Titolo: Eppure stento a immaginarmi allora. Una lettura di ‘Resoconto su reddito e salute’ di Igor De Marchi. Autore: Azzurro D’Agostino Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2014 Vol.: 23
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Eppure stento a immaginarmi allora.
Una lettura di Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi
di Azzurra D’Agostino
In realtĂ , la poesia 2014
Appena dentro l’impressione che si ha è quella di esserci già stati. Non per qualche faccia riconosciuta né per gli oggetti spesso uguali ma per quel sentimento che solo ti danno i digiuni di zone industriali. Con quell’aria di dinamico vissuto e già insieme un po’ dimessa. (appena dentro, p.22)
Sappiamo che questa e tutte le altre poesie contenute in Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi sono state scritte tra il 1996 e il 2002. Ce lo dice una nota in chiusura di libro, di un libro ormai pressoché introvabile (come introvabile fu quasi da subito, dopo la sua uscita nel 2003: si aggirò per circuiti significativi ma laterali). Perché le date. Questo breve scritto le prende a occasione, senza però volere fare una comparazione tra letture in tempi diversi, anche se a rileggere oggi si rende forse chiaro il motivo dell’attonimento che il libro comportò.
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Sto pagando un mutuo di quindici anni per l’appartamento in cui vivo. Ho sottoscritto una polizza vita di vent’anni. Il mio promotore finanziario di fiducia mi sottopone ogni quindici giorni vantaggiose opportunità di investimento a lungo termine. Eppure stento a immaginarmi allora brizzolato e limpido, circondato da nipoti gioiosi e figli amorevoli come vuole la brochure dell’assicurazione . (Il mutuo, pag. 65)
I vent’anni sono quasi passati, dal 1996, e ciò che la poesia descrive è un dubbio trasformato in realtà. Tutto il libro ha in sé serpeggiante questa perplessità che ciò che si racconta in giro, e anche ciò che si vede, non sia altro che una questione di facciata e che basti lasciar lavorare il tempo e la carie porterà in superficie il marcio. C’è un che di precario, di instabile, un continuo sotterraneo disagio, che resta intrappolato nei dettagli del quotidiano per tratteggiare una situazione esistenziale, come emerge ne lo zaino, una poesia della
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quarta sezione, che racconta di un ragazzino visto per caso “uscire da scuola/ e accettare un passaggio in macchina/ da un compagno e sua madre. / Io in coda, dietro a loro, con la mia. / Capita che li segua/ per tre lunghi semafori. / Lui non si toglie lo zainetto/ dalla schiena. Resta così: / seduto di traverso/ scomodo tutto il tempo./ Tanto poi deve scendere.”. C’è, in una descrizione come questa, che raccoglie in sé il pragmatismo e l’efficacia talmente tipici da essere diventati cliché della mentalità di un’intera area d’Italia, c’è qualcosa che pure racconta di una crepa, di un’impossibilità di “stare a proprio agio, alla pari”. Qualcosa che, così come l’ipotesi di un crollo, pareva davvero impossibile non solo da accettare, ma persino da considerare in riferimento al Nord-est a cavallo tra gli anni ’90 e i Duemila. Fa quasi strano ripensarci: i servizi dei telegiornali di allora che parlavano del ‘miracolo’, del ‘traino d’Italia’ – e che in qualche modo hanno fomentato una certa idea del mondo che è diventata poi pungolo per federalisti e leghisti. Ipotizzare un’altra realtà, letalmente costruita nel giorno per giorno della fatica di essere lavoratori colle “giacche tenute in moda” era qualcosa che forse solo la poesia poteva tentare di dire. Non perché la poesia sia un’arte di veggenti, bensì perché forse lo sguardo del poeta è uno sguardo in qualche modo più libero, stretto da altri angoli che non quelli del mormorio o della strada segnata della cronaca. Forse per questo
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De Marchi ha potuto scrivere proprio in quegli anni una poesia come dimissioni: Sulle riviste specializzate una rubrica a parte: a metà strada tra le inserzioni con gli annunci e gli articoli redazionali pubblicitari. Un trafiletto. Senza foto. Vicino a una data scritta come un prezzo, l’appunto contrito della brusca scomparsa. (p. 61)
Bene sottolinea Umberto Fiori, nel presente che fu il tempo di scrittura della prefazione, che al centro di questo libro e dell’interesse di De Marchi “ci sia quella che – con termine pregiudicato, ma forse qui inevitabile – si chiama la realtà. (...) In questi versi amari, taglienti, l’opulento Nord-est italiano ci si mostra nei suoi colori più foschi, più allarmanti”. Oggi, nel presente di un tempo in cui il Nord-est ha perso quella sua opulenza e che quei colori foschi non sono più semplicemente ‘allarmanti’ ma sono diventati la realtà stessa, ci vengono incontro alcune questioni.
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La prima è una sorta di trasformazione, nel durare dei versi e per tramite del tempo, della realtà in verità. È probabilmente questo un punto assai spinoso, poiché si scomoda addirittura un termine vilipeso e obsoleto come verità, appunto, ma pure l’impressione che persiste è che la poesia intesa come opera in qualche modo lavori e si interroghi sempre su questo piano. Per tale ragione, il libro di De Marchi (come altri libri da ritenersi libri importanti) non poteva essere ‘attuale’ quando uscì come non è detto lo sia oggi – quantomeno in riferimento a un segmento storico ben definito. E l’idillio finisce qui, a distanza. E forse si è già oltre. Avvicinandosi solo le case si scoprono, aggrappate in basso, dai vetrocamera detersi. Dietro le strade illuminate malamente l’ansia di tutti i giorni. E di quella ho perso il conto, mentre continua ad essere oscuro il miracolo: non si sa quale sia la misura, perché tutto comunque tiene e perché tutto dura. (II., p. 83)
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Un testo come questo naturalmente non si riferisce solo ‘al suo tempo’ letto come tempo dell’immediato presente, bensì s’allarga a un tempo vasto, umano e in qualche modo sovrumano insieme. Resoconto su reddito e salute, nonostante il titolo consideri una modalità di analisi quasi da censimento ben circoscritto e determinato, ha dunque in sé l’apertura dell’inattualità e grandi potenzialità per il contemporaneo. In realtà mai del tutto espresse, mai del tutto portate a compimento: ne è questo forse uno dei tratti più perturbanti e potenti. Il linguaggio stesso, sempre a cavallo tra il dimesso e il controllo estremo (però sempre sul punto di essere perso), ha quel tratto di sommovimento da vulcano dormiente, quel fascino che rende la fondina – nella sua potenzialità – più spaventosa dell’arma spianata. Così è festa in famiglia: Sfidarsi – faccia a faccia senza mostrarsi i denti. Digrignare nascosto dalle labbra ognuno il suo rancore, anche i piccoli nervi quotidiani. Con le difficoltà di condividere per giunta gli stessi mattoni, le stesse tubature, lo strazio di sega circolare che smozzica l’astio di fabbrica. Ti viene su tutto in un colpo:
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come tanti pasti fatti in fretta -digeriti male. (p.26)
Un’altra questione che si apre e che in qualche modo è a questa collegata viene incontro da tutt’altro contesto e ci consegna un concetto chiave: si tratta di una riflessione di Enzesberger in merito alle avanguardie poetiche, che lui accusava in qualche modo di ipotecare il futuro. La scrittura che sappia e voglia riflettere il e sul presente, quando mette radici profonde dentro il senso di questo presente, per forza si addentra in un territorio ulteriore, che ha a che fare, come si diceva, con un tempo quasi sovrastorico. In ciò il futuro non è contratto in un concetto né stretto in una ipoteca, ma anzi si libra in una visione come il celebre albatro sui tempestosi mari del poema. Ritrovare questo nelle spicce parole da ‘uomini d’affari’ all’interno di questo odiernissimo e antico ‘rendiconto’ non è inusuale: “Senza tempo non si va / da nessuna parte: / slanci ingenerosi e stime poco attente”, noi in qualche modo sottoposti di “un dio che dispone/ di un occulto scadenzario / - che applica a ciascuno / un destino progressivo”.
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Un ulteriore aspetto da considerare, una volta aperta la pagina così smangiata della mortalità (ciò a cui in fondo il tema del tempo rimanda continuamente), è il legame che molto sottilmente affianca questo libro verso l’arte che per eccellenza ha a che fare con la morte, ovvero il teatro. Un legame per nulla esibito o scontato, e non ricavabile solo dalla quasi banale considerazione delle maschere che vengono indossate dai vari ritratti di cui il libro fa una carrellata: la barista, l’agente di commercio, le persone ai funerali o intorno a una tavola. Più che al teatro nella sua generica ‘teatralità’ (e dunque distanza dal teatro stesso, come bene spiega Morganti) c’è qui un intreccio con l’arte teatrale nel suo profondo: si dà il caso, che molto colpisce, di una citazione da Mejerchol’d a sigillo d’apertura del volume. Non sbaglia Fiori nel trovare i richiami a Brecht, fin dal titolo della sezione ‘Ascesa e declino di un agente di commercio’. Due citazioni traslate e bislacche, che pure rendono perfettamente compatto l’insieme così poco lirico ma assai in qualche modo amorevole del testo, tutto teso a scontornare figure e paesaggi dal buio del dolore e della morte, nella forse rassegnata o forse pietosa consapevolezza di non poter nulla salvare – ma tentando comunque di nominare, attraverso la vicinanza alla morte, la vita. Saranno allora le parole da L’attore biomeccanico a chiudere questo piccolo commento – proprio là dove
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si apre un libro che ci s’augura i lettori vorranno e potranno presto reincontrare. “Il salto mortale non basta: attraverso il salto deve passare qualcosa d’altro, di noto a tutti, di conosciuto nel profondo, deve passare la vita. Solo allora il salto può diventare non abile dimostrazione di agilità ma intreccio eterno di vita e di morte”.
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