto per voi

Regia: John Milius Sceneggiatura: John Milius e Dennis Aarberg Con: Jan-Michael Vincent (Matt), William Katt (Jack), Gary Busey (Leroy), Patti D’Arbanville, Sam Melville (USA, 1978)

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Dottor Cinema 12

te dolorosi e tristi della vita, vedere una pellicola che rappresenta una situazione in qualche maniera simile a quella del nostro disagio può essere d’aiuto. Le sfere di azione sono infinite: traumi, rievocazioni di ricordi latenti o dimenticati, problemi di comunicazione in famiglia o in coppia. Niente di più comune che decidere di riguardarsi le storie d’amore per eccellenza stile “I ponti di Madison County” in compagnia di un pacchetto di fazzoletti quando il cuore è a pezzi o un Carlo Verdone dei tempi migliori se una crisi di ansia e ipocondria imperversa. Per una giusta dose di psicoanalisi e affari di cuore, è sempre consigliabile la visione di un film a scelta tra quelli di Woody Allen. Come maestro di autoironia non può fare che bene imparare a sdrammatizzare le

Paola Maraone Cineterapia Sperling & Kupfer 2008 Mini dizionario di film per ogni stato d’animo, con riguardo agli affari di cuore. Dedicato alle donne, ma utile anche a qualche maschio in crisi sentimentale. Il Mereghetti 2008 Dizionario dei film Baldini Castoldi Dalai, 2008 Per i cinefili e per chi preferisce decidere da solo quale sia il film che fa più al caso suo, un classico dei dizionari sul grande schermo. Con curiosità, schede e consigli.

che rivivere una gamma di emozioni che normalmente sfuggiamo per eccessivo coinvolgimento. Il cinema, permette infatti di mantenere una certa distanza ma anche di condividere un tracciato emotivo. La scelta di creare uno “spettatore inconsapevole” è stata anche una cifra stilistica della storia del cinema. Nelle pellicole hollywoodiane classiche, il montaggio, ovvero lo stacco tra una sequenza e un’altra, non doveva creare disorientamento, interrogativi e confusione allo spettatore. Così come la trama e le inquadrature. Come in un fiume che scorre lento, la pellicola aveva il compito di cullare lo spettatore in un dolce susseguirsi di immagini. Poi sono arrivati i maestri che hanno preferito “scuotere” chi guarda, rendendo ben chiara la situazione di distacco che vive lo spettatore. Il cinema, comunque, fa parte dell’immaginario collettivo e rappresenta un serbatoio di spunti e modelli che determinano un senso di appartenenza. Per questo il meccanismo più comune e naturaInvece di intrugli e medicinali, a volte vedersi le è l’identificazione un film può essere un vero toccasana. Non in vizi e virtù di protagonisti che finiamo servono ricette e non ci sono controindicazio- per amare, fare nostri ni. Mai sentito parlare di cineterapia? e imitare. Attenzione però a non commetproprie nevrosi e ossessioni tere gli stessi errori. Ovvero, se vi sentite con un sorriso sulle labbra. Se un po’ Rossella O’Hara di Via col vento, non si pensa sia solo masochismo, lamentatevi se all’ennesimo capriccioso bisogna invece tenere conto “Ci penserò domani”, vi viene rifilato un anche della valenza catartica bel “Francamente me ne infischio” da un che il film offre. Assistere a fascinoso lui che ricorda tanto Rhett Butler. una proiezione significa anPotrebbe avere davvero ragione.

» di Valentina Gerig; illustrazione di Mimmo Mendicino

Salute

a vedere che un film al giorno toglie il medico di torno. Sembrerebbe di sì. Il cinema, fin dalle sue origini, da quando i fratelli Lumière proiettarono a Parigi le prime immagini in movimento, ha una valenza di magia e meraviglia. Il buio in sala, le poltrone, il silenzio, fanno sì che lo spettatore si immerga e si identifichi con quello che vede, dimenticando il resto. Da allora a oggi, quelle prime sequenze di vita sono diventate storie, racconti appassionanti, indimenticabili, che lasciano traccia di sé anche una volta terminati i titoli di coda. A dare un valore ufficiale alla potenzialità terapeutica dei film ci ha pensato il dott. Gary Salomon, psicoterapeuta americano, che all’inizio degli anni Novanta ha iniziato a “somministrare” ai suoi pazienti cassette e dvd da vedersi a casa al posto di Prozac e compagnia bella. Trattasi di “movie-therapy” o cineterapia, ovvero una cura psicologica secondo cui numerosi disturbi della sfera psichica possono, se non guarire, almeno essere controllati e attenuati grazie alla visione di film da godersi sia al cinema come a casa. I film diventano degli ottimi ricostituenti per la mente, aiutandola a elaborare i propri malesseri. In momenti particolarmen-

»

Sta

Libri


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Il tempo perduto

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» di Nicoletta Barazzoni; illustrazione di Micha Dalcol

Società

aver spostato le lancette dell’orologio in seguito al cambiamento dall’ora legale a quella solare – atto che ciclicamente scombussola i bioritmi e i processi fisiologici di migliaia di persone –, provo a considerare la nozione del tempo, naturalmente non quello meteorologico ma quello che corre tra passato, presente e futuro. Come una biglia che rotola all’impazzata lungo la nostra esistenza, esso ci appare inesorabile e spietato, votato a un’incessante corsa in una sola possibile direzione. Sentiamo sovente ripetere frasi come: il tempo è tiranno, il tempo è un buon medico, il tempo vola, non ho più tempo per scriverti, telefonarti o per dirti che l’incalzante mancanza di tempo fa di me un ostaggio senza via d’uscita. Seneca diceva che nulla ci appartiene se non il Tempo. Lo vorremmo dilatare perché avvertiamo la sua inesorabile avanzata, mentre realizziamo che non ne abbiamo mai a sufficienza. Sono passatempi attorno al tempo quelli di cui vogliamo parlare? O sono forse divagazioni per riempire spazi vuoti che il tem-

Il tempo che resta (Le temps qui reste) Pellicola di François Ozon del 2005, con Melvil Poupaud, Jeanne Moreau, Valeria Bruni Tedeschi, Daniel Duval. La storia di un giovane fotografo che si ammala di tumore. Inizia la sua storia nel tempo.

dei consumi quale valore gli si attribuisce, a parte ridurlo a una formula fisica, misurabile attraverso la frequenza della risonanza dell’atomo? La sua autentica dimensione la ritroviamo forse nella poesia di Alda Merini quando in ogni giorno che passa alza il suo sipario di perpetua baldanza nel calendario della vita, o durante le feste di compleanno allorché ci auguriamo di avere ancora mille di questi giorni senza però attribuirgli il significato che si merita. C’è un tempo perfetto per fare silenzio, c’è un tempo negato po stesso non si incarica di e uno segreto, un tempo distante che è roba organizzare per noi ma semdegli altri, canta Ivano Fossati. plicemente ci impone? Non Esiste dunque un tempo per consolarci nella so. Certo è che fin dall’antipoesia, in quest’epoca frenetica che ha fatto chità gli uomini si sono indella velocità il suo volano economico? Titerrogati a riguardo, tanto da me is money sostengono gli anglosassoni che immaginare il tempo come concepiscono il tempo materialisticamente, un Dio fluviale, come l’appacome occasione di introiti. Non lo perdono rire o lo scomparire delle conemmeno sulle scale mobili della metropose che insieme circondano il litana: a destra chi fa pronostici, e a sinistra cosmo. Per il poeta Fernando chi si affretta a raggiungere la Borsa per caPessoa, la misura del tempo è pitalizzare l’economia reale. Tutti con il celfalsa perché lo divide in molulare incollato all’orecchio. Con le nuove do spaziale dall’esterno, arbiforme della comunicazione, ci strozziamo trariamente, mentre il tempo nella rete del nostro cellulare, connettendointeriore, quello che accomci con l’inafferrabile attimo fuggente che ci pagna affetti ed emozioni, angoscia – come ammonisce Umberto Eco – vive nel corpo e presenta cae fa di noi degli schiavi infelici. Tra i giochi ratteristiche specifiche quapiù in voga, oltre al disimpegno, c’è la vesi opposte. I grandi profeti ci locità di movimento, il dono dell’ubiquità, indicano che senza il tempo l’abilità di far fruttare il tempo. Nel tentai frutti non maturano, che c’è tivo di strumentalizzarne il senso, non facciamo altro che fuggire Tiranno e incessante compagno della no- da questo risoluto signore che ci soffia sul stra esistenza, il tempo è da sempre un collo e che, inevitabiltema cruciale che ha ispirato pensatori, mente, ci richiamerà a poeti e artisti noi stessi perché, davvero, non perdona. Ed un tempo per seminare e uno è di nuovo Seneca a suggerirci di vivere bepiù lungo per attendere, che ne l’attimo come se fosse l’ultimo. Il tempo senza il suo trascorrere le stache abbiamo quotidianamente a nostra dispogioni non possono apparirci sizione è elastico: le passioni che sentiamo lo come rivelatrici di nuove speespandono, quelle che ispiriamo lo contraggoranze, nuovi sogni e altri desino; e l’abitudine riempie quello che rimane. deri. Ma nell’inaridita società (Libro 1, Epistola 1 di Seneca)

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Dopo

Film


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Abbiamo letto per voi

volume illustrato non è un semplice libro di ricette. È arte e poesia gastronomica. Ogni singola creazione – oltre sessanta piatti fotografati da Francesca Brambilla e Serena Serrani, descritti e commentati dallo stesso Pietro Leemann – pare il corrispondente culinario di un haiku, il breve componimento poetico giapponese che, eliminando “fronzoli” e orpelli lessicali, prende forza dalla natura e dalle sue stagioni. I piatti dello chef locarnese – primo cuoco vegetariano d’Europa a essere incoronato dalla prestigiosa Guida Michelin e patron del ristorante milanese Joia – sono sintesi di pensiero, di immaginazione e di gusto. Sono insieme etica ed estetica. Come spiega Leemann nel volume: “Ricerco la natura e la trasformo nell’intento di comprenderla e di rappresentarne l’essenza. Mi piace farlo in modo stuzzicante e giocoso. La mia cucina vuole essere una passeggiata leggera in un paesaggio fantastico, metafisico, surreali-

sta, iperrealista, concreto”. Sfogliando le pagine sembra davvero di passeggiare in un mondo che esiste solo e unicamente grazie alla capacità dello chef-artista di trasformare intuizioni e pensieri in opere d’arte. In questo caso in “opere di gusto” che vanno a colpire, immediatamente, i cinque sensi. I piatti qui descritti, alcune fra le più straordinarie creazioni di Leemann, toccano le corde dell’anima fino a farle vibrare. Il cibo assume la forma impalpabile della sacralità fino a raggiungere l’ultima e unica meta: la relazione con il divino. Non è un caso che la presentazione al testo (pp. 44–47) scritta dallo stesso Leemann si intitoli “Cibo per lo spirito (una nuova filosofia di cucina)”. Si legge fra le righe: “Il cibo aiuta l’avvicinamento tra le persone, ci accompagna in ogni momento della nostra vita, è sempre presente, in famiglia, con gli amici, quando ci sposiamo, quando celebriamo. Simbolicamente e concretamente”.

Semplicemente danzare

Ecco allora che il cibo si fa nutrimento in senso universale. Lo è per il corpo e, come tale, deve essere buono e naturale e lo è per la mente “quindi stimolante mezzo di approfondimento culturale”. Infine – ed è questo uno degli aspetti più intensi della filosofia dello chef “milanese” d’adozione – il cibo è un “ponte” che unisce le persone che lo mangiano e, come tale, “abbatte le barriere culturali e sentimentali, e avvicina le persone”. L’introduzione di Marco Gatti ripercorre la carriera di Pietro Leemann: dai suoi primi passi nel mondo della ristorazione, alla formazione con i grandi maestri della gastronomia, dall’apertura del locale milanese alla consacrazione, nel 1996, nell’universo europeo degli “stellati” Michelin. Seguono le ricette, dagli antipasti ai dolci, rigorosamente preparate con frutta e verdura di stagione. Ogni portata è uno scorcio di paesaggio. Anche i nomi dei piatti riprendono l’essenzialità degli haiku: “Nuvole

Joia I nuovi confini della cucina vegetariana di Pietro Leemann Giunti, 2008

scorrono veloci, mi soffermo e le osservo felice” e “la mia immagine riflessa è la mia vera immagine riflessa?”. Leemann gioca con gli ingredienti, con i colori, con le parole… Il risultato è un divertissement poetico-culinario da assaporare con gli occhi, con la mente e con il cuore. È pura “Joia”.

» di Federica Baj

Q uesto

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» testimonianza raccolta da Gaia Grimani; fotografia di Peter Keller

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Fra’ Andrea Schnöller

Vitae

giornalismo alla Università Cattolica di Milano. Dopo di che mi sono trasferito alla Madonna del Sasso e da allora sono sempre stato lì. Oltre al “Messaggero”, di cui sono stato redattore, ho avuto degli incarichi nel campo della liturgia e del catechismo. Mi sono interessato in seguito alla meditazione, quasi casualmente. Ho incontrato, tramite alcune persone, una signora di Montagnola che era insegnante di yoga e pratiche meditative. Dopo questa esperienza, ho deciso di continuare per conto mio, praticando prima di tutto io stesso e poi cercando di leggere, d’inIl percorso di un uomo che, attraverso formarmi con la fortuna di la vocazione sacerdotale, è giunto alla molti incontri qualificati nel campo dello yoga, in quelscoperta della meditazione come via di lo del buddismo, in quello saggezza e conoscenza della meditazione cristiana. La meditazione può inseliceo. Terminato il ginnasio, gnare all’uomo d’oggi a uscire dalla sua a 17 anni, ho iniziato il noagitazione e dallo stile di vita nevrotico, viziato. I primi sei mesi sono per imparare a vivere nel segno della transtati molto duri, perché è quillità, della pace interiore, della serena stato veramente un capovolpazienza. Sviluppa la sua capacità di saper gimento a 180 gradi: tutti attendere le risposte e, nello stesso tempo, gli interessi precedenti, comapre delle prospettive nella sua vita. preso un grande amore per È una sistematica educazione al silenzio e la letteratura, all’improvviso alla consapevolezza accogliente; offre alle mi sembravano da buttar via. realtà della vita quella pienezza di presenza, Non so, forse era una mia quella capacità di ascoltare da cui nasce sensibilità, perché altri miei comprensione e quindi saggezza di vita. compagni vivevano tutto in In tutto ciò il silenzio è molto importante: un modo molto diverso da quello esteriore dapprima e quello interiore come l’ho vissuto io. Io ho poi. Il silenzio esteriore è solo uno strumensentito che dovevo rinunto, non è fine a se stesso, ma, senza, non si ciare a vivere. Però gli ultimi fa nulla. Il saper fare digiuno della parola è tre mesi sono stati splendidi essenziale per arrivare alla pace; se noi espricon una rinascita interiore miamo sempre tutto, se non siamo capaci fortissima, una gran contendi vivere sereni con noi stessi, ascoltando i tezza dentro di me. Dopo il nostri conflitti e abbiamo sempre bisogno noviziato ho cominciato il di parlare, non risolviamo mai i problemi. liceo e qui è stato di nuovo Quello che conta, però è il vero silenzio, il un dramma, perché fare il lisilenzio interiore che è pieno di ingredienti: ceo era tornare alle cose dalle è vuoto, ma è un vuoto curioso, perché è quali mi ero congedato, un colmo di pace, di serenità, di fiducia e di altro ribaltamento, per cui consapevolezza. Consapevolezza vuol dire ho fatto una fatica tremenda capacità di stare tranquillamente con una a studiare, stavo anche marealtà in un’attitudine aperta e di ascolto. le fisicamente. Ma era tutto È questa spaziosità serena e tranquilla che un problema interiore. Poi dà alle cose il diritto di essere, consente di ho cominciato gli studi in ascoltarle, vederle e osservarle. Ecco perché Teologia e m’è ritornata la voanticamente si cercava ezichía, quies, samaglia di vivere, la gioia, grazie dhi, la pace del cuore, perché, quando c’è la anche ai buoni insegnanti; pace del cuore nella relazione con le realtà sono diventato sacerdote e concrete dell’esistenza, nascono la saggezza ho completato gli studi in e la sapienza di vita.

»

S

ono nato nel 1940 a Tiefancastel, da una famiglia di albergatori, ma mio papà ha scelto di fare il contadino. La mia infanzia, i miei primi anni sono stati molto felici. Ho qualche ricordo con il papà, qualche Pasqua, i lavori nei campi. Ma l’ho perso presto, a sei anni, per una cosa banale: un’iniezione che lui non ha sopportato e gli ha bloccato i muscoli. Il medico non ha fatto in tempo a intervenire ed è morto. Ho un ricordo molto forte di questo evento: quando l’ho visto sul letto, ho capito in quell’istante che cos’è la morte, la fine di tutto, di tutte quelle che sono le nostre relazioni umane. Ma è stata una frazione di secondo, un dolore molto acuto, poi sono uscito a giocare coi compagni. La mamma ha dovuto crescere quattro ragazzi ed era un periodo in cui non c’erano tutte le sovvenzioni sociali di oggi, per cui è stata una vita di stenti. Il mondo contadino dell’infanzia è stato un periodo molto bello della mia vita. Poi m’è venuta l’idea di farmi frate, un po’ casualmente: c’era un cappuccino a Tiefencastel che faceva propaganda per le vocazioni. Veniva a scuola e faceva vedere belle fotografie di Faido, mostrava i fratini che andavano a sciare: tutte cose che colpiscono la fantasia di un ragazzo. In verità sono diventato frate per andare a sciare e a dodici anni sono entrato in seminario a Faido. È stato un passaggio drammatico, sofferto, tra malinconie e nostalgie di casa. Tornavo presso la mia famiglia e i miei fratelli mi domandavano: “Ma che cosa fate?”, e io non sapevo cosa rispondere: “Non facciamo niente. Studiamo e giochiamo”. Questo era il nostro lavoro, ma studiare per noi non era lavorare. Lavorare significava lavorare con le braccia, contribuire alla sopravvivenza di tutti, invece lì il cibo lo trovavi già pronto. Ho fatto poi il ginnasio e il


I GRANDI VECCHI DEL BOSCO Cartografare vecchi castagni per ritrovare le nostre radici

Reportage

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Cresciano. Fotografia di Patrik Krebs/WSL

I castagni monumentali rappresentano un patrimonio importante dei nostri territori. Alberi secolari che con la loro durevole presenza segnano la nostra memoria e la cui sopravvivenza è legata all’impegno e alle cure dell’uomo testo di Patrik Krebs (Istituto federale di ricerca WSL, Gruppo Ecosistemi Insubrici, Bellinzona) fotografie di Pino Brioschi, Bellinzona e di Patrik Krebs/WSL


Cabbiolo (Valle Mesolcina). Magnifico castagno ancora in salute situato nella campagna su terreno gestito. Fotografia di Pino Brioschi

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osa farebbe Colombo se si risvegliasse ai giorni nostri? Probabilmente si annoierebbe a morte, direbbero alcuni, poiché il tempo delle grandi esplorazioni geografiche è ormai scaduto. In effetti al giorno d’oggi possiamo contare su sciami di satelliti che ispezionano la Terra dallo spazio. Il concetto di luogo remoto si è pressoché estinto in quanto tutto o quasi sembra alla portata di un click su internet e, volendo, potremmo anche partecipare a un viaggio organizzato in fondo agli oceani, in Antartide, in Patagonia o verso la cima dell’Everest. Addirittura con l’avvento di Google Earth e Google Map abbiamo l’impressione di vedere esauditi anche i più arditi sogni dei grandi navigatori del passato: ecco una sorta di mappamondo, di atlante ter-

restre che ci consente di sorvolare tutto il pianeta, ingrandendo a piacere qualsiasi particolare: una mappatura continua e interattiva di tutta la superficie terrestre. Ce n’è abbastanza per mettere definitivamente in bacheca i geografi per mancanza di stimoli e obiettivi ulteriori. Ma questa sovrabbondanza di mezzi conoscitivi è in verità profondamente menzognera. Le mappe, per quanto precise e dettagliate, mostrano solo alcuni aspetti selezionati della realtà, immancabilmente quelli che più interessano al viaggiatore-consumatore dei giorni nostri: strade, autostrade, caselli, uscite, ferrovie, stazioni, città, piazze, alberghi, hotel, aeroporti ecc. Così il navigatore satellitare – che sempre più spesso viene proposto come accessorio indispensabile

per ogni conducente di automobili che si rispetti – potrebbe sembrare a prima vista un sistema geografico onnisciente, ma a un più approfondito esame rivela la sua insopportabile ottusità nell’indicare sempre gli stessi elementi del paesaggio tacendo tutto il resto. Personalmente credo che la geografia, malgrado tutti questi mirabolanti sviluppi, si trovi ancora ai piedi della scala: esistono ancora innumerevoli mondi inesplorati, solo non si tratta più di oceani, isole o continenti quanto piuttosto dei molti elementi dimenticati del paesaggio terrestre. Così il sogno del geografo è pienamente salvo: vi sono ancora infinite mappe da disegnare se non ci si accontenta di quanto proposto dalle più diffuse cartografie.


Quei “vetusti” castagni Prendiamo, per esempio, i vecchi castagni presenti qua e là sui versanti delle nostre montagne. Difficile immaginare di spendere tempo ed energie per creare una mappa degli alberi vetusti. Siamo talmente assuefatti a un certo tipo di supporti cartografici da ritenere per lo più inutile qualsiasi cambiamento di vedute. Ebbene, grazie anche a un finanziamento del Canton Ticino e al supporto scientifico dell’Istituto federale di ricerca WSL, abbiamo potuto realizzare una cartografia completa di tutti i castagni con più di 7 metri di circonferenza del tronco. A prima vista poteva sembrare un’impresa stravagante, tanto più che ha comportato mesi e mesi di perlustrazioni del territorio (3.308 km² tra Cantone Ticino e Moesano). Eppure, fatte le debite proporzioni, ci siamo

sentiti un po’ come quegli esploratori d’alto mare, presi dal desiderio di poter disegnare la geografia di un mondo sconosciuto. Ovvio, i castagni non sono certo il Nuovo Mondo: da secoli e secoli sono presenti sul nostro territorio, testimoni silenziosi di tutte le trasformazioni assordanti degli ultimi decenni. Però, per certi versi questi patriarchi dal tronco nodoso e la chioma rarefatta sono i luoghi sacrificali dove sfocia gran parte dell’oblio dei tempi moderni, soggetti impregnati di attenzioni mancanti e abbandono. Ogni castagno plurisecolare è un mondo dimenticato che attende di essere riscoperto. E qui sta il bello della geografia, il poter descrivere i fenomeni della superficie terrestre con sufficiente completezza e dettaglio, rappresentandoli visivamente in una proiezione spaziale, per

sollevarli dalla disattenzione degli uomini. Non v’è niente di meglio di una mappa per dimostrare e rendere palese l’esistenza di un fenomeno. Il rovescio della medaglia sta nella ripetizione di mappe troppo simili le une alle altre, rappresentanti sempre le stesse categorie di oggetti: una mappa è talmente convincente che in breve tempo si diffonde la dimenticanza di tutto quello che non viene mostrato. Così è importante produrre cartografie veramente nuove che illustrino tutti quei fenomeni mai studiati e ci aiutino a prendere coscienza di certi aspetti territoriali prima che l’abbandono ne decreti irrimediabilmente l’estinzione. In questo senso ritengo la mappa dei castagni monumentali un passo significativo per cercare di ricucire il nostro legame col territorio e la sua storia (vedi pagina 48).


Lostallo. Gigante appollaiato in cima alle sassaie a monte di Cran. Circonferenza del tronco 8,62 m. Fotografia di Patrik Krebs/WSL

La mappa dei giganti Ora sappiamo che nelle valli del Canton Ticino e del Moesano sopravvivono ancora almeno 315 castagni monumentali. Grazie anche ad alcune verifiche realizzate da operatori indipendenti, riteniamo questa cifra l’80–90% della popolazione totale stimata attorno alle 330–380 unità. La cartografia così ottenuta rappresenta quindi in modo veritiero le caratteristiche distributive, svelando le notevoli differenze in termini di presenza di questi giganti arborei a livello di regioni, valli, segmenti o versanti vallivi, territori comunali e singoli insediamenti. Si tratta di una distribuzione geografica interessante con disparità distributive a più livelli interpretabili soprattutto in termini di condizioni ambientali e di storia economica. La presenza di castagni

monumentali è nettamente minore nel Sottoceneri in ragione soprattutto della mite geomorfologia prealpina favorevole alle colture agricole più pregiate e a uno sviluppo precoce ed estensivo dei sistemi urbani. Nel Sopraceneri, invece, pochi sono gli esemplari monumentali nei solchi vallivi con profilo a “V”, mentre la più alta concentrazione si riscontra sui terrazzi delle vallate principali con profilo a “U” dove la scarsa disponibilità di pascoli alti ha scoraggiato lo sviluppo di una pastorizia a elevata produttività favorendo di conseguenza la specializzazione economica sulla castanicoltura. Per quanto riguarda la distribuzione altitudinale, quasi 3 monumentali su 4 si concentrano in una fascia altimetrica di soli 300 metri, tra i 700 e i 1.000 metri di altitudine, ossia nella parte

alta del castagneto da frutto. Il limite superiore è dato dall’eccessiva rigidità degli inverni, mentre quello inferiore è dovuto alla maggiore frequenza di interventi antropici quali il rinnovamento dei frutteti, la conversione a colture agricole più pregiate (vite, cereali), gli sviluppi edilizi recenti e gli abbattimenti di vecchi castagni per l’approvvigionamento dell’industria del tannino. Il castagno e l’uomo Ma i motivi d’interesse di questi alberi non si esauriscono nelle caratteristiche distributive. Altro aspetto considerevole è la loro dipendenza dalle cure dell’uomo. Infatti allo stato selvatico ben difficilmente un castagno potrebbe raggiungere età e dimensioni tanto


Cevio. Circonferenza del tronco 7,41 m. Situato a valle dei monti di Ciantin. Fotografia di Patrik Krebs/WSL

ragguardevoli, soprattutto nelle nostre regioni dove l’uomo si è prodigato molto per diffondere la specie anche a dispetto delle condizioni ambientali e delle essenze concorrenti. Un’età di 200 anni e 5 metri di circonferenza sono già traguardi da primato per un castagno cresciuto spontaneamente, mentre invece se coltivato e tutelato da mani esperte può anche superare i 500 anni e i 10 metri di circonferenza; valori questi attestati da esempi concreti come il patriarca di 520 anni sui monti di Malmera in territorio di Bellinzona, o il colosso con circonferenza del tronco di 11,62 metri nei pressi della casa comunale di Chironico. Ecco perché i castagni monumentali si trovano quasi sempre nelle immediate vicinanze degli insediamenti umani, per l’esattezza il

50% entro 30 metri e il 90% entro 100 metri dalle costruzioni rurali. In queste ubicazioni hanno potuto beneficiare, oltre di buone condizioni stazionali, del migliore sostegno colturale sia all’albero che al terreno circostante. Chiunque può rendersi conto facilmente di questa relazione recandosi in escursione sui versanti montani: spesso basta osservare la grossezza dei tronchi per prevedere l’approssimarsi di una cascina o di un maggengo, poiché la presenza di vecchi castagni segnala con un certo anticipo la vicinanza dell’insediamento. Quindi i castagni monumentali sono fenomeni nel contempo colturali e naturali. Il risultato di secoli e secoli di relazione mutualistica con l’uomo dove, in cambio di una maggiore produzione, il

coltivatore garantiva tutte le cure atte a ridare vitalità agli alberi sostentatori. Difficile rendersene conto nel presente con le selve castanili rovinate da decenni di trascuratezza. Eppure ancora a inizio Novecento molti castagneti erano mantenuti come veri e propri frutteti con i singoli alberi piantati a una certa distanza, regolarmente potati, con un tappeto erboso continuo dove non si trascurava di raccogliere alcun frutto o foglia o ramo secco caduto. Così, se oggi si visita i pochi luoghi dove si è cercato di mantenere o ricostituire il frutteto castanile nel suo aspetto originale – Soazza, Lostallo, Lodrino, Vezio e Aranno per citarne alcuni –, si resta sbalorditi nel vedere la differenza rispetto a quei castagneti abbandonati, senza un filo


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d’erba e congestionati dalla legna morta e da cespugli e giovani alberi cresciuti spontaneamente, ormai tanto diffusi da essere diventati la norma per i nostri occhi. Non devono stupire quindi i dati sullo stato di salute dei castagni monumentali censiti, che dimostrano una correlazione inversa tra le condizioni fitosanitarie e la presenza di giovani alberi concorrenti nelle immediate vicinanze. I pochi monumentali che godono ancora di buona salute sono per lo più situati su terreni gestiti, dove beneficiano di periodiche potature e ricevono la piena luce del sole (Vedi pagine 42–43). Tutti gli altri invece, abbandonati dall’uomo, si ritrovano presto assediati dagli alberi concorrenti, nell’ombra del fitto bosco e in condizioni troppo dissimili da quelle

cui erano abituati. Così ritornano mestamente al loro ciclo naturale, sotto il controllo del proprio orologio biologico, costretti a sopravvivere senza alleati ben oltre i limiti della loro naturale senescenza. In generale si osserva quindi uno stato fitosanitario già precario e per di più destinato, in assenza di interventi di salvaguardia mirati, a peggiorare rapidamente nel prossimo futuro. Fra estetica, memoria e morte Abbiamo quindi un patrimonio straordinario di castagni monumentali ma seriamente minacciato dall’incuria tanto che si prevede una severa riduzione numerica nei prossimi decenni. Molti alberi inventariati sono decrepiti, alcuni persino morti in piedi o ridotti

al solo ceppo cavo. Si è voluto infatti censire senza eccezione anche gli individui più compromessi onde rispettare unicamente il criterio di selezione dei 7 metri di circonferenza minima del tronco. Quest’approccio ha permesso di ottenere un quadro realistico della situazione, vale a dire una banca dati pressoché completa che documenta stato e distribuzione dell’intera popolazione, e non una collezione di alcuni esemplari scelti in base a discutibili argomenti estetici. Si è trattata di una scelta non facile poiché ci distanziava dalle metodologie più diffuse e ci obbligava a censire anche alberi talmente malridotti da risultare poco monumentali. Eppure con l’avanzare della ricerca abbiamo vissuto un progressiva


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Cevio, in località Brüiè. Circonferenza del tronco 7,00 m. Castagno ormai completamente morto poiché sopraffatto dalla concorrenza dei giovani alberi circostanti Fotografia di Patrik Krebs/WSL

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Buseno. Una veduta all’interno di una grande cavità nel tronco di un castagno con circonferenza del fusto di 8.56 m. Il diametro interno di questa cavità è di circa 2 m. Questa cavità è utilizzata come capanna o ripostiglio accessibile attraverso una porta in legno Fotografia di Patrik Krebs/WSL

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Mosogno (Oviga), 1933. Fotografia di Rudolf Zinggeler

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Mosogno (Oviga), 2007. Si tratta del medesimo albero ritratto nella fotografia 3. In ben 74 anni si nota solo una riduzione del volume della chioma e della superficie della corteccia vitale. Ma per il resto la sagoma dell’albero si è mantenuta pressoché identica, solo un po’ più pendente verso valle a causa di un progressivo cedimento strutturale, come un vecchio che s’ingobba sotto il peso degli anni Fotografia di Patrik Krebs/WSL

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Personico. Disegni e incisioni del tempo sul legno morto di un vecchio castagno Fotografia di Patrik Krebs/WSL

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Un vecchio tronco diventa dimora e microcosmo essenziale per molte forme di vita Fotografia di Pino Brioschi

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trasformazione della nostra sensibilità estetica: mentre inizialmente apprezzavamo soprattutto i castagni più sani e vigorosi, in seguito abbiamo sviluppato una profonda affezione anche per i più derelitti. Tale rivalutazione si spiega forse riesaminando il concetto stesso di monumentalità. L’aggettivo monumentale discende dal latino monumentum che poteva indicare, oltre al ricordo stesso, anche delle costruzioni atte a destare la memoria di fatti, persone o divinità, soprattutto con l’impatto visivo delle loro forme e dimensioni e con l’incorruttibilità della loro durevole materia e presenza. Quindi non basta che l’albero monumentale possieda forme e dimensioni fuori dal comune, altrettanto importante è la forza evoca-

tiva e commemorativa che si sprigiona dalle sue apparenze, ossia la capacita di costringere l’osservatore a ricordare. In questo senso anche un vecchio castagno scheletrito, ormai ridotto al solo tronco inferiore, una colonna spezzata di legno tormentato e consunto, pur avendo perso qualcosa in grandezza ed elevazione, assume una voce persino più grave e impressionante capace di rapirci d’improvviso e condurci nel lungo viaggio mnemonico della sua esistenza ormai sfinita. Sì, perché l’albero morente ha un fascino ulteriore, come una frase sussurrata sul letto di morte. Per non parlare della spettacolarità della sua morte. Non si tratta di un evento breve. Tutt’altro! La sua vecchiaia può superare facilmente l’intera durata della

nostra vita. Un tempo lunghissimo durante il quale le parti morte e cave invadono progressivamente la scena giustapposte ai comparti vitali, offrendosi come nutrimento e rifugio per tutto un pullulare di nuove creature. Il vecchio tronco diventa così dimora e microcosmo essenziale per molte forme di vita: un biotopo in miniatura e addirittura l’intera nicchia ecologica di certi insetti. Una coesistenza di vita e morte che ci impressiona anche perché rispecchia in qualche modo la nostra condizione umana. Per di più nel caso del castagno la sorte della specie è intimamente connessa con quella della nostra civiltà alpina. Si tratta quindi di alberi che per davvero hanno fatto la storia, la nostra ancor più che la loro.

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Distribuzione dei castagni monumentali Nel Canton Ticino e nel Moesano i 315 castagni monumentali inventariati sono distribuiti in maniera eterogenea all’interno dell’area castanile, con una evidente maggiore concentrazione sui terrazzi delle valli Maggia, Riviera, bassa Leventina e media Mesolcina. Mappa elaborata dall'Istituto WSL, Bellinzona

Reportage

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Per maggiori informazioni: Internet: www.wsl.ch/bellinzona/attivita/ricerca/progetti/incorso/monumentali Sito dell’inventario dei castagni monumentali del Canton Ticino e del Moesano (in italiano e in tedesco), con un documento di 17 pagine scaricabile che descrive l’aspetto e la localizzazione di oltre 100 esemplari tra i più significativi. Approfondimenti: Krebs P., Fonti P., 2004, “Ma quanto sono vecchi?” in Forestaviva, n. 32, pp. 18–19 Krebs P., Conedera M., 2005, “L’inventario dei castagni monumentali del Ticino e del Moesano” in Dati. Statistiche e società (trimestrale dell’Ufficio di statistica del Cantone Ticino), anno V, n. 4, pp. 102–118 Krebs P., 2006, “Dai prodigi arborei alla storia culturale” in Crivelli P. (a cura di), L’albero monumentale, Museo etnografico della Valle di Muggio, pp. 97–123

Krebs P., Moretti M., Conedera M., 2007, “Castagni monumentali nella Svizzera sudalpina. Inventario e caratteristiche distributive” in Sherwood. Foreste ed alberi oggi (mensile d’informazione tecnica sull’albero, l’arboricoltura da legno e la foresta), volume 138, anno 13, n. 10, pp. 5–10 Krebs P., Moretti M., Conedera M., 2008, “Castagni monumentali nella Svizzera sudalpina. Importanza geostorica, valore ecologico e condizioni sanitarie” in Sherwood. Foreste ed alberi oggi, volume 140, anno 14, n. 1, pp. 5–10 Biografia dell’autore Patrik Krebs, nato nel 1970, ha studiato geografia a Friburgo. Dal 2003 lavora come ricercatore presso l’Istituto federale di ricerca WSL soprattutto nel campo della geografia storica. Fra i temi prediletti, oltre ai castagni monumentali e la storia della castanicoltura, la protoindustria del carbone di legna e i diversi impieghi del fuoco nelle culture alpine tradizionali.


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Animalia

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Il gatto ci è prossimo eppure lontano. Ci è prossimo perché frequenta la nostra casa, miagola flebile ai nostri piedi e con la coda diritta ci si strofina alle gambe, accettando talora le nostre carezze. Ma come lo carezziamo, già ci appare lontano: il piacere che egli dimostra al contatto della nostra mano (mentre i peli gli diventano elettrici e dentro stranamente gli gorgogliano le fusa) è eccessivo, sensuale e quasi peccaminoso. Perfino le rare volte in cui, per uno slancio inatteso, giunge a lambirci, la sua benignità è smentita dalla lingua raspante. Poi, bruscamente distratto, ci abbandona balzando sul davanzale dove, estraneo, arrotonda il dorso ai raggi del sole. Il gatto è mal conosciuto dagli uomini, sempre superficiali quando non li spinge il profitto, né li pungola la paura. Si crede d’aver provveduto alla piccola divinità felina che frequenta la nostra casa, sacrificandole un po’ del latte mattutino e gli spiccioli per il polmone. Certo il gatto mangia il polmone e beve il latte, come i cinesi, passata l’alluvione, si gettano avidamente sui fili d’erba e la corteccia degli alberi, ma il latte di mucca nuoce ai felini ed il polmone, elastico e crudo, invece di nutrirli, li contagia di tubercolosi. Si dice: “Tanto ci sono i topi…”. Non è vero, il gatto non li mangia: cacciatore sovrano, ama l’agguato e la lotta, ma, uccisa che sia, ignora la preda e disdegna di nutrirsene. È giusto quindi se, affamato, ruba. Il gatto è mal conosciuto e misterioso. Il suo mistero è duplice: vive di notte e sta ai margini dell’inferno. Di giorno conosciamo un gatto assonnato, di giorno la sua pupilla verticale è appena tracciata, come il nostro occhio diventa orizzontale e appena visibile tra le palpebre cascanti, quando è tarda ora. È quello invece il momento in cui la pupilla felina è tonda, avida e accesa, perché il sole è calato. Noi andiamo a dormire e dal suo mondo ci giungono di tanto in tanto gemiti di femmine in amore, urla di maschi in battaglia: sono grida che ci danno un brivido, mentre ci rivoltiamo nel letto, sono grida che non corrispondono al miagolio flebile del gatto mattutino, quando, strofinandosi alle gambe, ci chiede il nostro sacrificio di latte. Sono grida infernali, perché il gatto vive ai margini dell’inferno.

Il gatto un racconto inedito di Piero Scanziani

V’è un inferno dentro di noi, che si agita nelle nostre viscere, un inferno lussurioso e collerico, sontuoso e patetico. Ma v’è un inferno sotto ai nostri piedi, un inferno animale che brulica immondo sotto le nostre case dove si cela, divora, ingrassa e prolifera il mondo sorcino. Il topo ha i sensi perfetti: vede benissimo alla luce come al buio, ode fin l’impercettibile con il suo orecchio mobile, mangia tutto, ingrassa ovunque, sopravvive ad ogni cosa, si moltiplica geometricamente. È un prediletto della natura. Intelligente, astuto, prudente se solo, coraggioso in gruppo, capace d’attaccare e d’uccidere i grossi cani, di divorare le carni vive dei bambini in culla e dei vecchi nel sonno. I sorci sono una sterminata schiera d’abissali creature brulicanti, un popolo infero e astuto, pronto a sostituirsi all’uomo. Non siamo riusciti a distruggerlo con le trappole, né coi veleni, non con le epidemie artificiali, non coi gas tossici. Ai margini di quest’inferno (peggiore dei dinosauri, delle tigri, delle bombe), ai margini di simile bolgia davanti alla quale fuggiremmo terrorizzati, il gatto solo rimane e l’affronta e l’arresta. Perché là dov’è il gatto, il sorcio si ritira: se ne va al solo odore del felino, per un ribrezzo ancestrale che coglie il suo viscere di topo. È il gatto, fermo davanti alla sozzura, che ce ne salva. In verità il gatto è una sentinella ed un guerriero, unisce la forza alla grazia, all’astuzia la pazienza. Il gatto di razza è splendido, ma qualsiasi gatto è nobile. V’è il cane bastardo: il gatto non lo è mai. Il gatto ha sul cane una superiorità estetica: nessun cucciolo puro è bello quanto un micino da strada. Il gatto è un guerriero, perciò la sua zampa morbida nasconde l’artiglio, perciò è insofferente e se lo aduggiamo, scudiscia l’aria con la lunga coda. È un guerriero e va onorato. Onoriamolo nelle mostre feline dove s’acconcia al cuscino ed al nastro, onoriamolo nelle nostre case, rispettandone l’indipendenza, onoriamolo evitandogli il furto e la mendicità, onoriamolo nella sua maternità esemplare. Onoriamolo questo guerriero mal conosciuto, disconosciuto, che cammina flessuoso e indolente, tanto da non lasciar dubitare a nessuno ch’egli è di vedetta ai margini d’un mondo di spaventi, di vedetta alle soglie dell’umanità.

» illustrazione di Valérie Losa

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«Per quel che riguarda le scarpe sono insaziabile.»

«Anche a tavola.» Whitney Toyloy, Miss Svizzera 2008

Léger. Tanto gusto, niente rimpianti.


Il Sole transita nel segno dello Scorpione dal 23 ottobre al 22 novembre Elemento: Acqua - fisso Pianeta governante: Marte e Plutone Relazioni con il corpo: organi genitali Metallo: ferro Parole chiave: segretezza, riservatezza, profondità, trasformazione

» a cura di Elisabetta

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A metà mese Venere inizierà a essere in quadratura per i nati nella prima decade. Durante questo transito possibile un incremento delle relazioni sociali, con conseguente riduzione dell’attività lavorativa… Ricordate: prima il piacere, poi il dovere.

Mentre Mercurio di transito nella seconda casa solare vi spinge a interessarvi a questioni finanziare, Venere in transito nella quarta casa solare tende a sviluppare alcuni dissapori tra la vostra famiglia di origine e il vostro partner.

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Grazie all’ingresso di Venere, i nati in aprile potranno contare su di una serie di incontri fortunati, sia sul piano professionale sia su quello sentimentale. Senza fare sforzi particolari riuscirete a realizzare le vostre aspirazioni. Qualche momento di scarsa lucidità mentale.

Grazie ai transiti di Mercurio e Urano vi sentite attivi e svegli intellettualmente. Tutto avrà sapore di novità e non correrete il rischio di annoiarvi. I nati in novembre si daranno un gran da fare per convincere gli altri sulla bontà delle proprie opinioni.

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A causa del transito di Marte possibile un calo energetico, dovuto a stress ma anche a una forte slatentizzazione di alcune tensioni con il partner. Cercate un sano confronto, evitando di esagerare con le parole. Controllate la vostra aggressività.

Grazie all’ingresso di Marte, si apre un periodo positivo nelle relazioni con il prossimo. L’importante è che le vostre azioni siano calibrate verso il raggiungimento di un obiettivo ben determinato. Maggiore cautela per i nati tra l’8 e il 9 dicembre.

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Grazie a una Venere birichina, i nati nella prima decade saranno coinvolti nelle relazioni sociali e nelle questioni di sesso. State attenti a non esagerare con la cattiva alimentazione, evitando di mangiare troppo. Incrementate l’attività fisica.

Periodo magico per i nati della prima e seconda decade. Venere e Giove promettono grandi novità nel campo sentimentale. Facendo ricorso alla vostra temporanea affabilità riuscirete a evitare qualunque controversia.

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Grazie all’ingresso di Marte, i nati in luglio riusciranno a coniugare una fiammante forma fisica con una volontà implacabile. Non avrete bisogno di lottare con gli altri grazie anche alla qualità dei vostri intenti. Attenti alle chiacchiere di corridoio.

La fuoriuscita di Marte dal segno dello Scorpione può essere festeggiata con una bottiglia di champagne. Grazie alla nuova posizione, i nati in gennaio, potranno recuperare la propria forma fisica. Concedetevi un viaggio!

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Grazie al transito di Venere, riuscirete a raggiungere una buona serenità affettiva. Potrete comprendere alcuni lati imprevedibili del carattere del vostro partner. Evitate di correre il rischio di una rottura… non è proprio il momento.

Grazie al sestile con Venere di transito nella vostra undicesima casa solare, i nati in febbraio potranno iniziare una proficua attività di equipe con l’aiuto del partner. Ottimo momento per divertirsi insieme agli amici più intimi.

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La qualità nascosta dello Scorpione concerne l’aspirazione a una nuova rinascita, un ideale che, per essere realizzato, deve sempre passare attraverso una fase di distruzione, di annichilimento. L’animale scorpione talvolta, nelle situazioni di pericolo, uccide se stesso e nel farlo libera i propri poteri di rigenerazione analogamente a quanto accade con la stagione invernale, la cui opera corrode la natura in vista del risveglio primaverile. Dietro l’apparente impulso distruttivo si nasconde quindi una marcata e incessante aspirazione alla vita. Personalità difficili gli scorpioni, ma non per questo prive di innumerevoli pregi: la forza d’animo e la fermezza, ad esempio, aiutano i nati nel segno a superare le fasi più difficili della vita, spesso attraverso una visione intelligente e anticonvenzionale della realtà. Il loro magnetismo intriso di sensualità, la capacità di dare anima e corpo se coinvolti in una situazione, si coniugano alla grande forza di concentrazione e alle non di rado straordinarie facoltà di osservazione. Il tipo Scorpione, se riesce a trionfare sul proprio subconscio, può attingere a vaste energie spirituali e intellettuali mostrando dimestichezza con gli ambiti più profondi del proprio sé e rivelando una quasi misteriosa capacità alchemica di passare dai piani inferiori della coscienza ai più alti livelli interiori. Per quanto concerne la salute e la relazione con il corpo, lo Scorpione ha una forte corrispondenza con gli organi riproduttivi. Data la sua tendenza agli eccessi è consigliabile per gli interessati mantenere un comportamento particolarmente sorvegliato per quanto concerne il rapporto con il sesso ma anche con il cibo e l’alcol.

“…nascendo sì da questa stella forte”

Scorpione


Il film non è recente ma, per la qualità del messaggio e dell’animazione, vale davvero la pena recensirlo. Inoltre, è di facile reperibilità in rete. In un periodo dominato dalle megaproduzioni dell’industria cinematografica americana e giapponese, i film d’animazione francesi risaltano per intelligenza creativa e per la validità dei contenuti. La profezia delle ranocchie non fa eccezione: poetico e pregnante, il film di Jacques-Rémy Girerd, uno dei maggiori autori d’oltralpe di film d’animazione, è rivolto ai bambini come agli adulti. Il tema centrale è infatti quello della convivenza e della diversità intesa come occasione di arricchimento umano e spirituale.

Abbiamo visto per voi In breve: Ferdinand un barbuto marinaio, la moglie africana Juliette e il figlioletto Tom vivono in pace in una graziosa casetta in cima a una collina. I loro vicini di casa, i Lamotte, in partenza per l’Africa per catturare due coccodrilli, affidano la figlia Lilì alla famiglia di Ferdinand. Proprio quella notte le rane iniziano a cantare, annunciando il sopraggiungere di un diluvio universale. La soluzione viene da Ferdinand che, come un novello Noé, costruisce un arca al cui interno vengono accolti tutti gli animali. La grande pioggia arriva e il mondo resta sommerso. Nel corso della navigazione sorgono però problemi di convivenza fra i “viaggiatori”, divisi in

carnivori e vegetariani. Ma, anche grazie a una tartaruga rivoluzionaria (egregiamente doppiata da Anna Marchesini) e a un leone dotato di buon senso, la soluzione verrà individuata. I riferimenti alla Bibbia e alla Fattoria degli animali di Orwell sono evidenti, spunti a partire dai quali l’autore è riuscito a creare un film di indubbio spessore etico. Realizzate completamente a mano (sono stati necessari circa un milione di disegni), le immagini rivelano un gusto grafico raffinato, facilmente comprensibile per i bambini e arricchito da toni pastello e da un uso sapiente del chiaroscuro. La bella favola di Girerd è stata pubblicata da Einaudi Ragazzi, nella collana “Lo scaffale d’oro”.

La profezia delle ranocchie Regia: Jacques-Rémy Girerd Produzione: Esse&bi Cinematografica (Francia, 2003)

» di Fabio Martini

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Appassionati di hockey, contiamo su di voi. I sostenitori dell’hockey saranno al centro dell’attenzione quando – in occasione dell’IIHF World Championship che si terrà dal 24 aprile al 10 maggio 2009 – le squadre dei vari paesi si affronteranno per il titolo mondiale. Quale partner ufficiale della manifestazione, PostFinance sarà lieta di assistere a partite appassionanti in compagnia di tutti i tifosi. Per maggiori dettagli: www.postfinance.ch/hockey

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Accompagnati meglio.


Âť illustrazione di Adriano Crivelli


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in giada • 46. Il felino del Bengala • 47. Dubitativa • 49. La Silvia vestale • 51. Minerva nel cuore • 52. Un film di fantascienza di Ridley Scott • 53. Spagna e Austria.

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11 lingue in oltre 40 paesi

1. Noto film di Steno con Alberto Sordi • 2. Decreto liberatorio • 3. Rimorchi • 4. Il nome di Fleming • 5. L’ha buono chi ha fiuto • 6. Il nome di Pacino • 7. Razza • 8. Non è una dote del bugiardo • 9. Inghiottire • 13. Andato a male • 17. Il nome di Steiger • 22. Luce centrale • 23. L’alieno di Spielberg • 25. Cons. in socio • 28. Irritazioni cutanee • 29. Attimi • 33. Ricavata, tratta • 34. Frutto autunnale • 36. Addizionare • 37. Apportatori, precorritori • 39. Prep. semplice • 41. Oscure • 48. Palo centrale • 50. Pena nel cuore.

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1. Bruciarsi • 10. Monte ticinese • 11. Il bel Delon • 12. La pigna tropicale • 14. Un laureato • 15. In nessun tempo • 16. Famelico • 18. Razza, progenie • 19. Articolo romanesco • 20. Il marito della reine • 21. Case diroccate • 24. Tiro centrale • 25. Proprio così!

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• 26. Grosso camion • 27. Priva della vista • 30. La bevanda che si filtra • 31. Attraversa Berna • 32. Quando è vuota si è al verde • 35. Ama Tristano • 38. Due al cubo • 40. Può esser delicato • 42. La residenza dell’odalisca • 43. Gioca il derby con il Milan • 44. Ricordati • 45. Dittongo

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La soluzione a Epigoni è: Memorie di una contadina di Lev Tolstoj e T.A. Kuzminskaja (Casagrande, 2008). Il vincitore è: L.A., Italia.

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