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La vulnerabilità dell’essere umano al Pompeii Theatrum Mundi

di Luisa Del Prete

Intervista all’attore Marco Baliani e allo scrittore Franco Marcoaldi

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Ritorna nel Teatro Grande degli Scavi Archeologici di Pompei, la rassegna di spettacoli del Pompeii Theatrum Mundi. Dopo un anno di assenza, causa covid, il teatro riprende grazie a quest’iniziativa del Teatro Nazionale di Napoli. Numerosi gli artisti che si sono esibiti su quel palcoscenico e che continuano a fare la storia del teatro contemporaneo. Tra questi, l’attore Marco Baliani e lo scrittore Franco Marcoaldi, hanno portato in scena lo spettacolo “La quinta stagione”. Un vero e proprio viaggio nell’interiorità dell’uomo moderno che, con le sue fragilità e la sua vulnerabilità, deve continuare a mettersi in gioco e a provarci. Li abbiamo intervistati dopo la prima messa in scena, ricca di suggestività ed emozione. Franco Marcoaldi-Marco Baliani: com’è nato questo connubio? «In modo del tutto casuale e, allo stesso tempo, magico. Da quando io e Marco ci siamo incontrati è scattato qualcosa parlando del lavoro, ma parlando anche di altro: io credo molto nell’amicizia e penso anche che tanto più la politica naufraghi tanto più l’amicizia diviene una condizione indispensabile di fare comunità tra gli esseri umani. Inoltre, Marco ha compiuto, con questo spettacolo, davvero un piccolo miracolo. Nello spettacolo non c’è una cupezza di fondo, ma c’è l’idea di dire allo spettatore come stanno messe male le cose, però allo stesso tempo dare un incoraggiamento perché il nostro mondo è pieno di cose meravigliose e si deve affrontare questa “Quinta stagione”. Io ho fatto tantissime letture dei miei testi, ma non ho mai visto la capacità di fare, della poesia, un corpo di metamorfosi: la poesia è rimasta poesia, ma ha cambiato pelle diventando teatro. E tutto questo grazie a Marco» così ha affermato lo scrittore Franco Marcoaldi. «L’amicizia è il simbolo della nostra collaborazione. Abbiamo scoperto di avere una visione del mondo stranamente coincidente ed è stato un incontro molto bello. Franco ha scritto delle parole che, durante lo spettacolo, più ripetevo e più sentivo mie» così, invece, ha concluso l’at-

Da sx Franco Marcoaldi e Marco Baliani

tore Marco Baliani. Dopo un anno di lockdown, si ritorna al Pompeii Theatrum Mundi. Com’è rientrare in quel teatro dopo tutto questo tempo? «Ho fatto altri spettacoli da quando abbiamo riaperto, ma la sensazione che ho è quella di una cosa allo stato nascente. Mi spiego, le persone che vengono a vedere lo spettacolo, le sento con uno spirito diverso. Non è quello con cui venivano prima a teatro, ma è come se accettassero la sfida. Li sento molto più complici, come se si stessero mettendo in gioco» ha dichiarato Marco Baliani. “Attendi senza pensiero perché tu non sei pronto a pensare” diceva Elliot e viene riportato da voi nello spettacolo. Davvero l’uomo, in questi ultimi tempi, non è pronto a pensare? «Un poeta italiano che io amo molto, Giorgio Caproni, diceva che la poesia, prima ancora di essere capita, deve essere sentita. Non è che questo va a discapito del pensiero, ma è un arricchimento di esso. Noi viviamo in un mondo iper-formalizzato ed è questa la fine del pensiero. L’individualità di ogni singola esistenza finisce dentro un modello formalistico-matematico. Il pensiero di cui parliamo noi, invece, è un invito ad estendere le cose che viviamo ed a viverle con tutti i sensi» ha precisato Franco Marcoaldi. «Questo è il lavoro che io provo a fare principalmente a teatro, sia quando sono da solo che quando faccio regia. Il “corpo narrante” ovvero le parole che escono se c’è un corpo che le porta. Un corpo fatto di gesti, di posture, di movimenti, ed è questo che io voglio sempre portare in scena. Il tutto cercando sempre di non recitare, cercando di non far sentire l’enfasi, la tecnica dell’attore. L’arte è puro artificio e il lavoro dell’artista è proprio quello di nasconderlo» ha continuato Marco Baliani. «In questo Marco è unico, perché vuole davvero arrivare a toccare la “cosa”. Anche se non ci riusciremo mai, però bisogna provarci» ha concluso Marcoaldi. Viaggi struggenti nell’interiorità: leggere carezze e, allo stesso tempo, forti strattonate. Mettere in scena i sentimenti e portare in scena l’uomo vulnerabile. Perché nel 2021, vivendo in una società di “uomini potenti”, c’è necessità di far vedere l’uomo nelle sue fragilità? «Dopo questa pandemia, la fragilità regna sovrana – sottolinea l’attore Baliani -. Le persone sembrano invulnerabili proprio perché hanno paura di quello che hanno scoperto: il genere umano, per la prima volta, si è spaventato. E come si risponde a questa inquietudine? O mostri i muscoli e fai finta di essere più forte, come stanno facendo la maggior parte delle nazioni, o fregandosene e facendo finta che non esiste nulla, come ha fatto Trump. Il problema reale è che la società è profondamente malata: di questo parla “La quinta stagione”. Una società malata già da molto tempo e tutto questo è uscito fuori, ancora più forte, durante la pandemia. Adesso la fragilità è la nostra forza e dobbiamo esserne consapevoli. “Sono un pellegrino disperso nella nebbia accettando il mio stato di indigenza” questa è la frase chiave. Noi tutti dobbiamo riuscire ad ammettere la nostra fragilità e partire da questo, ignorando il pensiero di essere superiori a qualcosa. Perché, poi, basta davvero un microbo per distruggerci».

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OFFICINA AUTORIZZATA

di Benedetta Calise

ROSARIA DE CICCO E LA CRISI DEL TEATRO

Rosaria de Cicco è un’attrice, donna di spettacolo e di televisione, dotata di una grande vena comica e un talento, che la contraddistingue da quando era solo un’adolescente. Il suo lavoro, ormai quasi due anni fa, si è visto interrotto improvvisamente, a causa della pandemia, che come ci spiega l’attrice, ha colpito più alcuni settori che altri. Ma è il Covid il vero problema del settore teatrale? “Il Covid ha scoperchiato una realtà che era già di suo senza tutele e diritti”. L’abbiamo intervistata per mettere in luce quali sono questi antichi problemi che il settore si trascina dietro da tempo. Cinema, televisione e teatro: cosa differenzia questi 3 campi e dove lei si esprime al meglio? «Si tratta sicuramente di tre campi molto interessanti, per aspetti diversi; posso però affermare, dopo tanti anni di carriera, che riesco ad esprimermi al meglio sul palcoscenico di un teatro. Il cinema crea un qualcosa che rimane per l’eternità, è forse una delle espressività più intense che ti da l’opportunità di realizzare qualcosa di duraturo che resta impresso nel tempo. La televisione invece, a mio avviso, può essere pericolosa, bisogna starci molto attenti poiché essa può diventare una “droga”. Ciò che viene trasmesso entra nelle case di tutti e proprio per questo, recitando ad esempio in un programma di successo, si corre il rischio di pensare di essere al massimo della propria fama. La verità è che la gente non ci mette nulla a dimenticarsi di te e tu devi essere il primo a non importartene, non essere schiavo della popolarità e del pubblico. Il teatro infine permette il contatto diretto con il pubblico, e a mio avviso ti fa capire realmente perché hai scelto questo lavoro, per la magia incredibile che esso porta, che si ripete ogni sera ed è sempre uguale ma sempre diversa». Che conseguenze hanno avuto il covid-19 e i successivi provvedimenti sul mondo dello spettacolo? «Sicuramente La pandemia ha avuto conseguenze drammatiche su tutto il mondo del lavoro, colpendo però più alcuni settori che altri. Per quanto riguarda proprio il mondo dello spettacolo, possiamo dire che ha avuto ripercussioni gravissime, semplicemente perché ha scoperchiato una realtà che era già di suo precaria senza tutele e diritti, mettendo alla luce problematiche antichissime. Perché il problema del teatro non è il covid! Tutto sommato, però, questo ha smosso qualcosa nello scenario teatrale, come spesso si suol dire: da un grande male deriva un grande bene. Molti attori hanno aperto gli occhi e hanno capito che essere uniti è una cosa importante e fondamentale; sono nate così delle associazioni come “Unita: Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo”, associazioni realizzate da attori che richiedono finalmente che la nostra categoria sia considerata una categoria e non un passatempo o generico lavoratore dello spettacolo». Rosaria, ma allora quali sono

VIVAI E PIANTE

di Franco Maddalena & Co. questi problemi antichissimi che il settore si porta dietro da tanto tempo? «Come diceva Viviani “il teatro è in mano a poche mani tutte strette tra di loro”. Questo sta a significare che i finanziamenti arrivano sempre e solo agli stessi e ci sono tantissime raccomandazione e pochissima meritocrazia. I grossi teatri sono stati abbondantemente finanziati anche per non alzare il sipario, mentre i piccoli privati sono fermi da più di un anno. Altra grave problematica è la mancanza di tutela e diritti per gli attori, un esempio sono I produttori privati che non rispettano i contratti nazionali, cosa che se viene fatta notare penalizza notevolmente l’attore. Ancora un altro fattore è che il pubblico di oggi tende ad inseguire i personaggi televisivi più popolari, dando un enorme visibilità ad attori anche non talentuosi, mentre nel frattempo attori bravi e qualificati faticano ad avere un pubblico di 100 spettatori. Aggiungiamo poi che con le normative Covid di 100 posti se ne possono occupare 50, per motivi più che giusti sottolineo, non si riesce proprio ad andare avanti». Per concludere, è il caso di dire affidiamoci alla buona sorte , speriamo nella consapevolezza di tutti, delle vaccinazioni, del conservare la prudenza, fino a che non potremo tornare ad essere felici come quando lo eravamo… ma non lo sapevamo!

Fornitura e manutenzione del verde pubblico; potatura e taglio piante alto fusto e bosco; trasporto e facchinaggio; diserbo chimico e tradizionale; ingegneria naturalistica; progettazione paesaggistica; impianti di irrigazione; impresa di pulizia; lavori edili.

di Angelo Morlando

«Vi svelo il mio nuovo equilibrio...»

Nei colori dell’artista Annamaria Natale una nuova prospettiva

Un anno fa, abbiamo incontrato e conosciuto la prima volta Annamaria Natale; eravamo un gruppetto numeroso al MAC3 di Caserta, all’interno della mostra “Finché il mare sommerge”. Oggi, possiamo dire di conoscere l’artista e la persona di rara sensibilità, con la quale abbiamo trovato, sin dall’inizio, affinità di princìpi e azioni. Cosa è successo, quindi, nel primo lockdown che ha portato alla realizzazione di alcune opere esposte nella mostra di Caserta? «In realtà, il lavoro del paesaggio, cioè della linea di orizzonti, nasce a seguito di un problema familiare che mi ha costretto a casa per lungo tempo. Correre lungo l’orizzonte era per me, quindi, quell’ora d’aria che riuscivo a prendere dagli impegni familiari; correre verso isole, verso luoghi o non luoghi. Ho lavorato quasi un anno a questo orizzonte e la linea è diventata sempre più sottile e sono comparsi anche i colori. Dopo la perdita di mio fratello, dopo un bel po', sono riuscita, piano piano, ad aggiungere i colori, per esorcizzare la situazione che si era creata: era tutto quello che avevo, ed almeno avevo la possibilità di guardarlo, andarci dentro. Con i colori do la possibilità di andare oltre, di non vivere di dolori. Tutti i miei collages non sono effettivamente reali, nel senso che non per forza devono rappresentare dei paesaggi. Per me sono dei luoghi a cui non è possibile accedere; inoltre, non sono speculari, pertanto, esiste un mondo di sopra e un mondo di sotto». Cosa è successo, invece, nel secondo lockdown che ha portato alla realizzazione delle ultime opere? «Ancora una volta eravamo nuovamente bloccati. L’unica possibilità che ho avuto è uscire nel cortile di casa mia e alzare gli occhi. È stato naturale il cambio di direzione, anche perché avevo già esasperato tutti i ricordi dello spazio vissuto. Si è evoluto tutto verso l’alto con piccole porzioni di me che si distaccano, come viaggiare un po' come la foglia della vite che ho visto staccarsi davanti a i miei occhi sul terrazzo di casa». Viaggiare nel presente o anche un po' nel prossimo futuro? «Sono una persona che sa viaggiare nel futuro, ma non ne sono ossessionata. Voglio godermi il qui e l’ora. È cambiata sicuramente la prospettiva, cioè intravedere nel distacco un’opportunità, cioè il viaggio, e non solo la fine della vita».

Quali sono le novità del post-mostra? «Un primo aspetto è stato l'utilizzo di nuovi materiali come, ad esempio, la carta giapponese, che non costituisce un semplice fondo per il resto dell'opera, ma ne diviene un elemento compositivo fondamentale e parte del lavoro nella sua purezza, senza colore. Non c’è più l’orizzonte definito, netto. È la scelta di un equilibrio. Di un nuovo equilibrio. I luoghi trasmettono vitalità ed emozioni, pertanto, ora la mia scrivania è al centro della stanza di mio fratello, dove condividevamo musica e passioni. Il tempo non si può misurare solo in lunghezza, ma anche in larghez"Prigione e libertà" (collage su carta giap- za». ponese 60x90cm - Anno 2020) È ora di guardare anche gli stessi luoghi, ma con occhi diversi? «La pandemia ha fatto danni, ma ha dato anche la possibilità di fare i conti con sé stessi. Di guardarsi dentro, soprattutto le persone come me che si fanno mille domande prima di fare un passo. Nel mio lavoro ci credo. Mi sento libera, ma obbligata nei confronti dell’Arte, rispetto alla quale ho avuto sempre un moto istintivo, sin da piccola. Se non lavoro sto male, perché se non esprimo le mie emozioni attraverso le mie opere, mi sento in debito». "Oltre la pittura, ti esprimi anche attraverso la scultura?" "Sì, ho anche realizzato numerose sculture, come ad esempio la corolla erosa dai sensi (6 semicerchi in acciaio marmo), pigmenti, resina epossidica, pinze metalliche, gomma pane, Santa Fede Liberata 2019 Napoli. A breve, in un prossimo nostro incontro presso la vostra redazione, vi aggiornerò sui progetti futuri".

"Quasi una solitudine" (collage su carta 56x76cm - Anno 2020)

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di Angelo Morlando

Solo recentemente abbiamo avuto la possibilità di incontrare Alessandro Del Gaudio direttamente al suo studio di Caserta, ma lo conoscevamo già da tempo e avevamo avuto l’occasione di ammirare alcune sue opere esposte al MAC3 di Caserta. Conosciamo tanto di te, quindi, ti chiediamo qualche dettaglio sulla tua vita professionale e, quindi, personale. «Prima di tutto, appena sarà possibile ci terrei tanto a incontrarvi presso la vostra redazione di Pinetamare in Castel Volturno, territorio che conosco bene e che ho imparato ad apprezzare e rispettare da quando ero ragazzo. Ci sono tante storie legate alle mie vite, in quanto io confondo la Vita con l’Arte. Credo fermamente che in ognuno di noi ci siano delle potenzialità artistiche, una sorta di predisposizione; un legame non spiegabile solo con gli aspetti razionali e materici. Questo mi permette anche di credere di non essere assolutamente speciale, ma solo di avere la fortuna di sapere ascoltare e accogliere l’energia emanata dall’Arte. L’ho sentita sin da piccolo, quando disegnavo con i carboni e con i fogli dei sacchi di farina che avevano più strati, perché mia madre faceva il pane. Ho iniziato così, osservando il consumarsi del carboncino e meravigliandomi della creazione di forme da semplice polvere». La tua produzione inizia negli anni '70. Quanto sei stato in-

Incontro con l’artista Alessandro Del Gaudio

Raccolta di pensieri dell’ultimo anno e progetti futuri

"Parcheggio a Spina di Pesce", 2018 tecnica mista su tela, 150x40cm

fluenzato dai movimenti artistici di quel tempo? «Da giovanissimo ho intrapreso anche la carriera di insegnante, peraltro, in un liceo artistico, quindi, come preparazione culturale ho dovuto studiare i movimenti artistici del passato e del presente, ma la mia insegnante principale è stata mia madre che, oltre ad insegnarmi a coltivare la terra, mi ha sempre sostenuto in ogni mia iniziativa. Coltura e cultura hanno stretta affinità. Anche questa formazione di base, forse, mi ha spinto ad insegnare nel liceo artistico. Sono stato, invece, fortemente influenzato dal primo lockdown, perché mi sono trovato totalmente impreparato alla chiusura totale. Mi erano rimasti solo frammenti di fogli di carta Fabriano e per questo ho cominciato a disegnare degli acquerelli. È una tecnica basilare ed ecologica: acqua, pigmenti e gomma arabica. Ogni giorno ho realizzato un acquerello diverso, trovando ispirazione dalle cose quotidiane, anche perché non potevo venire allo studio. L’acquerello è una tecnica che non ammette pentimenti, necessita di una predisposizione al coraggio». Cosa è successo quando sei potuto tornare al tuo studio? «Lo studio, il mio studio, è stato fondamentale, anche perché è estremamente luminoso. Ho sempre preferito avere lo stretto indispensabile, ma “mio”; non per possesso, ma come forma di libertà. Con tutto lo spazio a disposizione nel mio studio ritrovato, ho realizzato gli acrilici, di piccole e grandi dimensioni. Tra questi vi sono le “Isole Pedonali”, che incuriosiscono molti; tutto nasce quando ero a Verona, in quanto nella zona in cui vivevo c’era un’area di parcheggio, ma con notevoli limitazioni e imposizioni. A quel punto nasce il contrasto tra auto (meccanica) e l’orma del piede (biologica) e ho sentito che sono forme che possono assumere diversi significati, pur conservando la propria origine iconica». Cosa ci aspetta nel prossimo futuro e come potrebbe cambiare la tua produzione? «È impossibile fare previsioni, anche perché l’ispirazione è influenzata da molteplici fattori. Tre anni fa non avrei mai immaginato di elaborare circa cento acquerelli in quattro mesi. Non avrei mai immaginato di dedicare un’opera a Lucio del Pezzo, perché particolarmente colpito dalla sua scomparsa». Effettivamente abbiamo avuto la possibilità di ammirare tutti gli acquerelli e alcuni lavori in corso ed è difficile non essere coinvolti. Ringraziamo il maestro Del Gaudio con cui abbiamo strappato un appuntamento al prossimo settembre.

Rega

Parrucchieri

di Mina Grasso

How will we live together?

A Venezia l'Architettura salverà il Pianeta

Èstata affidata a Hashim Sarkis, architetto e teorico americano-libanese, professore del Massachusetts Institute of Technology, la direzione della 17esima Biennale Architettura. Mostra Internazionale di Architettura organizzata dalla Biennale di Venezia che è in corso in questi giorni a Venezia, con uno sfasamento di un anno rispetto alle edizioni precedenti, a causa del blocco degli eventi determinato dal covid. “How will we live together?” è il tema scelto per questa edizione: come vivremo insieme dopo la pandemia, con quali accorgimenti, con quali modifiche? Dovremo superare insieme il momento difficile che si somma alle già presenti diseguaglianze, alla crisi climatica, alle migrazioni, alle malattie. L’Architettura è chiamata a risolvere e salvare il Pianeta. Non più la politica, le lotte sindacali o di classe, ma l’architettura che diventa punto di partenza e di una nuova ripartenza. Dovremo imparare a coesistere, vivendo in grandi comunità all’interno di un paesaggio sempre più livellato, ricco di verde, di alberi, di fiori e anche di ponti: ponti messi a collegare, ponti panoramici, ponti come nuovi punti di vista sul mondo; piste ciclabili, fiumi. Centrale e necessario sarà il rispetto per l’ambiente. L’allestimento immaginato dalla direzione artistica segue 5 scale di grandezza: l’individuo, le abitazioni, le comunità, il territorio e il pianeta. Delle 5 aree tematiche tre sono allestite all’Arsenale: Among Diverse Beings, As New Households, As Emerging Communities e due al Padiglione Centrale dei Giardini: Across Borders e As One Planet. In mostra troviamo diversi plastici e tante proposte su materiali così come innovazioni dei tessuti sociali. Forte è la necessità della presenza, accanto all’architetto, delle figure dell’artista e dello scienziato. Tanti gli spazi dedicati ai mari e alle foreste, ma anche al corpo o alle intelligenze collettive. La Biennale di Architettura avrà durata dal 22 maggio fino al 21 novembre 2021, nelle consuete sedi di Giardini, Arsenale e di Forte Marghera. Iniziata il 22 maggio senza i consueti festeggiamenti delle vernici e dei vernissage, in settembre prevederà la possibilità di alcune feste inaugurali, spostate un po’ in avanti nei mesi. La mostra comprende i lavori di 112 partecipanti provenienti da 46 Paesi con una maggiore rappresentanza da Africa, America Latina e Asia e con un’ampia rappresentanza femminile; 61 partecipazioni nazionali occupano gli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, con 3 paesi presenti per la prima volta alla Biennale Architettura: Grenada, Iraq e Uzbekistan. Il Padiglione Italia in Arsenale alle Tese delle Vergini, sostenuto e promosso dal Ministero della Cultura, Direzione Generale Creatività contemporanea, è stato curato da Alessandro Melis e presenta Comunità resilienti. Mentre 17 sono gli Eventi Collaterali disseminati in diverse sedi della città di Venezia. Rafael Moneo ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera della Biennale Architettura 2021. Architetto, docente, teorico dell’architettura e critico spagnolo, “Moneo nell’arco della lunga carriera ha conservato la sua abilità poetica, rammentandoci – ha dichiarato Sarkis - la capacità propria della forma architettonica di esprimere, plasmare, ma anche di perdurare”. All’interno del Padiglione del Libro ai Giardini è stata allestita una piccola mostra che include plastici e immagini emblematiche degli edifici dell’architetto spagnolo, in risposta alla domanda “How will we live together?”. A Lina Bo Bardi invece, è andato il Leone d’oro speciale alla memoria: “la sua carriera di progettista, editor, curatrice e attivista ci ricorda il ruolo dell’architetto come coordinatore (convener) – ricorda Sarkis - nonché, aspetto importante, come creatore di visioni collettive”. Non ci resta che attraversare incantati i padiglioni, magari sorseggiando una tisana preparata con acqua piovana veneziana nel Padiglione dell’Olanda ai Giardini; oppure leggendo con l’uso del telefonino i QRcode dei lavori del Padiglione della Germania; o sedendosi intorno ad un tavolo nel Refuge for Resurgence di Anab Jain e Jon Ardern in collaborazione con Sebastian Tiew (Malesia, 1994), dove una comunità multi-specie ricerca tra le rovine devastate della modernità nuovi modi di vivere insieme: umani, animali, uccelli, piante, muschi e funghi si raccolgono attorno a una speranza comune. Una speranza nella vita che resta. O ancora, osservando il lavoro di José María Caro, per la partecipazione del Cile in Arsenale, nel quale 500 immagini richiamano vite passate e presenti di una comunità. “How will we live together?” sarà a Venezia fino al 22 novembre.

di Luisa Del Prete

La crisi delle Università attraverso gli occhi dei giovani

Due matricole raccontano la loro esperienza in facoltà tradizionali e telematiche

“G li universitari dimenticati”, “La crisi delle Università” queste le parole che in questi ultimi due anni sono state pronunciate ripetutamente quando si affrontava il tema degli atenei. Il Covid ha dimenticato gli universitari, ha mandato in crisi l’Università. Ha capovolto i ruoli, sconvolto i metodi di insegnamento, rivoluzionato - nel bene o nel male - tutto il sistema tradizionale. Ma alla crisi delle Università “in presenza”, c’è stato invece un forte rilancio delle Università telematiche, le quali, invece, hanno continuato a svolgere le loro lezioni in maniera invariata dalla situazione pre-crisi. Ma qual è l’effettiva strada da scegliere? Per approfondire questo discorso abbiamo intervistato due giovani matricole con l’intento di dar voce in capitolo a chi, fino ad ora, non ne ha mai avuto e per capire quali sono le differenze tra i vari tipi di Università. La prima intervistata è iscritta e frequenta un’Università in presenza, la seconda in una telematica. Daniela Castiello, studentessa di Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Perché hai scelto un ateneo di stampo “classico” in cui lezioni ed esami sono in presenza? «In realtà penso che non è una scelta totalmente fatta dalla persona in sé, in quanto l’Università viene sempre presentata “di stampo classico” e quindi come la scelta “positiva”, mentre invece le Università telematiche vengono presentate in maniera negativa in quanto sono private e “non danno una formazione adeguata”. Personalmente io ho scelto un ateneo di stampo classico in quanto ritengo che la divulgazione del sapere e la scuola, con i suoi gradi di istruzione, debbano essere fatti con interazione tra le persone, che non si limita a un contatto solo attraverso uno schermo, ma diventi anche un contatto fisico ed emotivo. Andando in presenza non solo posso conoscere nuove persone, ma anche conoscere nuovi posti in quanto provenendo da un paese di provincia, posso vedere nuovi luoghi a seconda di dove si trova la mia sede». Questa situazione pandemica come ha modificato il tuo modo di vedere l’Università? «Questa situazione pandemica ha modificato in modo del tutto negativo il mio modo di vedere l’Università... avevo delle aspettative molto grandi. Tutte le persone che mi circondano hanno espresso sempre pareri molto positivi sull’ambiente universitario e le possibilità di crescita personale. Con la pandemia questa cosa non si è verificata perché non ho sentito il distacco con il liceo dato che mi hanno permesso di svolgere lezioni in presenza solo per due giorni e per le matricole, i primi giorni, sono difficili da affrontare. Inoltre, la modalità a distanza anche se più “comoda”, dopo un po’ stanca e non ricevendo stimoli, ho iniziato anche a dubitare del percorso universitario scelto e del mio futuro». Gli esami a distanza ti mettono più o meno a disagio di un ipotetico esame in presenza? «Ritengo che gli esami a distanza mettono meno a disagio perché non c’è il contatto diretto con il professore e che, anche se c’è una platea a distanza che ti segue, non c’è la stessa pressione come da vicino. Però ci sono molti fattori che a distanza, invece, possono provocare “disagio” come, ad esempio, la connessione scarsa (che in alcuni casi fa annullare l’esame) oppure l’isolarsi il più possibile dall’ambiente familiare onde evitare rumori». Come immagini il ritorno a lezioni ed esami in presenza? «Il ritorno a lezioni ed esami in presenza non riesco del tutto ad immaginarlo, però credo sia di molto incrementata l’ansia soprattutto per gli esami che fino ad ora ho svolto prevalentemente online. Allo stesso tempo però prospetto un ritorno con una sensazione più che positiva». Antonia Crescenzo, studentessa di Scienze dell’educazione presso l’Università Telematica Pegaso Perché hai scelto un ateneo telematico in cui lezioni ed esami sono online? «Ho scelto un ateneo telematico per poter continuare a studiare e allo stesso tempo anche lavorare; questa scelta mi ha permesso di farlo e adesso riesco a gestire quelle che sono le lezioni online ritagliandomi anche del tempo per il lavoro e per lo studio, non togliendo tempo a nessuno dei due e continuando il tutto con grande impegno. A differenza delle videolezioni, che sono da sempre state telematiche, per gli esami la situazione è diversa: prima della pandemia venivano svolti in sede, si poteva anche scegliere una sede più vicina, mentre adesso causa Covid sono diventati telematici». Cosa ne pensi dei pregiudizi che affermano che l’Università telematica sia più “semplice” di un’Università in presenza? «Parto dal presupposto che anche io partivo con dei pregiudizi poiché ignoravo totalmente il mondo dell’Università telematica; provenendo dall’Università Federico II, avevo quei soliti pregiudizi sulla “semplicità” della telematica rispetto a quella in presenza. Ma io credo che queste idee non sussistano in quanto per ogni cosa, se la si fa con impegno e determinazione, non esiste la “semplicità”. Credo che l’Università tradizionale sia complessa da un punto di vista organizzativo; ero iscritta ad una facoltà in presenza e mi risultava difficile gestire i miei tempi gli spostamenti da una sede all’altra, gli orari delle lezioni. Ora è tutto diverso, con la telematica riesco a gestire molto più efficacemente la mia vita». Credi che la tua laurea in un’Università telematica pregiudichi quella che è la tua esperienza nel mondo del lavoro? «Non solo lo credo, ma lo do quasi per certo. Penso anche che questo mi possa quasi “limitare”, però una cosa che ho capito è che l’impegno supera i pregiudizi».

di Lorenzo La Bella

I cento passi vent’anni dopo

Aluglio mi trovavo a una proiezione de I cento passi tenuta dal regista del film stesso, Marco Tullio Giordana, per presentare la versione restaurata del film. In due ore ho visto Luigi Lo Cascio gridare e soffrire nel ruolo che lo ha reso famoso, insieme ad altri grandi attori come Tony Sperandeo (c’è persino un giovane Marco Gioè) e addirittura Duccio di Boris (sì, questo stemperava purtroppo la serietà del film). E ho visto una delle più potenti rappresentazioni dell’omertà mai realizzate. Per chi non lo sapesse, I cento passi racconta la storia di Peppino Impastato, attivista marxista e antimafia attivo dagli anni ‘60 fino al suo assassinio nel 1978, ad appena trent’anni. Peppino nacque a Cinisi da un padre affiliato alla famiglia mafiosa di Gaetano Badalamenti, personaggio pontiere tra l’era palermitana di Stefano Bontate e quella corleonese di Totò Riina, e la sua casa distava appunto cento passi da quella del boss. Eppure, immerso in quel mondo di potere silenzioso e brutale, Peppino compì subito una scelta, sin da ragazzo, militando prima nel PCI e poi in Democrazia Proletaria, fondando giornali, giornalini, gazzette, e gestendo spettacoli per risvegliare le coscienza del proprio paese contro il dominio di Badalamenti, fino a fondare la radio libera Radio Aut per attaccare Badalamenti con le armi dell’inchiesta e della satira. Il film rappresenta la sua lotta e quella dei suoi compagni in maniera perfetta. Peppino è solo, rabbioso, frustrato dall’inazione dei suoi concittadini, tutti troppo spaventati o assuefatti dal riciclaggio, dagli abusi e i soprusi mafiosi. Eppure è un ragazzo che ride e sorride, e nel corpo di Lo Cascio vediamo la voglia di vivere che Peppino sfoggiava e con cui lottava. Lo vediamo troppe volte restare solo, con le persone intorno a lui non semplicemente impaurite, ma frustrate e ingelosite dal suo coraggio. È proprio il suo paesino a lavorare contro di lui in ogni momento, dai superiori di partito troppo timorosi ai poliziotti abituati a lasciar fare i mafiosi, fino ai familiari che lo odiano perché vuole essere diverso, “meglio di loro”. Il culmine viene raggiunto solo alla morte di Peppino. Egli rifiuta di piegarsi, continuando a denunciare tanto Badalamenti quanto l’omertà e l’ignavia dei siciliani, e ciò gli costa la vita. Viene barbaramente ucciso a calci e pietre e il suo cadavere viene usato per simulare un attentato, in modo da farlo passare per terrorista e infangarne la memoria. Inutili sono le proteste degli amici che brandiscono le pietre insanguinate e le altre prove dell’innocenza di Peppino: carabinieri arrivati da fuori lo condannano come criminale senza processo. Ma è proprio allora che la coscienza di Cinisi si risveglia: i familiari e gli amici di Peppino trasformano il suo funerale in una marcia rivoluzionaria a cui si uniscono quei loro conoscenti e servitori dello Stato finora rimasti ignavi, perché il solco è stato oltrepassato. Questo è troppo, urla Cinisi, presagendo ciò che la Sicilia intera urlerà nella stagione degli omicidi e l’Italia nella stagione delle stragi. Ma non bastò. Tano Badalamenti fu indagato per l’omicidio di Peppino solo vent’anni dopo, la morte del giovane passata in sordina perché contemporanea a quella di Aldo Moro e resa tassello della strategia del terrore contro il marxismo. La condanna arrivò nel 2002, dopo l’uscita del film. E si sente, in ogni fotogramma. Tutta la storia che racconta è un po’ semplificata, romanzata qua e là, ma le parole di Lo Cascio nei suoi discorsi e nei suoi interventi alla radio pronunciate nella pellicola sono parole di Peppino. Peppino ancora morto, ancora infangato, ancora sconosciuto o poco considerato dall’Italia. Perché Cinisi urlò di rabbia e dolore alla sua morte, ma urlò contro il silenzio di un Paese. Questo silenzio che avvelena l’aria, avvelena la terra, questa terra dove si deve scegliere tra una rabbia che impiega decenni a dare i suoi frutti e logora l’animo, o una beata ignoranza che aumenta il potere di questo veleno. Una frase del regista Giordana mi ha gelato il sangue, nel dibattito dopo la proiezione. Egli ci confidò che quando girò il film, il sentimento antimafioso, la voglia di protestare e cambiare le cose era più forte di ora. Vi invito allora a guardare il suo film. Vi invito a guardare I cento passi. Come detto da Giordana stesso, Peppino Impastato non era un eroe, un magistrato, un poliziotto, era un cittadino normale come tutti noi. E fece la differenza, perché ruppe il silenzio.

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Bambusa Pub

di Marika Fazzari

«The Buzzer: le nostre paure in uno short»

Il regista debuttante Paolo Iavarone si racconta dopo il Rome International Movie Awards

L’arte è l’essenza della vita, e il “ cinema riesce a comprendere ogni tipo di arte

«N on si è obbligati a comprendere per amare, ciò che occorre è sognare. Penso che il cinema e l’arte siano oggi il veicolo migliore per riuscire a sognare e ad amare senza limiti. Ed è per questo che continuiamo a vivere, nonostante gli incubi e l’oscurità che ci circondano». Questa è solo una parte della visione che Paolo Iavarone, regista emergente, custodisce e che ha scelto di condividere con noi. Il giovane filmmaker, originario della provincia di Caserta, inizia il suo percorso nell’arte con la musica, suonando per anni il basso. Dopo aver lasciato questo mondo, decide di dedicarsi completamente al cinema, ritenuto da lui strumento di estrema condivisione e insieme di tutte le arti. Paolo, dando prova di grandi abilità tecniche ed espressive, debutta con il suo primo short film “The Buzzer” aggiudicandosi ben due premi (Best First time Director e Best Crime) presso il Rome International Movie Awards 2021. C’è stata una figura o un evento in particolare che ha influenzato la tua produzione artistica? «La figura che influenza principalmente le mie idee sono proprio io. Quasi tutti i miei progetti sono basati su delle mie esperienze personali e talvolta intime, che sfociano in qualcosa di più astratto e misterioso. Ovviamente ci sono anche film e registi per me importanti che, in qualche modo, entrano a far parte del mio processo creativo. Ad esempio il maestro visionario David Lynch oppure il semplice, ma sempre efficace cinema del grande Sergio Leone». In che modo il cinema o l’arte in generale incidono sulla tua vita? «Secondo me l’arte è l’essenza della vita, e il cinema riesce a comprendere ogni tipo di arte, dalla pittura alla fotografia, dalla letteratura alla musica. Senza tutto questo non credo saremmo in grado di vivere e di godere certi momenti, emozioni e persone. L’arte è soprattutto fruizione, deve essere alla portata di tutti. L’errore sta nel mettere sé stesso prima dell’arte stessa e renderla oggettiva». Oltre ad aver ideato, scritto e diretto il tuo primo film “The Buzzer” hai deciso anche di interpretare la parte del protagonista, come mai questa scelta? «Semplicemente perché era ed è tutt’ora il mio progetto più intimo. Non potevo lasciare ad altri l’opportunità di rubare quello che era il mio personaggio, la mia storia. Nonostante ciò, credo che tutti possano trovare qualcosa di personale in questo film , in quanto è un’analisi riflessiva su un problema interiore che accomuna ognuno di noi: la paura». Recentemente è uscito anche il tuo ultimo film “Forsaken”, spiegaci di cosa parla e quale tema hai voluto affrontare questa volta. «Un uomo vagabonda per un mondo, apparentemente privo di altre vite umane. Questo è il plot di Forsaken, una specie di “derivato” del mio primo corto “The Buzzer”. I motivi per cui ho deciso di implementare l’idea sono bene o male gli stessi, seppure messi in un contesto e un’atmosfera abbastanza diversi. Il tema della solitudine si ricollega in un certo senso a quello di The Buzzer, trasformandosi però in un isolamento (in)volontario; sta a voi immaginarlo, visto che non ho voluto dare nessun finale fin troppo chiaro». Il film di cui avresti voluto essere il regista? «Un film che avrei voluto girare è sicuramente Taxi Driver, che è anche quello che mi sta più a cuore in assoluto. Questo perché ritengo che il personaggio di Travis Bickle sia uno dei migliori mai scritti e che più entra in sintonia con le mie idee e la mia visione di cinema».

di Bruno Marfé

Capurso, un ridente centro nell’area metropolitana di Bari, reso particolarmente caratteristico dalla bellissima Reale Basilica di Santa Maria del Pozzo che, con l’annesso convento alcantarino, fu realizzata su progetto dell’architetto barese G. Sforza fra il 1750 e il 1770 e, al cui interno, è conservata un’icona bizantina della Madonna ritrovata nel 1705. Una cornice che rappresenta a pieno i gioielli nascosti del nostro Bel Paese, quale scenario migliore per incontrare un grande volto della musica italiana: Mario Venuti. Con lui abbiamo spaziato dalla musica ai temi della legalità, per un viaggio alla scoperta delle sue nuove sonorità. Fra gli interpreti del video della canzone “Il pubblico sei tu” compare Giuseppe Cimarosa, cugino del superlatitante Matteo Messina Denaro e figlio di un ex fedelissimo del boss. Giuseppe ha detto no al sistema mafioso e il suo rifiuto assume una valenza

Mario Venuti e le sue nuove sonorità

Il sound brasiliano è il nuovo orizzonte dell’artista

enorme visto lo stretto grado di parentela con il boss mafioso. C’è un motivo particolare per cui hai voluto Giuseppe nel tuo video? «Innanzitutto perché Giuseppe è un amico. A me interessava l'utilizzo del cavallo e volevamo un cavaliere particolare che avesse anche un valore simbolico. La sua storia personale è apprezzabilissima perché lui, essendo parente di Matteo Messina Denaro, si è affrancato da questa parentela scomoda subendone le conseguenze, anche piuttosto pesanti, a causa dell’isolamento e rifiuto di Castelvetrano, dove esiste questa mentalità mafiosa che porta ad allontanare chi “parla”. Ciò ha aggiunto un valore simbolico anche al significato della canzone: questa è una cavalcata verso la libertà di pensiero, verso il libero arbitrio». Il tuo nuovo album è molto particolare… «Sì, non mi andava di scrivere canzoni nuove e parlando con Tony Canto, che con me condivide la passione per la musica brasiliana, abbiamo pensato di scegliere dei brani conosciutissimi per renderli vicini alle armonie della musica brasiliana. Un mondo tutto a sé, affascinante». La musica brasiliana, la canzone napoletana e il blues hanno un sentimento che le accomuna: la malinconia mista alla nostalgia. «È una bella cosa ciò che hai detto! Sicuramente queste musiche portano con sé qualcosa di autentico, hanno dietro una sofferenza che si esorcizza attraverso il ritmo: l'allegria. E la musica brasiliana è un misto di allegria e di tristezza. Ai momenti malinconici fanno da contralto momenti invece gioiosi, festosi come accade nella musica napoletana e nel blues che, in particolare, dal “lamento” dello schiavo nelle piantagioni evolve diventando anche rock’n roll. Sì, quindi l’autenticità delle musiche nasce realmente dalla sofferenza». Ha chiosato salutandoci e andando via verso il palco dove lo attendevano, i percussionisti Neney Bispo Dos Santos e

Manola Micalizzi, Vincenzo Virgillito al contrabbasso per il soundcheck del concerto serale (poi, come anticipato, rinviato a sabato). In questa sperimentazione bisogna riconoscere il grande lavoro effettuato con Tony Canto anche sulla vocalità: «Ho scoperto quasi un altro me stesso – confessa Mario Venuti - Noi italiani siamo portati al canto spiegato, enfatico a volte, retaggio del melodramma. In Brasile i toni sono più bassi, tranquilli, suadenti. Ho sperimentato dei timbri gravi che credevo di non avere o dei falsetti quasi femminili. Il modo in cui cantavo spesso arrivava nuovo perfino a me. Divertimento puro».

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di Maddalena Sorbino

La leggenda del Vesuvio Lacryma Christi

Il Vesuvio Lacryma Christi è un ottimo vino campano prodotto con le uve coltivate alle pendici del Vesuvio, vulcano che da secoli è il fulcro sia geografico che delle produzioni, delle arti e della civiltà di tutti gli agglomerati urbani che si sono succeduti. Tuttavia è doveroso ricordare che, come il Vesuvio ha dato vita a innumerevoli prelibatezze, così per mano dello stesso, sono scomparse intere comunità. Ma torniamo al nostro buon vino! Le prime testimonianze della coltivazione di quest’uva così forte e vigorosa, cresciuta su un terreno lavico, scuro e poroso (quale quello vulcanico), risalgono al V secolo a.C., precisamente a quando i greci portarono nella nostra terra gli Aminei della Tessaglia. Le uve che ad oggi si coltivano lungo i 15 comuni situati in provincia di Napoli sono: il Caprettone (o Coda di Volpe) per il Lacryma Christi Bianco e il Piedirosso (o Per e Palumm) per quello Rosso. Entrambe le varietà possiedono un carattere minerale, dato principalmente dal terreno vulcanico. Ma questo luogo, oltre ad essere culla di queste ricchezze davvero spettacolari, è anche ricco di mistero poiché gli uomini, nonostante fossero a conoscenza della pericolosità del vulcano, non hanno mai fatto a meno di costruire alle pendici le loro case o di seminare e raccogliere dei frutti davvero particolari. La storia di questo nettare, infatti, si tesse tra mito e realtà: una leggenda, ripresa dal grande poeta Alfred de Musset, vuole che Lucifero, cacciato dal Paradiso, strappasse un pezzo dello stesso per rubarlo e dar vita al Golfo di Napoli, luogo dove egli sprofondò e dove si levò, imponente, il Vesuvio. Gesù Cristo, resosi conto del furto, pianse per il dolore e dalle sue lacrime cadute proprio sul vulcano nacque una piata di vite e dall’acino di quell’uva ha origine il Lacryma Christi. Ancora, un’altra versione, vuole che Gesù, molto assetato, apparse ad un eremita che viveva proprio in quei luoghi chiedendogli da bere e, per ricompensare la pronta generosità di quell’uomo, trasformò l’acqua in nettare di vino. Al di là di queste leggende, è certo che questo prezioso vino fu a lungo negli anni custodito dai monaci Cappuccini che si erano insediati nella “Turris Octava”, ex colonia romana poco distante da Napoli. Grazie al loro operato la colonia prese il nome di Torre del Greco, città dove esisteva in gran quantità il “vino greco”. Certo è che la fama di questa bevanda così nobile e buona è presumibilmente connessa alle leggende spesso sorte sulla sua identificazione. Anche il nome, Lacryma Christi, non aiuta a legare questo vino al proprio territorio d’origine, forse proprio per questo il nome previsto della DOC, instituita nel 1983, è Vesuvio così da collegarlo facilmente alla sua dimora d’origine.

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Rifiorire dopo l’inverno:

la storia di Michele, guida trekking

Questa è una storia di sofferenza, di resilienza, ma soprattutto di rinascita…di ritorno alla vita. Michele Casapulla era un ragazzo estroverso, vivace, che amava lo sport come un qualsiasi ragazzo della sua età…Michele amava fare squadra e giocare a calcio, sentire l’adrenalina di una sfida e le grida di incitamento sul campo. Michele era fatto così: amava uscire e divertirsi con gli amici. Amava soprattutto le serate di festa, quando la musica suona e tu cominci a cantare, cominci a sentire ogni parola nascerti dentro, e fuoriuscire poi forte: poco importa se risulti stonato o intonato. Michele era fatto proprio così, come sarebbe giusto essere quando si hanno soli 14 anni. Ma di lì a poco nulla sarebbe stato più come prima. Velocemente la malattia avanzò in lui. Tutte le voci, tutti i suoni, improvvisamente e senza rimedio, divennero non voci, non suoni. Michele era diventato sordo, aveva perso l’udito a causa di una sporca malattia che colpisce udito e rene: sindrome di Alport, così la chiamavano i medici. Gli amici continuavano a ridere e scherzare, lui non capiva, chiedeva di ripetere, piano. Non era facile imparare a leggere le labbra così, da un giorno all’altro. Michele si sentiva in imbarazzo, sempre più lontano dagli altri, così si chiuse nella sua solitudine. E così Michele trascorse la sua adolescenza, la malattia aveva devastato il suo fisico, ma più di tutto, lo aveva devastato dentro, facendogli perdere il contatto con la società. Cominciò a preferire le passeggiate solitarie in collina alle uscite con gli amici. Michele imparò a comunicare con la Natura, o forse fu la Natura che, muta, comunicò con lui attraverso le sue bellezze. Poi a 39 anni un primo cambiamento: installa un impianto cocleare; a 41 anni la svolta: dopo 11 mesi di trattamento emodialitico, il telefono squilla e una voce avvisa della possibilità di un trapianto di rene. Chi può dire quale emozione sia stata più forte, se il timore di finire sotto i ferri o la speranza di un cambiamento nella propria vita. Oggi, a 5 anni dal suo trapianto, Michele ha deciso di andare in pellegrinaggio all’Ospedale Maggiore di Novara, dove fu operato, insieme ad Emilia Genzano, fondatrice del gruppo trekking del quale lui è guida, per dialogare e raccontarsi a medici e pazienti, così da testimoniare e aiutare a vincere la paura di non farcela e il senso di sconfitta che si prova quando la malattia ti sovrasta. Michele sa quante e quali difficoltà bisogna superare per rinascere. Michele, come si trova la forza di ricominciare a vivere? «La forza di ricominciare a vivere bisogna trovarla per forza. Non solo per te, ma anche per chi ti sta vicino e ti vede soffrire. La tua sofferenza provoca sofferenza anche ad altri ed è giusto reagire sempre... Se non per te, fallo per chi ti vuole bene». Come nasce la sua passione per il trekking? «La passione del trekking è nata per forze maggiori. Quando ho perso il contatto con la società, per rilassarmi e per distrarmi, mi piaceva percorrere sentieri alla scoperta di nuovi luoghi che la natura mi metteva a disposizione. Questa cosa mi faceva stare bene». Mi racconti perché ha deciso di intraprendere questo viaggio verso Novara «Per 25 lunghi anni non ho sentito. A 39 anni mi è stato installato un impianto cocleare, ma la malattia ha aggravato le mie condizioni fisiche costringendomi ad intraprendere una cura emodialitica. Miracolosamente ne uscii quando il 15 giugno 2016 mi chiamarono per un trapianto di rene. Da quel giorno, una volta guarito, la passione del trekking la trasformai in pellegrinaggi. Avevo bisogno di ringraziare il Creato per la seconda vita che mi aveva dato e così, nel 2019, mi misi in cammino sui passi di una beata: Madre Serafina Clotilde Micheli, fondatrice dell'ordine delle Suore degli Angeli, nata ad Imer nel 1849 e morta a Faicchio nel 1911. Perché lei? Perché tramite lei riuscivo a visitare tutti i maggiori santuari italiani in un cammino lungo 1000 km. Non a caso è stata definita dal papa Benedetto XVI "Pellegrina di Dio". Per questo nuovo cammino partirò sempre da Imer, paese natio della beata, insieme ad E. Genzano, presidente dell’associazione "Casa Betania ANSPI (CE)", dove ci sarà la Benedizione del Pellegrino e consegna del bordone. Mi dirigerò dapprima a Novara, dove ho ricevuto il trapianto e partendo da quella sala di terapia intensiva tornerò sulla tomba della beata, in segno di ringraziamento, e successivamente arriverò all’AORN di Caserta dove ci saranno ad attendermi la dottoressa C. Pascal, presso cui sono in cura, e il direttore provinciale dell’AITF di Caserta, F. Martino. Sarà un cammino lungo 1200 km che riguarderà la via Francigena del nord e poi del sud».

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di Grazia Sposito

Luca, la favola italiana oltre le paure e pregiudizi

Quell’amicizia che accetta anche le imperfezioni dell’altro, “

riconoscendole come un qualcosa di prezioso, di speciale

Èuscito sulla piattaforma streaming Disney+ il 18 giugno scorso, ma è molto più di un semplice tributo: è stato definito un racconto di formazione. Luca, il lungometraggio della Disney Pixar, è uno di quelle immagini animate che guardi tutto d’un fiato sul divano e che alla fine non puoi non far a meno di nascondere gli occhi lucidi. Il favoloso ambiente che fa da palcoscenico alle avventure dei protagonisti è quello della costa ligure delle Cinque Terre, e racconta la particolare estate di tre ragazzi preadolescenti: Luca, Alberto e Giulia. Il protagonista è appunto Luca, un ragazzo che intraprende un viaggio pieno di paure e pregiudizi, e che cerca con tutte le sue forze di farsi accettare in un mondo esterno che gli è ostile. Andando persino contro la sua famiglia pur di sfidare le proprie paure e di scoprire cosa c’è al di là del mare. Ma Luca sente forte il desiderio di libertà e di esplorare il mondo. Così il destino lo spinge sulla riva dove incontra Alberto, il suo nuovo amico, e scoprono poi di appartenere alla stessa "diversità". Infatti, entrambi appena escono dall'acqua prendono sembianze umane. I due ragazzini diventano così inseparabili e sognano di poter comprare un giorno la bellissima Vespa che spicca su un piccolo poster appeso nella torre da Alberto. Così decidono di avventurarsi nel vicino paese di Portorosso. È proprio lì, tra le piccole stradine di quel meraviglioso paesino, che i due amici incontrano Giulia, una bambina dai capelli rossi pronta a vincere l’annuale triathlon della città. Luca e Alberto, convincono la bambina ribelle a fare squadra insieme, per concorrere all’annuale gara, in triathlon di nuoto, bicicletta e abbuffata di pasta, che gli permetterebbe di vincere il denaro necessario a comprarsi l’agognata Vespa. E così, tra scorpacciate di trenette al pesto, deliziosi gelati e rocambolesche avventure per nascondere a tutti la loro vera identità, Luca e Alberto scoprono che i pericoli esistono davvero, ma che per inseguire un sogno, vale sempre la pena affrontarli con determinazione e puntare sempre all’obiettivo. Il legame tra i due protagonisti e Giulia è un esempio di amicizia autentica, che fa crescere e aiuta a scoprire sé stessi. Quell’amicizia che accetta anche le imperfezioni dell’altro, riconoscendole come un qualcosa di prezioso, di speciale. Perché, come scopriremo nel film, la diversità di ciascuno può diventare fonte di ricchezza per tutti e stimolo di crescita personale. Luca, nei suoi 95 minuti, ci fa riflettere che sull’amicizia vera, autentica e senza pregiudizi che può rivoluzionare le nostre vite. Un’amicizia che ci accompagna nelle follie o in quelle decisioni che sembravano assai lontane, dai noi e dal nostro coraggio. Un’amicizia ci cambia il destino, e ci accompagna in un viaggio umano ed emotivo, senza giudizi e pregiudizi. Ci fa sentire un orgoglio nell’essere al fianco di una persona, ma più che altro non ci fa diventare lo stereotipo di quello che vorrebbero gli altri. Luca fino a quando è rimasto nel suo mondo marino pensava che ad illuminare il Cielo, ci fossero tanti pesciolini, scoprendo poi, che si trattava solamente di Stelle. L’amicizia con Alberto, gli ha fatto conoscere un mondo, una nuova realtà per il vivere dei suoi giorni. Se dovessi riassumere il film in una sola frase, quella che sceglierei sarebbe senza dubbio “silenzio, Bruno!”. Queste sono le parole che Luca, dice ogni volta che quella vocina mette il freno a mano prima di fare qualcosa di nuovo. E, allora se arriva una vocina a dirvi di non rischiare, opporsi è facile. Basta dire: SILENZIO BRUNO!!

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di Chiara Del Prete

RISCATTARE NAPOLI CON IL POTERE DELLA FOTOGRAFIA

Quasi ogni giorno Ciro Pipoli esce di casa con la sua Nikon 3200 mosso da un’unica ragione: scovare situazioni tipiche del quotidiano napoletano per immortalarle. Non cerca l’immagine da cartolina, lui che viene scambiato per turista, complice la chioma bionda e la facilità del click. Non smette di guardare con occhi innamorati la città che l’ha messo al mondo, ma più di altri sa che la metropoli partenopea meriterebbe una comprensione che non tutti concedono, per questo ogni sua foto è un vivido riscatto verso preconcetti datati e retrogradi. Con oltre 54 mila follower condivide l’essenza della città con chi, come lui, la vive ogni giorno e ancor di più con chi la rimpiange. Chi c’è dietro l’obiettivo? Chi è Ciro Pipoli? «Dietro l’obiettivo c’è uno dei tanti napoletani innamorato della propria città. Sono un ragazzo di Napoli, dei Quartieri Spagnoli, che attraverso la fotografia ha trovato un mezzo di comunicazione per far rivalutare l’immagine di questa città. Credo di dare voce a una città in evoluzione, ma chi sa immergersi può ancora riscontrare una vecchia Napoli che continua a sopravvivere». Come nasce la tua passione per la fotografia? «Per curiosità, all’età di 16 anni ho iniziato per gioco a fare foto con il cellulare. Ai 18 mi fu regalata la mia prima e unica macchina fotografica. Sono 7 anni che scatto con la stessa camera, poi con Instagram ho avuto la possibilità di esprimermi su ampia scala: è una vetrina dove puoi raggiungere facilmente un gran numero di persone. Poi ho continuato e quella che è sempre stata una passione, si è trasformata in lavoro». Qual è il messaggio dietro i tuoi scatti? «Scatto in posti che hanno la nomea di essere quartieri difficili, attraverso la fotografia sprono ad andare oltre il pregiudizio. Rispetto a tanti anni fa i quartieri come il mio, il Rione Sanità, Forcella sono diventati posti diversi. Se oggigiorno i turisti vanno a vedere il murales di Maradona nei Quartieri Spagnoli vuol dire che qualcosa è cambiato perché prima non ci avrebbero mai messo piede. C’è un adattarsi all’epoca e sfruttare il territorio, un posto che ha una brutta nomea attira, forse più di un posto con un buon nome». Le tue foto riscattano Napoli? «Si, indubbiamente. Mi sono focalizzato su questo modo di fare fotografia perché credo che l’anima di questa città siano le persone. Penso che per capire Napoli si debba andare in giro, immergersi nelle strade e relazionarsi ai napoletani, altrimenti non puoi capire com’è. Il

Ph. Ciro Pipoli ©

turismo a Napoli è triplicato rispetto a qualche anno fa quindi la nuova generazione di italiani e di stranieri va oltre i vecchi preconcetti». Molti dei tuoi soggetti sono persone del posto, incontrate sul momento. Come approcci a loro prima di fotografarle? «È sempre molto soggettivo, dipende da chi mi ritrovo davanti. A volte le fotografie nascono per puro caso, in altri momenti da una chiacchierata. Ma questa, 9 volte su 10 la faccio sempre, chiedo il nome e quanti anni hanno per portarmi un ricordo di quella persona. In alcuni casi è capitato di rivederli una seconda volta ed è bello constatare che si ricordano di me». Nasci e cresci a Napoli, non hai mai pensato di spostarti e lasciare questa città? «Qui è una contrapposizione di sentimenti. Da un lato c’è la consapevolezza che è difficile poter crescere lavorativamente, dall’altra c’è un “mai dire mai”. Fino a qualche anno fa il pensiero di andare via non mi avrebbe mai sfiorato, la speranza è quella di poter rimanere qui però nella vita nulla è certo. Hanno lasciato Napoli personaggi illustri come Totò, Pino Daniele. Il loro pensiero è sempre stato rivolto a Napoli perché è una città che porti con te e forma la persona che sei». Hai scattato la campagna pubblicitaria P/E 2020 per Dolce&Gabbana tra il Lungomare e la Sanità. Come hai mixato la napoletanità con i modelli, i capi e i luoghi?

Ph. Ciro Pipoli ©

«Ho avuto l’opportunità di esprimermi senza timore di sbagliare perché stavo facendo quello che già faccio e ho avuto anche modo di mostrare la città. Per me è stato sorprendente, ciò che ho apprezzato è che mi hanno dato la possibilità di scegliere dove scattare. Ho proposto il Rione Sanità, per poter dare a questo quartiere la possibilità di essere al centro dell’attenzione. Abbiamo scattato tra fruttivendoli, pescivendoli, abbiamo chiesto alla gente per strada se volessero partecipare. Ci siamo intavolati in situazioni divertenti». Quando hai ricevuto l’offerta da Dolce&Gabbana qual è stato il tuo pensiero? «Io pensavo fosse uno scherzo perché mi hanno contattato via Instagram. Ho iniziato a crederci solo quando ho ricevuto l’e-mail con il brief che spiegava più nel dettaglio il tutto. Ho ricevuto i complimenti da Gabbana e non li ho delusi, c’era una possibilità di deluderli perché per me era la prima volta. Non avevo mai partecipato a un progetto internazionale. Penso alla fine siano rimasti tutti contenti». Post-produzione e retouch delle foto, sei pro o contro? Ne fai uso? «Cerco di fare una post-produzione molto lieve, lasciando la foto quanto più reale possibile. Non ho mai avuto l’intenzione di stravolgere i colori o utilizzare filtri e contro filtri per poi dare un’immagine diversa di quella che potresti andare a ritrovare dal vivo».

di Marianna Donadio

“Un altro mondo è necessario”

Il fotoreporter Luciano Ferrara racconta il G8 di Genova

“A bbiamo ragione da vent’anni”. Lo ripetono ancora una volta, nel ventennale di Genova 2001, gli attivisti provenienti da tutto il mondo che negli anni di fuoco tra il 1999 e il 2002 parteciparono alla stagione dei contro-vertici. Non possono fare a meno di ribadire che le idee e le verità che ancora oggi si vogliono tacere sono le stesse che vent’anni fa si urlavano a perdifiato nelle piazze di Napoli, di Praga, di Genova. Idee pericolose, che sono costate il sangue di molti e la morte di Carlo Giuliani. Uno di questi attivisti è Luciano Ferrara, fotogiornalista che ha documentato le giornate del G8, e non solo, attraverso immagini che sono passate alla storia. Fotografie come le sue e quelle dei 20 fotografi con cui ha collaborato sono prove di una forza disarmante; non possono mentire come hanno fatto istituzioni e capi di Polizia nella ricostruzione di quei giorni. Fotografie come queste ci consentono di gettare luce su una vergognosa violenza in divisa, che ha agito subdola dentro le mura di carceri come quello di Poggioreale, di Santa Maria Capua Vetere, e che con Genova 2001 ha raggiunto il suo apice, sotto gli occhi di tutti. Dal 2 luglio a Mezzocannone Occupato è esposta la mostra fotografica “Un libro in mostra” curata dal fotogiornalista e tratta dal suo libro “Un altro mondo è pos-

Ph. Luciano Ferrara ©

sibile”, pubblicato nel 2001 da Intra Moenia. Oggi, a vent’anni dalla pubblicazione del libro, si è voluto cambiare il titolo in “Un altro mondo è necessario”, per tenere in conto e sottolineare la storia di questi anni, che non hanno fatto che confermare quanto sostenevano gli attivisti, dimostrando tutti i limiti del liberismo e tutti i disastri da esso provocati. I movimenti No Global di quegli anni avevano previsto le conseguenze delle politiche economiche in atto e avevano cercato di costruire un’alternativa, raggiungendo numeri tali da spaventare le istituzioni a tal punto da determinare reazioni di una violenza inaudita. La storia di questo movimento, come racconta Luciano Ferrara introducendo la mostra, inizia in Brasile. «In Brasile ci fu una grande riunione internazionale dove confluirono tutte le minoranze di 5 continenti. Si doveva studiare la “democrazia del vicolo”, ovvero la democrazia partecipata che mette al centro il popolo. Poi tutto iniziò a Praga. Lì ci fu un grandissimo convegno, dove noi abbiamo partecipato come napoletani, ed è stata la prima manifestazione No Global. Poi ci fu la manifestazione del 17 marzo 2001, proprio a Napoli, a piazza Municipio. Noi l’abbiamo detto 20 anni fa “No alla globalizzazione”, adesso diciamo “Un altro mondo è necessario”. Non ci hanno creduto e da allora abbiamo fatto passi indietro, la situazione si è aggravata dal punto di vista ecologico». «A Genova c’è stata la più grande sospensione della democrazia della storia del Paese, la più grande violazione dei diritti umani per la quantità di corpi e di persone che ha coinvolto, per la morte di Carlo, per il ferimento e le torture all’interno della Diaz e all’interno di Bolzaneto» ricorda in un intervento Eleonora De Majo, ex assessora del Comune di Napoli. «Quelle argomentazioni erano così forti e così reali che oggi ci sono tornate con tutta la loro violenza, con tutta la loro pericolosità. All’epoca le no global e i no global provavano a far capire che questo modello di sviluppo, questo neoliberismo feroce, questa volontà di globalizzare il mondo dando priorità alle merci e ai profitti e non alle persone, prima o poi avrebbe portato il pianeta al collasso. Ed è successo. C’è un legame molto forte tra i giorni di Genova e i giorni che viviamo oggi». È proprio di clima, infatti, che si è parlato nella tappa napoletana del G20. Le proteste si sono subito accese, supportate dalle stesse ragioni e dalle stesse necessità di vent’anni fa, ora ancora più urgenti. In quei giorni gli attivisti sono scesi in piazza chiedendo un’inversione di rotta riguardo le politiche economiche e di sviluppo, che sostengono non possa essere affidata agli stessi governi che queste politiche le adoperano e che attraverso le multinazionali lucrano sulla devastazione ambientale. A 20 anni di distanza i giovani nelle piazze hanno voluto ricordare alla generazione di Genova 2001 che quella lotta non è finita: oggi come non mai è doveroso ricordare quelle idee e la violenza impunita con la quale tentarono di sopprimerle.

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