SUPPLEMENTO Numero 26 • Primavera - Spring 2019
L’evoluzione del torchio tipografico di Gutenberg: qualche nota sulle presse da stampa manuali di Edoardo Barbieri
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COLOPHON Supplemento Numero 26 - Primavera, Spring 2019
Redazione: Gian Carlo Torre, Marco Picasso Grafica: Paolo Faccini Web: Renato Gelforte Traduzione: Barbara Raineri (inglese) - Tamara Osler-Schweers, Luciana Chini (tedesco) Organizzazione: Bruno Zani, Elio Osler Chi intende riprodurre le parti del presente fascicolo deve citare la fonte o chiedere l’autorizzazione alla redazione. La responsabilità dei testi e dei termini è dei singoli autori. Tutti i marchi e le aziende citate su inPRESSIONI, sono proprietà dei loro detentori. Qualsiasi forma di collaborazione con inPRESSIONI è su invito e a titolo gratuito. Il materiale inviato se non concordato per iscritto, non sarà restituito. Informazioni: www.inpressioni.it - g.insieme@gmail.com
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L’evoluzione del torchio tipografico di Gutenberg: qualche nota sulle presse da stampa manuali di Edoardo Barbieri
Noi, in realtà, dei veri e propri inizi dell’arte della stampa sappiamo poco. Non solo perché i più antichi prodotti sperimentali sono andati perduti, ma perché i primi artefici hanno fatto di tutto per dissimulare le reali caratteristiche tecniche della nuova invenzione: c’erano di mezzo sia la necessità di tutelare il “segreto” di una lavorazione innovativa, sia l’incapacità di trovare le parole nuove per descrivere prodotti, processi, strumenti mai esistiti prima. Tra i più antichi testi che parlino dell’invenzione della stampa ben due sono scritti da grandi italiani (ed entrambi sono collegati agli ambienti ecclesiastici che, specie in questi primi anni, videro con grande fervore lo sviluppo di quella che il card. Niccolò da Cusa volle definire come la sancta ars della stampa!). Il più antico è dovuto alla penna dell’umanista Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, allora legato pontificio in Germania. Scrivendo il 12 marzo 1455 da Wiener Neustadt al cardinal Juan de Carvajal egli affermava: Circa quell’uomo eccezionale visto vicino a Francoforte non mi era stato scritto nulla di falso. Non ho visto delle Bibbie intere, ma un certo numero di fascicoli appartenenti a libri diversi, scritti con lettere nitide e assai corrette, prive di errori, che avresti potuto leggere senza bisogno di lenti. Si dice da più parti che siano state realizzate centocinquantotto copie, anche se altri affermano piuttosto che siano centottanta. Sul numero non ho piena certezza; circa il fatto che siano stati portati a termine, se bisogna credere agli uomini, non ho invece dubbi. Se avessi saputo ciò che desideravi, te ne avrei senz’altro acquistato uno. Da qui alcuni fascicoli sono stati inviati anche all’imperatore. Cercherò, se sarà possibile, di comprartene una. Ma temo che non si potrà: e per la distanza e perché si dice che gli acquirenti fossero già tutti pronti ancor prima che i volumi venissero terminati. L’uomo visto a Francoforte era forse Johann Fust, il socio di Johann Gutenberg con probabili incarichi di “direttore commerciale” dell’impresa. Egli mostrava singoli fascicoli della Bibbia, scritti con caratteri molto ben delineati e grossi, privi di errori o correzioni, tanto che era possibile leggerli senza sforzo e non servivano occhiali. Il numero complessivo dei volumi realizzati era secondo alcuni di 158, secondo altri di 180; sul fatto che il lavoro fosse ormai ultimato, invece, non sussistevano dubbi. Sarebbe forse stato possibile acquistarne, movendosi per tempo (alcuni fascicoli erano inviati in mostra all’imperatore), ma sembra che tutti i volumi fossero già stati prenotati. Oltre a notare l’intelligente attenzione del Piccolomini nei confronti di un episodio certo miSUPPLEMENTO Numero 26 • Primavera - Spring 2019
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nore della sua carriera diplomatica, è utile comprendere che cosa esattamente lo avesse colpito. Senz’altro il numero degli esemplari realizzati: quindi egli era al corrente che si trattava di multipli, anzi questa era proprio la novità del prodotto presentato. Manca invece ogni accenno o interesse per la tecnica impiegata, per la quale non è indicata nessuna caratteristica (fino al punto che, paradossalmente, si sarebbe potuto anche trattare di... fotocopie!). Piccolomini insiste invece su un altro elemento, la nettezza del tratto che faceva stagliare il carattere sulla pagina. In parte ciò è sicuramente dovuto all’inchiostro utilizzato. È certo che l’inchiostro gutenberghiano risultava di particolare composizione chimica e di forte nerezza, essendo anche a base oleosa (per aderire alla forma tipografica realizzata in metallo), contrariamente agli inchiostri dei copisti, solubili in acqua; ma si può osservare che il carattere della Bibbia delle 42 linee è di eccezionale grandezza (più un carattere da messale che da Bibbia!): qui, però, si allude anche ad altro. Collegato all’idea della multiplicatio librorum, cioè della prodigiosa possibilità di realizzare più copie del medesimo scritto, era diffuso un tempo il concetto di stampa come ars artificialiter scribendi, comunemente interpretato come “tecnica di scrittura artificiale”, che ben si adatterebbe all’uso di “scrivere” con tipi metallici, di tamponi per inchiostrare, di una pressa per premere la carta sulla forma. Il problema è che tale definizione era impiegata anche dai calligrafi per descrivere la loro arte. Sono anzi noti dei fogli di esempi delle varie tipologie di scrittura che il calligrafo era in grado di insegnare o nelle quali poteva realizzare i diversi documenti richiestigli: guarda caso assomigliano alle “mostre di caratteri”, cioè i fogli-campionari coi quali un’officina tipografica pubblicizzava le proprie disponibilità tecnologiche. Non pare quindi assurdo ipotizzare che quell’artificialiter possa essere interpretato, meglio che “artificialmente”, “artificiosamente”, cioè “secondo un’arte”, una regola. In effetti, il calligrafo insegnava per l’appunto a realizzare diverse tipologie di scritture formalizzate, realizzate cioè secondo un modello grafico prestabilito. Se le cose stanno così, allora Enea Silvio Piccolomini, forse più per intuito che per una sua particolare esperienza grafica, seppe in realtà riconoscere uno dei grandi aspetti di novità della stampa tipografica, il fatto cioè di essere realizzata per l’appunto tramite tipi, ovvero riproduzioni metalliche a rilievo e speculari delle singole lettere. Come le scritture alfabetiche procedono per astrazione di registrazione grafica dei suoni della lingua, così la stampa tipografica giunge a produrre un singolo oggetto atto a rappresentare una lettera. In tal senso, la prima vera multiplicatio da realizzare era quella dei caratteri che, procedendo per successive gettate (cioè colate di lega metallica fusa) di una singola matrice collocata in uno stampo di fusione, erano tendenzialmente l’uno identico all’altro. Allora, la formalizzazione delle scritture manoscritte trovava la sua apoteosi nei caratteri tipografici che riproducevano il medesimo disegno di un qualunque segno grafico uguale a se stesso, in qualunque posizione si trovi. L’osservazione di Piccolomini circa l’alta leggibilità del prodotto tipografico, lungi dall’essere generica, centra perciò profondamente una delle sue specificità. Di non molto posteriore è un altro prezioso appunto contenuto nel De cifris di Leon Battista Alberti, il celebre umanista-architetto, annotazione che permette di conoscere le prime reazioni dell’ambiente umanistico romano all’invenzione della stampa: Mentre ero presso il Dati nei giardini pontifici del Vaticano e, come al solito, discutevamo di ciò che riguarda la letteratura, ci capitò di parlare in termini fortemente positivi dell’inventore tedesco che di 4 _INPRESSIONI-Marzo 2019-26.indd 4
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questi tempi da un solo esemplare tramite l’impressione di certi caratteri ha reso possibile ricavare più di duecento volumi in cento giorni e con l’opera di non più di tre uomini. Infatti, con un’unica impressione produce una pagina di grande formato tutta scritta. La notizia, così com’era giunta a Roma, assume innanzitutto il tono tutto positivo della scoperta, del risultato di uno sforzo mai realizzato prima. Anche qui il dato che più impressionava era quello della moltiplicazione degli esemplari in un lasso limitato di tempo; con senso pratico si aggiunge il numero dei lavoranti necessari per ciascuna pressa tipografica: il compositore che creava la forma tipografica e i due torcolieri che azionavano il torchio, l’uno il battitore per inchiostrare la forma coi tamponi (mazzi) e l’altro il tiratore per inserire il foglio e tirare la barra che, tramite una vite, la platina e il timpano, comprime la carta sulla forma inchiostrata. Tre in tutto, effettivamente (anche se poi nell’officina operava anche almeno un garzone, a esempio per preparare l’inchiostro). Si vuole cioè sottintendere l’economicità dell’operazione, l’abbassamento dei costi e quindi del prezzo del prodotto cosicché il tema della “democratizzazione” della cultura reso possibile dalla stampa è un tema ricorrente nel dibattito quattrocentesco. L’appunto albertiano, e la cosa non stupisce, mostra un’attenzione tecnica del tutto speciale. Effettivamente del sistema esatto di produzione e poi di assemblaggio dei caratteri, l’Alberti non sa pressoché nulla. Fornisce però una notizia non casuale quando dice che con un’unica impressione si può stampare un’intera pagina di formato grande. È noto che la Bibbia di Gutenberg è stampata nel formato librario più ampio, cioè in folio. Ciascun foglio di risma, cioè di carta di stracci così come veniva prodotta dalle cartiere e commercializzata in pacchi di 500 fogli (una risma per l’appunto, nota già prima dell’invenzione della stampa), nel formato in folio risulta piegato una La spremitura dell’uva dal Ciclo dei mesi, Trento, Castello del Buonconsiglio, Torre Aquila
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volta, lungo l’asse mediano perpendicolare al lato lungo. I fogli così piegati vengono “inquadernati” a formare fascicoli di varia consistenza: la zona della piegatura viene forata e poi cucita per creare il libro vero e proprio. Ogni foglio comprende perciò quattro pagine, una sul recto e l’altra sul verso di ciascuna metà. Questo se si guarda naturalmente il foglio piegato. Dal punto di vista produttivo, il foglio aperto comprende due pagine Antico torchio da uva, Trento, San Michele all’Adige, Museo delle genti trentine su un lato e due sull’altro. Occorre sapere poi che nel torchio manuale l’energia messa a disposizione dal tiratore (e moltiplicata dalla barra in quanto leva) sottostava però ad alcuni limiti: la lunghezza della barra che non poteva superare quella del braccio umano, la forza media che un maschio adulto poteva applicare, la dispersione creata dalla vite che doveva mutare la direzione del vettore della forza da orizzontale in verticale, l’attrito delle parti meccaniche, etc. Considerato tutto ciò, la forza risultante, che non doveva poi esercitarsi su un singolo punto, ma su una superficie, era in realtà sufficiente per imprimere solo la metà di una facciata del foglio di risma. Per questo la platina era grande come solo metà del foglio e quindi del timpano. Nei torchi degli ultimi anni del Quattrocento si usava il sistema di stampa “a doppio colpo”, tramite il quale, poggiato il foglio su una forma della sua stessa dimensione, prima si esercitava la pressione su una metà del foglio e poi, dopo aver sollevato la platina, si faceva scorrere più sotto il carrello portaforma col timpano e si stampava la seconda metà. Si poteva cioè imprimere un intero lato del foglio su una forma di ampiezza adeguata in un unico momento, ma tramite due pressioni successive della platina. Nella stampa delle origini, invece, e si deve senz’altro presumere che il torchio di Gutenberg funzionasse così, si stampava realmente solo metà del foglio ogni volta, per cui non solo la platina, ma anche timpano e forma erano grandi solo quanto metà di un foglio. Ecco allora che l’indicazione fornita dall’Alberti è assai precisa: il prototipografo tedesco stampava in una volta un’intera pagina del formato in folio! I lavori di Lotte Hellinga della British Library, ora disponibili anche in italiano (Fare un libro nel Quattrocento. Problemi tecnici e questioni metodologiche, Udine, Forum, 2015) insistono proprio sul passaggio, avvenuto nelle officine italiane degli anni ’70 del XV secolo, dalla pressa a un colpo al vero e proprio torchio tipografico a doppio colpo. Ma come è possibile che un tecnico e un umanista della sapienza dell’Alberti, pur così interessato alla cosa, ne sapesse realmente tanto poco? In realtà, per trovare qualcuno che spiegasse, se non in termini esaustivi, il che accadrà ancora più tardi, quantomeno mostrando qualche competenza tecnica dei procedimenti della stampa, occorre attendere circa un secolo. La ragione della riservatezza dei primi tipografi è già stata accennata: la necessità di garantire il segreto industriale 6 _INPRESSIONI-Marzo 2019-26.indd 6
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del quale erano in possesso. Così è sicuramente stato per la stampa: un procedimento tecnico creato e noto in un ambiente assai ristretto di persone che solo per una causa estrinseca subì un movimento centrifugo che lo portò a diffondersi per l’Europa. Se dunque, per quello che si sa, la prima invenzione di Gutenberg è stata la multiplicatio typorum, cioè la tecnica per riprodurre tramite fusione un numero teoricamente illimitato di caratteri (tipi) tendenzialmente identici poi assemblabili e riutilizzabili più volte per formare i più svariati testi, non meno impegnativa è stata la creazione della primitiva pressa “a un colpo”. Si dice, un po’ ingenuamente, che usasse come modelli una pressa per l’olio (che sarebbe diversa dai frantoi per le olive: quando mai Gutenberg può aver visto produrre olio d’oliva se non varcò mai le Alpi?) o una per il vino: ma anche queste erano del tutto diverse. Si trattava infatti di lunghe travi in legno fissate su un lato che dall’altro venivano fatte scendere lentamente tramite una vite. Al centro la trave poteva comprimere l’uva entro il tino per produrre il mosto. Testimonianze certe di ciò sono sia l’immagine della spremitura che si osserva a esempio nel ciclo tardogotico dei mesi all’interno di Torre Aquila al Castello del Buonconsiglio di Trento, sia l’antico reperto di un torchio di questo tipo conservato al Museo degli usi e costumi della gente trentina di San Michele all’Adige. A riprova che il torchio da vino fosse costruito in questo modo sta la curiosa iconografia del cosiddetto “torchio mistico” nel quale Gesù, caricato della croce, viene “spremuto” esattamente secondo l’immagine del torchio prima descritto. Quindi Gutenberg deve aver creato anche il torchio, probabilmente quasi tutto in legno, forse simile a quelle presse da legatore che fino a pochi anni fa servivano a comprimere i volumi appena rilegati mentre si asciugavano le colle. Col nome di tipografo si definiscono sia il responsabile-proprietario di un’officina di stampa, sia i suoi lavoranti. Alle origini (ma praticamente sempre) chi dirigeva un’officina tipografica era uno del mestiere, che aveva percorso tutto il cursus professionale richiesto, anche se era dotato di una buona preparazione culturale. Certe scuse inserite al termine di tante edizioni e riferite agli errori rimasti nel testo fanno intendere che solo il capo officina era in grado talvolta di rendersi conto persino degli errori di composizione. Nella tipografia delle origini, oltre alle suddette competenze, il titolare di un’officina era anche il punzonistafonditore di caratteri. Era lui insomma che li disegnava, li riproduceva su punzoni, batteva le matrici, gettava i caratteri. Lentamente tale professione diverrà più specialistica: basti pensare alla presenza del celebre Francesco Griffo, inventore per conto di Aldo Manuzio prima Il Torchio mistico, di Ernst Van Schayck SUPPLEMENTO Numero 26 • Primavera - Spring 2019
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del corsivo greco e poi di quello latino, oppure all’attività veneziana, agli inizi degli anni ’40 del XVI secolo, di Peter Schöffer jr., figlio del collaboratore di Gutenberg. A fianco del proprietario c’era il proto di tipografia, il vero direttore dell’officina. Ancora, ecco un numero indefinito di garzoni e apprendisti che si occupavano (oltre che delle operazioni necessarie alla vita, talvolta comune, di tutti i lavoranti) di preparare l’inchiostro, inumidire i fogli prima della stampa, stenderli per farli poi asciugare, trasportarli. Prima seduto, poi in piedi davanti alla cassa dei caratteri tipografici troviamo il compositore, che legge il testo, il modello (exemplum in latino) fissato su un visorium (piccolo leggio) ed estrae con la mano destra i caratteri dai singoli scomparti per allinearli sul compositoio (una riga a squadra con un fine corsa per la giustificazione della linea), retto con la sinistra. Terminata ogni La marca tipografica di Badius Ascensius linea di caratteri, la trasferiva sul vantaggio, un ripiano in legno che conteneva tutta la pagina di caratteri. Questa veniva poi legata con dello spago. Quando erano pronte tutte le pagine che, a seconda del formato e della fascicolatura decisa, sarebbero entrate a far parte di una certa forma tipografica (§ 6), si procedeva alla imposizione della forma, all’inserimento cioè delle pagine di caratteri all’interno di una cornice lignea o metallica (gabbia o scheletro) dove essi venivano ben stretti per passare alla stampa. La forma veniva dunque assegnata ai due operai addetti al torchio. L’uno si occupava dell’inchiostratura, realizzata tramite la battitura (per questo era detto battitore) sui caratteri di due mazzi ovvero grossi tamponi intrisi d’inchiostro (i rulli inchiostratori sono invenzione recente). All’altro era assegnata una serie più complessa di operazioni. Prelevato un foglio di carta già inumidito, lo fissava sul timpano, dove veniva tenuto a registro da piccole punte. Sul timpano ripiegava la fraschetta (in pergamena o cartone) utile a proteggere i margini del foglio. Chiudeva poi timpano, foglio e fraschetta sopra un carrello portaforma, dove era, appunto, collocata la forma tipografica. Il carrello scorreva su binari (spinto a mano o tramite una cinghia collegata a una manovella) fin sotto la pressa vera e propria. A questo punto l’operaio tirava la barra della vite (da qui il nome di tiratore) così da far abbassare la platina che comprimeva il timpano contro la forma, stampando (tramite una seconda pressione sulla parte del foglio prima non impressa) un intero lato del foglio tipografico. Dopodiché, una volta sollevata la platina e sbloccato il carrello, occorreva riportarlo alla posizione iniziale, aprire il tutto e prelevare il foglio stampato su un lato per metterlo ad asciugare. Nella realtà, siamo poco informati sulla effettiva organizzazione del lavoro nell’officina, perché le fonti disponibili si riferiscono a un periodo piuttosto tardo e a grandi officine ben strut8 _INPRESSIONI-Marzo 2019-26.indd 8
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turate, in particolare quella dei Plantin-Moretus di Anversa tra Cinque e Seicento. Tutto doveva essere molto caotico e rumoroso, con operai costretti in spazi ristretti per lunghissime giornate di lavoro. Certa è poi la fretta con la quale si lavorava: non solo si doveva di norma concludere in un solo giorno la lavorazione completa di un intero foglio tirandone tutti gli esemplari programmati, ma tutto doveva essere fatto in modo che ciascuna operazione andasse a svolgersi nel momento giusto. Basti pensare alla necessità di disfare quanto prima le forme per poter ricollocare i tipi nella cassa tipografica e riutilizzarli per una nuova forma. Un microscopico affresco di tale fervore ce lo fornisce il Don Chijote (p. II, cap. 62): Ora accadde, che camminando don Chisciotte per una strada, alzò gli occhi e vide scritto sopra una porta a lettere cubitali: QUI SI STAMPANO LIBRI. Ciò gli piacque fuor di modo, perché sino allora non aveva veduto mai stamperie e desiderava sapere come fossero costrutte. Entrò dentro coi compagni, e vide tirare da una parte, correggere dall’altra, quivi comporre, emendare di là, e infine tutte quelle macchine che nelle grandi stamperie si ritrovano (trad. di Bartolomeo Gamba). Ma l’ultimo capitolo della fortuna del torchio in legno nato dall’evoluzione di quello di Gutenberg è a fine Settecento con l’Encyclopédie, tanto come magnifico prodotto tipografico, quanto come insieme di testo e figure. La storiografia ha già sottolineato l’importanza dell’iniziativa che portò due personaggi così estranei e diversi come Denis Diderot e Jean Baptiste d’Alembert a
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creare il simbolo di una nuova cultura in rottura col passato. In realtà le intenzioni erano in parte diverse e le reazioni dei due curatori alle difficoltà inIl torchio nell’Encyclopedie contrate dall’impresa furono assai differenti fra loro. Sta di fatto che il tutto prese la forma di un enorme affare commerciale, dove i meccanismi di sottoscrizione e le stampe non autorizzate o clandestine generarono un significativo flusso economico. L’Encyclopédie, nella sua versione originale francese, ma con correzioni e aggiunte che ne smussavano le punte polemiche, venne ristampata anche in Italia, a Lucca in 28 volumi (1758-1777) e a Livorno in 33 (1770-1779). È d’altro canto proprio la parte ancor oggi più godibile dell’Encyclopédie, ossia le sue splendide tavole con spiegazioni, a fornire la più completa e dettagliata illustrazione di strumenti, tecniche e modi d’uso dei caratteri tipografici e del torchio. Quasi a chiusura del ciclo iniziato da Gutenberg, e alla vigilia delle decisive trasformazioni tecnologiche che rivoluzioneranno il mondo della produzione del libro viene proposta una serie di dettagliatissime incisioni che mostrano fabbricazione e fattezze del carattere e struttura e uso del torchio, a sottolineare la nuova dignità che anche le arti e i mestieri avevano raggiunto in un’opera che si fregiava nel titolo di essere un «dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers». Si tratta nella fattispecie della migliore e più dettagliata descrizione del torchio manuale in legno, così come era andato perfezionandosi nel corso di tre secoli, in realtà il canto del cigno di tale strumento (sia detto tra parentesi, l’unico torchio in legno originale che ci sia giunto sostanzialmente integro pare essere quello quasi per miracolo sopravvissuto a Bressanone e ora proprietà della famiglia von Mörl della tipografia Weger). In ballo c’erano però anche decisive mutazioni tecnologiche: chi volesse rileggere le prime pagine de Le illusioni perdute di Honoré de Balzac troverebbe narrate, da uno che di tipografie se ne intendeva per davvero, le trasformazioni in atto. Basti qui accennarvi. Da un lato si migliorarono i modi di produzione della carta. Questa, stante l’impossibilità di un incremento sostanziale della materia prima (gli stracci, soprattutto scarto dell’abbigliamento) era già andata progressivamente diminuendo di grammatura, cioè di spessore. Si introdussero nuove macchine di lavorazione che permisero la realizzazione non più di singoli fogli, ma di rotoli di carta. A questo punto interverrà anche l’idea di usare la cellulosa e la polpa di legno, così da incrementare quasi indefinitamente la produzione, pur a scapito della qualità. Anche il torchio subì progressivi miglioramenti, innanzitutto con la sua realizzazione in ghisa, il che permetteva di stampare con una sola pressione fogli 10 _INPRESSIONI-Marzo 2019-26.indd 10
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molto più grandi di quelli tradizionali. Da lì si passerà alla realizzazione di torchi in piano alimentati automaticamente, e poi a rotative: il tutto grazie all’uso del vapore come forza motrice. Per velocizzare la composizione si inventeranno la linotype e poi la monotype. Si tratta però di sviluppi che esulano dal territorio che si era deciso di percorrere. Ma quelli sono torchi azionati dalla forza del vapore, non più da quella umana! In effetti i vari tipi di torchi manuali in ghisa (che ancora si vedono in giro tra musei e biblioteche) costituiscono invece l’anello di congiunzione fra l’antica tradizione e il mondo nuovo delle “macchine”. Il caso del torchio Stanhope è particolarmente interessante perché, creato in Inghilterra, affermatosi in Francia, fu poi diffuso e persino prodotto anche in Italia (si vedano i lavori di Pierfilippo Saviotti di prossima pubblicazione). In particolare, il torchio Stanhope non abbandona la vite senza fine (come fecero altri modelli di poco successivi, come l’Albion), ma, tramite un sistema di leve a gomito applicate alla barra, moltiplicava la forza disponibile, muovendo una platina di grandi dimensioni atta a stampare con un solo colpo una superficie assai maggiore del consueto torchio in legno. Un caso assai interessante di applicazione del nuovo torchio metallico, in questo caso proprio di quello Stanhope, è testimoniato dall’edizione dei Promessi sposi del 1840: sapere che torchio fu usato ha anche un’importante ricaduta a livello filologico, perché permette di meglio spiegare le correzioni inserite dall’autore in corso di stampa. Nel contratto fatto predisporre dall’autore con i tipografi Guglielmini e Redaelli di Milano, Alessandro Manzoni mirava a proteggere l’opera da eventuali contraffazioni e a difendere il proprio investimento, visto che l’edizione era a sue spese. Per questo fece uscire le famose illustrazioni predisposte da Francesco Gonin e scelse di far imprimere l’edizione con questo modello di torchio, entrato in produzione in Lombardia solo l’anno precedente. Ecco cosa scrive nel contratto sottoscritto con gli stampatori: «[...] 6° gli editori terranno a disposizione dell’autore tutti i torchi alla Stanhop che saranno necessarj pel regolare andamento di questa edizione [...]».
Esempio di torchio in ghisa modello Stanhope SUPPLEMENTO Numero 26 • Primavera - Spring 2019
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