Ticino7

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L’appuntamento del venerdì

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numero

LA BABELE DELLA GASTRONOMIA Agorà - La trappola dello stereotipo Arti - Stalker o la guida dell’anima Tendenze - 10 corso como Corriere del Ticino • laRegioneTicino • Giornale del Popolo • Tessiner Zeitung • CHF. 2.90 • con Teleradio dal 14 al 20 dicembre


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numero 51 12 dicembre 2008

Impressum Tiratura controllata

Agorà La trappola dello stereotipo

DI

NICOLETTA BARAZZONI

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Animalia L’usignolo. Un racconto inedito

DI

PIERO SCANZIANI

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Arti Cinema. Stalker o la guida dell’anima

DI

DAVIDE STAFFIERO

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90’606 copie

Chiusura redazionale

Società Relazioni. Amori metropolitani

Editore

Scienza Sulle Alpi. Viaggiare nel tempo

Direttore editoriale

Kalendae Avvento

DI

FRANCESCA RIGOTTI

Capo progetto, art director, photo editor

Vitae Anita Spinelli

DI

FEDERICA BAJ

Venerdì 5 dicembre Teleradio 7 SA Muzzano Peter Keller

Adriano Heitmann

Redattore responsabile

DI

DI

VALENTINA GERIG

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MARCO FERRARI

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Reportage La Babele della gastronomia

DI

FEDERICA BAJ

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Fabio Martini

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10 12 14 16 41 50

Coredattore

Tendenze Shopping. 10 corso como

Concetto editoriale

Astri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Giochi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Giancarlo Fornasier IMMAGINA Sagl, Stabio

Amministrazione via San Gottardo 50 6900 Massagno tel. 091 922 38 00 fax 091 922 38 12

DI

MARISA GORZA

........................................

Direzione, redazione, composizione e stampa Società Editrice CdT SA via Industria CH - 6933 Muzzano tel. 091 960 31 31 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch

Stampa

(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

Libero pensiero

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In copertina

Johann C. Volkamer, Nuernberg, Eredi J.A. Endter, 1713 circa Fotografia di Adriano Heitmann

Guardavo due campi di asparagi. Uno coltivato biologicamente. L’altro era brutto. Davanti alla mia perplessità Federica, la coltivatrice di asparagi, disse interpretando il mio disappunto: “Kalós kai agatós”. Senza mettermi in imbarazzo subito tradusse: “Bello è buono, dicevano i greci”. La giovane accompagnatrice di Cantello destò la mia curiosità e mi permisi di chiederle quale fosse la sua formazione, la sua altra professione. Studi classici. Giornalismo nel quotidiano della provincia. Otto anni di cronaca locale, finiti con disgusto per il mestiere. Il nuovo Ticinosette aveva poche settimane di vita. Nuovo. Sulla carta la rubrica Gastronomia era ancora orfana di padre e madre. Non è facile, dicevo. Ricca è la letteratura sul tema: nei settimanali ricette ovunque, reportage di ristoranti che segnano il passaggio dell’esperto dopo lauta cena offerta, curriculum autoreferenziali di cuochi

celebri nonché locali, cucina molecolare, cucina vernacolare e quant’altro. Difficile, dicevo, scrivere su un tema così inflazionato. Eppure la gente mangia, anche i lettori di Ticinosette mangiano. E allora? Allora perché non ci spieghiamo come mai, anche nei migliori locali non si trova un coltello che tagli alla perfezione, un bicchiere giusto per il vino giusto, un contorno decoroso che quando è asparago sappia davvero di asparago? Fu così che esitante Federica Baj prese forchetta e penna per esplorare con l’occhio di un neofita il mondo del cibo buono perché è bello, del cibo povero perché è la nuova ricchezza, del cibo salutare perché consapevole. È giunto il tempo per noi di proporre temi sulla gastronomia e sfogliando Ticinosette rivisitare il millenario sapere sull’alimentazione divenuto cultura. Buona lettura. Adriano Heitmann


La trappola dello stereotipo

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Agorà

Strategie mentali, scorciatoie di pensiero che ci proteggono e allontanano da ciò che non conosciamo poiché estraneo alla nostra tradizione o cultura. Lo stereotipo è il segno di una resa culturale in quanto ci impedisce di superare il luogo comune, isolandoci dagli altri e dalla realtà

oland Barthes, semiologo e studioso dei fenomeni legati alla comunicazione e alla pubblicità, ci spiega che quando dobbiamo definire la specificità di una cultura tendiamo a ricorrere agli stereotipi. In altre parole, significa che facciamo riferimento a delle immagini semplificate e sommarie, attraverso le quali definiamo un paese, un popolo, un gruppo sociale, un individuo. Anche altri studiosi, che si occupano di comunicazione e linguaggio, concordano nel sostenere che il concetto di stereotipo si configura come un insieme di rappresentazioni ipersemplificate della realtà e di opinioni rigidamente connesse tra loro, che un gruppo sociale attribuisce a un

altro. La radice stereo deriva dal greco, e significa rigido, fermo, fisso, stabile. L’uso del termine risale invece al 1700, quando veniva utilizzato dai tipografi per indicare la riproduzione, tramite lastre fisse, delle stampe. Introdotto per la prima volta nelle scienze sociali da Walter Lippmann, nell’ambito di uno studio sui processi di formazione dell’opinione pubblica, lo stereotipo viene definito in psicologia come un’opinione precostituita che sintetizza forme schematiche di percezione e di giudizio, relativi ad attributi personali di un gruppo umano, generalmente tratti di personalità, ma anche a comportamenti o aspetti legati al profilo biologico e genetico.


Gli stereotipi, come molte altre espressioni legate all’uomo, sono delle convenzioni, delle strutture di pensiero arbitrarie che ci vengono tramandate come se il mantenerle in essere ci difendesse da quello che non conosciamo, ma soprattutto ci differenziasse dall’altro in quanto diverso/opposto da/a noi. Attraverso la loro rappresentazione evitiamo il confronto analitico e l’approfondimento con il soggetto, o l’oggetto in discussione, traendo delle conclusioni limitate il cui risultato è quello di ridurre

la complessità del sociale. Certamente lo stereotipo ha anche una valenza positiva in quanto il suo valore simbolico contribuisce, forse più dell’insegnamento della cultura, a tramandare ma soprattutto a comunicare alla memoria, sia nello spazio sia nel tempo, oggetti e fatti che sono poi riconosciuti dai membri del gruppo. In altre parole, concorre al rafforzamento della memoria storica proprio per la facilità con cui lo si immagazzina negli scaffali della rappresentazione collettiva. Come brevi spezzoni di storia, o meglio, come fotogrammi mentali, gli stereotipi si radicano nel tessuto di una data popolazione che proprio in base ad essi può essere identificata e riconosciuta sia

dall’esterno sia dall’interno. Onnipresenti nel sistema sociale, li si riscontra innanzitutto nella lingua attraverso la quale essi traducono e rappresentano una percezione prestabilita e, ovviamente, stereotipata delle cose.

Buoni o cattivi Il problema è che spesso la loro connotazione è negativa. Infatti induce alla derisione e alla banalizzazione di una determinata cultura o di un determinato gruppo. Affermare che tutti gli avvocati sono disonesti esprime una generalizzazione stereotipata della categoria, così come sostenere che i belgi sono sporchi, le ragazze svedesi facili, gli inglesi freddi, gli ebrei avari. Anche quando diciamo moglie e buoi dei paesi tuoi azioniamo il dispositivo popolare che si riferisce ad altre culture, alludendo a qualcosa di negativo. Ci sono tuttavia riferimenti a stereotipi positivi come la gentilezza e il romanticismo dei francesi, la bellezza delle donne italiane, la neutralità degli svizzeri che li rende caritatevoli (e addirittura immacolati), o l’ospitalità dei greci. Lo stereotipo di genere, ad esempio, classifica la donna come colei che ha intuito e sensibilità e l’uomo come colui che non esterna le sue emozioni. Gli stereotipi sono dunque delle rappresentazioni che riducono, e allo stesso tempo classificano, in categorie di pensiero rigide, tutta una serie di oggetti o di individui, imprimendo attraverso enunciazioni e metafore, modi di dire ed espressioni. Ma è corretto ed è collettivamente un segno di evoluzione (e di superiorità) ricorrere a tali rappresentazioni per definire l’identità di un gruppo, che non dovrebbe essere descritta solo attraverso la supposta oggettività di una determinata caratteristica? E inoltre, l’identità, in quanto dato di riconoscimento e appartenenza, non dovrebbe essere racchiusa nella coscienza soggettiva ed essere rispettata senza che questa diventi oggetto e motivo di squalifica o peggio ancora di giudizio, anche se esso si manifesta nella sua benevolenza?

Io non sono razzista però… Lo stereotipo si aggancia a rappresentazioni mentali molto rigide legate ai cosiddetti luoghi comuni. Esso è spesso sinonimo di pregiudizio che si presenta sovente come una tra le forme mentali più pericolose. Infatti la formazione dello stereotipo è strettamente legata a quella di pregiudizio poiché spesso sfocia in comportamenti razzisti con la tendenza ad aggredire l’immagine altrui. Esso si trasforma così in una porzione di falso

sapere che utilizziamo per respingere e annullare la realtà sociale di un gruppo, vissuto come pericoloso o antagonista. Nell’etichettare qualcuno evitiamo di mettere in rilievo (etichettare significa anche celare una parte) i valori della cultura alla quale ci stiamo riferendo, con lo scopo di nascondere qualsiasi aspetto positivo potenziale della persona presa di mira.

Qualche studio Lo stereotipo, in ultima analisi, schematizza e cristallizza una realtà in movimento rifiutandosi, al contempo, di cogliere l’evoluzione che contraddistingue lo stesso gruppo bersaglio. Il passaggio dal termine nero ad afroamericano simboleggia una trasformazione nella percezione dei coloured nella società americana. La tensione tra queste rappresentazioni sociali alternative è stata analizzata da due studiosi (Katz e Braly, 1933) per mostrare che i soggetti si differenziano in base al nome utilizzato. Un’analisi successiva ha portato a tre scale compatibili di stereotipi: positivo, negativo e violento. Gli esperimenti di Katz e Braly hanno dimostrato che con l’evoluzione della società gli stereotipi si fanno sempre più fluidi e moderati. Essi chiesero a un campione di cento studenti dell’Università di Princeton di accordare a ogni gruppo etnico alcune caratteristiche salienti, scelte in una lista prestabilita. Si registrò un notevole consenso con punte elevate su alcuni tratti. Ad esempio, per oltre il 75% i neri erano giudicati pigri e superstiziosi, i tedeschi scientifici, gli ebrei avari, ecc. Lo stesso esperimento fu però ripetuto, sempre a Princeton, negli anni Settanta, da Karlins. Il quadro che si presentò era assai diverso. Gli stereotipi c’erano sempre, ma le percentuali d’accordo non avevano più punte così alte. I nuovi soggetti dimostravano di possedere una visione più complessa e meno rigida. Un’ulteriore analisi ha confermato che i soggetti che hanno utilizzato il termine afroamericano percepiscono il gruppo in modo più positivo che quelli che hanno utilizzato il termine nero. Interpretando grossolanamente e senza avere accesso a dei dati empirici, si potrebbe affermare che il linguaggio e la terminologia, utilizzati per descrivere qualche cosa o qualcuno, ne determina la sua classificazione in buono o cattivo, bene o male, positivo e negativo. La trappola di questa tipologia ci riporta alla lunga storia dell’isolamento che ha diviso il mondo e che non ha aiutato il dialogo interculturale, il riconoscimento della diversità e il multiculturalismo.

Agorà

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» di Nicoletta Barazzoni; illustrazione di Danila Cannizzaro

Convenzioni arbitrarie


Animalia

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L’usignolo è soltanto un uccelletto di pochi grammi, eppure da secoli gli uomini l’hanno posto dentro un mausoleo d’ipocrisia. Le signorine colte e vecchiotte sono sempre pronte a esclamare, gli occhi al cielo: “Oh, il canto dell’usignolo!”. Certi signori, che parrebbero tanto seri ma che nell’intimo sono languorosi, quando capita loro d’innamorarsi scrivono lunghissime lettere in cui mescolano la morte con gli angeli, il diavolo con gli usignoli. Perfino coloro che vanno all’opera per ascoltarvi i melodrammi, quando si ritrovano nel ridotto dopo l’esordio del nuovo soprano, si stringono le mani l’un l’altro dicendosi: “Che voce! Un usignolo, assolutamente un usignolo!”. In verità ben pochi sanno come canta l’usignolo, bestia notturna: qualche naturalista, qualche contadino. Nottetempo, infatti, le signorine colte e vecchiotte russano strepitosamente; i signori tanto seri, ma dentro languorosi, dopo cena si tolgono le scarpe e, in pantofole, tirano i conti di cassa; gli appassionati del melodramma, dopo aver resistito a Wagner per ore e ore, se ne tornano a casa sbadigliando con tutte le ganasce e non pensando certo di porsi in giro per le campagne, in cerca d’usignoli. L’usignolo è simile al levar del sole, di cui tutti dicono mirabilia, ma nessuno s’alzerebbe due ore prima per andarselo a vedere e ci sarebbe rimasto in sospetto, come ogni ipocrisia collettiva, se non ci fosse avvenuto di leggere nei Fioretti di San Francesco d’una singolare tenzone, svoltasi nel bosco di Santa Maria degli Angeli, fra il Poverello e un usignolo. Il Giullare di Dio cantava le lodi del Signore e il rosignolo taceva, poi era l’uccello a cantare e taceva il Santo. “Et cusi cantando mò l’uno mò l’altro, andaruno in questa delectazione spirituale insino al vespero”. E, alla fine, Francesco si rivolse a Frate Pecorone per dirgli: “In verità te confesso, frate, che nella laude di Dio el ruscignolo m’a vinto”. Così in una notte di maggio ci trovammo ai piedi di una collina, ove solitamente cantava un usignolo che (ci dissero) era il migliore di quelle parti. Era una notte tersa e senza luna. Nel silenzio s’udì un trillo. Era il solito trillo d’ogni uccello che canta. Un bel trillo,

L’usignolo un racconto inedito di Piero Scanziani

pieno, ricco, ma non tale da indurre qualcuno ad accorrere fino ai piedi di quella collina, salvo degli ingenui come noi, che ora ci trovavamo in piena notte e in piena campagna, con la prospettiva d’un paio d’ore di cammino per rincasare. L’usignolo ripeteva i suoi trilli, modesti. Trillò ancora, poi all’improvviso cantò. Inaspettato, riempì la notte e annichilì ogni nostro pensare. Non era un canto d’amore, non ambiva a tepori nidiacei, non chiedeva nessuna voluttà. Era un canto perfetto, cristallino e sagace, come un poema in cui ogni sillaba è calcolata. Non si rivolgeva a femmina, non aveva angosce né singhiozzi. Era puro, d’un calore bianco, tutto verità, preciso come un pensiero diritto e senza enfasi. S’interruppe, brusco com’era nato. Nel silenzio andavamo ritrovando noi stessi e la collina. Ma subito ricominciò, senza darci requie. Ricominciò là dove aveva finito, tuttavia con un altro tono, da prima sommesso, poi elegiaco, quindi dolente per un paradiso perduto, il comune paradiso smarrito e sempre cercato, ma non era in nessun luogo, in nessuna parte. Paradiso perduto, perduto (l’invocazione si ripeteva eguale), perduto, perduto paradiso. Tacque, senza bruschezza, tanto che il fremito continuò nel silenzio, tardo a ricomporsi. Sopra di noi il firmamento scintillava alto nella sua sterminatezza. Il cantore riprese, sommesso e parlava di cieli lontani, promessi, domani ritrovati. Poi s’animò, rapido e appassionato, con una voce che non può venire da un uccelletto di pochi grammi, con una voce che non è terrestre, una voce che nessuna creatura possiede, per quanto alata. La magia riempiva la notte e ci riempiva di pianto, giacché San Francesco aveva ragione e il rosignolo non ha uguali, nella laude di Dio. Rincasammo all’alba e le due ore di cammino ci furono lievi. Nel letto ci domandavamo come mai ancora sussista la razza degli usignoli, creature che cantano nella notte, quando affamati si muovono i gufi, le civette, le faine, le bisce che gli danno la caccia, mille bestie che la magia del canto non arresta, anzi richiama. Nondimeno, contro natura, egli s’offre in sacrificio, per trasmettere il proprio messaggio.

» illustrazione di Valérie Losa

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Un mugnaio non aveva lascia-

to ai suoi tre figli che il mulino, un asino e un gatto. Le parti furono presto fatte senza neanche tirare in ballo il notaio e l’avvocato. Costoro si sarebbero mangiata in un boccone tutta la misera eredità. Questo è l’incipit di un libro, certo. Ma non quello dell’avvocato Stefano Bolla, si sentirà di azzardare qualcuno di voi. E in effetti la storia del povero mugnaio e dei suoi tre figli non lascia adito a nessun dubbio essendo tra le fiabe di Perrault una delle più note. L’operazione compiuta da Bolla è quantomai originale: riprendendo un’intuizione già nata in passato, l’autore prende spunto da Perrault e, con rigore storico e non

poca ludica immaginazione – spunti di cui la fiaba, si sottolinea, è ricchissima –, indaga il tema della satira riferita alla figura dei giuristi così come si è presentata negli ultimi quattro secoli sia nella cultura “alta” sia in quella più popolare. Quello che ne scaturisce è il profilo dell’uomo di legge proprio come si è formato attraverso i secoli nella vita quotidiana, scandita dalla cervellotica burocrazia e gli infiniti problemi legali, grandi e piccoli che siano. È in questo orizzonte “basso” che i detti, i proverbi, i racconti ironici e sarcastici, ma anche le raffigurazioni e le caricature non sono certo mancate. Così le pagine tracciano un’appassionante storia non solo dei dottori Azzecca-

garbugli di manzoniana memoria ma, soprattutto, un inedito affresco storico del mondo culturale dell’intera Europa. Un libro da leggere anche con lo sguardo, vista la presenza di oltre sessanta illustrazioni tra incisioni, disegni e dipinti a testimoniare di quanto il legame tra l’avvocato e il folclore popolare sia stato forte in tutte le realtà, soprattutto locali. E per chi si fosse scordato il testo di Perrault – meritorio di essere letto e riletto – gli allegati lo propongono sia in originale sia tradotto dallo stesso Bolla. Un modo per continuare il gioco senza fine con lo scritto: da Bolla a Perrault al lettore ai personaggi a Bolla… E riflettere, divertiti, sul giudizio e la giustizia.

Stefano Bolla L’avvocato con gli stivali. L’immagine popolare dell’avvocato e la fiaba di Charles Perrault Casagrande, 2008

» di Giancarlo Fornasier

Abbiamo letto per voi

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Stalker o la guida dell’anima

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Arti

dare un nome esatto a quello che voglio?”). Per coloro che sentono di dover colmare un vuoto insopportabile, la Zona rappresenta un miraggio di speranza. Nella Zona c’è qualcosa, e non è di questa terra. Un quid non identificabile che in più di un’occasione adombra un’essenza prossima al divino. Non è un caso se le autorità presidiano il perimetro con le armi, tentando invano d’impedire che qualcuno penetri all’interno, forse più intimorite dal richiamo che la Zona esercita sulle persone piuttosto che dalle sue concrete potenzialità. Si tratta di un territorio inconoscibile, all’interno del quale vigono regole arbitrarie e leggi incomprensibili. I pericoli sono potenzialmente mortali, perché il viaggio costringe a guardarsi dentro, obbligando a un confronto diretto con il proprio Io più profondo. Il percorso per giungere alla stanza non è uno solo, la strada è tortuosa, sempre diversa e mai quella più breve. Avventurarcisi da soli sarebbe improponibile ed è proprio a questo che serve lo Stalker. Il suo compito è quello di guidare i visitatori, proteggendoli dalle insidie del luogo. Una Una delle Polaroid presenti alla mostra Andrej Tarkovskij. Luce istantanea: figura che, alla luce della filosofia artistica di fotografie 1979–1984 (Museo Cantonale d’Arte di Lugano, 2005) Tarkovskij, può facilmente essere avvicinata a quella dell’artista, se si vuole considerare A ndrej Tarkovskij (1932– nare è la nuda natura, l’autore l’arte un terreno difficilmente definibile e 1986) è un autore nel senso prende le dovute distanze dal l’artista colui che, dotato di una sensibilità più pieno del termine. L’in- semplice intrattenimento. I diversa, vi accompagna il fruitore, nella tensità della sua arte origina protagonisti della vicenda – speranza che costui raggiunga l’emozione da una profonda esigenza spi- uno scrittore e uno scienziadesiderata. Un parallelo interessante che dal rituale, una sincera vocazione to, vessilli di due approcci alla profano scivola senza sforzo nel sacro, cominteriore che individua nella vita differenti eppure compleplici alcuni richiami biblici presenti della cinepresa un efficace stru- mentari – intraprendono un pellicola. Stando alla cultura cristiana la Fede mento di indagine dell’animo viaggio che assume presto i si avvale di ministri che fungono da intermeumano. Con Stalker (1979) contorni di un percorso filodiari; facile dunque intravedere nello Stalker il regista russo – aderendo sofico, destinato a coinvolgeuna funzione quasi sacerdotale. L’autenticità a un ritmo dilatato, fatto di re istanze comuni all’intero di tale ruolo non manca di essere messa in silenzi e morbide carrellate dubbio, quando l’ac– s’insinua nelle pieghe della Due uomini e un guida si avventurano cusa di bramare unicoscienza con delicatezza e tra i pericoli della misteriosa Zona. Devo- camente il potere getta allo stesso tempo precisione. un’ombra sull’onesta no raggiungere una fantomatica stanza do- attitudine del persoCome nel precedente Solaris (1972) lo spunto è fanta- ve si narra vengano esauditi i desideri naggio. La missione di scientifico, tuttavia il genere cui si fa carico – mosso si rivela un’altra volta mero genere umano. Lo stimolo da fede autentica, come dimostra il dolore pretesto per esplorare ben che muove i personaggi è che lo affligge – è anche l’elemento che lo altri territori. Liberatosi defi- un sentimento universale cui isola, relegandolo a outsider, eterno prigionitivamente di ogni orpello non possiamo sottrarci, niero del proprio dono. È solo e si sente effettistico e scenografico, a un’esigenza condivisa che è inutile. Nessuno gli è riconoscente, perché beneficio di una messa in tuttavia impossibile definire sono in pochi a capire che conta di più il scena essenziale dove a domi- con esattezza (“Come potrei cammino intrapreso della meta stessa.


anni Settanta, Tarkovskij affronterà due pellicole d’ispirazione fantascientifica: Solaris (1972) e Stalker, sviluppando il genere con un’intensità poetica che conosce pochi precedenti. Nel frattempo vedrà la luce anche Lo specchio (1974), un’opera di chiara matrice autobiografica. L’ostilità del governo è ormai tale che Tarkovskij è costretto all’espatrio in Europa, alla ricerca di una maggiore liberta artistica. In Italia realizza Nostalghia (1983), film che scaturisce dal malinconico ricordo della terra natia. È invece del 1986 Sacrificio, la sua ultima opera. Il regista morirà infatti di cancro a Parigi nel dicembre dello stesso anno a soli 54 anni.

Libri

Borin Fabrizio L’arte allo specchio Jouvence, 2004 300 pagine per capire il poeta russo dell’immagine, maestro e teorico del cinema spirituale, creatore di personaggi testimoni d’accusa della crisi dell’individuo e della società occidentale.

Film

» di Davide Staffiero

Andrej Arsen’evič Tarkovskij Figlio del poeta Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, Andrej nasce a Zavrazie il 4 aprile del 1932. Nel 1960 si diploma alla Scuola Superiore di Cinematografia di Mosca, presentando come tesi di laurea il mediometraggio Il rullo compressore e il violino. L’opera contiene già in nuce quelle che diventeranno le caratteristiche precipue del suo cinema: una spiccata sensibilità nei confronti della vita interiore dei personaggi unita alla forza icastica e metaforica dell’epilogo. Nel 1962 realizza L’infanzia di Ivan, il suo primo lungometraggio, un folgorante esordio che gli vale il Leone d’Oro Venezia. Nel 1966 esce Andrej Rublëv, biografia dell’omonimo pittore quattrocentesco. A seguito d’innumerevoli traversie censorie i rapporti col regime comunista s’inaspriscono, ma questo non impedisce al film di trionfare a Cannes nel 1969. Negli

Stalker Liberamente ispirato al racconto lungo Picnic sul ciglio della strada (1971) dei fratelli Arkadij N. e Boris N. Strugackij, è il quinto film di Tarkovskij. Terminato nel 1979, Stalker è anche l’ultima pellicola che il regista girò in Unione Sovietica.

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Amori metropolitani

è al contrario un momento della vita sociale. La metropolitana quindi è sì una fase sospesa, ma non d’isolamento. Il concetto stesso di trasporto implica una connotazione di passività che oggi non è più la stessa poiché la mobilità rappresenta un aspetto centrale nell’esistenza dell’uomo contemporaneo. Per farsi un’idea, il posto più vicino per una visita “underground” è Milano. Le linee sono tre: rossa, verde e gialla. Tutto questo colore è bilanciato dal grigiore dell’architettura sotterranea che, ahimè, non è particolarmente accogliente. Eppure, anche la metropolitana milanese ha il suo fascino, o quantomeno rientra a pieno titolo in un luogo di incroci e possibilità, dove si mescolano etnie e classi sociali, età e culture. Per capirne a fondo i meccanismi, non è sicuramente sufficiente un viaggio Stazione CentraleDuomo per un giro di shopping, ma una conoscenza un po’ più approfondita di un

Film

Sliding doors Grande successo di pubblico per questa pellicola del 1998 di Peter Howitt che riflette sul tema del “caso” e ne affida la metafora alle porte scorrevoli della metro. Ovvero, come una porta scorrevole ti può davvero cambiare la vita.

molto familiari, e così anche i suoi abitanti abituali. Io da un po’ di tempo ho questa “fortuna”. Il capitolo contatto, per esempio, meriterebbe un discorso a sé: nei momenti di sovraffollamento mi capita di rimanere ancora sorpresa dalla mia vicinanza con il viso dei miei compagni di viaggio. La distanza è come quella che ci potrebbe essere tra me e un ragazzo che mi piace poco prima di baciarlo, la probabilità che sia altrettanto affascinante, invece, è piuttosto remota. Le sliding doors, le porte scorrevoli come quelle del celebre film, si aprono e chiudono anche a Milano, i siti dove lasciare il proprio messaggio per ritrovare la lei/ il lui della metro sono già in funzione. Ma le storie delle metropoli straniere sembrano sempre avere quel pizzico di magia in più. Alzi la mano chi non ha sorriso e un po’ sognato lo scorso anno nel leggere la storia di Patrick, web designer americano, che incontra la sua lei con la “L” maiuscola La metropolitana: non-luogo o microcosmo tra la folla della metro di incontri mancati, sguardi fugaci e incroci di New York. La scorge da lontano, cerca batticuore? Ecco l’opinione dei sociologi e di di raggiungerla ma lei un’abituale viaggiatrice “sotterranea” scende, lui continua a pensarci, allora apre mondo che diventa microcoun sito per scovarla e aiutato dal popolo del smo a tutti gli effetti. web, la ritrova. A Milano non assicuro inconBasta lavorare dall’altra parte tri mozzafiato, non prometto anime gemelle della città e doversi fare ogni che s’incrociano riconoscendosi a un solo giorno una mezz’oretta di sguardo, ma l’umanità in tutto il suo genere, metro all’andata e al ritorno in qualche modo, insegna sempre qualcosa, perché i vagoni diventino anche se chiusa in un vagone stanco.

» di Valentina Gerig

Società

sieme alla stazione di Cadorna, i nostri sguardi si sono incrociati e mi hai sorriso. I tuoi occhi blu mi hanno scombussolato, vorrei ritrovarti”. C’era una volta il non-luogo e la metropolitana ne era l’emblema. Lo spazio anonimo per eccellenza, artificiale e transitorio, asettico e sgradevole. Per dirla come nella definizione coniata dall’antropologo francese Marc Augé, uno spazio in cui “le individualità si incrociano senza entrare in relazione”. Ecco la metropolitana oggi: un luogo “mobile” e passeggero sì, ma tra lo sfiorarsi le mani e un sorriso, le porte scorrevoli si aprono anche a colpi di fulmine tra una fermata e l’altra, entrando nell’universo del non detto, del carpe diem mancato e delle infinite possibilità del caso. A Parigi, la scorsa primavera, la Ratp, la società parigina che gestisce metropolitana e autobus, ha ingaggiato i suoi sociologi per studiare questa folla sotterranea, raccogliendo in un volume gli annunci che si pubblicano su un sito (www.paribulle.com) appositamente dedicato ai messaggi di chi desidera ritrovare la presunta anima gemella incrociata in metro. Ne sono emerse osservazioni piuttosto interessanti e attuali. Georges Amar, responsabile dello studio, osserva come sia sbagliato pensare che la situazione di mobilità sia una parentesi, un tempo vuoto:

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“Stamattina siamo saliti in-


L’ultima corsa partiva a mez-

zanotte, poco prima del coprifuoco, e su di essa viaggiavano i parigini più coraggiosi, quelli che per trascorrere qualche ora in un teatro o in un cinema rischiavano la cattura da parte delle pattuglie tedesche in rastrellamento. Certamente, qualche amore clandestino nacque, e non è un caso che proprio quel treno abbia ispirato a François Truffaut una delle sue pellicole più amate che doveva rientrare insieme a Effetto notte (1973) e al film sul Music Hall parigino, mai realizzato, nella trilogia dedicata allo spettacolo interrotta dalla morte del regista, avvenuta nel 1984. La vicenda si svolge appunto nel teatro gestito dall’attrice Marion Steiner (Catherine De-

Abbiamo visto per voi neuve) e dal marito, l’attore ebreo Lucas Steiner, costretto a vivere segregato nella cantina dell’edificio per timore di essere deportato. Ma lo spettacolo, nonostante tutto, deve proseguire. Marion decide allora di accogliere nella compagnia Bernard Granger, un brillante attore, nonché fervente antifascista, interpretato dall’allora giovane Gerard Depardieu. Fra i due si instaura una forte attrazione fatta di sguardi e vicinanze, una relazione che non giunge mai a compimento ma che rappresenta uno degli elementi portanti della vicenda. Un po’ come in Effetto notte, anche in questo caso Truffaut ci presenta la quotidianità della compagnia, con i suoi

conflitti e le difficoltà umane e professionali sullo sfondo di quello che è stato uno dei periodi più tristi della storia francese, in uno scenario segnato dal pericolo rappresentato dalle delazioni dei collaborazionisti, dalla propaganda antisemita e dalla difficile organizzazione delle attività di resistenza. A salvarci dalla tragedia restano la dedizione all’arte, la forza della fantasia e la coesione umana che nasce proprio dall’esperienza creativa. Non privo di qualche eccedenza nei dialoghi, il film è comunque condotto magistralmente oltre ad avvalersi della fotografia di Néstor Almendros e dell’ispirata colonna sonora di Georges Delerue.

L’ultimo metrò Regia: François Truffaut Con: Catherine Deneuve, Gerard Depardieu, Jean Poiret, Heinz Bennent Francia, 1980

» di Fabio Martini

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Webspecials

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alla fine di un pacifico tragitto tra i boschi su un rosso trenino a cremagliera, possa iniziare proprio dietro un grosso albergo un autentico viaggio nel lontano passato. Un percorso che, nell’arco di poche decine di chilometri quadrati, ci trascina da montagne conosciute agli abissi

al garrese, ma erano pacifici erbivori: avevano anche una grossa differenza di grandezza tra maschi e femmine”. Il numero di scheletri nella grotta fa pensare che fosse un importante punto di letargo. Come era stato un riparo per un’altra specie, qualche migliaio di anni prima: all’interno della cavità,

Il Monte Generoso e il Monte San Giorgio: luoghi vicini che raccontano una storia lontana, un sorprendente e vertiginoso déjà-vu spazio-temporale di un periodo in cui si stava compiendo una vera rivoluzione nella storia della vita sul pianeta Terra. La prima tappa è un piccolo grande luogo delle Alpi occidentali: il Monte Generoso. Sul suo versante orientale si apre infatti la “Grotta generosa”, una cavità poco profonda cui si accede solo accompagnati dai ricercatori che da tempo la studiano. La grotta è un fondamentale spaccato della vita che si svolgeva sulla montagna circa 30.000 anni fa, quando il freddo clima glaciale attanagliava come una morsa tutta l’Europa centrale. A partire dalla sua scoperta nel 1988 per opera dei due speleologi ticinesi Francesco Bianchi-Demicheli e Sergio Vorpe, la grotta ha restituito, come affermato dai ricercatori, centinaia di scheletri di iene, marmotte, alci e in particolare orsi delle caverne (Ursus spelaeus). Fabio Bona – paleontologo dell’Università di Milano che ha scritto parecchi articoli sulla grotta – li descrive cosi: “Avevano dimensioni piuttosto rilevanti, perché arrivavano a un metro e mezzo

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Sulle Alpi. Viaggiare nel tempo

È difficile immaginare che,

infatti, sono stati trovati anche frammenti di selce che risalgono a 40.000-60.000 anni fa. Appartengono quindi sicuramente all’uomo di Neanderthal, che a quel tempo dominava il continente. I nostri cugini (l’uomo di Neanderthal non è un antenato dell’uomo moderno, ma una specie diversa) utilizzavano le rocce come raschiatoi, cioè per pulire la pelle o le ossa dai residui di carne. Ridiscesi a valle, a pochi chilometri dal Monte Generoso ci tuffiamo proprio negli abissi del tempo; il Monte San Giorgio, infatti, di là dal lago rispetto al Generoso, è uno dei più importanti – probabilmente il più importante – siti paleontologici del Triassico marino. Circa 240 milioni di anni fa, qui si stendeva una laguna calda e poco profonda, popolata di innumerevoli pesci che, alla morte, avvolti dai sedimenti si sono fossilizzati. È difficilissimo trovare nel mondo siti paleontologici così ricchi, con decine di specie perfettamente conservate che disegnano l’affresco di un intero ecosistema; tanto che è definito un Lagerstätte,


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Abbiamo letto per voi

Fino

Libri

Markus Felber (a cura) Il Monte San Giorgio Casagrande, 2005 Dai fossili alla lavorazione della artistica della pietra, il volume racconta e mostra la storia di una montagna tanto importante da essere iscritta nel patrimonio mondiale dell’Unesco. Hélène Decuyper e Marco Antognini Magie di pietra Armando Dadò Editore, 2008 Pubblicazione prevalentemente fotografica, il volume realizzato dal Museo di storia naturale di Lugano fornisce un quadro completo dei principali fenomeni geologici che sono stati o sono ancora attivi nel cantone.

anni fa. Chiamato saltriosauro dal luogo della scoperta (Saltrio), dai frammenti ritrovati sembra fosse lungo almeno 4 metri e pesasse circa 500 kg. Animali così grossi non potevano sopravvivere in quello che allora si riteneva fosse la regione attorno ai grandi laghi dell’Insubria, cioè un arcipelago. Doveva esistere una terraferma molto più ampia e ricca di cibo, in cui si aggiravano animali di dimensioni anche rilevanti. Il libro racconta, dall’interno e con un linguaggio giornalistico e scientificamente corretto, una storia appassionante che non ha ancora finito di stupire l’agguerrita comunità dei paleontologi; che si aspettano ancora altre scoperte.

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Scienza

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» di Marco Ferrari

a sinistra: veduta panoramica del lago di Lugano dal Monte San Giorgio. Fotografia di Marino Foina e Vito (tratta da www.panoramio.com)

Cristiano Dal Sasso e Giuseppe Brillante Dinosauri italiani Marsilio, 2001

www.rimuss.ch

» di Marco Ferrari

un sito fossilifero completo. I pesci sono i veri protagonisti del San Giorgio e proprio in quel periodo stavano rapidamente evolvendo. Soprattutto scoprivano altre prede, come i molluschi, i cui duri gusci potevano essere spezzati da denti robusti, nuove strutture evolute dai pesci. I predatori, per così dire, avevano trovato un nuovo “ristorante” che nessuno conosceva. Ma non è finita qui: nei vari strati del sito – uno dei quali, quello a scisti bituminosi, era utilizzato per l’estrazione dell’ittiolo, un unguento per piccole infezioni – sono stati rinvenuti altre specie, come il Mixosaurus (un rettile marino), il Tanystropheus dal lunghissimo collo o il Ticinosuchus ferox, un predatore terrestre simile a un coccodrillo. Niente dinosauri quindi, le star del passato. Ma al Monte San Giorgio non se ne sente la mancanza; bastano gli straordinari ritrovamenti che fanno di questo affascinante angolo del Ticino uno dei più importanti luoghi della paleontologia mondiale.

al 1980 i paradisi dei dinosauri in Europa erano la Gran Bretagna e la Germania. Decine di specie descritte, siti paleontologici ricchissimi con fossili storici, come l’Archaeopteryx (il primo dinosaurouccello). Ma, appunto, tutto cambiò nel 1980, quando nel calcare di Pietraroja (Benevento) fu trovato uno dei più eccezionali reperti fossili del mondo. Un cucciolo di dinosauro (battezzato Ciro) che conservava ancora nella cavità toracica un tenue residuo di organi interni. Sciopionyx samniticus, ecco il suo nome scientifico, consentì di scoprire molto sulla vita di questi dominatori dell’antichità. La storia di Ciro è narrata in questo libro da Cristiano Dal Sasso, paleontologo del Museo di storia naturale di Milano il descrittore della specie (colui che ha pubblicato l’articolo ufficiale su Ciro). Aiutato dal giornalista scientifico Giuseppe Brillante, Dal Sasso percorre con gradualità la vera e propria rivoluzione scientifica avvenuta dopo una scoperta che ha portato a rivalutare anche i siti fossiliferi del nord Italia, come quelli attorno a Varese o ai confini cantonali. Qui fu trovato, nel 2000, un grande predatore molto antico risalente al Giurassico, circa 200 milioni di


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Avvento Periodo di digiuno e raccoglimento, l’Avvento esprime, nell’attesa e nella tensione fra presente e futuro, la vera essenza della festa, come ben ci ricorda Giacomo Leopardi in una sua straordinaria poesia

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to è dunque caratterizzato sì dall’atmosfera di contrizione e penitenza di cui si diceva, però anche da un’atmosfera di attesa, di anticipazione, di preparazione, nonché di speranza, simboleggiata questa volta dal verde della corona dell’Avvento e dalla luce delle candele. In questo senso l’Avvento è un tipico tempo “interstiziale”, direbbero i sociologi, è una parentesi temporale, è l’intercapedine che si apre al fenomeno eccezionale del Natale. L’attesa dell’Avvento parla di una tensione tra presente e futuro, dell’interstizio che misura il tempo necessario affinché un certo accadimento si verifichi. È l’attesa della festa che si carica di desideri, di pulsioni e di aspirazioni ideali e collettive. Come ha mostrato Giacomo Leopardi ne Il sabato del villaggio, e come ognuno di noi ha potuto verificare di persona da bambino, il punto cruciale della festa infatti è la vigilia, la fase interstiziale che la precede. Reintegrato in termini consumistici, il periodo dell’Avvento che precede la festività religiosa di Natale è diventato attesa di doni, di vacanze, di gratificazioni economiche, di consumi considerevoli. Quello dell’Avvento è un tempo speciale anche musicalmente: è un tempus clausum questa volta, che in alcuni luoghi di stretta osservanza protestante – come era Lipsia ai tempi di Bach – non permetteva l’esecuzione di cantate in chiesa perché tutto dedicato alla preghiera e al raccoglimento, chiuso alla socialità in quanto racchiuso nell’isolamento spirituale. L’esperienza dell’attesa è poi arricchita, nel periodo dell’Avvento, da rituali che ci sembrano favorire l’avvicinamento della festa: settimanali, come accendere ogni domenica una candelina in più nella ghirlanda o corona dell’Avvento; o quotidiani, consistenti nell’aprire ogni giorno uno sportello o un sacchettino contenente un piccolo dono. Un modo per concorrere ad accelerare il tempo dell’attesa, vedendo diminuire il numero degli sportellini o dei sacchetti chiusi, affrettando così coi gesti e con lo sguardo l’avvicinarsi dell’evento atteso.

» di Francesca Rigotti; illustrazione di Valérie Losa

Kalendae

Per una delle stradicciole di quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, “tornava bel bello dalla passeggiata verso casa – scrive Alessandro Manzoni nel primo capitolo de I promessi sposi – sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, Don Abbondio”. Il povero curato stava per incontrare a sua insaputa i bravi di Don Rodrigo, che gli avrebbero intimato di non celebrare le nozze di Renzo e Lucia (“questo matrimonio non s’ha da fare né domani né mai”). Per arginare la penosa situazione Don Abbondio cerca di prender tempo, di tergiversare per pochi giorni fino all’arrivo “del tempo proibito per le nozze” che gli avrebbe dato, da lì a Natale, “due mesi di respiro”. E in due mesi, si sa – pensa il personaggio manzoniano – “può nascer di gran cose”. Che cosa intendeva il nostro non proprio coraggioso canonico, “vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”, con quel tempo proibito per le nozze? Proprio il periodo dell’Avvento, consacrato dalla chiesa alla penitenza e all’orazione, non alla baldoria e ai festeggiamenti. Tant’è che il suo colore è il viola, quello della mortificazione e del digiuno. Adventus – da cui l’italiano Avvento – è il termine del latino cristiano equivalente al greco Parousìa, arrivo, venuta. Da par-eînai, essere presso, venire presso (ad-venire). Come vari altri eventi rituali – per esempio la festa pagana del Sol Invictus che si celebrava a Roma il 25 dicembre e sulla cui data si sovrappose la festa cristiana di Natale – anche l’avvento ricalca una cerimonia romana, l’adventus, nella quale l’imperatore vittorioso veniva accolto alla fine di una campagna militare. Nella dottrina cristiana il termine avvento va a designare il periodo di attesa che precede il ritorno simbolico periodico di Cristo, celebrato nella ricorrenza del suo natale, del giorno di Natale – che è una specie di festa di compleanno nel quale il festeggiato, in figura infantile, porta i doni al posto di riceverli. Ricorrenza che viene celebrata in attesa della venuta finale del salvatore e della vita venturi saeculi. L’Avven-


Abbiamo ascoltato per voi

Per una sorta di misteriosa coincidenza, in questo numero trattiamo di canto: nelle prime pagine è presente un testo, come sempre mirabile, di Piero Scanziani, che celebra il principe degli uccelli cantori, l’usignolo; qui, alcune modeste righe dedicate a un coro di giovani e giovanissimi e al loro Maestro che da quindici anni ci permettono di condividere un’esperienza di bellezza e incanto. Calicantus children’s choir (si perdoni il gioco di parole) è il loro nome, una formazione musicale ticinese a molti nota, di cui il Maestro Mario Fontana è da sempre sapiente guida. L’occasione nasce dalla recente pubblicazione dell’ultimo cd del coro, che si configura come una delle più prestigiose e valide realtà

corali giovanili del continente europeo. Il titolo, azzeccato, prende spunto da un’Ode di Henry Purcell, Come ye sons of art, away, la cui esecuzione attesta il profondo lavoro di affinamento svolto da Fontana e dai suoi ragazzi sul tema del Barocco: la sensibilità ritmica si coniuga perfettamente alla qualità delle dinamiche e degli ornati vocali. Ma procedendo nell’ascolto la sorpresa si rinnova. Sì, perché il programma, oltre al già citato Purcell e a Bach, include autori di epoche diverse: da Fauré a Dvorak, dai temi folkloristici agli autori contemporanei come Ivo Antognini, Tullio Visioli, Lennon-McCartney e lo stesso Fontana, che con la La luna di Kiev, musica un testo di Gianni Rodari, uno

dei grandi autori nell’ambito della letteratura infantile. Ma non è tutto. È evidente l’estrema cura nella scelta dei ruoli vocali che risultano perfetti in ogni brano, l’eccellente apporto strumentale e il grande impegno di affinamento affrontato da questi giovani sotto la guida di Fontana che, a partire dal 1993, anno di nascita del coro, ha diretto in questa esperienza quasi due generazioni di cantori. La musica di Calicantus commuove perché ci trasporta – e mai verbo è stato più azzeccato – in un mondo veramente incontaminato, di pura bellezza e spontaneità, qualità che solo la voce e lo spirito infantile, se ben condotti, possono trasmetterci nella loro assoluta interezza.

Calicantus children’s choir Come ye sons of art 2008 www.corocalicantus.org

» di Fabio Martini

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Per spuntini, delizie e stuzzichini.


» testimonianza raccolta da Federica Baj; fotografia di Adriano Heitmann

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mestieri di Lugano e lo studio di Guido Gonzato. Lui e in seguito Aldo Carpi, uno degli insegnanti all’Accademia di Belle arti, sono stati i miei maestri. Nel 1932 sono tornata in Ticino e ho dovuto iniziare tutto daccapo. La guerra aveva portato come conseguenza la chiusura delle frontiere. La Milano che tanto avevo amato era a due passi da casa ma allo stesso tempo era così lontana! In quell’anno ho sposato Paolo Spinelli, un ufficiale di dogana che avevo conosciuto durante una gita in montagna. Siamo venuti a vivere qui, nella tenuta di Novazzano, dove abito tutt’ora. Mio marito mi ha lasciato La pittrice di Novazzano racconta il suo sempre molta libertà per poNovecento attraverso dipinti, ricordi di tere continuare a disegnare. Pensava a tutto lui. Io avevo viaggio e quella buona dose di disincanto il tempo per fare quello che con cui ha attraversato un secolo volevo. Dipingere. Sempre e solo dipingere. È una cosa di pensavo solo a prendere il cui non posso fare a meno. Lei la definirebbe treno a Chiasso, alle cinque “un’ossessione”? Mah…no, piuttosto “un di mattina, a frequentare le bisogno”. Lo scialle per fare la fotografia? lezioni e a tornare a casa. Non lo voglio! Ecco, questa è stata la mia Dritta come un fuso. Non vita. Mi chiede se ho dei rimpianti? Mah, mi vedevo altro, non pensavo ad piacerebbe fare dei viaggi in luoghi lontani. altro. Andavo, seguivo le leMi è sempre piaciuto viaggiare. Quelli che zioni e tornavo. Dritta come ricordo con più emozione? La Cina: quel un fuso. Erano gli anni fra il giorno, alla stazione di Pechino, da sola, fra 1925 e il 1933. Tempi di granmilioni di persone che non conoscevo. La de fermento, sia dal punto di Giamaica, un paese fuori dal tempo e l’Africa vista artistico che politico e misteriosa. Poi il mio viaggio di nozze: io e sociale. Nei momenti liberi, mio marito, soli, con una Balilla in mezzo mentre aspettavo il treno per al deserto. Adesso non ho che il pensarli tornare in Svizzera, visitavo le quei viaggi ed entrano nei miei dipinti, per gallerie d’arte o mi mettevo a esempio sotto forma di spazi e di luce. Non disegnare: ritraevo le persoho pensieri ricorrenti. La prima cosa che mi ne nella sala d’aspetto della viene in mente quando mi sveglio? “Come stazione o sulla carrozza del andrà, che cosa farò oggi?”. L’ultima prima treno. Poi, proprio in quel pedi riaddormentarmi? “Come è andata ogriodo, c’era tutta quella brutta gi?”. Nient’altro. Non sogno a occhi chiusi, storia del fascismo che veniva solo a occhi aperti: un bel viaggio lontaavanti. Io pensavo a disegnano. Mi piace dipingere praterie e paesaggi re ed era proprio attraverso i sconfinati. Le montagne, quelle proprio miei disegni che si percepiva no! Lo vede quel gatto bianco ritratto? Lo il mio distanziamento. Non vede come è magro? Penserà a farsi una mi interessavano i temi in bella scorpacciata di cibo. Poi ci sono le mie voga in quel periodo. Non lo donne, quelle che ho ritratto nel corso di so come mi è venuta la pasquesti ottanta anni di pittura: ho cercato, sione per l’arte. Forse me l’ha attraverso la mia opera, di documentare la trasmessa mio papà. Lui era condizione femminile. Quelle donne curve titolare di una ditta di vini a cucire, affaticate e stanche. E poi, poi c’è la e da giovane aveva seguito donna moderna: è bella, emancipata, sicura dei corsi di disegno. Io avevo di sé. Ecco…Se mi sento una “protetta dal assimilato questo suo interesdestino”? Perché? Solo perché ho centouno se. Terminato il ginnasio ho anni? No, non saprei… Agli anni non ci ho frequentato la scuola di arti e mai pensato. Li ho. E non ci penso…

Anita Spinelli

Vitae

o un anno. Più altri cento. Mi chiede che cosa si prova ad avere superato il secolo di vita? Mah… Non lo so. In fondo è un pò come quando ne avevo novantanove… Non ho mai pensato di avere cento anni. Il fatto è che vorrei fare ancora tante altre cose. In cento anni non si può mica fare tutto. Ce ne vorrebbero mille di anni. Manca il tempo per viaggiare, per lavorare, per pensare. Un giorno senza dipingere è un giorno perso. Ancora adesso passo le mie giornate nell’atelier. Alla mattina mi alzo, vado in studio e dipingo. Poi scendo a pranzare con la mia famiglia e torno a lavorare. Fino a qualche tempo fa, nel primo pomeriggio, facevo dei gran sonni. Adesso no. Adesso torno subito ai miei colori, alle mie tele e ai miei pennelli. Mangio poco di tutto: poca carne, niente vino. Sono una persona abbastanza moderata. Lo sono sempre stata. Ora la mia vita si svolge nel breve spazio che divide la mia abitazione dal mio studio, ricavato da una parte del nostro antico caseggiato. È da lì che osservo le nuove generazioni. Ecco… Come mi immagino il futuro? Mah… Non lo so. Non ci penso. Non ci voglio pensare. Sono contenta così. Se mi volto indietro non riesco a ricordare nel dettaglio la mia vita. Gli anni che ho trascorso a Milano, quelli sì, li ho ben vivi nella mente. Come se fosse ieri. Mi ero intestardita talmente tanto con quella faccenda di Brera che mi raccontano che avevo persino minacciato i miei genitori di fare lo sciopero della fame se non mi avessero permesso di frequentare l’accademia. Ma io questa storia dello sciopero della fame non me la ricordo proprio, sa? Per tutta la vita ho sempre pensato a disegnare. Ero fra le poche donne che allora frequentavano l’accademia. Mamma e papà volevano che rientrassi a casa tutte le sere. Così, come un’operaia,

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H


LA BABELE DELLA

GASTRONOMIA

E,  , ,  ANTE LITTERAM,    . L          L ,    ,          . L       ,    –       “ ” –   , ,          T di Federica Baj fotografie di Adriano Heitmann


Reportage

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sopra: Antonio Latini, Scalco alla moderna, D.A. Parrini - M.L. Muzzi, Napoli, 1693 pagina precedente: Bartolomeo Sacchi detto il Platina, De honesta voluptate et valetudine, Venezia, L. de Aquila - S. Umbro, 1475


Reportage

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Reportage

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Discritione del Paese di Cuccagna, Bassano del Grappa, Remondini, 1730 circa


Reportage

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Reportage

46 Tacuinum Sanitatis, manoscritto, Italia settentrionale, XV secolo

O

ltre quattromila libri di cultura gastronomica, a stampa e manoscritti. In italiano, latino, francese, tedesco, inglese, spagnolo, portoghese, russo, giapponese, cinese e olandese. Guardi le immagini. Le ingrandisci con una lente. Ti sembra di entrarci dentro. Con la punta di una matita puoi tracciare un lungo itinerario da un capo all’altro del mondo che si dipana in quasi settecento anni di “letteratura” sul cibo e non solo. Non ci si deve spostare di molto però, per iniziare il viaggio e arrivare a destinazione. A pochi passi dalle luci e dal continuo via vai di gente nelle strade del centro di Lugano, la Fondation B.IN.G (Bibliothèque Internationale de Gastronomie) – l’unica biblioteca gastronomica al mondo specializzata in testi antichi, nata per iniziativa di Orazio Bagnasco – è un angolo di silenzio, di luci fioche, di odore di vecchi volumi, di pagine ingiallite dal tempo. Qui sono conservati dei veri e propri “gioielli” di letteratura, storia, arte, dietetica, igiene, agronomia, agricoltura, galateo, storia dell’alimentazione: testi che hanno come comune denominatore il cibo, la gastronomia e il suo evolversi nel corso dei secoli. Entro per la prima volta in questo tempio fatto di pagine che nella loro leggerezza si portano appresso il peso di

centinaia di anni, accompagnata da Marta Lenzi, la curatrice della biblioteca e responsabile delle relazioni esterne della Fondazione. Le luci sono soffuse, il clima è “frizzante” – il termometro appeso alla parete segna diciotto gradi – l’umidità è al settanta per cento. Ai libri “di una certa età” piace questa atmosfera, indispensabile per la loro perfetta conservazione. Nel varcare la soglia del locale di pochi metri quadrati mi si spalanca davanti agli occhi un altro mondo, parallelo a quello che ho appena lasciato all’esterno dell’edificio. Sugli scaffali è catalogata la maggior parte dei volumi mentre su alcuni tavoli, sparsi qua e là nella stanza, appoggiati ad appositi leggii, sono in mostra i volumi: quelli più rappresentativi, unici al mondo, delle vere e proprie “chicche” per i cultori della materia ma anche per chi, da profano, non può non subire il fascino di capolavori di una tale portata. Opere che hanno segnato i punti cruciali della gastronomia: prime edizioni, manoscritti, testi miniati. Li sfoglio con una certa apprensione. Si tratta di esemplari rari e bisogna fare attenzione. Anche la permanenza all’interno del locale è limitata. “In biblioteca – mi spiega Marta – ci si deve trattenere per poco tempo”. Per non alterare il delicato equilibrio ambientale, una specie di “microcosmo”


Reportage

47 Leonhard Fuchs, De historia stirpium commentarii, Basilea, Officina Isingriniana, 1542

creato a misura di libro antico. Il più datato, del 1200, è un Bando belga sulla panificazione, pochi fogli che venivano affissi all’albo dei comuni. Il volume più recente, con cui si chiude ufficialmente la collezione, è invece la prima edizione dell’Artusi del 1891: un’opera che, a detta degli studiosi della materia, ha rappresentato una vera e propria innovazione nel campo della gastronomia oltre ad essere considerata ancora oggi una “bibbia” per i cultori della buona tavola. In mezzo a questi settecento anni di carta, di cultura e di storia, l’Anonimo meridionale, un manoscritto del 1300, è un testo studiato nelle maggiori università del mondo: non un ricettario vero e proprio ma una serie di appunti, scritti probabilmente da un cuoco, che riassumevano in modo sommario la preparazione di piatti e pietanze. Alla B.IN.G è conservata una delle cinque copie esistenti sul pianeta del Tacuinum Sanitatis, splendido miniato del XV secolo che descrive, secondo le conoscenze dell’epoca, le proprietà salutari e quelle dannose dei diversi alimenti; sempre del XV secolo un Libreto de tutte le cosse che se magnano e il Taiare de cortello di Michele Chalesino, il solo manuale in lingua italiana di “trinciante” prima delle opere a stampa. Fra queste ultime, di grande rilievo, il fondo raccoglie

l’unica copia esistente dell’Ordine de le imbandisone (XV secolo), la descrizione dettagliata del pranzo di nozze di Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza e Il refugio del povero gentilhuomo di Giovanni Francesco Colle. Tra le numerose edizioni del De honesta voluptate et valetudine del Platina – il primo testo di gastronomia stampato – qui custodite, compare anche l’incunabolo dell’edizione del 1475 su cui è riportata una nota manoscritta che cita, per l’unica volta, il nome per esteso (Martino de Rossi) di Maestro Martino, considerato l'antesignano dei cuochi moderni. Della seconda metà del Quattrocento è invece il Bockhenaim, dal nome del cuoco papale alla corte di Martino V. Ne esistono solo due esemplari, di cui una è alla B.IN.G. Uscendo dalla stanza mi cade l’occhio su un fogliaccio, tutto scarabocchi e ghirigori. Quegli “scarabocchi” – mi spiega Marta – sono gli appunti che Beethoven, già sordo, usava per comunicare con il suo maggiordomo. Mi basta. La piccola biblioteca nel cuore di Lugano è uno scrigno che racchiude tesori. Marta Lenzi li custodisce, con una professionalità e una passione fuori dal comune. Lei, studi economici alle spalle, è ormai un’esperta di storia della gastronomia. Lo è diventata con l’esperienza e con il lavoro sul campo, affian-


Reportage

48 Pierre Petit, L’Art de trancher la viande, & toutes sortes de fruits, nouvellement à la françoise, senza luogo, post 1750

cando per tanti anni Orazio Bagnasco, al quale, fra l’altro, l’accomunava la stessa origine genovese. “L’ingegnere” come lo chiama ancora Marta. Colui che, grande appassionato di gastronomia e uomo di cultura eccezionale, ha voluto mettere la sua collezione privata a disposizione di studiosi e appassionati della materia. Così è nata, nel 1992, la Fondazione, la cui denominazione in lingua francese si spiega col fatto che l’idioma francofono è, ancora oggi, quello “ufficiale” del settore. “L’ingegnere – racconta Marta Lenzi – è stata l’anima della B.IN.G, nata dall’incontro di un gruppo di amici appassionati dell’argomento. E continua ad esserlo, a dieci anni dalla sua scomparsa, attraverso l’impegno della vedova, Paola Bagnasco, la quale presiede la fondazione. Il mio ricordo di lui? Un «vulcano», un uomo rinascimentale, curioso, aperto al mondo e agli altri”. La dimostrazione è questa biblioteca che avrebbe potuto rimanere chiusa e inaccessibile e invece, oggi, è meta di studiosi, studenti, giornalisti, cuochi e chef che da tutto il mondo raggiungono Lugano per documentarsi, per saperne di più, per potere sfogliare, anche solo per pochi minuti, dei testi fondamentali per i loro studi e loro mestieri. “Ciò che è cambiato nel corso dell’ultimo decennio – precisa Marta – è

l’approccio degli utenti alla nostra collezione. Fino a pochi anni fa, a occuparsi di gastronomia erano solo alcuni studiosi e appassionati. Oggi sono studenti, laureandi, docenti, storici, medici, sociologi: persone che usano la gastronomia come mezzo di comunicazione e come strumento per comprendere meglio usi e costumi sociali. Qui vengono anche molti cuochi, che io definisco «curiosamente intelligenti» e che vogliono capire come venivano impiegati gli ingredienti, quali sono stati i cambiamenti alimentari nella società, perché alcuni cibi sono scomparsi dalle nostre tavole. Le basi, insomma. E le basi della gastronomia sono proprio qui”. Nel lasciare la sede, in via Regazzoni, di questa affascinante “Babele culinaria”, passiamo dall’atrio arredato con alcune sedie in stile veneziano del Settecento progettate da Orazio Bagnasco. Marta Lenzi ci racconta delle sue spiccate qualità artistiche e del suo “genio”, da ingegnere appunto. Ci racconta del suo indimenticabile minestrone e del marchingegno che aveva ideato per preparare il pesto. Un mortaio elettrico che pestava tutti gli ingredienti – fra cui il basilico di Pra – “imitando” il movimento del mortaio a mano. Questo era l’ingegner Bagnasco. Questa la sua bibliothèque $


Dall’Italia il sistema a capsule originale Martello: per gustare tutto il piacere e la convenienza di un buon caffè.

Disponibili nei seguenti punti di vendita:

L’alternativa intelligente.


le scelte di Carla Le

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lettere “o”, come pure lo zero, sono marcate da un puntino al centro che rende la dicitura simile a cinque bersagli stilizzati e allineati. Il logo 10 corso como è certo coevo al successo del microcosmo, propulsore di idee e stili di vita, creato da Carla Sozzani all’alba degli anni ‘90. Cinque obiettivi centrati in pieno... cinque come i sensi poiché, nel noto concept store milanese, essi sono tutti coinvolti mediante svariati linguaggi e forme d’arte. Dalla fotografia ai libri rari, al design (vista), dalla musica (udito) ai profumi (olfatto), dagli abiti in limited edition agli accessori esclusivi (tatto), dalla degustazione di vini e piatti prelibati (gusto) a una tazza di tè sorseggiata in un giardino... Uno spazio multifunzionale, un luogo di incontro, di ristoro e di cultura che si traduce pure nel più eccitante dei total shopping. Va sottolineato che ogni oggetto, ogni testo, ogni brano di musica, ogni fashion item e quant’altro si trovi in questo irripetibile “Paese dei balocchi” è frutto di un vaglio oculato, quanto appassionato di Carla Sozzani, attenta e accreditata cool hunter. Allora, visto che Natale è già qui, ce lo facciamo un giro di ricognizione?

Cominciamo dal Bookshop, il nucleo, insieme alla Galleria, di queste aree interagenti. Vi si trovano libri fuori da ogni scontato iter commerciale, volumi d’arte, architettura, design, grafica e costume, con una certa enfasi sulla fotografia d’autore. Però subito mi salta agli occhi (e mi emoziona) un volume con un volto mascherato in copertina e un nome a lettere cubitali sul dorso: Walter Albini. Personaggio eccentrico (qualcuno lo definì “bello e dannato” come un eroe di Fitzgerald), ma soprattutto stilista geniale e decisivo per la storia della moda. Prematuramente scomparso nel 1983, lasciò agli altri fasti, onori e rulli di tamburi che proprio allora si stavano alzando intorno al prèt à porter italiano. Ebbene, questo libro rarissimo (ne sono rimaste solo due copie), contenente schizzi, disegni e il racconto della sua breve e intensa vita, è il primo in assoluto pubblicato dalla Casa Editice Carla Sozzani, nata nel 1990. Ben diversa è l’edizione gigante e “indossabile” di Visionaire che, usando avan-

zate tecnologie, realizza polo Lacoste dalle inedite stampe fotografiche, incastonate tra le pagine riccamente illustrate a seconda dei temi prescelti. Tra i tomi di fotografie vintage, da regalare o farsi regalare, c’è quello di Lisette Model (una sua retrospettiva è in arrivo a breve) che sciorina vecchiette alla finestra, suonatori di jazz club, clochards...persone di svariate categorie sociali, ritratte mostrandone la profondità dell’anima. E a proposito di fotografia, la Galleria Carla Sozzani ospita, in questo momento, una mostra di Ray K. Metzker, caratterizzata dall’opposizione di bianco e nero, di positivo e negativo, di fasci di luce e muri d’ombra. Ne’ si può uscire da questo percorso artistico senza dare un’occhiata, o meglio, prestare orecchio alle compilation musicali. Personalmente rimango incantata da The Best of 10 corso como a cura di Roberto Gatti, una raccolta dei pezzi di maggior successo internazionale che mixa impudentemente il tango “Volver”, cantato nientemeno che da Ellades Ochoa, ad “Afro Blue” con la voce di Abbey Lincoln e così via. Ma il nostro shopping è solo appena iniziato, scendia-

mo la scala a chiocciola e ci inoltriamo nello store per non trascurare quasi nulla di quanto suggeriscono le scelte di Carla. Ci accolgono i corposi collier di Kris Rush in argento cesellato a mano, costruiti con motivi ricorrenti a raggiera, a spirale, a catena. Ogni pezzo è unico e, sempre dell’artista americano, ci sono vasi giganti che illustrano alcune figure mitiche care al Picasso di Guernica. Si notano inoltre numerosi oggetti utili e sfiziosi riproducenti i “bersagli” del logo menzionato, ideato, guarda caso, proprio da Rush. Cioè vasellame vario, cuscini, ombrellini dal manico trasparente e con il motivo reiterato sulla tela e delle folding bags, simpatiche borse pieghevoli... Fra la grande esposizione di calzature femminili dagli svettanti tacchi scultura, mi attraggono particolarmente le scarpe alla charleston di Martin Margiela in un grintoso bicolore rosso e nero. Ma il designer belga ha in serbo una sorpresa: presenta qui la sua prima collezione di gioielli, ispirata al concetto di “grande è bello”. Quattordici pezzi extra large realizzati in oro e platino da Damiani. Spigolando qua e là si può scorgere un cappottino a boule rosa di Commes des Garcons, gli abitini esclusivissimi di Azzedine Alaia costruiti con nervature e smerli da virtuosismo sartoriale, il tubino Balenciaga sculpture-couture by Nicholas Guesquière, ma a prendervi il cuore potrebbe essere l’abito nuvola di velo di Rodarte dai ricami strategici che mitigano la trasparenza.


naffiatoi di latta verde con beccuccio in ottone. Assai divertenti i giocattoli Japan style volutamente avveniristici, cioè robot, macchinine, aeroplani... tra i quali campeggia, a contrasto, il vecchio, caro cavallino a dondolo di legno dipinto a colori brillanti. Giocattoli? Il nostro tour in 10 corso como non è completo se non si fa una sosta presso la bacheca dei sex toys. Tra biancheria e giarrettiere da boudoir, candele, manette, frustini (tutti i gusti son gusti!) c’è una graziosa ochetta gialla firmata Sonia Rykiel che io, da ragazza di campagna d’altri tempi, suppongo sia da far galleggiare nella vasca da bagno, magari con l’acqua addizionata con un lussurioso bagnoschiuma ai ferormoni... mi viene però spiegato che si tratta di un gadget per giochini erotici. Perché tutti i gusti son gusti.

a Milano, tra la Stazione Garibaldi e Piazza 25 Aprile, in prossimità del quartiere di Brera

» di Marisa Gorza » fotografie di Adriano Heitmann

Non sarebbe l’ideale per un Capodanno da ballo e da sballo? Per la stessa occasione “lui” può scegliersi lo smoking d’ordinanza, con i revers a lancia e banda laterale in raso, disegnato addirittura dall’immaginifico Tom Ford, il quale per un regalo a un uomo esigente e spiritoso, consiglia le pantofole di velluto stampate con scene molto hard. Rubate con humour ad una certa iconografia giapponese.

Il regalo più tipicamente natalizio è pur sempre un profumo, specialmente se si tratta del prezioso Annie Bizantine, le cui gocce rare sono racchiuse in una bottiglia di cristallo Swarovski (prezzo 2.750 Euro). Beh, qui lo shopping può essere a volte dispendioso, a volte capriccioso, ma sempre insolito e curioso. Ogni articolo rappresenta di sicuro il frammento di un puzzle di una cultura attenta ai cambiamenti sociali. Magari guardando al passato. C’è difatti nell’aria un ritorno al piacere della casa, al cocooning, all’attenzione affettuosa verso il proprio habitat. Non è un caso che in questo luogo si trovino variegati articoli domestici dal design e dalla firma prestigiosa, tra le quali Memphis, Fornasetti, o Giò Ponti. Oppure semplicemente di un rassicurante sapore vintage come gli an-


Il Sole transita nel segno dello Sagittario dal 23 novembre al 22 dicembre Elemento: Fuoco - mobile Pianeta governante: Giove e Nettuno Relazioni con il corpo: fegato, arti inferiori Metallo: stagno Parole chiave: generosità, espansione, curiosità

» a cura di Elisabetta

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Fraintendimenti per i nati in Marzo. Mettete tutto nero su bianco. Vita sentimentale a gonfie vele per i nati nella seconda decade, appoggiati dal transito di Venere. Momento di grande attività professionale per i nativi nella terza decade.

Momento felice per la vostra vita affettiva. Grazie al transito di Venere in Acquario riuscirete a soddisfare il vostro desiderio di novità. Così Marte, con la propria azione, renderà particolarmente attiva la vita sociale dei nati nella terza decade.

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Metà dicembre assolutamente fantastico. Grazie all’ingresso di Mercurio i nati nella prima decade potranno contare su di una ricca serie d’incontri. Momento di ascesa professionale per i nati della terza decade. Possibili acquisti immobiliari.

Il passaggio di Venere in Acquario potrebbe avere effetti sorprendenti sui nati in novembre. Cercherete emozioni e stimoli dalle vostre relazioni amorose. Evitate di creare dei castelli in aria sulla base di un incontro occasionale.

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Calo energetico per i nati nella terza decade. Evitate di disperdervi in mille iniziative e in inutili competizioni con il partner. Cercate di alimentare il vostro lato creativo. Amore sempre a gonfie vele per i nati nei primi giorni di giugno.

Grandi cambiamenti per i nati nella seconda decade stimolati dal transito di Saturno e Urano. Cercate di rompere con il passato. Settimana particolarmente attiva per i nati a fine segno stimolati dal transito di Sole e Marte.

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Grandi progetti come culmine delle idee avute nei periodi precedenti. Se desiderate tradurli in realtà dovrete comunque stare attenti a non compiere errori di valutazione e a non cadere in tranelli (avete Mercurio in opposizione).

Metà dicembre straordinario per i nati nella prima e terza decade. Incontri professionali tra il 17 e il 18 dicembre. Momento d’oro per i progetti a lungo termine. Spese voluttuarie rivolte al settore tecnologico.

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Grazie a Marte, i nati nella terza decade riusciranno ad affrontare con entusiasmo ed energia qualunque situazione. Sempre grazie agli effetti di questo transito, si potranno instaurare ottime relazioni sia con i superiori che con le autorità.

Momento speciale per la vostra vita affettiva. Venere di transito nel segno dell’Acquario si associa al passaggio del Nodo Lunare Nord. Il transito si presenta particolarmente illuminante per gli appassionati di astrologia karmica. Ritorno di un amore antico.

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Durante la settimana i nati nella terza decade faranno di tutto per dimostrare al mondo quanto effettivamente valgono. Grazie alla quadratura di Marte riuscirete a portare avanti una grande mole di lavoro. Evitate però di strafare.

La ribellione continua! Con Marte e Urano in quadratura difficilmente riuscirete a sopportare le forme di coercizione. Cercate di esercitare maggior controllo sulla vostra irascibilità. Nuovi stimoli potete sempre cercarli dentro di voi.

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Simbolo di autorità e di saggezza terrena, il Sagittario rappresenta da sempre i grandi poteri dello stato e della chiesa. Da un lato, dunque la lealtà, la fiducia, la capacità diplomatica, il tatto dall’altra l’eccitabilità, la collera, il furore. A questi aspetti, contrastanti ma condivisi, va aggiunto il fatto che solitamente i nati in Sagittario dimenticano in fretta e raramente serbano a lungo il rancore. L’elemento fuoco domina e, come sosteneva Carl Gustav Jung, si collega al tipo “intuitivo” la cui percezione si basa su concetti mentali e spirituali. Nel Sagittario la conoscenza non si genera per accumulo o in strutture ordinate ma attraverso percezioni spontanee che “esplodono nella coscienza”. Fiamma e luce, il fuoco è essenza universale riflessa sul piano fisico come su quello spirituale. Un elemento che nel pensiero dello psicoanalista svizzero si connette al nucleo dinamico dell’energia psichica, quell’energia che fluisce spontaneamente, in modo ispirato ed emotivo. La libertà d’azione e di pensiero rappresenta una condizione indispensabile per il Sagittario, che altrimenti reagisce con rabbia e collera. Dotati di notevoli energie fisiche, non riescono davvero a stare fermi, un’attitudine che si riflette nella marcata predisposizione ai viaggi. L’influenza di Giove si manifesta nel godimento dei piaceri della vita. Ma come come la vicenda di Issione tragicamente insegna, devono imparare a frenarsi per non cadere in processi autodistruttivi.

“… corrien centauri, armati di saette”

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Parigi 1796: la Rivoluzione si sta disgregando nel regime del Direttorio. Soltanto un manipolo di democratici raccolto intorno a Gracco Babeuf non si rassegna al fatto che la sommossa si risolva nell’avvento al potere di una nuova classe privilegiata. I membri della “Cospirazione degli Eguali” avrebbero imposto un governo in nome dei “veri” principi rivoluzionari per instaurare l’eguaglianza reale, “primo voto della natura, primo bisogno dell’uomo”: non ci sarebbe più stata tra gli uomini, proclamava il Manifesto degli Eguali, “altra differenza che quella dell’età e del sesso”. Estensore del manifesto fu Sylvain Maréchal – illuminista e paladino dell’eguaglianza sociale – lo

Abbiamo letto per voi stesso che, ritroviamo all’inizio del nuovo secolo in veste di promotore di un serissimo progetto di legge “per vietare alle donne di imparare a leggere”. Possibile che nel frattempo fosse impazzito o avesse rinnegato le sue idee? Niente di tutto questo: il progetto porta alle estreme conseguenze l’affermazione già contenuta nel manifesto del 1796, dove l’eguaglianza non valeva né per i fanciulli né per le donne. “Tanto meno un’eguaglianza intellettuale”, proclamava Maréchal senza alcuna ironia. Nella sua bontà e saggezza la natura mise in mano alle donne non il libro e la penna bensì la rocca e il fuso: essendo poi la loro mente più debole di quella degli uomini, il carattere me-

no deciso, la complessione fisica meno forte, esse non sono adatte ad attività che richiedono concentrazione e astrazione. In nome della ragione e della natura siano affidate “all’uomo la spada e la penna e i prodotti del genio; alle donne il fuso, la conocchia e i sentimenti del cuore”. Alle donne competono invece l’educazione dei figli, l’esercizio delle virtù domestiche, la cura della casa. Per chi riesce a essere sovranamente superiore alle parti, le deliranti affermazioni del nostro rivoluzionario egualitarista provocheranno ilarità. Ma nell’animo di chi ripensi alla sorte delle donne di questa e altre rivoluzioni, qualche sentimento di indignazione non potrà che ribollire.

Sylvain Maréchal Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere [1801] Archinto, 2007

» di Francesca Rigotti

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Âť illustrazione di Adriano Crivelli


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1. Operatore ecologico • 9. Bel paesino malcantonese • 10. Dittongo in paura • 11. Art. romanesco • 12. Questa cosa • 13. Spalancare • 15. Postilla legale • 17. Fu sconfitto da Teodorico • 18. Il Sodio del chimico • 20. Lo sono i signori per l’oratore • 21. Ovest-Est • 22. Fra due fattori • 23. Indio e Zolfo • 25. I confini di Carabietta • 26. Uccello dal grande becco • 29. Negazione • 30. Il fiume di Bottego • 31. Può essere a doppio taglio • 33. Procuratore Pubblico • 34. C’è anche quello del Cancro • 36. Uno detto a Zurigo • 38. Città della Russia • 39. Sono puniti dalla legge • 41. Priva di compagnia • 42. Città del Vaticano e Uruguay • 43. Pittore francese • 44. Rabbia • 46. Lo è l’alano tedesco • 47. Centro urbano • 48. È bella ma stupida • 49. È ricca di date.

Orizzontali

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1. Grande astronomo polacco • 2. Il poeta di Ascra • 3. Sconfisse Odoacre • 4. I confini del Ticino • 5. Un verbo del sequestratore • 6. Celie • 7. Diede ordine di incendiare Roma • 8. Le segnano le lancette • 13. Affiancarsi • 14. Art. determinativo • 16. Dittongo in giada • 19. Abbrustolite • 22. Mezza paga • 24. Norvegia e Austria • 25. Cimitero • 27. Vaste • 28. Il vil metallo • 32. Un trampoliere • 35. Azzurri • 37. In quella centrale vi è l’altare maggiore • 40. Si dà agli amici • 43. Dubitativa • 45. In coppia con Gian • 46. Articolo tedesco.

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A quale romanzo appartiene il seguente finale? La soluzione nel n. 1. Al vincitore andrà in premio “Santa Maria del Bigorio” di Fra R. Quadri e P.G. Pozzi, fotografie di E. Riva, Fontana Edizioni, 2008. Fatevi aiutare dal particolare del volto dell’autore e inviate la soluzione entro giovedì 11 dicembre a ticino7@cdt.ch oppure su cartolina postale a Ticinosette, Via Industria, 6933 Muzzano. “Un secondo colpo, rovinoso, gli s’abbatté sull’orecchio. Quindi tutto fu tranquillo. C’era ancora il mare col suo mormorio. Un’onda lo sollevò, lentamente. Veniva da un’immensa distanza e trascorse via placida, alzata di spalle dell’eternità”.

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La soluzione a Epigoni è: Lo spaccone di Walter Tevis (Minimum Fax, 2008). Nessuno lettore ha indovinato.

Novità: Gerber Fondue Surchoix. Con formaggio svizzero scelto e abricotine del Vallese DOC.

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Pur chocolat, pure emotion.


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