Titolo: Realismo versus formalismo nella poesia spagnola sesentayochista: il caso di José-Miguel Ullán Autore: Rosa Benéitez Andrés Traduzione: Lorenzo Mari Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2014 Vol.: 25
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Realismo versus formalismo nella poesia spagnola sesentayochista: il caso di José-Miguel Ullán
di Rosa Benéitez Andrés
In realtà, la poesia 2014
Sin dalle origini, la letteratura si è rivelata una forma adatta alla narrazione di storie, vale a dire, alla trasmissione di contenuti rilevanti nei confronti di una comunità, un popolo o una nazione. Inoltre, in analogia con altre arti, la letteratura offre anche la possibilità di fare memoria, di tornare sugli eventi che hanno determinato buona parte della nostra cultura, per capire le circostanze che li hanno motivati e che hanno condotto a un presente che, irrimediabilmente, risulta più o meno opaco ai nostri occhi estraniati. Oltre,
però,
all’opportunità
di
costruire
e
comprendere racconti, si potrebbe considerare in
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egual misura certa scrittura di finzione che, insieme a questo, esercita la critica del presente. Una narrazione che, come segnalava Aristotele nella Poetica, ha maggiormente a che fare con il possibile che non con il verificabile, compito che, d’altro canto, compete a un’altra disciplina. È questa, dunque, una proposta estetica che oltre a fornire gli elementi costitutivi di una cultura e di una tradizione, intende attualizzare passato e futuro, interrogando i percorsi che hanno contribuito al suo posizionamento. Una collocazione intermedia tra il meramente testimoniale e il verosimile. Nel
contesto
della
poesia
spagnola
contemporanea, l’urgenza di una simile necessità ha vissuto uno sviluppo quantomeno diseguale. La lirica nazionale si è dibattuta in modo più o meno costante tra i poli della mimesis e della poiesis, intendendo entrambi i termini con il loro significato strettamente etimologico,
di
“imitazione”
di
contro
alla
“produzione”. Di conseguenza, se in alcuni frangenti era fondamentale per questa poesia offrire un riflesso fedele del reale, in altri questa premessa cedeva
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spazio alla creazione più immaginifica. In ogni caso, le estetiche che posteriormente hanno ricevuto le etichette di “realista” o “sociale”, da una parte, e di “simbolista” o “formalista”, dall’altra, non hanno sempre risposto a un dettato disgiuntivo – del tipo “è realista o non è realista” – in senso stretto. I periodi di cambiamento o di transizione sono stati, in questo senso, meno rigidi nei loro postulati estetici e, forse per questo motivo, anche più fecondi, in relazione alle opzioni critiche offerte dal loro ambito di lavoro. Così, il passaggio, nella poesia spagnola del secondo Novecento, da una poesia «histórico realista» (“storico-realista”, cfr. Castellet, 1960, 104) a una «culturalista» (“culturalista”, cfr. García Berrio, 1989), più che come semplice intervallo tra due estetiche dall’ampia ripercussione, potrebbe essere interpretato come processo di alterazione e messa in discussione di un ordine, percepito come incapace, oppure anche sperimentato come frutto di un’imposizione. Per
questo
sistema
poetico,
l’inizio
della
transizione critica comincia a profilarsi negli anni Sessanta. Un evento fondamentale è la pubblicazione
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del già classico Tendencia y estilo (“Tendenza e stile”) nel numero del novembre 1961 (n. 180) della rivista Ínsula. Un testo che più tardi il suo autore, José Ángel Valente, avrebbe incluso nel volume Las palabras de la tribu (“Le parole della tribù”) del 1971. In quel testo, il poeta proponeva una riflessione che, oltre a plasmare le condizioni di esistenza della poesia spagnola di quegli anni, dava inizio, senz’ombra di dubbio, a un nuovo ciclo nella perdurante querelle poetica tra realismo e formalismo. Nel dopoguerra, il dibattito letterario spagnolo era caratterizzato dalla presenza di due aneliti fondamentali: un marcato «antiformalismo más o menos polémico» (“antiformalismo
più
o
meno
polemico”)
e
«el
descubrimiento de la necesidad histórica y social de ciertos temas» (“la scoperta della necessità storica e sociale di certi temi”, cfr. Valente, 2008, 49). Questo giudizio, a prima vista neutrale e condiviso da buona parte del sistema letterario del momento, acquisiva, in ogni caso, un posizionamento sovversivo mano a mano che l’autore procedeva nell’argomentazione:
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È curioso che una corrente di scrittori che intende orientarsi verso il realismo corra in questo modo un rischio concreto di irrealismo o di formalismo tematico.
Abbondano
i
poeti
di
tendenza
e
scarseggiano i poeti con stile, con la capacità, cioè, di tuffarsi sotto le superfici del tematico, che sono così propizie per l’opportunismo e per la mediocrità” (cfr. Valente, 2008, 50). Con questo ritratto si prefigurava e, in un certo modo, si determinava il nuovo scenario poetico della Spagna della metà degli anni Sessanta. Dopo una fase energica di produzione “sociale” o anche “realista” – entrambi gli aggettivi risultano vaghi – iniziata da figure come Dámaso Alonso e Vicente Aleixandre all’inizio degli anni Quaranta (nel 1944 escono, rispettivamente, Hijos de la ira, “Figli dell’ira”, e Sombra del Paraíso, “Ombra del Paradiso”), tra i poeti di Spagna comincia a diffondersi il rifiuto tanto degli autori delle generazioni precedenti quanto di quelli, più giovani, che si erano fatti carico delle proposte di lavoro degli scrittori dei primi anni del dopoguerra. In questo modo, se da un lato quegli autori
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continuavano nell’alveo dello spirito critico che aveva caratterizzato le tendenze del realismo storico, d’altro canto essi cercavano anche di uscire dall’impasse linguistico nel quale erano sfociate tali proposte. Si trattava, pertanto, di mantenere un approccio di dissenso e disallineamento nei confronti tanto della realtà sociale, economica e culturale della Spagna franchista quanto di una letteratura che era caduta in un certo riduzionismo tematico e strutturale. In questo senso, le nuove correnti poetiche ritenevano che una simile concezione di letteratura “impegnata” (nell’accezione sartriana del termine engagement) fosse pervenuta a formulare un’estetica ripetitiva e sterile. La diagnosi presentata da Valente, ma assecondata anche da molti altri, si basava su due fatti che potevano essere più o meno facilmente constatati. Da un lato, sia per le risorse che per la natura dell’impresa, la cosiddetta “poesia del dopoguerra” non riusciva più, ammettendo che molta di essa ci fosse mai riuscita precedentemente, a rispondere alle esigenze sociali che gli autori stessi si erano imposti. Vale a dire, dotare il discorso lirico di
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un’efficacia vera e propria in termini di cittadinanza. D’altra parte, l’insistenza e la ripetizione con la quale si
trattavano
alcuni
temi
era
sfociata
nello
svuotamento del loro significato originale (di quella realtà che si intendeva testimoniare) e funzionava a svantaggio
di
alcune
strutture
compositive
e
semantiche ugualmente o anche più limitate – se di legame con il reale è ciò di cui si parla – di quelle attribuite alla poesia precedente lo scoppio della guerra civile. Come conseguenza di questa ultima circostanza, la «subordinazione referenziale» del discorso originò un determinato gradiente di spettacolarizzazione dello stesso referente, che contribuiva, di conseguenza, all’intensificazione del già citato «formalismo tematico» attribuito alla scrittura praticata nei periodi precedenti. In buona sostanza, il punto di vista di Valente è lo stesso che veniva in larga parte adottato nelle loro opere da altri autori della stessa epoca, come Ángel González, Claudio Rodríguez o Jaime Gil de Biedma, nonostante gli esiti di ognuno differissero poi, significativamente, da un’ipotetica comunanza di
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impostazione. Non si trattava in alcun modo di ostacolare le implicazioni sociali e politiche di e nella poesia, bensì di investigare le diverse possibilità che la qualità essenzialmente linguistica di questa arte metteva a disposizione di alcuni scrittori lontanissimi dall’allinearsi con l’ordine stabilito. Ed è appunto qui che i poeti della cosiddetta “generazione del ‘68” cercano di consolidare la traiettoria iniziata da alcuni dei loro predecessori. Con questa etichetta di “generazione del ‘68” si è preteso di dare visibilità a un insieme di autori che, per il fatto di essersi trovati nel mezzo di due correnti di grande impatto mediatico e istituzionale (quella della “generazione/gruppo del ‘50” e i novísimos, “i novissimi” spagnoli), non sono abitualmente ritenuti dei protagonisti nello scontro dicotomico tra l’estetica realista e quella formalista. Questo recupero trova un sostegno fondamentale nei lavori, rispettivamente, di Antonio Méndez Rubio y Ángel Luis Prieto de Paula [1]. Anche partendo da presupposti
molto
diversi,
entrambi
i
critici
esprimono la stessa necessità di aprire il campo di
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studio
della
poesia
precedente
la
transizione
democratica a quelle opere che sono state escluse dal canone stabilito negli anni Settanta. Parimenti, non hanno dubbi nel vincolare tale produzione allo spirito di rivolta o di rivoluzione (secondo le diverse prospettive) generatosi intorno al maggio francese. Di conseguenza, adottando come segno distintivo o come marchio l’anno 1968 – il lato visibile, in un certo senso, di altri movimenti di contestazione come la Primavera di Praga, le proteste universitarie negli Stati Uniti, i movimenti di opposizione al franchismo in Spagna, etc. – si danno, come obiettivo principale, l’ampliamento delle crepe nel discorso lirico ufficiale. Si tratta, dunque, di evitare i riduzionismi teorici e storiografici
e
di
tornare
a
descrivere
una
problematica poetica nella quale le posture coinvolte, oltre a essere assai più numerose di quelle che abitualmente si ricordano, sono dotate di frontiere di non facile demarcazione (cfr. Casado, 2005). In questo senso, e benché non sia stato sempre esplicitato, l’uso del referente “sesentayochista” apre alcune opzioni interpretative molto interessanti per il
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caso della poesia spagnola. Da un lato, infatti, serve a caratterizzare l’approccio critico e di protesta comune in molti dei poeti che iniziavano a scrivere alla fine degli anni Sessanta – un posizionamento condiviso, perlopiù, dalla classe intellettuale e studentesca di questo Paese, ossia, dallo stesso milieu del quale loro stessi facevano parte – e, d’altro canto, ci offre anche una prospettiva eguale e contraria. Vale a dire, prepara le basi di ciò che i novísimos e le loro successive per-versioni rappresenteranno per la cultura spagnola degli anni Settanta e Ottanta: un ritorno
all’ordine
ancor
più
contundente
del
precedente. Si può comprendere, così, perché gran parte dei poeti più giovani smisero di guardare alla realtà per assumere una posizione disincantata (cfr. Vilarós,
1998)
contribuendo
così
dall’interno alla
della
configurazione
finzione, di
un
posizionamento tremendamente paradossale: le ansie di cambiamento si scontravano con il desiderio di conservare il proprio “stato di benessere”. E ancora, lo sforzo di questi e altri critici di non cadere nella falsa identificazione di due fazioni –
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quello
più
strettamente
letterario-formale
contrapposto al politico-sociale – ha indubbiamente aiutato a intendere la poesia degli anni Sessanta come un fenomeno molto più complesso di come generalmente lo si descrive. Nonostante questo, esistono anche gruppi, autori e programmi che sono alternativamente trattati come esperienze marginali all’interno di un’ipotetica direttrice comune e maggioritaria, che si sarebbe poi consolidata negli anni successivi, o anche come condannati a rappresentare topiche obsolete, che avevano già trovato enunciazione in quegli anni. Occorre citare, a questo punto, le possibilità aperte dai componenti dell’Equipo Claraboya e dalla loro scommessa su un «realismo critico», lontano dalla sclerotizzazione sofferta da certa poesia sociale e assai più vicino alla «poesía dialéctica» (“poesia dialettica”, cfr. VV.AA., 1971, 24-33) di certa neoavanguardia
italiana
e
centroeuropea.
Non
dimenticando autori che lavoravano individualmente, come Carlos Piera, che, nonostante abbia pubblicato la sua prima opera di poesia -
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Versos (“Versi”) solo nel 1972, partecipava già molto attivamente al dibattito estetico e politico spagnolo della fine degli anni Sessanta come membro di Comunicación. L’ambito per antonomasia di questa esclusione dal sistema letterario è quello delle esperienze di poesia visiva, poesia concreta o sperimentale che si sviluppano negli stessi anni. Si tratta del lavoro di collettivi come Problemática 63, La Cooperativa de Producción Artística y Artesana, N.O., Parnaso-70 o Zaj, e di autori singoli come Felipe Boso, Francisco Pino o Carlos Edmundo de Ory (cfr. Sarmiento, 2009). Per questo motivo, davanti alla molteplicità delle proposte esistenti, è difficile ridurre tutto il panorama alla
mera
contrapposizione
tra
una
poesia
“impegnata” nel politico e nel sociale e un’altra “impegnata” nello sviluppo formale delle proprie strutture. Il rifiuto che la poesia di tendenza cui faceva riferimento Valente produceva tra il pubblico e tra gli autori trovò a quel punto il suo antidoto nell’esercizio di una scrittura non allineata e innovativa, dall’interno del panorama etichettato come “generazione del ‘68”.
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Questa posizione intermedia, ma non per questo neutrale, è quella che venne assunta da poeti come José-Miguel Ullán, forzando la tensione tra i contenuti e le strategie di rappresentazione ed espressione da essi configurate.
In effetti, i primi libri di Ullán [El jornal (“La diaria”, 1965), Un humano poder (“Un umano potere” 1965) y Amor Peninsular (“Amore peninsulare”, 1966)] sono parzialmente inquadrabili nella prospettiva inaugurata dalla poesia del dopoguerra: tematiche sociali, uso di un linguaggio colloquiale, struttura e metrica aperta, etc. Queste caratteristiche, in ogni
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caso, applicabili d’altra parte ad una grande maggioranza di autori, e non soltanto a quelli appartenenti alla “letteratura del dopoguerra”, non sono le più rilevanti, nella lettura di questi primi testi. L’assenza di una narrazione lineare all’interno della composizione – quale era stata adottata nella poesia immediatamente precedente – la mescolanza di registro e di voci nella costruzione del testo poetico e una profonda attenzione verso gli strati meno evidenti del “rumore sociale” [2], possono essere certamente considerati elementi distintivi della sua scrittura. Benché la sua modalità di approccio differisca da alcune prospettive più “documentarie” tentate dai suoi predecessori e dai suoi contemporanei, Ullán non è un poeta estraneo alla realtà spagnola di quegli anni, all’oppressione esercitata dalla dittatura e alla miseria che la società spagnola sperimentò a tutti i livelli. Miguel Casado ha posto in rilievo questa peculiarità della poesia di Ullán in relazione alle modalità in cui la realtà del momento veniva ad essere configurata dal testo poetico: «“la indignazione
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del testimone, la crudezza della scena si offrono attraverso una frammentarietà che non arriva a farsi cronaca, essendo quasi del tutto spogliata di aneddoti identificabili: si tratta di brandelli che sottolineano azioni e mandati, personaggi intravisti, senza che si giunga a determinare un insieme”» (cfr. Casado, 1994, 15). Accade così che Ullán scriva una poesia in diretto collegamento
con
gli
eventi
che
stavano
determinando la realtà sociale della Spagna – catalogabile, quindi, con quel realismo critico difeso da Castellet in Veinte años de poesía española (“Venti anni di poesia spagnola”), ma che, a sua volta, non abbandona
quello
stesso
riferimento
al
linguaggio,
abitualmente
associata
al
carattere una
critico
in
condizione
formalismo.
Si
va
formulando così un posizionamento intermedio, anche se non privo di coerenza, rispetto alla situazione generale di polarizzazione: «“in poesia, contrariamente, forse, a ciò che succede in politica, considero come qualcosa di valido e di finanche necessario il fatto di entrare in dissidenza rispetto ai
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due campi tradizionali, che sono in uno stato di sterile e perpetuo litigio”» (cfr. Ullán, 1970, 64), affermava il poeta in un’intervista dell’epoca. L’approccio critico, di conseguenza, si riversa tanto sui fatti come sulle strutture che sono loro applicate
e
quindi
il
poema
intende
essere
un’indagine, colta nel suo svolgimento, su una realtà non ancora configurata e dalla quale non ci si attende una risposta immutabile. Per Antonio Méndez Rubio è appunto questa possibilità che può invalidare le idee escapiste o estetizzanti, avanzate da alcuni settori critici a proposito della poesia degli anni Settanta, ambito entro il quale si colloca anche la produzione di Ullán: La realtà, quindi, più che uno spazio previamente delimitato e riconoscibile è, per di più, uno spazio di disconoscimento e di libertà. Perciò una scrittura non realista, non figurativa, può essere anch’essa una scrittura emancipante, critica e autocritica, o, se si preferisce, “impegnata” (cfr. Méndez Rubio, 2004b, 127).
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Il poeta inizia così un cammino che andrà producendo rotture ancora più drastiche con le pubblicazioni dei primi anni Settanta, durante il suo esilio volontario a Parigi. La pubblicazione di Mortaja (“Sudario”) per una casa editrice messicana, proprio all’inizio del decennio, evidenzia un chiaro distanziamento dall’estetica escapista che alcuni dei suoi coetanei avevano già avviato e che trionferà con forza nel decennio successivo. Di sicuro, la critica di determinati processi storici e delle situazioni politiche e sociali (la guerra in Vietnam, ad esempio, arrivò quasi a diventare un topos, nella poesia spagnola del tardo franchismo) era un ingrediente praticamente indispensabile nella poesia dell’epoca; ciononostante, il cammino verso il cambiamento restava limitato al ricorso ad alcune mitologie esogene, tanto a quelle del progresso economico e sociale quanto a quelle di una certa nostalgia di un passato glorioso. Davanti a questa crescente inclinazione verso un’anestesia basata sui territori più estetizzanti dell’immaginazione e della fantasia, Ullán sceglierà di sovrapporre finzione e realtà, collocandole all’interno di un chiaro
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esercizio di denuncia. È così che nella parte finale del libro citato, sotto al significativo titolo di «Ficciones» (“Finzioni”), l’autore espone, nei modi della critica giornalistica, una serie di necrologi – con varie impostazioni grafiche e formati – che raccontano la morte di alcuni cittadini spagnoli. I dati apportati – reali o meno che siano – relativi al nome, all’età, al domicilio, alle cause della morte, etc., non offrono, in ogni caso, la possibilità di ricostruire una narrazione.
José-Miguel Ullán, «Ficciones» (Mortaja, México, ERA, 1970). [3]
Sembrerebbe quindi che queste storie minime, presentate con un linguaggio parco e sobrio, non contribuiscano molto a collegare presente e passato, causa e effetto e, pertanto, a fornire una spiegazione
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della situazione rispetto alla quale hanno funzione di indizio. Si tratta perciò di conferire realtà alla testimonianza, più che di testimoniare la realtà, vale a dire, di rendere manifeste una serie di circostanze che, in analogia con molte altre, erano state passate sotto silenzio. D’altra parte, queste “finzioni” non abdicano neppure alla loro funzione di critica, profondamente ironica, della poesia “contenutista” delle decadi precedenti. Poco più tardi, con i libri Maniluvios (“Maniluvi”, 1972), Frases (“Frasi”, 1975) o De un caminante enfermo que se enamoró donde fue hospedado (“Di un camminante infermo che si innamorò nel luogo dove fu ospitato”, 1976), si può ugualmente constatare come questo tipo di pratiche decontestualizzanti tenda a mostrarsi, nella scrittura di Ullán, sotto forma di frammento. L’uso di procedimenti di costruzione governati dall’incompleto, dal tronco, da quello che è rimasto interrotto, manifesterà tanto il suo proposito e la sua intenzione di vincolare poesia e realtà, quanto la coscienza
di
un’impossibilità,
ossia
la
sovrapposizione totale dei due termini. Per questo
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stesso motivo, la mancanza di pienezza non si deve intendere come rinuncia, bensì come strategia di assedio.
José-Miguel Ullán, De un caminante enfermo que se enamoró donde fue hospedado. Madrid, Visor, 1976.
In questo senso, sembra paradigmatico il principio costitutivo di un libro come Alarma (“Allarme”), ove la parzialità, nelle sue due accezioni, vale a dire, quella che rimanda al frammento e quella che evidenzia una partigianeria
nell’esercizio
dell’informazione,
si
articola in due direzioni. Da un lato, la cancellatura, mediante grandi linee nere, delle pagine stampate
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provenienti da una pubblicazione dal carattere spiccatamente politico e sociale tematizza l’esercizio della censura, la privazione della possibilità di espressione e il suo risultato: l’interruzione della lettura o, addirittura, un drastico silenzio. D’altra parte, però, proprio questo atto, cioè quello di rendere illeggibili le parole che compongono il discorso, recuperandone soltanto alcune, ottiene di provocare anche l’effetto contrario. Infatti, quelle stesse notizie, che erano state estratte da testi teoricamente destinati a comunicare una serie di fatti e di circostanze reali, finiscono per rendere assertiva una parte dell’informazione che era stata occultata o edulcorata, o sulla quale si era tergiversato. In questo modo, la condanna al silenzio di un significato – attraverso il gesto violento del poeta – pone in rilievo ciò che era stato nascosto dal non meno crudele esercizio della propaganda giornalistica.
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José-Miguel Ullán, Alarma. Madrid, Trece de Nieve, 1976.
È
così
che
la
memoria
di
Ullán,
in
contrapposizione alla politica del consenso e dell’oblio collettivo che dominerà in tutti gli ambiti della Spagna democratica, può resistere alla diluizione del sociale nel lirico e al fatto che tali spazi fossero considerati come reciprocamente esclusivi. Per questa stessa ragione, quando la poesia spagnola aveva già subito un contagio completo da parte della febbre culturalista trasmessa da certi novísimos, Ullán, così come molti altri, continuerà a esplorare una posizione di “terzo ammesso”, giocando sul terreno di una
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mancata conformità a livello estetico e anche di vita. È come se la radicalità con la quale si tende a definire i poeti del ’68 fosse, in realtà, il tratto distintivo soltanto dei poli estremi con i quali quegli stessi poeti dovevano confrontarsi. Un’impostazione, questa, che potrebbe spiegare anche la grande consapevolezza di Ullán dei limiti di quel movimento di contestazione, in analogia, con ogni probabilità, con le restrizioni che il suo stesso lavoro andava imponendo alla poesia. Fu un momento quasi irreale di partecipazione disorganizzata,
un
cumulo
di
situazioni
contraddittorie, una specie gioviale di sainete, vale a dire di intermezzo burlesco, della rivoluzione. […] Già dal principio si percepiva come tutto questo non fosse indirizzato verso la vittoria come i sindacati e i partiti tradizionali arrivarono a credere e a temere, bensì come si trattasse di uno stato emozionale fugace e, in quanto fugace, intenso. Ricordo che Roland Barthes, che fu mio professore all’École, era molto timido, sensibile, e intelligentissimo e, quando il maggio del ’68 deflagrò, nessuno volle ascoltarlo,
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quando diceva: “Non monta, si sfalda”, come se si trattasse della maionese (cfr. Ullán, 2010, 75).
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Referencias bibliográficas
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VI. Luis García España di anni ventitré di ritorno dal lavoro al suo domicilio sito in paseo de Delicias 5 scoprì il cadavere di sua madre Margarita España di anni sessantadue penzolante da una corda
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